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« I leader del G7 non sono riusciti a impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. ancora una volta l’attenzione si è spostata sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere».

il manifesto, 28 maggio 2017 (m.p.r.)

Tanta paura per niente. La marcia dei No G7 contro i potenti della terra, protetti da misure straordinarie di sicurezza in una Taormina blindata e inaccessibile, s’è svolta in modo colorato e pacifico. Un fiume di magliette rosse, 7mila persone secondo gli organizzatori, ha sfilato per le strade dei Giardini Naxos in modo composto. Chi ha creato ad arte la psicosi dei black bloc, inducendo i commercianti a fortificare le saracinesche dei negozi con lastre di legno e in alcuni casi di ferro, è stato sbugiardato da un movimento che ha manifestato il proprio dissenso verso le politiche anti-migranti e anti-ambientali con toni duri, ma senza degenerare in violenza.

Solo verso la fine del corteo, un gruppetto di una trentina di manifestanti, tra l’altro a volto scoperto e senza brandire armi bianche, s’è avvicinato alla zona rossa. A quel punto, la polizia in tenuta antisommossa ha caricato, lanciando fumogeni per disperderli. Il contatto è durato qualche minuto, poi è tornata la calma. Soprattutto per merito degli stessi manifestanti che sono intervenuti per bloccare chi aveva dato modo alle forze dell’ordine di reagire.

Per i manifestanti i dispositivi di garanzia dell’ordine pubblico messi a punto dal Ministero degli Interni in realtà hanno svelato «la volontà politica di instaurare un clima di terrore e criminalizzare chi si fa portatore di istanze di giustizia sociale e rivendica i diritti fondamentali costantemente lesi in una società strutturalmente corrotta e iniqua».

Prima di muoversi il corteo, al quale ha preso parte anche il sindaco della città metropolitana di Messina Renato Accorinti, ha solidarizzato con i manifestanti provenienti da Cosenza che sono stati bloccati a Villa San Giovanni dalle forze dell’ordine.

Per il movimento No G7 «sono stati tanti i tentativi di ridurre la presenza in piazza e di smorzare l’entusiasmo», a cominciare dalle perquisizioni, dai fogli di via, dagli avvisi orali nei confronti dei decine di giovani dei centri sociali di varie città.

Alcune attiviste sono state fermate e condotte in questura a Messina per essere identificate mentre partecipavano a un’assemblea pubblica. E a poche ore dall’inizio del corteo pullman di manifestanti provenienti da Napoli e dalla Calabria sono stati fermati a Villa San Giovanni per l’identificazione. Bloccati anche pullman partiti da Palermo e Catania.

Per il G7 sono stati schierati a Taormina oltre 7mila uomini delle forze dell’ordine, oltre a 3mila militari a supporto dei dispositivi di sicurezza per il vertice, trasformando la città in una zona blindata, limitando anche la libertà di movimento della popolazione. Persino per poter fare la spesa è stato necessario sottoporsi a controlli e a passaggi nei metal detector piazzati ovunque.

Per Save the Children i leader del G7, pur riunendosi in un luogo simbolico come la Sicilia, cuore del flusso migratorio del Mar Mediterraneo, non sono riusciti a impegnarsi su una visione comune sul tema della migrazione. Perché ancora una volta l’attenzione si è spostata sui temi della sicurezza e del controllo delle frontiere, «pregiudicando fortemente il primo dovere che è quello di proteggere i bambini dalla violenza, dagli abusi e dallo sfruttamento, incluso il traffico dei minori». L’opportunità persa del G7 significa che a pagarne il prezzo saranno 28 milioni di bambini che sono stati costretti a lasciare la propria casa, fuggendo dalla guerra e dalle violenze.

«I leader del G7 non sono stati all’altezza delle aspettative sia sulla migrazione che sull’educazione, la sicurezza alimentare e la nutrizione. Questo vertice finisce oggi lasciandosi alle spalle milioni di bambini vulnerabili. Siamo delusi perché i leader hanno semplicemente riaffermato principi esistenti senza assumere nuovi impegni», ha denunciato Egizia Petroccione, portavoce di Save the Children.

Perchè in Italia la piazza non ha protestato contro la visita di Trump, e anzi la polizia ha fermato tre pacifisti che tentavano di aprire uno striscione di protesta? Molte risposte ragionevoli, più convincente quella di Gad Lerner.

il manifesto, 26 maggio 2017

«Movimenti. In Italia niente piazze contro la visita del presidente del riarmo, a sinistra cade un altro tabù. Movimenti deboli o infine maturi? L’autocoscienza di quelli che manifestazioni stavolta no. "Siamo deboli e divisi, siamo ripartiti dai nostri territori, che però ora sono la nostra gabbia". Gad Lerner: "Il vero corteo antiDonald? Quello di Milano, era il futuro"»

Il raggio laser verde proiettato da Greenpeace sul Cupolone: «Planet earth first». Tre pacifisti della Rete No War fermati per aver tentato di aprire uno striscione davanti al corteo delle auto blindate (uno di loro è una collaboratrice del manifesto, Marinella Correggia, le è stato consegnato il foglio di via, Sinistra italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare sul caso). Qualche decina di statunitensi residenti in Italia riuniti in una piazza a cantare «Imagine». Il bilancio delle manifestazioni della Capitale nel giorno della visita di Trump è tutto qua.

Ieri a Bruxelles, dove il presidente Usa è volato subito dopo la tappa romana, erano in 10mila contro di lui. A casa sua, negli Usa, i democratici continuano a contestarlo per le strade. Ma allora che succede ai pacifisti, ai democratici italiani? Succede una cosa impensabile finora, che la sinistra italiana non ha più voglia di contestare un presidente che ha sganciato «la madre di tutte le bombe»?

La domanda non nasce dalla nostalgia del vecchio «yankee go home». Nessuno – tanto più dopo gli anni di Obama – è orfano dell’«antiamerikanismo». Ma orfano della sinistra, forse? No, spiega Lidia Menapace, partigiana poi storica antimilitarista, «il fatto è che Trump non è credibile. Siamo tutti preoccupati per quello che sta facendo, ma il personaggio è al di sotto di qualsiasi interlocuzione. Sarebbe inutile mettersi lungo la strada a gridargli contro». Dunque non averlo fatto non è la dimostrazione che la sinistra italiana è irrimediabilmente a terra? La risposta è lapidaria: «Questo è il solito riflesso condizionato autolesionista. Della sinistra».

E però la sinistra radicale ha vissuto male l’assenza dalla piazza. «Certo, sabato scorso abbiamo fatto la splendida manifestazione contro i muri a Milano, ora siamo concentrati in quelle contro il G7 di Taormina. Ma è inutile nascondersi dietro un alibi organizzativo: lasciare liberamente scorrazzare Trump per Roma è stato un segno di debolezza politica», riflette Giovanni Russo Spena, decenni di battaglie garantiste e pacifiste, oggi grande saggio della Rifondazione comunista. «Ne abbiamo parlato fra noi, ci siamo sforzati di capire. È successo che siamo ripartiti ’dal basso’, dai territori, e abbiamo fatto bene. Ma il rischio è che ora i territori diventino gabbie; domenica scorsa abbiamo fatto un corteo bello e difficile per il rogo delle tre ragazzine rom di Centocelle. E però contro Trump non siamo riusciti a costruire mobilitazione». Più sconfortata Luisa Morgantini, altra ’storica’ del movimento nonviolento, fondatrice delle ’Donne in nero’, negli anni 80 srotolò dal Colosseo un lunghissimo striscione contro Reagan. Mercoledì, sfortuna voleva, era immobilizzata a casa per un problema di salute. Ma non è questo il punto. «Siamo divisi, immersi nelle nostre battaglie come in scatole chiuse. Noi per i 1600 palestinesi in sciopero della fame, altri per la causa curda, altri per altre buone cause. Siamo inaciditi, spezzettati, incapaci anche solo di confrontarci con le nostre differenze. Ci vorrebbe una rivoluzione profonda, dentro di noi».

«Ma che volete dai pacifisti?» Giulio Marcon un po’ contesta la domanda. Oggi è capogruppo alla Camera di Sinistra italiana alla quale è arrivato dai movimenti disarmisti. «Ogni volta che si manca un appuntamento arriva la stessa domanda. Non è da una piazza mancata che si misura l’opposizione alla follia del riarmo. Siamo pochi e mobilitati su mille fronti. Il 2 giugno saremo a Roma, a Castel Sant’Angelo, contro la parata militare. E ogni giorno facciamo mille iniziative, più o meno grandi ma preziose. Il pacifismo è diventato un movimento più maturo, non siamo né impotenti né timidi».

E invece «è un fatto grave» per Massimiliano Smeriglio, oggi nella sinistra ’di governo’ ma un passato sulle barricate romane, manganellate prese per Bush senior. «Avere in Italia il campione del populismo reazionario e razzista e non avere avuto forme diverse di contestazione deve aprire una riflessione senza sconti per tutte le sinistre, rancorose e impegnate tutti i giorni a stigmatizzare il nemico su social di cartone dove l’autoreferenzialità la fa da padrona». L’assenza di mercoledì scorso «testimonia la fragilità dei nostri contenuti, degli insediamenti sociali. E anche della voglia di battersi e confliggere quando serve. Dobbiamo guardare in faccia questa situazione drammatica. Prima lo faremo, con più umiltà e meno slogan, e prima saremo in grado di rimetterci in marcia. Alla svelta, prima di perdere il rapporto con il paese reale. Sia chiaro: in questa situazione non si salva nessuno, né radicali né riformisti».

Perchè in effetto va detto, i primi a mancare dalla piazza sono stati i cosiddetti «riformisti» e cioè i democratici italiani, ’fratelli’ di quelli americani che negli Usa si battono contro Trump. Ma il gesto di fratellanza non è venuto in mente a nessuno: il Pd, anche la sua ’base’, è affaccendato in tutt’altro. E comunque, spiegano «avremmo dovuto mettere in difficoltà il presidente del consiglio Gentiloni che lo incontrava a Villa Taverna?». E chi avrebbe dovuto farlo, forse i grillini che di Trump pensano che tutto sommato sia un modello di populismo autarchico tutt’altro che detestabile, e contestabile?

Gad Lerner invece rovescia tutto il ragionamento. Il giornalista e conduttore televisivo ( domenica sera alle 22,50 su Raitre va in onda Operai, sua inchiesta in sei puntate) un passo alla volta smonta il discorso degli altri: «La sinistra non è andata in piazza perché è dominata dal provincialismo, dalla perdita della sua dimensione internazionalista, è immersa negli psicodrammi delle sue divisioni e non riesce a sollevare lo sguardo più in alto». «Ed è anche vero che il riferimento internazionale delle destre ormai è Putin, non il presidente americano. Il suo ruolo si è ridimensionato, nonostante tutto. Nonostante lo abbiamo visto a Riad affidarsi ai dittatori per battere il terrorismo, abbiamo pensato che non è affar nostro. La sinistra ormai fa la stessa cosa anche nel mondo degli operai: difende il proprio territorio, la propria fabbrica, oltre non sa vedere».

Eppure «non ho nostalgia del vecchio antimperialismo, anzi», continua, «la vera manifestazione antiTrump è stata quella di sabato scorso a Milano: una Milano metropoli cosmopolita. Il corteo, enorme, era composto per la metà di immigrati, con o senza permesso. Le vere protagoniste erano le comunità, filippini, cinesi, equadoregne, africane. Raccontavano una metropoli, anzi una sinistra già innervata della sua anima futura». E forse allora davvero è meglio così, meglio aver evitato il rito della piazza “antiamerikana”, con il rischio delle solite sfide muscolari fra polizia e militanti. Perché «Trump non è più il gendarme del mondo. Abbiamo molti Trump europei da combattere. E a Milano a questo abbiamo dato una prima risposta positiva».

«C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse». il Fatto Quotidiano, 24 maggio 2017 (p.d.)

La storia di Giovanni Falcone è nota. Si può sintetizzare contrapponendo una giusta gloria post mortem, agli ostacoli – seminati con iniqua strategia – che lo intralciarono in vita. Vediamone alcuni.

Si sostiene che il Csm avrebbe violato le regole se avesse nominato a capo dell’ufficio istruzione (dopo Caponnetto) Falcone invece di Meli. Falso. Oltre alla regola gerontocratica dell’anzianità – che premiò Meli ancorché fosse digiuno di processi di mafia – ne vigeva un’altra. Quella della professionalità (o delle attitudini specifiche), stabilita dal Csm con circolare del 15 maggio 1986 espressamente riferita agli uffici di “frontiera antimafia”. La regola difatti fu applicata per la nomina del Procuratore di Marsala, preferendo Borsellino a un magistrato più anziano ma inesperto di mafia. Poi fu inaspettatamente calpestata per Falcone. Con un corredo indecoroso di giravolte e tradimenti.
Tra le accuse più insinuanti scagliate contro Falcone, per infangarlo e delegittimarlo, c’era quella di “protagonismo”. Nominare lui sarebbe stato un affronto a tutti i magistrati che ogni giorno sfangavano in silenzio. Un falso (strumentale), che ricorda la storia di quando le donne portavano il velo. Allora erano tutte belle, ma quando il velo cadde si cominciarono a constatare delle differenze. Un po’ quel che è successo per la magistratura. Quando i giudici non davano “fastidio”, erano tutti bravi e buoni. Ma quando hanno preso a dare segni di vitalità e indipendenza, “pretendendo”di esercitare il controllo di legalità anche verso obiettivi prima impensabili, ecco scatenarsi le accuse di protagonismo.
Una variante è l’accusa di gigantismo: aver costruito un “maxi-processo”per la smodata ambizione di attirare la massima attenzione e finire sempre più spesso sotto i riflettori. Falso. Il processo era “maxi” in quanto vergognosamente “maxi” era l’impunità di cui Cosa Nostra aveva goduto per decine e decine di anni, qualche migliaio di delitti, centinaia e centinaia di capi e “picciotti”. L’emergere, una buona volta, di questa “montagna di merda” (copyright Peppino Impastato), ebbe come logica e obiettiva conseguenza un processo grande come una montagna. Maxi, appunto.
Falcone era nel mirino di Cosa Nostra da sempre. Sapeva che sarebbe stato ucciso, ma non ha mai smesso di fare il suo dovere. La situazione precipita per il combinato effetto di due fattori, ciascuno esiziale per Cosa Nostra: la conferma definitiva delle condanne del maxi in Cassazione (prima specializzata nel praticare “l’ammazza-sentenze” di mafia); le iniziative che Falcone aveva avviato sfruttando le opportunità del lavoro ministeriale, con l’obiettivo di estendere a tutto il territorio nazionale i parametri – specializzazione e centralizzazione – sperimentati a Palermo. Creando un’antimafia moderna (Procura nazionale e relativa banca dati; Procure distrettuali; Dia; legge sui pentiti; 41 bis) che funziona ancora oggi.
Alla “novità” della Cassazione e alla “ostinazione” di Falcone (cacciato da Palermo perché si occupasse d’altro, ma per nulla disposto a mollare) la mafia reagisce con rabbiosa ferocia. Prima l’omicidio Lima, accusato di non aver saputo impedire la pessima conclusione del processo. Poi le stragi. Una rappresaglia contro Falcone (e Borsellino) per i risultati devastanti del maxi. Nello stesso tempo, un monito sanguinario contro chi volesse riprendere il loro metodo di lavoro.
Ma Falcone e il pool non erano odiati solo dai mafiosi. C’era anche la “criminalità del potere”. Quei segmenti della classe dirigente (politica e imprenditoriale) della massoneria che con la mafia intrattengono rapporti occulti di reciproco interesse. Anche questa “criminalità del potere” considerava il pool un pericoloso nemico. Perché si era vista fotografata in un passo dell’ordinanza-sentenza del 1985 (conclusiva del primo maxi-processo), che denunciava “una singolare convergenza fra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che devono essere individuati e colpiti se si vuole davvero voltare pagina”. E che non fossero solo proclami lo dimostravano le iniziative concrete contro Ciancimino padre, i cugini Salvo e i Cavalieri del lavoro di Catania. Di qui dunque un torbido coacervo di interessi criminali convergenti, che alla fine riuscì a isolare e “incastrare” Falcone. Fino a morire.
«Roberto Settembre, il giudice d’appello sulle sevizie nella caserma del G8 di Genova boccia le nuove norme: “Il Parlamento le cambi”».

il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2017 (p.d.)

