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«Nasce "Democratica", dopo la rottamazione dell'"Unità". Il primo numero riporta una citazione di Schröder al congresso della Spd: "Venceremos!": una sintesi tra Inti-Illimani e social-liberismo».

il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)

L’ non c’è più, al suo posto arriva «Democratica». Questo è il nome della pubblicazione multimediale di otto pagine, in formato pdf, lanciata ieri dal palco del teatro Linear-Ciak di Milano. Sarà scaricabile dalla piattaforma «Bob» – quella che nelle intenzioni del Pd dovrebbe far concorrenza al «Rousseau» del Movimento 5 Stelle – e consultabile sui siti unità.tv e su quello del partito democratico. Ci lavoreranno sette giornalisti dell’Unità.tv. «» è concepito come un «quotidiano politico» e sarà pubblicata ogni giorno alle 13,30. Lo dirigerà il deputato Pd Andrea Romano, già con-direttore con Sergio Staino dello storico quotidiano «fondato da Antonio Gramsci», già quotidiano di riferimento del Nazareno, ormai chiuso da settimane.
Sfogliando il pdf di «Democratica» diffuso il giorno prima dell’assemblea dei circoli Pd a Milano – la contro-piazza renziana di oggi contrapposta a piazza San Silvestro a Roma di Pisapia e scissionisti di Mdp (D’Alema, Bersani & Co.) – colpisce il sottotitolo: «». La citazione degli Inti-Illimani, in spagnolo, è di Gerhard Schröder al congresso della Spd a Dortmund. Il bannerino cambierà, forse, ogni giorno, ma colpisce l’incongruità della frase: allude a Podemos o ai socialisti spagnoli ora guidati dal rieletto Sanchez su un programma diverso dal social-liberismo per cui è ricordato ancora oggi Schröder?
L’ex cancelliere tedesco è ricordato per l’«agenda 2010» e le leggi Hartz (I-IV) che hanno creato i «mini-jobs». Quelle leggi che l’attuale candidato Spd alla cancelleria Martin Schulz intende cambiare per eccesso di precarietà e impoverimento. Schröder è noto per avere accettato, pochi mesi dopo la fine del mandato, la nomina di Gazprom a capo del consorzio Nord Stream AG, il gasdotto russo-tedesco sotto il Mar Baltico e per essere stato consulente per lo sviluppo dell’attività di Rothschild nell’Europa centrorientale. Non diversamente dall’ex presidente della Commissione Ue Barroso, già presidente non esecutivo e advisor di Goldman Sachs, Schröder è considerato un esempio di commistione tra affari pubblici e interessi privati. Ora è diventato anche il riferimento politico-ideale del primo numero del nuovo quotidiano del Pd.
Un contributo alla confusione politico-ideologica (attardato neoliberismo da Terza Via o allusiva socialdemocrazia laburista? Blair o Corbyn?) che sta attraversando il Pd dopo la batosta delle amministrative, ad appena due mesi dal congresso che ha reincoronato Renzi ma non ha fatto passare i maldipancia ai «tenori» del partito scottati dalla sconfitta al referendum del 4 dicembre. «Non mi hanno detto nulla, hanno fatto tutto di nascosto – ha reagito l’ex direttore de L’Unità Sergio Staino – mentre chiedevo incontri ai rappresentanti Pd, stavano preparando questa nuova iniziativa, proprio con colui che era il mio condirettore e che avevo allontanato perché rappresentava l’antigiornalismo in persona. Mi ha fatto difficoltà ogni volta che pubblicavo pezzi critici con Renzi». «Mi sarebbe piaciuto che Staino avesse detto “mi dispiace, ho fallito come direttore di un quotidiano di cui non sono riuscito ad aumentare le copie vendute”, invece di prendersela con gli altri, ma ognuno ha il suo stile» ha replicato Romano.
Schermaglie che trovano nel comunicato del comitato di redazione dell’ un chiaro riferimento polemico: il Pd e il suo segretario Renzi. «Il 30 luglio 2014 la prima pagina del nostro giornale recitava “Hanno ucciso l’Unità” – sostengono i giornalisti – Due anni dopo si svelano gli autori del delitto perfetto, quello di allora e quello di oggi». «Il giornale non è più nelle edicole perché gli azionisti di maggioranza Guido Stefanelli e Massimo Pessina fra i tanti non hanno saldato i debiti con lo stampatore, il Pd (che della società editrice del giornale è socio al 20%) lancia il suo nuovo quotidiano on line senza ancora aver fatto nulla di concreto per garantire ai dipendenti almeno il diritto agli ammortizzatori sociali».

Lla Repubblica, 27 giugno 2017, con postilla

C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No.

Eppure - è difficile negarlo - la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro.

È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma. Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore - dopo molti anni -, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia.
E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella).
Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza - oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali - l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni).
Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile.
È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato.


Sostiene Crainz: "Dopo Berlusconi e Monti, Renzi avrebbe dovuto cambiare la rotta". Ma il ragazzo di Rignano non poteva non seguire la rotta che altri, lassù al piano più alto, avevano già tracciato per Berlusconi, Monti e Renzi.

«doppiozero, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

Uno sciopero generale del voto. Non trovo altra espressione per descrivere queste amministrative d'inizio estate. Sciopero generale dell'elettorato nel suo complesso, col livello record dell'astensione schizzata quasi ovunque sotto la dead line del 50%. E sciopero generale dell'elettorato PD in particolare, con una vera e propria fuga di massa dal partito di Matteo Renzi pressoché ovunque, a cominciare dalle sue tradizionali roccaforti.

Il PD – e con lui il centro-sinistra – perde male Genova (più di dieci punti di distacco). Perde male – malissimo – La Spezia (venti punti di distacco). Cade Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d'Italia”, con 15 punti di distacco. E, analogamente, il “feudo” di Pistoia ritenuto sicuro (ancora 10 punti). Nemmeno L'Aquila, dove pure al primo turno si era sfiorato il successo, resiste (e il volto sconcertato di Cialente testimonia di uno shock difficile da elaborare). E poi Alessandria, Asti, Piacenza, Carrara (quest'ultima passata agli odiati 5Stelle)... Su 25 capoluoghi di provincia in cui si rinnovava il sindaco, il centro-sinistra resiste solo in cinque!

È però Genova la città simbolo di questa débacle. Genova la “Superba”. La città di Mazzini e di De André, dei Mille e di don Gallo, dei camalli e delle magliette a strisce. Genova che resistette ai Savoia e ai Tedeschi, che diede vita nel 1904 al primo sciopero generale del lavoro, quella del luglio '60 contro i fascisti e del luglio 2001 contro gli oligarchi della cattiva globalizzazione. Genova repubblicana e democratica, anticonformista libertaria e “di sinistra”. Genova se l'è presa Marco Bucci, manager in quota Salvini, ex guida boy scout e poi CEO in società internazionali, protagonista di una campagna elettorale all'insegna di Paolo Del Debbio e della “città che conta” (si ricorda la cena nella lussuosa villa Lo Zerbino – nomen omen – con un paio di centinaia di armatori, industriali, maggiorenti)... Bucci si porta in Consiglio 9 leghisti, 5 forzisti, 3 post-fascisti di Fratelli d'Italia, una composizione che mai si era data a Genova da quando si vota.

Il passaggio di mano è avvenuto in una sorta di deserto elettorale, con la maggioranza della città rimasta a bordo campo, delusa, distratta, scettica: ha votato appena il 42% degli aventi diritto, poco più di 200.000 elettori su oltre 500.000 iscritti alle liste elettorali, con punte particolarmente basse nella città di Ponente (Municipi V VI e VII), quella “rossa”, dei portuali e dei siderurgici, dove l'exit è particolarmente evidente e brucia di più a confronto con la Genova di Levante, i quartieri del Centro e del Bisagno, tradizionalmente “blu”, dove la partecipazione sta qualche punto percentuale più sopra...

Non è un fatto locale. È il dato generale nazionale, dove anche il voto di protesta sembra essersi arreso, persino quello “di vendetta”, che nell'intero Occidente ha sostenuto il vento impetuoso dei cosiddetti “populismi” (da Trump alla Brexit), sostituiti tutti, ora, da un atteggiamento di delusione e abbandono del campo, ben visibile nei numeri: in quel 54% di astenuti che una classe politica minimamente responsabile e consapevole dovrebbe guardare con terrore (è la misura di una de-legittimazione gigantesca).

E che invece occhieggia appena nei sottotitoli dei giornali, quasi una curiosità (una nuova lineetta nel Guinness dei primati) ma sta fuori dai pensieri dei politici e degli opinionisti che fanno coro, occupati solo a misurare il risultato in termini di seggi, posti, percentuali (i valori assoluti sempre più striminziti che stanno dietro quelle ripartizioni relative non interessano). Quello che interessa è solo la resa dei conti nel campo stretto dei pochi sopravvissuti in un'arena elettorale rarefatta: quanti sindaci a me a quanti a te. Quanti consiglieri, assessori, presidenti di partecipate, fedeli da accontentare, amici politici da sistemare...

È così che si isteriliscono le democrazie contemporanee, transitando senza quasi soluzione di continuità nella categoria-limbo della “post-democrazia” (messa a fuoco già una quindicina di anni or sono da Colin Crouch) e poi, a poco a poco, nella democrazia del leader (Ilvo Diamanti) e nell'oligarchia esecutoria, che sono, tutte, varianti di quella “democrazia senza popolo” di cui ha parlato, di recente, Carlo Galli: una forma ossimorica, auto-contraddittoria, che sintetizza bene la crisi di senso, oltre che di legittimazione e di autorevolezza, della funzione di governo in società che hanno fatto della “governabilità” il proprio mito e dogma.

Per questo appaiono in buona misura fuori luogo i toni di trionfo del centro-destra, sicuramente vincitore formale di questo round (se si considera appunto il numero di sindaci, maggioranze comunali, duelli vinti), ma galleggiante, anch'esso, su un vuoto di reale consenso, appeso a segmenti di società volatili e volubili, soprattutto privo di una qualche prospettiva credibile in rapporto alle incombenti elezioni politiche nazionali, dove le maggioranze che hanno conquistato i comuni non sono riproducibili, e le fratture interne alla coalizione sono sicuramente più profonde e tendenzialmente più forti dei comuni interessi.

E a maggior ragione sembrano fuori luogo – anzi fuori senno – le reazioni a caldo del Segretario del PD: di Matteo Renzi che appare a qualunque sguardo non appannato il vero perdente della partita. Quello che, celiando e twittando, ha portato il proprio esercito a una disfatta storica e che invece, a notte inoltrata, parla di risultati “a macchia di leopardo”, s'interroga garrulo sui “campanelli d'allarme” (“non si capisce per cosa e perché”: testuale), chiama i pochi sindaci “suoi” eletti per nome come fossero boy scout della propria sestiglia, e invita a “lasciar stare le chiacchiere”...

È sua, senza alcun dubbio, la firma sul disastro che ha travolto il centro-sinistra. Perché è vero che lo tsunami è passato su tutte le sue possibili varianti e combinazioni: quelle in cui il Pd si presentava solo, con candidati di stretta osservanza, e quelle dove era stata assemblata una coalizione da “campo largo”, le liste “renziane” e quelle mediate con Bersani, o anche con Pisapia, o con tutte le sinistre ulteriori (come a Genova, appunto). Ma è altrettanto vero che il denominatore comune in tutto questo variegato arcipelago è stata l'antipatia per il leader del partito maggiore.

La fuga da Renzi, appunto, sia nelle casematte del partito che nelle sue appendici periferiche, tra i “militanti provati” e i simpatizzanti occasionali, i voti d'opinione e quelli di tradizione. Matteo Renzi ha funzionato, per tutti, come un potente repellente, per la sua vocazione divisiva, il compulsivo bisogno di offendere e umiliare, i vorticosi voltafaccia e giri di valzer con troppi partner, le insistite menzogne o le verità negate, tra babbi, banche, appalti, commissioni d'inchiesta (promesse e affossate) e commissari europei (blanditi o sbertucciati), e l'insopportabile ostentazione di ottimismo in un Paese che diffusamente soffre.

Certo, sarebbe impietoso ridurre il problema alla sua persona. Si sono concentrate nella sconfitta del Pd tutte le sue “tare storiche”: gli equivoci della nascita, con Veltroni, in quella fusione fredda che mai ha funzionato, l'impotenza e la resa bersaniana agli idola fori del neo-liberismo e delle privatizzazioni, l'impotenza della parentesi montiana dei “tecnici”, sostenuti nella loro politica lacrime e sangue con un'ossequenza neppur richiesta (si ricordi l'equilibrio di bilancio scolpito in Costituzione) fino agli orrori del 2013, la frantumazione del partito divenuta evidente con i 101 fucilatori di Prodi all'elezione presidenziale, i trasformismi, le congiure di palazzo... E su tutto, la tendenza terribilmente distruttiva – “tossica” potremmo dire – a ignorare ogni segnale provenga “dal basso” e “da fuori”, ogni espressione di volontà popolare, sia l'esito referendario sull'acqua e i beni comuni (umiliato da una serie di provvedimenti legislativi in clamorosa opposta direzione) sia il risultato perentorio del referendum costituzionale: il segnala assordante del 4 dicembre a cui il Palazzo – sia Chigi che Nazareno – è rimasto ostinatamente sordo e cieco, facendo come se nulla fosse successo, e provocando appunto l'exit tumultuoso e massiccio a cui oggi assistiamo.

Come in un gioco di matriosche tutti questi strati sovrapposti si sono accumulati. E tutte queste contraddizioni si sono sintetizzate in una figura sola, che le ha assorbite, senza neutralizzarle, tutte, e che ora finisce per pagare, per tutti, lasciandoci di fronte un quadro senza soluzioni possibili. Nel quale ogni possibile alternativa appare bruciata in partenza, sia essa quella – sciagurata – dell'autosufficienza o quella, simmetrica e opposta, della coalizione larga, la costruzione forzosa di un PD sempre più strettamente renziano o quella di un “campo democratico” allargato ai figlioli prodighi da riportare al tavolo paterno, la costruzione di un centro non più di sinistra da coniugare con una scheggia di berlusconismo rimodernata e ri-moderata, o la riedizione di una sinistra pre-Lingotto (pre-Veltroni del 2007) rilanciata ma non ringiovanita.

Comunque si rimescolino i fattori il risultato non cambia: nessuna delle diverse combinazioni può sperare di aver credibili possibilità di successo alle politiche prossime, sia che per un picco di masochismo Renzi forzi per il voto anticipato, sia che si aspetti la fine naturale della legislatura. In ogni caso sembra non esserci più tempo per nulla.

Ora assisteremo – non è necessario essere profeti per saperlo – al gioco stantio e ripetitivo della ricerca del Sacro Graal: la legge elettorale che assicurerà il Paradiso a tutti. Il tormentone che ci ha accompagnato in tutti questi anni, secondo il pessimo costume di disegnare e ridisegnare ogni volta il sistema elettorale a seconda dell'ultimo sondaggio, o del più recente responso delle urne, ognuno attento al proprio possibile vantaggio effimero, all'unico lancio di dadi a cui, nella miopia generale, riesce a malapena a guardare.

