il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)
Lla Repubblica, 27 giugno 2017, con postilla
C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No.
Sostiene Crainz: "Dopo Berlusconi e Monti, Renzi avrebbe dovuto cambiare la rotta". Ma il ragazzo di Rignano non poteva non seguire la rotta che altri, lassù al piano più alto, avevano già tracciato per Berlusconi, Monti e Renzi.
«doppiozero, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Uno sciopero generale del voto. Non trovo altra espressione per descrivere queste amministrative d'inizio estate. Sciopero generale dell'elettorato nel suo complesso, col livello record dell'astensione schizzata quasi ovunque sotto la dead line del 50%. E sciopero generale dell'elettorato PD in particolare, con una vera e propria fuga di massa dal partito di Matteo Renzi pressoché ovunque, a cominciare dalle sue tradizionali roccaforti.
Il PD – e con lui il centro-sinistra – perde male Genova (più di dieci punti di distacco). Perde male – malissimo – La Spezia (venti punti di distacco). Cade Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d'Italia”, con 15 punti di distacco. E, analogamente, il “feudo” di Pistoia ritenuto sicuro (ancora 10 punti). Nemmeno L'Aquila, dove pure al primo turno si era sfiorato il successo, resiste (e il volto sconcertato di Cialente testimonia di uno shock difficile da elaborare). E poi Alessandria, Asti, Piacenza, Carrara (quest'ultima passata agli odiati 5Stelle)... Su 25 capoluoghi di provincia in cui si rinnovava il sindaco, il centro-sinistra resiste solo in cinque!
È però Genova la città simbolo di questa débacle. Genova la “Superba”. La città di Mazzini e di De André, dei Mille e di don Gallo, dei camalli e delle magliette a strisce. Genova che resistette ai Savoia e ai Tedeschi, che diede vita nel 1904 al primo sciopero generale del lavoro, quella del luglio '60 contro i fascisti e del luglio 2001 contro gli oligarchi della cattiva globalizzazione. Genova repubblicana e democratica, anticonformista libertaria e “di sinistra”. Genova se l'è presa Marco Bucci, manager in quota Salvini, ex guida boy scout e poi CEO in società internazionali, protagonista di una campagna elettorale all'insegna di Paolo Del Debbio e della “città che conta” (si ricorda la cena nella lussuosa villa Lo Zerbino – nomen omen – con un paio di centinaia di armatori, industriali, maggiorenti)... Bucci si porta in Consiglio 9 leghisti, 5 forzisti, 3 post-fascisti di Fratelli d'Italia, una composizione che mai si era data a Genova da quando si vota.
Il passaggio di mano è avvenuto in una sorta di deserto elettorale, con la maggioranza della città rimasta a bordo campo, delusa, distratta, scettica: ha votato appena il 42% degli aventi diritto, poco più di 200.000 elettori su oltre 500.000 iscritti alle liste elettorali, con punte particolarmente basse nella città di Ponente (Municipi V VI e VII), quella “rossa”, dei portuali e dei siderurgici, dove l'exit è particolarmente evidente e brucia di più a confronto con la Genova di Levante, i quartieri del Centro e del Bisagno, tradizionalmente “blu”, dove la partecipazione sta qualche punto percentuale più sopra...
Non è un fatto locale. È il dato generale nazionale, dove anche il voto di protesta sembra essersi arreso, persino quello “di vendetta”, che nell'intero Occidente ha sostenuto il vento impetuoso dei cosiddetti “populismi” (da Trump alla Brexit), sostituiti tutti, ora, da un atteggiamento di delusione e abbandono del campo, ben visibile nei numeri: in quel 54% di astenuti che una classe politica minimamente responsabile e consapevole dovrebbe guardare con terrore (è la misura di una de-legittimazione gigantesca).
E che invece occhieggia appena nei sottotitoli dei giornali, quasi una curiosità (una nuova lineetta nel Guinness dei primati) ma sta fuori dai pensieri dei politici e degli opinionisti che fanno coro, occupati solo a misurare il risultato in termini di seggi, posti, percentuali (i valori assoluti sempre più striminziti che stanno dietro quelle ripartizioni relative non interessano). Quello che interessa è solo la resa dei conti nel campo stretto dei pochi sopravvissuti in un'arena elettorale rarefatta: quanti sindaci a me a quanti a te. Quanti consiglieri, assessori, presidenti di partecipate, fedeli da accontentare, amici politici da sistemare...
È così che si isteriliscono le democrazie contemporanee, transitando senza quasi soluzione di continuità nella categoria-limbo della “post-democrazia” (messa a fuoco già una quindicina di anni or sono da Colin Crouch) e poi, a poco a poco, nella democrazia del leader (Ilvo Diamanti) e nell'oligarchia esecutoria, che sono, tutte, varianti di quella “democrazia senza popolo” di cui ha parlato, di recente, Carlo Galli: una forma ossimorica, auto-contraddittoria, che sintetizza bene la crisi di senso, oltre che di legittimazione e di autorevolezza, della funzione di governo in società che hanno fatto della “governabilità” il proprio mito e dogma.
Per questo appaiono in buona misura fuori luogo i toni di trionfo del centro-destra, sicuramente vincitore formale di questo round (se si considera appunto il numero di sindaci, maggioranze comunali, duelli vinti), ma galleggiante, anch'esso, su un vuoto di reale consenso, appeso a segmenti di società volatili e volubili, soprattutto privo di una qualche prospettiva credibile in rapporto alle incombenti elezioni politiche nazionali, dove le maggioranze che hanno conquistato i comuni non sono riproducibili, e le fratture interne alla coalizione sono sicuramente più profonde e tendenzialmente più forti dei comuni interessi.
E a maggior ragione sembrano fuori luogo – anzi fuori senno – le reazioni a caldo del Segretario del PD: di Matteo Renzi che appare a qualunque sguardo non appannato il vero perdente della partita. Quello che, celiando e twittando, ha portato il proprio esercito a una disfatta storica e che invece, a notte inoltrata, parla di risultati “a macchia di leopardo”, s'interroga garrulo sui “campanelli d'allarme” (“non si capisce per cosa e perché”: testuale), chiama i pochi sindaci “suoi” eletti per nome come fossero boy scout della propria sestiglia, e invita a “lasciar stare le chiacchiere”...
È sua, senza alcun dubbio, la firma sul disastro che ha travolto il centro-sinistra. Perché è vero che lo tsunami è passato su tutte le sue possibili varianti e combinazioni: quelle in cui il Pd si presentava solo, con candidati di stretta osservanza, e quelle dove era stata assemblata una coalizione da “campo largo”, le liste “renziane” e quelle mediate con Bersani, o anche con Pisapia, o con tutte le sinistre ulteriori (come a Genova, appunto). Ma è altrettanto vero che il denominatore comune in tutto questo variegato arcipelago è stata l'antipatia per il leader del partito maggiore.
La fuga da Renzi, appunto, sia nelle casematte del partito che nelle sue appendici periferiche, tra i “militanti provati” e i simpatizzanti occasionali, i voti d'opinione e quelli di tradizione. Matteo Renzi ha funzionato, per tutti, come un potente repellente, per la sua vocazione divisiva, il compulsivo bisogno di offendere e umiliare, i vorticosi voltafaccia e giri di valzer con troppi partner, le insistite menzogne o le verità negate, tra babbi, banche, appalti, commissioni d'inchiesta (promesse e affossate) e commissari europei (blanditi o sbertucciati), e l'insopportabile ostentazione di ottimismo in un Paese che diffusamente soffre.
Certo, sarebbe impietoso ridurre il problema alla sua persona. Si sono concentrate nella sconfitta del Pd tutte le sue “tare storiche”: gli equivoci della nascita, con Veltroni, in quella fusione fredda che mai ha funzionato, l'impotenza e la resa bersaniana agli idola fori del neo-liberismo e delle privatizzazioni, l'impotenza della parentesi montiana dei “tecnici”, sostenuti nella loro politica lacrime e sangue con un'ossequenza neppur richiesta (si ricordi l'equilibrio di bilancio scolpito in Costituzione) fino agli orrori del 2013, la frantumazione del partito divenuta evidente con i 101 fucilatori di Prodi all'elezione presidenziale, i trasformismi, le congiure di palazzo... E su tutto, la tendenza terribilmente distruttiva – “tossica” potremmo dire – a ignorare ogni segnale provenga “dal basso” e “da fuori”, ogni espressione di volontà popolare, sia l'esito referendario sull'acqua e i beni comuni (umiliato da una serie di provvedimenti legislativi in clamorosa opposta direzione) sia il risultato perentorio del referendum costituzionale: il segnala assordante del 4 dicembre a cui il Palazzo – sia Chigi che Nazareno – è rimasto ostinatamente sordo e cieco, facendo come se nulla fosse successo, e provocando appunto l'exit tumultuoso e massiccio a cui oggi assistiamo.
Come in un gioco di matriosche tutti questi strati sovrapposti si sono accumulati. E tutte queste contraddizioni si sono sintetizzate in una figura sola, che le ha assorbite, senza neutralizzarle, tutte, e che ora finisce per pagare, per tutti, lasciandoci di fronte un quadro senza soluzioni possibili. Nel quale ogni possibile alternativa appare bruciata in partenza, sia essa quella – sciagurata – dell'autosufficienza o quella, simmetrica e opposta, della coalizione larga, la costruzione forzosa di un PD sempre più strettamente renziano o quella di un “campo democratico” allargato ai figlioli prodighi da riportare al tavolo paterno, la costruzione di un centro non più di sinistra da coniugare con una scheggia di berlusconismo rimodernata e ri-moderata, o la riedizione di una sinistra pre-Lingotto (pre-Veltroni del 2007) rilanciata ma non ringiovanita.
Comunque si rimescolino i fattori il risultato non cambia: nessuna delle diverse combinazioni può sperare di aver credibili possibilità di successo alle politiche prossime, sia che per un picco di masochismo Renzi forzi per il voto anticipato, sia che si aspetti la fine naturale della legislatura. In ogni caso sembra non esserci più tempo per nulla.
Ora assisteremo – non è necessario essere profeti per saperlo – al gioco stantio e ripetitivo della ricerca del Sacro Graal: la legge elettorale che assicurerà il Paradiso a tutti. Il tormentone che ci ha accompagnato in tutti questi anni, secondo il pessimo costume di disegnare e ridisegnare ogni volta il sistema elettorale a seconda dell'ultimo sondaggio, o del più recente responso delle urne, ognuno attento al proprio possibile vantaggio effimero, all'unico lancio di dadi a cui, nella miopia generale, riesce a malapena a guardare.
Qualcuno riproporrà il maggioritario a doppio turno, altri il proporzionale alla tedesca, o il premio di lista, oppure di coalizione, la soglia al tre, al cinque, all'otto per cento... E a un certo punto la pallina si fermerà su una casella della roulette, rossa o nera chissà. E l'emorragia di elettori, di fiducia, di legittimazione e di autorevolezza delle nostre istituzioni continuerà, se un soprassalto di orgoglio, o di razionalità, non interverrà a interromperne il processo, dall'interno (per un ritorno di auto-riflessione) o dall'esterno (per la perentorietà di una qualche costrizione).
il manifesto, 27 giugno 2017
BANCHE VENETE:
PERDITE PUBBLICHE,
PROFITTI PRIVATI
di Riccardo Chiari
«Credit crack. Da Bloomberg a Nomura, unanimi i commenti del mondo finanziario: lo Stato paga i crediti inesigibili e anche Intesa, che guadagnerà tanto senza spendere un centesimo. Il Wall Street Journal: "Un passo indietro per la finanza europea". Sinistra italiana e Rifondazione accusano: "L'alternativa c'era, il governo poteva gestire la parte buona delle banche".