“Fumo negli occhi. La nuova legge sulla tortura è un’ipocrisia, non deve essere approvata così com’è passata al Senato. Le torture della caserma di Bolzaneto del G8 di Genova con queste norme non sarebbero punite. Ricordo un uomo al quale divaricarono le dita di una mano, gliele strapparono fino all’osso. Niente, non sarebbe punito come tortura. Ricordo le donne cui urlarono puttane ebree qui siete ad Auschwitz vi violenteremo. Nemmeno questo sarebbe punito come tortura. È una legge inutile. Falsa”.
Roberto Settembre, lei è stato giudice di appello per le violenze inaudite di Bolzaneto. Della lotta alla tortura ha fatto un impegno di vita (ha scritto il libro Gridavano e piangevano, Einaudi). Adesso, dopo 16 anni, anche in Italia è arrivata una legge contro la tortura. Ma a lei, come alle vittime del G8 di Genova 2001, proprio non va bene...
Non va approvata. I cittadini devono mobilitarsi perché sia cambiata. Così non serve a niente. Sembra scritta per non punire.

Ma allora perché si è arrivati a questa legge?
Perché l’Italia da decenni è stata messa in mora da tutti gli organismi internazionali. Ma la tortura è il delitto più grave che lo Stato possa compiere. Il più odioso. È un reato che può essere commesso soltanto dallo Stato che esercita il suo potere gigantesco su cittadini inermi.
Perché questa legge, secondo lei, proprio non va bene?
Primo, perché è previsto che possa esserci la prescrizione. Invece dovrebbe essere un reato imprescrittibile, come l’omicidio premeditato. Sennò, per fatti come quelli di Bolzaneto, non si arriverebbe mai alle condanne perché le indagini sono molto complesse e lo Stato, contando sulla prescrizione, potrebbe, come a Genova per i fatti del 2001, cercare di prolungare indefinitamente l’inchiesta. Non solo: la nuova legge prevede che i comportamenti debbano essere reiterati. Prendiamo l’uomo cui hanno divaricato le dita fino a strappargli i legamenti... è un gesto unico, senza reiterazione. Non sarebbe tortura.
E poi c’è la questione della tortura morale...
Già, la tortura non è soltanto fisica. Pensate se vi puntassero una pistola alla tempia, se vi minacciassero di morte, se vi dicessero ‘puttana ebrea ora ti violentiamo’. Queste cose al G8 di Genova sono successe. Perché sia tortura, dice la nuova legge, deve esserci un referto che prova il danno psicologico. Non basta che sia provato il comportamento. Così non si punirà mai nessuno.
Abbiamo atteso decenni. Sono passati 16 anni dai fatti terribili del G8 di Genova. Perché una legge che non punisce?
C’è forse paura che il reato di tortura sia strumentalizzato contro le forze dell’ordine da persone in malafede. Ma all’estero, dove esistono leggi anti-tortura efficaci, non accade, non vedo perché dovrebbe succedere da noi. E poi ci sono comunque i giudici che devono stabilire ciò che è successo. In Italia, però, si vuole evitare di sottoporre le forze dell’ordine a un processo.
I torturatori resteranno ancora impuniti?
Sì. Quando c’è una vittima di tortura l’evento è chiaro, c’è un corpo martoriato che era nelle mani del potere. E bisogna soltanto stabilire chi sono i colpevoli. Ma con questa legge invece di individuare le responsabilità bisognerà di volta in volta andare a capire se era tortura o meno. Spaccare il capello in quattro. Un lavoro impossibile che finirà in prescrizione.

Lei ha ancora davanti agli occhi le vittime di Bolzaneto?
C’era gente che è stata denudata, costretta a posizioni dolorosissime. Ragazzi ustionati con accendini, chiusi in celle dove venivano spruzzati gas asfissianti, costretti a urinarsi addosso; giovani che non potevano dormire o vestirsi. Ragazze insultate e minacciate di violenze di ogni genere. Con questa legge le vittime non avrebbero giustizia.

«Se mi convocheranno parlerò alla commissione d’inchiesta: in Parlamento, non sui giornali, risponderò ovviamente a tutte le domande che mi faranno». Il muro del no comment regge, ma un forellino per guardarci attraverso si nota. Federico Ghizzoni, il banchiere più inseguito d’Italia, dribbla i tanti giornalisti venuti ad aspettarlo sotto la casa di campagna. Ma a chi insiste di più fa capire meglio il suo stato d’animo, la sua voglia di togliersi quello che è diventato un peso. Quando il campo sarà sgombro dalle strumentalizzazioni mediatiche, che a ore alterne lo vogliono ariete dell’opposizione o parafulmine del governo, darà il suo contributo di cittadino perchè si chiariscano i rapporti tra la maggioranza, la sua icona Maria Elena Boschi e la Banca dell’Etruria, saltata nel 2015 mentre il padre e il fratello dell’allora ministra operavano ai piani alti. «Adesso non parlo, perché non si può mettere in mano a un privato cittadino la responsabilità della tenuta di un governo – si è sfogato Ghizzoni dopo il pranzo domenicale, consumato prudenzialmente in casa -. E’ un caso della politica, sarebbe dovere e responsabilità della politica risolverlo ».
Il manager ha cercato di santificare le feste. È andato a messa come ogni domenica nella frazione dove abitavano i genitori sui colli del fiume Trebbia. Poi ha avuto l’idea “normale” di andare far la spesa per il pranzo: e s’è accorto, dalla schiera di cronisti che l’aspettava in paese per interrogarlo, di dover reggere suo malgrado le sorti del renzismo redivivo, ruolo cui l’ha chiamato Ferruccio de Bortoli nel libro Poteri forti ( o quasi). Sono bastate 13 righe, dove si legge che a inizio 2015, quand’era amministratore delegato di Unicredit, avrebbe valutato su diretta richiesta di Maria Elena Boschi l’acquisizione di Banca Etruria, in dissesto e prossima al commissariamento.
La linea di Ghizzoni non è cambiata: volare basso, lontano da riflettori e polemiche. «Qualsiasi cosa dicessi ora, sarebbe strumentalizzata da una parte politica contro l’altra, e contro di me - si limita a dire ai giornalisti che saliti in collina -. Oltre poi al fatto che quando studiavo da banchiere mi hanno insegnato che la riservatezza è una virtù». L’orientamento di fondo emerso da giorni non va tuttavia scambiato per reticenza, o disinteresse verso i temi di primo piano: Ghizzoni lo ha chiaro in testa, e non lo nasconde agli intimi. «Anche se sono una persona emotiva, e in questi giorni la pressione mediatica su me e la mia famiglia è notevole, mi sento assolutamente sereno – ha confidato il banchiere che guidò Unicredit dal 2010 al 2016 -.
Se mi convocheranno sono disposto a rispondere a tutte le domande della commissione d’inchiesta parlamentare: ho letto che partirà presto, mi auguro sia vero». Non ha nessuna voglia, il figlio del grande latinista emiliano Flaminio, di strumentalizzazioni usate per secondi fini. Vorrebbe tanto, Ghizzoni, che il pallino tornasse nelle mani delle istituzioni, mentre lui aspetta defilato che la polvere si posi, studia agende e carte passate con il legale di fiducia (anche se finora delle querele annunciate da Boschi ci sono solo gli annunci), e soprattutto si tuffa con entusiasmo nei nuovi incarichi, molto operativi e pieni di viaggi e rapporti con i clienti, nel fondo Clessidra e nella banca d’affari Rothschild.
Tuttavia nella prima settimana del caso “la politica” è sembrata curarsi più degli effetti mediatici che di ricostruire ruoli e responsabilità degli attori nel crac di Banca Etruria. Finora non sembra che i politici abbiano imitato i giornalisti, nel chiamare Ghizzoni per chiedergli se abbia ricevuto richieste dirette da Maria Elena Boschi in quei giorni, quando la ministra stava in pena per il padre vicepresidente della “banca dell’oro”; o per sapere se è vero che affidò il dossier Etruria alla dirigente di Unicredit Marina Natale, e come l’ipotesi di rilevarla venne rapidamente accantonata a inizio 2015. Ai giornali Ghizzoni ribatte con una fila di “no comment”, senz’altri dettagli: anche se le mezze parole e le mancate smentite di questi giorni fanno supporre che qualche scambio di idee con la ministra Boschi sul dossier ci sia stato davvero. «E’ normale che politici e banchieri si parlino, specie nelle situazioni di crisi» è un’altra frase che Ghizzoni ripete questi giorni.
La Commissione d’inchiesta sul credito può rivelarsi dunque una macchina della verità preziosa. Anche se la cornice - tra Renzi che invoca chiarezza, Boschi che smentisce e annuncia querele, de Bortoli che conferma la versione e non le teme, Ghizzoni prudente in attesa di testimoniare in Parlamento - fa somigliare sempre più il caso Etruria a un poker dove qualcuno sta bluffando.
È grazie ai giornalisti che sanno fare il loro mestiere che gli italiani hanno la confrma di ciò che moltissimi sapevano da sempre: il valore morale della cricca Renzi. Ora il Re è nudo.

HuffingtonPost online, 14 maggio 2017

Dobbiamo essere davvero grati a Ferruccio De Bortoli, che ci ricorda qual è il compito principale della stampa, in una democrazia: esercitare il senso critico, controllare il potere. Per parafrasare il Foscolo dei Sepolcri: temprare lo scettro a' regnatori, sfrondarne gli allori, svelare alle genti di che lagrime grondi quel potere, e di che sangue.

In questo caso è il sangue della democrazia, quello che gronda. Perché se ciò che scrive De Bortoli è vero – ed ha tutta l'aria di esserlo – un ministro della Repubblica ha solennemente mentito al Parlamento. E ha preso in giro l'intero Paese, negando un conflitto di interessi grande come una casa. Tradendo clamorosamente il giuramento pronunciato diventando membro del governo: "Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione". L'interesse di chi? Della famiglia, della banca? Certo non quello della Nazione.

Il 12 novembre 2015 Roberto Saviano scrisse che "il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili».

Saviano fu insultato, e lasciato solo. Ma aveva sacrosanta ragione. Ed è bene ricordare che Matteo Renzi gli rispose, sprezzante: «Siamo gli unici che vogliono bene all'Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche".

Oggi, quasi due anni dopo, il copione è lo stesso: Renzi accusa De Bortoli di attaccarlo a causa di frustrazioni personali. Solo che oggi gli italiani sanno chi è Renzi. Sanno che non possono credergli: quanto valore può avere la parola di chi ha detto «se perdo mi ritiro dalla vita politica», e oggi, dopo aver perso tutto il perdibile e aver devastato il proprio partito, è ancora inchiavardato alla poltrona?

Oggi è drammaticamente evidente chi è che «vuole bene all'Italia». Chi dice la verità. E non chi trama all'ombra di logge massoniche e cerchi magici, abusando del proprio ruolo di servitore dello Stato per fare i propri interessi.

E soprattutto è ben chiaro che a 'volere bene all'Italia' sono stati i 19.420.271 cittadini italiani che hanno detto NO ad una riforma firmata da quello stesso ministro.

Già: chi comprerebbe oggi una Costituzione usata da Maria Elena Boschi?

La consueta, periodica indagine sui prevedibili futuri politici del Palazzo. Ma è difficile prevedere il futuro che si è espresso nei numerosi eventi della politica del popolo, dalla battaglia per l'acqua pubblica a quella per la difesa della Costituzione. Eppure la speranza è lì.

la Repubblica, 13 maggio 2017

ALCUNI importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l’Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d’opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5S. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%.

Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5S ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l’altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso).
Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre “poli” maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l’80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt’altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l’asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.
È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, “approssimate”, in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più “larghe”. Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l’operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un’alleanza con Fi, ancor meno con il M5S. Mentre appare maggiore (ma complicata) l’attrazione reciproca tra M5S, Lega e Fdi.
Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5S. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l’attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l’anno prossimo. Il governo Gentiloni, d’altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.
La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestanofra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D’Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.
Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.
Anzitutto, l’uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un’arma di notte “nel proprio domicilio”. Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, “sparare” all’aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5S. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a “Sinistra” si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di “sparare” in casa propria.
C’è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c’è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.
Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti ». Al fine di «destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle ”Associazioni di volontariato”, tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano “associazioni di volontari”. Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.
Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l’incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell’economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

«Alla paura delle rapine si risponde con una legge spot sulla legittima difesa. Sull’immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza. Caro Minniti, non c’è più un barlume di progressismo nel governo». "Progressismo"? ma il modello è Salvini.

la Repubblica, 12 maggio 2017

Il Forum con il ministro dell’Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l’esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. “Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia”.

Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l’impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole.
E così le imbarcazioni delle ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché “vite” è parola troppo generica) diventano “taxi” nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l’inchiesta della Procura di Trapani secondo cui “in qualche caso navi delle ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera” e quindi “per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana”, diventa: le ong hanno rapporti con gli scafisti.
I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell’indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l’archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l’espressione “taxi del Mediterraneo” vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l’Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto.
E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un’emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con “un vecchio compagno”, capì che “la sicurezza è un sentire”, che “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento”. E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la “scienza” che contempla solo lo stato d’animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell’opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili.
Quindi se l’opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall’Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell’Italia) che gestire problemi “in casa”. Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall’Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui – tolte poche eccezioni – assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi.
Lo stesso vale per la legittima difesa: se l’opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente “inutile e confusa”, che importa che “già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa”, serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d’armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c’è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all’introduzione dell’inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l’introduzione del reato di tortura, restano ferme.
Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all’istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall’Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall’altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza.
Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza “oclocrazia”, prendendo il termine in prestito da Polibio , ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma “masse” suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio.
Eppure l’oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché – come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell’uguaglianza, c’è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri.
Dire che i dati non servono, dire che l’analisi non serve, dire “dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento” significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta.

