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il manifesto,

La storia è nota: l’Africa è povera e ha bisogno dell’aiuto dei paesi ricchi. E se le potenze occidentali hanno sfruttato il continente con la schiavitù, il colonialismo e il saccheggio delle risorse naturali, è stato in passato. Oggi sono generose, determinate a eliminare la povertà e a promuovere lo sviluppo sostenibile. Ma questa favoletta, che i paesi ricchi ripetono fino alla nausea, è piuttosto ingenua. Sappiamo da un pezzo che l’Africa è «creditrice netta» rispetto al resto del mondo. L’ammontare di risorse finanziarie accumulate all’estero grazie alla fuga di capitali negli ultimi decenni supera di molto le risorse che vanno nell’altra direzione, compresi gli aiuti e il debito. Ogni anno si prelevano dal continente fra i 30 e i 60 miliardi di dollari, secondo un rapporto diffuso nel 2015 dal Gruppo di alto livello sui flussi finanziari illeciti (High Level Panel on Illicit Financial Flows) creato dalla Commissione economica dell’Onu per l’Africa (Uneca), presieduto da Thabo Mbeki, ex presidente del Sudafrica. E si tratta di stime al ribasso.
In cosa consiste questa emorragia che gli specialisti chiamano «flussi finanziari illeciti»? Intanto, ovviamente, si compone di attività criminali di ogni tipo (droghe, traffico di armi, ecc.), alle quali si aggiunge il riciclaggio di denaro legato alla corruzione. Inoltre le compagnie multinazionali facilitano flussi finanziari illeciti in uscita manipolando transazioni commerciali. Fatture false, transfer pricing, pagamenti fra case madri e loro sussidiarie, meccanismi di elusione fiscale allo scopo di nascondere redditi sono pratiche comuni da parte delle compagnie, nel loro sforzo di massimizzare i profitti. È comune il ricorso sia all’evasione fiscale (che è illegale) che all’elusione fiscale, grazie alle scappatoie legali offerte dal sistema di tassazione internazionale.

La fuga di capitali è un fenomeno globale. Per anni, i paesi sviluppati hanno ritenuto che il problema dei flussi finanziari illegali fosse prima di tutto una faccenda di lotta contro il terrorismo, il riciclaggio di denaro e altri crimini finanziari. Ma di recente, in un periodo di grande pressione sui bilanci nazionali, i governi delle economie avanzate hanno moltiplicato gli sforzi per combattere anche l’evasione da parte delle aziende. Questo in parte spiega per esempio la battaglia in corso in Europa: paesi come la Francia e la Germania sono stanchi di vedere i colossi del digitale come Google, Apple, Facebook e Amazon aggirare gli obblighi fiscali spostando i profitti in Irlanda o Lussemburgo.

Ma l’impatto della fuga di capitali sui paesi in via di sviluppo, in particolare sull’Africa, è di gran lunga più devastante. Nel continente africano le entrate fiscali sono già molto basse: in media il 17% del Prodotto interno lordo (Pil), rispetto al 35% dei paesi ricchi. E le autorità fiscali non hanno risorse sufficienti per contrastare le strategie sempre più sofisticate, sempre più aggressive messe in atto dalle multinazionali per evadere le tasse; per non parlare dei meccanismi di corruzione che coinvolgono i politici locali. Il costo umano e sociale degli abusi relativi alle imposte societarie è gigantesco. Significa infatti meno risorse per infrastrutture, istruzione, salute, alimentazione, protezione dei diritti delle donne, programmi ambientali. Non per nulla le Nazioni unite hanno dichiarato che i flussi finanziari illeciti sono un grave ostacolo al finanziamento dello sviluppo e dunque al raggiungimento degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile.

In questo contesto, la Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (Icrict) ha chiesto alle Nazioni unite uno sforzo per combattere l’evasione fiscale da parte delle transnazionali come parte di una più ampia strategia di lotta contro i flussi finanziari illeciti. È una lotta che richiede l’impegno da parte degli Stati e della comunità globale per migliorare la trasparenza dei sistemi finanziari e del commercio internazionale, e per consolidare le capacità delle amministrazioni fiscali nazionali. Questo significa, fra l’altro, obbligare le imprese a rendere pubblici i dettagli delle loro attività in ognuno dei paesi dove operano, per far sì che tutti i profitti siano debitamente tassati nel paese dove si svolgono effettivamente le attività produttive e commerciali. E significa anche monitorare tutti i fattori e gli attori che rendono possibile la fuga dei capitali, in particolare le banche che aiutano a nascondere le risorse finanziarie illegalmente succhiate via, a danno dell’Africa.

Léonce Ndikumana è docente di economia e direttore del Programma per la politica di sviluppo dell’Africa presso l’Istituto di ricerca di economia politica all’università del Massachusetts. È commissario della Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle imprese multinazionali (Icrict).

Questo articolo esce oggi in una dozzina di paesi diversi in occasione dell’inizio a Nairobi della conferenza sui flussi finanziari illeciti e il loro impatto sullo sviluppo dell’Africa.

il Fatto Quotidiano,

Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno, un milione e trecentomila euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afgana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati.
In sedici anni la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28mila dollari per ogni cittadino afgano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140mila afgani tra combattenti (oltre 100mila, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35mila, in aumento negli ultimi anni, quelle registrate dall’Onu: dato molto sottostimato che non tiene conto delle tante vittime civili non riportate). Senza considerare i civili afgani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: 360mila secondo i ricercatori americani della Brown University.
Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afganistan ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei Paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite). Politicamente, il regime integralista islamico afgano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagica) è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma. Per non parlare del problema del narcotraffico (si veda articolo accanto). La cartina al tornasole dei progressi portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afgani che cerca rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afgani sono i più numerosi dopo i siriani.
Anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo sedici anni di guerra, i talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà Paese. Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno. Sul fronte occidentale sotto comando italiano dove, per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afgani.

Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia: perché mai poche migliaia di truppe che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150mila soldati occidentali armati fino ai denti? Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione.

È opportuno ricordare che i talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza pashtun degli afgani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente poiché la loro agenda è la liberazione nazionale, non la jihad internazionale: combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente (né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 settembre, che avevano apertamente condannato). L’alternativa è il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come ISis-Khorasan.

Una prospettiva pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico, poiché uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse (Russia, Cina, Iran, Pakistan) desiderose di estendere la loro influenza strategica, stroncare il narcotraffico afgano che le colpisce e, non ultimo, mettere le mani sulle ricchezze minerarie afgane (in particolare le ‘terre rare’ indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari.

il manifesto

Stavolta non si trattava di fanatici delle armi, come Adam Lanza, il responsabile del massacro nella scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, nel 2012 e Dylann Roof, l’autore della strage in una chiesa di Charleston nel 2015. Non c’entra la paranoia di due studenti mentalmente disturbati, come accadde a Columbine, nel 1999. E, nonostante la rivendicazione, neppure si può dare la colpa allo Stato Islamico e alle guerre in medio oriente, come nel caso degli attacchi di San Bernardino, in California nel 2015, e di Orlando, in Florida, nel 2016. No, domenica a Las Vegas l’autore della strage è un pensionato, per di più milionario, due categorie finora mai incontrate nel quadro degli atti di terrorismo.
Stephen Paddock, 64 anni, era un giocatore, apparentemente fortunato, che passava gran parte del suo tempo a Las Vegas al casinò, oppure partecipava ai tornei di poker on line da casa sua, in un quartiere residenziale di Mesquite, sempre in Nevada. Della sua vita lavorativa si sa solo che era finita molti anni fa, da decenni si occupava solo delle sue proprietà immobiliari, anche in questo caso con successo. Al contrario di altri terroristi americani non era un cacciatore, non aveva una passione per le armi da fuoco, non era un reduce dal servizio militare, com’era stato, per esempio, Timothy McVeigh, l’autore dell’attentato di Oklahoma City nel 1995.
Paddock non era un emarginato o un lupo solitario: aveva due fratelli, una madre ancora viva con la quale era in contatto, una compagna che al momento della sparatoria era all’estero. Non aveva mai dato segni di squilibrio mentale o manifestato desideri di vendetta, non era in contatto con organizzazioni criminali o gruppi neonazisti anche se, per la gioia dei giornali, suo padre era stato un rapinatore di banche tra i dieci più ricercati dall’Fbi negli anni Settanta.

No, Stephen Paddock era un normale americano agiato, di quelli che fanno le crociere nei Caraibi o nel Mediterraneo, vengono in Italia per vedere Firenze e Venezia, affollano i parchi di Yellowstone e Yosemite e, naturalmente, vanno a Las Vegas per provare il brivido della roulette, dei dadi, delle slot-machine. Paddock, dopo aver fatto tutte queste cose, ha deciso di farne un’altra più emozionante e spettacolare: sparare sulla folla di un concerto. Ha affittato una suite al 32° piano in un albergo che dominava l’area del festival, l’ha riempita di armi semiautomatiche, ha sfondato i vetri delle finestre e ha iniziato la strage, che avrebbe potuto essere anche peggiore di quello che è stata, come testimonia l’incredibile numero di feriti, 527, che si aggiungono ai 59 morti confermati.

Com’era prevedibile, il presidente Donald Trump e i repubblicani in Congresso si sono limitati a delle frasi di circostanza, deputati e senatori rimangono ostaggi della potente National Rifle Association, che con i suoi cinque milioni di iscritti costituisce uno dei pilastri del blocco di potere oggi dominante. La Nra, nata come club di appassionati di tiro a segno a fine Ottocento, ha cambiato pelle nella seconda metà degli anni Settanta, riuscendo a imporre un allargamento progressivo del diritto di portare armi, fino ad ottenere una storica vittoria nel 2008 con la sentenza della Corte suprema District of Columbia versus Heller, che sostanzialmente apriva la via a una deregolamentazione totale basata su una lettura fino ad allora ultraminoritaria del II Emendamento della costituzione.

Nell’interpretazione di Antonin Scalia a nome della maggioranza dei giudici, quello di armarsi è un diritto individuale di ogni cittadino americano, legato all’autodifesa, non connesso al servizio militare in una milizia o una riserva dell’esercito. Naturalmente, i cinque giudici repubblicani non affrontarono il problema della difesa dei normali cittadini da chi volesse acquistare armi da guerra (Paddock aveva 23 armi da fuoco nella sua stanza, tra i quali vari AR-15, i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate americane).

Il fatto che le stragi sostanzialmente immotivate siano diventate, insieme agli omicidi, il problema di salute pubblica n. 1 negli Stati Uniti è evidente a tutti ma il sistema politico sembra totalmente paralizzato e incapace di affrontarlo. Neppure proposte parziali e modeste, come vietare l’acquisto di armi ai potenziali terroristi o alle persone mentalmente instabili, sono state approvate negli ultimi anni, nonostante un’escalation di violenza impensabile in qualsiasi altro paese.

Nel 2014 c’erano stati 12.571 omicidi con armi da fuoco, nel 2015 ce n’erano stati 13.500, nel 2016 il totale è balzato a oltre 15.000. A questi, occorre aggiungere i circa 22.000 suicidi l’anno, sempre con armi da fuoco. Per avere un’idea migliore di cosa significhino queste cifre basterà ricordare che gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi per 100.000 abitanti che è circa 4 mentre in tutti i paesi europei tranne l’Ungheria questo tasso è inferiore a 2, e nei paesi industrializzati come Germania, Francia, e Gran Bretagna è inferiore a 1. L’Italia, nonostante mafia e camorra, ha circa 450 omicidi l’anno, cioè un tasso di 0,81 ogni 100.000 abitanti. In Giappone, il tasso è 0,3, cioè ci sono meno di 400 omicidi l’anno nonostante sia un paese di 120 milioni di abitanti.

Ci sono speranze per gli Stati Uniti? Nonostante il dibattito sulle armi da fuoco venga puntualmente riaperto ad ogni nuova strage, l’emozione sembra durare pochi giorni o settimane e, soprattutto, sembra incapace di scalfire l’indifferenza del sistema politico. In otto anni di presidenza, neppure Barack Obama, un coraggioso e carismatico sostenitore di maggiori restrizioni e controlli, riuscì a far approvare a Congresso un qualsiasi modesto provvedimento utile a limitare i danni. Dopo Las Vegas non c’è che da aspettare il prossimo massacro.

il Fatto Quotidiano

Anche la Germania, l’ultimo bastione di quella stabilità così cara alle élite di governo, si ritrova nel grande tumulto che sta condizionando la vita politica di tutto l’Occidente. Si può rispondere in tre modi. Il primo è minimizzare, vivacchiare, fare finta di nulla. Tanto alla fine la Cancelliera la spunterà. Avanti così, a insistere su quello status quo iniquo e ingiusto che per primo sta lastricando la strada a nazionalismi e razzismi. È la strategia dello struzzo. E quella di buona parte del Pd.

Oppure possiamo provare a fare nostre alcune delle parole d’ordine del nuovo fascismo. Sperando che qualche fesso preferisca la copia all’originale. È questo il disegno del ministro Minniti; questo a volte il calcolo degli algoritmi a 5 stelle quando ordinano di scaraventarsi contro chi salva vite in mare. È la strategia del camaleonte.

Oppure, nel fitto della giungla, possiamo provare a restare umani. Possiamo alzarci su due gambe e creare le condizioni per una rivoluzione politica necessaria quanto ineluttabile. La prima gamba si chiama ambizione. Perché non si tratta più di litigare su qualche decimale di spesa pubblica o qualche auto blu. Non si tratta di creare spazi di testimonianza. Ma di definire un nuovo modello di società a fronte di un sistema in bancarotta morale a materiale. Anche in Germania, Paese ricco ma con il maggior numero di lavoratori poveri d’Europa. Il centrismo, la Terza Via, la vecchia socialdemocrazia: tutto ciò è morto e deve essere abbandonato.

Una società che ponga al centro la ridistribuzione di una ricchezza selvaggiamente concentrata, la garanzia di un reddito, la centralità di istruzione e ricerca, la liberazione dal giogo mortale della grande speculazione, tutto ciò e molto altro ancora, deve divenire oggi puro e semplice buonsenso. “La grande ricchezza può essere più pericolosa della criminalità organizzata”. Fu il presidente americano Roosevelt, ideatore del New Deal, a pronunciare queste parole. Le dobbiamo sentire nuovamente.

La seconda gamba si chiama Europa. Due sono stati i temi che hanno affossato Angela Merkel: la crisi dell’Eurozona e la crisi dei rifugiati. Sono temi che condizionano fortemente le nostre vite e che sono al centro della campagna elettorale italiana.

Ma sono temi su cui la politica nazionale – anche quella del Paese più forte – può sempre meno. Se ne possono aggiungerne di altri. Come lo scandalo dell’evasione fiscale delle grandi multinazionali o i cambiamenti climatici oggi sotto gli occhi di tutti. Temi che definiscono alla radice le nostre vite. Temi su cui nessun governo nazionale può esercitare reale sovranità. E quindi? Per citare lo slogan della campagna per la Brexit, bisogna “riprendere il controllo”. E questo significa non ripiegare sulla nazione ma su alcune questioni superarla. Per noi europei, significa costruire una forza pubblica continentale in grado di restituire reale controllo democratico sulle grandi scelte del futuro. E questo dipende in buona parte da noi, non dai burocrati di Bruxelles.

