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Sulla poca stampa indipendente sopravvissuta si consolida la tesi affaristica delle ragioni della defenestrazione del sindaco di Roma.

Il Fatto Quotidiano, 1° novembre 2015

Che sarà mai questo mirabolante “modello Milano” che, giubilato Marino in tempo per il Giubileo, il nostro premier ha in mente per salvare Roma dal baratro in cui l’ha cacciata il suo stesso partito? Tre ipotesi si rincorrono.

1 ) “Modello Milano” significa prendere il prefetto meneghino Francesco Paolo Tronca e farlo commissario del Comune di Roma per “dare inizio al Dream Team” (Matteo Renzi dixit), “così il Giubileo andrà bene come l’Expo” (Angelino Alfano). Ora, il Tronca è talmente milanese da esser nato a Palermo, però gli son bastati gli ultimi due anni da prefetto all’ombra della Madonnina per diventare un bauscia modello. Quattro anni fa l’Unità, non ancora house organ renziano, raccontò che Tronca, non ancora prefetto ma solo capo del Dipartimento Vigili del Fuoco (nominato dal ministro leghista Bobo Maroni), usò un’auto e un autista destinati al soccorso antincendi per far scarrozzare allo stadio Olimpico suo figlio e un amichetto per la partita Roma-Inter di Coppa Italia.

Fra un taglio di bilancio e l’altro, le rappresentanze sindacali dei pompieri denunciarono il caso e aggiunsero – sempre secondo l’Unità – che “al prefetto Tronca sarebbero stati assegnati ben due attici, in via Piacenza, a due passi dal Quirinale: alloggi di servizio che non gli spetterebbero”, e addirittura alcune “auto nuove nuove dei Vigili del Fuoco di Cortina d’Ampezzo”. Allora Tronca era considerato vicinissimo alla Lega e figurarsi la gioia di Maroni, nel frattempo asceso dal Ministero dell’Interno al Pirellone, quando due anni dopo se lo ritrovò prefetto di Milano. Ora però Tronca è stato scelto personalmente da Renzi, quindi non è più leghista, ma alfiere del “modello Milano”: a patto che l’Unità non ripeschi dall’archivio quella notiziola sul suo malvezzo – più romano che milanese di far scarrozzare il figlio in auto blu. C’è chi, come l’ex portavoce di Fini Salvo Sottile, per un caso analogo s’è beccato una condanna per peculato. Sarebbe seccante ricordarlo proprio ora che Tronca va al posto di un sindaco indagato per peculato. Il modello Milano andrebbe subito a farsi fottere.

2 ) “Modello Milano” significa trapiantare le virtù della “capitale morale d’Italia” - l’ha detto Raffaele Cantone, quindi sarà vero senz’altro - nel corpaccione vizioso della capitale politica, perché la prima “ha gli anticorpi” e l’altra no (Isernia e Caltanissetta, per dire, ancora non si sa, ma il commissario anticorruzione ci farà tosto sapere). Fermi restando i noti vizi e stravizi della Roma che conta, resta da capire quali siano esattamente le virtù di Milano che conta. Lì, finché non fu aperta Expo e la Procura schiacciò il tasto “pausa” per carità di patria ad arresti e avvisi di garanzia, era tutto un susseguirsi di retate perché i virtuosissimi politici e amministratori di destra e di sinistra non erano riusciti a completare i lavori della kermesse (40% di opere mai fatte), ma in compenso le mazzette viaggiavano con puntualità svizzera. E, a occuparsene, non erano nuove leve del malaffare, insospettabili e irriconoscibili a occhio nudo: erano le stesse di Tangentopoli, solo invecchiate di vent’anni. Greganti, Frigerio, Grillo (Luigi), Maltauro.

Eppure né il commissario Occhio Di Lince Sala, né i suoi sponsor al Comune e alla Regione, s’erano accorti di nulla. Siccome poi la Regione Lombardia era stata sciolta anzitempo nel 2013 per gli scandali Formigoni, Minetti, Trota, Boni, Penati e note spese, col contorno di qualche ’ndranghetista (milanesissimo, dunque provvisto di robusti “anticorpi”), anche i nuovi inquilini del Pirellone si son dati da fare: il 1° dicembre il governatore Bobo Maroni andrà a processo per turbativa d’asta ed è indagato per i suoi favori a due amichette sue; il suo vice Mario Mantovani, forzista, soggiorna attualmente a San Vittore per corruzione. Completano il quadro, sempre a proposito di “modello Milano” e “anticorpi”, i comuni dell’hinterland infiltrati dalle mafie, come Buccinasco, Desio e Sedriano. Degna, anzi sacra corona per la Capitale Morale.