Brecht diceva:«il ventre che generò il nazismo è sempre fecondo». Si riferiva al capitalismo dei suoi tempi; quello rappresentato da Macron non è certo migliore. Micromega online, 7 maggio 2017


L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.

Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.

Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.

Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.

È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.

Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.

Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.

Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.

È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.

In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.

E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.

Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.

«L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti. Non basta che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante».

il manifesto, 7 maggio 2017, con postilla

Di che cosa sarà fatto il domani? Ricorro a questo titolo di Derrida, preso in prestito da Victor Hugo: è adeguato a rappresentare il tormento di tanti elettori, nella sinistra più o meno radicale, di fronte al «dovere elettorale» del secondo turno. Non penso di poter spazzare via le incertezze che gravano sull’orizzonte. Ma, a uso di tutti noi, vorrei tentare di circoscriverle e dar loro un nome.

Sappiamo contro che cosa andiamo a votare, perché lo facciamo e come farlo. Non ci sono scappatoie rispetto alla scelta dell’avversario di Marine Le Pen, il cui nome sulla scheda elettorale è Emmanuel Macron. La questione non riguarda solo il detestabile programma del Front National.

Riguarda gli effetti che provocherebbe l’arrivo al potere, o anche vicino al potere, di un partito neofascista, nato dall’Algeria francese e dall’Oas (Organisation de l’armée secrète, l’organizzazione paramilitare clandestina francese creata nel 1961 con l’appoggio del regime franchista spagnolo, NdT); un partito fondato sulla denuncia dell’immigrazione e sull’individuazione di un nemico interno. Sarebbe fatto certo lo scatenarsi, come nel Regno unito dopo la Brexit, ma decuplicata, di un’ondata di aggressioni razziste, islamofobe e xenofobe. Insieme al crollo dei valori repubblicani e delle sicurezze personali.

Non basta dunque che Le Pen perda le elezioni; la sua sconfitta deve essere pesante. E non è garantito.

E’ importante anche sapere per chi voteremo: un tecnocrate ambizioso, intelligente ma minoritario, sostenitore del neoliberismo e della «modernizzazione» della società francese in un quadro europeo, spinto in orbita da una rete di finanzieri e alti funzionari, sostenuto da una generazione di giovani adepti della «terza via»; Macron si è espresso chiaramente sui crimini della colonizzazione.

Ma soprattutto quali gli effetti del nostro voto? Come inciderà sulla situazione che il primo turno ha rivelato? Non parlo qui di «terzo turno» o di maggioranza potenziale, ma della situazione della politica in Francia.

Mi limiterò ad affrontare due questioni.

Il nostro sistema politico attraversa una crisi istituzionale, senza possibilità di recupero. Come altrove, anche se con tratti peculiari, è diventato ingovernabile con le vie «normali», alle quali apparteneva l’alternanza dei partiti di centrodestra e centrosinistra. Il fatto che entrambi abbiano praticato politiche reali sempre più indecifrabili è un sintomo di questa crisi, ampiamente responsabile della delegittimazione che colpisce la «forma partito»; ma ne è anche uno degli effetti.

Emmanuel Macron, avendo a suo tempo studiato la dialettica hegeliana, tenta di trasformare la negazione in affermazione, con la sintesi dei contrari. Di fronte al «né di destra né di sinistra» della tradizione fascista, propone un «sia di destra che di sinistra».

Potrebbe funzionare solo se egli riuscisse ad apparire come l’uomo della provvidenza, al di sopra delle forze sociali. Ma siccome non è così e non lo sarà, la crisi è destinata ad acuirsi, mettendo in pericolo la solidità degli ideali democratici.

Spetta dunque a noi inventare istituzioni, formazioni non meno ma piùrappresentative, e più sincere nell’esprimere conflitti reali, così da restituire ai cittadini il potere di influire sulle scelte del governo.

Questo cantiere di matrice popolare e non populista, che alcuni movimenti recenti hanno abbozzato, anche durante la campagna elettorale, deve rimanere aperto stabilmente, nel pericoloso periodo che attraverseremo.

Questo cantiere non è separabile da quello della «frattura sociale». Si propongono gli argomenti più svariati, per sostenere che nuove divisioni sociali, culturali, territoriali, professionali, generazionali hanno sostituito l’antagonismo fra «destra» e «sinistra». Questo non è falso, almeno se ci si riferisce a una definizione convenzionale. Ma la traduzione di queste divisioni in alternative ideologiche come «nazionalismo contro mondialità» o «chiusura contro apertura», è davvero mistificatoria!

La verità è che da una parte le disuguaglianze si aggravano in modo drammatico, dall’altra la globalizzazione fa crescere nuovi antagonismi fra i poveri, o i non-ricchi, e più generalmente fra i lavoratori, gli utenti, i funzionari, gli studenti, tutto assoggettati alle logiche della redditività finanziaria.

Questo non fa scomparire la lotta di classe, ma ne oscura singolarmente le caratteristiche, e soprattutto ne impedisce la cristallizzazione in movimenti politici, già non scontata in altri tempi.

Per esorcizzare la violenza di cui queste «contraddizioni all’interno del popolo» sono portatrici, per liberare prospettive di futuro, occorreranno molta riflessione e molti confronti, ma soprattutto bisogna spingere con tutta la forza possibile verso altre politiche economiche: non sotto forma di selvaggia deregolamentazione e restrizione dei diritti del lavoro, o al contrario di protezionismo e rafforzamento delle frontiere, ma – come suggerisce l’economista Pierre-Noël Giraud– politiche neo-mercantiliste di redistribuzione degli investimenti fra le occupazioni nomadi e quelle sedentarie (il che non è affatto lo stesso che scegliere fra il «lavoro nazionale» e l’immigrazione) e di transizione energetica.

Ora, per ragioni di efficacia e di solidarietà, esse hanno senso solo su scala europea – a condizione, ovviamente, che l’Europa inverta il corso che ha preso quando ha adottato il dogma della «concorrenza libera e non falsata» e dei suoi corollari, l’austerità di bilancio e l’immunità delle banche.

Per questo è deplorevole che, nella campagna attuale, il dibattito sulle implicazioni europee della politica francese si limiti ad antitesi grossolane o a considerazioni formali sulle istituzioni della zona euro, anziché affrontare la questione dei rapporti di potere nello spazio europeo, anch’esso in piena crisi sistemica, e del suo futuro.

Non ci può essere un’altra Francia senza un’altra Europa. L’elezione di Macron non è una condizione sufficiente perché questi problemi diventino il terreno di un impegno collettivo. Ma l’elezione di Le Pen è una ricetta sicura perché il loro significato sia definitivamente deviato.

Anziché fare tabula rasa del passato, dobbiamo trarne le lezioni. L’elezione, per quello che fa temere, per quello che può suscitare, non è che un momento, ma inevitabile. Tocca a noi attraversarla, utilmente, con gli occhi aperti.
* da Libération, inserto settimanale del 2 maggio, per gentile concessione dell’autore al manifesto

postilla

Come abbiamo scritto è del tutto comprensibile che ci sia chi non vuol scegliere tra la peste e il colera, considerando sia Macron che Le Pen diversamente avversari di chi è convinto che, insieme al fascismo, si deve combattere anche l'humus da cui il fascismo puntualmente rinasce: e il neoliberosmo, che Macron esprime, è proprio l'espressione di quell'humus. Ma il 20 % non è sufficiente per rappresentare un'alternativa vincente, occorre che cresca, e che quindi si valutino le due ipotesi, Macron e Le Pen, a seconda dei maggiori o minori spazi di probabilità che diano alla conservazione di quel tanto di democrazia che consente alla sinistra radicale di crescere e di migliorare la sua forza di convinzione. È la strada che scelse la sinistra comunista italiana dopo l'8 settembre 1943 (e.s.)
«In Francia tira la stessa cattiva aria che nel resto d’Europa. Non sembra che l’opinione pubblica se l’attendesse. Emmanuel Macron, da parte sua, non sembra rappresentare un incrollabile baluardo contro l’estrema destra, al contrario».

Sbilanciamoci.info, newsletter n.516, 5 maggio 2017

Al secondo turno delle elezioni presidenziali tramontano i vecchi partiti e Emmanuel Macron e Marine Le Pen si contendono una Francia divisa – socialmente e geograficamente – e incerta. Le Pen ha incassato sette milioni e mezzo di voti, più del doppio di quanti ne avesse fatti suo padre nello scontro con Chirac nel 2002. […]

I risultati del primo turno delle elezioni presidenziali a Parigi sono stati un poco lugubri: al secondo turno accanto a Emmanuel Macron è uscita Marine Le Pen, con sette milioni e mezzo di voti, più del doppio di quanti ne avesse fatti suo padre nello scontro con Chirac nel 2002. Il risultato finale non è affatto sicuro.
Le cose sono andate finora così: il Partito Socialista aveva indetto le primarie per scegliere il candidato. Ma quando è uscito Benoît Hamon – uno dei leader della sinistra, l’altro era Montebourg – il Partito Socialista (PS) non è stato contento, a cominciare da Hollande. Credo sia stato Hollande medesimo a introdurre al governo Emmanuel Macron, giovane brillante economista, allievo della banca Rothschild. Senonché Macron, a un anno delle elezioni presidenziali, ha deciso per conto suo di presentarsi, contando sul fatto che il PS non si sarebbe mobilitato per Hamon.

E infatti è andata cosi: nell’aprile 2016, Macron ha fatto sapere che avrebbe concorso alle elezioni. Hollande non lo ha appoggiato, ma lui si è presentato ugualmente nel novembre 2016, lanciando a proprio sostegno non un partito ma un “movimento”, En Marche. La sua fortuna è stata fulminea, dovuta anche al fiasco del partito di destra classico, Les Républicains, il cui candidato François Fillon, già premier di Sarkozy, ha rappresentato la destra classica, ma è sprofondato in una sordida storia di compensi per moglie e figli come assistenti parlamentari. Quando questo pasticcio è uscito, ha rifiutato di ritirarsi: risultato, è rimasto escluso dal secondo turno della competizione elettorale. Emmanuel Macron può vantarsi di aver liquidato i due interlocutori classici delle elezioni post-golliste, Partito Socialista e Les Républicains.

Analizzando il voto del primo turno, la Francia appare divisa in due, socialmente e geograficamente. Socialmente, Marine Le Pen è stata votata sopratutto da povera gente: con meno di 3000 euro di reddito l’anno, e priva di istruzione medio-alta. Macron ha raccolto i voti della classe media (comprendendo anche gli operai) decisa di abbandonare la sinistra e di quelli che avevano un diploma medio-superiore. Nella competizione si è inserito anche un uomo di sinistra, Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise), che non ha voluto unire i suoi voti a quelli di Hamon (considerando il PS più o meno un traditore della classe operaia) ed è risultato quarto al primo turno. Ecco i risultati principali:
Emmanuel Macron: 8 657 326 voti (24,01 %); Marine Le Pen: 7 679 493 voti (21,30%); François Fillon (primo escluso): 7 213 797 voti (20,01%), cioè 450 000 voti meno di Marine Le Pen; Jean-Luc Mélenchon (secondo escluso): 7 060 885 voti (19,58%); Benoit Hamon (quinto ma con molto distacco): 2 291 565 voti (6,36%).

Geograficamente, la Francia appare divisa fra Nord-Est e Sud-Ovest, il primo tutto in preda al Front National, salvo Parigi e Lille, e il Sud-Ovest, in gran maggioranza su posizioni anti-Le Pen, con un paio di dipartimenti a sinistra e qualche altro al Fronte Nazionale. I due candidati operai, di tendenza trotzkista, molto simpatici in televisione, sono usciti quasi ultimi, Nathalie Arthaud 0,64% e Philippe Poutou 1,09%. Tutti, salvo Jean-Luc Mélenchon, hanno dato la parola d’ordine “votare contro il Front National di Marine Le Pen” (Mélenchon si riserva di interpellare prima i suoi iscritti e di far sapere la decisione venerdì prossimo).

Oltre alla differenza sociale (occupazione e cultura), c’è una ulteriore differenza fra i votanti dei due candidati. Marine Le Pen è la candidata che ha avuto più voti nella maggioranza dei comuni, che in Francia sono molto frammentati, mentre Macron prevale nelle città. Non si può essere certi – quali che siano gli appelli delle altre forze politiche – che essa sia sconfitta fin da oggi.

Nella campagna elettorale, Marine Le Pen ha mantenuto qualche differenza da suo padre (ha smentito gli attacchi di lui agli ebrei; ha però considerato responsabili del più grande rastrellamento
anti-ebraico a Parigi nel 1942 – al Vel d’Hiv – le forze di occupazione tedesche, rendendone innocente la Francia), la sua parola d’ordine è stata “Je suis le Parti du peuple”, indicando i nemici del popolo nell’Unione Europea e nella finanza, nonché impegnandosi contro i migranti, sospettati di introdurre di fatto i simpatizzanti dell’ISIS (di qui la sua richiesta di finirla con l’accogliere i migranti e di espellere tutti quelli fra di loro che sono indicati come potenzialmente pericolosi, quelli con “schede S”). In generale la sua campagna è stata realmente protezionista e populista; purtroppo abbastanza vicina a quella di Jean-Luc Mélenchon, sul quale cadono oggi i fulmini di tutti i “democratici per bene”.

Il primo turno delle presidenziali indica realmente un crollo dei partiti democratici tradizionali e in particolare dei socialisti; e ugualmente una reale affermazione del Front National che è una prima assoluta nella storia della Repubblica. La mancanza di coesione fra gli altri partiti, e sostanzialmente l’isolamento di un debole Partito Socialista, rendono possibile, almeno in via di principio, la vittoria di Marine Le Pen come Presidente. Le conseguenze politiche per la Francia e quelle per l’Europa sono evidenti.

Una risorgenza della sinistra è tutta da inventare. Non sembra che essa possa nascere dal PS e l’estrema sinistra è troppo debole. Non ci sono che poche manifestazioni antifasciste; la più grossa dovrebbe essere il primo maggio a Parigi, place de la République, ma non è un partito particolare a indirla.