Ora che il decreto legge c’è, i 17 miliardi di soldi della collettività messi dal governo Gentiloni, a sostegno di almeno 10 miliardi di crediti inesigibili, e per altri 5 miliardi a sostegno di un’azienda privata come Banca Intesa, non sembrano scuotere troppo gli italiani. Ma provocano alcune elementari domande all’estero. Da antologia la comparsata di Pier Carlo Padoan a Bloomberg Tv, che doverosamente chiede “se l’operazione sulle banche venete pubblicizzi le perdite per privatizzare i profitti”. “Sono in totale disaccordo – replica il ministro italiano – non è un salvataggio, tutto è stato fatto secondo le regole”, sottolineando l’ok della Bce e di Bruxelles.
Dal canto suo il Wall Street Journal annota: “La soluzione europea pone due domande: perché le due banche non sono state trattate con il nuovo regime di risoluzione, e perché Intesa San Paolo si è aggiudicata un accordo così buono sugli asset delle due banche. La risposta alla prima domanda è pragmatica e gli investitori possono imparare da questa. La risposta alla seconda è più preoccupante, e sembra un passo indietro per la finanza europea”. A corredo, il Wall Street Journal precisa che secondo gli analisti l’accordo rafforzerà gli utili di Intesa del 5-7% entro il 2020, senza costare alla banca un centesimo in termini di sforzo finanziario.
I giapponesi di Nomura parlano apertamente di bail out, cioè di un salvataggio a totale carico dello Stato. E in effetti all’ok di Francoforte alla liquidazione delle due banche con lo smaltimento delle sofferenze grazie all’intervento statale, si è aggiunto anche il finanziamento con soldi pubblici per l’acquisizione di Intesa della parte sana delle banche, “per riorganizzarle”. Leggi costo degli esuberi. Gian Maria Gros Pietro ai comprensivi microfoni del Gr1 nega: “Chi dice che Intesa è stata avvantaggiata non ha compreso il meccanismo”. Nel decreto del governo si legge però che Intesa riceverà dallo stato un “supporto finanziario” per “un importo massimo di 3.500 milioni”, “risorse a sostegno delle misure di ristrutturazione aziendale per un importo massimo di 1.285 milioni” con cui accompagnerà all’uscita circa 4mila bancari, e altri 400 milioni come garanzia sui crediti in bonis che Intesa si porta a casa. Poi vanno aggiunte garanzie a copertura del rischio dei crediti che non risultino in bonis, fino a 6,3 miliardi, e fino ad altri 4 per i crediti “in bonis ma ad alto rischio”. Per giunta Intesa entra nel mercato del credito veneto con il 30% degli sportelli. Dominante.
Risultato: a Piazza Affari salgono i bancari, spinti proprio da Intesa (+3,5%), il che equivale ad un aumento di circa 1,5 miliardi della sua capitalizzazione. Mentre fa capire un po’ più dell’Italia odierna il fatto che le osservazioni di Bloomberg siano identiche a quelle di Sinistra italiana e Rifondazione: “Si procede con un salvataggio in cui la logica della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è spinta a livelli parossistici”, segnalano Maurizio Acerbo e Roberta Fantozzi del Prc. Con Stefano Fassina e Pippo Civati di Si che aggiungono: “Si poteva e doveva percorrere un’altra strada, anche a costo di un contenzioso con la Commissione Ue: l’ingresso pubblico nel capitale delle banche per gestire, insieme ai crediti in sofferenza, anche gli asset”. Che genereranno utili. Ma Paolo Gentiloni avverte: “Chi parla di regalo ai banchieri fa solo cattiva propaganda”. E Intesa fa sapere a sua volta che, se il decreto cambia anche solo di una virgola, (“viene convertito con modifiche o integrazioni tali da rendere più onerosa per Intesa San Paolo l’operazione”), non se ne farà di nulla. Capito come si fanno gli affari?
TANTA POLVERE MESSA
SOTTO AL TAPPETO,
MODIFICHEREMO IL DECRETO
di Massimo Franchi
«Intervista a Francesco Boccia. Il salvataggio delle banche Venete è l'ultima tappa di una strategia fallimentare. Il sistema andava messo in sicurezza nel 2014 come in Spagna e Germania. Invece si è sottovalutata colpevolmente la situazione e ora i miliardi pubblici usati sono molti di più»
Francesco Boccia, presidente della Commissione bilancio della Camera. Da economista prima che da politico: il salvataggio delle banche venete è la soluzione migliore come dicono Bankitalia e Padoan o uno scempio di soldi pubblici e un regalo ad Intesa come dice l’opposizone?
Una delle cose che detesto dei politici è sentir dire: «Io l’avevo detto». Ma visto che sono agli atti i miei interventi parlamentari in cui già nel 2014 chiedevo che venisse istituito un Fondo pubblico-privato da 20 miliardi per ricapitalizzare le banche in difficoltà chiedendo un chip ai tanti intermediari finanziari che hanno fatto soldi con il nostro debito pubblico (Morgan Stanley, Black Rock e gli altri fondi) e mi diedero del folle, ora posso dire che avremmo risparmiato molti miliardi di soldi pubblici.
Quindi la colpa è della politica? E i mancati controlli di Bankitalia?Che le banche Venete andassero salvate è indubbio perché diversamente sarebbe andato in crisi un pezzo fondamentale di Paese. La colpa di questa situazione non è dei correntisti o dei risparmiatori, ma di quei disgraziati che le dirigevano. Tanta polvere è stata messa sotto il tappeto e se siamo in questa situazione è anche perché il sistema di controllo di Bankitalia non ha funzionato, come Visco ha riconosciuto iniziando a fare autocritica. Io sono indignato per lo “stop and go” sugli interventi per mettere in sicurezza tutti gli istituti in difficoltà, dalle popolari a Mps, salvate con tre modelli differenti di interventi. La nazionalizzazione sarebbe stato il quarto e avrebbe aumentato la confusione.
Padoan confida di recuperare i 5 miliardi già usati rivendendo i crediti deteriorati della bad bank. Le sembra realistico?Non conosco l’ammontare effettivo dell’esborso pubblico e dei crediti deteriorati. Di sicuro di tutti i soldi messi dallo Stato direttamente e indirettamente (con le partecipazioni di Cassa depositi e prestiti) in questi anni non si recupererà tutto e il saldo sarà maggiore dei 10 miliardi da me proposti.
Intesa San Paolo ha già avvertito: se il decreto cambia, l’operazione salta. Voi lo cambierete? Non vi sentite sotto ricatto come parlamentari? Le banche sono al di sopra dei poteri costituzionali?
Messina fa bene il suo mestiere a dire quelle cose. Non conosco, come nessuno ancora, il testo del decreto ma dico che se ci sono le condizioni per migliorare la proposta del governo, il Parlamento ha il dovere di farlo e Intesa di rispettare la politica, che – senza ipocrisia – è la stessa che l’ha invitata a fare questa operazione e a mettere i soldi nel fondo Atlante già prosciugato. La priorità deve essere quella di ripristinare la fiducia dei risparmiatori senza la quale tutte queste banche sarebbero già morte. Intesa da questo punto di vista è una garanzia: è una delle più solide in Europa anche se non potrà risolvere sempre lei i problemi o rischierà di entrare in difficoltà anch’essa.
Il ministro spagnolo dell’Economia sostiene che quello che è successo la Spagna lo ha fatto nel 2012: mettere in sicurezza il sistema usando miliardi pubblici, mentre ora per il Banco Popular non ne sono stati usati. Siamo in ritardo di 5 anni?
Certo che ha ragione. E l’errore più grosso fatto dai nostri governi dell’epoca – Berlusconi con Tremonti e Monti con Grilli – è stato quello di non copiare la Spagna che come la Germania hanno anticipato l’applicazione del bail in mettendo in sicurezza le banche con soldi pubblici. Sarà interessante ascoltare i protagonisti di questa lunga storia nella commissione parlamentare che andrà imbastita in questa legislatura e darà risultati nella prossima.
PRIMA LE BANCHE,
POI I BAMBINI
di Marco Bersani
«Governo. L'operazione banche venete sarà finanziata con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento lo scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio degli istituti bancari da mettere a carico del debito pubblico»
Dopo aver sostenuto per mesi che Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca necessitavano di una «ricapitalizzazione precauzionale», ovvero che erano banche fondamentalmente «sane», ma bisognose di un ulteriore supporto, il governo Gentiloni-Padoan ha improvvisamente cambiato idea, dichiarandole fallite e ponendole in liquidazione.
Il Consiglio dei Ministri ha così approvato un decreto legge che prevede l’acquisizione – costo 1 euro – da parte di Intesa Sanpaolo delle due banche venete e il premier Gentiloni ha subito lanciato un accorato appello perché «questa decisione molto importante trovi in Parlamento il sostegno che merita, cioè il più ampio possibile».
Intanto, Carlo Messina, Amministratore delegato di Intesa Sanpaolo davanti allo specchio loda se stesso per aver «messo in sicurezza oltre 50 miliardi di risparmi affidati alle due banche e tutelato 2 milioni di clienti, di cui 200.000 aziende operanti in aree tra le più dinamiche del Paese». Senza dimenticare giuramenti a ripetizione sulla tutela dei posti di lavoro.
Poteva mancare il sostegno della generosa Unione Europea? Certo che no: l’improvvisamente federalista Margarethe Vestager, Commissaria Ue alla Concorrenza, considera l’aiuto di Stato «necessario per evitare tensioni economiche nella regione del Veneto». Due banche in gravissime difficoltà finanziarie, un colosso bancario le annette, istituzioni italiane ed europee d’accordo: qual è il problema?
Uno solo: il tutto è a carico della collettività, ovvero lo paghiamo tutte e tutti noi.
Il decreto prevede infatti, una spesa immediata da parte dello Stato di 5,2 miliardi per garantire a Intesa Sanpaolo rischio zero su tutta l’operazione e 12 miliardi di garanzie pubbliche sui futuri rischi.
In pratica, Intesa Sanpaolo annette, oltre a sportelli e personale (in attesa di, passata la festa, gabbare lo santo) tutti i crediti solvibili, mentre la collettività si accolla i crediti ad alto rischio e quelli inesigibili.
Il tutto finanziato con il decreto approvato fulmineamente dai due rami del Parlamento tra i brindisi delle feste dello scorso Natale: 20 miliardi di garanzie sul salvataggio delle banche da mettere a carico del debito pubblico. Garanzie peraltro già insufficienti, visto che, se a quest’ultima operazione, aggiungiamo quelle relative a Mps da una parte e alla «banda delle quattro» (Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti) dall’altra, siamo già ben sopra i 30 miliardi.