3) “Modello Milano” vuol dire che Roma, per il Giubileo, deve prendere esempio da Expo. Il tempo è poco, ma ce la si può ancora fare. Funziona così. Si favoleggia dell’arrivo di 24-30 milioni di visitatori da tutto il mondo, poi ne arrivano solo 18 (record storico negativo dal 1962, pari al dato di Expo Hannover 2000, detto anche “il flop del millennio”), ma si arrotonda a 21 e lo si spaccia per un trionfo. Si buttano dalla finestra 2,4 miliardi di denaro pubblico (1,3 per la costruzione, 960 milioni per la gestione e 160 per l’acquisto dei terreni da privati, decuplicando il prezzo di mercato), poi si dice che i costi saranno coperti dalla vendita dei biglietti a 22 euro di media, poi la media ufficiale scende a 19 euro e quella reale a molto meno (centinaia di migliaia di ticket regalati o svenduti a 5 euro), con un bel buco finale di 1 miliardo a carico nostro, ma nessuno ci fa caso. Si scopre poi che i terreni sono altamente inquinati, dunque vanno bonificati, per un costo preventivato di 5 milioni a carico dei proprietari, che però non vogliono pagare e intanto il conto sale a 72 milioni, e indovinate chi li paga. Si shakera il tutto con copiosi investimenti pubblicitari su giornali e tv, che in cambio suonano trombe e trombette. Infine si proclama eroe nazionale l’artefice del capolavoro, con monumento equestre incorporato, e lo si candida a sindaco.

Ora, per carità, va bene tutto: ma abbiamo come il sospetto che di magliari e leccaculi Roma ne abbia a sufficienza, senza bisogno di importarli da Milano.

«Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico”: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum».

Il Manifesto, 31 ottobre 2015

«Per chi legge in buona fede il mandato negoziale del TTIP, è del tutto evidente che i servizi pubblici non sono oggetto di negoziazione». Così ripete ad ogni occasione il viceministro dello sviluppo economico Carlo Calenda. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” verrebbe da rispondere citando il famoso “belzebù” della prima repubblica. D’altronde, basta leggere quanto previsto dal CETA (Accordo commerciale Ue-Canada, la cui ratifica partirà nel 2016) e dal TTIP (Accordo Usa-Ue, in fase di negoziazione) per capire chi ha ragione.

Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico” adottata in questi accordi. Una definizione che si basa su due negazioni: a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo; b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum. Da queste designazioni emerge chiaramente come l’istruzione e la sanità non vanno considerate servizi pubblici, in quanto possono essere erogati anche da soggetti privati, così come l’acqua, l’energia, i rifiuti e il trasporto pubblico, in quanto per la loro erogazione è previsto il pagamento di una tariffa. Persino la tessera della biblioteca di quartiere (5 euro/anno), essendo un corrispettivo una tantum, ne fa decadere il carattere di servizio pubblico.
Di conseguenza, il viceministro Calenda ha ragione quando sostiene che i servizi pubblici sono esclusi dai negoziati commerciali, a patto che precisi che, per CETA e TTIP, i servizi pubblici sono solo i seguenti: l’amministrazione della giustizia, la difesa, l’ordine pubblico e la definizione delle rotte aeree internazionali (!).
Tutto questo non basta: dentro quasi ogni capitolo dei negoziati CETA e TTIP troviamo elementi che vanno nella direzione della privatizzazione dei servizi pubblici. Vediamone solo alcuni:
a) si passerà dagli “elenchi positivi”, sinora utilizzati negli accordi commerciali, all’approccio dell’”elenco negativo”; ovvero, mentre sinora erano i governi a stabilire quali servizi mettere sul mercato, da adesso tutti i servizi sono soggetti a privatizzazione, salvo quelli contenuti in esplicite eccezioni; b) verranno adottate le clausole “standstill” e “ratchet”: la prima prevede l’impegno a non adottare nella legislazione nazionale misure più restrittive rispetto a quelle previste negli accordi; la seconda prevede che un paese non possa reintrodurre una determinata barriera precedentemente rimossa su un determinato settore; con buona pace del referendum sull’acqua e di tutti i processi di rimunicipalizzazione del servizio idrico in corso in diversi paesi europei; c) saranno impedite la libera distribuzione di acqua ed energia per finalità di interesse pubblico, così come gli obblighi di servizio universale previsti nei servizi postali; d) verrà resa obbligatoria la gara internazionale per ogni appalto pubblico, con la fine di ogni fornitore locale e processi infiniti di esternalizzazione.
Senza contare come CETA e TTIP consentano alle imprese di citare in giudizio i governi per ogni norma da queste considerata ostativa al raggiungimento dei propri obiettivi di profitto.
Con buona pace di Calenda, l’attacco ai servizi pubblici è uno degli obiettivi primari di CETA e TTIP. D’altronde, se i servizi pubblici gli stanno tanto a cuore, può il viceministro gentilmente spiegare perché l’Unione Europea –e dunque anche l’Italia- partecipa al TISA (Accordo sul commercio dei servizi), altro trattato segreto, il cui unico obiettivo è la liberalizzazione totale dei servizi pubblici?