Dobbiamo riuscire a forgiare nuove forze politiche europee capaci di agire direttamente sui grandi temi che la politica nazionale non riesce più a governare. Non è un auspicio vuoto. Ci sono attori, come il movimento europeo DiEM25, che lo stanno facendo, con un occhio alle prossime elezioni europee del 2019. Ci vorrà tempo, certo. Ma non si esce dalla giungla senza recuperare l’orizzonte. Alziamo lo sguardo e alziamoci su due gambe. Perché non siamo struzzi ne camaleonti. Ma uomini e donne che vogliono tornare a dominare il proprio futuro.

C'è più d'uno, nell'area che va da Salvini a Minniti, che ci inciterà ad obbedire proclamando: ce lo chiede l'Ungheria.

il Fatto quotidiano, 2 settembre 2017
«Il primo ministro ungherese "imita" il capo della Casa Bianca, che continua a chiedere al Messico di finanziare la costruzione di un muro di separazione tra i due paesi. Attesa per mercoledì la sentenza sul ricorso di Budapest e Bratislava contro il ricollocamento dei richiedenti asilo»

.Make Europe great again. Che Viktor Orbán fosse un fan di Donald Trump si era capito. La novità è il primo ministro ungherese sta prendendo spunto dalle mosse del capo della Casa Bianca. Come Trump annunciò di voler fare con il Messico, ora Orbán vuole mettere in conto all’Unione europea la spesa per il muro anti-migranti costruito al confine con Serbia e Croazia. Tutto ciò alla vigilia della sentenza della Corte di giustizia Ue, che il prossimo 6 settembre si pronuncerà sul ricorso presentato da Ungheria e Slovacchia contro il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia.

In una conferenza stampa tenutasi 31 agosto, il capo dello staff del governo di Budapest, János Lázár, ha annunciato che l’Ungheria chiederà alla Commissione europea di pagare almeno metà della cifra sostenuta dal paese per la costruzione della barriera, cominciata nel 2015 e costata 800 milioni di euro. La richiesta di Orbán sarà formalizzata in una lettera destinata a Bruxelles al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.

Il rimborso richiesto, dunque, sarà di 400 milioni per 170 km di filo spinato. “L’Ungheria, con i suoi confini fortificati attraverso il muro, la polizia e l’esercito, sta proteggendo tutti i cittadini europei dal flusso di migranti irregolari – ha detto Lázár – il momento che l’Ue aiuti l’Ungheria così come ha fatto con l’Italia, la Grecia e la Bulgaria. Non si possono usare due pesi e due misure”.

Solo il 27 agosto, Donald Trump rilanciava il suo muro anti-migranti, al confine con il Messico. “Essendo il Messico una delle maggiori nazioni criminali al mondo, dobbiamo avere il muro. Il Messico lo pagherà attraverso un rimborso o altro”, ha scritto il presidente Usa su Twitter.

«Il Paese, che negli ultimi anni ha sempre esercitato potere e influenza oltre i confini, continua a essere oscurantista ed epurare chiunque dissenta».

il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2017 (p.d.)

Ciò che più colpisce nell’immenso palazzo di re Dario a Persepoli (V sec. a.C.) è la scalinata d’accesso: i gradini bassissimi, del tutto incongrui in rapporto a tanta magnificenza, furono voluti dal re – pare – affinché i dignitari e i sovrani in visita, impacciati da vesti e paramenti, non avessero a fare capitomboli.

Evidentemente immemore di tale insegnamento, così come dell’attenta politica di apertura varata da Barack Obama, la diplomazia americana fa oggi il passo più lungo della gamba, e minaccia l’Iran di nuove sanzioni in virtù di presunte violazioni dell’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra nel 2015: un accordo, comunque la si pensi, vitale per la stabilità della regione. Tassello essenziale della retorica incendiaria di Donald Trump, rinterzata per l’occasione dai timori dell’anziano Henry Kissinger circa il sorgere di un “nuovo impero persiano” dopo la sconfitta dell’Isis, l’attacco a Teheran appare quanto meno temerario, e non meno scomposto della recente messa al bando del Qatar (accusato di collusione proprio con l’Iran) da parte di vari Paesi del Golfo all’indomani della visita dello stesso Trump in Arabia Saudita.

L’attacco sul nucleare – preludio per molti a escalation di tipo coreano, specie dopo il Muslim ban – segue infatti l’insediamento del nuovo governo del rieletto presidente Rohani, un esecutivo moderato e di sostanziale continuità, tristemente privo di donne (salvo le tre vicepresidenti), e determinato a proseguire l’alleanza strategica con Russia e Turchia, che in questi giorni d’agosto ha già sfornato accordi miliardari per trivellazioni nel Caspio, colloqui bilaterali (e riservati) tra capi di Stato maggiore, e forti iniziative diplomatiche per risolvere la crisi yemenita e quella siriana (i proficui colloqui di Astana).

Se l’Europa, anche per i propri interessi energetici, appare più prudente (la recente, fortunata visita di Federica Mogherini al Parlamento di Teheran è culminata in un’imbarazzante gara dei deputati a farsi un selfie con la bionda lady Pesc (gli ayatollah non hanno gradito), gli Stati Uniti sembrano non aver inteso che la faccia feroce contro il regime iraniano può rivelarsi in realtà la strada migliore per rafforzarlo, indebolendo la crescente insofferenza interna in virtù dell’unità nazionale e dell’antiamericanismo diffuso. Nessuno qui ha dimenticato che fu la Cia – di concerto con gli ayatollah più retrivi – a rovesciare nel 1953 il governo più progressista e modernizzatore del secolo, quello di Mohammad Mossadegh, reo di voler nazionalizzare le risorse energetiche iraniane sottraendole al latrocinio delle compagnie occidentali.

Ed è opinione diffusa che la stessa rivoluzione khomeinista del 1979 – i cui esiti finali spiazzarono, o talora condannarono a morte, tanti suoi iniziali fautori – sia stata inizialmente avallata, se non orchestrata, anche nell’ambasciata di via Talaqani, il “covo di spie” già teatro di un celebre, lunghissimo sequestro che costò la rielezione al presidente Jimmy Carter. In quell’edificio oggi regnano i pasdaran del regime, che hanno dipinto sui muri una Statua della Libertà col volto della Morte; e proprio dirimpetto, la caserma delle Guardie della Rivoluzione esibisce le gigantografie dei caduti dal 1979 in poi accanto a quelle, recentissime, dei martiri della guerra contro l’Isis (che a Teheran ha messo a segno due sanguinosi attentati il 7 giugno scorso): una guerra che senza l’Iran e le milizie sciite di Hezbollah difficilmente si può vincere.

Lungo le strade delle città iraniane, così come nella valle della Bekaa (la parte del Libano in mano a Hezbollah, ai piedi delle rovine romane di Baalbek), le lunghe teorie di foto di giovani caduti – soprattutto nel conflitto con l’Iraq (1980-88) – rammentano quale ruolo giochi nella cultura sciita il mito del martirio. “Morire da martire vuol dire iniettare sangue nelle vene della società”, recitavano gli slogan degli anni ‘80. Proprio un’eroica sconfitta, quella patita dal nipote di Maometto, Hussein ibn Ali, nel 680 d.C. a Kerbala in Iraq, è del resto l’atto fondativo della fede sciita, al punto che quadratini di terra di Kerbala (la stessa terra che dal 2003 ha assorbito il sangue copioso delle sfortunate truppe d’occupazione americane) sono a disposizione dei fedeli in preghiera all’ingresso delle moschee.
Chi voglia sfidare in blocco gli iraniani, questo popolo fiero e antichissimo, non solo corre il rischio di perdere (per analogia, le recentissime dichiarazioni del segretario alla Difesa James Mattis sulla “non vittoria” americana in Afghanistan sono oggetto sui media iraniani di analisi e dileggi che rincuorerebbero Massimo Fini), ma soprattutto dimentica e condanna alla marginalità quella vasta fetta della società iraniana che ha sete di libertà, e da cui il regime oscurantista e criminale degli ayatollah riceverà – presto o tardi – il colpo di grazia. “Una finestra per vedere / una finestra per sentire / una finestra che come bocca di un pozzo / giunga fino al cuore della terra”, cantava la grande poetessa Farrough Farrokhzad.
Non solo dunque i leggendari festini notturni delle élite di Teheran, ma anche il bambino che guarda gli sconcertanti affreschi del Chehel Sotun a Isfahan (donne nude, per la sorpresa dei soprintendenti capitolini) con indosso una maglietta Nba; o lo studente di legge che a Shiraz ti intrattiene in piazza sulle liriche salaci di Hafez (XIV secolo) come sui film di Kiarostami e Farhadi; o le adolescenti di Yazd che da sotto il chador sbirciano ridacchiando gli allenamenti di giovani aitanti in una palestra sotterranea; o ancora la folla che ogni sera trasforma l’enorme piazza Naqsh-e-Jahan di Isfahan (l’Isfahan delle Lettere persiane di Montesquieu) in una sorprendente declinazione di quell’espace public di cui parlano gli intellettuali nostrani; o i fedeli che a Qom, nel centro religioso che governa la Repubblica islamica, prendono alla lettera il cartello di benvenuto, dove Mosè, Gesù e Maometto figurano sullo stesso piano; o il ristoratore del deserto che insiste a tenere la Coca Cola vera invece del surrogato locale Zam Zam (ma quanto più buoni i suoi succhi di melograno o di cantalupo!); o il ragazzo che dinanzi alla chiesa armena di Nuova Jolfa deplora che dei calciatori iraniani vengano sanzionati dalla Federazione per aver osato giocare con il loro club greco contro una squadra israeliana; o ancora, le migliaia di persone che, stanche dei mullah, il 21 marzo vanno a festeggiare il capodanno persiano (il Nowruz, tuttora la maggiore festività del Paese, legata al rito zoroastriano ad onta dei vani tentativi di Khomeini di islamizzarla) a Pasargade sulla solinga tomba di Ciro il Grande (VI sec. a.C.), il re achemenide che tanti persiani ammirano meno per le sue ragguardevoli conquiste territoriali che non per l’idea di “diritti dell’uomo” contenuta in nuce nell’iscrizione del suo famoso cilindro, oggi al British Museum. È lo stesso, sapientissimo Ciro ammirato dal greco Senofonte, che nel IV sec. a.C. gli dedicò la prima biografia della letteratura occidentale, la Ciropedia nota ai nostri liceali da temibili versioni.
Alle élite politiche dell’Occidente fa spesso comodo richiamare l’attenzione sulle impiccagioni pubbliche, sulla legge del taglione, sulle fatwa, su riti e modi ripugnanti di un regime che nel 1979 partì da Parigi sulle ali dell’entusiasmo di tanti maîtres à penser. Fa comodo anche confondere l’Iran con i Paesi arabi del Medio Oriente, dimenticando che il ceppo etnico è completamente diverso, che la storia è molto più profonda, e che qui le donne – pur obbligate al velo – guidano, lavorano, ereditano, vanno in tribunale (si ricordi l’avvocato Nasrin Sotoudeh, eroina del film Taxi Teheran di Jafar Panahi), e non usano né il burqa né il niqab. Fa comodo condannare l’aiuto di oggi al regime di Assad in Siria, obliterando lo sporco gioco condotto dalle grandi potenze nella guerra Iran-Iraq, con l’unanime appoggio occidentale al proditorio attaco di Saddam Hussein (la Siria di Assad padre fu tra i pochissimi a schierarsi apertamente con Teheran), e per contro la vendita sottobanco di armi al regime degli ayatollah pubblicamente tanto deplorati (l’ormai dimenticato, ma gravissimo, scandalo “Iran-contras”). Solo a posteriori, all’epoca delle Guerre del Golfo degli anni ‘90, gli occidentali si rammentarono all’improvviso dei massacri e delle armi chimiche usate da Saddam contro iraniani e curdi, peraltro fabbricate – secondo le denunce di Falco Accame – con materiali e tecnologia italiani.
È questa l’imbarazzante e perdurante incoerenza che inficia la credibilità di ogni proclama occidentale sui diritti umani, specie agli occhi di un popolo smaliziato e colto, al punto da non voler più traviare i propri sogni verso una nuova, traumatica rivoluzione (non era nemmeno ciò che chiedevano gli studenti scesi in piazza all’indomani della rielezione di Ahmadinejad nel 2009, repressi con rara brutalità): molti preferirebbero oggi riforme atte a uscire dalle secche di una società ingessata. Dopo la recente morte dell’ex presidente Rafsanjani, è ora giunto a capo del potente Consiglio per il Discernimento – che ha funzione consultiva e censoria – l’ayatollah Shahroudi, un iracheno di Kerbala (questo è un segnale dell’attenzione dell’Iran per il nuovo Iraq ormai guidato dagli sciiti), allievo di Khomeini e maestro di Nasrallah: un uomo contrario alla lapidazione delle adultere ma favorevole al controllo dei media e della rete. Così, gli iraniani faticano sempre più a illudersi che a cambiare le cose possano essere i medesimi rappresentanti superstiti di un regime che negli anni ha progressivamente e violentemente epurato chiunque sembrasse dissentire dal leader: dai rivoluzionari di orientamento comunista del Toudeh ai presidenti riformatori Moussavi e Khatami, fino all’ayatollah Montazeri, erede designato di Khomeini fino al momento in cui nel 1989 decise di dissociarsi da alcune delle brutalità del regime.
Nei primi anni ‘80, prima che cadesse in disgrazia, la foto di Montazeri iniziò a comparire ovunque accanto a quella, già ubiqua, di Khomeini. Oggi in quella stessa posizione, nelle botteghe dei barbieri come sui frontoni delle moschee, c’è l’icona dell’opaco ayatollah Khamenei, il vero successore del defunto leader: viene da pensare che forse solo con la morte di Khamenei, e con la fine di quella disgraziata generazione, si apriranno spazi per ripensare uno Stato che ha raggiunto un tasso d’ipocrisia incompatibile coi valori dei suoi veri progenitori (per Zoroastro, la Verità è il principio positivo fondamentale). Nell’attesa che qualcosa cambi (“in Iran sembra sempre debba cambiare tutto, ma non cambia mai niente”, disse una volta Romano Prodi, che il Paese lo conosce a fondo), il lettore italiano che voglia farsi strada fra tante contraddizioni ha a tiro un libretto eccellente e troppo poco noto, scritto dal più esperto dei nostri corrispondenti in loco: L’Iran oltre l’Iran di Alberto Zanconato (Castelvecchi 2016).