Naturalmente un esito vittorioso di Le Pen creerebbe non pochi problemi per la successiva scadenza elettorale, le elezioni legislative si terranno l’11 e 18 giugno. In realtà non sembra che siano verosimili né una maggioranza di governo, né una di opposizione. In conclusione, in Francia tira la stessa cattiva aria che nel resto d’Europa. Non sembra che l’opinione pubblica se l’attendesse. Emmanuel Macron, da parte sua, non sembra rappresentare un incrollabile baluardo contro l’estrema destra, al contrario.
La politica ridotta a tifoseria. Così anche il direttore del giornale del neoliberismo italiano cede allo spirito dei tempi. Non ammette che a qualcuno non vada bene né l’uomo della Trilateral Commission né l’apostolo della destra xenofoba e che rifiuti di appoggiare sia l’uno che l’altro.

la Repubblica, 4 maggio 2017

DUNQUE si può essere di sinistra e non votare contro Marine Le Pen: pur di non votare per Macron. È il nuovo mantra — “né né” — che attraversa un pezzo di elettorato francese radunato nel 19,58 raccolto da Mélenchon al primo turno, e lo assolve preventivamente mentre viaggia verso l’astensione al ballottaggio decisivo per il futuro della République, e forse dell’intera Europa. Manca il tripode con l’acqua di Ponzio Pilato per lavarsi le mani sullo spazio imperiale del Pretorio, all’ora sesta di un giorno in cui il cielo si oscurò. Tutto il resto è pronto. Intellettuali, blogger, filosofi, storici, sindacalisti hanno già fornito la giustificazione teorica a questo tradimento repubblicano che ha come posta in gioco visibile il palazzo dell’Eliseo, ma in realtà arriva a intaccare le fondamenta dello spirito democratico francese e i suoi valori di fondo ereditati dalla Rivoluzione.

Naturalmente c’è la ribellione allo strapotere della finanza, delle banche, dell’Europa, radunate in una trimurti ingigantita e resa così simbolica delle sofferenze di questi anni da diventare il nemico assoluto, ideologico, politico, culturale, addirittura morale. Basta guardarsi intorno per capire le ragioni di questo rigetto. E se non basta, si può ricordare una vecchia frase di Camus: «mai il numero di persone umiliate è stato così grande».

Ma qui, con ogni evidenza, c’è qualcosa di più. Non un progetto alternativo, un’obiezione culturale, un’idea che metta in movimento una politica diversa, di cui avremmo bisogno. C’è quasi un odio antropologico — che non ha nulla a che fare con la politica — per la figura fisica e insieme fantasmatica del tecnocrate che gioca la sfida del governo, mettendo le sue carte sul tavolo, senza camuffare la sua cultura e i suoi programmi nell’opportunismo della rincorsa populista. Così, mentre l’indebolimento degli anticorpi repubblicani e la rabbia popolare facilitano la dediabolisation di Le Pen, un moderno diavolo borghese sale sul trono vacante e diventa il bersaglio della sinistra delusa, dispersa, furiosa. È il politico che crede nella vocazione europea della Francia, nella funzione storica di guida che il Paese ha giocato nella Ue con la Germania, nei vincoli della responsabilità, nella modernizzazione post- ideologica. Tutto quello (in una versione franco-centrista) che nel malandato e diseredato lessico della sinistra italiana abbiamo provato a chiamare da anni “riformismo”, qualcosa che non c’è, e dovrebbe in poche parole coniugare la speranza dell’emancipazione sociale con la responsabilità di governo.

Tra i “né né” naturalmente Michel Onfray è in prima fila, con una vecchia patente di sinistra e una furia iconoclasta che lo ha reso popolare da anni: da Valls ad Attali, a Kouchner, a Cohn-Bendit, «sono i promotori forsennati di una politica liberale che hanno permesso a Marine Le Pen di fare il botto e arrivare al secondo turno». E lo storico Emmanuel Todd gli fa eco nell’intervista ad Anais Ginori: «Votare Front National è approvare la xenofobia, ma votare Macron è accettare la sottomissione. Per me è impossibile scegliere. Considero il lepenismo e il macronismo come due facce della stessa medaglia. Le Pen è il razzismo, Macron è la servitù alle banche e alla Germania. Per questo mi astengo con coerenza, anzi con gioia, aspettando che nasca un mondo migliore».

Con l’astensione ovviamente la sinistra pura e dura ingigantisce il rischio che Marine Le Pen riempia questa attesa accomodandosi sulla poltrona dell’Eliseo. Ma non importa più. L’odio nei confronti del riformismo ha bisogno di minimizzare i rischi del post-fascismo, per sdoganare l’astensione tranquillizzando le coscienze inquiete davanti alla xenofobia del Front. Se Macron è uguale a Le Pen, allora Marine definitivamente non viene più dall’inferno, è una nemica ma come tanti, anzi non è nemmeno la peggiore, entra nella normalità del gioco politico francese, culturalmente accettata, moralmente scusata, storicamente amnistiata. Anzi, esercita una sorta di tacita egemonia culturale, quando la sinistra per accusare la finanziarizzazione macronista usa i termini tipicamente lepenisti di “sottomissione” e “servitù”, che non hanno più al centro il cittadino come soggetto politico universale, secondo la lezione francese, ma lo spirito di Francia, collettivo, nazionalista e patriottico, che Marine vuole resuscitare, per scagliarlo contro l’Europa tiranna.

La frattura culturale e l’infiltrazione avviene anche a destra, nel campo repubblicano, con “tradimenti” singoli e furbizie isolate, come denuncia Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, che non ha dubbi: «la vittoria di Le Pen sarebbe uno scisma geopolitico, un disastro economico, una sconfitta morale. Per questo serve un appello solenne a resistere alla tentazione di rompere tutto, di rovesciare il tavolo». È il vero sentimento nazionale, per il bene della Repubblica, che affiora a destra e fatica ad emergere nella sinistra (due terzi degli elettori di Mélenchon sono per l’astensione) ipnotizzata invece dal risentimento per il nuovo nemico, al punto da perdere quel senso della responsabilità nazionale che l’ha sempre contraddistinta.

Perdendo intanto anche il senso morale delle proporzioni, quando Todd teorizza che c’è più da temere «nella fanatizzazione dei benpensanti che nella risorgenza del fascismo ». Faceva tristemente eco, nel corteo del Primo Maggio e a poche ore dalla più pericolosa sfida lepenista alla Repubblica, quello striscione sindacale in boulevard Beaumarchais che archiviava ogni criterio di distinzione, base di qualsiasi buona politica: “Peste o colera, né l’una né l’altra”. Per la sinistra, non è ancora passata l’ora sesta.

Il Fatto quotidiano, 2 maggio 2017
UNESCO, ALFANO:
“ITALIA CONTRO RISOLUZIONE SU GERUSALEMME”.
MA 22 PAESI LA APPROVANO.
ISRAELE: “VERGOGNOSO”

«La Risoluzione si intitola "Palestina Occupata" ed è stata presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron. Tra i Paesi che si sono pronunciati a favore del testo, ci sono anche Russia e Cina»
L’Italia si è espressa contro contro la risoluzione sul riconoscimento dei luoghi santi in Israele presentata all’Unesco. Il documento, però, è stato comunque approvato grazie al voto di 22 Paesi. “Ho dato precise istruzioni di voto al rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unesco: votare No contro l’ennesima risoluzione politicizzata su Gerusalemme, tra l’altro nel giorno di una importante festa nazionale israeliana”, aveva annunciato il ministro degli Esteri, Angelino Alfano. “La nostra opinione – dice il numero uno della Farnesina – è molto chiara: l’Unesco non può diventare la sede di uno scontro ideologico permanente in cui affrontare questioni per le cui soluzioni sono deputate altre sedi. Coerentemente con quanto dichiarato a ottobre noi, dunque, voteremo contro la risoluzione, sperando che questo segnale molto chiaro venga ben compreso dall’Unesco”.

Il testo della risoluzione, però, è stato adottato a larga maggioranza dall’Unesco. Tra i Paesi che si sono pronunciati a favore del testo, ci sono anche Russia e Cina. Tra le dieci nazioni che si sono opposte, invece, ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna, Grecia, Ucraina, Togo, Lituania, Paesi Bassi e Germania, oltre ovviamente all’Italia. Francia, Spagna, India e altri 20 Paesi si sono invece astenuti. La risoluzione era stata presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan. Si intitola “Palestina Occupata” e critica severamente il governo israeliano per i suoi progetti di insediamento nella Città Vecchia di Gerusalemme e nei pressi dei luoghi sacri di Hebron. Chiede inoltre la fine del blocco Israeliano su Gaza senza evocare gli attacchi sferrati da Hamas contro lo Stato ebraico.

“Il tentativo di negare il legame tra Israele e Gerusalemme non cambia il fatto che Gerusalemme è la capitale eterna del popolo ebraico. È una decisione vergognosa“, dice l’ambasciatore israeliano all’Onu, Danny Danon. Prima del voto, il premier israeliano Benyamin Netanyahu aveva duramente criticato il progetto di risoluzione. “Non c’è altro popolo – ha detto – al mondo per il quale Gerusalemme sia così importante e sacra come per gli ebrei, anche se una riunione in programma oggi all’ Unesco cercherà di negare questa verità storica. Denunciamo l’Unesco e ribadiamo quella che è la verità: attraverso la storia ebraica Gerusalemme è stata il cuore della nazione”.

Il 18 ottobre scorso i diplomatici italiani avevano scelto di non prendere posizione sul documento che definisce Israele “potenza occupante” e utilizzava solo la terminologia araba per definire posti simbolici come “il Monte del Tempio“. Una decisione definita come “allucinante” dall’allora presidente del consiglio, Matteo Renzi. E infatti, pochi giorni dopo, l’attuale premier Paolo Gentiloni aveva annunciato che l’Italia era pronta a cambiare la sua posizione sulla risoluzione. “Se ci verranno riproposte anche nel mese di aprile le stesse condizioni: passeremo dal voto di astensione al voto contrario”, aveva detto l’allora ministro degli Esteri. E infatti oggi Alfano ha confermato il pollice verso dell’Italia. CUn annuncio, quello del ministro degli Esteri, che ha raccolto il plauso di Israele. Che però non è bastato per non fare approvare la risoluzione.

la Repubblica, 3 maggio 2017
UNESCO, NO DELL’ITALIA
AL TESTO CONTRO ISRAELE
di Vincenzo Nigra

«Un anno fa Roma aveva scelto l’astensione, ora lo strappo nonostante l’ammorbidimento della risoluzione e il riconoscimento dell’importanza di Gerusalemme per le tre fedi. Netanyahu ringrazia Alfano»
IL COMITATO esecutivo dell’Unesco, l’agenzia culturale dell’Onu, ieri ha votato ancora una volta una risoluzione contro il comportamento di Israele a Gerusalemme e Gaza. Il testo è stato approvato con 22 voti, ma per la prima volta i voti contrari e gli astenuti sono la maggioranza (23 astenuti e 10 no).

Questa volta fra l’altro le pressioni di Israele e Usa hanno fatto saltare un accordo negoziato fra i paesi arabi e gli 11 paesi della Ue che sono membri del Comitato esecutivo. In cambio della garanzia di un voto positivo, gli europei sotto la guida della Germania avevano ottenuto da arabi e palestinesi alcune modifiche al testo. La mozione era diventata quindi meno aggressiva per Israele; per esempio, era stato evitato di citare soltanto con la dizione in arabo i nomi dei luoghi di Gerusalemme. Inoltre era stato inserito un riferimento al fatto che «Gerusalemme è importante per le tre religioni monoteistiche, Giudaismo, Cristianesimo e Islam», riferimento sempre assente nelle versioni precedenti.

La posizione dell’Italia ha però fatto saltare l’accordo dei paesi europei, tanto che alla fine anche Germania, Gran Bretagna e Grecia hanno abbandonato il voto positivo e si sono schierati per il “no” assieme agli Usa. La posizione italiana filo-Israele è figlia dell’ultimo voto su Israele all’Unesco, quello del mese di ottobre, quando in Italia erano scoppiate polemiche anche all’interno del governo. Allora la Farnesina aveva deciso di astenersi come aveva fatto altre volte in passato. Ma il premier Matteo Renzi aveva reagito criticando il ministero degli Esteri e impegnandosi a far cambiare voto nelle prossime occasioni. Allora Renzi aveva definito «allucinante, oltre che incomprensibile e sbagliata» l’astensione italiana: «È il momento di cambiarla».

Nel weekend il primo ministro di Israele Bibi Netanyahu aveva telefonato al ministro degli Esteri Angelino Alfano, mentre l’ambasciatore a Roma Ofer Sachs ha parlato con i consiglieri diplomatici del premier Gentiloni e con alti funzionari della Farnesina. Ieri Netanyahu ha telefonato ad Alfano dopo il voto per ringraziarlo, come rivela lo stesso ministro italiano: «Avevo annunciato al primo ministro la nostra decisione di votare contro la risoluzione, e avevo anche espresso l’auspicio che altri paesi Ue andassero verso la stessa direzione. Netanyahu ha ringraziato l’Italia per questa scelta che rappresenta un esempio per gli altri Paesi, congratulandosi per il ruolo guida dell’Italia».

postilla
Abbiamo già riportato informazioni sulla questione pubblicando l'articolo La cortina fumogena della paura, di Zvi Shuldiner, il 22 ottobre 2016. Lo avevamo pubblicato con una postilla, che riprendiamo integralmente qui di seguito:
«L'Unesco rimprovera il governo israeliano di non consentire gli interventi amministrativi, gestionali manutentori e religiosi nella Moschea di Al Aqsa, il terzo luogo sacro per i musulmani, costruito nell’anno 705. La pretesa di Netanyahu si fonda sul pretesto che sul medesimo sito esisteva, secoli prima, un tempio, sacro agli ebrei , distrutto durante la rivolta contro i romani nell’anno 70. Il lettore che voglia essere un po' più serio di Matteo Renzi legga il testo del documento dell'Unesco, disponibile qui.»
Evidentemente Renzi non l'ha letto, nè alcuno del suo vasto entourage. oppure lo ha letto, ma, poichè il merito delle questioni per lui non conta (a meno che non si tratti di accrescere il suopotere personale, e di garantiursi risorse materiali o morali che lo aumentino, si è m così come ha fatto (tramite l'obbediente Alfano) per far contento il suo feroce oppressore del popolo palestinese ma ben più potente e dovizioso

«». il Fatto Quotidiano online blog Diego Fusaro,

Il caso Alitalia, se non altro, ci dà conferma di quanto già sapevamo e che, non di meno, stenta a farsi comprendere nell’epoca delle magnificate privatizzazioni e del competitivismo sans frontières: il privato è in grado di fare peggio del pubblico. Perfino peggio del pubblico in fase di assedio, di tagli e di continue offensive ad opera della ragione liberista oggi dominante e autoproclamatasi la sola legittima. Le infinite geremiadi contro il pubblico spendaccione e incapace, inefficiente e fallimentare cantate a reti unificate dai troppi soloni del privatismo a tutte le condizioni rivelano qui tutta la loro inconsistenza: ripeto, Alitalia ci mostra che il privato è capace di fare anche peggio. E che, di conseguenza, la privatizzazione senza residui non può essere la soluzione, con buona pace delle omelie dei bocconiani e del vangelo dei sacerdoti del mondialismo come nuova teologia della disuguaglianza sociale planetaria. Non è tutto.
La tragica vicenda legata ad Alitalia ci impartisce anche un’altra lezione, non meno importante della precedente. Siamo entrati, e non da ieri, in una inedita fase di capitalismo comunistico: un capitalismo che selvaggiamente privatizza gli utili e generosamente socializza le perdite. Con l’ovvia conseguenza che a subirne tutte le conseguenze sono, guarda caso, sempre i soliti noti, i subalterni e gli sconfitti della globalizzazione. In primis i lavoratori.