Grandi opere. Il Commissario anticorruzione ha esaltato l’Expo, ma ha dimenticato la mafia negli appalti. Il manifesto, 31 ottobre 2015

Cri­mi­no­gena. Que­sto è il giu­di­zio che Raf­faele Can­tone ha recen­te­mente dato alla legge «Obiet­tivo del 2001» con cui sono stati per­pe­trati gradi scempi ambien­tali e urba­ni­stici. Nono­stante que­sto pesante giu­di­zio quella legge è ancora in vigore: Mat­teo Renzi si guarda bene dall’abrogarla. Sono state sol­tanto accan­to­nate alcune opere inu­tili, ma le pro­ce­dure sem­pli­fi­cate fanno ancora gola. Siamo dun­que in un paese che lascia in vita una legge cri­mi­no­gena e in una città che ha con­tri­buito per numero e qua­lità a riem­pire le patrie galere.
Appena dieci giorni fa a Milano sono stati arre­stati il vice­pre­si­dente della Giunta regio­nale e vari altri galan­tuo­mini. Tutto mira­co­lo­sa­mente supe­rato. Raf­faele Can­tone ha affer­mato durante una ceri­mo­nia di esal­ta­zione di Expo 2015 che Milano ha riat­ti­vato gli anti­corpi con­tro la cor­ru­zione. Evi­den­te­mente l’uso spre­giu­di­cato della reto­rica è una coperta buona a nascon­dere la realtà, com­presi gli arre­sti del mag­gio 2014 quando fu sgo­mi­nata la cupola che gover­nava gli appalti Expo.
Ma è dav­vero così? Expo è la leva su cui risor­gerà Milano e l’Italia? Per costruire la grande fiera sono stati spesi 14 miliardi di euro, come ha dimo­strato Roberto Perotti. A que­sta folle cifra dob­biamo aggiun­gere un gigan­te­sco soste­gno pub­blico: abbiamo infatti assi­stito a quo­ti­diane rubri­che sulle tele­vi­sioni e sui quo­ti­diani, inne­ga­bili spinte alla visita. Saranno rag­giunti i 20 milioni di visi­ta­tori. Se divi­diamo quel numero per le somme spese, ogni visi­ta­tore ci è costato 750 euro. Una somma ragio­ne­vole o era pos­si­bile – come pure ipo­tizzò qual­cuno — orien­tare l’esposizione dedi­cata al cibo verso le cen­ti­naia di luo­ghi straor­di­nari d’Italia in cui avven­gono le pro­du­zioni di qua­lità tanto decan­tate a parole? Si tratta spesso di luo­ghi mar­gi­nali, abban­do­nati da anni di assenza di pro­getti, dove i pro­dut­tori fanno fatica a man­te­nere le quote di mer­cato. Una Expo decen­trata che avrebbe fatto cono­scere al mondo la straor­di­na­rietà del pae­sag­gio ita­liano e rivi­ta­liz­zato le aree mar­gi­nali, for­nito occa­sioni di svi­luppo ad imprese vere.
Vinse il para­digma della con­cen­tra­zione soste­nuto dall’agguerrita classe diri­gente mila­nese. Grande quar­tiere di espo­si­zione, grandi for­ni­ture di cemento e asfalto (sono stati urba­niz­zati 105 ettari di ter­reni agri­coli), gradi affari. Ter­reni pagati a peso d’oro; alber­ghi pieni, valori immo­bi­liari in rialzo per la feli­cità della grande pro­prietà edilizia.
Milano ha dun­que bene­fi­ciato dell’effetto dro­gato dalla spesa di 14 miliardi, ma come esso possa rap­pre­sen­tare un modello per il paese è dif­fi­cile da com­pren­dere. Tra due giorni, appena spente le luci, reste­ranno tutti i pro­blemi sul tap­peto. Per­ché in Ita­lia non si inve­ste più nelle città e man­cano pro­grammi di lungo periodo. Durante i sei mesi di mani­fe­sta­zione, ad esem­pio, si poteva almeno ragio­nare sul futuro delle aree Expo. Nulla. Hanno taciuto comune e regione. Si espri­mono solo i diri­genti della Con­fin­du­stria lom­barda che pro­pon­gono sulle pagine del Cor­riere della Sera la rea­liz­za­zione di una città della scienza e della ricerca — ovvia­mente a carico dei con­tri­buenti — e sopra­tutto «tempi bre­vis­simi» per le decisioni.

E così tor­niamo al punto di par­tenza. Forse Raf­faele Can­tone voleva sol­tanto magni­fi­care il modello isti­tu­zio­nale del Com­mis­sa­rio straor­di­na­rio, e cioè di una figura in grado di svol­gere la regia di ope­ra­zioni com­plesse e garan­tire effi­cienza. Siamo sem­pre den­tro al cul­tura degli anni ’90, altro che anti­corpi. La crisi dei governi delle città è sotto gli occhi di tutti ma l’unica strada da per­cor­rere è quella di resti­tuire ai comuni le risorse per gover­nare: la strada della straor­di­na­rietà è solo una peri­co­losa scor­cia­toia. Non c’è infatti chi non veda che in que­sto modo si crea una for­bice mici­diale: le opere rite­nute impor­tanti ver­ranno affi­date a figure straor­di­na­rie sle­gate dal con­trollo demo­cra­tico men­tre l’ordinarietà, come la man­canza di acqua nella città di Mes­sina, sarà lasciata sulle spalle di sin­daci senza risorse e auto­no­mia. La inne­ga­bile crisi del modello demo­cra­tico non si affronta con la cul­tura della straor­di­na­rietà. E’ più impor­tante chiu­dere tutte le leggi di deroga, ad ini­ziare dalla «cri­mi­no­gena» legge Obiettivo.
«Le virgolette di Naipaul, premio Nobel della letteratura, raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di "scuole" che non educano, "ospedali" che non curano, "poliziotti» che spesso sono criminali, "imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o "ministeri della Difesa" che attaccano i loro cittadini».