L’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Articoli di Maurizio Giufrè e Alessandra Anselmi da

il manifesto, 23 agosto 2017 (c.m.c)


ROBERTO GOTTARDI
CHIAROSCURI CUBANI.

di Maurizio Giufrè

«All’età di 90 anni muore l’architetto che sognò la «forma della rivoluzione». Con Vittorio Garatti e Ricardo Porro, nel 1961 progettò la Escuela Nacionales»

Fino a quando non venne pubblicato nel 1998 Revolution of Forms di John Loomis nessuno poteva mai immaginare che la storia dell’architettura cubana della rivoluzione si sarebbe incontrata con quella di due architetti italiani, Vittorio Garatti e Roberto Gottardi, i quali, chiamati dal loro collega cubano Ricardo Porro, insieme svolsero l’incarico di trasformare l’esclusivo Country Club di l’Avana in uno dei centri culturali più importanti del Latinoamerica: la Escuela Nacionales de Arte (ENA), un insieme di cinque scuole per il teatro, il balletto, la musica, l’arte plastica e la danza moderna. Dopo la scomparsa di Porro a Parigi nel 2004, ieri ci ha lasciato Gottardi.

Con i suoi amici Vittorio e Ricardo, ancora nel 1999 volle scommettere di completare le parti mancanti della Escuela, per una seconda volta chiamato con gli altri, come nel lontano 1961, da Fidel Castro per un’opera che solo grazie a un architetto e docente statunitense è stata possibile restituire, dopo una lunga disattenzione, alla storia dell’architettura. Purtroppo come allora la mancanza di risorse economiche non ha permesso a Gottardi di vedere completata in tutte le sue parti la Escuela nonostante l’impegno del World Monument Found che l’aveva peraltro inserita nei cento monumenti del mondo da salvare, e le promesse di contribuire al finanziamento dell’intervento dell’amministrazione Bush e poi di alcuni governi europei, tra i quali il nostro all’epoca di Berlusconi. In questo momento di triste perdita per uno degli architetti più singolari per il suo impegno politico e sociale occorre citare innanzitutto questa che per Gottardi è stata la sua più «grande impresa».

In particolare collegarci agli anni del suo arrivo a Cuba poco più che trentenne dopo essersi laureato nel 1952 all’Istituto Superiore di Architettura di Venezia con Carlo Scarpa, un periodo di tirocinio presso lo studio di Ernesto Nathan Rogers e la sua prima occupazione nel Banco Obrero di Caracas dove si trasferisce nel 1957 e dove incontra i suoi due amici, tutti collaboratori di Carlos Raúl Villanueva: il pioniere dell’architettura moderna venezuelana. Tuttavia è con l’avvento della rivoluzione castrista che Gottardi raggiunge nel 1960 Cuba per partecipare, come egli stesso dichiarerà anni dopo, a «fondare un nuovo paese, con una nuova gente», ricordando con nostalgia lo spirito libero, senza alcuna imposizione, con il quale si lavorava e ci si confrontava nell’isola caraibica per la costruzione di una nuova società.

L’atmosfera di quegli anni è ritratta nella celebre foto di Alberto Korda con Castro e Che Guevara mentre giocano a golf sul campo di quello che i giovani barbudos decideranno dovrà diventare la più importante scuola d’arte dell’America Latina. Gottardi scelse di progettare lo spazio della Scuola di Arti drammatiche impiegando materiali poveri e tecniche semplici come la volta a cupola in mattoni di terracotta che nell’architettura dell’Escuela è l’unità minima, seriale e modulare di segno più elementare ma altrettanto organico, ad esempio, di quelle di Eladio Dieste. Il risultato è un’architettura che scaturisce dalla consapevolezza «che tutto fosse possibile per la mancanza completa di idee preconcette», quelle che vennero meno con l’arrivo dei militari sovietici in seguito all’accordo tra Castro e Krusciov nel 1962.

Gottardi non lasciò però mai Cuba a differenza di Porro e Garatti, coniugando dal 1965 l’attività di docente alla Facoltà di Architettura di L’Avana, di scenografo – sue le scene per Girón (1981) e Dédalo (1991) del coreografo Rosario Cárdenas – e di architetto (Ristorante Maravilla, 1968). La «rivoluzione delle forme» di Gottardi rimarrà tra le testimonianze più autentiche nei confronti dell’omologazione globale che interessa l’architettura contemporanea e come un «sogno utopico» può sopravvivere ad ogni forma di dispotismo, oggi come allora.

L’OTTIMISMO
DI UN INTELLETTUALE ECLETTICO

di Alessandra Anselmi
«Frank Lloyd Wright, Luis Kahn tra i riferimenti che ne segnarono la formazione»

Ho conosciuto Roberto Gottardi a L’Avana nel febbraio del 2008, ma il suo nome e le Scuole d’Arte mi erano già da tempo familiari. Me ne aveva, infatti, molto parlato mio padre, Alessandro Anselmi, che nel 1963, insieme a Renato Nicolini e altri architetti, provenienti da diverse parti del mondo, avevano partecipato al VII Congresso della U.I.A. (Unione Internazionale degli Architetti), fortemente voluto da Che Guevara.

All'epoca Roberto, nato a Venezia nel 1927, già si trovava a Cuba, dove era arrivato nel dicembre del 1960. Come lo stesso Roberto amava ricordare, pochi mesi dopo il suo arrivo aveva ricevuto, insieme al cubano Ricardo Porro e all’italiano Vittorio Garatti, l’incarico per partecipare alla costruzione di cinque scuole d’arte (musica, danza moderna, teatro, arti plastiche, balletto), là dove sorgeva l’esclusivo Country Club Park. Nell’ambito del progetto, fortemente voluto da Fidel e da Che Guevara, il giovane architetto veneto ebbe l’incarico per la Scuola di Teatro.

Tutti, soleva ripetere Roberto, eravamo molto ottimisti rispetto al futuro, la rivoluzione si caratterizzava per una grande coralità, e ognuno di noi con le sue diverse competenze sentiva di contribuire al salto qualitativo per una società diversa e migliore. Roberto, tra i suoi maestri metteva Carlo Scarpa, Franco Albini, Giuseppe Samonà e Ernesto N. Rogers, ma, diceva anche che per la sua formazione e per il progetto della Scuola di Teatro erano stati determinanti anche le esperienze «de vida real», vissute a Cuba, che avevano contribuito a fargli porre problemi che oltrepassavano quelli della forma e dello spazio. Oltre ad altri suoi riferimenti, come Frank Lloyd Wright, Luis Kahn e altri, il processo rivoluzionario lo aveva arricchito modificando il suo modo di concepire il progetto architettonico.

La scuola di teatro, che purtroppo come le scuole progettate da Vittorio Garatti, non è mai stata terminata, è caratterizzata da stretti passaggi scoperti, con i quali Roberto voleva ricordare le strade di una città, e da forti contrasti di luce ed ombra. Questi spazi sono inoltre modulati da scale che danno luogo a sorprese visive.

Nello spazio così articolato si aprono gli ambienti per la recitazione e le lezioni, queste le intenzioni, solo in parte realizzate, ma di cui restano numerosi disegni e un plastico. Alla riscoperta delle cinque scuole, i cui lavori si interruppero nella seconda metà degli anni Sessanta, hanno contribuito nell’ultima decade diverse iniziative, tra cui il libro di J. A. Loomis, Cuba’s forgotten Art schools revolution of forms. Importante, anche perché dedicato al solo Roberto, il catalogo della mostra Roberto Gottardi arquitecto. Sin dogma y con muchas dudas, tenutasi a L’Avana lo scorso ottobre 2016, pubblicato da Manfredi Edizioni.

Ho avuto in regalo questo catalogo da Roberto in occasione della mia ultima visita a L’Avana, lo scorso maggio; era fisicamente indebolito ma conservava l’indomito entusiasmo e desiderio di lavorare al suo progetto per la Scuola di Teatro, non certo l’unico da lui elaborato, ma sicuramente il più importante della sua vita, anche perché legato a quella che lui amava definire «l’adolescencia de una década», piena di quella ricca effervescenza, ricerca e creatività che ha caratterizzato la Cuba degli anni Sessanta. Roberto ha lasciato una traccia indelebile in tutto quelli che lo hanno conosciuto: Aldo Garzia, che avendo vissuto a L’Avana come giornalista ha avuto molte occasioni di incontro con lui, lo ricorda come un intellettuale appassionato e sempre ottimista.

La pratica migliore per combattere l'atroce impasto tra sessismo e razzismo violenza ed esclusione, che imperversa nel linguaggio monco dei "social" è l'esercizio paziente della democrazia: ascolto, rispetto, comprensione, risposta argomentata.

il manifesto, 22 agosto 2017
«Il sesso come violenza esplicitata nella classica giustificazione dello stupro. E il profugo, ovvero il "clandestino", identificato con lo stupratore. Viaggia in rete il feroce sessismo razzista. Non serve ribattere punto per punto, vanno riattivate pratiche di accoglienza e confronto dirette, fuori dalla giungla dei social»

Non c’ è niente che mostri con maggior chiarezza il nesso strettissimo tra machismo e razzismo dei tweet sessisti che Laura Boldrini si è decisa a denunciare. Da Beppe Grillo e Matteo Salvini, via via fino ai loro sconosciuti ma non anonimi seguaci. L’elemento centrale che balza agli occhi è l’identificazione tra sesso e violenza. I persecutori di Laura Boldrini, che la vorrebbero morta, per augurarle tutto il male del mondo invitano a sottoporla o sottoporsi a uno stupro: quanto più feroce, tanto più soddisfacente per loro. E non si mettono solo nei panni dello spettatore che assiste eccitato e divertito alla violenza, possibilmente di gruppo, e nelle forme più umilianti, che le augurano.

Traspare evidente anche il loro desiderio di parteciparvi, la loro identificazione con lo/gli stupratori; una visione della violenza come sesso, ma anche, e soprattutto, del sesso come violenza, esplicitata dalla classica giustificazione dello stupro: «ti piacerà anche chissà quanti ne hai ogni sera a farti sfondare», ecc. Ma non è tutto. Laura Boldrini è una donna, che si batte contro il razzismo e per l’accoglienza dei profughi. Il profugo, ovvero il “clandestino”, identificato con lo stupratore. Ovviamente nero: «Le sue merde nere tanto amate». E perché mai? Perché «è arrivata l’ora che ti togli dal cazzo italiano e sali sopra il cazzo nero che tanto hai voluto».

Fa qui la sua comparsa uno dei temi di fondo del machismo, ma anche del razzismo, di tutti i tempi: l’invidia del pene, a lungo, e a torto, identificato con la condizione naturale della donna; forse per nascondere un problema che tormenta da sempre gli uomini: il confronto tra i rispettivi attributi maschili, unito al timore di uscirne perdenti; soprattutto rispetto ai “neri”, identificati tout court con tutti i profughi e tutti i clandestini. Qui il razzismo non è che un tentativo di eludere il fantasma di un confronto da sempre centrale nell’educazione dell’uomo occidentale.

Ma a quest’assalto a Laura Boldrini a suon di tweet hanno partecipato anche diverse donne, che non possono essere state mosse dalle stesse pulsioni. Da una sicuramente sì: il voyerismo, il piacere e il gusto di assistere a una violenza sessuale come fonte di soddisfazione di un desiderio di sopraffazione altrimenti inesprimibile. Ma anche, ovviamente, la soggezione a una cultura maschilista introiettata. Il fatto è che sia dagli uomini che dalle donne che la oltraggiano, Laura Boldrini non è odiata solo e principalmente perché donna, ma soprattutto perché identificata con una rigida difesa dell’accoglienza. Altre donne prima di lei hanno ricoperto la stessa carica senza essere offese in questo modo.

All’epoca di Nilde Jotti la politica non aveva ancora abbandonato le parvenze di quel bon ton messo oggi sotto accusa insieme al cosiddetto political correct. E’ vero. E in fin dei conti, Irene Pivetti era lì come rappresentante di quella parte politica da cui proviene la maggior parte delle offese contro Laura Boldrini, ma che non era certo scontenta di avere una presidente donna. Anche questo è vero. Ma allora profughi e migranti non erano ancora il problema, mentre oggi la contrapposizione tra accogliere e respingere è il cuore della lotta politica; proprio ciò che ha fatto emergere come sua componente primaria il razzismo, ben assistito dalle pulsioni custodite negli strati profondi della psiche. E soprattutto, allora non c’erano ancora i social forum, che sono la palestra di queste esibizioni di feroce sessismo razzista: la trasposizione in una rete di dimensioni planetarie di discorsi e battute che forse ci sono sempre state, ma tra pochi amici, al bar. E che oggi, invece, non si accontentano più dell’anonimato e sono fiere di presentarsi con nome e cognome. Ciò che abbina sessismo, razzismo e degrado della politica non sta, ovviamente, solo nell’avvento dei social forum.

Sta soprattutto nel fatto che i social sono al tempo stesso il vettore e lo specchio di una disgregazione sociale che, mentre responsabilizza ciascuno per le vicende biografiche personali a cui lo ha destinato la società in cui vive, offre all’individuo isolato una compensazione alle proprie frustrazioni nella libertà di procurarsi un pubblico insultando e offendendo nel modo più crudo avversari politici, tifosi di altre squadre, nemici personali, esponenti di etnie, religioni e culture diverse.

Contro questa invadenza dei social non serve ribattere punto per punto. A parte il dispendio di tempo e di energia che ciò richiederebbe, il fatto è che contro la disgregazione sociale promossa dalla cultura della meritocrazia e della competitività universale e alimentata dai social funzionano solo politiche e pratiche di riaggregazione fondate sui rapporti diretti, sull’incontro e il confronto personale, sulla cooperazione in attività, progetti e lotte comuni, sulla solidarietà che non può prescindere dall’incrocio degli sguardi, dalla conoscenza personale e dal riconoscimento reciproco attraverso condivisione di gesti, gusti, parole, serate. E usando la rete solo a supporto, e non come fondamento, di forme più complesse e generali di organizzazione. Proprio quello che si cerca di fare nei centri di aggregazione.

«Tar Pescara. Ribadita l’illegittimità della legge: “Non si può imporre a un civile di acquisire lo status militare”. Adesso tocca alla Corte costituzionale».

Il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2017 (c.m.c.)

Vice sovrintendente Vincenzo Cesetti 1 – ministro Marianna Madia 0. L’assorbimento dei forestali nei carabinieri o in altre forze a ordinamento militare è incostituzionale, almeno per la sezione di Pescara del Tar dell’Abruzzo che passa la palla alla Corte costituzionale. La riforma, sciogliendo il Corpo forestale e smembrandolo soprattutto fra carabinieri e vigili del fuoco, impone – nel caso dell’Arma – l’assunzione dello status di militare in modo non volontario: “illegittimità costituzionale” su cui ora dovrà pronunciarsi la Consulta.