Eppure «il nostro sistema bancario è solido, privo di rischi e i risparmi della famiglia sono in sicurezza» twittava il 31 ottobre 2014 il ministro Padoan. «C’è una manovra su alcune banche, punto», ma il sistema «è molto più solido di quello che legittimamente alcuni investitori temono», rassicurava Renzi in un intervista del 13 dicembre 2015, dopo le prime crepe. «Affronteremo i problemi legati a casi specifici del nostro sistema bancario, che è solido, e sta contribuendo alla ripresa finanziando l’economia», si arrampicava sugli specchi Gentiloni non più tardi di 6 mesi fa.
Così evidentemente non era, ma le banche, allevate da decenni col principio del too big to fail (troppo grosse per fallire) o, come nel caso in oggetto, del too interconnected to fail (troppo interconnesse per fallire) sanno di poter superare ogni limite di rischio e ogni disinvoltura, con la certezza che alla fine il pubblico interverrà. Lo Stato al servizio delle banche è infatti l’unica certezza che consente ai sacerdoti del fondamentalismo di mercato di poter proseguire i loro sermoni sui media mainstream. Strano il mondo ai tempi del capitalismo finanziarizzato: il debito pubblico, propagandato da governi e tecnocrati come colpa collettiva da espiare e usato come clava per espropriare diritti del lavoro, beni comuni e servizi pubblici, diviene subito una rosa gentile in soccorso di due banche condotte al fallimento da anni di scelte manageriali fondate su clientelismi e corruzioni e da controlli compiacenti. Demistificare la narrazione ideologica sul debito e rivendicare una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, è forse ciò che manca nell’analisi di chi anche in questo periodo propone giustamente di mettersi in marcia, dal basso e in forma inclusiva, per costruire un’alternativa nel Paese.
il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2017 (p.d.)
bad bank di cui si dovrà occupare l’Erario. Come nella migliore tradizione italiana, ripetiamo uno schema che somiglia alla solita privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite». la Repubblica, 23 giugno 2017
È inutile sdottoreggiare di bail in e di burden sharing.
Il grande Sacco Bancario di questi anni, alla fine, lo stiamo pagando noi. Montepaschi, Etruria e le altre tre “banchette”, fino ad arrivare alle due popolari venete: cosa resta del mesto Carnevale inscenato dai Signori del Credito, se non la maschera di Pantalone che apre il portafoglio e copre i buchi con il denaro pubblico? In queste ore politica e mercati brindano al presunto “salvataggio” della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Nel deserto della finanza tricolore incede fiero il tanto agognato Cavaliere Bianco. Banca Intesa, si prende le due venete ed evita la temuta procedura di “risoluzione” che avrebbe scaricato i costi del default non solo sugli azionisti, ma anche sugli obbligazionisti senior e (pro quota) i depositanti oltre i 100 mila euro.
la Nuova Venezia Corriere del Veneto, 17-18 Giugno 2017 (m.p.r.)
la Nuova Venezia, 17 giugno 2017
Venezia. Soldi, regali, cene e assunzioni di parenti per ammorbidire le verifiche fiscali e ridurre il debito erariale una volta contestata l'evasione. Sedici le persone arrestate tra imprenditori, commercialisti, ufficiali della Guardia di Finanza e dirigenti dell'Agenzia delle Entrate. Questa nuova operazione, durata due anni, è stata portata a termine dagli investigatori del Nucleo di polizia tributaria di Venezia, coordinati dal sostituto procuratore Stefano Ancilotto.
L'indagine è nata durante l'inchiesta sul Mose. Alcune intercettazioni facevano capire agli inquirenti dell'esistenza di un sistema illegale che consentiva agli imprenditori di ridurre i "danni" da verifica fiscale. Oltre ai sedici ordine di custodia cautelare il Gip Alberto Scaramuzza ha concesso anche il sequestro di beni per 440 mila euro. Gli arrestati. Quattordici le ordinanze di custodia cautelare in carcere e due agli arresti domiciliari nei confronti di sei imprenditori (due domiciliari), tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate, due commercialisti, due ufficiali della Guardia di Finanza, un appartenente alla Commissione tributaria regionale del Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice.
Tra gli arrestati ci sono Elio Borrelli, ai vertici dell'Agenzia delle Entrate prima a Venezia ora in Abruzzo, Christian David e Massimo Esposito, rispettivamente responsabile delle verifiche il primo e ex direttore dell'Agenzia di Venezia il secondo. I due tenenti colonnelli della Guardia di Finanza Vincenzo Corrado (residente a Treviso) e Massimo Nicchinello, il giudice della Commissione tributaria regionale Cesare Rindone, i commercialisti di Treviso Tiziana Mesirca e Augusto Sartore di Chioggia, gli imprenditori appartenenti al gruppo edile Bison di Jesolo, alla Cattolica Assicurazioni di Verona, alla società Baggio di Marghera, attiva nella logistica, oltre all'industriale dell'acciaio Pietro Schneider di Udine. Gli episodi contestati. Nel primo di questi, sono coinvolti l'intera famiglia Bison (padre, madre e due figli), imprenditori jesolani, Elio Borrelli, direttore dell'Agenzia delle Entrate di Venezia fino al 31 dicembre 2015 e il suo successore Massimo Esposito. Inizialmente è Borelli ad essere pagato da Bison, poi Esposito.
Secondo il gip ci sono le prove relative al pagamento di tangenti per 140. 000 euro, in varie tranches tra il settembre 2016 e il maggio 2017. In cambio, i due funzionari si sono adoperati per ridurre dell'80% le imposte dovute da tre società del gruppo Bison, con sede nel Veneziano, sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia, passando così da 41 milioni di euro dell'originario debito erariale a poco più di 8 milioni effettivamente pagati. Inoltre, l'imprenditore ha ottenuto che venisse ritardata la notifica di avvisi di accertamento per debiti tributari, in modo da chiedere rimborsi Iva per 600mila euro che non poteva ottenere. Sempre i due funzionari dell'Agenzia, si sono accordati con il commercialista di Chioggia Augusto Sartore, per ricevere 50.000 euro in cambio della promessa di "accomodare" un accertamento tributario alla Somit Srl. Si ritorna al concreto con passaggio di tangenti nell'episodio che coinvolge il colonnello della Guardia di finanza Vincenzo Corrado, residente a Treviso, il funzionario dell'Agenzia delle Entrate Christian David, la commercialista di Treviso Tiziana Mesirca e gli imprenditori veneziani Paolo Maria Baggio e Paolo Tagnin.
Naturalmente vengono pagate tangenti per ridimensionare l'esito di verifiche eseguite a una società immobiliare e a un'azienda di trasporti. I due imprenditori hanno pagato Corrado e David, con l'intermediazione della commercialista. L'ufficiale, in cambio di denaro e benui di lusso per un valore di 40.000 euro, ha fatto da "ponte" con il funzionario dell'Agenzia delle Entrate e con il proprio interessamento ha reso possibile la riduzione del 70% debito complessivo delle aziende verificate, passato da 13 a 3, 7 milioni di euro. Sempre Corrado coinvolge il collega Massimo Nicchiniello, in servizio a Udine, per "addolcire" l'esito delle verifiche alla Burimec di Butrio (Udine) dell'imprenditore Pietro Schneider, in cambio i due ufficiali hanno avuto soldi e cene in ristoranti di lusso, oltre all'assunzione alla Burimec del figlio di Corrado.
Nella vicenda che riguarda la Cattolica Assicurazione di Verona compare il nome di Cesare Rindone, giudice della commissione tributaria del Veneto che diventa mediatore tra Albino Zatachetto, (oggi segretario del presidente di Cattolica), e Giuseppe Milone, responsabile amministrativo, i quali intrattenevano rapporti con Borrelli, David e Corrado in cambio di orologi Rolex, l'assunzione di amici e compagne: i funzionari hanno fatto sì che il debito erariale scendesse da 8, 8 a 2, 6 milioni di euro. Promozione chiesta mai ottenuta. Elio Borrelli nel 2015 punta a diventare direttore dell'Agenzia delle Entrate di Verona. Una promozione che cerca coinvolgendo Arcangelo Boldrini, commercialista di Mestre, amico di Enrico Letta e in quota Pd in vari enti. Boldrini ha il compito di interessare il sottosegretario Pierpaolo Baretta. Se la promozione arriva "per te la vita cambia", dice Borrelli all'amico commercialista. Promozione mai arrivata.
Corriere del Veneto, 18 giugno 2017
MAZZETTE, LA CRICCA A CACCIA DI CLIENTI
Per il gip il «gruppo decisionale» faceva proposte seriali e non aspettava richieste dagli imprenditoriVenezia «Mi sembra di aver capito che Canevel è un tipo da Prima Repubblica e quindi si può...». Vincenzo Corrado, il finanziere del comando provinciale di Venezia che è stato uno dei 16 arrestati venerdì mattina nell’inchiesta sulle tangenti all’Agenzia delle Entrate, dice e non dice, ma il senso è chiaro. La «cricca», che secondo l’accusa del Nucleo di polizia tributaria di Venezia e del pm Stefano Ancilotto aveva al centro Corrado e soprattutto un gruppetto di funzionari dell’Agenzia – dall’ex dirigente del Centro operativo di Venezia Elio Borrelli all’ex direttore della sede lagunare Massimo Esposito, al capo settore Controlli e riscossione Christian David –, cercava sempre nuovi clienti per il suo schema ormai rodato: soldi o regali in cambio di uno sconto sostanziale sulle sanzioni fiscali, tanto che proprio a casa di Corrado i suoi colleghi delle fiamme gialle hanno trovato i due Rolex che gli sarebbero stati regalati dagli imprenditori. E dall’ordinanza di custodia del gip Alberto Scaramuzza spuntano altre aziende finite nella rete o su cui i funzionari infedeli avrebbero messo gli occhi, anche se poi - come ammette lo stesso giudice - non si è arrivati a contestazioni penali, come nei 5 casi delle imputazioni.
Corrado, parlando con la commercialista trevigiana Tiziana Mesirca, anche lei arrestata, cerca di capire se si può agganciare la Canevel Spumanti di Valdobbiadene, con quella battuta sul suo ad Carlo Caramel e gli anni d’oro delle tangenti. «Però Titty, dimmelo in tempo se è il caso che io posso eheh...», dice. «I pubblici ufficiali non aspettano che sia il privato a sollecitare il loro intervento, ma spesso si propongono per accomodare le verifiche o gli accertamenti», annota il gip. Una mediazione fondamentale è quella dei professionisti: non solo la Mesirca, ma anche il commercialista chioggiotto Augusto Sartore. Questi è stato a sua volta arrestato per corruzione per aver promesso a Borrelli ed Esposito 50 mila euro per la società Somit.
Ma dalle indagini emerge che Sartore avrebbe sondato i funzionari anche per altre società da lui seguite: una è la Nuova Coedmar, impresa coinvolta nell’inchiesta del Mose (il suo legale rappresentante Gianfranco Boscolo Contadin ha patteggiato 2 anni per corruzione e false fatture), che aveva avuto un verbale di accertamento da 5-6 milioni; poi ci sono la polesana Cultiva società agricola e la chioggiotta Acquachiara. «Sebbene non abbiano portato per il momento all’elevazione di ulteriori contestazioni di fatti di corruzione, dimostrano in modo chiaro l’esistenza di un sistema di trattazione certamente illecito delle società assistite da Sartore». C’è anche un risvolto quasi ridicolo, laddove Borrelli si informa con Esposito su una certa Comet Corsetterie, sempre di Chioggia, ritenendola azienda legata a Sartore: i due fanno i conti, ipotizzano una tangente di 80 mila euro, ma quando vanno dal commercialista lui replica che si sono sbagliati. «No Comet, Somit - dice Sartore al telefono - io ho la Somit».