La Fiat è da diversi anni l’emblema di questo capitalismo comunista tutto a beneficio dei signori del competitivismo privatistico. La vecchia domanda leniniana – che fare? – torna più urgente che mai. La soluzione, la sola soluzione praticabile, che ovviamente sarà demonizzata dagli oligarchi del privatismo e dalla casta dei loro prezzolati oratores accademici, giornalistici e televisivi, è la seguente: nazionalizzazione della ditta. Riappropriazione sociale di ciò che apparteneva alla nazione italiana e che, affidato alle magnifiche cure del privato, è precipitato al suolo. Tutto il resto è chiacchiera politicamente corretta.

Analisi territoriale e sociale del voto. Per comprendere meglio ciò che sta accadendo in Europa, e che potrebbe accadere in casa nostra. Articoli di Anais Ginori e Guido Caldiron,

La Repubblicail manifesto, 25 aprile 2017

la Repubblica
LE MAPPE
di Anais Ginori

«Il Fn vince lontano dai centri urbani e tra le fasce più povere. Laureati e dirigenti scelgono il leader di” En Marche”. Città contro campagna nel Paese del “voto di classe” Le Pen conquista i delusi»

Se Marine Le Pen si fosse presentata solo nella capitale non avrebbe superato neppure la soglia di sbarramento per ottenere i rimborsi elettorali fissata al 5%. In alcuni quartieri, come il Marais e Pigalle, la leader del Front National supera appena il 3%, mentre Macron ha conquistato un parigino su tre (34,8%). Se invece la Francia fosse in miniatura quella di Brachay, comune di una sessantina di abitanti nella Marna, lontano da tutto, Le Pen sarebbe già all’Eliseo: ha ottenuto più dell’83%.

La mappa del primo turno delle presidenziali conferma un paesaggio politico destrutturato, con una netta divisione tra le grandi città e quella che il geografo Christophe Guilluy ha chiamato in un saggio la “Francia periferica”. Il divario tra voto nei centri urbani e nelle zone rurali non è mai stato così chiaro. Se a Lione il Fn prende solo l’8,86%, nella regione intera del Rhone sale fino al 16,26%. Lo stesso scarto si verifica tra Bordeaux (7,39%) e la Gironda (18,2%), Lille (13,8%) e la sua provincia (28,2%). «Il voto per il Front National si rafforza via via che aumenta la distanza da un centro urbano», spiega Guilluy. Le 588 città con più di 15mila abitanti, un terzo dell’elettorato, hanno una percentuale Fn inferiore al dato nazionale. Domenica sera lo spoglio in diretta del ministero dell’Interno metteva Le Pen in testa rispetto a Macron finché non sono arrivate le schede delle metropoli che hanno ribaltato il rapporto di forza. L’altra spaccatura che emerge dalla cartografia del voto è quella che taglia in due la Francia da nord a sud, ovvero tra la metà orientale, quasi tutta per il Front National, e quella occidentale, dominata dal voto per Emmanuel Macron. «È una divisione antica tra Francia atlantica, aperta, benestante, moderata, e un’altra continentale, più chiusa, in crisi, reazionaria», spiega il geografo Jacques Levy. Il nord-est si conferma un monocolore Le Pen. Nelle zona tra Piccardia e Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, il Fn supera anche il 30% dei voti. La supremazia dell’estrema destra nelle zone più colpite dalla deindustrializzazione è ormai assodata, ad eccezione della regione parigina.

La fascia orientale, verso la frontiera con la Germania, registra sempre una prevalenza del Fn, con il 27,78% dei voti. Si conferma anche la forza del partito di Le Pen verso il sud-est e il Mediterraneo, fino al confine con l’Italia: nella regione Paca (Provence- Alpes-Cotes d’Azur) dove ottiene il 28,17%. La leader Fn segna anche un risultato storico in Corsica, arrivando al primo posto con il 27,88%, superando per la prima volta la destra.

La Francia del centro e quella affacciata sulla costa Atlantica ha scelto invece Macron. Il leader di En Marche ha ottenuto il 25,1% in Aquitania, il 26% nella regione della Loira e fino al 29% nella Bretagna. Macron è arrivato al primo posto in 7.175 comuni, di cui più della metà avevano votato il socialista François Hollande nel 2012. Ma il candidato centrista è riuscito anche a conquistare 2.353 città che nella precedente presidenziale avevano dato la preferenza all’ex leader della destra Nicolas Sarkozy. Macron registra il suo miglior risultato a Bigorno, comune di 85 elettori in Corsica, dove ottiene il 77,1%. Tra i francesi residenti all’estero ha ottenuto quasi metà dei voti (40,4%) rispetto al 6,4% di Le Pen.

«L’analisi sociologica conferma un voto di classe», spiega Frédéric Dabi, direttore dell’istituto Ifop. Le Pen è la candidata degli operai, degli impiegati, ma anche dei disoccupati (oltre un terzo ha votato per lei), mentre Macron ha i suoi punti di forza nei quadri dirigenti e nei professionisti (uno su tre hanno votato per lui). I due candidati al ballottaggio ottengono la stessa percentuale (32%) nelle due fasce estreme di reddito: Le Pen tra chi guadagna meno di 1.250 euro mensili, Macron tra chi ne guadagna più di 3mila. «Macron è il candidato dei laureati mentre Le Pen quella dei diplomati», conclude Dabi. Gli istituti di sondaggi avevano in parte già analizzato queste distinzioni e hanno preso domenica sera una piccola rivincita: contrariamente a quanto accaduto con Brexit ed elezioni americane, le loro previsioni sul voto si sono rivelate giuste.

il manifesto LE NUOVE GEOMETRIE
DELL’ESAGONO FRONTISTA
di Guido Caldiron

«Per Marine Le Pen un risultato comunque storico. Oltre sette milioni e mezzo le preferenze totalizzate al primo turno. Gli studiosi francesi dell'estrema destra analizzano il voto al Front national»

Un paese spaccato, diviso pressoché a metà lungo linee che disegnano per molti versi una nuova geografia politica e sociale. Per quanto inferiore alle attese, nel corso degli ultimi mesi i sondaggi l’avevano data in testa e con percentuali che sfioravano il 30% dei consensi, l’affermazione della leader del Front National, Marine Le Pen, sembra trarre prima di tutto alimento dalle nuove linee di demarcazione che stanno emergendo in seno alla società francese.

Gli oltre 7 milioni e mezzo di consensi raccolti dalla candidata dell’estrema destra, in ogni caso un record mai raggiunto prima nella storia più che trentennale del Fn, appaiono come il frutto più velenoso e inquietante della fratture che percorrono l’Esagono. E che anche nel caso della probabile vittoria di Emmanuel Macron al secondo turno delle presidenziali, continueranno a rappresentare una sfida di non poco conto in particolare per la sinistra politica e sociale.

Tra le analisi proposte nel dopo voto dagli studiosi dell’estrema destra, spicca perciò quella avanzata dal demografo Hervé Le Bras, decano della storia sociale transalpina che da tempo, il suo Le pari du Fn (Autrement) è uscito già nel 2015, invita a considerare gli exploit elettorali del Front National nell’ambito della geografia sociale del paese che ha visto emergere nuove forme di povertà e di emarginazione, non solo di natura economica. Se il primo turno della corsa all’Eliseo fotografa come circa il 30% dei disoccupati e degli operai abbia scelto Le Pen, contro una percentuale simile di appartenenti al ceto medio e alle professioni liberali che si sono invece orientati verso Macron, Le Bras sovrappone una serie di “carte” relative alla composizione sociale delle differenti regioni, all’analisi del voto. Facendo così emergere l’aspetto meno evidente, ma non per questo meno preoccupate, dei risultati.

Così, la lnea orizzontale che divide in due la Francia politica, separando nettamente le regioni dell’Ovest, che hanno votato in maggioranza per Macron, da quelle dell’Est, andate a Le Pen, corrisponde secondo lo studioso a quella che separa le zone di più forte insediamento delle classi media e alta, rispetto a aree popolari che sono poi quelle più colpite dalla deindustrializzazione e dalla paura del declassamento.

Allo stesso modo, anche il voto delle grandi città in favore dell’ex ministro dell’Economia di Hollande, con la sola significativa eccezione di Marsiglia e dei centri del Sud-Est, si spiega con il fatto che è qui che risiede prevalentemente il ceto medio e intellettuale. All’inverso, l’analisi proposta da Le Bras indica come i consensi al Fn vengano soprattutto «dai piccoli centri dove molto spesso si sono trasferite nel corso del tempo le famiglie operaie cacciate dalle metropoli dall’aumento degli affitti e del costo della vita o da quelle aree rurali i cui abitanti si sentono esclusi e dimenticati dalle scelte della politica».

Malgrado questa strategia di conquista nei territori perduti della gauche inaugurata da Marine Le Pen da alcuni anni non abbia portato ancora tutti i frutti sperati, la presidente del Fn, come nota lo storico dell’università di Monpellier, Nicolas Lebourg, che ha firnato Les extrêmes droites en Europe (Seuil, 2015), «non poteva sperare in un avversario migliore di Macron». Questo perché malgrado l’ex esponente del Ps sia quello che secondo tutti i sondaggi aveva fin dall’inizio più possibilità di battere Le Pen, è altrettanto chiaramente «colui che incarna al meglio la figura del nemico nell’ambito del progetto frontista di riconfigurazione della democrazia francese, non più secondo la dicotomia destra-sinistra, ma tra coloro che difendono l’identità nazionale (i sovranisti) e coloro che cercherebbero di distruggerla (i mondialisti)». Per questo Le Pen «martella sul fatto che Macron è un simbolo della “globalizzazione selvaggia” contro cui il Fn si presenta come l’unica difesa dei francesi e la sola alternativa politica».

Quanto alle prospettive che si aprono per il secondo turno, gran parte degli specialisti dell’estrema destra concordano sul fatto che difficilmente Marine Le Pen sarà in grado di raccogliere un numero sufficiente di consensi da poter raggiungere il 51%.

Ciononostante, il politologo Joël Gombin, autore di Le Front National (Eyrolles, 2016) e membro dell’Observatoire des radicalités politiques della Fondazione Jean-Jaurès, ricorda come «in occasione delle ultime elezioni regionali, quelle del 2015, un terzo degli elettori del centrodestra si è alla fine portato sul Fn» e che «domenica Macron e Le Pen messi insieme non hanno raggiunto neanche la metà dei consensi espressi, lasciando così aperto, malgrado le dichiarazioni in favore del candidato di En marche! pronunciate dai maggiori leader politici, almeno in linea di principio, lo scenario per il secondo turno. Una situazione decisamente inedita».

il manifesto, 22 aprile 2017 (c.m.c.)

Non erano passate nemmeno 12 ore dall’attacco di un terrorista per fortuna isolato sugli Champs Elysées nel cuore di Parigi, subito rivendicato dall’Isis, che Marine Le Pen è volata con ferocia inusitata, come un avvoltoio, sulla bara del povero poliziotto rimasto ucciso. Anche il candidato della destra storica, il conservatore Franois Fillon, ha fatto altrettanto quasi a volere contendere la preda in palio: la paura di una popolazione che sta per eleggere il capo di una repubblica presidenziale. Ma Marine Le Pen è stata particolarmente «programmatica», parlando come fosse già il presidente in pectore della Francia.

Modulando volta a volta richieste repressive e ideologiche, tali da delineare una trasformazione dell’assetto istituzionale francese. Stato di guerra, espulsione degli inquisiti con la sigla “S”, chiusura delle frontiere e, rinunciando «all’ingenuità, all’innocenza, al lassismo», chiusura delle «moschee islamiste» il cui finanziamento «non potrà essere in alcun caso pubblico o di provenienza straniera», niente diritto di cittadinanza all’ideologia islamista.

Sapientemente quanto irresponsabilmente mischiando terrorismo e migranti. Come se fossero la stessa cosa. Per una «guerra che non possiamo perdere», ha concluso Marine Le Pen, sguazzando naturalmente dentro i macroscopici buchi dei Servizi segreti francesi, dopo Charlie Hebdo, Bataclan e Nizza.
Che hanno dovuto, per dichiarazione del ministero degli interni, subito ammettere che l’attentatore era conosciuto, anzi su di lui era stata addirittura aperta una inchiesta.

Il giorno prima degli attacchi Marine Le Pen aveva promesso che con lei presidente sarebbe stato estirpato l’integralismo islamico dalle periferie. È così diventato immediatamente palpabile quello che da tempo si avvertiva e che solo fino a pochi giorni prima era difficile descrivere: che l’Isis vota decisamente a destra, preferibilmente Front nazional che alligna le sue dinamiche xenofobe, razziste e iper-nazionaliste proprio sulla paura e sul clima di guerra, anche interna.

Del resto il presidente statunitense Donald Trump non è stato da meno avvisando, subito dopo l’attentato, che «il popolo francese non sopporterà più a lungo cose del genere. Avrà grosse conseguenze sulle elezioni presidenziali!». Lui sì che se ne intende.

A dire il vero i primi sondaggi a poche ora dal voto del primo turno delle presidenziali, dicono una cosa diversa. Che emergerebbe il modernista di centro Emmanuel Macron, distaccando tutti gli altri candidati più accreditati. Dalla stessa Marine Le Pen, al liberal-conservatore di destra François Fillon, fino al sorprendente Jean-Luc Mélenchon che ha fin qui raccolto il difficile consenso a sinistra meglio è più del candidato socialista Benoît Hamon che pure ha portato importanti novità.

Ma se la prospettiva del risultato francese è Emmanuel Macron, quanto alimento darà questa vittoria – lungimirante per tutti gli schieramenti di centro d’Europa – ad un nuovo populismo, stavolta ancora più radicale?

Un fatto è certo. La precisione «occasionale» del terrorismo jihadista è diventata endemica. Sconquassa la società civile, contrapponendola al proprio interno. E poi ormai accade e colpisce nei momenti cruciali della verifica politica. Come dimenticare che da qui all’estate gli appuntamenti elettorali rilevanti sono almeno altri due, in Germania e ancora una volta nella Gran Bretagna appena dopo la nazional-populista Brexit?