Con l’ordinanza del 9 giugno – anticipata ieri mattina da ilfattoquotidiano.it – i giudici amministrativi, infatti, hanno risposto al ricorso dell’ex forestale Cesetti, trasferito all’Arma dei carabinieri: è uno dei tremila ricorrenti sugli ottomila componenti del Corpo; chiedeva, Cesetti, in sostanza, di «continuare a operare all’interno del disciolto Corpo forestale, e in subordine di non confluire nell’Arma dei carabinieri o comunque in altra forza di polizia a ordinamento militare, ma solo nella polizia di Stato».

Il Tribunale amministrativo abruzzese rileva come fondati i motivi di incostituzionalità addotti dal ricorrente e trasmette gli atti alla Corte costituzionale per il giudizio di merito, informando contestualmente, come da prassi, Palazzo Chigi.

L’ordinanza dei giudici di Pescara accoglie le ragioni del vice sovrintendente Cesetti ed è molto chiara nel determinare gli effetti contrari ai principi della Carta rilevati nella riforma Madia: «Violazione degli articoli 2 e 4 della Costituzione, e in particolare dell’articolo 2, laddove non è stato rispettato il principio di autodeterminazione del personale del Corpo forestale nel consentire le limitazioni, all’esercizio di alcuni diritti costituzionali, derivanti dall’assunzione non pienamente volontaria dello status di militare; e dell’articolo 4, laddove il rapporto di impiego e di servizio appare radicalmente mutato con l’assunzione dello status di militare, pur in mancanza di una scelta pienamente libera e volontaria da parte del medesimo personale del Corpo forestale».

E ancora: «Violazione degli articoli 76 e 77 comma 1 della Costituzione, laddove, in contrasto con la precedente tradizione normativa e quindi con i principi e criteri direttivi di delegazione, non è stato consentito al personale del disciolto Corpo forestale di scegliere di transitare in altra forza di polizia a ordinamento civile». Inoltre, «la militarizzazione di un corpo di polizia (o l’assorbimento del personale di un corpo di polizia civile in uno militare che è cosa analoga) si pone in netta controtendenza rispetto ai principi generali del nostro ordinamento e alle linee evolutive di questo nel tempo». E non basta, perché, per il Tar abruzzese, è stata «sottratta in concreto all’Assemblea parlamentare la possibilità di affrontare e analizzare tutte le questioni riguardanti tale accorpamento; con la conseguenza che la medesima Assemblea si è limitata così a consegnare al governo una delega in bianco dai contorni del tutto incerti, persino su un’opzione dalle implicazioni tutt’altro che marginali come la militarizzazione».

La ratio della riforma è la razionalizzazione e l’efficientamento della Pubblica amministrazione? «Il diritto alla tutela e salvaguardia dell’ambiente – scrive la sezione del Tar presieduta da Alberto Tremaglini – rientra nell’ambito di tutela del diritto alla salute, deve ritenersi che anch’esso sia un diritto incomprimibile, e perciò non sacrificabile per mere esigenze di bilancio e risparmio di spesa». Eppure «non si evincono ragioni di tale accorpamento salvo quella relativa alla razionalizzazione dei costi».

«A meno che – si legge ancora nell’ordinanza – non si voglia ritenere che la semplice riduzione numerica delle forze di polizia possa condurre a un risparmio di spesa, a parità di mezzi e personale impiegato, e ciò pur senza eliminare significative sovrapposizioni di funzioni (che non rinvenivano tra il Corpo forestale e l’Arma dei carabinieri), ma viceversa disperdendo un patrimonio culturale specialistico in complesse operazioni di riorganizzazione, quindi non semplificando un collaudato sistema di protezione ambientale ma disciogliendolo in vari rivoli, così ponendo semmai nuovi problemi di riorganizzazione e riconsolidamento di meccanismi e dinamiche operative maturate negli anni, che richiederanno evidentemente del tempo per ricomporsi nell’esercizio quotidiano delle funzioni».

Saggi ammonimenti, da un quotidiano che di solito ne è privo. Peccato che siano rivolti a una "sinistra" che non c'è, perché quella che usurpa questo nome è composta da tre destre.

la Repubblica, 9 agosto 2017

CHE cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa.

Ciò che resta — e che peserà in futuro — è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale.

ORA, il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare.

Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura “tecnica” strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono. Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate.
Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché “naturale”, prodotto di una tradizione e di una cultura.
Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i “cittadini”, garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune.
Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini.

3 agosto 2017
CISGIORDANIA. COMPLETATI ALTRI 42 KM DI MURO
della Redazione di NENA News

Un altro tratto di muro è stato completato: 42 chilometri di barriera israeliana – la cui costruzione è iniziata nel 2002 tra Cisgiordania e Israele – sono stati aggiunti al lungo percorso. Ad essere terminato è stato il tratto nelle colline a sud di Hebron, sud della Cisgiordania, all’altezza del checkpoint di Tarquimiya.

Ad annunciarlo è stato il ministro della Difesa di Tel Aviv, Avigdor Lieberman: “Il completamento del muro nelle colline a sud di Hebron è un altro passo negli sforzi del ministero per incrementare significativamente la sicurezza per i residenti dell’area e per tutti i cittadini di Israele”. Un’affermazione che ricalca le dichiarazioni degli ultimi 15 anni: Israele ha sempre descritto il muro come necessario ad evitare attentati nel proprio territorio.

Dichiarazioni smentite sia dai dati sugli attacchi che dalla stessa durata della costruzione: il muro non è mai stato terminato e non sono pochi i palestinesi che attraversano il confine per andare a lavorare illegalmente in Israele, con il beneplacito di caporali, aziende israeliane e dello stesso esercito, che spesso chiude gli occhi per garantire alle compagnie manodopera a basso costo.

La Linea Verde e in rosso il muro-barriera
costruito da Israele a partire dal 2002

Inoltre la barriera non corre lungo il confine ufficiale tra Cisgiordania e Israele, la Linea Verde, ma entra prepotentemente all’interno del territorio palestinese mangiando ulteriori spazi poi annessi de facto a Israele: secondo i dati dell’agenzia Onu Ocha, il 9.4% del territorio della Cisgiordania è stato isolato dalla costruzione del muro. L’88% del percorso entra in territorio palestinese e la sua lunghezza è quasi tre volte la lunghezza del confine ufficiale, 712 km contro 250. In molti casi assorbe le colonie costruite lungo la linea verde e in Area C, area palestinese controllata da Israele e che rappresenta il 60% dell’intera Cisgiordania.

In cemento in alcuni tratti ma per lo più costruito sotto forma di rete elettrificata – molto invasiva perché larga oltre 150 metri che attraversano e rendono inutilizzabili le terre agricole – è stato dichiarato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004, ma mai smantellato.

Secondo i media israeliani i lavori al nuovo tratto sono cominciati all’inizio del 2017 come risposta punitiva ad un attacco a Tel Aviv, compiuto nel giugno dell’anno precedente da palestinesi provenienti dalla città di Yatta, a sud di Hebron. I 42 km in questione sono stati costruiti con blocchi di cemento di sei metri, intervallati da torrette e telecamere.

5 agosto 2017, Nena News
ANCORA IN ATTESA
DI UN GANDHI PALESTINESE?
LEI/LUI C’È GIÀ
di Zaha Hassan, trad. di Amedeo Rossi – Zeitun.info

«Ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks. Ogni prigioniero che fa lo sciopero della fame è un Mandela e ogni gazawi che sopravvive nonostante le condizioni disumane è un Gandhi palestinese».

La seconda domanda (dopo “Dov’è la Palestina?”) più frequentemente posta a un palestinese-americano è: “Dov’è il Gandhi palestinese?” Gli americani vogliono sapere perché i palestinesi non utilizzano tattiche non-violente per porre fine ai loro decenni di oppressione e di colonizzazione della loro terra.

Ovviamente in questa domanda è implicita la premessa, coltivata dalla rappresentazione mediatica dell’ “arabo infuriato” e del musulmano nichilista, così come da campagne lautamente finanziate di sensibilizzazione dell’opinione pubblica che coinvolgono gruppi di lobbysti ed i centri di studio ad essi associati che dipingono tutto il Medio oriente come un covo ribollente di odio contro l’Occidente cristiano, che i palestinesi siano geneticamente predisposti alla violenza.

La verità è che, se un premio Nobel fosse assegnato a un intero popolo per la moderazione che ha dimostrato e per l’ostinata caparbietà a sopravvivere, a perseverare e a costruire un domani migliore nonostante i sistematici tentativi di eliminarlo – persino tentativi di negare addirittura la sua esistenza, come fece Golda Meir [nel 1969 in un’intervista l’allora primo ministro di Israele affermò che i palestinesi non esistevano, ndt.] – esso dovrebbe andare al popolo palestinese.

Perché, dove esiste un precedente dell’imprigionamento di 2.2 milioni di persone che sono stati resi deliberatamente dipendenti per il cibo, l’acqua e l’energia durante un intero decennio, mentre la narrazione continua a dire che è tutto giustificato dalla “sicurezza” di Israele, come nel caso delle attuali sofferenze di Gaza?

Dove c’è un precedente di sette milioni di persone a cui viene negato il diritto di tornare alle proprie case e proprietà confiscate settant’anni fa, solo perché sono della religione sbagliata, mentre nuovi insediamenti illegali si espandono freneticamente nel pezzo di terra della Cisgiordania che dovrebbe essere parte del loro Stato ancora da creare?

Dove c’è un precedente di Stati e istituzioni incaricati di difendere le leggi e la legalità internazionali che chiedono a un popolo occupato sempre più concessioni e di negoziare per legittimare crimini di guerra e per normalizzare l’esistenza dell’occupante?

La verità è che ogni ragazzina della Cisgiordania che attraversa un checkpoint per andare a scuola è una Rosa Parks [la donna di colore che nel 1955 in Alabama si rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco e diede inizio alla lotta per i diritti civili dei neri negli USA, ndt.]. Ogni prigioniero che mette in pericolo la propria vita per settimane intere facendo lo sciopero della fame per lottare contro la propria incarcerazione e le condizioni di detenzione è un Mandela, e ogni persona che oggi vive a Gaza e che sopravvive nonostante le privazioni disumane, è un Gandhi palestinese.

Quante altre migliaia di tappetini da preghiera devono essere srotolati nelle strade di Gerusalemme prima che la resistenza non violenta palestinese sia non solamente riconosciuta ma anche appoggiata e incoraggiata? Quante altre proteste del venerdì devono aver luogo a Bi’lin e in altri villaggi in Cisgiordania? Quante tende della pace devono essere erette e demolite a Gerusalemme e nel Naqab [Negev in arabo, ndt.]?

La vera questione, tuttavia, non è quantificare le proteste, ma garantire che altri le conoscano.

Gandhi lo sapeva. Martin Luther King, Jr lo sapeva. E il governo israeliano, l’AIPAC [l’associazione ebraica filo-israeliana più potente negli USA, ndt.] e quanti sono interessati a mantenere il dominio di Israele sulla terra palestinese lo sanno. E questa è la ragione per cui vergognosi esempi di legislazione come la legge 720 del Senato contro il BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndt.] stanno circolando nelle aule del Congresso. La legge, stilata con la collaborazione dell’AIPAC, lo farebbe diventare un reato punibile fino ad un massimo di 20 anni di carcere e una multa fino a 1 milione di dollari per il fatto di sostenere l’uso di metodi economici non violenti contro Israele.

Potete immaginare Rosa Parks che sconta 20 anni di prigione per aver organizzato il boicottaggio degli autobus segregati? O Martin Luther King Jr. obbligato a pagare un milione di dollari per aver boicottato ristoranti razzisti con posti separati?

Dovrebbe essere chiaro a tutti noi che punire il diritto di espressione che ha lo scopo di porre fine a un’ingiustizia è sbagliato. Quando si vedono i fatti, gli americani lo capiscono. E lentamente ma inesorabilmente alcuni membri del Congresso che inizialmente erano stati co-promotori della legge con un tipico riflesso condizionato, una deferenza cieca verso l’AIPAC, stanno vedendo chiaro, come la senatrice Gillibrand, che, quando è stata messa in guardia dall’ACLU [American Civil Liberties Union, Unione Americana per le Libertà Civili, organizzazione non governativa che difende i diritti civili e le libertà individuali negli USA, ndt.] sulle preoccupazioni relative al diritto di parola e a problemi di incostituzionalità della legge e sfidata da elettori durante un’assemblea comunale, ha espresso la sua volontà di riconsiderare il suo appoggio [alla legge].

Così, mentre CNN e Fox News [due importanti reti televisive statunitensi, ndt.] possono non informare sulle centinaia di migliaia di palestinesi che hanno pregato nelle strade di Gerusalemme la scorsa settimana, protestando contro il tentativo mascherato di Israele di esercitare la propria sovranità sulla Spianata delle Moschee, questi accaniti tentativi legislativi da parte dei difensori di Israele per porre fine all’appoggio alla resistenza non violenta nei territori occupati o all’estero stanno accendendo riflettori da stadio di football sui problemi.

Attivisti del movimento progressista si rendono drammaticamente conto di come le loro libertà civili vengano minacciate in nome della protezione dell’occupazione di Israele sui palestinesi. Allo stesso modo, quando le linee aeree USA hanno messo in atto la legislazione israeliana che impedisce ai difensori dei diritti umani di viaggiare in Israele (compresi ebrei-americani, uno dei quali è un rabbino), gli americani hanno visto il rapporto tra questo fatto e gli abominevoli divieti di viaggio [si riferisce alla proibizione di ingresso negli USA dei passeggeri provenienti da alcuni Paesi musulmani, ndt.] perseguiti dall’amministrazione Trump.

I palestinesi ed i loro sostenitori dovrebbero sperare (e pregare nelle strade) che Israele continui a rivelare la natura della sua oppressione contro di loro, e al contempo continuare a perseguire metodi collaudati e non violenti per riportare la giustizia e lo stato di diritto, perché si giunga ad una vera comprensione delle cause e delle soluzioni del conflitto israelo-palestinese.

Non c’è un modo più efficace per mettere in luce un’ingiustizia e per modificare la percezione sbagliata ad essa associata che attraverso lo stesso oppressore. Rosa Parks, Dr. King e Gandhi lo sapevano e lo sanno anche i palestinesi e quelli che solidarizzano con loro.

Un ficcante articolo scritto per chi ritiene che «l’obiettivo fondamentale sia ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese» come ai bei tempi di Monti e Prodi.

La Repubblica, 24 luglio 2017
È DAVVERO una sinistra morente, quella che considera “mortale” l’abbraccio tra Giuliano Pisapia e Maria Elena Boschi. Come se quella foto scattata alla festa dell’Unità non fosse un semplice gesto di cortesia tra due personalità che pur sapendo di avere idee diverse su tante cose, sanno anche di appartenere a una stessa famiglia politica. Ma fosse invece la prova di un tradimento identitario da parte del leader destinato a guidare il Campo Progressista, che ha l’ardore e l’ardire di cingere la spalla della madrina della riforma costituzionale del governo Renzi. L’immagine di una contaminazione non solo culturale, ma addirittura antropologica, che la purezza della sinistra non può tollerare. Oggi nella lotta irriducibile contro il renzismo, come ieri nella battaglia irrinunciabile contro il berlusconismo.