Qualcuno riproporrà il maggioritario a doppio turno, altri il proporzionale alla tedesca, o il premio di lista, oppure di coalizione, la soglia al tre, al cinque, all'otto per cento... E a un certo punto la pallina si fermerà su una casella della roulette, rossa o nera chissà. E l'emorragia di elettori, di fiducia, di legittimazione e di autorevolezza delle nostre istituzioni continuerà, se un soprassalto di orgoglio, o di razionalità, non interverrà a interromperne il processo, dall'interno (per un ritorno di auto-riflessione) o dall'esterno (per la perentorietà di una qualche costrizione).

Certo che finché li lasceremo a governare continueranno così. Ma per cambiarli devono votare tutti. non solo i loro aficionados, come alle comunali. Articoli di Riccardo Chiari, Massimo Franchi e Marco Bersani.

il manifesto, 27 giugno 2017

BANCHE VENETE:
PERDITE PUBBLICHE,
PROFITTI PRIVATI
di Riccardo Chiari

«Credit crack. Da Bloomberg a Nomura, unanimi i commenti del mondo finanziario: lo Stato paga i crediti inesigibili e anche Intesa, che guadagnerà tanto senza spendere un centesimo. Il Wall Street Journal: "Un passo indietro per la finanza europea". Sinistra italiana e Rifondazione accusano: "L'alternativa c'era, il governo poteva gestire la parte buona delle banche".

Ora che il decreto legge c’è, i 17 miliardi di soldi della collettività messi dal governo Gentiloni, a sostegno di almeno 10 miliardi di crediti inesigibili, e per altri 5 miliardi a sostegno di un’azienda privata come Banca Intesa, non sembrano scuotere troppo gli italiani. Ma provocano alcune elementari domande all’estero. Da antologia la comparsata di Pier Carlo Padoan a Bloomberg Tv, che doverosamente chiede “se l’operazione sulle banche venete pubblicizzi le perdite per privatizzare i profitti”. “Sono in totale disaccordo – replica il ministro italiano – non è un salvataggio, tutto è stato fatto secondo le regole”, sottolineando l’ok della Bce e di Bruxelles.

Dal canto suo il Wall Street Journal annota: “La soluzione europea pone due domande: perché le due banche non sono state trattate con il nuovo regime di risoluzione, e perché Intesa San Paolo si è aggiudicata un accordo così buono sugli asset delle due banche. La risposta alla prima domanda è pragmatica e gli investitori possono imparare da questa. La risposta alla seconda è più preoccupante, e sembra un passo indietro per la finanza europea”. A corredo, il Wall Street Journal precisa che secondo gli analisti l’accordo rafforzerà gli utili di Intesa del 5-7% entro il 2020, senza costare alla banca un centesimo in termini di sforzo finanziario.

I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti all’ok di Francoforte alla liquidazione delle due banche con lo smaltimento delle sofferenze grazie all’intervento statale, si è aggiunto anche il finanziamento con soldi pubblici per l’acquisizione di Intesa della parte sana delle banche, “per riorganizzarle”. Leggi costo degli esuberi. Gian Maria Gros Pietro ai comprensivi microfoni del Gr1 nega: “Chi dice che Intesa è stata avvantaggiata non ha compreso il meccanismo”. Nel decreto del governo si legge però che Intesa riceverà dallo stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”, “risorse a sostegno delle misure di ristrutturazione aziendale per un importo massimo di 1.285 milioni” con cui accompagnerà all’uscita circa 4mila bancari, e altri 400 milioni come garanzia sui crediti in bonis che Intesa si porta a casa. Poi vanno aggiunte garanzie a copertura del rischio dei crediti che non risultino in bonis, fino a 6,3 miliardi, e fino ad altri 4 per i crediti “in bonis ma ad alto rischio”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.

Risultato: a Piazza Affari salgono i bancari, spinti proprio da Intesa (+3,5%), il che equivale ad un aumento di circa 1,5 miliardi della sua capitalizzazione. Mentre fa capire un po’ più dell’Italia odierna il fatto che le osservazioni di Bloomberg siano identiche a quelle di Sinistra italiana e Rifondazione: “Si procede con un salvataggio in cui la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è spinta a livelli parossistici”, segnalano Maurizio Acerbo e Roberta Fantozzi del Prc. Con Stefano Fassina e Pippo Civati di Si che aggiungono: “Si poteva e doveva percorrere un’altra strada, anche a costo di un contenzioso con la Commissione Ue: l’ingresso pubblico nel capitale delle banche per gestire, insieme ai crediti in sofferenza, anche gli asset”. Che genereranno utili. Ma Paolo Gentiloni avverte: “Chi parla di regalo ai banchieri fa solo cattiva propaganda”. E Intesa fa sapere a sua volta che, se il decreto cambia anche solo di una virgola, (“viene convertito con modifiche o integrazioni tali da rendere più onerosa per Intesa San Paolo l’operazione”), non se ne farà di nulla. Capito come si fanno gli affari?

TANTA POLVERE MESSA
SOTTO AL TAPPETO,
MODIFICHEREMO IL DECRETO
di Massimo Franchi

«Intervista a Francesco Boccia. Il salvataggio delle banche Venete è l'ultima tappa di una strategia fallimentare. Il sistema andava messo in sicurezza nel 2014 come in Spagna e Germania. Invece si è sottovalutata colpevolmente la situazione e ora i miliardi pubblici usati sono molti di più»

Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera. Da economista prima che da politico: il salvataggio delle banche venete è la soluzione migliore come dicono Bankitalia e Padoan o uno scempio di soldi pubblici e un regalo ad Intesa come dice l’opposizone?

Una delle cose che detesto dei politici è sentir dire: «Io l’avevo detto». Ma visto che sono agli atti i miei interventi parlamentari in cui già nel 2014 chiedevo che venisse istituito un Fondo pubblico-privato da 20 miliardi per ricapitalizzare le banche in difficoltà chiedendo un chip ai tanti intermediari finanziari che hanno fatto soldi con il nostro debito pubblico (Morgan Stanley, Black Rock e gli altri fondi) e mi diedero del folle, ora posso dire che avremmo risparmiato molti miliardi di soldi pubblici.

Quindi la colpa è della politica? E i mancati controlli di Bankitalia?Che le banche Venete andassero salvate è indubbio perché diversamente sarebbe andato in crisi un pezzo fondamentale di Paese. La colpa di questa situazione non è dei correntisti o dei risparmiatori, ma di quei disgraziati che le dirigevano. Tanta polvere è stata messa sotto il tappeto e se siamo in questa situazione è anche perché il sistema di controllo di Bankitalia non ha funzionato, come Visco ha riconosciuto iniziando a fare autocritica. Io sono indignato per lo “stop and go” sugli interventi per mettere in sicurezza tutti gli istituti in difficoltà, dalle popolari a Mps, salvate con tre modelli differenti di interventi. La nazionalizzazione sarebbe stato il quarto e avrebbe aumentato la confusione.

Padoan confida di recuperare i 5 miliardi già usati rivendendo i crediti deteriorati della bad bank. Le sembra realistico?Non conosco l’ammontare effettivo dell’esborso pubblico e dei crediti deteriorati. Di sicuro di tutti i soldi messi dallo Stato direttamente e indirettamente (con le partecipazioni di Cassa depositi e prestiti) in questi anni non si recupererà tutto e il saldo sarà maggiore dei 10 miliardi da me proposti.

Intesa San Paolo ha già avvertito: se il decreto cambia, l’operazione salta. Voi lo cambierete? Non vi sentite sotto ricatto come parlamentari? Le banche sono al di sopra dei poteri costituzionali?
Messina fa bene il suo mestiere a dire quelle cose. Non conosco, come nessuno ancora, il testo del decreto ma dico che se ci sono le condizioni per migliorare la proposta del governo, il Parlamento ha il dovere di farlo e Intesa di rispettare la politica, che – senza ipocrisia – è la stessa che l’ha invitata a fare questa operazione e a mettere i soldi nel fondo Atlante già prosciugato. La priorità deve essere quella di ripristinare la fiducia dei risparmiatori senza la quale tutte queste banche sarebbero già morte. Intesa da questo punto di vista è una garanzia: è una delle più solide in Europa anche se non potrà risolvere sempre lei i problemi o rischierà di entrare in difficoltà anch’essa.

Il ministro spagnolo dell’Economia sostiene che quello che è successo la Spagna lo ha fatto nel 2012: mettere in sicurezza il sistema usando miliardi pubblici, mentre ora per il Banco Popular non ne sono stati usati. Siamo in ritardo di 5 anni?
Certo che ha ragione. E l’errore più grosso fatto dai nostri governi dell’epoca – Berlusconi con Tremonti e Monti con Grilli – è stato quello di non copiare la Spagna che come la Germania hanno anticipato l’applicazione del bail in mettendo in sicurezza le banche con soldi pubblici. Sarà interessante ascoltare i protagonisti di questa lunga storia nella commissione parlamentare che andrà imbastita in questa legislatura e darà risultati nella prossima.

PRIMA LE BANCHE,
POI I BAMBINI
di Marco Bersani


«Governo. L'operazione banche venete sarà finanziata con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento lo scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio degli istituti bancari da mettere a carico del debito pubblico»

Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una «ricapitalizzazione precauzionale», ovvero che erano banche fondamentalmente «sane», ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.

Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione – costo 1 euro – da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché «questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile».

Intanto, Carlo Messina, Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo davanti allo specchio loda se stesso per aver «messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese». Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.

Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Concorrenza, considera l’aiuto di Stato «necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto». Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?

Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.

Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi.

In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.

Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla «banda delle quattro» (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già ben sopra i 30 miliardi.

Eppure «il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza» twittava il 31 ottobre 2014 il ministro Padoan. «C’è una manovra su alcune banche, punto», ma il sistema «è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono», rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe. «Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che è solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia», si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.

Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del too big to fail (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del too interconnected to fail (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream. Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene subito una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti. Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.

«Il Paese devastato dagli incendi e reduce da una pesantissima crisi economica è da un anno e mezzo un laboratorio di ricette opposte al neoliberismo».

il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2017 (p.d.)

Ci sono voluti cinque giorni per spegnere il fuoco in Portogallo, l’incendio più vasto e letale sopportato mai dal paese lusitano. Le fiamme, originate a Pedrógão Grande, si sono propagate su oltre 40.000 ettari di bosco, ghermendo lungo il percorso la vita di 64 persone e ferendone altre 254, per poi riproporsi a Góis su una superficie di ulteriori 20.000 ettari. Incerta ancora la dinamica dell’accaduto, inizialmente attribuita a una tempesta elettrica, su cui si è poi inserita l’insinuazione di una possibile ragione dolosa. Sarà probabilmente una commissione tecnica indipendente a far luce sull’origine del fuoco e su cosa non abbia funzionato nella gestione dell’emergenza per determinare una simile catastrofe umana e la distruzione di una così estesa area boschiva. E le critiche sull’operato, com’era prevedibile, non hanno risparmiato il governo del socialista Costa.
Il primo ministro portoghese è d’altra parte molto apprezzato fuori e dentro i confini nazionali, tanto che i sondaggi gli attribuiscono un gradimento prossimo alla maggioranza assoluta. António Luís Santos da Costa (1961), politico di lungo corso, segretario del Partito Socialista, più volte ministro in precedenti governi, già eurodeputato e sindaco di Lisbona, da poco più di un anno e mezzo conduce un’esperienza di governo inedita sul piano dei contenuti e delle alleanze. Che viene guardata con interesse dagli altri partner europei, per essere riuscita – unica in Europa – a reimpostare un circolo virtuoso economico, applicando ricette opposte al neoliberismo, salvaguardando perciò coesione e giustizia sociale. Un successo che si avvale del sostegno di tutte le forze della sinistra sulla cui alleanza la destra infierì in termini dispregiativi, tacciandola di gerigonça, cosa mal fatta, e che oggi è invece motivo d’invidia e riferimento per le sinistre italiana e spagnola, mentre riceve il plauso di Bruxelles. Tutto era cominciato con le elezioni generali del 4 ottobre 2015.
La crisi economica in Portogallo, come negli altri paesi del Sud Europa, era stata brutale, con tagli nei salari e nelle prestazioni per disoccupazione, il congelamento delle retribuzioni pubbliche tra il 2012 e il 2014, il blocco dei pensionamenti anticipati, l’aumento dei contributi sociali, la disoccupazione arrivata al 15% nel 2012, il deficit al 6,8% nello stesso anno e continue cadute del Pil fino alla recessione.
Nel 2011, Lisbona aveva chiesto all’Unione Europea l’accesso alla procedura di riscatto, un prestito di 78 miliardi di euro da rimborsarsi in tre anni. Nelle elezioni del 2015 avvenne un po’ quello che era avvenuto in altri paesi europei con la crisi: la perdita della maggioranza assoluta per i partiti storicamente di governo. In questo caso, il conservatore Pedro Passos Coelho era tornato a vincere le elezioni con il 39% dei suffragi, distanziando di 6 punti il socialista Costa.
Coelho era stato costretto però a formare un governo di minoranza, quello che sarebbe diventato il governo più breve della storia della democrazia portoghese, durato in carica per una decina di giorni appena. Infatti, Costa era riuscito a promuovere una mozione di sfiducia assieme a comunisti, verdi, e Bloco de Esquerda, approvata con 123 voti contro 107 contrari. E il 24 novembre 2015, il presidente portoghese Cavaco da Silva aveva nominato António Costa primo ministro, confidando nell’alleanza tessuta da questi in parlamento. Nasceva così il nuovo governo socialista guidato da Costa, sostenuto da una maggioranza parlamentare di sinistra ritrovatasi attorno ad un programma dai contenuti di matrice schiettamente antiliberista.
Il governo Costa ha dimostrato in questi mesi che è possibile cambiare la politica economica, mettere fine all’austerità facendo leva sulla domanda interna, aumentare l’occupazione senza perciò rinunciare a un deficit basso. Ossia, senza mancare il rispetto degli obiettivi comunitari, perché, come dice il primo ministro, avere regole comuni tra 28 paesi è necessario. E i dati di bilancio del 2016 ne sono una prova. Il Pil portoghese è cresciuto lo scorso anno dell’1,4% e le previsioni per l’anno in corso sono di un incremento dell’1,8%. L’obiettivo di deficit pubblico nel 2016 è stato del 2% e si prevede che nel 2017 scenda all’1,5%, per arrivare, nel 2021, all’1,3%.
Elevato invece è ancora il debito pubblico, superiore lo scorso anno al 130%, mentre persistono gravi i problemi del settore finanziario. Le politiche del governo portoghese hanno cercato di ridare fiato alla domanda interna, correggendo alcuni dei punti più vistosi delle precedenti ricette neo-liberiste, che avevano fatto precipitare il 20% della popolazione nel rischio di povertà. Perciò l’aumento del salario minimo, le misure contro la povertà energetica, la riduzione parziale dell’IVA, la fine dei tagli salariali ai funzionari pubblici, la riduzione della giornata lavorativa, il freno alle privatizzazioni. E per la prima volta in otto anni, la disoccupazione si colloca ora sotto il 10%.
finirà nella

bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite». la Repubblica, 23 giugno 2017

È inutile sdottoreggiare di bail in e di burden sharing.
Il grande Sacco Bancario di questi anni, alla fine, lo stiamo pagando noi. Montepaschi, Etruria e le altre tre “banchette”, fino ad arrivare alle due popolari venete: cosa resta del mesto Carnevale inscenato dai Signori del Credito, se non la maschera di Pantalone che apre il portafoglio e copre i buchi con il denaro pubblico? In queste ore politica e mercati brindano al presunto “salvataggio” della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nel deserto della finanza tricolore incede fiero il tanto agognato Cavaliere Bianco. Banca Intesa, si prende le due venete ed evita la temuta procedura di “risoluzione” che avrebbe scaricato i costi del default non solo sugli azionisti, ma anche sugli obbligazionisti senior e (pro quota) i depositanti oltre i 100 mila euro.