Sullo sfondo dell’endemicità degli attacchi jihadisti qui nell’Occidente europeo e non solo, resta la scena della guerra vera e solo apparentemente lontana. Dove il jihadismo terrorista (qaedisti e Isis, volta a voltab utili per le nostre stesse operazioni belliche geostrategiche) semina stragi tra gli stessi musulmani, dentro realtà ex statuali come Iraq, Siria e Libia che le nostre guerre hanno contribuito a distruggere. In una terra desolata, disseminata dalla disperazione di milioni di esseri umani che dalla guerra fuggono e al contrario da una scia di sangue di tanti foreign fighters già usciti in libertà dall’Europa e ora di ritorno. Il Medio Oriente che non c’è più, dove il sedicente «Califfo» potrà perdere Raqqa e Mosul, ma ha ormai lanciato il seme nefasto dello «Stato islamico» per riempire il deserto storico degli Stati che abbiamo devastato.

«Il Consiglio dei ministri riduce i poteri di intervento dell'Anac, poi di fronte alle polemiche, soprattutto dei renziani, torna indietro. Gentiloni costretto da Washington a cercare al telefono il presidente dell'Anticorruzione: rimedieremo subito». il

manifesto, 21 aprile 2017

Un’ora di colloquio ieri tra Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale Anticorruzione, e l’ad Consip Luigi Marroni. L’Anac indaga sull’appalto da 2,7 miliardi finito nelle inchieste delle procure di Napoli e Roma, che hanno coinvolto il padre di Matteo Renzi, Luca Lotti e il cerchio magico renziano. Ma dall’ultimo Consiglio dei ministri l’Anac è uscito con le armi spuntate. Nella nuova versione del codice degli appalti, approvata in Cdm il 13 aprile, è previsto che «All’articolo 211 del decreto legislativo del 18 aprile 2016, n. 50, sono apportate le seguenti modificazioni: il comma 2 è abrogato». Il comma 2 consentiva all’Anac di intervenire in caso di gravi irregolarità con sanzioni e tempi certi, più brevi di quelli della giustizia ordinaria. L’intervento dell’esecutivo scavalca il parlamento, sollevando polemiche e dubbi sulla legittimità dell’atto.

L’iniziativa era del tutto inattesa dall’Anticorruzione. Un caso Anac è un brutto scivolone per il governo, con Renzi che sembra di nuovo aver fretta di votare così. Nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata la marcia indietro: «Nessuna volontà politica di ridimensionare i poteri dell’Anac – sottolineano fonti di palazzo Chigi. Il presidente Gentiloni, in missione a Washington, è stato in contatto con Cantone. Sarà posto rimedio già in sede di conversione». I primi a prendere le distanze erano stati i relatori Pd in commissione lavori pubblici del senato, i renziani Esposito e Mariani: «È un atto grave e i responsabili devono assumersene la responsabilità». Esposito aveva poi aggiunto: «Ho sentito Gentiloni e mi ha assicurato che verrà tutto ripristinato con la manovrina». La legge delega sul codice degli appalti approvata un anno fa era il frutto della stagione dei grandi scandali Expo e Mafia capitale. Ieri pomeriggio un lancio di agenzia sottolineava che i poteri soppressi in Cdm non sono finora mai stati attivati dall’Anticorruzione. Ma le indagini Consip, che dall’imprenditore Alfredo Romeo si stanno allargando ai competitor Cofely e la coop rossa Manutencoop, avrebbero potuto sollecitare interventi urgenti.
Partono all’attacco i 5 Stelle, che all’Anac hanno presentato un esposto sul salvataggio dell’Unità: «Un partito coinvolto in Trivellopoli e Mafia Capitale – commenta Luigi Di Maio – non potrà mai fare regole anticorruzione certe». E Roberta Lombardi: «Il Cdm o non ha capito nulla o è complice. Chi ha scritto quella riga è sconosciuto al momento, in l’Italia non si sa neanche chi scrive o riscrive le leggi». Il ministro della giustizia e candidato a segretario Pd, Andrea Orlando, aveva sollecitato un’ulteriore riflessione. «Se prima delle primarie ci fa sapere di quale governo è ministro e in quale Cdm siede possiamo capire cosa pensa», lo attacca il renziano Ernesto Carbone.
Chi ha cancellato la norma mettendo in imbarazzo il governo? Nel preconsiglio dei ministri la norma c’era, poi nell’ultima riunione è stata abrogata sulla base di un parere del Consiglio di Stato: fonti ministeriali ricostruiscono così la decisione, presa per evitare di assegnare «eccessivi poteri» all’Anac cioè il potere di sanzionare imprese o sospendere atti senza passare dal giudice. I renziani non vogliono passare per i mandanti e contrattaccano: «Il Consiglio di Stato è impegnato a smantellare le riforme del governo Renzi». In serata arriva il commento dall’Anac: «Il potere della “raccomandazione vincolante” che è stato soppresso è un elemento qualificante del nuovo Codice per il suo effetto di deterrenza nei contratti pubblici». Filtra, inoltre, perplessità per il fatto che la norma non sia stata discussa né ci sia stato un confronto in sede parlamentare, considerato che con le commissioni e i relatori c’era stata «una proficua collaborazione» durante l’iter del provvedimento.


«LA NATO CAMBI O NON CI RESTEREMO»
POLITICA ESTERA, I PIANI DEI 5 STELLE
«Né filo Trump, néfilo Putin. Al governo ci ritireremo dall’Afghanistan»
Fuori dalla Nato«se non cambia». E «via subito» dall’Afghanistan. Ancora non è il «programma dipolitica estera» dei 5 Stelle. Sia perché «manca ancora molto tempo alleelezioni» e quindi «dobbiamo necessariamente restare fluidi». Sia perché idieci punti votati dai 23.481 iscritti sono un elenco di argomenti spessogenerici. Ma a sentirli in conferenza stampa i parlamentari dei 5 Stelle hannoidee piuttosto chiare e decisamente in controtendenza rispetto alla politicaestera italiana degli ultimi anni.
La sovranità
Qualcuno mette indubbio il realismo politico dei 5 Stelle, ma Di Battista richiama tuttiall’ordine: «Vi invito a prenderci sul serio. Non siamo una meteora e non siamopopulisti. Il nostro programma non è utopia, come ad alcuni sembra solo perchési parla di pace e di dialogo. Voi non ci prendete sul serio, ma ambasciatori eministri degli Esteri sì: da loro stanno arrivando decine di richieste diincontri».
A chi li haaccusati di essere filo Trump, all’inizio, e poi filo Putin, Di Battistarisponde così: «Non siamo né filo Trump né filo Putin, ma è fondamentale averebuoni rapporti con entrambi. Ci avete dato dei filotrumpisti solo perchéabbiamo detto che andava rispettato l’esito del voto. Non siamo filorussi soloperché sosteniamo la necessità di un dialogo con Putin, soprattutto in chiaveantiterrorismo».
I 5 Stellerivendicano la «sovranità» come concetto chiave: sovranità politica, deiconfini, dell’economia, delle risorse energetiche. Lo slogan è: «Un’Italialibera e sovrana, amica di tutti i popoli». Facile a dirsi, ma venti di guerraspirano ovunque. E le istituzioni internazionali scricchiolano. Di Stefanoaveva scritto un post di fuoco contro la Nato. Ora è più cauto, ma non troppo:«Se la Nato cambierà, resteremo, altrimenti dovremo riflettere se continuare afarne parte oppure no». Lo stesso discorso che vale per l’Europa. Non amanodefinirsi euroscettici e a chi dice che vogliono la dissoluzione dell’Europa,ribaltano il discorso: «L’Europa si sta smantellando da sola. E nessun leaderha preso posizione sulla più grande bomba sganciata dopo Hiroshima».
L’euro
Gli iscritti nonhanno votato l’uscita dall’euro (o il referendum per deciderlo), ma una «monetafiscale», proposta dall’economista Gennaro Zedda. Di Stefano rimedia così: «Iltema dell’euro sarà affrontato nel capitolo economico. Del resto le domandesono elaborate sulla base di posizioni di esperti indipendenti e quindi nonsono nostre». Che gli iscritti abbiano votato su quelle è un dettaglio:«Dobbiamo stare fluidi e poi le nostre posizioni le abbiamo espressechiaramente in Parlamento».
Altra cosa su cuinon si è votato è il ritiro dall’Afghanistan. Ma su questo si è già deciso: «Sesaremo forza di governo — dice Di Battista — ritireremo le nostre truppe da unaguerra ignobile e ingiusta e che non è stata neanche vinta». Capitolo dirittiumani: c’è «troppa ipocrisia» e le violazioni si contestano meno se sono digoverni amici dell’Occidente, «come per l’Arabia Saudita, che sta bombardandonell’indifferenza lo Yemen». Infine la questione migranti. Gli uomini in mare,certo, devono essere salvati, «ma l’immigrazione è un business per molti, comeper i centristi».

UN’ITALIANEUTRALISTA
CON UN OCCHIO AL VATICANO
di Massimo Franco
Né con gli StatiUniti né con la Russia. Neanche con una Nato associata agli equilibri delpassato. E nemmeno con l’Europa della moneta unica. Elencare i punti dellapolitica estera del Movimento Cinque Stelle, illustrati ieri in Parlamento,significa affrontare una serie di incognite. Tutt’altro che remote: di qui a unanno potrebbero diventare il programma dell’Italia, se la formazione di BeppeGrillo avrà i numeri per chiedere la guida del governo.
L’aspetto che colpisce,nell’elenco stilato da Manlio Di Stefano e da Alessandro Di Battista, è unastrategia declinata soprattutto in negativo. L’obiettivo immediato è quello diuna disdetta dei trattati e delle alleanze internazionali, oggi in affanno; ela loro sostituzione con una nebulosa strategica che di fatto, però,candiderebbe il nostro Paese al ruolo di «nuova Grecia» al cospetto delleistituzioni di Bruxelles e della Bce.
Il troncone più consistente di quelli chevengono definiti populisti si vede come «buon interlocutore degli Usa e dellaRussia». Chiede un recupero di sovranità contro i «dettami di entitàsovranazionali». E ritiene che occuparsi di «permanenza o di alternativaall’eurozona» sia da «forza politica responsabile». Idem la decisione di fareuscire unilateralmente le truppe italiane dall’Afghanistan; e di valutare sesia il caso di rimanere o no nell’Alleanza atlantica. «Non siamo populisti,crediamo nell’autodeterminazione dei popoli, nella pace e nel disarmo», spiegaDi Battista. «All’estero ci prendono sul serio e abbiamo moltissime richiestedi incontri da ambasciatori e da ministri».
L’accusa di essere «filotrumpisti»viene respinta. Idem l’altra, di essere «filorussi solo perché sosteniamo undialogo con Putin in chiave antiterrorismo». Ma è l’antieuropeismo a seminarediffidenze. Il programma dei seguaci di Grillo ignora le obiezionicostituzionali e finanziarie legate a un tentativo di uscita dalla monetaunica: inflazione galoppante, paralisi del sistema bancario, isolamento inEuropa. Prevale l’idea di un Paese ripiegato su se stesso eppure, secondo ilMovimento Cinque Stelle, in grado di riscrivere le regole della politicainternazionale.
Il metodo col quale la strategia è stata lanciata è il solito: affidareagli iscritti la decisione online sulle priorità di politica estera. Lo schemaricalca sul piano internazionale quello usato in Italia: le vecchie ricette nonvanno, bisogna rifarle. L’offensiva non va sottovalutata.
Anche perchénell’escludere alleanze precostituite, i Cinque Stelle ritengono di avere uninterlocutore: il Vaticano di Francesco, che con la Russia di Vladimir Putinnon ha interrotto il dialogo; e che ha di fronte un’America distante dallastrategia della Santa Sede. «Siamo sull’orlo della Terza guerra mondiale apezzetti di cui parla il Papa? Sì», secondo Di Battista. In parallelo ilvicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del M5S, cita la Cei per attaccarei negozi aperti durante le feste. E il quotidiano Avvenire mette le sue parolein prima pagina.

Piccoli centri e campagne paiono risultare più fragili e indifesi delle città di fronte al vento di Vandea che soffia in tutto il mondo.

la Repubblica, 18 aprile 2017 (c.m.c.)

Come per la Brexit. Come per l’elezione di Trump. Come potrebbe succedere tra pochi giorni in Francia se vincesse Marine Le Pen. Erdogan ha vinto grazie al voto delle “campagne”, della periferia. Era temuto, atteso, scontato. È la ricorrente vendetta dei “dimenticati”, dai tempi della Vandea francese all’ascesa di Hitler nelle piccole città prima che a Berlino.

Ma la grande novità è che questo vento di Vandea che soffia in tutto il mondo ha avuto una battuta di arresto. È stato frenato dalle città. Erdogan è stato a sorpresa tradito dalla “sua” Istanbul, da Smirne, persino da Ankara. Le tre città più popolose e dinamiche, che gli devono lavori pubblici e prosperità, gli hanno detto no. Tanto che la sua vittoria al referendum sembra quasi una sconfitta.

Una vittoria sul filo dell’uno per cento o giù di lì è già qualcosa di arrischiato e discutibile in una democrazia normale e consolidata. Che un margine così ridotto porti ad uscire o meno dall’Unione europea suscita perplessità. E ancora più il fatto che possa diventare presidente degli Stati Uniti un candidato che ha avuto 3 milioni e mezzo meno (sì in meno, non in più) della sua concorrente. Dipende dalle regole. Se le regole non vanno si possono cambiare, e comunque mai a partita in corso. A nessuno passerebbe per la mente di contestare il referendum britannico o le presidenziali Usa. Al contrario, un margine così ridotto diventa un problema in una democrazia così e così, in un Paese come la Turchia dove fino al 1945 si votava per un solo partito, e dove per decenni si sono periodicamente alternati elezioni più o meno libere e colpi di Stato militari.

E questo indipendentemente dai sospetti e dalle accuse di brogli. Le schede immediatamente e ufficialmente contestate sono un numero pari a quelle che avrebbero potuto decidere in senso esattamente opposto la consultazione. Quelle “irregolari”, perché prive del timbro di convalida, sarebbero addirittura un terzo del totale. E quanto alla segretezza lasciava a desiderare. Siamo impressionati dagli arresti, dai licenziamenti degli oppositori. Si sa molto meno di quanto siano diventati sistematici il controllo, la sorveglianza e la delazione di massa.

Già parecchio prima del fallito golpe del luglio scorso Erdogan aveva ufficialmente invitato i sindaci dei centri minori ad istituire la sorveglianza capillare dei concittadini, su quel che fanno ma anche su quel che dicono e pensano. Bastano una battuta o un “mi piace” azzardato a una vignetta o un giudizio su Facebook per essere convocati al commissariato a spiegare l’ “insulto” al Presidente, il vilipendio della nazione turca, oppure il sostegno al “terrorismo”. Figuriamoci le conseguenze che si possono temere, specie in un piccolo centro di provincia, se si viene additati come malvotanti.

Il referendum di domenica avrebbe dovuto confermare il cumulo di tutti i poteri nelle mani del presidente della Repubblica, cioè di Erdogan: fondere presidenza e governo, consentirgli di nominare i giudici, renderlo immune a qualsiasi persecuzione giudiziaria, qualsiasi forma di impeachment o rimozione, e soprattutto togliere ogni limite alla durata del mandato. Erdogan ci teneva. È stata la sua ossessione da almeno un decennio a questa parte, forse addirittura sin da quando nel 2002 da sindaco di Istanbul era stato eletto capo del governo, certo da quando, scaduti i mandati, nel 2014 aveva dovuto accontentarsi di fare il Presidente della Repubblica, carica allora alquanto simbolica.