Bisogna dirlo, con onestà. Renzi fa poco o nulla, per trovare un terreno comune con tutto quello che si muove a sinistra del Pd. Il manifesto macroniano del segretario appena uscito in libreria non ha certo alzato il livello del dibattito, ma semmai ha solo sparso nuovo sale sulle vecchie ferite, tra bordate contro Bersani e strali contro D’Alema, ironie contro Prodi e veleni contro Letta. La disfatta referendaria non ha prodotto nessun cambiamento di linea nel partito, che in un contesto neo-proporzionale si crogiola nel mito ostinato dell’autosufficienza. La conferenza programmatica a ottobre offerta a Orlando e un paio di poltrone in segreteria concesse a Emiliano sono solo un beffardo “brodino” propinato a una minoranza malaticcia e sempre più sofferente.
Ma la sinistra del Pd cosa sta facendo, per ricomporre questa frattura profonda e soprattutto giustificare la sua esistenza presente e futura? Poco o nulla, a sua volta. Gli scissionisti di Mdp, i reduci di Rifondazione, gli epigoni di Sinistra italiana, i civatiani, i montanariani e i falconiani: a guardare le schegge impazzite di questa infinita diaspora torna in mente la leggendaria parodia televisiva che Corrado Guzzanti fece di Bertinotti. Fausto il Rosso, che teorizzava le virtù della “sinistra pulviscolare”, capace di ridursi in polvere e così diventare inafferrabile per il nemico. La sinistra giocosa, innocente e irresponsabile, capace di cullarsi nell’eterna sindrome di Peter Pan, di trascorrere i decenni a suonare ai citofoni e poi di ricomparire dopo qualche era geologica per chiedere «mi ha cercato qualcuno?».
Pisapia, l’uomo che dovrebbe provare a federare le schegge, sarà anche un “leader riluttante”: troppo morbido, un po’ timido, quasi ambiguo. Ma sembra impresa sovrumana mettere ordine in questo caos entropico, in cui si sommano nobili ragioni ideali e indicibili ambizioni personali. Pare che nella galassia rossa si scontrino due o tre linee linee. C’è la linea di Bersani e Speranza, che criticano il Pd ma riconoscono i comuni avversari, Grillo e Berlusconi, e dunque cercano un terreno non conflittuale con la prospettiva che sia ancora possibile ricostruire una parvenza di centro-sinistra. C’è la linea di Pisapia, che teme la nascita di due liste, anche se ne vorrebbe tanto una sola, larga, estesa dai progressisti ai centristi, dai cattolici ai civici, da Zingaretti a Tabacci. Insomma, come cantava Jovanotti, “una grande chiesa / da Che Guevara a Madre Teresa”.
Poi c’è la linea di D’Alema, che è speculare a quella di Renzi: lista unica, “Izquierda unida”, da Articolo Uno a Nicola Fratoianni, magari guidata da Anna Falcone. Una lista radicalmente alternativa al Pd, che lo attacca a viso aperto in campagna elettorale, e dopo il voto si vede com’è finita. In questa lista ci sono quelli che si indignano per i “casti connubi” con Boschi. Quelli che considerano il Pd un partito di destra, da avversare come si avversava Forza Italia. Quelli che riconoscono la leadership di Pisapia solo se chiede scusa per aver votato sì al referendum. Quelli che pongono come conditio sine qua non di una ripresa del dialogo a sinistra l’eliminazione di Renzi dalla scena politica.
Nessuno sa immaginare quale linea prevarrà. Ma al di là di questa guerriglia tattica, e di fronte all’analoga impasse causata dal confuso e rissoso movimentismo di Renzi, è purtroppo evidente che sul piano della strategia questa “accozzaglia del forse” non ha ancora prodotto nulla di qualificante. Non una proposta organica, non una piattaforma programmatica, se si eccettuano le pur sacrosante ma al fondo generiche contestazioni alla buona scuola o al Jobs Act. E allora, tra il Pd che respinge con sdegno il Vinavil messo a disposizione da Prodi e i suoi carnefici che gli oppongono l’antica “diversità” da preservare, la sola colla che tiene insieme le polveri del Campo progressista rischia davvero di essere l’anti-renzismo.
Troppo, perché anche il segretario è palesemente a corto di idee e di orizzonti. Troppo poco, perché così si smarrisce l’obiettivo fondamentale che invece dovrebbe ricompattare il centrosinistra: discutere sui contenuti, ma per tornare uniti al governo del Paese. A prescindere dalle inutili nostalgie, questa è stata la virtù dell’Ulivo del ‘96 e persino dell’Unione del 2006. E questa è oggi la virtù che il Pd e i dieci piccoli indiani che si agitano alla sua sinistra stanno smarrendo. Per ragioni uguali e contrarie, e ripescando una formula coniata da Arturo Parisi dopo la caduta del primo governo Prodi, tutti gridano «meglio perdere che perdersi». Non hanno capito che stavolta, andando avanti così, riusciranno a fare tutte e due le cose.
«Le celebrazioni Rai dei 20 anni e quella per i 25 anni della strage di via D’Amelio raccontano storie diverse. Nell’ultima versione si sfuma il ruolo della trattativa tra Stato e Cosa Nostra, depistaggi ed errori non hanno responsabili chiari».

il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017 (p.d.)

Più ci si allontana nel tempo da un evento, più cresce la responsabilità di chi lo racconta a generazioni che non ne hanno diretta memoria. Per i 25 anni dalla strage di via d'Amelio la Rai ha creato e proposto in prima serata sulla rete ammiraglia una docufiction dal titolo Adesso tocca a me (regia di Francesco Miccichè), che combina filmati d’archivio, interviste ai protagonisti superstiti, e ricostruzioni cinematografiche di 57 giorni intercorsi fra la strage di Capaci e quella del 19 luglio 1992. Si tratta di un'iniziativa in sé degna di ogni lode; appare tuttavia istruttivo il confronto tra questa nuova produzione e l'analoga fiction Rai di cinque anni fa (I 57 giorni, regia di Alberto Negrin), che vedeva come protagonista Luca Zingaretti.
Non importa rilevare qui che la mancanza di un filo narrativo unitario rende la docufiction di oggi più desultoria e farraginosa, tanto più in quanto la commovente testimonianza dell’agente superstite Antonio Vullo, che parla in prima persona, si sovrappone a“tagli” e punti di vista diversi, nonché ai commenti fuori campo e alle interviste a posteriori dei fratelli e dei colleghi del giudice, tra cui l’attuale presidente del Senato Piero Grasso. Quel che importa è che le differenze tra le due produzioni tv sono una spia della poco confortante virata culturale intervenuta dal 2012 a oggi. In Adesso tocca a me la parola “trattativa” compare una volta sola, in bocca al procuratore Sergio Lari, senza che sia nemmeno ben chiaro a cosa si riferisca; ne I 57 giorni, invece, si tratta di una realtà evocata a più riprese, che è al centro delle preoccupazioni di Borsellino nelle ultime settimane di vita, in quanto sembra proprio l'opposizione del giudice ai contatti (non episodici) tra la mafia e pezzi dello Stato a risultargli fatale. Non a caso, nel 2012 a fianco di Borsellino si vede per lo più il giovane sostituto procuratore Antonio Ingroia (futuro artefice proprio del processo sulla trattativa insieme a Nino di Matteo e ad altri), mentre nel 2017 in quel ruolo incontriamo l’eroico poliziotto Rino Germanà (egli stesso oggetto di un attentato nel ‘92), che discute col giudice della strategia degli appalti di Cosa Nostra.
Nel 2012 i contrasti di Borsellino con il procuratore di Palermo Giammanco vengono drammatizzati in una serie di scontri violenti che rendono plasticamente gli ostacoli incontrati dal magistrato nel suo ambiente di lavoro; nel 2017 questi alterchi sono ridotti a un unico episodio, e si insiste sul peraltro indubbio favore popolare di cui il giudice godeva dopo la morte di Giovanni Falcone; la complessa partita della neonata Direzione Nazionale Antimafia, alla cui direzione, dopo Capaci, molti volevano fosse nominato proprio Borsellino, è liquidata in una sola battuta. Nel 2017 l’interrogatorio-clou condotto da Borsellino a Roma è quello del pentito Leonardo Messina, e verte sulla dinamica degli appalti mafiosi, mentre ai colloqui col pentito Gaspare Mutolo è riservato un breve per quanto intenso cameo. Nel 2012, invece, è proprio l’interrogatorio di Mutolo del 1 luglio 1992 a svelare a Borsellino dei retroscena insospettati sui legami tra mafia, politica e servizi segreti, e tramite un semplice espediente (la “mano offesa”) si fa capire che Mutolo indica a Borsellino come agente infedele dei servizi il medesimo personaggio che in quello stesso giorno egli incontra poi al ministero degli Interni è la scena madre in cui Borsellino intuisce che un pezzo dello Stato lo controlla e lavora contro di lui. Interessante caso di simmetria: nel 2012 si identificava l'agente, ma non se ne diceva il nome; nel 2017 si menziona bensì il nome dell’agente, ma non si precisa che è lo stesso che il pentito accusa così pesantemente: per le future generazioni bisognerà mettere insieme i pezzi e spiegare che si tratta di Bruno Contrada, poi condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa (la recente revoca della condanna in Cassazione non interviene sul merito degli addebiti ma sulla codificazione giuridica del reato all'epoca dei fatti).
Infine, nel 2012 tutto si chiudeva con il furto misterioso dell’agenda rossa e i drammatici funerali; nel 2017 si ha il coraggio di parlare dell’infame depistaggio che per anni ha addossato la strage all'improbabile pentito Vincenzo Scarantino, finalmente assolto con tutti i co-imputati. Ma non viene chiarito il ruolo di chi a Scarantino per primo credette (o lo creò?), come il collerico questore Arnaldo La Barbera, o il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra: quest'ultimo anzi nella fiction di oggi non compare affatto, mentre in quella del 2012 in pieno Palazzo di Giustizia veniva mandato a quel paese da Borsellino, il quale pochi giorni prima di morire reclamava invano di essere ascoltato come testimone nell’indagine su Capaci, condotta proprio da Tinebra. Né poi in Adesso tocca a me il loquace presidente del Senato Grasso, che dispensa perle di saggezza, giunge a spiegare come mai nulla accadde dopo il suo interrogatorio segreto al pentito Gaspare Spatuzza del lontano giugno 1998, nel quale - come ha mostrato Enrico Deaglio sulla base di un controverso verbale - Scarantino veniva già totalmente scagionato.
Una trattativa inesistente, un Contrada al più ambiguo, un depistaggio messo in atto da ignoti. Viene da chiedersi se la fiction del trentennale, nel 2022, partirà da queste premesse, o da altre.
«e». il manifesto

Mercoledì 25 luglio, il Senato ha intenzione di ratificare Il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), trattato di libero commercio fra Unione Europea e Canada. Una scorciatoia estiva volta a silenziare la discussione e le proteste. Che tuttavia si sono alzate anche questa volta con forza, partendo dal basso per arrivare a coinvolgere centinaia di enti locali e diverse regioni (Lazio, Lombardia, Liguria, Veneto, Puglia, Calabria, Marche e Valle d’Aosta).

Il Ceta, come tutti i trattati di libero scambio, viene propagandato come decisivo per la nostra economia e portatore di tutti i benefici derivanti dalla liberalizzazione. In realtà, esattamente come tutti i trattati di libero scambio, l’obiettivo è quello di accelerare nel passaggio dallo stato di diritto allo stato di mercato, mercificando i beni comuni e relegando diritti e democrazia a variabili dipendenti dai profitti e dagli interessi delle grandi multinazionali e delle lobby finanziare.

Messo in stand-by il TTIP, grazie alle proteste dei movimenti sociali dilagate tra le due sponde dell’Oceano Atlantico e al conseguente esplodere delle contraddizioni interne tra gli interessi dei suoi sostenitori, l’attenzione è stata dirottata sul Ceta, che, fra l’altro, rappresenta un possibile “cavallo di Troia” per by-passare lo stallo del Ttip.

Una volta ratificato l’accordo, infatti, ad una qualsiasi multinazionale statunitense, basterebbe aprire una sede legale in Canada per poterne usufruire a tutti gli effetti, a partire dall’arbitrato internazionale d’affari che permette alle imprese di fare causa ai governi se le leggi da questi approvate comportino limiti ai profitti preventivati.

Come per ogni trattato, la litania dei suoi sostenitori è tanto ripetitiva quanto falsa. A partire da quel “ce lo chiede l’Europa”, smentito categoricamente dalla Corte di Giustizia Europea che, in una recente sentenza riguardante un analogo accordo tra Ue e Singapore, ha affermato come gli accordi di libero scambio, investendo materie di competenza degli Stati, possono essere approvato solo sotto la responsabilità degli stessi.

Naturalmente, vengono sbandierati dati inverosimili sui benefici per le nostre esportazioni, sottacendo come il nostro tessuto economico sia costituito da piccole, medie e micro imprese e che solo lo 0,3% del totale delle imprese italiane ne trarrebbe beneficio, mentre la liberalizzazione e l’apertura del mercato interno aprirebbe le porte all’agrobusiness d’oltre Oceano, minacciando la produzione di qualità dei nostri territori.

Si sprecano infine le rassicurazioni sugli ogm, sul principio di precauzione, sulla tutela dei servizi pubblici, quando basta leggere il testo del trattato per comprendere la fondatezza di tutte le preoccupazioni messe in campo nelle mobilitazioni di questi mesi.

D’altronde, se il Ceta (come tutti i trattati gemelli) fosse foriero di tutti i benefici raccontati, perché non aprire una discussione ampia, pubblica, reticolare e partecipativa dentro la società, invece di provare a ratificarlo di soppiatto in una riunione parlamentare pre-vacanziera?

Per questo la Campagna Stop Ttip/Stop Ceta invita tutte e tutti a proseguire la mobilitazione e a fare ancora una volta pressione su tutti i senatori (https://stop-ttip-italia.net/) perché questo ennesimo scempio di democrazia non venga perpetrato.

Forse se chi ogni giorno discute su come ricostruire una sinistra o un’alternativa per questo Paese parlasse di Ceta, Ttip e Tisa, invece che misurare col righello il perimetro politicista dentro il quale mandare segnali, l’inversione di rotta sulle politiche liberiste smetterebbe di sembrare un miraggio.

La politica in mano agli psicoanalisti : a Napoli si direbbe "'a pazziella 'n mano 'e criature" se fossero tutti come Recalcati.

il manifesto, 19 luglio 2017, con postilla

Lo psicoanalista Massimo Recalcati (la Repubblica, 17 luglio), si occupa delle ragioni che fanno covare un “odio” smisurato per il segretario Pd e dei perché della mancata elaborazione del “lutto” che porta la sinistra ad essere rancorosa.