«Questi soggetti hanno creato un vero e proprio sistema criminoso - commenta il gip, spiegando perché ha deciso di applicare il carcere per 14 di loro - Trattasi di soggetti organizzati in un vero e proprio gruppo decisionale». Quasi un’associazione per delinquere, anche se per ora non è stata contestata. Secondo il giudice c’è però una «pericolosità sociale eccezionalmente elevata e un intenso pericolo di reiterazione», perché funzionari dell’Agenzia, professionisti, finanzieri e imprenditori si sono resi protagonisti di uno «svilimento della pubblica funzione che era non casuale ed estemporaneo, ma sistematico e ramificato». Al punto che chi invece era onesto, come la funzionaria Anna Boneschi, venne spostata a Treviso, con l’esultanza della «cricca». Oltre al pericolo di reiterazione, il giudice cita anche l’inquinamento probatorio e alcune conversazioni in cui alcuni di loro si raccomandavano di «pulire» la contabilità o di stare attenti alla posta elettronica e alle telefonate. Esposito, poi, chiamava Borrelli con una Sim intestata alla suocera defunta.
Domani ci saranno i primi interrogatori, tutti per rogatoria, visto che gli arrestati sono stati sparpagliati in vari carceri. Per ora i difensori sono molto abbottonati, in attesa di leggere tutte le carte dell’inchiesta coordinata dal pm Ancilotto. A parlare è invece Claudia Nicchiniello, parente di quel Massimo arrestato per aver partecipato a un episodio di un’impresa friulana, quando era alla Finanza di Udine (ora è comandante a Siracusa). «La sua unica colpa è aver partecipato a una cena e non aver allontanato in modo netto alcuni colleghi - afferma - A casa sua non sono stati trovati soldi o regalie, ma solo due bambine, certo non assunte da nessun imprenditore. Il suo arresto ha avuto lo sciagurato effetto di sminuire la figura di un ufficiale che ha concluso importanti arresti in Sicilia».
il manifesto, 18 giugno 2017
Al presidente del consiglio convinto che «l’intero paesaggio sociale italiano non è sulle posizioni della Cgil», e pronto a decidere nuove regole sullo sciopero, è arrivata a stretto giro, la replica secca di Camusso nel discorso di chiusura di una bella manifestazione accolta dall’afa bollente: «Non è accettabile che si usi uno sciopero discutibile per attaccare il diritto di sciopero, e al governo dico fate la legge sulla rappresentanza».
Del resto il conflitto tra il sindacato di Camusso e il governo Renzi-Gentiloni si è materializzato con la piazza rossa di San Giovanni a Roma. Contro i voucher, la Cgil ha risposto al governo con una grande mobilitazione, decine di migliaia di lavoratori chiamati a proseguire la battaglia iniziata con le oltre tre milioni di firme raccolte per un referendum che Renzi ha avuto paura di affrontare temendo una seconda sonora batosta dopo quella del 4 dicembre. Ma non tutto è permesso per evitare il diritto al voto dei cittadini, il governo Renzi-Gentiloni invece ha annullato il referendum e resuscitato i voucher. La Cgil non si dà per vinta e né la Corte costituzionale, né il capo dello stato possono eludere il dovere di esprimersi e di vigilare sul grande scippo.
A vederli sfilare con i loro berretti rossi tutto sembravano ieri i lavoratori venuti a Roma da tutta Italia, tranne che pensionati in gita. Per le strade della Capitale c’erano tutte le generazioni, comprese quelle che dopo 41 anni di lavoro, grazie alla legge Fornero, non possono andare in pensione. Compresi i pensionati che oggi rappresentano il sostegno, l’unico, dei giovani disoccupati, comprese le centinaia di aziende in crisi perché governate da una classe imprenditoriale capace solo di tagliare il salario.
. il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2017
Corriere della Sera, 17 Giugno 2017 (m.p.r.)
Non occorreva la sua immagine, sarebbe bastata la drammatica conversazione tra Gloria e la madre. Ma è inevitabile osservare che i nostri nonni emigrati all’estero erano piccoli, scuri, malnutriti, spaventati; al punto che i funzionari razzisti del Bureau of Immigration si interrogarono se gli italiani andassero considerati «di razza bianca».
Seconda osservazione: sono laureati. Spinti dalla giusta ambizione più che dal bisogno. Avanguardia dei disoccupati intellettuali, che sono la grande piaga dell’Italia di oggi: un Paese che di laureati ne ha meno degli altri in Europa, ma non riesce a trovargli un lavoro; anche perché investe troppo poco in cultura, istruzione, ricerca.
Terza cosa: sono veneti. Vengono dalla regione che in questi anni è cresciuta di più. Da cui un tempo si partiva per sfuggire alla fame, in particolare verso il Sud America: odissee raccontate molte volte da Gian Antonio Stella su questo giornale. Una regione divenuta ora la più ricca d’Italia, ma che non riesce sempre a valorizzare le eccellenze che crea. Veniva dal Veneto anche Valeria Solesin, l’unica vittima italiana della strage del Bataclan a Parigi (13 novembre 2015). Valeria e Gloria erano più o meno coetanee. Avevano frequentato gli stessi luoghi, fatto le stesse vacanze, visto gli stessi film, letto gli stessi libri, ascoltato le stesse canzoni. Come ha detto la signora Luciana, madre di Valeria: «Nostra figlia è stata uccisa dai terroristi; ma i genitori che perdono i figli in un incidente non soffrono meno».
Gloria e Valeria sono le rappresentanti di una generazione con cui l’Italia è stata avara di opportunità. Ma loro non hanno piagnucolato. Si sono messe in gioco. Sono andate all’estero, hanno imparato una lingua straniera. Avevano trovato un lavoro. Valeria abitava con il fidanzato Andrea in un monolocale di 14 metri quadrati in rue César Franck, vicino alla Tour Eiffel: se lei studiava, lui doveva andare a letto o sotto la doccia. Gloria e il suo fidanzato Marco avevano trovato un piccolo appartamento al ventitreesimo piano di una torre a North Kensington, affacciata su Notting Hill, costruita per i poveri e ristrutturata per farla sembrare un posto da ricchi. Era molto bella la foto su Facebook , con le due sedie da regista vuote e la finestra spalancata sullo skyline della Londra notturna: il sogno di tanti nostri ragazzi. Non è forse lo stesso quartiere dove abita l’ex premier laureato a Eton? Dove c’era la libreria del film con Hugh Grant, il commesso che si innamora ricambiato della grande attrice, Julia Roberts? Del sistema antincendio, però, nessuno si era occupato.
La morte di un figlio è sempre un evento ingiusto. Nessuno può sindacare il modo in cui reagisce un genitore. Quasi sempre i genitori italiani se la prendono con lo Stato. Così ha fatto il padre di Gloria. E in effetti è difficile riconciliarsi con uno Stato che al primo articolo della Costituzione riconosce il diritto al lavoro, e non lo rende effettivo neanche per chi si è laureato a pieni voti; a meno che non si accontenti di 300 euro al mese. Uno Stato che spreca risorse nel modo scandaloso che tutti sanno. È più difficile e impopolare, ma è intellettualmente onesto e quindi necessario, aggiungere che a forza di no — no all’alta velocità, no alla Pedemontana, no alle Olimpiadi, no alle grandi opere; c’è chi diceva no pure all’Expo, e meno male che si è fatto lo stesso — è arduo che ci possa essere lavoro in Italia per gli architetti, vista la crisi in cui langue da anni l’edilizia. Londra invece è una città in cui si costruisce moltissimo: solo allo Shard di Renzo Piano hanno lavorato 1.500 tra operai e tecnici, venuti da quaranta Paesi diversi, tutti con gli elmetti gialli, che in Italia evocano minatori in sciopero o cassintegrati che si scontrano con la polizia. Però nello Shard vivono i miliardari. Nella Torre di Notting Hill vivevano gli ultimi arrivati.
La maledizione di Londra è il fuoco. La nostra è sentirci una grande nazione, ma non un grande Paese. Un luogo dove nascono cose destinate a dare frutto altrove, dalle scoperte geografiche a quelle scientifiche, dalla medicina alla tecnologia. Quante volte ci è accaduto all’estero di trovare in ospedale o in cantiere un primario o un ingegnere italiano, e sentire un misto di orgoglio e di scoramento: perché formiamo con il denaro pubblico eccellenze o anche solo bravi professionisti, che vanno a dare il meglio di sé da altre parti. E il mondo globale è propizio alla terra delle cose buone e delle cose belle, ma le impone di saper fare sistema: uno Stato che funziona, le infrastrutture, i servizi, la capacità di fare rete, il talento di mettere l’interesse generale davanti a quello particolare. Proprio l’unico talento che a noi manca.
Per il resto, rimaniamo italiani sino in fondo, sino all’ultimo, anche in terra straniera. Così Gloria non ha chiamato i pompieri o gli amici a Londra. Non ha telefonato al consolato o all’ambasciata. Nel momento estremo, ha chiamato la mamma. Per tranquillizzarla, all’inizio. Per cercare conforto, verso la fine. Per confortarla, nel momento estremo. Perché qualcosa della nostra cultura cristiana e umanista ce lo portiamo dentro tutti, visto che con le sue ultime, meravigliose parole Gloria ha promesso alla madre che l’avrebbe aiutata dal cielo. Se davvero esistono le forze dello spirito, Gloria ci avrà già perdonati. Ma questo non ci assolve dalla responsabilità collettiva che una morte come la sua getta addosso a ognuno di noi.
. il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2017 (p.d.)
la Nuova Venezia, 15 giugno 2017, con postilla
Mettiamola così: nel Veneto prossimo venturo chiunque indossi un burqa, un niqab (il velo integrale islamico) o più semplicemente un casco da motociclista o un passamontagna che ricopre il viso, non potrà entrare in luoghi pubblici regionali quali ospedali, scuole, uffici Ater, distretti sanitari, enti e palazzi della politica. L'ingresso, viceversa, sarà consentito a chi si presenta con una pistola sotto l'ascella, purché provvisto di regolare porto d'armi per la difesa personale. È quanto prevede il nuovo regolamento di accesso in discussione al Consiglio regionale, che ne ha approvato il primo articolo dopo ore di discussione e, manco a dirlo, l'emendamento "sputafuoco"che ha acceso la polemica reca la firma di Sergio Berlato, il capogruppo di Fratelli d'Italia patrono delle doppiette.
postilla
Il consigliere Berlato sembra perfettamente in linea con la strategia e la tattica del renzismo, e con i governi da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni. Chi non lo ha compreso legga su eddyburg l'attenta analisi di Giorgio Beretta Renzi è nella storia.
Sbilanciamoci.info, 12 giugno 2017 (c.m.c.)
Da qualche edizione a questa parte l’Istituto nazionale di statistica ha deciso di scegliere, per (ri)dare vita al suo annuale Rapporto sulla situazione del Paese, un tema conduttore: due anni fa furono i territori, l’anno scorso le generazioni, quest’anno i gruppi sociali.