Era stato fermato una prima volta nel 2014, quando le urne gli avevano negato la maggioranza parlamentare. Ci aveva riprovato l’anno dopo, nel 2015, recuperando, grazie al voto nelle “campagne” una maggioranza sufficiente a formare il governo, ma non quella necessaria a far passare modifiche costituzionali. Aveva bisogno di una maggioranza di 2/3 per cambiare direttamente la Costituzione, di una maggioranza di almeno 2/5 per poter fare un referendum sulla Costituzione. Non era riuscito ad ottenere alle urne né l’una né l’altra. Per riuscire ad indire almeno il referendum ha dovuto liberarsi dei deputati curdi, togliendogli l’immunità parlamentare e mandandone decine a processo come sostenitori del “terrorismo” curdo.

Pensava a questo punto che la strada fosse spianata. Prevedeva un margine di 60 per cento o oltre. Si deve accontentare di un vantaggio in pochi decimali. Dal suo punto di vista è una sconfitta. Tanto che ha dovuto affrettarsi a dichiarare, contrariamente al suo stile, che il risultato «è una vittoria per tutti, sia quelli che hanno votato sì sia quelli che hanno votato no». In teoria, con le modifiche costituzionali a cui il referendum dà ora il via libera, Erdogan potrebbe restare ininterrottamente al potere fino al 2029. Si tratta di un problema che si era posto ad altri leader di democrazie “per modo di dire”, che ad un certo punto si erano dati regole simili a quella di democrazie consolidate come gli Stati Uniti, dove vige il limite di due mandati. Putin l’aveva risolto, come è noto, inventando l’alternanza tra presidenza e capo del governo, che ha dato vita alla staffetta con Medvedev.

La cosa che impressiona è che persino in Cina ora Xi Jingping muoia dalla voglia di estendere i suoi mandati oltre quelli regolamentari al punto di voler cambiare le regole al prossimo Congresso del Pcc. I suoi due predecessori non avevano osato e si erano lasciati regolarmente sostituire alla scadenza. Mao non ne aveva bisogno. Era presidente a vita. Deng non aveva incarichi di Stato ufficiali: gli bastava e avanzava essere il presidente della Commissione militare del partito, cioè il capo delle Forze armate. In Cina peraltro non hanno mai avuto problemi di elezioni o referendum: semplicemente da quando le loro campagne avevano preso le città, «con la canna del fucile» come soleva dire il vecchio Mao, non si vota più, e se si votasse probabilmente i risultati sarebbero plebiscitari a favore di chi è già al potere.

«Al PAC di Milano

Mea culpa dello spagnolo Santiago Sierra. Dai primi lavori di scultura alle opere land fino ai video, i temi sono gravi, il tono tragico ma asciutto. Interessante è l’ambiguità del rapporto con i disvalori del neoliberismo». il manifesto, 16 aprile 2017 (c.m.c.)

Nell’ultimo mezzo secolo l’arte ha enormemente sviluppato la sua propensione a immergersi nella realtà sociale e a riflettere sulla dimensione politica che la caratterizza nei suoi aspetti paradigmatici (trauma, abiezione, precarietà, ecc.). Lo scarto tra un’operazione artistica e una prettamente cosmetica, di design, sta proprio in questa attitudine, che in buona misura deriva dalle metamorfosi della produzione nell’era del capitalismo post-industriale.

L’arte si adegua ai mutati assetti adottando nuovi parametri estetici e l’opera, diventata contingente, relazionale, effimera e immateriale, rispecchia i cambiamenti nel mercato del lavoro. Un fenomeno tutto sommato ovvio. Ma l’incontro tra arte e politica è sempre controverso perché innesca una reciproca contaminazione: l’estetizzazione del politico rischia di offuscare gli obiettivi della lotta e quindi ridurre ogni genuina azione politica a uno spettacolo, inefficace rispetto all’ipotesi di un vero cambiamento delle cose.

D’altro canto, la politicizzazione dell’artistico può spingere l’artista negli ingranaggi di un dispositivo ideologico per cui anche l’opera di denuncia più radicale finisce per essere strumento di legittimazione del potere. C’è un’ambiguità di fondo in ogni discorso artistico sulle storture del mondo contemporaneo dovuta ai presupposti del discorso stesso; artisti e critici devono confrontarsi con la sfida di legittimare la pratica artistica dentro e contro la logica capitalista che la sostiene.

E proprio «sul terreno impervio della critica alle condizioni sociopolitiche della contemporaneità» si muove Santiago Sierra (1966), anarchico e libertario, del quale il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ospita, fino al 4 giugno, Mea culpa, rassegna antologica a cura di Diego Sileo e Lutz Henke (catalogo Silvana Editoriale).

La mostra riunisce materiali dai primi anni novanta a oggi, tra cui Riga di 250 cm tatuata su sei persone retribuite (1999), Parola distrutta (2010-’12), Sepoltura di dieci operai (2010), Il graffito più grande del mondo (2012), Denti degli ultimi gitani di Ponticelli (2009), Bandiera nera (2015). In effetti si tratta perlopiù di documentazione (audiovisiva, fotografica o letteraria) di installazioni site specific e performance; ma oggi lo statuto dell’opera include la forma archivistica e consente di trasferire il valore artistico dall’azione o dall’oggetto alla loro traccia. L’allestimento è ben ritmato, elegante nella sua compiaciuta fissazione per il bianco-nero; non segue un ordine cronologico e non se ne sente l’esigenza: dalla severità dei primi lavori di scultura, alle vastità delle opere land fino ai video, i temi delle opere sono gravi, il tono è tragico seppure asciutto, minimalista.

Comunque, al di là dei connotati tecnici e concettuali, Sierra è interessante per gli interrogativi legati all’efficacia politica del suo lavoro e alla sua posizione rispetto a ciò che dichiaratamente avversa. In questo senso, è un artista emblematico dei limiti della pratica artistica odierna. Un’opera di Sierra è allo stesso tempo una violenta accusa al sistema neoliberista e una merce con un plusvalore ratificato da prestigiose istituzioni culturali e monetizzato da ricche gallerie internazionali. Soprattutto, la condanna all’alienazione e allo sfruttamento del lavoro viene spesso espressa riproducendo nel rapporto con gli occasionali performer le medesime condizioni di sfruttamento.

Non per nulla, fin dal titolo l’esposizione pone la questione della responsabilità, a cominciare da quella di chi intenda affrontare certi temi. Mettendo in scena le iniquità socio-economiche direttamente dentro lo spazio della galleria, Sierra coinvolge l’istituzione come parte attiva in un meccanismo di cui, oltre all’artista stesso, beneficiano gli spettatori, che così alimentano indirettamente il processo. La mostra è stata anche l’occasione per produrre un nuovo lavoro, organizzando una performance da documentare e quindi rielaborare in vari medium e formati in vista di future esposizioni.

La cronaca: il giorno stesso del vernissage vengono distribuiti nel centro di Milano dei coupon che promettono «alle prime 1.000 persone che parteciperanno a un progetto artistico» un compenso di 10 euro pagabili al portatore la sera stessa presso il PAC. Una lunga fila si forma davanti ai cancelli già qualche ora prima dell’apertura. Dopo un attimo di concitazione iniziale, le persone accedono al cortile del museo e si dispongono ordinatamente in riga. Nel frattempo entra anche chi è venuto soltanto per la mostra. Ha inizio la distribuzione del denaro e i detentori di coupon si avvicinano uno alla volta a un banco, dietro cui sta il conservatore del PAC che consegna loro la banconota. L’evento si svolge senza complicazioni, in sé banale e noioso come una processione di passeggeri per il check-in all’aeroporto. Ma quando le cose sono già a buon punto compare un furgone del reparto mobile della polizia, forse male informata su quanto stava accadendo.Il rapido ma inascoltato intervento di uno dei curatori (Henke) e l’intempestiva azione dei responsabili del PAC non risparmia noie gratuite a chi di problemi ne ha già tanti e i «partecipanti al progetto artistico», tra cui molti immigrati di colore, vengono trattati come molesti intrusi a una festa privata. L’incresciosa situazione si risolve solo quando gli agenti si rendono conto dell’inesistenza di reali minacce. In casi come questi, Sierra respinge le critiche affermando di limitarsi a rendere visibili le condizioni attuali. Sfruttamento dello sfruttamento

«». Lo ammette uno che è stato corresponsabile delle scelte che hanno portato a questo risultato. il manifesto
.

Ivan Cavicchi lancia l’allarme a proposito della possibilità che si verifichino ulteriori arretramenti del carattere universalistico del Servizio Sanitario Nazionale. Non ho dubbi a rispondere che è in effetti ciò che il Pd renziano propone in modo quasi ostentato. Si tratta di una presa in carico dei cittadini affidata ad un generico welfare che si dimentica di individuare nello Stato il garante della responsabilità e della risposta ai bisogni.

Il disegno, per la verità, inizia a formarsi già nei decenni scorsi quando si arena la battaglia della sinistra per definire, dopo la conquista della sanità pubblica, il carattere universalistico dell’intervento dello Stato. Gli anni delle politiche di austerità, cominciate con il governo Berlusconi-Tremonti e con i superticket, seguite poi dai pesanti tagli di Monti alla spesa sanitaria e dal sostanziale azzeramento di quella sociale, hanno finito per dare un colpo al diritto alla salute e all’assistenza nel nostro Paese.

Anche le più recenti politiche di rifinanziamento del welfare sono state caratterizzate da una scarsità di risorse e dall’idea che laddove la tutela dello Stato non può arrivare, sia allora dato spazio all’iniziativa privata, al terzo settore, al volontariato, all’impresa che con i contratti vuole “erogare” servizi ai propri dipendenti.

In questo quadro generale si è poi praticata una politica di detrazione dal costo del lavoro degli oneri per le mutue integrative, incrementando così l’idea che ognuno faccia e si salvi come può. Conta poco riaffermare – come fa Renzi – il carattere di cittadinanza del welfare sganciato dalle categorie e dal lavoro, ciò che conta è che i cittadini hanno capito che per tutelare la propria salute e ottenere un livello adeguato di protezione sociale, svolgono un ruolo sempre più importante le aziende di cui sono dipendenti, il territorio in cui vivono, le assicurazioni private che si pagano.

A completare l’opera – oltre ai ticket, ormai indispensabili per avere accesso alle prestazioni specialistiche in tempi utili – si è aggiunto il grande attacco culturale contro il SSN, che ha portato ingiustamente a identificare le grandi infrastrutture civili quali fonti di ogni male, di sprechi e di corruzione. In questo modo si è convinto molti, anche a sinistra, che solo la strada della privatizzazione fosse quella praticabile.

Colpisce ad esempio che lo Stato italiano non sia ancora in grado di garantire l’erogazione di un farmaco salva-vita come quello contro l’epatite C, capace di eradicare la malattia e quindi fondamentale per la salute pubblica.

È giusto avere consentito di poter acquistare individualmente il farmaco all’estero ma siamo di fonte a un’ulteriore conferma di una sanità fai-da-te: chi non può aspetta e resta ammalato.

Sono decenni che si è lavorato per costruire questa ideologia e trasformarla in senso comune. Renzi finisce per accettare definitivamente questa realtà e nella sua mozione pare volerla incrementare al punto di vedere la salute pubblica e il welfare solo come un bene individuale, come un sostegno alla persona per incentivare “il rischio, la sua voglia di mettersi in gioco”, dimenticando che la salute è un diritto fondamentale e anche interesse della collettività.

In effetti, come denuncia Cavicchi, la defiscalizzazione degli oneri per l’assistenza integrativa può davvero diventare la porta con cui, facendo mancare le risorse al SSN, si costruisce una “gamba” privata per l’assistenza sanitaria che finirà per scaricare le prestazioni più costose sul pubblico, relegandolo a strumento per il soddisfacimento dei livelli minimi di servizio per i più poveri.

Ancora una volta è il paradigma culturale e politico che la sinistra ha il dovere di rovesciare per fermare questa deriva anti-universalistica del welfare. Il pensiero conservatore e di coloro che vogliono trarre profitti dalla salute dei cittadini sono lì a ripetere ancora una volta il vecchio, stucchevole e stupido adagio che con i cambiamenti tecnologici, dei farmaci e delle cure e con l’invecchiamento della popolazione non riusciremo a sostenere finanziariamente il SSN.

Ma ormai, come sanno bene i cittadini che per curarsi devono mettere mano al portafogli per ben 30 miliardi all’anno, il libero mercato della salute conta di più della salute pubblica. Lo hanno imparato anche negli Stati Uniti dove un «giovane» – Bernie Sanders – ha avuto il coraggio di parlare di socialismo e di sanità pubblica. Le due cose evidentemente stanno insieme perché la sanità pubblica è l’unico elemento di socialismo che sia stato finora introdotto. A noi spetta di non farlo cancellare.

Del resto, se hanno venduto lo Stato al Mercato, il pubblico al privato, la politica agli affari, di che si lamentano adesso? Cederanno, vedrai senatrice De Petris, cederanno, i "governanti" alle facce di bronzo. Articoli di Norma Rangeri e Andrea Colombo.

il manifesto 1° aprile 2017

GLI EROI DEL MERCATONE TELEVISIVO
di Norma Rangeri
Quando si tocca il portafoglio anche le vecchie volpi gettano la maschera. Così il gran cerimoniere del senso comune televisivo, Fabio Fazio, esce allo scoperto e si fa intervistare per protestare contro le indebite ingerenze della politica negli affari della Rai. Affari nel senso proprio dei milioni di euro con cui l’azienda remunera i conduttori dei programmi. Il popolare conduttore parla di un «vulnus insuperabile, la rottura del patto di fiducia tra viale Mazzini e chi ci lavora».

Il lacerante grido di dolore denuncia poi l’inaudito, perché fissare un tetto agli stipendi pubblici «significa affermare che il settore pubblico deve rinunciare alle eccellenze professionali che il mercato può offrire».

Il tetto maledetto di cui si discute corrisponde alla miseria di 240mila euro lordi l’anno, più o meno 10mila euro netti al mese per i dirigenti Rai come per tutti i dirigenti pubblici.

Va da sé che il teleutente, obbligato a pagare il canone per assicurare un piatto di minestra a questi poveri lavoratori, sarà certamente preso da un sentimento di solidarietà verso questi dipendenti così ingiustamente colpiti da mamma Rai. E d’ora in poi guarderà ai fazio della tv come a dei poveri perseguitati.