Si direbbe una difesa di parte, troppo appassionata per essere oggettiva e poco credibile per le categorie analitiche utilizzate. Si sa che Matteo Renzi, come segretario del Pd, e Recalcati, come ideatore della Scuola quadri del partito, si sono scelti per vincere. Il segretario, sempre più solo al comando, aspira ad essere eletto Capo del governo nazionale. Lo psicoanalista, sempre più criticato dai suoi stessi colleghi, mira a divenire il Grande guru della psico-politica italiana. Messa così c’è poco da sperare per le sorti del Paese. Renzi e Recalcati come due maschere della scena politica e psicoanalitica italiana.

Vedono bruciare l’Italia e incuranti si lodano fino all’incanto. Forse, non percepiscono che con il loro fare e dire stanno accelerando la precipitazione nel baratro. Quello aperto dal rifiuto degli italiani della politica renziana e dall’assenteismo elettorale dei cittadini.

Questi fattori critici sono in continua crescita e già in maggioranza nel Paese. Si potrebbe dire che lo stato comatoso di Renzi non trova nei rimedi del suo psicoanalista una possibilità di rianimazione, con molte probabilità ci penserà Berlusconi.

Il povero Pd si trova sbattuto da ogni lato, ormai esangue si vede incitato dal suo segretario ad andare Avanti, titolo del libro di Renzi. Un documento pieno dei segni e sintomi dell’autore, pagine intrise dei propri fantasmi senza mai trovare una parola significante per la sinistra e i democratici che non vogliono rassegnarsi a consegnare il Paese alla destra.

Come, d’altra parte, lo stesso Recalcati non trova una categoria freudiana o lacaniana credibile che lo possa aiutare ad analizzare la tragicommedia del renzismo e più in generale del Pd e del radicalismo scissionista. Parla di odio e di lutto per descrivere lo stato d’irresponsabilità e di lacerazione in cui si sono ricacciati dirigenti storici e nuovi della sinistra. Parla del Male e del Bene come concetti per risolvere il conflitto del Novecento che attanaglia ancora il socialismo italiano.

Recalcati, sempre convinto che le teorie della psicoanalisi europea siano universali, non avverte la necessità di adottare un diverso paradigma proprio del campo che si vuole esplorare, in questo caso delle scienze della politica.

L’odio che sta investendo il segretario del Pd non risponde a logiche arcaiche o pulsionali dei suoi gufi. E’ semplicemente il risultato di una personalizzazione dello scontro politico voluta da Renzi prima con la scanzonata rottamazione e poi con la pretesa di fedeltà. Queste sì che sono categorie pre-politiche.

I nodi reali e insoluti nella sinistra non sono quelli dell’odio viscerale e del lutto mancato. Sono, invece, quei nodi fatti di fili storici che continuano a intricarsi nella contrapposizione irrisolta tra egemonia e pluralismo, tra centralismo e democrazia, tra governo e opposizione. Forse, su queste categorie proprie della politica si riesce a capire perché i movimenti del comunismo, del socialismo e del riformismo nella loro evoluzione non sono mai riusciti a darsi una identità unitaria e una pratica di unione.

Questa miopia di visione è quella che per esempio non ha permesso di fondere i Ds e la Margherita, la famosa fusione a freddo. In realtà Renzi e D’Alema, come i loro simili, sono vittime del culto personale e del potere egemonico. Idea sconfitta definitivamente dalla caduta del muro di Berlino e mai sostituita con quella più rivoluzionaria “uniti per unire”.

Un’altra parola vincente emersa dalla tragedia del Novecento è “democrazia” intesa come senso del limite, delle differenze, dell’inclusione, del pluralismo, della responsabilità. Solo con questi “nuovi” connotati la sinistra può raggiungere l’unità e costruire una democrazia governante, capace di realizzare il bene comune (la sinistra cattolica) e l’interesse collettivo (la sinistra riformista).

C’è ancora molta strada per una sintesi vincente, sicuramente non servono inesistenti scorciatoie, inappropriate letture e illusori rimedi.

A noi, che siamo ingenui, per essere contrari a Matteo Renzi è bastato comprendere, fin da quando organizzò le Leopolde che era, meglio di Berlusconi, l'uomo del neoliberismo e della Trilateral per l'Italia, e poi renderci via via che il suo sistema di potere era basato sul ricatto, la corruzione, l'impadronimento di fondi pubblici, la feudalizzazione delle istituzioni (e.s.).

il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)

In occasione del 25° anniversario della strage di via D’Amelio pubblichiamo l’ultimo discorso pubblico che Borsellino tenne il 25 giugno 1992 durante un dibattito organizzato dalla rivista Micromega nell’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo.
Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi ci accorgiamo come lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell'antimafia.
Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a Palermo. Ma (poi) si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli. Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni (...) cominciò a lavorare con Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Csm, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io (...) mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. (...)
Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Csm immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, il pool antimafia non deve morire in silenzio. (...) Giovanni Falcone, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne (…) di non poter più continuare ad operare al meglio. Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti e di Claudio Martelli, ma perché ritenne di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. (…) Una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa (...).
E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, per ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Csm, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.
Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Falcone in questa sua brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

«La continua sollecitazione all’amore verso il capo non regge senza prove d’amore».

la Repubblica, 18 luglio 2017 (c.m.c)

Non so se giovi mettere la politica sul lettino dell’analista, specie se l’analista non è estraneo al gioco politico. In ogni caso, se si cerca la ragione della diffusa insofferenza verso Matteo Renzi, la risposta è: Matteo Renzi.

Lungo tutta la sua carriera politica, Renzi non ha lavorato a costruire una comunità, ma a drammatizzare il rapporto tra un capo e la folla. Non con la parola razionale, l’argomentazione, ma con la seduzione dello storytelling, cioè di un marketing capace di vendere al pubblico una scatola il cui unico contenuto era Renzi stesso. «Un rullo compressore lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo», secondo un’efficace definizione di Stefano Rodotà.

Una ultrapersonalizzazione che sostituiva alle istituzioni e ai corpi intermedi la consorteria fiduciaria del capo, il famoso giglio magico. Un ritorno all’antico regime, al tanto vagheggiato Rinascimento: non al dittatore, e nemmeno all’amministratore delegato berlusconiano, ma al principe e alla corte.
Qualcuno ricorderà la massima impresa mediatica del Renzi sindaco: la risibile ricerca della inesistente Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. La narrazione opponeva un giovane sindaco che parlava di «sogni», ai «professoroni della storia dell’arte», con la loro incapacità di «essere stupiti dal mistero».

E quando Roberto Saviano puntò il dito contro il conflitto di interessi del ministro Boschi nell’affaire Banca Etruria, Renzi rispose teatralizzando l’amore e l’odio: «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche ». Era lo stesso schema poi adottato per il referendum, contro i costituzionalisti del No: il rapporto diretto con la gente e la demonizzazione dei portatori di senso critico. Ma la continua sollecitazione all’amore verso il capo non può reggere a lungo senza concrete prove d’amore.

Se il rullo compressore non funziona, la fascinazione si trasforma presto in diffidenza, poi in ostilità. Renzi è passato molto velocemente dalla Provincia, al Comune a Palazzo Chigi. E quando lì è stato evidente che le promesse mancate, le insufficienze di governo, la mancanza di visione, l’incapacità di creare una squadra e di tenere in piedi una comunità minavano la credibilità dello storytelling, il rimedio è stato la scommessa del referendum.

Lo schema più amato da Renzi: lui solo contro tutti, appellandosi alla folla. È finita come sappiamo: tutta la personalizzazione renziana ha cambiato segno in poche ore, dall’amore al suo contrario. L’apprendista stregone è stato travolto dalla forza evocata. E il mancato ritiro dalla politica, solennemente promesso, ha infine trasformato un dramma nell’eterna commedia italiana.

Ora l’errore più grave sarebbe seguire lo stesso schema. E cioè pensare che, finito Renzi, la Sinistra italiana possa ricominciare dal 2014. Quando è evidente che il futuro non può essere il ritorno alla classe dirigente che, con la sua catena di errori e debolezze, ha aperto la strada all’avventurismo personale renziano. Per questo la mia richiesta a Giuliano Pisapia di discutere senza remore la sua scelta di votare sì al referendum non mira (come suggerisce Recalcati) a una nuova personalizzazione, stavolta in negativo: ma, anzi, vuole aprire una seria riflessione di merito.
Quella riforma puntava sulla centralità dell’esecutivo a spese della rappresentanza, sulla figura del capo, su un restringimento degli spazi della critica: è ancora questa la direzione? È questa la via più adatta per combattere la diseguaglianza che sfigura il paese? Lasciamo i capi al loro destino, riprendiamo ad occuparci della comunità.

il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2017 (p.d.)

Nel Veneto bianco il territorio è sacro. Non quello vero, violentato in ogni modo dai capannoni, dalle concerie e dal progresso scorsoio di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto: è sacra la retorica del territorio. Le “realtà produttive del territorio”, garantite e supportate in primo luogo dagli istituti di credito locali, piccoli, belli e sicuri. Volano della “nostra” economia. È ormai acclarato che alcune di queste banche ammannivano al territorio (e ai loro strapagati CdA) denari e utili che non avevano; e da molti mesi ormai, accanto a chi ha perso tanto o tutto, si vedono legioni di piccoli risparmiatori non sinistrati che corrono ad aprire negli istituti superstiti - fiducia o non fiducia - conti correnti di piccolo taglio, sotto i 100mila euro, quelli che dovrebbero essere al riparo da ogni sorpresa. Ma il fallimento del modello veneto non è stato solo bancario (propiziato, quello, dai mancati o tardivi controllidi Consob e Bankitalia): è stato in primo luogo un fallimento politico e culturale di chi avrebbe dovuto accorgersi, o almeno obiettare, e non l’ha fatto.

Montebelluna è un borgo piccolo, a lungo governato da un politico di rilievo nazionale, Laura Puppato: nel 2008, come sindaco, la “pasionaria” antirenziana - persona di sicura integrità, sia ben chiaro - conferì la cittadinanza onoraria al "coraggioso ed esperto timoniere" Vincenzo Consoli, per 16 anni grande capo e stratega di Veneto Banca, dunque vero artefice del castello di carta sfaldatosi pochi anni dopo sotto i colpi delle ispezioni della Banca d’Italia e poi del decreto Renzi che obbligava alla trasformazione delle banche popolari in SpA. L’inchiesta romana che ha portato in cella lo stesso Consoli nell’agosto 2016 ipotizza vari reati, ma è un fatto indiscutibile che l’istituto è finito al disastro, ed è un fatto che a livello politico né il Pd né la Lega (ancora nel 2014, il governatore Luca Zaia difese platealmente Consoli e il vecchio management dal primo intervento di Bankitalia) hanno mai seriamente combattuto o messo in dubbio un sistema, un’idea di sviluppo bancario "territoriale" che ha portato alla catastrofe odierna. E gli intellettuali delle università hanno - nella migliore delle ipotesi - guardato altrove: Francesco Favotto, ordinario a Padova, sedeva direttamente nel CdA (e ha avuto per questo le sue grane); Loris Tosi, ordinario a Venezia, è uno dei Grandi soci della banca; nel 2011 Vincenzo Consoli fu l’ospite d’onore nella cerimonia di consegna dei diplomi ai neolaureati di Ca’Foscari, la cui Fondazione ha il suo conto proprio presso Veneto Banca, che nel 2015 finanziava con 1.250 euro una lezione veneziana di Vittorino Andreoli, dopo avere sponsorizzato nel 2013 un ominoso concorso “Ambizioni per un mondo migliore”. Il Veneto è piccolo, la rete è tutta una. Sarebbe facile seguire, tramite una fitta serie di holding e di partecipate, i fili che menano da Veneto Banca ad alcuni maggiorenti veneziani, anzitutto quelli implicati nello scandalo del Mose (nella banca avevano grandi interessi l’ex governatore Giancarlo Galan e il manager Roberto Meneguzzo, creatore della Palladio Finanziaria), ma anche i più modesti proprietari di una società come EstCapital, che propiziò tra l'altro la devastazione di una parte del Lido in nome del nuovo Palacinema.

Ma torniamo in terraferma, 50 chilometri più in là: a Vicenza, gli ultimi vent’anni della Banca Popolare hanno un nome solo, quello del presidente Gianni Zonin: riverito dalla politica e dalla città, senza eccezioni (nemmeno il Pd di Alessandra Moretti, già vicesindaco), trattato coi guanti bianchi financo dopo la caduta (a lui, benché accusato dei medesimi reati di Consoli aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza - è stato fin qui risparmiato ogni provvedimento cautelare), l’ex presidente avrebbe goduto, secondo il suo predecessore Giancarlo Ferretto, di appoggi importanti dal Quirinale al Vaticano. Per le università, anche qui, briciole: oltre a un’altra passerella per educare i neolaureati veneziani nel 2012 (stavolta del vicedirettore Emanuele Giustini, oggi indagato), spiccano il Master honoris causa in banche e finanza ammannito a Zonin nel 2005 dalla "Fondazione consorzio universitario di organizzazione aziendale" (con dentro tutti gli atenei del Nordest: ne parla Sergio Rizzo ne La repubblica dei brocchi), e un convegno organizzato da BpVI a Verona nel 2009 su “Evoluzione dei controlli di vigilanza e implicazioni gestionali per le banche”. Colpisce che rimanga beatamente impunito il responsabile primo (al di là dei risvolti penali) di una strategia imprenditoriale che, secondo ogni evidenza, ha puntato a gonfiare l’ego e le azioni dei vicentini tramite un vasto sistema clientelare, anziché ad avviare una più lungimirante fusione virtuosa con altre banche sane del territorio. Chi voglia seguire i dettagli dei molti procedimenti in cui Zonin è stato coinvolto e singolarmente prosciolto negli anni (sul Fatto si è parlato del tristo destino dell'inflessibile giudice Cecilia Carreri), o più in generale farsi un’idea delle reti di potere sviluppate negli anni dalle due banche venete, può leggere gli articoli impeccabili sul sito Lettera43.it.