La scelta di quest’anno ha generato un discreto dibattito, non tanto su quello che il Rapporto 2017 ci racconta dei gruppi sociali, riportato senza nemmeno troppa contezza da un gran numero di testate nazionali, ma sul metodo attraverso il quale l’Istituto ha deciso di individuare questi gruppi. L’obiettivo è quello di raggruppare le famiglie in base non solo al reddito ma anche ad altre caratteristiche proprie della famiglia o della persona di riferimento.
Per fare questo l’Istat usa una tecnica inferenziale: ovvero una tecnica che fa emergere dai dati i gruppi in cui la società italiana si divide senza bisogno di attrezzarsi con una classificazione e quindi una teoria aprioristica. Long story short: dall’indagine Eu-Silc, l’Istat ha selezionato un certo numero, a dire il vero ridotto, di variabili in grado di dare conto delle differenze di reddito tra le famiglie.
Nello specifico le variabili scelte dall’Istat sono: il numero di componenti della famiglia, la professione svolta, il tipo di contratto di lavoro, la cittadinanza, il titolo di studio. Un albero di regressione di queste variabili sul reddito ha suddiviso le famiglie in gruppi il più possibile omogenei tra di loro.
Autorevoli voci della sociologia italiana non hanno apprezzato questo approccio, dispensando critiche soprattutto dal punto di vista epistemologico: “La debolezza concettuale dell’esercizio diventa metodologica con l’inversione del rapporto tra causa ed effetto. Laddove le classi sono state sempre intese come fattori generativi di disuguaglianza – e non come il suo risultato –, l’Istat procede in direzione contraria. Guarda alle diseguaglianze di reddito, di istruzione, di esposizione ai rischi di disoccupazione e di povertà non come effetti dell’appartenenza a un gruppo sociale, bensì come elementi costitutivi di quel gruppo” (Barbagli, Saraceno, Schizzerotto su lavoce.info del 23 maggio).
Un argomento che può sembrare a prima vista molto convincente, ma che si rileva altrettanto debole se osservato più da vicino. La debolezza nasce dal non riconoscere che l’esercizio condotto dall’Istat è un esercizio di inferenza: il fatto di farsi “suggerire” dai dati sulle differenze di reddito e di altre variabili l’appartenenza al gruppo non equivale affatto ad assumere che le diseguaglianze generino i gruppi.
In fondo, quello che i critici non sembrano accettare è il tentativo di provare, per una volta, a non partire da una teoria predefinita che, generalmente, stabilisce l’appartenenza a un gruppo/classe dal ruolo nel mercato del lavoro della persona e che, a quanto pare, richiede il bollino di una cattedra in sociologia (!).
Il Presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha ribadito il valore di questo tentativo in un articolo su neodemos.it «Applicare ai dati classificazioni esistenti è certamente utile e necessario […] Quest’anno si è applicato un approccio diverso, rinunciando ad assumere ex ante quelle classi come date, ed esplorando invece con uno strumento statistico e a partire dai microdati d’indagine se emergesse una classificazione diversa […] L’obiettivo è quindi differente; è perseguito con un approccio metodologico di carattere inferenziale, reso possibile dalla ricchezza del patrimonio informativo di cui l’Istat dispone.»
Quello che l’Istat sembra reticente ad ammettere è che scegliere le variabili in grado di spiegare il reddito significa indirettamente avere una teoria su come si forma il flusso di risorse economiche nella famiglia. E la teoria che l’Istat mette in campo non solo non viene esplicitata, ma sembrerebbe per lo più dettata dalla disponibilità di variabili dell’indagine Eu-Silc e dalla necessità di replicare la costruzione dei gruppi con i dati di altre indagini e quindi di scegliere variabili che siano disponibili in indagini diverse.
Di fatto il numero e il tipo di variabili che l’Istat mette sul piatto per individuare i gruppi non sembra del tutto soddisfacente e non sembra in nessun modo riflettere “la ricchezza del patrimonio informativo” richiamata dal Presidente Alleva. E forse il ridotto numero di informazioni che concorrono a definire i gruppi è anche la causa di alcuni risultati bizzarri come il gruppo delle anziane sole e giovani disoccupati… Non è chiaro poi se siano state fatte delle prove con altri metodi al fine di verificare la robustezza dei risultati ottenuti. Rimane certamente di valore il tentativo di innovare in un campo di indagine estremamente attuale. Un tentativo, evidentemente, giudicato troppo sovversivo da taluni.
Una volta individuati i gruppi, l’Istat propone una descrizione di diversi aspetti che li caratterizzano: le condizioni di salute, la partecipazione sociale e culturale, la partecipazione al mercato del lavoro. I risultati, tuttavia, appaiono per lo più trainati dalle variabili che incidono nella costruzione dei gruppi stessi.
Così emerge che i gruppi costituiti da famiglie con redditi più elevati e persone più istruite sono quelli con condizioni di salute migliore, con stili di vita più salutari, più elevati livelli di partecipazione sociale e culturale, una presenza più stabile e proficua sul mercato del lavoro… Niente di sorprendente, dunque.
Ma nelle pieghe del rapporto, lì dove si abbandona il tema dei gruppi, si scovano delle informazioni interessanti. Come la questione demografica con un numero di nascite sempre più basso sintesi di un tasso di fecondità bassissimo e di un progressivo ridursi del numero di donne in età fertile. Un declino demografico che non sembra più compensato, come un tempo, dai fenomeni migratori: il tasso di fecondità delle donne straniere sta rallentando e rallenta anche la crescita del numero di stranieri residenti.
Oppure il fatto che la partecipazione culturale sia in una fase di allarmante declino: partendo dal 34% del 2008, nel 2016 ha raggiunto il e superato il 37% la quota di persone con più di 6 anni che non partecipa in nessun modo alla vita culturale (questa quota è del 50% nelle famiglie a basso reddito con stranieri). Oltre il 25% del tempo libero è dedicato a guardare la TV (anche qui con delle differenze che rispecchiano la disponibilità di risorse e il titolo di studio: non si arriva al 25 per la classe dirigente mentre si supera il 30 per le famiglie a basso reddito), mentre meno del 5% è dedicato alla lettura o ad altre attività culturali.
Un altro passaggio interessante del Rapporto annuale dell’Istat è il tentativo di sottolineare come la crescita degli ultimi anni nei livelli di diseguaglianza sia rintracciabile nella forte crescita delle diseguaglianze che si generano sul mercato del lavoro e del capitale. Un passaggio, questo, che sembra suggerire, anche se non in maniera esplicitata nel rapporto (forza! un po’ di coraggio!), la necessità di impostare politiche pubbliche orientate, come auspicato da molti analisti, alla cosiddetta pre-distribution.
Così come sembra interessante l’accenno di analisi sull’influenza delle caratteristiche di impresa sui differenziali salariali che evidenzia il ruolo positivo del capitale umano e dell’innovazione sulla compressione salariale.
Insomma, un Rapporto annuale coraggioso, a tratti un po’ ingenuo ma al quale vale la pena dare un’occhiata.
il manifesto, 11 giugno 2017
PRIMARIE AVVELENATE,
NON ESISTONO
MA GIÀ SPACCANO LA SINISTRA
di Daniela Preziosi
«Alleanze. Gazebo di coalizione, c’è il niet di Mdp. Che avverte l’ex sindaco: Renzi è un piazzista, no al dialogo. Malumori anche nel Pd»
Le primarie del centrosinistra con un Pd che fino a una settimana sfotteva la «sinistra rissosa» sono un’ipotesi irrealistica, il classico ballon d’essai delle fasi politiche di stallo. Ma tanto poco basta per rialzare il termometro nella sinistra che fino a tre giorni fa tendeva all’unità, complice un incombente sbarramento al 5 % nella legge elettorale ormai spazzato via dall’orizzonte.
Per il terzo giorno consecutivo ieri Renzi, stavolta dal Corriere della sera, ha lanciato un amo a Giuliano Pisapia, leader di "Campo progressista": «Noi ci siamo. Vediamo che farà lui». Il segretario Pd spiega meglio la sua idea di accordi a sinistra a legge vigente: un patto al senato, ma non alla camera, dove tanto è convinto di imbroccare l’onda del voto utile perché «il premio al 40% consente di tentare l’operazione maggioritaria». L’ex premier non risponde alle condizioni che Pisapia pone per riaprire il dialogo: primarie di coalizione, cancellazione dell’articolo 18, discontinuità. A questo dibattito manca il principio di realtà. Lo ricorda il presidente dem Matteo Orfini a Repubblica, che «c’è una legge proporzionale che non prevede coalizioni e quindi le primarie non avrebbero senso», dunque benvenga Pisapia in coalizione ma dopo il voto se avrà i numeri, «con questo sistema elettorale oguno tessa la sua tela e poi ci ritroveremo in parlamento in base al consenso che i cittadini ci daranno».
Ma questi giri di valzer comiminciano a suscitare malumori a sinistra, fra gli stessi alleati di Pisapia che il primo luglio hanno con lui un appuntamento a Roma per costruire «la casa comune» della sinistra. Bersani, D’Alema, Rossi, cioè tutta la «Ditta» ex Pd non hanno alcuna intenzione di allearsi con il proprio ex partito. Ampiamente ricambiati: Renzi spiega alcuni di loro farebbero fatica «anche a tornare alle feste dell’Unità».
Le polemiche non sono dirette, almeno per ora. Massimo Paolucci, europarlamentare vicinissimo a D’Alema, spiega che la proposta di Renzi a Pisapia è «una polpetta avvelenata», «Non esistono le condizioni minime per svolgere insieme al Pdr le primarie di coalizione. Senza una chiara alleanza politica, un simbolo ed una piattaforma comune sarebbe una grave errore, una decisione incomprensibile per milioni di nostri elettori delusi dalle scelte fatte, in questi anni, su tasse, lavoro, scuola, politiche sociali, investimenti». Il presidente della Toscana Enrico Rossi: «Le primarie di coalizione hanno poco senso perché la storia del sindaco d’Italia è finita il 4 dicembre 2016. Noi dobbiamo costruire un’alleanza per il cambiamento a sinistra del Pd fatta da coloro che, di sinistra e di centrosinistra, non si riconoscono più nel Pd di Renzi».
Enrico Rossi si rivolge al lato politico dove si collocano Sinistra italiana e Rifondazione comunista, e offre una lista unitaria, anche con i civici ex no che si vedranno a Roma il 18 giugno. Sorvolando sul fatto che difficilmente queste aree apprezzerebbero – anzi digerirebbero – la benedizione degli ulivisti Prodi, Letta, Bindi, così tanto invocata da Mdp.
Anche Pisapia evita la polemica interna. Ma dai suoi arrivare segnali di insofferenza: «Dobbiamo investire sulla riapertura di una nuova stagione di centrosinistra in discontinuità con questi anni. Aggiungo che oggi, per ragioni tutte giuste, governiamo, da una posizione di leggera subalternità, con Renzi e persino con Alfano».
PRIMARIE,
UN FAVORE A RENZI
di Massimo Villone
Per un tabellone elettronico salta il patto di scambio tra voto subito – voluto da Renzi, Grillo e Salvini – e sistema similtedesco proporzionale – voluto da Berlusconi. Ora Renzi dice di puntare al voto nel 2018. Con il Consultellum nella doppia versione Camera-Senato, e aggiunge un’offerta di coalizione a Pisapia. Non sappiamo se sarà l’ultima mossa. Ma se lo fosse, a chi darebbe scacco?