Ma è qui la festa? Banca Intesa compra al prezzo simbolico di un euro la good bank, cioè il “tesoretto” residuo che rimane nei caveau di Vicenza e Montebelluna (i crediti “buoni”, gli sportelli, la struttura commerciale e persino le spettanze fiscali). Tutto il “marcio” (gli Npl, gli altri crediti deteriorati, persino i prestiti in bonis ma a rating più scadente) finirà nella bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. Non solo. Banca Intesa “compra” solo a condizione che l’acquisto sia “neutrale” sotto il profilo del patrimonio. Cioè che l’innesto dei cespiti delle due venete non obblighino Ca de Sass a modificare le proprie strategie di copertura dei “ratios” e di distribuzione dei dividendi.
Come hanno detto il ceo Carlo Messina e il patron della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti: l’affare si fa solo se ci garantisce l’intangibilità del capitale e delle cedole. In caso contrario, tanti saluti. Chiaro, lineare, legittimo: gli chiedono un intervento di emergenza, e l’emergenza si gestisce a certe condizioni. Io privato mi siedo al tavolo, ma solo se il mio cip è un euro. Tutto il resto, cioè la bellezza di 10 miliardi, ce lo metti tu, caro Stato.
Parafrasando il famoso spot pubblicitario: ti piace salvare facile, eh? Ma va tutto bene, per carità. Escluse le rovinose “missioni patriottiche” in stile Alitalia, non c’erano più alternative. Banca Intesa tutela i suoi interessi. È lo Stato che cura male i nostri. Si dica la verità ai cittadini. Si ammetta che tra le “quattro banchette”, il Montepaschi e adesso le due venete, il costo dei salvataggi a carico del bilancio pubblico (cioè a carico nostro) supera abbondantemente i 20 miliardi stanziati dal governo con il decreto di fine 2016. Si riconosca che, attraverso questi complicati arabeschi finanziari, è come se tutti noi contribuenti fossimo diventati azionisti e correntisti “virtuali” delle banche salvate, chiamati a coprire pro-quota il costo dei dissesti che altrimenti sarebbero stati interamente a carico dei soci e dei clienti “reali” di quelle stesse banche.
Senza dirlo all’Europa, abbiamo subdolamente disinnescato il bail in, e surrettiziamente replicato il bail out. La politica è arte del possibile. Tanto più in un Paese in campagna elettorale permanente, dove i crac creditizi diventano armi di distrazione di massa. Si evocano paragoni bugiardi, tipo il “Tarp” americano di otto anni fa, o il salvataggio spagnolo del Banco Popular di una settimana fa. Nel primo caso l’Amministazione Usa (al contrario del governo italiano) sborsò preventivamente 750 miliardi di dollari, mettendo in sicurezza l’intero sistema bancario e cacciando tutti i manager incapaci. Nel secondo caso il Banco Santander (al contrario di Banca Intesa) ha scucito 7 miliardi di aumento di capitale.
E qualcuno, prima o poi, ci dovrà anche spiegare perché, com’era già successo ad Arezzo o Macerata prima e a Siena poi, anche sulle due banche venete si è sprecato tanto tempo, prima di turare la falla gigantesca aperta nel fianco del mitico Nord-Est. Tra il 2012 e il 2015 la banca del cavalier Zonin ha bruciato 6,2 miliardi di valore, lasciando sul lastrico 118 mila azionisti e cumulando 1,6 miliardi di perdite. Nello stesso periodo la banca del ragionier Consoli ha distrutto 5 miliardi di valore, rovinato 90mila risparmiatori e totalizzato 1,8 miliardi di passivo. Il bagno di sangue è stato sotto gli occhi di tutti per anni, come già era successo per Mps. Nessuno ha mosso un dito. Lunghi conclavi, e rituali fumate nere. Nel frattempo, l’emorragia è dilagata. Altri 3,5 miliardi sprecati con il Fondo Atlante, e la bellezza di 65 miliardi di depositi totali fuggiti solo dai forzieri di Siena, Vicenza e Montebelluna. Cosa ci sia da celebrare, in tanta macelleria bancaria, non lo capiremo mai.

la Nuova Venezia Corriere del Veneto, 17-18 Giugno 2017 (m.p.r.)

la Nuova Venezia, 17 giugno 2017

TANGENTI PER EVADERE LE TASSE
BLITZ CON 16 ARRESTI A VENEZIA
di Carlo Mion

Venezia. Soldi, regali, cene e assunzioni di parenti per ammorbidire le verifiche fiscali e ridurre il debito erariale una volta contestata l'evasione. Sedici le persone arrestate tra imprenditori, commercialisti, ufficiali della Guardia di Finanza e dirigenti dell'Agenzia delle Entrate. Questa nuova operazione, durata due anni, è stata portata a termine dagli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di Venezia, coordinati dal sostituto procuratore Stefano Ancilotto.

L'indagine è nata durante l'inchiesta sul Mose. Alcune intercettazioni facevano capire agli inquirenti dell'esistenza di un sistema illegale che consentiva agli imprenditori di ridurre i "danni" da verifica fiscale. Oltre ai sedici ordine di custodia cautelare il Gip Alberto Scaramuzza ha concesso anche il sequestro di beni per 440 mila euro. Gli arrestati. Quattordici le ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari nei confronti di sei imprenditori (due domiciliari), tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate, due commercialisti, due ufficiali della Guardia di Finanza, un appartenente alla Commissione tributaria regionale del Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice.

Tra gli arrestati ci sono Elio Borrelli, ai vertici dell'Agenzia delle Entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo e ex direttore dell'Agenzia di Venezia il secondo. I due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza Vincenzo Corrado (residente a Treviso) e Massimo Nicchinello, il giudice della Commissione tributaria regionale Cesare Rindone, i commercialisti di Treviso Tiziana Mesirca e Augusto Sartore di Chioggia, gli imprenditori appartenenti al gruppo edile Bison di Jesolo, alla Cattolica Assicurazioni di Verona, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre all'industriale dell'acciaio Pietro Schneider di Udine. Gli episodi contestati. Nel primo di questi, sono coinvolti l'intera famiglia Bison (padre, madre e due figli), imprenditori jesolani, Elio Borrelli, direttore dell'Agenzia delle Entrate di Venezia fino al 31 dicembre 2015 e il suo successore Massimo Esposito. Inizialmente è Borelli ad essere pagato da Bison, poi Esposito.

Secondo il gip ci sono le prove relative al pagamento di tangenti per 140. 000 euro, in varie tranches tra il settembre 2016 e il maggio 2017. In cambio, i due funzionari si sono adoperati per ridurre dell'80% le imposte dovute da tre società del gruppo Bison, con sede nel Veneziano, sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia, passando così da 41 milioni di euro dell'originario debito erariale a poco più di 8 milioni effettivamente pagati. Inoltre, l'imprenditore ha ottenuto che venisse ritardata la notifica di avvisi di accertamento per debiti tributari, in modo da chiedere rimborsi Iva per 600mila euro che non poteva ottenere. Sempre i due funzionari dell'Agenzia, si sono accordati con il commercialista di Chioggia Augusto Sartore, per ricevere 50.000 euro in cambio della promessa di "accomodare" un accertamento tributario alla Somit Srl. Si ritorna al concreto con passaggio di tangenti nell'episodio che coinvolge il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Corrado, residente a Treviso, il funzionario dell'Agenzia delle Entrate Christian David, la commercialista di Treviso Tiziana Mesirca e gli imprenditori veneziani Paolo Maria Baggio e Paolo Tagnin.

Naturalmente vengono pagate tangenti per ridimensionare l'esito di verifiche eseguite a una società immobiliare e a un'azienda di trasporti. I due imprenditori hanno pagato Corrado e David, con l'intermediazione della commercialista. L'ufficiale, in cambio di denaro e benui di lusso per un valore di 40.000 euro, ha fatto da "ponte" con il funzionario dell'Agenzia delle Entrate e con il proprio interessamento ha reso possibile la riduzione del 70% debito complessivo delle aziende verificate, passato da 13 a 3, 7 milioni di euro. Sempre Corrado coinvolge il collega Massimo Nicchiniello, in servizio a Udine, per "addolcire" l'esito delle verifiche alla Burimec di Butrio (Udine) dell'imprenditore Pietro Schneider, in cambio i due ufficiali hanno avuto soldi e cene in ristoranti di lusso, oltre all'assunzione alla Burimec del figlio di Corrado.

Nella vicenda che riguarda la Cattolica Assicurazione di Verona compare il nome di Cesare Rindone, giudice della commissione tributaria del Veneto che diventa mediatore tra Albino Zatachetto, (oggi segretario del presidente di Cattolica), e Giuseppe Milone, responsabile amministrativo, i quali intrattenevano rapporti con Borrelli, David e Corrado in cambio di orologi Rolex, l'assunzione di amici e compagne: i funzionari hanno fatto sì che il debito erariale scendesse da 8, 8 a 2, 6 milioni di euro. Promozione chiesta mai ottenuta. Elio Borrelli nel 2015 punta a diventare direttore dell'Agenzia delle Entrate di Verona. Una promozione che cerca coinvolgendo Arcangelo Boldrini, commercialista di Mestre, amico di Enrico Letta e in quota Pd in vari enti. Boldrini ha il compito di interessare il sottosegretario Pierpaolo Baretta. Se la promozione arriva "per te la vita cambia", dice Borrelli all'amico commercialista. Promozione mai arrivata.

Corriere del Veneto, 18 giugno 2017
MAZZETTE, LA CRICCA A CACCIA DI CLIENTI

«HA LA FACCIA DA PRIMA REPUBBLICA»
di Alberto Zorzi

Per il gip il «gruppo decisionale» faceva proposte seriali e non aspettava richieste dagli imprenditoriVenezia «Mi sembra di aver capito che Canevel è un tipo da Prima Repubblica e quindi si può...». Vincenzo Corrado, il finanziere del comando provinciale di Venezia che è stato uno dei 16 arrestati venerdì mattina nell’inchiesta sulle tangenti all’Agenzia delle Entrate, dice e non dice, ma il senso è chiaro. La «cricca», che secondo l’accusa del Nucleo di polizia tributaria di Venezia e del pm Stefano Ancilotto aveva al centro Corrado e soprattutto un gruppetto di funzionari dell’Agenzia – dall’ex dirigente del Centro operativo di Venezia Elio Borrelli all’ex direttore della sede lagunare Massimo Esposito, al capo settore Controlli e riscossione Christian David –, cercava sempre nuovi clienti per il suo schema ormai rodato: soldi o regali in cambio di uno sconto sostanziale sulle sanzioni fiscali, tanto che proprio a casa di Corrado i suoi colleghi delle fiamme gialle hanno trovato i due Rolex che gli sarebbero stati regalati dagli imprenditori. E dall’ordinanza di custodia del gip Alberto Scaramuzza spuntano altre aziende finite nella rete o su cui i funzionari infedeli avrebbero messo gli occhi, anche se poi - come ammette lo stesso giudice - non si è arrivati a contestazioni penali, come nei 5 casi delle imputazioni.

Corrado, parlando con la commercialista trevigiana Tiziana Mesirca, anche lei arrestata, cerca di capire se si può agganciare la Canevel Spumanti di Valdobbiadene, con quella battuta sul suo ad Carlo Caramel e gli anni d’oro delle tangenti. «Però Titty, dimmelo in tempo se è il caso che io posso eheh...», dice. «I pubblici ufficiali non aspettano che sia il privato a sollecitare il loro intervento, ma spesso si propongono per accomodare le verifiche o gli accertamenti», annota il gip. Una mediazione fondamentale è quella dei professionisti: non solo la Mesirca, ma anche il commercialista chioggiotto Augusto Sartore. Questi è stato a sua volta arrestato per corruzione per aver promesso a Borrelli ed Esposito 50 mila euro per la società Somit.

Ma dalle indagini emerge che Sartore avrebbe sondato i funzionari anche per altre società da lui seguite: una è la Nuova Coedmar, impresa coinvolta nell’inchiesta del Mose (il suo legale rappresentante Gianfranco Boscolo Contadin ha patteggiato 2 anni per corruzione e false fatture), che aveva avuto un verbale di accertamento da 5-6 milioni; poi ci sono la polesana Cultiva società agricola e la chioggiotta Acquachiara. «Sebbene non abbiano portato per il momento all’elevazione di ulteriori contestazioni di fatti di corruzione, dimostrano in modo chiaro l’esistenza di un sistema di trattazione certamente illecito delle società assistite da Sartore». C’è anche un risvolto quasi ridicolo, laddove Borrelli si informa con Esposito su una certa Comet Corsetterie, sempre di Chioggia, ritenendola azienda legata a Sartore: i due fanno i conti, ipotizzano una tangente di 80 mila euro, ma quando vanno dal commercialista lui replica che si sono sbagliati. «No Comet, Somit - dice Sartore al telefono - io ho la Somit».

«Questi soggetti hanno creato un vero e proprio sistema criminoso - commenta il gip, spiegando perché ha deciso di applicare il carcere per 14 di loro - Trattasi di soggetti organizzati in un vero e proprio gruppo decisionale». Quasi un’associazione per delinquere, anche se per ora non è stata contestata. Secondo il giudice c’è però una «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione», perché funzionari dell’Agenzia, professionisti, finanzieri e imprenditori si sono resi protagonisti di uno «svilimento della pubblica funzione che era non casuale ed estemporaneo, ma sistematico e ramificato». Al punto che chi invece era onesto, come la funzionaria Anna Boneschi, venne spostata a Treviso, con l’esultanza della «cricca». Oltre al pericolo di reiterazione, il giudice cita anche l’inquinamento probatorio e alcune conversazioni in cui alcuni di loro si raccomandavano di «pulire» la contabilità o di stare attenti alla posta elettronica e alle telefonate. Esposito, poi, chiamava Borrelli con una Sim intestata alla suocera defunta.

Domani ci saranno i primi interrogatori, tutti per rogatoria, visto che gli arrestati sono stati sparpagliati in vari carceri. Per ora i difensori sono molto abbottonati, in attesa di leggere tutte le carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ancilotto. A parlare è invece Claudia Nicchiniello, parente di quel Massimo arrestato per aver partecipato a un episodio di un’impresa friulana, quando era alla Finanza di Udine (ora è comandante a Siracusa). «La sua unica colpa è aver partecipato a una cena e non aver allontanato in modo netto alcuni colleghi - afferma - A casa sua non sono stati trovati soldi o regalie, ma solo due bambine, certo non assunte da nessun imprenditore. Il suo arresto ha avuto lo sciagurato effetto di sminuire la figura di un ufficiale che ha concluso importanti arresti in Sicilia».