La Repubblica, 30 ottobre 2015 (m.p.r.)

NEL 1980, dopo aver visitato l’Argentina, il romanziere V. S. Naipaul scrisse: «In Argentina molte parole hanno un significato ridotto rispetto a prima: generale, artista, giornalista, storico, professore, università, direttore, manager, industriale, aristocratico, biblioteca, museo, zoo; tante parole devono essere messe tra virgolette».

È una brillante metafora che trasmette con grande efficacia una realtà complessa dove quello che appare molto spesso non è. Però le virgolette a cui si riferisce questo premio Nobel della letteratura non sono solo un fenomeno argentino del secolo scorso. Raffigurano alla perfezione anche il mondo del XXI secolo, pieno di «scuole» che non educano, «ospedali» che non curano, «poliziotti» che spesso sono criminali, «imprese private» che esistono solo grazie allo Stato o «ministeri della Difesa» che attaccano i loro cittadini. Viviamo in un universo infestato di istituzioni che perseguono in modo più che relativo gli scopi che giustificano la loro esistenza. E di situazioni disegnate deliberatamente per raggirare gli ingenui.
Alcuni giorni fa, per esempio, il governo russo ha annunciato di voler inviare «volontari» a combattere in Siria (le virgolette non sono mie, ma del titolo del New York Times). Questi «volontari» russi in Siria sono sospettosamente simili ai «militanti nazionalisti filorussi» che hanno invaso la Crimea e continuano a combattere contro l’Ucraina. E la verità è che tanto i «volontari» russi in Siria quanto i «militanti» che combattono in Ucraina sono in realtà militari russi o mercenari a libro paga di Mosca. Sembrerebbe che il Cremlino abbia sviluppato una forte preferenza per l’uso di «organizzazioni non governative» (così, tra virgolette) per conseguire obbiettivi militari e politici.

Il Nashi, per esempio, è un «movimento» di giovani russi che si dichiara «democratico, antifascista e contro il capitalismo oligarchico». Va tutto fra virgolette perché in realtà questa Ong è un ente promosso, organizzato e patrocinato dal governo russo. Che non è l’unico a usare quelle che si è cominciato a chiamare Ongog, cioè organizzazioni non governative organizzate e controllate dai governi. Già nel 2007 scrissi: «La Federazione degli affari femminili in Birmania è una Ongog. E anche l’Organizzazione per i diritti umani del Sudan. L’Associazione delle organizzazioni non a scopo di lucro e non governative del Kirghizistan, e la Chongryon (Associazione generale dei residenti coreani in Giappone) sono Ongog. È una tendenza mondiale, sempre più estesa: governi che finanziano e controllano organizzazioni non governative, spesso e volentieri in modo occulto».

Anche in Paesi con governi autocratici o democrazie illiberali stanno proliferando «mezzi di comunicazione privati e indipendenti» che in realtà non lo sono. Canali radiofonici, televisivi, giornali e riviste creati o comprati da «investitori privati» e che nominalmente sono indipendenti, ma editorialmente sono al soldo del governo che clandestinamente li finanzia e li controlla.

In questi Paesi il presidente, dittatore o capo di Stato normalmente esercita un controllo clandestino, ferreo, su «senatori», «deputati », «procuratori», «magistrati» e «tribunali elettorali» spacciati per «arbitri imparziali», su «elezioni democratiche» che spesso e volentieri sono truccate e fraudolente. Per questo in Russia, Iran, Venezuela o Ungheria, per esempio, i concetti di «democrazia», «separazione di poteri» ed «elezioni» devono essere messi fra virgolette per mettere in guardia dal fatto che non hanno lo stesso significato che altrove.

E non è solo un problema degli Stati. Il mondo delle organizzazioni internazionali è inondato di virgolette. Avete mai sentito parlare del Consiglio per i diritti umani dell’Onu? La sua missione è «promuovere e proteggere i diritti umani nel mondo». Chi ne fa parte? Fra gli altri, solo per citarne alcuni, Cuba, il Congo, la Cina, la Russia, il Kazakistan, il Venezuela e il Vietnam. Un altro esempio istruttivo di quanto siano diventate indispensabili le virgolette è la «Carta democratica» dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa). Nel 2001, con grande sfarzo ed emozione, i Paesi democratici dell’America Latina concordarono tutti che il «rafforzamento e la difesa delle istituzioni democratiche» era una priorità, e che se in un Paese membro si fosse prodotta una rottura o un’alterazione delle istituzioni tale da nuocere gravemente all’ordine democratico, ciò avrebbe rappresentato un «ostacolo insormontabile» per la permanenza di quel governo nell’organizzazione.