Anzitutto, scacco a ciò che è a sinistra del Pd. A tal fine, il Consultellum è molto efficace. Alla Camera, il premio con soglia al 40% rafforza molto il richiamo del voto utile. Raggiungere la soglia sarà pure improbabile, ma l’argomento sposta comunque voti. Al Senato, il voto utile si aggancia agli sbarramenti, troppo alti per i partiti minori. E contro un’aggregazione che potrebbe ambire a superarli si offre la coalizione a uno dei player. Divide et impera. Ed è davvero sorprendente che Pisapia risponda chiedendo primarie. È solo un favore a Renzi, con il regalo di una probabilissima vittoria che ne rafforzerebbe legittimazione, leadership e disegno politico.
Dalla sinistra sparsa alla sinistra scomparsa: questo è il copione di Renzi. Una sparuta pattuglia di deputati farebbe sopravvivere qualche pezzo di ceto politico, ma rimarrebbe del tutto insignificante.
E la diversità dei sistemi elettorali? La governabilità? Mattarella? Questo è il secondo scacco. Il Capo dello Stato non può impedire lo scioglimento della Camere in due casi. Il primo è lo scioglimento anticipato voluto da una maggioranza parlamentare in grado di negare la fiducia a qualsiasi governo. Questa era l’ipotesi sottesa al patto tra i quattro leaders. Fatta la legge elettorale, Mattarella non avrebbe potuto opporsi al voto subito. Il secondo caso è la fine naturale della legislatura, perché la tempistica è dettata dalla Costituzione, e nessun rinvio è consentito. Dire che si vota nel 2018 equivale a dire che si vota con la legge che c’è. Quindi, basta non fare, e Consultellum sia: ecco lo scacco a Mattarella.
È chiaro che rimangono tutte le censure nel merito, in specie per la diversità tra Camera e Senato. Il pasticcio viene da Renzi, per l’arrogante pretesa di anticipare con una legge elettorale solo per la Camera la riforma costituzionale poi sepolta dai no. Come non bastasse, ora Renzi lucra sul malfatto, potendo con la sua proposta ottenere vantaggi anche limitandosi a un gioco di interdizione.
Che si può fare? In Parlamento, poco. Sono controinteressati alla proposta Renzi soprattutto i partiti minori, che certo non controllano i lavori parlamentari. Inoltre, sono spinti verso la subalternità per non morire. Qualcosa, invece, si può fare sul piano della politica. E qui una lezione viene dal voto in Gran Bretagna.
Per molti, Corbyn era un pezzo di modernariato politico, da non prendere sul serio. Ma in poche settimane di campagna ha recuperato quasi del tutto un distacco che sembrava incolmabile, con un programma elettorale vicino a una proposta socialdemocratica vintage. È chiaro che ha trovato una corrente profonda di cui non si sospettava l’esistenza. E colpisce che abbia così guadagnato tra i giovani e nell’area del non voto. Una vecchia sinistra in disarmo ha visto i propri figli innalzare le bandiere da tempo ammainate.
Forse nel voto GB la più importante indicazione è proprio questa: la sinistra può essere competitiva se dismette una lunga sostanziale subalternità ai mantra del privato, del mercato, della finanza. Perché non in Italia? Dunque, bene se qui la sinistra sparsa si compatta e trova qualche candidatura eccellente. Meglio se formula un progetto non di nicchia, volto a ritrovare in modo compiuto le antiche risposte socialdemocratiche sulla dignità della persona, la solidarietà, l’eguaglianza, la giustizia sociale, il ruolo del pubblico. Da un appeal verso i giovani e il non voto potrebbe venire la massa critica utile a superare qualsiasi scoglio di sistema elettorale.
In realtà lo stesso Renzi potrebbe fiutare il vento e volgersi a una proposta socialdemocratica vintage. Vogliamo anche augurarglielo. Certo, sarebbe difficile riconvertire l’ultimo Pd, tutto privato, competizione e libero mercato. Ma uno che nasce boy scout deve pure saper affrontare
il manifesto, 10 giugno 2017
«Non è la mia sconfitta. È la sconfitta di Grillo. E degli altri». La botta è forte, la seconda botta forte dal 4 dicembre, ma l’ex premier Matteo Renzi ha tempi di reazione (anche troppo) rapidi e tenta subito una manovra diversiva. Ai suoi spiega che il pasticcio non l’ha fatto lui, che si è limitato a stringere accordi politici, semmai è stato il Pd alla camera ad aver sottovalutato quello che stava succedendo nel passaggio fra la commissione e l’aula: doveva prevedere e sventare «l’imboscata dei 5 stelle». L’allusione è al relatore della legge Emanuele Fiano e al capogruppo Ettore Rosato, non proprio due assi di diplomazia, che ora attaccano alzo zero il tradimento grillino.
Ma se il piano b di Renzi, e cioè andare al voto comunque prima della finanziaria con qualche correttivo al Legalicum fatto per decreto, viene subito frenato dal Colle, ieri dall’infaticabile ma non infallibile ex premier è arrivato subito un piano C.
Anzi, un piano «p», nel senso di Pisapia. Un cambio di strategia raffazzonato in fretta e furia sulla falsa riga di quello post referendum. Il piano prevede un repentino cambio di verso sul tema delle coalizioni: contrordine, dunque, il Pd non è più possibilista sulle larghe intese con Forza Italia, ora si orienta verso il centrosinistra. O, più precisamente, si offre di caricare sul suo carrozzone azzoppato il Campo progressista di Pisapia. È la stessa mossa fatta all’indomani della sconfitta del referendum costituzionale, finita poi su un binario morto.
La risposta di Pisapia in prima battuta è piccata: «Prima bisogna ragionare partendo da una constatazione oggettiva: quel tipo di alleanza con la destra o centrodestra è perdente per il Paese e per la buona politica». L’ex sindaco ha già esperienza di un Renzi mobile qual piuma al vento. E oggi ormai ha messo in piedi la rete Campo progressista che prepara per il primo luglio il lancio di un fronte comune con Mdp di Bersani e D’Alema. E cioè quelli che il leader Pd non vuole vedere neanche dipinti. Ricambiato.
L’imminente varo di una legge elettorale con lo sbarramento al 5 per cento e la precipitazione al voto avevano spinto la sinistra a (provare a) unirsi. Il crollo dell’ipotesi finto-tedesca e il ritorno del voto al 2018 però cambiano tutto. Dal lato del Pd, ma anche dal lato della sinistra variegata che affrontava la mission impossible dell’unità con una serie di incontri pubblici, ora presumibilmente tutti da ricalibrare.
Così nel pomeriggio si misura tutta la confusione che regna nel virtualissimo campo del centrosinistra.La scena va in onda in diretta su Radiopopolare che nel corso della sua festa costringe sullo stesso palco lo stesso Pisapia, Fiano, Enrico Rossi (Mdp) e Nicola Fratoianni (Si). E lì succede che Fiano attacca Rossi (finisce male, il dem che si deve scusare «per l’arroganza») e invece corteggia Pisapia. Il quale a sua volta fa la mossa di accettare il dialogo ma avanza condizioni irricevibili per Renzi: «Sono per il massimo dell’unità e rimango sempre favorevole al dialogo ma tenendo fermo il punto che qualsiasi alleanza con il centrodestra è contro i nostri valori oltre che un inganno agli elettori. Renzi accetti le primarie di coalizione, ci vuole discontinuità rispetto a ora.
Grande è la confusione sotto il cielo, la sinistra stenta a capitalizzare la nuova sconfitta di Renzi. Pisapia prova a fare il pontiere ma sbaglia ponte: chiede che nel finale di legislatura il Pd abbandoni l’alleanza a destra e assicuri l’approvazione di ius soli, reato di tortura, codice antimafia e provvedimenti sull’uguaglianza sociale. Replica scontata di Fiano: «Certo, ma i voti nostri e vostri anche uniti non bastano».
il manifesto, 10 giugno 2017
E’ indubbio che l’idea di Giuliano Pisapia di federare i gruppi frantumati e dispersi della sinistra contiene elementi di dinamismo politico da apprezzare. Soprattutto alla luce dell’inerzia che oggi sembra paralizzare quel campo, incapace peraltro di far leva e valorizzare le forze che si sono aggregate intorno alla campagna referendaria coronata da successo il 4 dicembre. Ma l’apprezzamento si arresta qui. Per il resto la sua iniziativa appare il vecchio tentativo di ricucitura di un ceto politico diviso, in vista della competizione elettorale. Come ricordano Anna Falcone e Tomaso Montanari (il manifesto, 6 giugno).
In tutta la condotta che ha caratterizzato la sua manovra nelle ultime settimane – soprattutto l’ambizione di ricomporre un centro-sinistra con il Pd di Renzi – mostrano una superficialità di lettura della situazione italiana sconcertante e drammatica. Ma come legge Pisapia, se non le tendenze di fondo del capitalismo degli ultimi 30 anni, la storia italiana degli ultimi 3 anni? Davvero Renzi è personaggio da confederare in un nuovo (?) centro-sinistra? E qui non voglio riferirmi alla persona.
Negli ultimi giorni, peraltro, i suoi ex alleati, da Alfano a Cicchitto, hanno aggiunto pennellate shakespeariane al ritratto del leader, campione di tradimenti e menzogne. I cattolici, quando sono inclini al cinismo, per una misteriosa chimica teologica, diventano imbattibili in materia.
Ma è più importante osservare la politica che egli ha condotto con il suo governo negli ultimi 3 anni. I cui risultati fallimentari sono facilmente osservabili nel ristagno sostanziale dell’economia, nella persistenza inscalfita della disoccupazione, nella crescita della povertà assoluta e relativa, nella crescente marginalità del Sud, nella riduzione delle risorse alla ricerca e all’Università.
Quello che stupisce in coloro che si ostinano a voler trascinare Renzi nella famiglia della sinistra è il non riuscire a vedere che dietro la facciata pubblicitaria del giovane condottiero c’è una politica non solo moderata, ma vecchia, la stessa che da anni sta condannando il Paese a una lenta consunzione.
E’ sufficiente esaminare tre iniziative strategiche del suo governo per comprendere che l’allora presidente del consiglio ha condotto delle politiche esattamente inverse alle necessità della fase storica attuale.
L’abolizione dell’Imu sulla prima casa – strizzata d’occhio ai ceti abbienti – ha accentuato la tendenza storica alle disuguaglianze sociali, quella ricostruita su grandi serie da Thomas Piketty, quella denunciata oggi persino dall’Ocse, come una causa rilevante della stagnazione economica internazionale.
Da noi la disuguaglianza ha una connotazione ancora più grave: essa si presenta come emarginazione delle nuove generazioni: disoccupazione, precarietà, lavoro gratuito, alti costi delle rette universitarie, scarse risorse per la ricerca, per il welfare delle giovani coppie (case, asili, scuole materne).Le figure che portano creatività, energia e spirito innovativo in ogni ambito della vita sociale vengono messe ai margini.