Una giornata di lotta per una democrazia che stanno cancellando. «Che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza».

il manifesto, 18 giugno 2017

Il governo da una parte, la Cgil dall’altra. Su sponde opposte rispetto alla polemica di questo momento sullo sciopero nei trasporti, ma a ben vedere su distanze siderali in merito all’idea stessa di contratto sociale tra rappresentanti e rappresentati.

Al presidente del consiglio convinto che «l’intero paesaggio sociale italiano non è sulle posizioni della Cgil», e pronto a decidere nuove regole sullo sciopero, è arrivata a stretto giro, la replica secca di Camusso nel discorso di chiusura di una bella manifestazione accolta dall’afa bollente: «Non è accettabile che si usi uno sciopero discutibile per attaccare il diritto di sciopero, e al governo dico fate la legge sulla rappresentanza».

Del resto il conflitto tra il sindacato di Camusso e il governo Renzi-Gentiloni si è materializzato con la piazza rossa di San Giovanni a Roma. Contro i voucher, la Cgil ha risposto al governo con una grande mobilitazione, decine di migliaia di lavoratori chiamati a proseguire la battaglia iniziata con le oltre tre milioni di firme raccolte per un referendum che Renzi ha avuto paura di affrontare temendo una seconda sonora batosta dopo quella del 4 dicembre. Ma non tutto è permesso per evitare il diritto al voto dei cittadini, il governo Renzi-Gentiloni invece ha annullato il referendum e resuscitato i voucher. La Cgil non si dà per vinta e né la Corte costituzionale, né il capo dello stato possono eludere il dovere di esprimersi e di vigilare sul grande scippo.

A vederli sfilare con i loro berretti rossi tutto sembravano ieri i lavoratori venuti a Roma da tutta Italia, tranne che pensionati in gita. Per le strade della Capitale c’erano tutte le generazioni, comprese quelle che dopo 41 anni di lavoro, grazie alla legge Fornero, non possono andare in pensione. Compresi i pensionati che oggi rappresentano il sostegno, l’unico, dei giovani disoccupati, comprese le centinaia di aziende in crisi perché governate da una classe imprenditoriale capace solo di tagliare il salario.

Nei paesi autoritari non c’è libertà del lavoro e non c’è nemmeno democrazia, ha detto dal palco la segretaria della Cgil. E, con lei, ci chiediamo che razza di democrazia è quella italiana dove si cancellano i referendum, dove 12 milioni di concittadini non ricevono le cure del servizio sanitario, dove il lavoro ha perso diritti, dignità e speranza.
Il paese nel quale vive papa Francesco è certamente un osservatorio privilegiato per chi vuolcolpire un vizio, morale e sociale, che avvelena gran parte de mondo, soprattutto nel suo strato più alto: quello dei potenti

. il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2017

Oggi le mafie – e le chiamo al plurale – sono ovunque e ovunque la Chiesa deve cacciare i mafiosi”, sostiene monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, diocesi di Palermo che comprende Corleone. Anche Pennisi, prete siciliano e antimafia, era al seminario del Vaticano, organizzato giovedì dal dicastero per lo Sviluppo umano integrale con il compito di reperire uno strumento per scomunicare corrotti e mafiosi. Ovunque, come ripete Pennisi. E non soltanto in Sicilia o in Calabria o in Campania.
All’incontro c’erano magistrati, poliziotti, i vertici delle Conferenze episcopali italiane, messicane, sudamericane, dell’est Europa, il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone e il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. “Papa Francesco è sempre vigile su questi temi”, ricorda Pennisi. Jorge Mario Bergoglio, due anni fa in visita in Calabria, riprese l’appello di Giovanni Paolo II: “A quanti hanno scelto la via del male e sono affiliati a organizzazioni malavitose rinnovo il pressante invito alla conversione”. Non solo: “Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con dio: sono scomunicati”. E ai parlamentari, accorsi in udienza in Vaticano, dopo il primo anno di pontificato, disse severo: “I peccatori saranno perdonati, i corrotti no”.
Non sarà automatico tradurre l’intenzione di scomunicare i mafiosi e i corrotti in un decreto “universale”, che possa valere in Italia e in Messico e nel mondo. Il Vaticano dovrà determinare dei criteri, le conferenze episcopali intervenire. Il cardinale Peter Turkson, prefetto del dicastero per lo Sviluppo umano integrale, ha istituto un gruppo di lavoro: “Abbiamo pensato l’evento per far fronte a un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona. Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone. Quindi spetta a noi saper proteggere e promuovere il rispetto per la dignità della persona. E per questo cerchiamo di attirare l’attenzione su questo argomento”. Con la scomunica il fedele viene allontanato dalla comunità religiosa e viene escluso dai sacramenti. Per i mafiosi è un’onta: “Professare la religione, esibirla, ha un’importanza sociale per loro. Serve al consenso. E i familiari, per esempio, non accettano che gli sia negato un funerale solenne in Chiesa”, afferma Pennisi. E poi c’è la corruzione: “Ha ragione Cantone: va trovata una definizione comune di questo tipo gravissimo di reato. Perché il corrotto è un peccatore che trae un’utilità da un gesto volontario. E spesso se ne vanta”.
Per monsignor Silvano Tomasi, per un decennio alle Nazioni Unite per il Vaticano, già parlare di lotta alla corruzione è un risultato: “Il nostro obiettivo è sensibilizzare l’opinione pubblica, identificare passi concreti che possano aiutare ad arrivare a delle politiche e leggi eventualmente che prevengano la corruzione, perché la corruzione è come un tarlo che si infiltra nei processi di sviluppo per i Paesi poveri o nei Paesi ricchi, che rovina le relazioni tra istituzioni e tra persone”.
Vergognoso mettere in relazione la mancanza di lavoro qualificato in Italia che costringe tanti nostri giovani talenti ad emigrare con l'opposizione alle grandi opere, che hanno prodotto, questo si, un sistema diffuso di illegalità, corruzione, tangenti, con benefici immensi per pochi.

Corriere della Sera, 17 Giugno 2017 (m.p.r.)

Non occorreva la sua immagine, sarebbe bastata la drammatica conversazione tra Gloria e la madre. Ma è inevitabile osservare che i nostri nonni emigrati all’estero erano piccoli, scuri, malnutriti, spaventati; al punto che i funzionari razzisti del Bureau of Immigration si interrogarono se gli italiani andassero considerati «di razza bianca».

Seconda osservazione: sono laureati. Spinti dalla giusta ambizione più che dal bisogno. Avanguardia dei disoccupati intellettuali, che sono la grande piaga dell’Italia di oggi: un Paese che di laureati ne ha meno degli altri in Europa, ma non riesce a trovargli un lavoro; anche perché investe troppo poco in cultura, istruzione, ricerca.

Terza cosa: sono veneti. Vengono dalla regione che in questi anni è cresciuta di più. Da cui un tempo si partiva per sfuggire alla fame, in particolare verso il Sud America: odissee raccontate molte volte da Gian Antonio Stella su questo giornale. Una regione divenuta ora la più ricca d’Italia, ma che non riesce sempre a valorizzare le eccellenze che crea. Veniva dal Veneto anche Valeria Solesin, l’unica vittima italiana della strage del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015). Valeria e Gloria erano più o meno coetanee. Avevano frequentato gli stessi luoghi, fatto le stesse vacanze, visto gli stessi film, letto gli stessi libri, ascoltato le stesse canzoni. Come ha detto la signora Luciana, madre di Valeria: «Nostra figlia è stata uccisa dai terroristi; ma i genitori che perdono i figli in un incidente non soffrono meno».

Gloria e Valeria sono le rappresentanti di una generazione con cui l’Italia è stata avara di opportunità. Ma loro non hanno piagnucolato. Si sono messe in gioco. Sono andate all’estero, hanno imparato una lingua straniera. Avevano trovato un lavoro. Valeria abitava con il fidanzato Andrea in un monolocale di 14 metri quadrati in rue César Franck, vicino alla Tour Eiffel: se lei studiava, lui doveva andare a letto o sotto la doccia. Gloria e il suo fidanzato Marco avevano trovato un piccolo appartamento al ventitreesimo piano di una torre a North Kensington, affacciata su Notting Hill, costruita per i poveri e ristrutturata per farla sembrare un posto da ricchi. Era molto bella la foto su Facebook , con le due sedie da regista vuote e la finestra spalancata sullo skyline della Londra notturna: il sogno di tanti nostri ragazzi. Non è forse lo stesso quartiere dove abita l’ex premier laureato a Eton? Dove c’era la libreria del film con Hugh Grant, il commesso che si innamora ricambiato della grande attrice, Julia Roberts? Del sistema antincendio, però, nessuno si era occupato.

La morte di un figlio è sempre un evento ingiusto. Nessuno può sindacare il modo in cui reagisce un genitore. Quasi sempre i genitori italiani se la prendono con lo Stato. Così ha fatto il padre di Gloria. E in effetti è difficile riconciliarsi con uno Stato che al primo articolo della Costituzione riconosce il diritto al lavoro, e non lo rende effettivo neanche per chi si è laureato a pieni voti; a meno che non si accontenti di 300 euro al mese. Uno Stato che spreca risorse nel modo scandaloso che tutti sanno. È più difficile e impopolare, ma è intellettualmente onesto e quindi necessario, aggiungere che a forza di no — no all’alta velocità, no alla Pedemontana, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere; c’è chi diceva no pure all’Expo, e meno male che si è fatto lo stesso — è arduo che ci possa essere lavoro in Italia per gli architetti, vista la crisi in cui langue da anni l’edilizia. Londra invece è una città in cui si costruisce moltissimo: solo allo Shard di Renzo Piano hanno lavorato 1.500 tra operai e tecnici, venuti da quaranta Paesi diversi, tutti con gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero o cassintegrati che si scontrano con la polizia. Però nello Shard vivono i miliardari. Nella Torre di Notting Hill vivevano gli ultimi arrivati.

La maledizione di Londra è il fuoco. La nostra è sentirci una grande nazione, ma non un grande Paese. Un luogo dove nascono cose destinate a dare frutto altrove, dalle scoperte geografiche a quelle scientifiche, dalla medicina alla tecnologia. Quante volte ci è accaduto all’estero di trovare in ospedale o in cantiere un primario o un ingegnere italiano, e sentire un misto di orgoglio e di scoramento: perché formiamo con il denaro pubblico eccellenze o anche solo bravi professionisti, che vanno a dare il meglio di sé da altre parti. E il mondo globale è propizio alla terra delle cose buone e delle cose belle, ma le impone di saper fare sistema: uno Stato che funziona, le infrastrutture, i servizi, la capacità di fare rete, il talento di mettere l’interesse generale davanti a quello particolare. Proprio l’unico talento che a noi manca.

Per il resto, rimaniamo italiani sino in fondo, sino all’ultimo, anche in terra straniera. Così Gloria non ha chiamato i pompieri o gli amici a Londra. Non ha telefonato al consolato o all’ambasciata. Nel momento estremo, ha chiamato la mamma. Per tranquillizzarla, all’inizio. Per cercare conforto, verso la fine. Per confortarla, nel momento estremo. Perché qualcosa della nostra cultura cristiana e umanista ce lo portiamo dentro tutti, visto che con le sue ultime, meravigliose parole Gloria ha promesso alla madre che l’avrebbe aiutata dal cielo. Se davvero esistono le forze dello spirito, Gloria ci avrà già perdonati. Ma questo non ci assolve dalla responsabilità collettiva che una morte come la sua getta addosso a ognuno di noi.

. il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)

Col voto inconsapevole del Senato, ieri il Parlamento ha avallato una vera e propria presa in giro ai danni dei cittadini italiani e, in particolare, del milione e 100mila che hanno firmato ognuno dei tre quesiti referendari proposti dalla Cgil per abolire i voucher, garantire che la società appaltante fosse responsabile in solido anche per i subappalti e ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (quest’ultimo quesito è stato bocciato dalla Corte costituzionale, che lo ha ritenuto in sostanza “propositivo” visto che non si limitava ad abolire un pezzo del Jobs act, ma estendeva il divieto di licenziamento senza giusta causa anche alle aziende tra 5 e 15 dipendenti).

Per apprezzare appieno quella che il costituzionalista Gaetano Azzariti ha chiamato sul Fatto “una frode ai danni dell’articolo 75 della Costituzione” (quello sui referendum), basta ricordare i fatti. L’11 gennaio scorso la Consulta ha ammesso due dei tre quesiti presentati dalla Cgil. Dopo oltre due mesi di melina, a metà marzo, il governo Gentiloni ha fissato la data per il referendum: il 28 maggio 2017. Solo tre giorni dopo, però, lo stesso governo varava un decreto che aboliva i voucher ed estendeva alla ditta appaltante la responsabilità anche per i subappalti: in sostanza, venivano accolte le richieste del comitato referendario. Il decreto è stato convertito dal Parlamento in un solo mese: il 17 aprile. A quel punto la Cassazione ha stabilito che non c’era più motivo di tenere i due referendum e il voto è stato annullato.
E siamo a maggio, quando l’esecutivo Gentiloni si permette quel che nessuno s’era mai permesso: con un emendamento - ancora prima che fosse passato il 28 maggio in cui si sarebbe dovuto tenere il referendum - reintroduce i voucher sotto altro nome e non solo per le famiglie (per pagare colf, badanti e piccoli lavori), come era possibile anche secondo la Cgil, ma pure per le imprese sotto i 5 dipendenti, che sono il 90% delle imprese italiane e quelle che ne fanno un uso più esteso. Ieri, questa norma è diventata legge certificando il fatto che governo e Parlamento hanno preso in giro gli italiani pur di evitare il voto referendario. Un sondaggio Tecnè per la Cgil diffuso mercoledì rivela che gli elettori si sono accorti dello sgarbo istituzionale: il 67% (percentuale che sale al 77 tra i giovani) ritiene che il sindacato guidato da Susanna Camusso faccia bene a protestare. E la segretario lo ha fatto anche ieri, dopo il voto del Senato: “Hanno sbagliato, hanno violato le regole della democrazia e non hanno rispettato il diritto di voto dei cittadini. Si è determinato un vero e proprio vulnus: governo e forze politiche non hanno avuto il coraggio di discutere apertamente dei temi del lavoro, di affrontarli e di vedere il giudizio che lavoratori e cittadini avrebbero dato”.
Ora la Cgil farà due cose: la prima, sabato, è una grande manifestazione sul tema a Roma, che sarà anche l’occasione per vedere sfilare insieme i vari soggetti alla sinistra del Pd (Articolo 1, Sinistra Italiana, Possibile, Campo progressista eccetera eccetera). La seconda strada è un ricorso alla Corte costituzionale contro “la frode”: più volte i giudici delle leggi, proprio di fronte a trucchetti dei governi per svuotare o aggirare i referendum, hanno adottato una speciale tutela rispetto al voto popolare. Accadde, ad esempio, quando Berlusconi tentò di ignorare il referendum sull’acqua. Una volta, addirittura, dopo una modifica legislativa, la Consulta consentì alla Cassazione di traslare i quesiti sulle nuove norme pur di tutelare il diritto di espressione del voto. Difficile che cambi opinione stavolta. Se succederà, però, si rischia di votare non prima di fine 2018 o persino del 2019: tra la decisione della Consulta e la nuova indizione dei referendum potrebbero arrivare le elezioni politiche, che possono far slittare la consultazione anche di un anno.
Le apparenti contraddizioni della "sicurezza". Un bourka può nascondere un pensiero diverso, e per i barbari un pensiero diverso è più pericoloso di un'arma. Del resto l'Italia è una repubblica fondata sulle armi.

la Nuova Venezia, 15 giugno 2017, con postilla

Mettiamola così: nel Veneto prossimo venturo chiunque indossi un burqa, un niqab (il velo integrale islamico) o più semplicemente un casco da motociclista o un passamontagna che ricopre il viso, non potrà entrare in luoghi pubblici regionali quali ospedali, scuole, uffici Ater, distretti sanitari, enti e palazzi della politica. L'ingresso, viceversa, sarà consentito a chi si presenta con una pistola sotto l'ascella, purché provvisto di regolare porto d'armi per la difesa personale. È quanto prevede il nuovo regolamento di accesso in discussione al Consiglio regionale, che ne ha approvato il primo articolo dopo ore di discussione e, manco a dirlo, l'emendamento "sputafuoco"che ha acceso la polemica reca la firma di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d'Italia patrono delle doppiette.