Il coraggioso conduttore mostra finalmente il petto, e con sprezzo del ridicolo afferma di aver fatto una scoperta ancora più sconcertante dell’assalto al portafoglio, di aver cioè constatato «un’intrusione della politica nella gestione della Rai senza precedenti, chiedono di mandare via l’amministratore delegato, danno i voti ai servizi dei telegiornali…». Cose dell’altro mondo accadono alle nostre latitudini televisive e se non fosse per questa voce critica del piccolo schermo, saremmo rimasti a cuocere nella nostra italica ignoranza e non avremmo mai saputo che la politica dirige le danze del cavallo e del biscione.

Una cosa giusta, tuttavia, Fazio la dice: «Siamo pagati dalla pubblicità, non dal canone». Ecco sarebbe ora che chi è pagato dalla pubblicità andasse dove lo porta il conto in banca e che chi, invece, lavora in Rai lo facesse perché vuole offrire a chi paga il canone un servizio, informativo, culturale, di intrattenimento diverso dalla melassa che ci tocca vedere ogni giorno. A cominciare dalla domenica sera.

E non basta dire che c’è il telecomando per cambiare canale perché l’incestuoso rapporto tra partiti e televisione è semplicemente iscritto nel dna del sistema mediatico nazionale. Da Bernabei a Berlusconi la Rai è sempre stata il braccio ideologico del partito di maggioranza relativa, capace di permettersi anche qualche opposizione a sua maestà. Poi dagli anni ’80 del secolo scorso, polo pubblico e polo privato sono stati vasi comunicanti di un mercato inesistente, in un sostanziale duopolio-monopolio imperante. Alla Rai un canone e un tetto per la pubblicità, a Mediaset pubblicità senza confini, in un mercato fittizio presidiato dai partiti. Vasi comunicanti e indistinguibili nella comune rincorsa dell’audience.

In pratica Fazio sostiene che i programmi di cucina della Rai sono di ineguagliabile qualità rispetto a quelli della concorrenza e per questo è giusto che chi li conduce sia pagato anche fino a 3 milioni di euro. E che anche il suo programma, che cucina altri tipi di ingredienti, dall’ultimo presidente del consiglio all’ultimo disco, meriti di essere considerato un valore aggiunto dell’azienda pubblica. Un valore aggiunto senz’altro. Per lui e i suoi cari.

LE «STAR» DELLA RAI
SUL TETTO CHE SCOTTA
FAZIO GUIDA LA RIVOLTA
di Andrea Colombo

«Tv. Dopo il no dell’avvocatura a limiti dei compensi, la parola passa ora al governo. Il conduttore di «Che tempo che fa» contro il tetto dei compensi fissato a 240 mila euro l’anno. Giletti lo segue a ruota»

Fino a che non si arriva ai quattrini lo sfogo di Fabio Fazio su Repubblica è ineccepibile. Come si fa a negare che negli ultimi anni, non mesi come dice la star di Che tempo fa, si sia assistito a «un’intrusione della politica nella gestione della Rai che non ha precedenti»? Solo che Mr. Valium, come ebbe a definirlo Bono degli U2, non allude alla tasformazione del servizio pubblico, con il suo programma in primissima fila, in grancassa personale di Matteo Renzi. Quella non sembra creargli anzi alcun problema. La nota dolente è che «la politica si è intromessa nella gestione ordinaria di un’azienda, addirittura nei contratti tra viale Mazzini e gli artisti». Tradotto in italiano significa che la politica minaccia la sua cospicua prebenda, con l’obiettivo di tagliarla fino a 240mila euro. Una miseria.

Fazio non è solo. Sulla principale testata concorrente, il Corriere della Sera, Massimo Giletti batte sullo stesso tasto, con una punta ricattatoria in più: «Se il tetto venisse applicato qualcuno potrebbe pensare che non è conveniente rimanere nella tv pubblica». Del resto anche Fazio, pur con l’abituale stile soave, aveva messo sul piatto della bilancia la medesima minaccia. Permanenza garantita fino a maggio. Poi si vede, anzi si conta, e dar vita a una produzione indipendente potrebbe rivelarsi un’ottima idea.

I conduttori a rischio di drastico impoverimento premono su una breccia già aperta dal parere dell’Avvocatura dello Stato, richiesto dal governo. Verdetto drastico: benissimo il tetto in questione per manager e dipendenti Rai, ma non per le star dal momento che, in forza di una norma varata con la Finanziaria del 2007, «la prestazione artistica o professionale che consenta di competere sul mercato» non deve essere soggetta a vincoli di sorta. Poco male se il risultato è un paradosso per cui i superpagati dall’azienda pubblica sono apprezzati grazie alle imperiose leggi del mercato, ma allo stesso tempo sono anche messi al riparo dalle intemperie proprie del mercato stesso.

La politica replica al j’accuse di Fazio almeno in apparenza a muso duro. Anzaldi, il renzianissimo segretario della Commissione di vigilanza, giura che «il Pd non ha smarrito la strada: non abbiamo riformato il canone per permettere a una piccola casta di sopravvivere». Brunetta compensa il noto malanimo di Forza Italia per il presentatore più apertamente Pd che ci sia chiamando in causa anche il ben più amato da Arcore Bruno Vespa: “Vogliamo chiarezza sui maxstipendi della Rai, per i dj come Fazio e per i giornalisti come Vespa. Se vogliono il mercato che vadano sul mercato». I toni più duri arrivano dall’M5S, che ironizza sul «coraggio da leone» che il solitamente mansueto Fabio scopre «solo quando gli toccano i soldi: non risulta che per lui la lottizzazione fosse un problema», e soprattutto da Sinistra italiana.

Per la capogruppo al Senato Loredana De Petris, “la rivolta delle star è scandalosa. Sarebbe però ancora più grave e invierebbe un messaggio devastante se il governo cedesse a pressioni e ricatti». Il governo farà sapere se intende cedere oppure no solo il 15 aprile. Per ora mantiene il silenzio ed evita di replicare all’intemerata di Fazio. Nel cda, dal quale proviene la delibera della discordia, ci sono posizioni diverse. Franco Siddi ammette sì che «tetto o no i compensi milionari dovranno essere valutati con grande attenzione», però boccia la strada sin qui indicata perché “ha introdotto una camicia di forza», rischia «di privare la Rai dei migliori talenti sul mercato» e «di essere un favore alle componenti commerciali del sistema».

Arturo Diaconale, anche lui consigliere Rai, è di parere opposto: «Le dichiarazioni di Fazio e Giletti sono la conferma che dobbiamo mantenere la posizione. Se vogliono stare sul mercato, allora ci stiano. Se ci sarà un intervento del governo ci atterremo, ma da solo il parere dell’Avvocatura per noi non basta. Per l’applicazione della delibera la deadline è aprile. Il governo ha un mese».

Entro il mese, quasi certamente, l’intervento del governo ci sarà. In fondo, ben prima delle star, era stato il Mef a suonare l’allarme. Urge smerciare all’estero, e di fronte a questo imperativo non c’è tetto che tenga.

«La politica continua a occuparsi di gare e appalti. La corruzione nasce qui". Il presidente dell’Autorità Anticorruzione parla di Consip e di Romeo. E sui politici sotto inchiesta dice: "Si valuti, a prescindere dagli interventi giudiziari, se sono compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese"». la Repubblica, 13 marzo 2017

Lei è qui da tre anni. Sempre sulla ribalta. Troppo, dicono i suoi detrattori. Non è pessimista sulla corruzione in Italia. Ma come la mette con Romeo e l’inchiesta Consip?
«Non ho mai detto che il contrasto alla corruzione sarebbe stata una passeggiata e non ho neppure lontanamente pensato che potessero bastare tre anni di Anac per invertire il trend. Abbiamo avviato un percorso, che è ancora lungo, tortuoso, irto di ostacoli. Vicende come quelle di Consip non saranno certo le ultime che emergeranno in questo Paese. La corruzione è tutt’altro che vincibile domani o dopodomani».

Decine di politici nelle carte giudiziarie su Consip. Dopo averle lette lei vede ancora positivo?
«Resto ottimista e mi attengo ai fatti. C’è un’indagine molto seria tra Napoli e Roma che ha fatto emergere allo stato un unico, seppur grave, episodio di corruzione che potrebbe lasciar intravedere altro. Per parlare di sistema c’è bisogno di attendere gli sviluppi giudiziari».

Non sta sminuendo troppo?
«Assolutamente no, sono abituato a ragionare da magistrato e a pensare che i fatti sono quelli accertati giudiziariamente, mentre le ricostruzioni sono utili sul piano sociologico ».

Da quegli atti non emerge un sistema in cui corrono in parallelo appalti e politica?
«Il vero problema è che una parte della politica continua a occuparsi di appalti e gare pubbliche. Se questo non ci fosse tutto sommato avremmo una corruzione fisiologica».

Avremmo pure imprenditori che cercano sempre di corrompere...
«Contesto assolutamente quest’affermazione. Se fosse davvero così dovremmo rinunciare a qualsiasi possibilità di scardinare la corruzione. Il punto vero è garantire agli imprenditori onesti ed estranei alla politica la possibilità di accedere agli appalti importanti, quelli che contano».

Guardi Bocchino, un ex politico usato da Romeo che arriva a lamentarsi degli appalti troppo concentrati nella Consip perché le chance di dividere la torta si riducono.
«Questa storia evidenzia un’enorme ipocrisia. I grandi imprenditori hanno bisogno di utilizzare meccanismi lobbistici per promuovere la loro attività. Ma la parola lobby in Italia è sempre stata intesa in senso negativo perché non si è mai avuto il coraggio di affrontarla e regolarla».

Bocchino vuole arrivare a lei e ottenere la sua benevolenza.
«Sui giornali ho letto cose fantasiose, per esempio che mi avrebbe cercato Fini, falso perché per telefono non ci ho mai parlato, né l’ho mai incontrato tranne in un’occasione pubblica in cui ci siamo appena salutati».

La lettura delle intercettazioni di Bocchino però è chiara…
«Quello poteva essere il loro intendimento, ma non ci sono riusciti. Su questo sfido chiunque a dimostrare che il tentativo di avvicinamento a me sia anche solo iniziato».

Il sindaco di Napoli De Magistris dice di aver tolto a Romeo la gestione del patrimonio. Perché Consip non lo ha fatto?
«Romeo ha partecipato e vinto gli appalti, in molti casi oggetto di ricorsi al Tar che li ha confermati. Romeo è stato assolto con formula piena nel caso Global Service. Se non ci sono condanne, un soggetto non può essere escluso. Il singolo può decidere di non frequentare un imprenditore chiacchierato, e l’uomo delle istituzioni fa bene a non farlo, ma sul piano formale il soggetto assolto è definitivamente riabilitato».

Pure lei ha notato anomalie nelle gare Consip di Romeo. Perché non le ha fermate?
«Le abbiamo evidenziate anche pubblicamente, ma si trattava di rischi che di per sé non erano tali da far pensare alla corruzione ».

È giusto che l’ad di Consip Marroni resti al suo posto?
«I magistrati lo considerano fino a oggi un testimone attendibile. E chi collabora con la giustizia in modo corretto e leale fa il suo dovere; non spettano a me valutazioni diverse, di opportunità connesse anche alla serenità di svolgere un ruolo tanto difficile; è compito del ministro dell’Economia e dello stesso Marroni ».

Ha parlato con lui?
«Anac ha fatto accertamenti su molte gare di Consip. Ora Marroni ci ha chiesto alcuni pareri. Risponderemo analizzando le questioni giuridiche, ma non ci sostituiremo certo alle valutazioni che spettano a Consip».

E Lotti? Dovrebbe farsi da parte come Renzi aveva chiesto per Idem e Cancellieri?
«Su questo non ho nulla da dire perché sono in ballo valutazioni politiche da cui è necessario che mi tenga lontano. In generale, come ho detto tante volte, non basta un avviso di garanzia per imporre il passo indietro, ma la politica deve valutare se i fatti, a prescindere perfino da interventi giudiziari, siano più o meno compatibili con ruoli di responsabilità per il Paese».

Renzi ha puntato molto su di lei. Ora che il padre è indagato e Lotti pure, vede ricaschi negativi?
«Renzi, da premier, non ha in nessun modo interferito nella mia attività. Personalmente credo sia giusto aver rispetto per una persona che sta vivendo un momento difficile. Le valutazioni complessive sulla vicenda potranno essere fatte quando si diraderà la cortina fumogena delle chiacchiere e i fatti saranno portati all’attenzione dei giudici».

Lei è napoletano come Romeo. Come si comportava con lei?
«Non ho avuto alcun rapporto con lui che non fosse puramente formale e l’ho conosciuto quando la sede dell’Avcp passò all’Anac e avemmo l’esigenza di rescindere il contratto ».

Possibile? Per anni a Napoli senza conoscerlo?
«Ho saputo dell’esistenza di Romeo solo quando è stato arrestato per la vicenda Global Service e ho visto la sua foto per la prima volta sui giornali».

A leggere le carte dell’inchiesta risulta evidente il suo tentativo di avvicinarla. Il convegno del Cresme, la consulenza a suo fratello Bruno, le telefonate di Bocchino con Fini. Lei cosa ha fatto?
«Da quando sono magistrato sono attentissimo alle frequentazioni, non vado a feste, pranzi o cene con nessuno. I rapporti istituzionali sono sempre pubblici o passano per l’Anac. Al convengo del Cresme sono andato e ci tornerei perché si discuteva di un tema di grande interesse per l’Anac, c’erano relatori importanti, mi sono trattenuto per il mio intervento e sono andato via. Credo sia doveroso per una persona che ha la mia carica esprimere la propria opinione non certo in conventicole private ma in convegni pubblici. Quanto alla vicenda di mio fratello, Bruno ha avuto un incarico professionale per pochi mesi per aver conosciuto Romeo per via della vicinanza dei rispettivi studi, ma non si è mai occupato di vicende che neanche lontanamente interferivano con Anac. E io ne ho avuto notizia solo quando ne hanno parlato i giornali».

Una sua “nemica”, Carla Raineri, ci vede un conflitto di interesse.
«Non considero la dottoressa Raineri una mia “nemica”. A titolo personale non ho fatto nulla contro di lei. Il consiglio dell’Anac ha espresso un parere sulle modalità della nomina a capo di gabinetto che la dottoressa avrebbe ben potuto contestare in via giudiziaria o amministrative. Quelle sul conflitto di interesse sono insinuazioni prive di ogni fondamento e sull’incarico sia io che mio fratello, come fanno le persone per bene, abbiamo riferito tutto quello che c’era da dire all’autorità giudiziaria di Napoli».

Quanti Romeo ci sono in giro che cercano di circuire Cantone?
«Credo ce ne siano tanti, ma io sono tranquillo, e sono sicuro che gli eventuali tentativi non vanno da nessuna parte».

Sarà la Procura nazionale anticorruzione il suo prossimo incarico?
«Non credo che una simile struttura sia necessaria. E al mio prossimo incarico in magistratura penserò a partire dalla fine del 2019 quando si avvicinerà l’aprile 2020, mese in cui scade il mio mandato non rinnovabile all’Anac».

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