Non è stato così. Non solo l’Osa non si è mossa quando sono avvenute eclatanti violazioni dell’«ordine democratico» in diversi Paesi della regione, ma appare seriamente intenzionata ad accogliere un altro paladino della democrazia: Cuba.

Forse, però, il Paese che più ha bisogno di virgolette per poter essere interpretato è la Cina. La Cina del sistema «comunista» che è diventato un pilastro fondamentale dell’economia capitalista mondiale. E solo per fornire un altro esempio, la Cina che ora ci obbliga a mettere fra virgolette il concetto di «isola». Ha preso quattro scogli in una zona del Mar della Cina Meridionale la cui sovranità è fortemente contestata e le ha fatte «crescere». Così, invece di essere scogli non abitati e non abitabili in mezzo all’oceano, ora sono piccole «isole» dove Pechino ha già installato basi navali e aeree.

Il XXI secolo sarà «il secolo delle virgolette»?

Traduzione di Fabio Galimberti

Quarant'anni dopo la Rivoluzione dei garofani, ecco adesso la Reazione dei crisantemi: crisantemi per la morte della democrazia. Un colpo di stato bianco, perché "glielo chiede l'Europa". Huffington post, 28 ottobre 2015
Desta sgomento se non vera e propria indignazione il silenzio su quanto sta avvenendo in Portogallo dopo la tornata elettorale che ha visto le destre perdere più dell’11% dei consensi e quindi la maggioranza assoluta. Fatta eccezione per la stampa specialista e quella politicamente agguerrita, i mass media generalisti del nostro paese ignorano il vero e proprio crimine contro la democrazia che il Presidente del Portogallo, Anibal Cavaco Silva sta mettendo in atto.

Malgrado che - con qualche sorpresa non solo dei commentatori internazionali, ma persino degli stessi protagonisti diretti - le sinistre in Portogallo fossero riuscite a trovare un accordo per potere governare il paese, potendo contare su un ruolo e un comportamento dei socialisti in controtendenza rispetto a quelli della socialdemocrazia europea. Malgrado che nel parlamento eletto lo scorso 4 ottobre i conservatori abbiano 107 seggi, mentre i socialisti 86, i comunisti 17 e il Bloco de Esquerda - la formazione di sinistra vicina alla Syriza di Tsipras – 19. Malgrado che quindi la maggioranza parlamentare, che è di 116 seggi, appartenga a queste tre ultime formazioni politiche, potendo esse contare su 122 voti. Malgrado che pochi giorni fa il Parlamento portoghese abbia eletto, come proprio Presidente, Eduardo Ferro Rodrigues con 120 voti provenienti dai partiti della sinistra. Malgrado tutto ciò, il Presidente del Portogallo ha incaricato il leader conservatore Passos Coelho, uscito pesantemente ridimensionato dalla prova elettorale, di formare un governo che inevitabilmente sarà di minoranza.

Ancora più sconcertanti, se possibile, sono le motivazioni della scelta presidenziale. Il capo dello Stato portoghese ha infatti dichiarato che “In 40 anni di democrazia, nessun governo in Portogallo è mai dipeso dall’appoggio di forze politiche antieuropeiste…che chiedono di abrogare il Trattato di Lisbona, il Fiscal Compact, il Patto di Crescita e di Stabilità…che vogliono portare il Portogallo fuori dall’Euro … e dalla Nato” e che quindi sarebbe suo preciso dovere e rientrerebbe nei suoi poteri costituzionali “fare di tutto ciò che è possibile per prevenire l’invio di falsi segnali alle istituzioni finanziarie, agli investitori e ai mercati”.

Il programma di governo delle sinistre portoghesi non è affatto antieuropeista, è per cambiare l’Europa in senso sociale e democratico. Vuole evitare che il paese sia nuovamente sottoposto ad un altro memorandum di politiche economiche recessive e di impoverimento sociale. Già cinque sono stati quelli comminati dalla Ue al paese lusitano e il partito di Passos Coelho ha perso la maggioranza assoluta proprio perché ne rivendicava la bontà, cosa che evidentemente non è piaciuta affatto all’elettorato portoghese. Comunque a un capo dello stato compete solo la tutela della Costituzione del proprio paese e non certo di sindacare l’indirizzo politico delle forze che vincono le elezioni.

Ciò che quindi risulta sconvolgente da queste dichiarazioni presidenziali è la palese ammissione di una totale sottomissione alla logica dei mercati finanziari, veri dominus della situazione europea e internazionale, capaci in quanto tali di prevalere su qualsiasi indicazione democratica espressa dalla volontà popolare. Si dirà, e giustamente, che questo era già accaduto, in particolare in Grecia, ma in questo caso repetita non iuvant, anzi dimostrano il carattere a-democratico della costruzione europea e la violenza della reazione appena forze di sinistra conquistano il consenso popolare. Il sostanziale silenzio dei mass media chiude il cerchio, mostrando a quale infimo livello è giunta la sensibilità democratica dei grandi organi di informazione in particolare nel nostro paese.

Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Sia in Portogallo che in Europa. I partiti di sinistra hanno già annunciato di non volere concedere la fiducia, che dovrà essere votata entro il 9 novembre. Se, come i numeri sulla carta ci dicono, il nuovo esecutivo non dovesse ricevere l’avvallo del parlamento, il presidente dovrebbe scegliere se confermare Passos Coelho fino allo scioglimento dell’assemblea o incaricare il leader del Ps ed ex sindaco di Lisbona António Costa, che tra i partiti delle sinistre è il maggiore. Si deve altresì tenere conto che non è possibile sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate prima di gennaio, perché il Portogallo è entrato nel semestre bianco che precede l’elezione di un nuovo presidente della repubblica.

E allora, che senso potrebbe avere la scelta del capo dello Stato portoghese? Solo quello di affidarsi alla speranza che si provochi un ripensamento, ovvero una spaccatura all’interno del partito socialista portoghese, considerato come l’anello più debole del patto stretto tra le sinistre. Per ora non sembra. Anzi l’effetto dell’atto presidenziale è stato piuttosto quello di compattare il partito. Sarà decisivo nei prossimi giorni vedere quale sarà il comportamento degli altri partiti socialisti e socialdemocratici a livello europeo. Finora la reazione più significativa è venuta dal Partito socialista francese, il cui segretario, Jean Christophe Cambadelis, ha dichiarato in una nota di sostenere “l’alternativa rappresentata dai socialisti e dalla coalizione di sinistra”. Se i pronunciamenti di questo tipo aumenteranno e se si svilupperà una pressione democratica popolare a livello europeo, il governo di minoranza della Troika avrà vita effimera. E sarebbe un segnale importante anche per le prossime e vicine elezioni spagnole, oltre che per l’Europa nel suo complesso.

Intervista di Roberto Ciccarelli all'economista Gianfranco Viesti. Una critica severa alla "legge di stabilità":«È una mano­vra poco equa per­ché pre­mia in misura cospi­cua i più abbienti e rilan­cia molto poco i con­sumi». Il manifesto, 29 ottobre 2015

L’austerità non è uguale per tutti sostiene Gian­franco Vie­sti, ordi­na­rio di Eco­no­mia appli­cata all’Università di Bari in un’analisi sulla poli­tica eco­no­mica dal 2011 a oggi pub­bli­cata sul Menabò del sito Etica e eco­no­mia. L’economista con­ferma la sua ana­lisi dopo avere stu­diato le carte della legge di sta­bi­lità. Si parte dall’eliminazione della tassa sulla prima casa. «È una mano­vra poco equa per­ché pre­mia in misura cospi­cua i più abbienti e rilan­cia molto poco i con­sumi. Lo sostiene anche la Banca d’Italia: i con­sumi aumen­tano soprat­tutto quando cre­sce il red­dito di chi ha meno – sostiene Vie­sti — Non sono un rigo­ri­sta e non cri­tico il governo per­ché aumenta il defi­cit. Il pro­blema è che le risorse non sono molte e andreb­bero cali­brate sull’equità e sullo sviluppo».
Dove andreb­bero inve­stiti que­sti fondi?
Negli inve­sti­menti pub­blici e in inter­venti di coe­sione sociale con­tro la povertà. Se dob­biamo lavo­rare sul lato delle ridu­zioni fiscali è molto più oppor­tuno inter­ve­nire sul lavoro che sulla casa. Su que­sto sono d’accordo tutti: l’Ocse, la Com­mis­sione Euro­pea. Lo era lo stesso mini­stro Padoan.

Che però ha cam­biato idea come sul tetto del con­tante. Per­ché secondo lei?
La crisi è molto dura e il governo per­se­gue un con­senso con que­ste mano­vre poco lun­gi­mi­ranti, ma molto utili per il con­senso immediato.

Il governo ha sta­bi­lito una misura con­tro la povertà asso­luta. La ritiene suf­fi­ciente?
Ho letto con molto favore il com­mento di Mas­simo Bal­dini che ritiene che il tipo di stru­mento adot­tato sia quello giu­sto. Si va verso l’estensione del Soste­gno per l’Inclusione Attiva (Sia). Potrebbe essere un passo per un inter­vento di sistema con­tro la povertà, ma il pro­blema è che le risorse stan­ziate sono esi­gue.

Come mai la spen­ding review si è fer­mata a 5 miliardi, la metà di quanto annun­ciato dai com­mis­sari Gut­geld e Perotti?
Per­ché forse le stime erano gon­fiate. È molto dif­fi­cile tro­vare risparmi a regime che non impat­tino sui ser­vizi. La spen­ding review è uno stru­mento molto dif­fi­cile, biso­gna usarlo come un bisturi, farla poco alla volta, non si può pen­sare di rica­vare a bre­vis­simo ter­mine risul­tati così grandi.