«È la legge Beretta, il volto coperto è pericoloso, la mano armata no», insorge il dem Andrea Zanoni «dovremo invitare i cittadini a recarsi in ospedale con in giubbotto antiproiettile per evitare guai? Mi chiedo cosa ne pensino i direttori delle Ulss, non è possibile che la maggioranza a trazione leghista sia sempre succube di Berlato che, da una posizione assolutamente minoritaria, continua a fare il bello e il cattivo tempo sui temi legati all'uso delle armi». «Un'ipotesi assurda, inaccettabile», rincara Piero Ruzzante (Mdp), che in aula ha votato contro «anziché ricorrere alla prevenzione attraverso i metal detector, si vuole consentire l'accesso a gente armata, interdetto a Palazzo Ferro-Fini, sede dell'assemblea regionale, ma permesso altrove, quasi che i consiglieri abbiano diritto a maggiore sicurezza rispetto agli altri cittadini. Siamo alla follia».
«Propaganda vergognosa, pura strumentalizzazione delle paura di marca leghista», fanno eco i 5 Stelle con la poliziotta (in aspettativa) Patrizia Bartelle lesta a ricordare di non aver mai preso in considerazione l'idea di entrare a Palazzo con la pistola d'ordinanza. E Berlato? «Mi sorprende tanto baccano», replica serafico «stiamo parlando del porto d'armi per la difesa personale che la prefettura rilascia con verifica psicofisica annuale. Il Testo unico di pubblica sicurezza prescrive che l'arma non possa rimanere incustodita e il mio emendamento cita questa norma. Se l'obiettivo è tutelare l'incolumità, questa può essere minacciata ovunque, anche in ospedale, perciò va difesa sempre e dovunque».

postilla

Il consigliere Berlato sembra perfettamente in linea con la strategia e la tattica del renzismo, e con i governi da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. Chi non lo ha compreso legga su eddyburg l'attenta analisi di Giorgio Beretta Renzi è nella storia.

«Il Rapporto annuale sulla situazione del paese, pubblicato recentemente dall’Istat, certifica la crescita delle disuguaglianze, con alcuni dati interessanti e qualche polemica sulla metodologia adottata».

Sbilanciamoci.info, 12 giugno 2017 (c.m.c.)

Da qualche edizione a questa parte l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di scegliere, per (ri)dare vita al suo annuale Rapporto sulla situazione del Paese, un tema conduttore: due anni fa furono i territori, l’anno scorso le generazioni, quest’anno i gruppi sociali.

La scelta di quest’anno ha generato un discreto dibattito, non tanto su quello che il Rapporto 2017 ci racconta dei gruppi sociali, riportato senza nemmeno troppa contezza da un gran numero di testate nazionali, ma sul metodo attraverso il quale l’Istituto ha deciso di individuare questi gruppi. L’obiettivo è quello di raggruppare le famiglie in base non solo al reddito ma anche ad altre caratteristiche proprie della famiglia o della persona di riferimento.

Per fare questo l’Istat usa una tecnica inferenziale: ovvero una tecnica che fa emergere dai dati i gruppi in cui la società italiana si divide senza bisogno di attrezzarsi con una classificazione e quindi una teoria aprioristica. Long story short: dall’indagine Eu-Silc, l’Istat ha selezionato un certo numero, a dire il vero ridotto, di variabili in grado di dare conto delle differenze di reddito tra le famiglie.

Nello specifico le variabili scelte dall’Istat sono: il numero di componenti della famiglia, la professione svolta, il tipo di contratto di lavoro, la cittadinanza, il titolo di studio. Un albero di regressione di queste variabili sul reddito ha suddiviso le famiglie in gruppi il più possibile omogenei tra di loro.

Autorevoli voci della sociologia italiana non hanno apprezzato questo approccio, dispensando critiche soprattutto dal punto di vista epistemologico: “La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato –, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo” (Barbagli, Saraceno, Schizzerotto su lavoce.info del 23 maggio).

Un argomento che può sembrare a prima vista molto convincente, ma che si rileva altrettanto debole se osservato più da vicino. La debolezza nasce dal non riconoscere che l’esercizio condotto dall’Istat è un esercizio di inferenza: il fatto di farsi “suggerire” dai dati sulle differenze di reddito e di altre variabili l’appartenenza al gruppo non equivale affatto ad assumere che le diseguaglianze generino i gruppi.

In fondo, quello che i critici non sembrano accettare è il tentativo di provare, per una volta, a non partire da una teoria predefinita che, generalmente, stabilisce l’appartenenza a un gruppo/classe dal ruolo nel mercato del lavoro della persona e che, a quanto pare, richiede il bollino di una cattedra in sociologia (!).

Il Presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha ribadito il valore di questo tentativo in un articolo su neodemos.it «Applicare ai dati classificazioni esistenti è certamente utile e necessario […] Quest’anno si è applicato un approccio diverso, rinunciando ad assumere ex ante quelle classi come date, ed esplorando invece con uno strumento statistico e a partire dai microdati d’indagine se emergesse una classificazione diversa […] L’obiettivo è quindi differente; è perseguito con un approccio metodologico di carattere inferenziale, reso possibile dalla ricchezza del patrimonio informativo di cui l’Istat dispone.»

Quello che l’Istat sembra reticente ad ammettere è che scegliere le variabili in grado di spiegare il reddito significa indirettamente avere una teoria su come si forma il flusso di risorse economiche nella famiglia. E la teoria che l’Istat mette in campo non solo non viene esplicitata, ma sembrerebbe per lo più dettata dalla disponibilità di variabili dell’indagine Eu-Silc e dalla necessità di replicare la costruzione dei gruppi con i dati di altre indagini e quindi di scegliere variabili che siano disponibili in indagini diverse.

Di fatto il numero e il tipo di variabili che l’Istat mette sul piatto per individuare i gruppi non sembra del tutto soddisfacente e non sembra in nessun modo riflettere “la ricchezza del patrimonio informativo” richiamata dal Presidente Alleva. E forse il ridotto numero di informazioni che concorrono a definire i gruppi è anche la causa di alcuni risultati bizzarri come il gruppo delle anziane sole e giovani disoccupati… Non è chiaro poi se siano state fatte delle prove con altri metodi al fine di verificare la robustezza dei risultati ottenuti. Rimane certamente di valore il tentativo di innovare in un campo di indagine estremamente attuale. Un tentativo, evidentemente, giudicato troppo sovversivo da taluni.

Una volta individuati i gruppi, l’Istat propone una descrizione di diversi aspetti che li caratterizzano: le condizioni di salute, la partecipazione sociale e culturale, la partecipazione al mercato del lavoro. I risultati, tuttavia, appaiono per lo più trainati dalle variabili che incidono nella costruzione dei gruppi stessi.

Così emerge che i gruppi costituiti da famiglie con redditi più elevati e persone più istruite sono quelli con condizioni di salute migliore, con stili di vita più salutari, più elevati livelli di partecipazione sociale e culturale, una presenza più stabile e proficua sul mercato del lavoro… Niente di sorprendente, dunque.

Ma nelle pieghe del rapporto, lì dove si abbandona il tema dei gruppi, si scovano delle informazioni interessanti. Come la questione demografica con un numero di nascite sempre più basso sintesi di un tasso di fecondità bassissimo e di un progressivo ridursi del numero di donne in età fertile. Un declino demografico che non sembra più compensato, come un tempo, dai fenomeni migratori: il tasso di fecondità delle donne straniere sta rallentando e rallenta anche la crescita del numero di stranieri residenti.

Oppure il fatto che la partecipazione culturale sia in una fase di allarmante declino: partendo dal 34% del 2008, nel 2016 ha raggiunto il e superato il 37% la quota di persone con più di 6 anni che non partecipa in nessun modo alla vita culturale (questa quota è del 50% nelle famiglie a basso reddito con stranieri). Oltre il 25% del tempo libero è dedicato a guardare la TV (anche qui con delle differenze che rispecchiano la disponibilità di risorse e il titolo di studio: non si arriva al 25 per la classe dirigente mentre si supera il 30 per le famiglie a basso reddito), mentre meno del 5% è dedicato alla lettura o ad altre attività culturali.

Un altro passaggio interessante del Rapporto annuale dell’Istat è il tentativo di sottolineare come la crescita degli ultimi anni nei livelli di diseguaglianza sia rintracciabile nella forte crescita delle diseguaglianze che si generano sul mercato del lavoro e del capitale. Un passaggio, questo, che sembra suggerire, anche se non in maniera esplicitata nel rapporto (forza! un po’ di coraggio!), la necessità di impostare politiche pubbliche orientate, come auspicato da molti analisti, alla cosiddetta pre-distribution.

Così come sembra interessante l’accenno di analisi sull’influenza delle caratteristiche di impresa sui differenziali salariali che evidenzia il ruolo positivo del capitale umano e dell’innovazione sulla compressione salariale.

Insomma, un Rapporto annuale coraggioso, a tratti un po’ ingenuo ma al quale vale la pena dare un’occhiata.

L'incauta offerta di Pisapia a Renzi di aiutarlo a vinceree portandogli il gruppo dei fuggitive dal PD; ma s'affacciano anche altre idee anch'esse diversamente accomodanti con le vecchie politiche neoliberiste. Noi invece saremo a Roma il 18 giugno.

il manifesto, 11 giugno 2017



PRIMARIE AVVELENATE,
NON ESISTONO
MA GIÀ SPACCANO LA SINISTRA
di Daniela Preziosi

«Alleanze. Gazebo di coalizione, c’è il niet di Mdp. Che avverte l’ex sindaco: Renzi è un piazzista, no al dialogo. Malumori anche nel Pd»

Le primarie del centrosinistra con un Pd che fino a una settimana sfotteva la «sinistra rissosa» sono un’ipotesi irrealistica, il classico ballon d’essai delle fasi politiche di stallo. Ma tanto poco basta per rialzare il termometro nella sinistra che fino a tre giorni fa tendeva all’unità, complice un incombente sbarramento al 5 % nella legge elettorale ormai spazzato via dall’orizzonte.

Per il terzo giorno consecutivo ieri Renzi, stavolta dal Corriere della sera, ha lanciato un amo a Giuliano Pisapia, leader di "Campo progressista": «Noi ci siamo. Vediamo che farà lui». Il segretario Pd spiega meglio la sua idea di accordi a sinistra a legge vigente: un patto al senato, ma non alla camera, dove tanto è convinto di imbroccare l’onda del voto utile perché «il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria». L’ex premier non risponde alle condizioni che Pisapia pone per riaprire il dialogo: primarie di coalizione, cancellazione dell’articolo 18, discontinuità. A questo dibattito manca il principio di realtà. Lo ricorda il presidente dem Matteo Orfini a Repubblica, che «c’è una legge proporzionale che non prevede coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso», dunque benvenga Pisapia in coalizione ma dopo il voto se avrà i numeri, «con questo sistema elettorale oguno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno».

Ma questi giri di valzer comiminciano a suscitare malumori a sinistra, fra gli stessi alleati di Pisapia che il primo luglio hanno con lui un appuntamento a Roma per costruire «la casa comune» della sinistra. Bersani, D’Alema, Rossi, cioè tutta la «Ditta» ex Pd non hanno alcuna intenzione di allearsi con il proprio ex partito. Ampiamente ricambiati: Renzi spiega alcuni di loro farebbero fatica «anche a tornare alle feste dell’Unità».

Le polemiche non sono dirette, almeno per ora. Massimo Paolucci, europarlamentare vicinissimo a D’Alema, spiega che la proposta di Renzi a Pisapia è «una polpetta avvelenata», «Non esistono le condizioni minime per svolgere insieme al Pdr le primarie di coalizione. Senza una chiara alleanza politica, un simbolo ed una piattaforma comune sarebbe una grave errore, una decisione incomprensibile per milioni di nostri elettori delusi dalle scelte fatte, in questi anni, su tasse, lavoro, scuola, politiche sociali, investimenti». Il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Le primarie di coalizione hanno poco senso perché la storia del sindaco d’Italia è finita il 4 dicembre 2016. Noi dobbiamo costruire un’alleanza per il cambiamento a sinistra del Pd fatta da coloro che, di sinistra e di centrosinistra, non si riconoscono più nel Pd di Renzi».

Enrico Rossi si rivolge al lato politico dove si collocano Sinistra italiana e Rifondazione comunista, e offre una lista unitaria, anche con i civici ex no che si vedranno a Roma il 18 giugno. Sorvolando sul fatto che difficilmente queste aree apprezzerebbero – anzi digerirebbero – la benedizione degli ulivisti Prodi, Letta, Bindi, così tanto invocata da Mdp.

Anche Pisapia evita la polemica interna. Ma dai suoi arrivare segnali di insofferenza: «Dobbiamo investire sulla riapertura di una nuova stagione di centrosinistra in discontinuità con questi anni. Aggiungo che oggi, per ragioni tutte giuste, governiamo, da una posizione di leggera subalternità, con Renzi e persino con Alfano».

PRIMARIE,
UN FAVORE A RENZI
di Massimo Villone

Per un tabellone elettronico salta il patto di scambio tra voto subito – voluto da Renzi, Grillo e Salvini – e sistema similtedesco proporzionale – voluto da Berlusconi. Ora Renzi dice di puntare al voto nel 2018. Con il Consultellum nella doppia versione Camera-Senato, e aggiunge un’offerta di coalizione a Pisapia. Non sappiamo se sarà l’ultima mossa. Ma se lo fosse, a chi darebbe scacco?

Anzitutto, scacco a ciò che è a sinistra del Pd. A tal fine, il Consultellum è molto efficace. Alla Camera, il premio con soglia al 40% rafforza molto il richiamo del voto utile. Raggiungere la soglia sarà pure improbabile, ma l’argomento sposta comunque voti. Al Senato, il voto utile si aggancia agli sbarramenti, troppo alti per i partiti minori. E contro un’aggregazione che potrebbe ambire a superarli si offre la coalizione a uno dei player. Divide et impera. Ed è davvero sorprendente che Pisapia risponda chiedendo primarie. È solo un favore a Renzi, con il regalo di una probabilissima vittoria che ne rafforzerebbe legittimazione, leadership e disegno politico.