Nel marzo scorso, l’azione di responsabilità finalmente intentata contro Zonin e la precedente gestione della Popolare di Vicenza ha molto irritato uno degli ex-componenti del CdA di tale banca (dal 2007 al 2012), Paolo Bedoni. Al netto del suo passato (è stato anche presidente nazionale di Coldiretti dal ‘97 al 2006), Bedoni è un uomo molto importante, dal 2006 presiede la veronese Cattolica Assicurazioni, uno dei più grandi gruppi italiani (lo Ior è tra i maggiori azionisti), che tra l’altro assicura buona parte delle parrocchie italiane. Assai restio a trasformare la Cattolica in una SpA (ma pronto a investire decine di milioni in un controverso progetto universitario con l’incubatore H-Farm e l’università Ca’Foscari), secondo alcuni Bedoni potrebbe risentire della recente caduta dell’ex sindaco Flavio Tosi, il quale nel 2011, all’apice del suo potere, aveva "scalato" il gruppo coi suoi uomini. La questione però non è tanto né solo veronese, ma nazionale, e tocca i più delicati equilibri della finanza cattolica, che ha in Veneto uno dei suoi fulcri. Il 16 giugno, nel silenzio della stampa nazionale, sono finiti in cella per ordine della procura di Venezia (tanto per cambiare, un filone del Mose) il direttore amministrativo di Cattolica Giuseppe Milone e l’ex dirigente Albino Zatachetto,insieme ad altre14 persone: tutti accusati di un episodio (che secondo gli inquirenti sarebbe solo "la punta di un iceberg") di corruzione alla Guardia di Finanza, volta ad ottenere, in cambio di rolex, assunzioni e favori, uno "sconto" di 6 milioni di euro su una multa fiscale, e - così si legge nelle intercettazioni pubblicate sul sito del Fatto - a “tener fuori il presidente dal penale”. Sebbene Bedoni non sia indagato, e sebbene il CdA di Cattolica abbia immediatamente sospeso gli amministratori coinvolti, c’è da chiedersi cosa possa pensare papa Francesco, che tanto tuona contro la corruzione, di sospetti così pesanti che gravano su un gruppo assicurativo centrale per le finanze della Chiesa.
Non si tutta solo di "una falla", ma di un regime che ha distrutto la Repubblica, da cima a fondo. E gli incendiari comandano ancora. Gi abitanti della penisola accetteranno ancora per molto?.

il manifesto, 15 luglio 2017

Le telecamere della Rai, ieri, hanno mostrato le immagini dell’aeroporto di Ciampino, dove è ospitata la flotta antincendio dello stato. La maggior parte degli elicotteri resta a terra: sono 16 ma solo 3 vengono utilizzati. La colpa, secondo il servizio, è la mancanza dei decreti attuativi per rendere operativo il personale che è passato dal Corpo forestale ai Vigili del fuoco. La riforma Madia ha infatti soppresso la forestale, dividendo il personale tra caschi rossi e Arma. Altri 16 velivoli sono andati ai Carabinieri che però non avrebbero ancora stanziato fondi sufficienti per la manutenzione di tutti gli elicotteri.

La polemica su una delle riforme simbolo dei mille giorni del governo Renzi è proseguita anche ieri. «Che lo squilibrio nella ripartizione numerica degli uomini del soppresso Corpo forestale avrebbe depotenziato la lotta agli incendi lo avevamo denunciato inascoltati da mesi – ha spiegato Antonio Brizzi, del sindacato Conapo dei Vigili del fuoco -. Sin da quando, a fine 2016, si era saputo che solo 360 ex forestali sarebbero stati assegnati ai pompieri, per svolgere mansioni che sino al 2016 svolgevano, seppur in modo non esclusivo, in quasi 8mila forestali e nonostante eravamo già carenti di 3.500 caschi rossi».

Sotto accusa anche la gestione dei mezzi: «Ai Carabinieri sono stati assegnati 8 elicotteri Breda idonei all’uso civile antincendio – spiega Brizzi -. Ci risulta che quest’anno non hanno versato nemmeno una goccia d’acqua sino a giovedì, quando li hanno visti in volo per la prima volta. A conferma che questa assurda riforma è squilibrata, avendo assegnato ai Carabinieri elicotteri che servirebbero ai Vigili del Fuoco».

Ieri l’Usb ha diffuso un documento, firmato il 7 luglio dal generale dell’Arma Antonio Ricciardi, comandante dell’Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare, nel quale si dice che gli ex forestali non hanno il compito di sedare gli incendi boschivi. Il documento, precisa l’Usb, impartisce ordini precisi: in caso di incendio chiamare i Vigili del Fuoco. L’intervento diretto è consentito solo in caso di «piccoli fuochi». Dei 32 elicotteri di cui il Corpo Forestale disponeva, prosegue l’Usb, 16 sono passati ai carabinieri e sono stati trasformati in velivoli militari con un cambio di matricola.

Mancanza di uomini, risorse e programmazione è quanto denuncia il coordinatore regionale Cgil dei pompieri toscani, Massimo Marconcini: «La situazione è disperata, gli elicotteri sono tutti fermi per problemi vari, le autopompe serbatoio e le auto hanno in media 15-20 anni. Le recenti scelte legislative hanno prodotto da un lato l’abbandono del corpo dei vigili, lasciato senza mezzi e con risorse inadeguate, dall’altro hanno creato confusioni normative e comportamentali con la soppressione del Corpo forestale».

Ai problemi legati alle decisioni del governo si sommano i ritardi a livello regionale: le due realtà più bersagliate dagli incendi, Sicilia e Campania, si sono fatte trovare impreparate. La Sicilia, che aveva 23mila lavoratori forestali, al momento non ha ancora stipulato la convenzione con il corpo dei Vigili del Fuoco per la prevenzione degli incendi. Il governatore Rosario Crocetta nega di esserne responsabile: «Abbiamo sempre avuto una convenzione con il Corpo forestale, dopo che l’hanno smantellato i mezzi dovevano essere trasferiti ai pompieri. Ho chiesto di rinnovare la convenzione e aspettiamo una risposta».

In Campania la firma in calce alla convenzione è stata messa dal governatore ieri e dovrebbe partire oggi. Il capogruppo di Fi in regione ipotizza un’illegittimità nella procedura.
A proposito di “radici cristiane”Ecco come la lettura del libello di Matteo Renzi può aiutare a rendere i chiacchiericci estivi un po più interessanti e chiarificatori che discutere delle differenze tra D’Alema e Pisapia.

Huffington Post online, 16 luglio 2017

Davvero non verrebbe voglia di parlare del libro di Renzi: anche perché viene da piangere pensando che un editore con la storia di Feltrinelli si sia prestato a questa grottesca operazione di marketing politico. Ma discutere di alcuni dei nodi toccati nelle innumerevoli anticipazioni del libro è almeno un modo per dirci con chiarezza cosa vuol dire oggi essere di sinistra. Parlando delle cose, e dei problemi: e non seguendo e alimentando, invece, il terrificante borsino quotidiano delle distanze di Pisapia da D'Alema, roba capace di far crollare ai minimi storici l'affluenza alle prossime elezioni.

Nella pagina ritagliata per il quotidiano dei vescovi, Avvenire, Renzi scrive che: «Avere rifiutato di menzionare le radici cristiane dell'Europa appare dunque un tragico errore che, in nome di un astratto principio di rispetto multiculturale, ha impedito una definizione più precisa della nostra identità. Quasi che avessimo paura a definirci per quello che siamo dal punto di vista oggettivo della cultura continentale, non certo dal punto di vista soggettivo del culto individuale».

Ecco, questa è una posizione inequivocabilmente di destra. Perché pensa di usare una costituzione europea per definire una identità escludente: ritenendo che l'Europa sia “casa nostra”, ben distante dalle case in cui dovremmo aiutare (cito sempre Renzi) i migranti musulmani. Devo dichiarare che sono cristiano, e cattolico praticante. Ma sono anche uno strenuo sostenitore della più rigorosa laicità dello Stato. Perché sono profondamente convinto – cito Oscar Luigi Scalfaro, il più cattolico e anche il più laico dei nostri presidenti – che «lo Stato deve essere la casa di tutti». Lo Stato italiano: e a maggior ragione l'Europa.

Matteo Renzi, che pure si è laureato con una tesi su Giorgio La Pira, forse non ricorda il dibattito alla Costituente del 22 dicembre 1947. Con la Carta sul filo del traguardo (verrà approvata quello stesso giorno), il cattolicissimo deputato fiorentino propose di inserire un preambolo che contenesse il nome di Dio. A questo punto intervennero, mirabilmente, Palmiro Togliatti, Concetto Marchesi e Piero Calamandrei: tutti garbatamente, ma fermamente, contrari. Marchesi – comunista, partigiano e grande umanista – disse che «questo mistero, questo supremo mistero dell'universo non può essere risoluto in un articolo della Costituzione, in un articolo di Costituzione che riguarda tutti i cittadini, quelli che credono, quelli che non credono, quelli che crederanno».

La Pira, alla fine, ritirò saggiamente la sua proposta, per non spaccare la Costituente sul nome di Dio. Ma il punto qui più rilevante è quello in cui La Pira chiarisce il senso della sua proposta: che voleva essere un alto riferimento ad una dimensione spirituale, non una dichiarazione confessionale. Il Dio che La Pira voleva in Costituzione, insomma, non era il Dio cristiano: «L'importante è di non fare una specifica affermazione di fede, come è nella Costituzione irlandese:"In nome della Santissima Trinità"», disse.

Oggi, settant'anni dopo, Renzi vorrebbe invece per l'Europa proprio quella dichiarazione di una matrice confessionale che La Pira non voleva allora. Ed è fin troppo evidente che Renzi non è più cattolico di La Pira: ma oggi questioni altissime come questa vengono cucinate sul fuoco della più brutale ricerca del consenso. Perché è chiaro che un'affermazione identitaria come quella che vorrebbe Renzi va letta nel quadro della retorica securitaria: nella retorica che definisce una “casa nostra” in opposizione alla “casa loro”. L'idea tristissima di un'Europa così incapace di futuro, e riversa su stessa, da trasformare la propria storia in un muro.

Allora, no: il “tragico errore” di cui parla Renzi non è certo quello di aver saggiamente rinunciato alla menzione delle “radici cristiane”. Da fiorentino e, appunto, da cristiano vorrei ricordare al mio ex sindaco un suo personale “tragico errore”: quello di essersi opposto in tutti i modi alla costruzione di una moschea a Firenze.

«Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento» diceva Renzi nel marzo 2011. Nacque allora un ampio dibattito, e quando gli scrissi una mail con la proposta di cercare quello spazio in una chiesa sconsacrata (è successo per esempio a Palermo), Renzi mi rispose: «È una bella sfida, Tomaso. Davvero una bella sfida...». Naturalmente una sfida mai raccolta: Firenze non ha una moschea.

E ancora recentissimamente Renzi ha rimbrottato il suo successore Dario Nardella, che finalmente dà qualche timido segnale di indipendenza e che aveva individuato un luogo dove fare la moschea, rimproverandogli di mettere a rischio un confinante affare immobiliare (dell'imprenditore che aveva comprato l'Unità).

Ecco: inscrivere nella costituzione europea le “radici cristiane” è un'idea di destra, che va d'accordo con la linea politica (di destra) di un'amministrazione che fa di tutto per non permettere la costruzione di una moschea.

È difficile esagerare la portata di una questione come questa. In un recente, magnifico libro (Ma quale paradiso? Tra i Jihadisti delle Maldive, Einaudi 2017) Francesca Borri racconta che quando un maldiviano apprende che lei è italiana, reagisce così: «Ho visto quelle foto di ... come si chiama, con tutti i musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati!». E l'autrice commenta: «Si chiama Nicolò De Giorgis, il fotografo. L'Italia ha 1,3 milioni di musulmani. E 8 moschee. I musulmani pregano in palestre dismesse, campi incolti. In periferie di cemento e ciminiere, tra vecchi copertoni. Al riparo di teli di plastica». Questa la percezione dell'Italia, alle Maldive: il paese del lusso per gli occidentali, e anche il paese con il più alto numero pro capite di foreign fighters, cioè di musulmani che vanno a combattere in Siria, con l'Isis.

Basta questo per capire che, se stiamo facendo un “tragico errore”, quell'errore non è certo evitare l'ennesimo arroccamento identitario dettato dalla paura, ma piuttosto quelli di non camminare a grandi passi sulla via non solo dell'integrazione, ma della giustizia.

Costruire giustizia, inclusione, eguaglianza: ecco cosa vuol dire essere di sinistra. E cioè provare a costruire un futuro migliore, e più giusto. E si potrebbe anche aggiungere: fare cose cristiane, invece che sbandierare radici cristiane. Può darsi che queste siano cose “estremistiche” o “radicali” rispetto al teatrino delle prossimità variabili tra i leader senza popolo di una sinistra che non c'è. Allora, spero che le sere di questa estate servano a discutere di queste cose: a costruire una sinistra un po' più radicale.

il manifesto, 11 luglio 2017, con postilla

Dopo il Forum C’è vita a sinistra (il manifesto, 8 luglio), ho letto, con attenzione, i commenti scambiati attraverso le reti dei social. Commenti disincantati, qualche volta delusi, del tipo: «Con questi personaggi e con questo dibattito, non andiamo da nessuna parte».

Ho da obiettare. Quando studiavo Storia dell’Architettura mi insegnarono che le cattedrali si costruiscono con le pietre che si trovano nei dintorni. Ma per non far torto ai partecipanti del Forum – nei riguardi dei quali questa affermazione potrebbe essere scambiata quasi per un insulto -, voglio dire che i D’Alema, gli Asor Rosa e gli altri partecipanti (forse non tutti) si sono dimostrati disponibili (e a titolo gratuito, politicamente parlando) a mettersi in gioco, a spendersi per la comune causa di un vero cambiamento a sinistra, come si conviene agli intellettuali e ai politici coraggiosi e degni di questo nome. In questo confronto i veri “vecchi” mi sono sembrati coloro che si ostinano a non scorgere i tanti segnali (contraddittori? Forse) di vita a sinistra, come fossero in attesa di un messia che sveglia d’incanto le masse addormentate.

In una intervista (Alias dell’8 luglio), a proposito del film di Rossellini Germania anno zero, Luc Dardenne afferma che: «Bisogna cominciare con il cominciamento. E il cominciamento di tutto è il coraggio». Coraggio che «è il momento della decisione radicale, un momento di rottura e non la risultante di un processo di continuità, il momento di una decisione che non è frutto di un sapere e che, al contrario, si produce grazie e malgrado la conoscenza del pericolo che si corre, della paura che si avverte».

Ora io credo che siamo in questa fase particolare che richiederebbe l’abbandono (non la rimozione, certo) delle incertezze, delle tante illusioni tradite, degli errori compiuti in questo tentativo, per scoprirci ottimisti e fiduciosi e coraggiosi “malgrado”, malgrado tutto. E questo anche perché ogni cinismo politico, sia pur improntato al realismo di ciò che è successo, in questa fase, è una manifestazione di rinuncia. Siamo ormai diventati troppo abili nel criticare Renzi e le sue derive di destra, così come siamo diventati professionisti della disfatta che quasi evochiamo, prima ancora di metterci in marcia, prima ancora che questa si realizzi (o si autorealizzi).

Quando ascolto D’Alema parlare della nuova sinistra, o Asor Rosa, o Montanari, non mi chiedo cosa abbiano fatto, o non fatto, costoro nel passato. Mi dico invece: ma non è quello che speravamo che costoro prima o poi facessero? Che gridassero ai quattro venti che “il sovrano è nudo”, come sapevamo da tempo, ma come non riuscivamo a dire? Non parlavamo noi del silenzio (colpevole) degli intellettuali?