Ebbene su questo punto occorre oggi a sinistra una intransigente chiarezza. L’idea di una politica che raccolga i consensi dei ceti moderati è una vecchia pratica che può portare a qualche successo elettorale, ma che non va alla radice dei problemi. Alle famiglie dei ceti moderati occorre dire con coraggio, che senza una importante redistribuzione della ricchezza, senza un loro apporto economico al rilancio del Paese i loro figli e nipoti andranno via, l’esclusione sociale si accrescerà, L’Italia avrà un incerto futuro. E nessuno deve dimenticare che da noi la marginalità sociale si trasforma in humus per la criminalità grande e piccola.
Il secondo punto strategico riguarda il lavoro. Con il Jobs act Renzi ha continuato la vecchia politica di flessibilità del lavoro. E’ la stessa all’origine della crisi mondiale iniziata nel 2008. I bassi salari e la precarietà del lavoro negli Usa, surrogati dall’indebitamento delle famiglie per il sostegno alla domanda, costituiscono il modello di sviluppo che è rovinosamente crollato. E occorrerebbe ricordare che sul piano storico esistono le prove del fatto che la disponibilità di manodopera a buon mercato ritarda gli investimenti in innovazione tecnologica.
Ai primi del ‘900 i trattori hanno rapidamente conquistato le spopolate campagne degli Usa. In Italia la vasta presenza del bracciantato povero ha ritardato a lungo l’ingresso delle macchine in agricoltura.
Infine la Buona scuola. Può sembrare il punto strategicamente meno rilevante. Al contrario, è quello che mostra il provincialismo e l’arretratezza culturale del progetto di Renzi. Mandare i nostri studenti in qualche fabbrica a “fare esperienza”, è una battaglia di retroguardia. Riporta le lancette della storia all’età delle manifatture. Oggi i profitti capitalistici non sono assicurati da una qualche manovalanza ben addestrata, ma dalla creatività, dalla invenzione, dalla capacità di immaginare nuovi prodotti e servizi.
Serve cultura, sapere complesso, non abilità manuale ed esperienza aziendale. Anche sotto il profilo strettamente capitalistico è utile studiare Platone, piuttosto che assistere alla confezione degli hamburger da McDonald.
il manifesto, 6 giugno 2017
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro. Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.
«Il 18 giugno a Roma. È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati»
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive. Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.
il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2017 (p.d.)
Porcellum, Italicum, Rosatellum (mai nato) e ora Tedeschellum. Professor Andrea Pertici, da costituzionalista ci spiega cosa ha in comune questa proposta di legge col sistema tedesco?
la Repubblica, 31 maggio 2017
il manifesto, 30 maggio 2017 (p.d.)
Lavoro, welfare, immigrazione sono all’ordine del giorno sul fronte di un’altra Europa contro l’asse Macron-Merkel-Renzi che alza la bandiera di aver fatto argine al pericolo populista. La domanda di una sinistra che possa riprendere voce, ruolo e rappresentanza nel panorama politico italiano abbonda, anche sulla base e sulla scia dei consensi che leader con o senza codino, giovani o anziani, ricevono nel panorama europeo. Una domanda per una prospettiva di alternativa, capace di innovare nella costruzione di una forza aperta ai cittadini chiamati a partecipare in modo diretto alla sua formazione. Né con un mi piace, né con il rito della cooptazione.
In Italia la famiglia della sinistra, laburista, libertaria e ecologista, si presenta come un arcipelago sopravvissuto alle eruzioni vulcaniche del suo elettorato, con il vasto consenso dei 5Stelle, con il renzismo, con la scissione di un pezzo del Pd, con la diaspora di Sel-Sinistra italiana. Se lo sbarramento della futura legge elettorale sarà il 5%, la sinistra ha di fronte un grande ostacolo che deve trasformare in un obbiettivo. Per uscire dall’angolo, e navigare in mare aperto rispetto a quel vasto elettorato, piuttosto esigente, che non ne può più di assistere disarmato al perenne duello tra Renzi e Grillo.
Questo governo che prima cancella un referendum con un decreto-truffa e poi resuscita i voucher per le aziende, dimostra una volta di più la sua natura neocentrista. E il Pd che ne è il perno va cercare accordi e consensi altrove, lontano da un mondo del lavoro che ha abbandonato al precariato, facendosi alfiere e baluardo di una politica fiscale che si fa scavalcare a sinistra da Bruxelles sulla tassa per la prima casa. Mille vertenze assediano ogni giorno il ministero dello Sviluppo economico di Calenda; i licenziamenti sono tornati in grande stile senza giusta causa; le università pubbliche stringono il rubinetto del numero chiuso perché mancano docenti e aule in un paese con il 40% dei giovani disoccupati.
Economicamente, socialmente e culturalmente il deserto italiano è profondo e certo non lo bonificherà da sola una forza di sinistra che sente la fatica di affrontare anche uno sbarramento del 5%. Certamente la natura intrinsecamente maggioritaria dell’intesa che si va profilando per le forze minori prefigura una strada tutta in salita (pur superando la soglia di sbarramento la sinistra rischia una rappresentanza parlamentare di tribuna e comunque forte sarà il richiamo al voto utile nei collegi). Grillo, Renzi e Berlusconi sembrano correre verso elezioni anticipate, i tre poli lavorano per mettere le basi di future maggioranze. Chi in stile Nazareno, chi in modalità pentastellata con maggioranze variabili. Mentre balla nei cieli del purgatorio una legge finanziaria che non si capisce quale governo sarà destinato a firmare.
Una lista di coalizione, a sinistra, si misura oggi con la capacità, la volontà interpretare le lotte sociali insieme a una parte forte del sindacato, la Cgil, in sintonia con un papa che su economia e lavoro parla chiaro e parla a tutti. Non mancano certo le carte per dare finalmente rappresentanza, identità e futuro a quei milioni di persone, italiane e straniere, che si sentono sole di fronte all’impoverimento, che soffrono l’esclusione sociale, che subiscono il bombardamento di una sottocultura dell’odio e del rancore, oltre che di un trasformismo perenne. Buone carte per un gioco difficile, truccato e diverse trappole da evitare. Il prevalere di vecchi riflessi condizionati nella corsa ai posizionamenti ideologici, la perniciosità di una certa pigrizia intellettuale, la tentazione di sommare spezzoni di gruppi parlamentari, l’afasia nella scelta della leadership.
Se è vero che l’Italia è un laboratorio politico, è arrivato il momento per la sinistra di presentarne uno serio e credibile all’opinione pubblica, non da ultimo dandogli un nome e un volto.
Il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2017 (m.p.r.)
«Il 17 giugno intendiamo riempire piazza San Giovanni a Roma di lavoratori e di cittadini che manifestano per difendere la Costituzione, lo facciamo non per dividere ma per unire questo Paese partendo dalla convinzione, sancita nella nostra Carta, che attraverso il lavoro si afferma il diritto e la possibilità di vivere con dignità: la democrazia è sotto attacco». Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, ritrova i toni delle grandi occasioni e chiama i lavoratori, i pensionati e tutti i cittadini a mobilitarsi. Il casus belli che riporta la Cgil in piazza dopo aver sperimentato la via legislativa con la raccolta delle firme ai banchetti per promuovere i referendum, è l’emendamento che il governo ha presentato sabato scorso nella manovra di aggiustamento dei conti pubblici all’esame del Parlamento. Una norma che reintroduce di fatto i voucher nei sistemi di retribuzione delle prestazioni lavorative anche nelle imprese. «Siamo davanti a un attacco alla democrazia - tuona Landini - perché con un imbroglio si è impedito alle persone di esprimersi e di decidere, come dice la Costituzione».
Oggi (ieri, ndr) si sarebbero dovuti celebrare i referendum chiesti dalla Cgil dopo aver raccolto 3 milioni di firme, vi sentite presi in giro?
«Non siamo noi ma il Paese intero a essere stato preso in giro, siamo di fronte a una logica da imbroglioni: il 21 aprile hanno emanato un decreto di abolizione dei voucher per superare il voto dei referendum, il presidente del Consiglio disse che lo avevano fatto per non dividere il Paese; il ministro del Lavoro promise poi che avrebbe aperto un confronto con le parti sociali, ma nessuna convocazione è arrivata e a metà maggio si inventano un emendamento di reintroduzione dei voucher infilandolo in una manovra sui conti pubblici».
La ministra Finocchiaro dice che non sono voucher e chi li chiama ancora così è un bugiardo.
«In realtà sono ancora peggio di quelli vecchi, quando li estendi alle imprese con meno di cinque dipendenti, che sono la stragrande maggioranza nel nostro Paese, si sta introducendo un’altra forma di lavoro che non è un contratto; non esistono le imprese occasionali, si tenta di tornare a una logica commerciale del lavoro, senza più diritti né tutele e senza possibilità di impugnare gli atti se serve. Un altro imbroglio come le famose “tutele crescenti” con cui dicevano di aver sostituito l’articolo 18».
Il segretario del Pd, Mattero Renzi, però se ne chiama fuori, dice che è una partita totalmente giocata dal governo.
«Stiamo assistendo a un balletto: in Commissione l’emendamento è stato presentato da parlamentari del Pd e si conferma che anche il governo Gentiloni e quello Renzi - che poi sono la stessa cosa - tutte le volte che fanno norme sul lavoro non ne discutono con nessuno e producono provvedimenti dannosi che aumentano la precarietà. Il Pd dice che va votato, addirittura con Forza Italia e con la Lega. La verità è che questi sono quelli dell’Ape e del Jobs act e che avevano detto che sarebbero andati via dalla politica e sono ancora lì a distribuire a pioggia un sacco di soldi pubblici».
Anche papa Francesco fa riferimento alla Costituzione per richiamare gli imprenditori a non soggiacere solo alla logica del profitto: è il sindacato che si fa ecumenico o viceversa?
«Certo è molto significativo che il Papa mandi da Genova un messaggio forte a favore della dignità e del valore sociale del lavoro proprio mentre in Parlamento una parte del Pd, all’opposto, fa questo provvedimento. Cgil e Fiom devono mettere al centro del loro impegno la democrazia e il lavoro come ci ha ricordato papa Francesco».
Cosa proponete a quei settori dell’economia che chiedono comunque una regolamentazione?
«Abbiamo depositato da tempo in parlamento la proposta di una Carta dei diritti, per ottenere uno statuto di tutte le forme di lavoro dignitoso e tutelato: pensione, salute, equa retribuzione, partecipazione alle scelte sono diritti non contrattabili».
Pare che il provvedimento avrà la strada spianata anche al Senato.
«La partita non è chiusa, ci appelliamo al presidente della Repubblica, alla Corte di Cassazione e alla Consulta perché intervengano e chiederemo, con una raccolta di firme che partirà nei prossimi giorni nelle piazze e in tutti i posti di lavoro, il rispetto dell’articolo 75 della Costituzione. Dobbiamo denunciare l’imbroglio e difendere la democrazia».
la Repubblica, Affari e Finanza, 29 maggio 2017
L'ultimo stop in ordine di tempo è arrivato giovedì scorso: due sentenze del Tar del Lazio hanno fatto saltare cinque delle venti nomine di direttori di grandi musei statali, mettendo a repentaglio una riforma che stava funzionando bene. Non c'è giorno o settimana in cui l'elenco degli altolà disposti in Italia dai giudici amministrativi di primo e di secondo grado non si arricchisca di un nuovo caso. Sotto la loro scure cadono uno dopo l'altro lotti stradali e concorsi pubblici, riforme bancarie e lavori di messa in sicurezza di scuole e ospedali, bonifiche di terreni e assunzioni di infermieri.