Alla sanità saranno tagliati 2,3 miliardi e si pre­pa­rano 15 miliardi di tagli per il pros­simo trien­nio. Quali saranno le con­se­guenze?
Temo cat­tive. Ci saranno riper­cus­sioni sulla frui­zione del ser­vi­zio dei più deboli. Mi sem­bra che il governo pro­ceda rapi­da­mente per­ché vuole i risul­tati sui saldi. Il mio timore è che que­ste misure ridur­ranno le pre­sta­zioni soprat­tutto nelle aree dove il ser­vi­zio è meno effi­ciente e dan­neg­gerà anche un set­tore della medi­cina, quella pre­ven­tiva, che è molto impor­tante. È una situa­zione preoccupante.

Si parla di una pro­roga della decon­tri­bu­zione per le assun­zioni per una cifra dimez­zata rispetto al 2015. Cosa pensa degli effetti del Jobs act e quali risul­tati pro­durrà sull’occupazione al Sud?
Ci vuole molta cau­tela. Quelli sul lavoro sono inter­venti molto costosi e di que­sti tempi biso­gna pen­sarci con atten­zione. In alcuni casi pos­sono por­tare a occu­pa­zione che però col tempo sva­ni­sce. Ciò detto in que­sto momento non mi sento di attac­care que­ste misure per­ché oggi serve aumen­tare la com­po­nente di lavoro nella ripresa. Lo stru­mento decon­tri­bu­tivo può essere effi­cace. Le prime stime mostrano risul­tati sor­pren­denti anche al Sud.

Ma si tratta di pre­ca­riato e di lavoro a ter­mine.
Lo vedremo, si tratta di lavoro con le nuove regole. Per il momento non è detto che sia vera né l’una, nè l’altra ipo­tesi. Vedremo.

Basterà l’assunzione di 1500 ricer­ca­tori per recu­pe­rare il ter­reno per­duto dall’università?
Asso­lu­ta­mente no. Nella mano­vra l’articolo sui 500 «super-professori» rimanda a un prov­ve­di­mento attua­tivo che non cono­sciamo e rischia di creare scom­pi­glio tra chi ha par­te­ci­pato all’abilitazione e non ha avuto ancora il posto. Sem­bra poi che il governo sbloc­cherà gli sti­pendi fermi da anni, ma que­sto potrebbe pro­durre uno choc sui bilanci degli ate­nei che dovranno affron­tarlo con le risorse di prima. Nella sta­bi­lità man­cano risorse per affron­tare l’emergenza dram­ma­tica del diritto allo stu­dio. E poi c’è il dub­bio più grande di tutti: i nuovi mille ricer­ca­tori saranno distri­buiti in base alla valu­ta­zione della qua­lità della ricerca, cioè un cri­te­rio distri­bu­tivo che dà molto a poche uni­ver­sità e molto poco a tutte le altre. Que­sto prov­ve­di­mento aumenta mol­tis­simo la ten­denza alla bifor­ca­zione del sistema uni­ver­si­ta­rio, più del pas­sato. È una scelta pro­fon­da­mente sba­gliata. Sem­bra la rea­liz­za­zione della distin­zione tra ate­nei di serie A e B fatta da Renzi tempo fa. Un paese è forte se la sua uni­ver­sità è forte, non se conta solo su poche eccellenze.

Sin­da­cati e impren­di­tori si chie­dono dove sia finito il «master plan» pro­messo da Renzi per il sud. Esi­ste o non esi­ste?
Che io sap­pia esi­ste un tavolo di lavoro per defi­nire alcuni patti tra governo-regioni-città. Che cosa ci sia in que­sti patti non è dato sapere. Il rischio che ci siano le cose che già ci sono m a scritte in un altro modo. Sta di fatto che il piano annun­ciato da Renzi ad ago­sto nella legge di sta­bi­lità non c’è.

Il sot­to­se­gre­ta­rio alla pre­si­denza del Con­si­glio De Vin­centi sostiene che per il Sud ci saranno 11 miliardi di inve­sti­menti nel 2016.
Il governo ha chie­sto l’applicazione della clau­sola di fles­si­bi­lità sugli inve­sti­menti alla Com­mis­sione Euro­pea. Que­sta clau­sola per­mette di tenere fuori le risorse nazio­nali che cofi­nan­zino i fondi euro­pei. Que­sta misura ser­viva nel 2015 quando c’era da chiu­dere i vec­chi pro­grammi. Non sap­piamo se potrà essere appli­cata nel 2016. In più non si sa se die­tro que­sta acce­le­ra­zione ci siano pro­getti reali. Il timore è che l’annuncio serva solo per tenere buona l’Europa. Ci fac­ciano vedere l’elenco delle opere. Se esi­stono, tanto di cappello.
Per­ché il Sud, più di tutti, è stato col­pito dall’austerità?
Dal governo Monti in poi l’intervento pub­blico è cam­biato mol­tis­simo e in maniera oscura, con immensi impatti ter­ri­to­riali. Bloc­chi del turn over nella P.A., tagli alla sanità, alle regioni, al tra­sporto pub­blico, aumenti delle sovra­tasse comu­nali e regio­nali. Tutto que­sto ha col­pito in maniera dram­ma­tica il Sud. Oggi è neces­sa­rio un discorso molto alto su quali diritti di cit­ta­di­nanza ci pos­siamo per­met­tere con minori risorse pub­bli­che e come le rior­ga­niz­ziamo. Pro­ce­dendo invece così alla fine ci sarà un pezzo di paese che avrà diritti di cit­ta­di­nanza infe­riori a quei pochi che aveva prima della crisi. Non dico diamo più soldi al Sud. Più sem­pli­ce­mente dico che gliene stiamo dando molti di meno e que­sto non aiuta la ripresa economica.
«In un saggio di Sergio Flamigni la collaborazione tra ex Br ed esponenti democristiani per impedire una ricostruzione veritiera del sequestro». L'incognita aperta è la solita: a chi è giovato quell'assassinio? Chi ricorda il clima politico di quel tempo non ha dubbi.