So che non basta. Non saranno (solo) loro a cambiare le cose (ma neppure essi lo pensano); ma perché tanto cinismo e risentimento di compagni mascherato da realismo? Il realismo può diventare una malattia mortale quando ci impedisce di vedere i segnali del cambiamento; diventa un freno alle passioni, irretisce le menti anziché illuminarle. Abbiamo già un campione del realismo: è Renzi, che ad ogni girar di vento, cambia tattica e obiettivi (ora, ad esempio, è in sintonia con Salvini sulla questione della difesa delle frontiere). Realisti erano quegli intellettuali che, appena affermato il fascismo, si radunavano sotto il balcone di Piazza Venezia per sentire i discorsi del Duce. E poi, a sera, si rivedevano in un’osteria a ridacchiare delle cose ascoltate: «questo qui», dicevano con realismo, «non dura più di un mese». Mussolini dimostrò più fantasia di loro e sappiamo come è andata a finire quella storia.

Mi piacerebbe che su questo giornale e sui social arrivassero migliaia (milioni?) di lettere con la scritta «Io ci sto!» o, «Per favore, voi che avete l’ambizione di rappresentarci, mettete da parte i vostri problemi personali; vogliamo una sola lista di sinistra alle urne, altre soluzioni non le accetteremmo». Non sarebbe falso ottimismo ed è inutile invocare la memoria triste dell’Arcobaleno. La storia non si ripete mai nello stesso modo due volte, se non nelle menti malate dei realisti. Uno slogan del maggio francese del Sessantotto diceva: «Ancora uno sforzo compagni…», e questa volta la storia può cambiare.

postilla
Non sono affatto d'accordo con Enzo Scandurra. E' la prima volta e non sarà l'ultima. Esprimerò le mie ragioni domani, Per farlo devo scavare un po' nella parola "sinistra", in riferimento ai secoli scorsi (e.s.)

La solita ricetta sviluppista-neocolonialista pronta a fare affari unicamente attraverso opere faraoniche inutili per i "dannati dello sviluppo" e a relazionarsi con governi pronti a svendere risorse e diritti.

il manifesto, 6 luglio 2017 (p.d.)

L’hanno chiamato «Compact with Africa», ma il presidente della Costa d’Avorio, Alassane Ouattara, ha voluto ribattezzarlo come «Piano Merkel». Pilastro centrale della presidenza tedesca del G20, nonché tema centrale del summit di Amburgo del 7 e 8 luglio, «Compact with Africa», si presenta come una massiccia iniziativa per rafforzare gli investimenti privati in Africa, «precondizione essenziale per una crescita forte, bilanciata e sostenibile del continente».

«Non un banale aiuto economico a paesi in via di sviluppo», ha tuonato a più riprese Merkel, ma un programma che mira a una «globalizzazione più inclusiva». Parola del ministro dell’economia di Berlino Wolfgang Schäuble. È la vecchia storia della povertà che si combatte con grandi infrastrutture, trasporti, energia e settore idrico in primis, e con la privatizzazione serrata di quelle già esistenti. In sintesi, il solito mantra del G20 che aspira a mobilitare capitali privati attraverso apparenti nuove forme di partenariato pubblico-privato e di meccanismi finanziarizzati. Quegli stessi che sono la causa principale delle crisi ripetute e quindi dell’intensificarsi della povertà. Eppure, nell’apparente miopia che sottende questo circolo vizioso, si attivano i «soliti noti».

Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Banca africana di sviluppo in testa, al fine di negoziare con i paesi africani piani d’azione specifici per ogni Stato, a patto che si rendano disponibili ad attuare riforme adeguate «per migliorare il clima degli investimenti». A suggellare questo vincolo di amorosi sensi si candida il G20, garante d’eccellenza per potenziali investitori incerti.

Ricetta vecchia, ingredienti ammuffiti, verrebbe da dire. Il sempre meno credibile Club dei 20, che ben poco ha fatto per prevenire crisi come quella che gli ha dato i natali nel lontano 2008, si propone come l’architrave politico per eccellenza per creare l’infrastruttura finanziaria necessaria a migliorare le condizioni di vita in Africa. O, ancor meglio, a rilanciare il Continente Nero come laboratorio della narrativa sviluppista, in salsa privata. Tralasciamo il fatto che il Compact for Africa non fa assolutamente tesoro delle tante esperienze negative del passato, cioè i costi pagati dalle popolazioni in nome dello sviluppo, il peggioramento dei servizi, la mancanza di trasparenza nelle operazioni e nei contratti, la cessione di ampi spazi di democrazia e l’aumento dei rischi finanziari per il pubblico.

Accantoniamo anche il «piccolo dettaglio» che «migliorare il clima per gli investitori» significa ridimensionare la sovranità degli Stati nella loro funzione di regolamentazione degli investimenti e che il Compact for Africa trascura i già deboli vincoli finanziari fissati, ad esempio, a garanzia della sostenibilità nell’ambito dell’Accordo per il Clima di Parigi. Proviamo pure a dimenticarci che nessuno sembra preoccuparsi di come tutto ciò potrebbe costituire il punto di inizio di una nuova crisi del debito africano. Fino a qui, infatti, niente di nuovo.

«Aiutiamoli a casa loro», è l’unica apparente novità in un racconto che altrimenti sembrerebbe scritto nella vulgata di moda all’epoca degli aggiustamenti strutturali, condito di sostenibilità come panacea di tutti i mali. Il mondo è cambiato, tocca adeguarsi. Negli anni ’80 e ’90 in Occidente non si moriva ancora per colpa delle bombe, il Mediterraneo non era ancora un cimitero, il vincolo tra sfruttamento di risorse in Africa e sicurezza in Europa non era ancora un tema, e l’ipocrisia cinica, violenta e razzista di chi ci governa non era ancora chiara come oggi.

Il nostro sistema si sente sotto attacco. Davanti alla minaccia di soccombere, anche la retorica buonista dell’aiuto in nome della solidarietà non basta più. Quindi, per dirla con le parole della cancelliera Merkel, «migliorare le condizioni in Africa equivale a creare più sicurezza per noi». Ben consapevole che di fronte al si salvi chi può in cui versa l’Occidente la solidarietà non porta benefici elettorali, con un’ abile mossa la cancelliera trasforma la crisi in opportunità, assicurando ai capitali privati, alle multinazionali straniere, alle banche e fondi d’investimento la possibilità di continuare a depredare l’Africa per molti anni a venire, con la rassicurazione che adesso, oltre che per aiutare loro, tuteliamo anche la nostra sicurezza.

In questo quadro però, fa pensare il fatto che il Compact for Africa irrompe sull’agenda globale proprio mentre gli Stati membri della insicurissima Europa si accapigliano sulla questione migranti e si affannano a blindare le frontiere, allorquando l’Italia fa la voce grossa minacciando di chiudere i porti di approdo, la Germania indaga le Ong per immigrazione clandestina e pressoché ovunque si tenti di trasformare la solidarietà in reato. Il Re è già nudo, ma forse va spogliato ancora un po’. Il mondo è un campo di battaglia, il doppio standard nelle relazioni internazionali da malevola eccezione è diventata la regola, la criminalizzazione dello «straniero» ha raggiunto un punto tale per cui perfino il mantra dell’«aiutiamoli a casa loro» è cosa già vecchia ed è oramai soppiantato da una deriva esplicitamente xenofoba e islamofobica. Tuttavia a casa loro si continua ad andare.

A firmare i contratti multimilionari per grandi infrastrutture, preferibilmente senza gare d’appalto, con interventi militari mascherati da missioni di pace, pompando petrolio e gas fino ad afflosciare il pianeta come un pallone sgonfiato, e a vendere armi a regimi repressivi, tappandosi gli occhi su dove e come quelle stesse armi verranno usate. Tanto poi ci pensa la cooperazione allo sviluppo alla ricostruzione. Ma una buona notizia, per chi dice di governarci c’è, eccome. Possono smetterla di affaticarsi a trovare modi sempre più innovativi per mascherare scelte politiche privatistiche con il bene collettivo. Non c’è più bisogno di inventarsi pericolosi equilibrismi per salvare la forma, o la faccia. È tutto chiaro, sotto gli occhi di tutti. Anche dei milioni di sconfitti dalla globalizzazione, nel Sud come nel Nord del mondo, che la storia che proprio la globalizzazione genererà inclusione non se la sono mai bevuta. E che, sospettiamo, continueranno a non farlo.

il manifesto, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

Le tante bandiere di Articolo 1 e quelle dei Verdi sventolano, i palloncini arancioni volano in aria. Giuliano Pisapia ha appena terminato il suo intervento dal palco romano di piazza Santi Apostoli sotto la sede che fu dell’Ulivo, e Iseiottavi, la Rino Gaetano Tribute band alla quale viene affidata la colonna sonora del pomeriggio, attacca Il cielo è sempre più blu. È solo l’ultimo rewind, quello che chiude poco prima delle otto di sera «Insieme», il lancio di una «casa comune inclusiva e innovativa», promette l’ex sindaco di Milano.

«Nascerà una casa più grande e più bella… Dipende da voi, da tutti noi, la costruzione di una casa in cui non saremo più da soli». Lo aveva detto Piero Fassino, su quelle stesse note di Rino Gaetano, dieci anni fa, chiudendo a Firenze il congresso che congedava i Ds per dare l’avvio al Pd. «Da oggi parte la casa comune per una nuova sinistra, un nuovo centrosinistra. Una casa comune che guarda al futuro e guarda al passato. Non una fusione a freddo, ma una fusione a caldo», insiste ora Pisapia congedando la piazza del 1 luglio per dare un nuovo appuntamento a «Insieme» a settembre, quando «sceglieremo il nuovo nome, insieme» anche per i nuovi gruppi parlamentari.

Il futuro e il passato da non buttare tutti alle ortiche, come chiede Pier Luigi Bersani che, intervenendo prima di Pisapia, rivendica gli anni ’90 perché allora «abbiamo vinto ovunque, dall’Europa agli Stati uniti, proponendo una globalizzazione dal volto umano. Economia di mercato sì, società di mercato no, come diceva Jospin». Ma «discontinuità radicale» con le politiche degli ultimissimi anni, chiede l’ex segretario del Pd e ripete l’ex sindaco, il primo con un duro attacco a Matteo Renzi e al renzismo (applauditissimo, del resto la piazza è appunto dominata dalle bandiere di Mdp che Gad Lerner invita a sventolare con moderazione), il secondo senza citare mai Renzi (forse anche per questo applaudito con meno fragore) ma elencando i temi sui quali marcare la discontinuità.

E chiarendo anche che «in tempi non sospetti avevo detto di considerare un errore l’abolizione dell’articolo 18», scandisce Pisapia «l’anti-leader» (lo definisce il «presentatore» Lerner), a segnare in questo modo una distanza netta dall’attuale segretario del Partito democratico che da Milano aveva attaccato a testa bassa una piazza messa insieme dalla «nostalgia di un passato che non è mai esistito». Non a caso è attento, Pisapia, a cercare di allontanare quella sensazione di «nostalgia» parlando ripetutamente di futuro, della necessità di unire «indipendentemente dalle bandiere e dalle storie». Del resto all’inizio della manifestazione il colpo d’occhio della piazza parla molto del centrosinistra che fu, passeggiano – più o meno coinvolti nella «nuova casa» – diversi ex ministri dei governi di Romano Prodi e di Massimo D’Alema, da Livia Turco a Barbara Pollastrini a Giovanni Maria Flick a Antonio Bassolino con seguito di fan… E applausi anche per Massimo D’Alema, al suo arrivo nella folla. Passeggia poi Gavino Angius, che fu capogruppo dei Ds. Ma ci sono anche Bobo Craxi che ascolta seduto sulla sua bicicletta e si rivedono pure ex dc non esattamente «ulivisti» o «unionisti» come Angelo Sanza, arrivato nel Centro democratico di Bruno Tabacci dopo essere passato per Forza Italia e per l’Udc.

Il rischio revival è nell’aria. Anche se l’atteso messaggio-benedizione di Prodi non arriva. E pure quello fusione a freddo, come appunto evidenzia Pisapia seppure dicendo che «Insieme» non ripeterà l’errore che riporta a quel congresso di Firenze e al Rino Gaetano di dieci anni fa. La scommessa è questa, la piazza è piena solo perché il palco è stato montato in posizione strategica per evitare vuoti, e dal palco e ai camion delle tv resta una fetta piuttosto limitata. Certo è il primo luglio, è un sabato e venerdì a Roma era anche festa e Pisapia dice «ci davano dei matti, ma ce l’abbiamo fatta», salutando «la bellissima piazza». Non c’è il messaggio di Prodi ma ci sono i pontieri del Pd. Gianni Cuperlo, Cesare Damiano e il ministro della giustizia Andrea Orlando ascoltano attentamente da dietro il palco dove si è sistemato un gruppetto di bersaniani. Il ministro in realtà cerca di spostarsi altrove, «siamo la delegazione straniera», scherza, ma sotto il palco è difficile arrivare. C’è il presidente della regione lazio Nicola Zingaretti e ascolta in posizione un po’ arretrata il franceschiniano David Sassoli. Selva di telecamere per la presidente della camera Laura Boldrini

Sul palco si susseguono le «storie» vere – come le chiama Pisapia, raccontate da Stefania Cavallo del centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, Elvira Ricotta della rete italiani senza cittadinanza, Alessio Gallotta che parla della vertenza Amazon… Poco prima della fine della manifestazione è l’attore Claudio Amendola (tocco di romanità da coniugare con la milanesità dell’anti-leader) a parlare esplicitamente del rapporto con i dem, di una «forza che dovrà essere la sentinella del Pd». Dal PD renziano la piazza è molto lontana. Ci sono anche i giornalisti dell’Unità «rottamata dal Pd». «Ci rivolgiamo al popolo del centrosinistra, disilluso, deluso, che sta a casa e ha ascolta il comizio di Renzi e sente che le parole gli scivolando addosso, come l’acqua sul marmo», dice ancora Bersani tra gli applausi. Perché «noi abbiamo un pensiero, se ne prenda atto. Ma voi del Pd che pensiero avete? Ora si sono liberati di D’Alema e il pensiero ce lo darà Bonifazi… Basta voucher, basta licenziamenti collettivi e disciplinari, basta stage che diventano lavori in nero, basta bonus, basta meno tasse per tutti come dice Berlusconi. E basta arroganza, il mondo non gira attorno alla Leopolda».

«Senza i più poveri, gli esclusi, questo Paese non cresce. Lo sciopero del voto ci spinge a ridare dignità al lavoro, solo così ripartirà lo sviluppo. Non si crea sviluppo pensionando i diritti», dice ancora Pisapia citando Rodotà e chiedendo la legge per lo ius soli. «Siamo partiti col piede giusto per costruire un nuovo progetto politico, ora si tratta di allargarlo. Stiamo andando verso le elezioni. Se questa forza avrà forza allora dopo il voto riapriremo il confronto» con il Pd. In piazza c’è la delegazione di Sinistra Italiana (De Petris, Marcon, Fassina…), c’è Pippo Civati. I «civici» del Brancaccio non ci sono. Quanto la casa sarà grande e comune è tutto ancora da vedere .

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