Rafforzare il personale che lotta ogni giorno contro l'evasione fiscale è cosa buona e giusta: peccato che negli ultimi tredici anni il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato abbiano bloccato o sospeso tutti e tre i concorsi che l'Agenzia delle Entrate aveva disposto per assumere centinaia di dirigenti. Basta avere un po' di buon senso per capire che le mastodontiche navi da crociera non devono passare a pochi metri da Venezia, ma basta una pronuncia del Tar del Veneto all'inizio del 2015 per annullare l'ordinanza con cui la Capitaneria di Porto aveva limitato il loro passaggio nel canale della Giudecca e nel bacino di San Marco. Valorizzare o quanto meno evitare che cada a pezzi il nostro patrimonio storico-artistico è un impegno difficilmente contestabile. Eppure capita che all'inizio del 2016 il Tar della Campania sospenda i lavori nella "Regio I" di Pompei in seguito al ricorso di un'azienda esclusa dalla gara, e che li sblocchi solo quest'anno, guarda caso pochi giorni dopo il crollo del muro di una delle Domus romane.
L'Osservatorio Nimby Forum (dove Nimby è l'acronimo inglese per lo slogan "non nel mio cortile") ha calcolato che più di un terzo delle 342 opere bloccate in Italia ha ricevuto almeno uno stop da Tar e Consiglio di Stato: si tratta di 122 impianti finiti nelle sabbie mobili dei ricorsi. Al primo posto, nell'elenco dell'Osservatorio, gli impianti energetici, seguiti da termovalorizzatori e biodigestori per i rifiuti, da strade e ferrovie per le infrastrutture. Il 37% di queste opere sono ferme da più di quattro anni.
Morire di diritto
L'immagine di un'Italia bloccata dalla giustizia amministrativa, dove non solo le opere pubbliche ma quasi ogni decisione politica è condannata a restare sospesa per anni o decenni, non è certamente nuova. Già qualche anno fa era una visione così nitida da indurre un politico misurato come Romano Prodi ad affermare, neppure troppo provocatoriamente, che l'abolizione dei Tar e del Consiglio di Stato avrebbe favorito la crescita del Pil. "Non possiamo morire di diritto amministrativo", scrive nel suo libro La lista della spesa l'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, sfiancato dalla gragnuola di veti e ricorsi piovuti su ogni atto politico. In realtà, non è un problema che si possa risolvere con una semplice sforbiciata. Non è possibile privare i cittadini del diritto di difendersi dai possibili abusi della pubblica amministrazione: missione affidata appunto ai giudici amministrativi. L'obiettivo è salvaguardare questo diritto senza tuttavia bloccare l'economia di una intera nazione, senza creare quello stato di incertezza che paralizza imprese e famiglie e allontana gli investimenti esteri.
Finora però non è andata così: assistiamo tutti i giorni a occasioni di sviluppo sacrificate sull'altare del più astratto formalismo giuridico, del bizantinismo più esasperato. Malgrado i progressi realizzati negli ultimi anni, i ricorsi pendenti presso Tar e Consiglio di Stato sono ancora una massa enorme, quasi 240 mila nel 2016, con forte concentrazione al Sud, e quelli nuovi si mantengono ben sopra la soglia dei 60 mila annui raggiunta nel 2012 e poi addirittura superata. Sui tempi della giustizia amministrativa, il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, ricorda che molto è stato fatto per ridurli: "Tra il deposito del ricorso e la prima decisione collegiale passano oggi 200 giorni, contro i 700 del 2010". Ed è di comune dominio la convinzione che la giustizia amministrativa sia comunque più veloce di quella civile. Più veloce eppure in assoluto ancora lentissima: secondo il Justice Scoreboard della Commissione europea, edizione 2017, se si tiene conto delle liti pendenti, ci vogliono mille giorni in Italia, ossia quasi tre anni, per arrivare alla fine del primo grado di giudizio amministrativo, un record in Europa. In Svezia, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Polonia bastano cento giorni. In Francia e Germania meno di 500.
A colpi di sospensive
Insomma, il fenomeno da noi presenta ancora tutti i crismi della emergenza. Ormai non c'è concorso pubblico, non c'è gara di appalto senza almeno un ricorso da parte di chi è stato escluso. E dal ricorso non di rado si passa alla sospensione temporanea da parte del Tar (che può durare anche mesi), cosicché quando arriva il giudizio (anche se è positivo) spesso è troppo tardi. Senza contare che poi si dovrà aspettare il verdetto del Consiglio di Stato che potrà sempre ribaltare la decisione del Tar. "La giustizia amministrativa è al timone della politica industriale del nostro paese - commenta Alessandro Beulcke, presidente dell'Osservatorio Nimby Forum - E' questo il dato che emerge dalle nostre rilevazioni. Riportare in seno al governo le decisioni sui progetti di interesse nazionale è la soluzione che da tempo invochiamo, come viatico per la semplificazione degli iter autorizzativi e per la riduzione dei contenziosi tra Stato e Regioni. La riforma del Titolo V della Costituzione - continua Beulcke - avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, uno strumento potente in grado di realizzare una maggiore certezza del diritto, a beneficio di imprese, istituzioni e territori".
Ultimamente, soprattutto con il governo Renzi, si è cercato di porre un freno alla possibilità di aziende e privati di appellarsi ai Tar, e anche al potere dei tribunali stessi di sospendere i lavori più urgenti. Eppure, non si riesce ancora a porre fine ai casi di paradossale formalismo giuridico. Come quello raccontato da Giavazzi e Barbieri nel loro libro I signori del tempo perso.
Dal Palladio a Pompei
Bassano del Grappa, agosto 2015: il ponte degli Alpini, progettato alla fine del Cinquecento da Andrea Palladio, rischia di sgretolarsi. Governo e Regione Veneto stanziano 3,7 milioni per i lavori. Un'azienda di Treviso vince l'appalto, ma siccome una ditta della stessa cordata non riesce a farsi dare in tempo tutti i documenti dalla prefettura, l'incarico viene affidato alla seconda arrivata. L'impresa trevigiana fa ricorso ma il Tar del Veneto non dà la sospensiva. Inizio lavori previsto per il 2 maggio 2016. Nuovo ricorso al Consiglio di Stato che a sorpresa blocca i lavori almeno fino al giudizio di merito del Tar. Il quale alla fine dà ragione alla prima azienda. E' passato più di un anno, il ponte per fortuna non è crollato ma avrebbe avuto tutto il tempo per farlo. Così come invece è accaduto, dopo un anno di veti e contro-veti, al muro della Domus del Pressorio di Pompei.
Il nuovo codice appalti dovrebbe d'ora in poi impedire casi come questi, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo come sempre l'interpretazione giuridica. E così, come spiega il presidente dell'Anac Raffaele Cantone, ci sono imprese che ricorrono al Tar solo perché puntano ad avere con il risarcimento danni per l'esclusione da un lavoro, più di quanto avrebbero ottenuto realizzandolo. E cita una grande impresa del Nord che, seguendo questa strategia, è stata risarcita con 21 milioni.
Le proposte di Bankitalia
Infermieri e 007 del fisco
Alle decisioni sulle materie più o meno strategiche, si accompagnano poi migliaia di micro-verdetti talvolta bizzarri, come la sospensione del divieto di attività dei centurioni nel centro di Roma, o come lo stop all'ordinanza con cui il Comune di Cervo Ligure aveva disposto l'abbattimento dei cinghiali. E così questo gigantesco labirinto nonsense fatto di ricorsi, sospensioni e annullamenti acquista anche un carattere grottesco.
La riforma che non arriva
il Fatto quotidiano, 29 maggio 2017
Professore, ci sarà di nuovo un governo di larghe intese con Pd e Forza Italia con i Cinque stelle all’opposizione?
Perché?
«Il ceto medio in Italia è stato trattato come carne da macello dalla politica, usato e abbandonato. Oggi rappresenta una parte di società arrabbiata, per via della disoccupazione e dell’impoverimento. A queste persone nessuno sa dare risposte, nemmeno i Cinque Stelle. Non credo che potranno farlo neanche D’Alema e Pisapia. Il ceto medio è stato indebolito, e non solo economicamente. Intendo anche da un punto di vista culturale, sociale e politico. I partiti hanno usato alcune rivendicazioni e alcuni movimenti finché ha fatto loro comodo. Ricordo che Fassino si presentò alla manifestazione dei girotondi, dove i partiti non erano invitati, e si mise a firmare autografi. Oggi quando D’Alema cita “i comitati del No al referendum di Zagrebelsky” fa la stessa cosa: un’operazione opportunista e senza contenuti. Invece di riconoscere che esiste una società civile che va incoraggiata a crescere, cerca di risucchiarla. È un grande segno di miopia».
Come potrà un elettore del Pd che per lustri ha fatto la guerra a Berlusconi votare il suo partito sapendo che probabilmente si alleerà proprio con Berlusconi?
«Io vivo in Toscana e vedo quotidianamente quanta accondiscendenza c’è verso il leader, verso tutto ciò che viene dall’alto. Lo spirito critico difetta. Ma non stupiamoci, è un atteggiamento che viene da lontano: “Compagni, è cambiata la linea!”, il caro vecchio centralismo democratico. Penso che ci siano elementi di ubbidienza cieca, passati dai padri ai figli».
Perché gli intellettuali tacciono?
«Dirò una cosa antipatica: in tanti settori – della cultura, alla giustizia e alle professioni – tutto passa attraverso il potere. Se il Pd esercita un dominio vasto, si aspetta e ottiene fedeltà. In Inghilterra le risorse che la politica può distribuire sono molto meno».
Tutti tengono famiglia?
«L’altra sera ho detto a mio figlio maggiore: “Ben, ho sbagliato tutto. Avrei dovuto essere un padre ‘clientelare’, utilizzare i miei contatti per sistemare i miei figli”. E lui mi ha detto: “E’ vero, babbo. Così se Bossi aveva il Trota, io potevo essere il tuo Merluzzo”. Scherzi a parte, credo che la situazione sia tristemente e banalmente questa: la maggioranza teme di inimicarsi chi ha – o anche potrebbe avere – il potere».
In Europa il premier che attirava sorrisini, ora diventa un fattore di stabilizzazione, benvenuto agli appuntamenti del Ppe. Come è possibile?
«In Europa la situazione è disperata: non possono rischiare altre “exit”. Anche se Renzi porta il partito di Berlusconi al governo, proveranno a digerirlo. Siamo in buona compagnia, del resto: basta pensare al premier ungherese, ben peggio di Berlusconi. Credo però che Berlusconi continuerà ad avere un peso, ma resterà defilato».
Non può neanche candidarsi!
«Dopo il fallimento del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta, bisogna essere onesti e dire che non c’è molta differenza tra le politiche neoliberiste di Berlusconi e quelle di Renzi.
Come vede le elezioni in ottobre?
«Non c’è un altro Paese come l’Italia fissato su quando e come si vota. La discussione sulla legge elettorale è stupefacente per uno straniero. Credo che Renzi voglia tornare al potere il prima possibile. Credo che non dorma la notte nel timore che il potere gli scivoli dalle mani. In politica le cose cambiano con eccezionale rapidità: Harold Wilson, un premier inglese degli Anni 60, diceva che “una settimana in politica è un tempo lunghissimo”».