Dalla sinistra sparsa alla sinistra scomparsa: questo è il copione di Renzi. Una sparuta pattuglia di deputati farebbe sopravvivere qualche pezzo di ceto politico, ma rimarrebbe del tutto insignificante.

E la diversità dei sistemi elettorali? La governabilità? Mattarella? Questo è il secondo scacco. Il Capo dello Stato non può impedire lo scioglimento della Camere in due casi. Il primo è lo scioglimento anticipato voluto da una maggioranza parlamentare in grado di negare la fiducia a qualsiasi governo. Questa era l’ipotesi sottesa al patto tra i quattro leaders. Fatta la legge elettorale, Mattarella non avrebbe potuto opporsi al voto subito. Il secondo caso è la fine naturale della legislatura, perché la tempistica è dettata dalla Costituzione, e nessun rinvio è consentito. Dire che si vota nel 2018 equivale a dire che si vota con la legge che c’è. Quindi, basta non fare, e Consultellum sia: ecco lo scacco a Mattarella.

È chiaro che rimangono tutte le censure nel merito, in specie per la diversità tra Camera e Senato. Il pasticcio viene da Renzi, per l’arrogante pretesa di anticipare con una legge elettorale solo per la Camera la riforma costituzionale poi sepolta dai no. Come non bastasse, ora Renzi lucra sul malfatto, potendo con la sua proposta ottenere vantaggi anche limitandosi a un gioco di interdizione.

Che si può fare? In Parlamento, poco. Sono controinteressati alla proposta Renzi soprattutto i partiti minori, che certo non controllano i lavori parlamentari. Inoltre, sono spinti verso la subalternità per non morire. Qualcosa, invece, si può fare sul piano della politica. E qui una lezione viene dal voto in Gran Bretagna.

Per molti, Corbyn era un pezzo di modernariato politico, da non prendere sul serio. Ma in poche settimane di campagna ha recuperato quasi del tutto un distacco che sembrava incolmabile, con un programma elettorale vicino a una proposta socialdemocratica vintage. È chiaro che ha trovato una corrente profonda di cui non si sospettava l’esistenza. E colpisce che abbia così guadagnato tra i giovani e nell’area del non voto. Una vecchia sinistra in disarmo ha visto i propri figli innalzare le bandiere da tempo ammainate.

Forse nel voto GB la più importante indicazione è proprio questa: la sinistra può essere competitiva se dismette una lunga sostanziale subalternità ai mantra del privato, del mercato, della finanza. Perché non in Italia? Dunque, bene se qui la sinistra sparsa si compatta e trova qualche candidatura eccellente. Meglio se formula un progetto non di nicchia, volto a ritrovare in modo compiuto le antiche risposte socialdemocratiche sulla dignità della persona, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, il ruolo del pubblico. Da un appeal verso i giovani e il non voto potrebbe venire la massa critica utile a superare qualsiasi scoglio di sistema elettorale.

In realtà lo stesso Renzi potrebbe fiutare il vento e volgersi a una proposta socialdemocratica vintage. Vogliamo anche augurarglielo. Certo, sarebbe difficile riconvertire l’ultimo Pd, tutto privato, competizione e libero mercato. Ma uno che nasce boy scout deve pure saper affrontare

Il verso di Renzi è quello di sempre: per lui Giuliano Pisapia e "Campo progressista" sono il retino col quale riportare a Casa Renzi i transfughi del PD. E Pisapia accetta. Ma c'è chi comprende che la sinistra è altrove.

il manifesto, 10 giugno 2017

«Il leader Pd ha tentato la stessa mossa dopo il flop referendario Cauto l’ex sindaco: "Faccia le primarie. E dica mai con la destra". Mdp resta gelido sul dialogo Rossi: "Serve una sinistra forte in parlamento"»

«Non è la mia sconfitta. È la sconfitta di Grillo. E degli altri». La botta è forte, la seconda botta forte dal 4 dicembre, ma l’ex premier Matteo Renzi ha tempi di reazione (anche troppo) rapidi e tenta subito una manovra diversiva. Ai suoi spiega che il pasticcio non l’ha fatto lui, che si è limitato a stringere accordi politici, semmai è stato il Pd alla camera ad aver sottovalutato quello che stava succedendo nel passaggio fra la commissione e l’aula: doveva prevedere e sventare «l’imboscata dei 5 stelle». L’allusione è al relatore della legge Emanuele Fiano e al capogruppo Ettore Rosato, non proprio due assi di diplomazia, che ora attaccano alzo zero il tradimento grillino.

Ma se il piano b di Renzi, e cioè andare al voto comunque prima della finanziaria con qualche correttivo al Legalicum fatto per decreto, viene subito frenato dal Colle, ieri dall’infaticabile ma non infallibile ex premier è arrivato subito un piano C.

Anzi, un piano «p», nel senso di Pisapia. Un cambio di strategia raffazzonato in fretta e furia sulla falsa riga di quello post referendum. Il piano prevede un repentino cambio di verso sul tema delle coalizioni: contrordine, dunque, il Pd non è più possibilista sulle larghe intese con Forza Italia, ora si orienta verso il centrosinistra. O, più precisamente, si offre di caricare sul suo carrozzone azzoppato il Campo progressista di Pisapia. È la stessa mossa fatta all’indomani della sconfitta del referendum costituzionale, finita poi su un binario morto.

«Ormai è chiaro che in questo parlamento non c’è spazio per una riforma e si voterà con le leggi attuali. Per questo, ho già detto a Giuliano di correre divisi alla Camera, ma in coalizione al Senato», fa dunque sapere Renzi a mezzo Repubblica, quotidiano che ha avuto sempre un debole per l’ex sindaco di Milano, e che lo preferisce coalizzato con il Pd.

La risposta di Pisapia in prima battuta è piccata: «Prima bisogna ragionare partendo da una constatazione oggettiva: quel tipo di alleanza con la destra o centrodestra è perdente per il Paese e per la buona politica». L’ex sindaco ha già esperienza di un Renzi mobile qual piuma al vento. E oggi ormai ha messo in piedi la rete Campo progressista che prepara per il primo luglio il lancio di un fronte comune con Mdp di Bersani e D’Alema. E cioè quelli che il leader Pd non vuole vedere neanche dipinti. Ricambiato.

L’imminente varo di una legge elettorale con lo sbarramento al 5 per cento e la precipitazione al voto avevano spinto la sinistra a (provare a) unirsi. Il crollo dell’ipotesi finto-tedesca e il ritorno del voto al 2018 però cambiano tutto. Dal lato del Pd, ma anche dal lato della sinistra variegata che affrontava la mission impossible dell’unità con una serie di incontri pubblici, ora presumibilmente tutti da ricalibrare.

Così nel pomeriggio si misura tutta la confusione che regna nel virtualissimo campo del centrosinistra.La scena va in onda in diretta su Radiopopolare che nel corso della sua festa costringe sullo stesso palco lo stesso Pisapia, Fiano, Enrico Rossi (Mdp) e Nicola Fratoianni (Si). E lì succede che Fiano attacca Rossi (finisce male, il dem che si deve scusare «per l’arroganza») e invece corteggia Pisapia. Il quale a sua volta fa la mossa di accettare il dialogo ma avanza condizioni irricevibili per Renzi: «Sono per il massimo dell’unità e rimango sempre favorevole al dialogo ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori. Renzi accetti le primarie di coalizione, ci vuole discontinuità rispetto a ora.

E ripristini i diritti a chi li ha tolti con l’art.18». Rossi, sulla carta già alleato di Pisapia (Mdp e Campo progressista siedono nello stesso gruppo alla Camera), boccia invece la richiesta di primarie: «Non sono un punto fondamentale». Poi scarta decisamente l’idea di un accordo con il Pd e chiede invece a Pisapia e Fratoianni di fare «una larga sinistra che punti a mandare in parlamento più eletti possibile».

Grande è la confusione sotto il cielo, la sinistra stenta a capitalizzare la nuova sconfitta di Renzi. Pisapia prova a fare il pontiere ma sbaglia ponte: chiede che nel finale di legislatura il Pd abbandoni l’alleanza a destra e assicuri l’approvazione di ius soli, reato di tortura, codice antimafia e provvedimenti sull’uguaglianza sociale. Replica scontata di Fiano: «Certo, ma i voti nostri e vostri anche uniti non bastano».

I numerosi punti deboli della proposta di Pisapia per le elezioni. A noi per quardare altrove basterebbe ricordare che vuol fare un centro sinistra dove una sinistra non c'è, e che considera il renzismo un potenziale alleato.

il manifesto, 10 giugno 2017

E’ indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).

In tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi alla persona.

Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici, quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica, diventano imbattibili in materia.

Ma è più importante osservare la politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla ricerca e all’Università.

Quello che stupisce in coloro che si ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.

E’ sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.

L’abolizione dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica internazionale.

Da noi la disuguaglianza ha una connotazione ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della vita sociale vengono messe ai margini.

Ebbene su questo punto occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza, senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.

Il secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione tecnologica.

Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine in agricoltura.

Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.

Serve cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale. Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da McDonald.

il manifesto, 6 giugno 2017

Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.

La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.

La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.

Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.

Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.

Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro. Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.

«Il 18 giugno a Roma. È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati»

Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.

Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive. Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.

Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).

È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.

Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.

Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.

Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.

il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2017 (p.d.)

Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?

Nulla, tranne la soglia di sbarramento del 5%, se rimane. Mentre in Germania chi vince nel collegio uninominale viene eletto in Parlamento, nel caso italiano i candidati dell’uninominale non fanno altro che mettersi in fila per essere tra gli eletti del loro partito. E non sono neppure tra i primi. La priorità spetta al capolista del listino bloccato poi, eventualmente, il candidato arrivato primo nel collegio uninominale, seguono gli altri della lista bloccata, infine, se il partito ha ancora diritto a ulteriori seggi, passano i candidati dei collegi uninominali che non sono arrivati primi.

Quindi, come con il Porcellum e con l’Italicum, abbiamo sempre dei nominati in Parlamento?Esattamente. Sono tutti nominati e le liste bloccate sono addirittura due. Una evidente, che compare sulla scheda, cioè il listino, e l’altra formata dai candidati della lista per i collegi uninominali, all’interno di una circoscrizione.
Dunque, per il meccanismo che ci ha spiegato, le segreterie scelgono anche i numeri uno dei collegi uninominali, per controllare chi sarà eletto?
I primi di cui hanno cura sono i capilista del listino bloccato: anche se vanno in vacanza senza fare campagna elettorale, saranno eletti. Seguiranno i numeri 1 della parte uninominale, anche questi indicati dalle segreterie di partito.
Ma gli elettori cosa scelgono?
Scelgono il partito. Accanto al suo simbolo c’è il candidato uninominale, che cambia di collegio in collegio, dall’altra parte del simbolo c’è il listino bloccato uguale per tutta la circoscrizione.
Il Porcellum è stato bocciato dalla Consulta, l’Italicum idem. E il Tedeschellum ha recepito o ignorato quanto indicato dalla Corte costituzionale?
La cosa positiva è l’eliminazione dei premi di maggioranza, che la Consulta non reputa di per sé incostituzionale, ma sono a forte rischio quando assicurano sempre e comunque una maggioranza. Viceversa, è stata aggirata la necessità di non avere lunghe liste bloccate e di consentire agli elettori di scegliere gli eletti. Tanto è vero che perfino il candidato nel collegio uninominale anche se vince non ha certezza di entrare in Parlamento.
Dunque, ci risiamo? Si va di nuovo davanti ai giudici costituzionali?
Sulla incostituzionalità avrei qualche dubbio in più, il sistema valorizza molto poco il voto dell’elettore ma certamente dal punto di vista formale non c’è un’unica lunga lista bloccata ma una evidente e un’altra occulta, più corta.
Lei è stato chiamato alle audizioni parlamentari. Cosa aveva suggerito?
Un compromesso per valorizzare la rappresentanza e tenere ferma l’esigenza di stabilità di governo. In sostanza un sistema misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale, che sembrava il preferito. Era venuto fuori il cosiddetto Rosatellum, non congegnato benissimo ma si poteva lavorare per perfezionarlo. Invece, si è abbandonato e si è intrapresa questa strada, sicuramente peggiore.
Qual è secondo lei la ratio di questa scelta?
La volontà di trovare una legge che passi rapidamente per assecondare una spinta al voto anticipato di cui non si comprende l’esigenza a questo punto, quasi finale, della legislatura.
E la fretta non porta a nulla di buono...
Mai. È una legge non in linea con il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre, quando gli italiani hanno ribadito che vogliono scegliere direttamente i propri rappresentanti.
La puntuale sacrosanta risposta del presidente del Consiglio di Stato alle arroganti critiche dei governanti incapaci e dei loro portavoce mediatici.

la Repubblica, 31 maggio 2017

«La politica deve occuparsi degli indirizzi generali del Paese e i giudici, quando sono chiamati in causa, devono vegliare che le politiche pubbliche siano attuate nel rispetto di tutti i cittadini ». Tono e linguaggio soft, ma il presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, a una settimana dall’affaire dei direttori dei musei, pianta molti paletti.

Renzi ha detto di aver sbagliato a non riformare i Tar. Era una pressione?
«La questione di fondo non riguarda solo i tribunali amministrativi, ma la tutela giurisdizionale nei confronti dell’esercizio del potere pubblico. Ammettiamo per un momento che i Tar potessero essere aboliti con un tratto di penna, e non consideriamo che dovremmo cambiare la Costituzione, e forse anche le norme della Carta dei diritti dell’uomo e della Convenzione europea. Se i Tar fossero aboliti dovrebbe necessariamente esserci un altro giudice che esercita il controllo esercitato prima dai tribunali amministrativi».
E quindi?
«Questo giudice potrebbe essere quello civile, il quale provvederebbe con i suoi modi e i suoi tempi di intervento. Giusto per citare un episodio di questi giorni il giudice del lavoro di Firenze ha sospeso il concorso per l’assunzione di 800 assistenti giudiziari, un concorso con 300mila domande, perché ha ritenuto discriminatoria la clausola di cittadinanza contenuta nel bando».
Repubblica, in un inchiesta su Affari e finanza, parla di «gigantesco labirinto di sospensioni e annullamenti».
«Credo che la giustizia amministrativa non si riconosca in queste parole. Non siamo “i giudici del no”. Sono tanti i casi di rigetto delle domande di sospensione di opere o investimenti pubblici. Vogliamo che le riforme trovino piena attuazione nel rispetto dei diritti dei cittadini. Questo vale anche per l’attività consultiva: i pareri del Consiglio di stato mirano ad attuare le riforme eliminando i possibili contrasti con le leggi e con i principi costituzionali. Possono esserci sentenze discutibili, come talvolta accade. Ed è per questo che esiste l’appello».
Vede un’insofferenza della politica verso i controlli?
«Osservo che talvolta si confonde il medico con la malattia. Si pensa che sia meglio intervenire sulla giustizia amministrativa, mentre la malattia sta soprattutto nella complicazione delle leggi, nella loro farraginosità, nella mancanza di qualità dell’amministrazione e talvolta nella difficoltà delle imprese ad accettare le regole di concorrenza negli appalti. Queste sono le vere patologie che andrebbero curate a monte».
Le leggi sono fatte male e la politica se la prenda coi giudici quando passano i ricorsi?
«Certamente non tutte le leggi sono ben fatte e lo ricorda anche Repubblica quando richiama i cambiamenti continui di quelle sugli appalti. C’è un problema di chiarezza, ma anche delle scelte di indirizzo generale che deve fare la politica. Il giudice amministrativo si occupa solo di atti e di provvedimenti. Che talvolta riguardano l’attuazione di scelte politiche. Il rischio è che il dibattito sulla giurisdizione sia la prosecuzione del dibattito politico, per cui ognuno richiama la propria posizione e non si esamina più la sentenza, bensì la scelta politica a monte. È successo per i musei, ma anche per gli appalti. Ci possono essere illegittimità, il che non significa che si neghi la necessità delle infrastrutture, ma solo che i diritti devono andare d’accordo con le procedure».
Sì, ma attenzione al “formalismo giuridico”e al “bizantinismo”. Per citare la battuta di Cottarelli “non si può morire di diritto amministrativo”.
«Non si muore di diritto amministrativo, si muore di bizantinismo. Bisanzio può riguardare sia la legge che le sentenze di qualsiasi giudice ordinario, amministrativo, contabile, il rischio c’è sempre. Il diritto amministrativo assicura di poter realizzare grandi servizi pubblici, interventi per sanità, istruzione e accoglienza, senza che i diritti dei cittadini restino sulla carta».
Le inchieste giudiziarie non rivelano una colpevole disinvoltura nei comportamenti di alcuni giudici?
«Il dovere di tutti è difendere le istituzioni, che si difendono anche facendo in modo che le inchieste abbiano il loro corso, vadano in fondo e lo facciano velocemente. Però bisogna evitare di mettere sotto processo le intere istituzioni accanto ai singoli casi. C’è bisogno di una riforma disciplinare, e lo dico da molto tempo. Ne vorremmo una più semplice, più efficace e norme che tipizzino gli illeciti. Comunque, non appena gli uffici inquirenti ci trasmetteranno le informazioni non coperte da segreto istruttorio eserciteremo l’azione disciplinare».

Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società». il manifesto,31 maggio 2017


Gliopposti veti incrociati stanno facendo convergere i partiti verso una leggeelettorale ispirata al modello tedesco, sia pure con negative modificazioni:sicuramente l’esclusione del voto disgiunto, che mira a concentrare i voti suipartiti maggiori; più difficilmente l’introduzione di un premio di maggioranzaalla lista che supera una certa soglia (il 40%).
Perdare un giudizio ponderato occorrerà, dunque, aspettare la definizione delladisciplina nei dettagli, ma a sinistra le prime reazioni sono già di segnodiverso. A quanto si legge sui giornali, mentre Sinistra italiana e Articolo 1guardano con interesse a quel che sta accadendo, Campo progressista manifestauna posizione nettamente critica. Coerentemente con la posizione favorevolealla revisione costituzionale renziana, Pisapia è ostile all’evoluzione inatto, perché – dice – la legge alla tedesca «condurrà molto probabilmente a ungoverno di larghe intese». Il governo di coalizione – l’inciucio! – eraesattamente lo spauracchio agitato da Renzi a sostegno della revisionecostituzionale che, unitamente all’Italicum, avrebbe finalmente dovuto dare alPaese un governo «la sera stessa delle elezioni».
Losforzo maggiore compiuto da chi, nei lunghi mesi della campagna referendaria,si è impegnato ad argomentare un voto consapevole in favore del No è statoproprio combattere la fallacia di questo argomento. Partendo dallaconstatazione oggettiva di una società divisa in tre grandi orientamentipolitici (Pd, M5S, destra), tutti oscillanti intorno al 30% delle preferenze,in ogni occasione si è ripetuto quanto risulti sterile «gonfiare», attraversomeccanismi maggioritari, un consenso elettorale minoritario facendolo diventaremaggioranza in Parlamento. L’antica ascendenza magica del diritto continua evidentementea farsi sentire, se in tanti, anche a sinistra, continuano a credere che unaformuletta (la formula elettorale) possa realmente trasformare una minoranza inmaggioranza: vale a dire, una cosa nel suo opposto.
Gliultimi venticinque anni dovrebbero aver insegnato che la trasformazioneartificiale di minoranze in maggioranze finisce solo col costruire giganti coni piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società – privi dellacapacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro ilPalazzo. Se guardiamo alla storia repubblicana, emerge con evidenza che ilmomento di massima governabilità – cioè il momento in cui la politica ha saputotrasformare la società più in profondità – si è avuto quando massima è stata lacapacità di rappresentare le articolazioni dell’elettorato. Dalla riforma dellascuola media (1962), alla istituzione del Servizio sanitario nazionale (1978) –passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenzasociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti deilavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970),le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia(1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi(1978) – si è assistito a provvedimenti assunti sempre allargando l’area dellamaggioranza, dapprima nella prospettiva dei governi di centro-sinistra, poi inquella del compromesso storico. Per individuare il momento in cui la storiarepubblicana imbocca la parabola discendente, occorre guardare al Congresso Dcdel 1980, con il noto preambolo che, riesumando la logica dell’esclusionepolitica, chiudeva l’esperienza voluta da Moro e Berlinguer e trasformava ilcentro-sinistra nel pentapartito.
Oggila società è divisa come, se non più, che nel dopoguerra. Le diseguaglianzesono profondissime: nonostante l’Italia sia ancora una delle dieci maggioripotenze economiche del mondo, è oramai al terzo posto in Europa per numero dipoveri. In questa situazione occorre riscoprire la valenza profonda dellafunzione parlamentare, che è far dialogare i diversi, non metterne uno incondizione di prevalere sugli altri. La legge deve tornare a essere il fruttodi una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno allesoluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di decreti-legge – diuna parte sulle altre. Solo così si può sperare di riuscire a incidere davverosull’esistente.
Oggi,questa consapevolezza per molti è andata perduta. Una legge elettorale checostringa i diversi a dialogare può contribuire a farla riemergere. Per questoci siamo battuti, perché il 4 dicembre non si affermasse un sistemaistituzionale definitivamente basato sulla contrapposizione e sull’esclusione.

Ora,è il momento di iniziare a ragionare nella logica del dialogo edell’inclusione. Il cambio di paradigma culturale è sempre difficile, ancheperché difficilmente i risultati arriveranno a stretto giro. Ma chi fa politicadovrebbe sapere che seminare oggi è condizione per poter raccogliere domani.
«Se è vero che l'Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all'opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto».

il manifesto, 30 maggio 2017 (p.d.)

Nella settimana che dovrebbe mettere il sale sulla coda della legge elettorale, un patto siglato da Renzi, Berlusconi e Grillo, la sinistra procede a piccoli passi nella costruzione di una piattaforma, di un programma, di quei famosi dieci punti che in Francia come in Inghilterra e in Germania, le sinistra europee mettono in campo nella girandola elettorale in corso nel Vecchio Continente.

Lavoro, welfare, immigrazione sono all’ordine del giorno sul fronte di un’altra Europa contro l’asse Macron-Merkel-Renzi che alza la bandiera di aver fatto argine al pericolo populista. La domanda di una sinistra che possa riprendere voce, ruolo e rappresentanza nel panorama politico italiano abbonda, anche sulla base e sulla scia dei consensi che leader con o senza codino, giovani o anziani, ricevono nel panorama europeo. Una domanda per una prospettiva di alternativa, capace di innovare nella costruzione di una forza aperta ai cittadini chiamati a partecipare in modo diretto alla sua formazione. Né con un mi piace, né con il rito della cooptazione.

In Italia la famiglia della sinistra, laburista, libertaria e ecologista, si presenta come un arcipelago sopravvissuto alle eruzioni vulcaniche del suo elettorato, con il vasto consenso dei 5Stelle, con il renzismo, con la scissione di un pezzo del Pd, con la diaspora di Sel-Sinistra italiana. Se lo sbarramento della futura legge elettorale sarà il 5%, la sinistra ha di fronte un grande ostacolo che deve trasformare in un obbiettivo. Per uscire dall’angolo, e navigare in mare aperto rispetto a quel vasto elettorato, piuttosto esigente, che non ne può più di assistere disarmato al perenne duello tra Renzi e Grillo.

Questo governo che prima cancella un referendum con un decreto-truffa e poi resuscita i voucher per le aziende, dimostra una volta di più la sua natura neocentrista. E il Pd che ne è il perno va cercare accordi e consensi altrove, lontano da un mondo del lavoro che ha abbandonato al precariato, facendosi alfiere e baluardo di una politica fiscale che si fa scavalcare a sinistra da Bruxelles sulla tassa per la prima casa. Mille vertenze assediano ogni giorno il ministero dello Sviluppo economico di Calenda; i licenziamenti sono tornati in grande stile senza giusta causa; le università pubbliche stringono il rubinetto del numero chiuso perché mancano docenti e aule in un paese con il 40% dei giovani disoccupati.

Economicamente, socialmente e culturalmente il deserto italiano è profondo e certo non lo bonificherà da sola una forza di sinistra che sente la fatica di affrontare anche uno sbarramento del 5%. Certamente la natura intrinsecamente maggioritaria dell’intesa che si va profilando per le forze minori prefigura una strada tutta in salita (pur superando la soglia di sbarramento la sinistra rischia una rappresentanza parlamentare di tribuna e comunque forte sarà il richiamo al voto utile nei collegi). Grillo, Renzi e Berlusconi sembrano correre verso elezioni anticipate, i tre poli lavorano per mettere le basi di future maggioranze. Chi in stile Nazareno, chi in modalità pentastellata con maggioranze variabili. Mentre balla nei cieli del purgatorio una legge finanziaria che non si capisce quale governo sarà destinato a firmare.

Una lista di coalizione, a sinistra, si misura oggi con la capacità, la volontà interpretare le lotte sociali insieme a una parte forte del sindacato, la Cgil, in sintonia con un papa che su economia e lavoro parla chiaro e parla a tutti. Non mancano certo le carte per dare finalmente rappresentanza, identità e futuro a quei milioni di persone, italiane e straniere, che si sentono sole di fronte all’impoverimento, che soffrono l’esclusione sociale, che subiscono il bombardamento di una sottocultura dell’odio e del rancore, oltre che di un trasformismo perenne. Buone carte per un gioco difficile, truccato e diverse trappole da evitare. Il prevalere di vecchi riflessi condizionati nella corsa ai posizionamenti ideologici, la perniciosità di una certa pigrizia intellettuale, la tentazione di sommare spezzoni di gruppi parlamentari, l’afasia nella scelta della leadership.

Se è vero che l’Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all’opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto.

«Maurizio Landini (Fiom) - Il leader dei metalmeccanici Cgil contesta il ritorno dei voucher: ieri era il giorno del referendum poi saltato».

Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)

«Il 17 giugno intendiamo riempire piazza San Giovanni a Roma di lavoratori e di cittadini che manifestano per difendere la Costituzione, lo facciamo non per dividere ma per unire questo Paese partendo dalla convinzione, sancita nella nostra Carta, che attraverso il lavoro si afferma il diritto e la possibilità di vivere con dignità: la democrazia è sotto attacco». Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ritrova i toni delle grandi occasioni e chiama i lavoratori, i pensionati e tutti i cittadini a mobilitarsi. Il casus belli che riporta la Cgil in piazza dopo aver sperimentato la via legislativa con la raccolta delle firme ai banchetti per promuovere i referendum, è l’emendamento che il governo ha presentato sabato scorso nella manovra di aggiustamento dei conti pubblici all’esame del Parlamento. Una norma che reintroduce di fatto i voucher nei sistemi di retribuzione delle prestazioni lavorative anche nelle imprese. «Siamo davanti a un attacco alla democrazia - tuona Landini - perché con un imbroglio si è impedito alle persone di esprimersi e di decidere, come dice la Costituzione».

Oggi (ieri, ndr) si sarebbero dovuti celebrare i referendum chiesti dalla Cgil dopo aver raccolto 3 milioni di firme, vi sentite presi in giro?
«Non siamo noi ma il Paese intero a essere stato preso in giro, siamo di fronte a una logica da imbroglioni: il 21 aprile hanno emanato un decreto di abolizione dei voucher per superare il voto dei referendum, il presidente del Consiglio disse che lo avevano fatto per non dividere il Paese; il ministro del Lavoro promise poi che avrebbe aperto un confronto con le parti sociali, ma nessuna convocazione è arrivata e a metà maggio si inventano un emendamento di reintroduzione dei voucher infilandolo in una manovra sui conti pubblici».

La ministra Finocchiaro dice che non sono voucher e chi li chiama ancora così è un bugiardo.

«In realtà sono ancora peggio di quelli vecchi, quando li estendi alle imprese con meno di cinque dipendenti, che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese, si sta introducendo un’altra forma di lavoro che non è un contratto; non esistono le imprese occasionali, si tenta di tornare a una logica commerciale del lavoro, senza più diritti né tutele e senza possibilità di impugnare gli atti se serve. Un altro imbroglio come le famose “tutele crescenti” con cui dicevano di aver sostituito l’articolo 18».

Il segretario del Pd, Mattero Renzi, però se ne chiama fuori, dice che è una partita totalmente giocata dal governo.
«Stiamo assistendo a un balletto: in Commissione l’emendamento è stato presentato da parlamentari del Pd e si conferma che anche il governo Gentiloni e quello Renzi - che poi sono la stessa cosa - tutte le volte che fanno norme sul lavoro non ne discutono con nessuno e producono provvedimenti dannosi che aumentano la precarietà. Il Pd dice che va votato, addirittura con Forza Italia e con la Lega. La verità è che questi sono quelli dell’Ape e del Jobs act e che avevano detto che sarebbero andati via dalla politica e sono ancora lì a distribuire a pioggia un sacco di soldi pubblici».

Anche papa Francesco fa riferimento alla Costituzione per richiamare gli imprenditori a non soggiacere solo alla logica del profitto: è il sindacato che si fa ecumenico o viceversa?

«Certo è molto significativo che il Papa mandi da Genova un messaggio forte a favore della dignità e del valore sociale del lavoro proprio mentre in Parlamento una parte del Pd, all’opposto, fa questo provvedimento. Cgil e Fiom devono mettere al centro del loro impegno la democrazia e il lavoro come ci ha ricordato papa Francesco».

Cosa proponete a quei settori dell’economia che chiedono comunque una regolamentazione?

«Abbiamo depositato da tempo in parlamento la proposta di una Carta dei diritti, per ottenere uno statuto di tutte le forme di lavoro dignitoso e tutelato: pensione, salute, equa retribuzione, partecipazione alle scelte sono diritti non contrattabili».

Pare che il provvedimento avrà la strada spianata anche al Senato.
«La partita non è chiusa, ci appelliamo al presidente della Repubblica, alla Corte di Cassazione e alla Consulta perché intervengano e chiederemo, con una raccolta di firme che partirà nei prossimi giorni nelle piazze e in tutti i posti di lavoro, il rispetto dell’articolo 75 della Costituzione. Dobbiamo denunciare l’imbroglio e difendere la democrazia».

Se ci fossero solo onesti e capaci non servirebbero né leggi né tribunali Ma questo è il paese dei franceschini.

la Repubblica, Affari e Finanza, 29 maggio 2017

L'ultimo stop in ordine di tempo è arrivato giovedì scorso: due sentenze del Tar del Lazio hanno fatto saltare cinque delle venti nomine di direttori di grandi musei statali, mettendo a repentaglio una riforma che stava funzionando bene. Non c'è giorno o settimana in cui l'elenco degli altolà disposti in Italia dai giudici amministrativi di primo e di secondo grado non si arricchisca di un nuovo caso. Sotto la loro scure cadono uno dopo l'altro lotti stradali e concorsi pubblici, riforme bancarie e lavori di messa in sicurezza di scuole e ospedali, bonifiche di terreni e assunzioni di infermieri.

Rafforzare il personale che lotta ogni giorno contro l'evasione fiscale è cosa buona e giusta: peccato che negli ultimi tredici anni il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato abbiano bloccato o sospeso tutti e tre i concorsi che l'Agenzia delle Entrate aveva disposto per assumere centinaia di dirigenti. Basta avere un po' di buon senso per capire che le mastodontiche navi da crociera non devono passare a pochi metri da Venezia, ma basta una pronuncia del Tar del Veneto all'inizio del 2015 per annullare l'ordinanza con cui la Capitaneria di Porto aveva limitato il loro passaggio nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Valorizzare o quanto meno evitare che cada a pezzi il nostro patrimonio storico-artistico è un impegno difficilmente contestabile. Eppure capita che all'inizio del 2016 il Tar della Campania sospenda i lavori nella "Regio I" di Pompei in seguito al ricorso di un'azienda esclusa dalla gara, e che li sblocchi solo quest'anno, guarda caso pochi giorni dopo il crollo del muro di una delle Domus romane.

L'Osservatorio Nimby Forum (dove Nimby è l'acronimo inglese per lo slogan "non nel mio cortile") ha calcolato che più di un terzo delle 342 opere bloccate in Italia ha ricevuto almeno uno stop da Tar e Consiglio di Stato: si tratta di 122 impianti finiti nelle sabbie mobili dei ricorsi. Al primo posto, nell'elenco dell'Osservatorio, gli impianti energetici, seguiti da termovalorizzatori e biodigestori per i rifiuti, da strade e ferrovie per le infrastrutture. Il 37% di queste opere sono ferme da più di quattro anni.

Morire di diritto
L'immagine di un'Italia bloccata dalla giustizia amministrativa, dove non solo le opere pubbliche ma quasi ogni decisione politica è condannata a restare sospesa per anni o decenni, non è certamente nuova. Già qualche anno fa era una visione così nitida da indurre un politico misurato come Romano Prodi ad affermare, neppure troppo provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato avrebbe favorito la crescita del Pil. "Non possiamo morire di diritto amministrativo", scrive nel suo libro La lista della spesa l'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sfiancato dalla gragnuola di veti e ricorsi piovuti su ogni atto politico. In realtà, non è un problema che si possa risolvere con una semplice sforbiciata. Non è possibile privare i cittadini del diritto di difendersi dai possibili abusi della pubblica amministrazione: missione affidata appunto ai giudici amministrativi. L'obiettivo è salvaguardare questo diritto senza tuttavia bloccare l'economia di una intera nazione, senza creare quello stato di incertezza che paralizza imprese e famiglie e allontana gli investimenti esteri.

Finora però non è andata così: assistiamo tutti i giorni a occasioni di sviluppo sacrificate sull'altare del più astratto formalismo giuridico, del bizantinismo più esasperato. Malgrado i progressi realizzati negli ultimi anni, i ricorsi pendenti presso Tar e Consiglio di Stato sono ancora una massa enorme, quasi 240 mila nel 2016, con forte concentrazione al Sud, e quelli nuovi si mantengono ben sopra la soglia dei 60 mila annui raggiunta nel 2012 e poi addirittura superata. Sui tempi della giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, ricorda che molto è stato fatto per ridurli: "Tra il deposito del ricorso e la prima decisione collegiale passano oggi 200 giorni, contro i 700 del 2010". Ed è di comune dominio la convinzione che la giustizia amministrativa sia comunque più veloce di quella civile. Più veloce eppure in assoluto ancora lentissima: secondo il Justice Scoreboard della Commissione europea, edizione 2017, se si tiene conto delle liti pendenti, ci vogliono mille giorni in Italia, ossia quasi tre anni, per arrivare alla fine del primo grado di giudizio amministrativo, un record in Europa. In Svezia, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Polonia bastano cento giorni. In Francia e Germania meno di 500.

A colpi di sospensive
Insomma, il fenomeno da noi presenta ancora tutti i crismi della emergenza. Ormai non c'è concorso pubblico, non c'è gara di appalto senza almeno un ricorso da parte di chi è stato escluso. E dal ricorso non di rado si passa alla sospensione temporanea da parte del Tar (che può durare anche mesi), cosicché quando arriva il giudizio (anche se è positivo) spesso è troppo tardi. Senza contare che poi si dovrà aspettare il verdetto del Consiglio di Stato che potrà sempre ribaltare la decisione del Tar. "La giustizia amministrativa è al timone della politica industriale del nostro paese - commenta Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum - E' questo il dato che emerge dalle nostre rilevazioni. Riportare in seno al governo le decisioni sui progetti di interesse nazionale è la soluzione che da tempo invochiamo, come viatico per la semplificazione degli iter autorizzativi e per la riduzione dei contenziosi tra Stato e Regioni. La riforma del Titolo V della Costituzione - continua Beulcke - avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, uno strumento potente in grado di realizzare una maggiore certezza del diritto, a beneficio di imprese, istituzioni e territori".

Ultimamente, soprattutto con il governo Renzi, si è cercato di porre un freno alla possibilità di aziende e privati di appellarsi ai Tar, e anche al potere dei tribunali stessi di sospendere i lavori più urgenti. Eppure, non si riesce ancora a porre fine ai casi di paradossale formalismo giuridico. Come quello raccontato da Giavazzi e Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso.

Dal Palladio a Pompei
Bassano del Grappa, agosto 2015: il ponte degli Alpini, progettato alla fine del Cinquecento da Andrea Palladio, rischia di sgretolarsi. Governo e Regione Veneto stanziano 3,7 milioni per i lavori. Un'azienda di Treviso vince l'appalto, ma siccome una ditta della stessa cordata non riesce a farsi dare in tempo tutti i documenti dalla prefettura, l'incarico viene affidato alla seconda arrivata. L'impresa trevigiana fa ricorso ma il Tar del Veneto non dà la sospensiva. Inizio lavori previsto per il 2 maggio 2016. Nuovo ricorso al Consiglio di Stato che a sorpresa blocca i lavori almeno fino al giudizio di merito del Tar. Il quale alla fine dà ragione alla prima azienda. E' passato più di un anno, il ponte per fortuna non è crollato ma avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Così come invece è accaduto, dopo un anno di veti e contro-veti, al muro della Domus del Pressorio di Pompei.

Il nuovo codice appalti dovrebbe d'ora in poi impedire casi come questi, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo come sempre l'interpretazione giuridica. E così, come spiega il presidente dell'Anac Raffaele Cantone, ci sono imprese che ricorrono al Tar solo perché puntano ad avere con il risarcimento danni per l'esclusione da un lavoro, più di quanto avrebbero ottenuto realizzandolo. E cita una grande impresa del Nord che, seguendo questa strategia, è stata risarcita con 21 milioni.

Le proposte di Bankitalia


Con il proliferare dei ricorsi, ogni atto politico o amministrativo viene congelato nel freezer dell'indecisione. La stessa Banca d'Italia, in una recente audizione, si domanda se la giustizia amministrativa sia un fattore di blocco dello sviluppo economico del nostro paese. "La risposta - spiega il direttore generale Salvatore Rossi - non può essere netta né generale, ma l'impressione che a volte ciò accada è fondata". E tra i rimedi, suggerisce un uso più rigoroso delle condanne alle spese di giudizio e a quelle per liti temerarie. Nel frattempo, però, la lista degli "stop and go" (in realtà più stop che go) si infittisce di mese in mese.

Infermieri e 007 del fisco


Nel regno immobile dell'Altolà entra di tutto, grandi e piccole opere: dalle fogne di Marsala ai lavori sul torrente Bisagno (quello dell'inondazione di Genova), dalla costruzione del polo oncologico San Matteo di Pavia all'espianto degli ulivi per il via libera al gasdotto in Puglia. Fino al lotto della strada Olbia-Sassari, la cui aggiudicazione è stata annullata appena un mese fa. Quando non sono le opere pubbliche ad essere sospese o cancellate, lo sono le assunzioni, come quella di 40 infermieri per il Policlinico Umberto I di Roma nel luglio 2016, o quella di 34 impiegati alla Regione Umbria nel marzo scorso. E in tema di personale non si può non ricordare la beffa subita dall'Agenzia delle Entrate, che, come si diceva all'inizio, ha visto andare in fumo tutti e tre i concorsi disposti negli ultimi 13 anni, uno addirittura il giorno prima degli orali. Nello stesso periodo l'Agenzia delle Dogane ha dovuto ingoiare l'annullamento di quattro dei cinque concorsi decisi. In tutto, sono rimasti così scoperti 1.257 posti di dirigenti di seconda fascia. Con buona pace della lotta all'evasione, dei controlli sulle accise alle dogane, di quelli sui giochi e sui tabacchi.

Alle decisioni sulle materie più o meno strategiche, si accompagnano poi migliaia di micro-verdetti talvolta bizzarri, come la sospensione del divieto di attività dei centurioni nel centro di Roma, o come lo stop all'ordinanza con cui il Comune di Cervo Ligure aveva disposto l'abbattimento dei cinghiali. E così questo gigantesco labirinto nonsense fatto di ricorsi, sospensioni e annullamenti acquista anche un carattere grottesco.

La riforma che non arriva


Difficile pensare che in tutte le loro sentenze, i 490 giudici di Tar e Consiglio di Stato abbiano sempre le mani legate dall'obbligo di un rigido rispetto delle leggi, che non dispongano di un certo grado di discrezionalità che consenta loro di evitare effetti paralizzanti sull'economia di un intero paese. Al di là delle responsabilità personali nel sospendere un'opera salva-vita o un'assunzione urgente di infermieri, il vero buco nero sembra risiedere in un sistema giuridico che ha ormai spezzato ogni legame con la realtà, con i bisogni di famiglie e imprese, con le aspirazioni di crescita del nostro paese. Da anni si annuncia una riforma della giustizia amministrativa che non riesce mai a vedere la luce, a uscire dai cassetti degli uffici legislativi dei ministeri. Uffici guidati spesso in tutti questi anni dagli stessi giudici amministrativi del Consiglio di Stato, distaccati al governo. E alla fine tutto resta fermo.
Insomma, parafrasando lo sfogo di Carlo Cottarelli, qui rischiamo di morire tutti di diritto amministrativo.
Silvia Truzzi intervista Paul Ginsborg, il professore che animò i Girotondi: «Solo le posizioni neoliberiste hanno cittadinanza». La nuova legge elettorale è la premessa di un governo renzusconiano: due facce della stessa medaglia.

il Fatto quotidiano, 29 maggio 2017

Se gli domandi di quest’ennesima ritrovata giovinezza di Berlusconi, ti risponde: “Questo ritorno al passato mi fa impressione. Anche molta rabbia. La stampa italiana non ha imparato la lezione, purtroppo. E nemmeno la borghesia, che si è omologata. L’unica posizione che ha cittadinanza ormai è quella neoliberista”. Paul Ginsborg, storico inglese ormai naturalizzato italiano (vive a Firenze da oltre 25 anni), è un uomo mite ma appassionato. Non per nulla il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con il filosofo Sergio Labate, s’intitola Le passioni e la politica (Einaudi).

Professore, ci sarà di nuovo un governo di larghe intese con Pd e Forza Italia con i Cinque stelle all’opposizione?

«Sì, credo sia più che possibile. Non dimentichiamoci che Berlusconi non ha mai fatto mistero di considerare Renzi il suo figlio politico. E ricordiamo anche la visita pastorale di Renzi ad Arcore: allora tutti lo criticarono, ma lui come sempre tirò dritto per la sua strada. Mi colpisce molto che non esistano in circolazione foto dei due insieme. E dire che il segretario del Pd è sempre pronto ad abbracciare tutti. Questa “clandestinità” mi fa pensare che stiano già trattando alleanze di governo. Il leader della sinistra non mette insieme il ceto medio, cerca di separarlo. Ed è molto grave».

Perché?
«Il ceto medio in Italia è stato trattato come carne da macello dalla politica, usato e abbandonato. Oggi rappresenta una parte di società arrabbiata, per via della disoccupazione e dell’impoverimento. A queste persone nessuno sa dare risposte, nemmeno i Cinque Stelle. Non credo che potranno farlo neanche D’Alema e Pisapia. Il ceto medio è stato indebolito, e non solo economicamente. Intendo anche da un punto di vista culturale, sociale e politico. I partiti hanno usato alcune rivendicazioni e alcuni movimenti finché ha fatto loro comodo. Ricordo che Fassino si presentò alla manifestazione dei girotondi, dove i partiti non erano invitati, e si mise a firmare autografi. Oggi quando D’Alema cita “i comitati del No al referendum di Zagrebelsky” fa la stessa cosa: un’operazione opportunista e senza contenuti. Invece di riconoscere che esiste una società civile che va incoraggiata a crescere, cerca di risucchiarla. È un grande segno di miopia».

Come potrà un elettore del Pd che per lustri ha fatto la guerra a Berlusconi votare il suo partito sapendo che probabilmente si alleerà proprio con Berlusconi?
«Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca, passati dai padri ai figli».

Perché gli intellettuali tacciono?
«Dirò una cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica può distribuire sono molto meno».

Tutti tengono famiglia?
«L’altra sera ho detto a mio figlio maggiore: “Ben, ho sbagliato tutto. Avrei dovuto essere un padre ‘clientelare’, utilizzare i miei contatti per sistemare i miei figli”. E lui mi ha detto: “E’ vero, babbo. Così se Bossi aveva il Trota, io potevo essere il tuo Merluzzo”. Scherzi a parte, credo che la situazione sia tristemente e banalmente questa: la maggioranza teme di inimicarsi chi ha – o anche potrebbe avere – il potere».

In Europa il premier che attirava sorrisini, ora diventa un fattore di stabilizzazione, benvenuto agli appuntamenti del Ppe. Come è possibile?
«In Europa la situazione è disperata: non possono rischiare altre “exit”. Anche se Renzi porta il partito di Berlusconi al governo, proveranno a digerirlo. Siamo in buona compagnia, del resto: basta pensare al premier ungherese, ben peggio di Berlusconi. Credo però che Berlusconi continuerà ad avere un peso, ma resterà defilato».

Non può neanche candidarsi!
«Dopo il fallimento del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta, bisogna essere onesti e dire che non c’è molta differenza tra le politiche neoliberiste di Berlusconi e quelle di Renzi.

Come vede le elezioni in ottobre?
«Non c’è un altro Paese come l’Italia fissato su quando e come si vota. La discussione sulla legge elettorale è stupefacente per uno straniero. Credo che Renzi voglia tornare al potere il prima possibile. Credo che non dorma la notte nel timore che il potere gli scivoli dalle mani. In politica le cose cambiano con eccezionale rapidità: Harold Wilson, un premier inglese degli Anni 60, diceva che “una settimana in politica è un tempo lunghissimo”».

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