La Repubblica, 26 ottobre 2016

Patto di omertà (Kaos) è molto più di un nuovo (ennesimo) libro sul caso Moro: è una lezione di metodo e una pietra d’inciampo. L’autore, Sergio Flamigni, ex senatore del Pci in cui ha militato sin dalla giovinezza, partigiano prima, poi giovanissimo dirigente forlivese, è il massimo esperto della vicenda, a cui si dedica da una vita, da quando entrò nella prima Commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto ( 1979-‘83). Instancabile “cercatore di verità”, come ama definirsi, fondatore del principale archivio italiano sul terrorismo, otto libri all’attivo (il più noto La tela del ragno), torna sulla vicenda e ripercorre le carte alle luce delle acquisizioni più recenti.

Perché – ecco il metodo- nel proliferare incontrollabile di pubblicistica interessata, memorie contraddittorie e dichiarazioni tardive, spesso su funzionari dello Stato ormai defunti (lo storico Gotor ha ben analizzato come il proliferare di narrazioni e testimonianze, solo in parte veritiere, comunque verosimili, sia funzionale all’oscuramento della verità sugli aspetti più indicibili del delitto), i documenti restano il riferimento imprescindibile, e vanno riletti e ristudiati nel tempo, con pazienza e umiltà.

C’è stato (e ancora resiste) un patto di omertà, tra ex esponenti di vertice delle Brigate Rosse e del potere democristiano: questa la tesi di fondo, ampiamente documentata, di Patto d’omertà . Lo scopo? Impedire una ricostruzione completa e veritiera del sequestro e omicidio di Aldo Moro, in cui trovino risposta i quesiti ancora aperti (Flamigni stila un elenco circostanziato delle lacune, gravissime: basti ricordare che ancora non si conosce l’identità di tutte le persone che spararono in via Fani).

Al posto della verità, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la collaborazione sotterranea tra figure chiave delle due parti (mentre all’esterno si sbandierava strumentalmente la retorica della “riconciliazione”, ricordate?) ha confezionato una ricostruzione lacunosa e in più punti falsa del caso Moro da dare in paso all’opinione pubblica, le cui architravi sono: (1) la strage di via Fani e i 55 giorni sono stati eseguiti e gestiti solo dalle Br, senza aiuti e complicità esterne; (2) non vi furono omissioni e manovre occulte all’interno degli apparati dello Stato durante i 55 giorni; (3) non vi furono trattative occulte.

Una versione di comodo sia per gli ex Br, perché salvaguardava i loro miti identitari della “purezza rivoluzionaria” e della “geometrica potenza”, sia per la Dc (Cossiga e Andreotti in testa), perché contrastava con le evidenze di un’insufficiente impegno governativo per salvare Moro. L’architrave della versione ufficiale, sdoganata grazie alla compiacenza, ahimè, di vari esponenti della magistratura coinvolti nei processi Moro, è il cosiddetto “memoriale Morucci” (passato dalla scrivania dell’allora presidente Cossiga prima di pervenire ai magistrati), che tradisce la propria natura mistificatoria sin dal nome: bisognerebbe chiamarlo infatti “memoriale Morucci-Cavedon”, perché è frutto di molti colloqui tra l’ex Br dissociato e Remigio Cavedon, giornalista, direttore del quotidiano Dc Il popolo e consulente personale di politici del calibro di Mariano Rumor, al punto che Morucci ammise di non saper più distinguere con precisione cosa fosse esclusivamente farina del proprio sacco (indigna leggere che il magistrato, anziché approfondire il punto, abbia lasciato correre).

La parte più consistente e appassionante del saggio di Flamigni è la meticolosa analisi testuale del documento, che mette in luce omissioni e falsità sulla base delle innumerevoli fonti scritte e orali accumulatesi nei decenni. L’altra sezione “scandalosa” e illuminante riguarda il contesto internazionale in cui maturò il delitto Moro: una dimensione senza cui esso è condannato a restare inintelligibile.

Ha il pregio della chiarezza, il libro di Flamigni. Grazie alla limpida cronologia sinottica degli avvenimenti e delle indagini dalla mattina del 16 marzo 1978 al ’97, quando l’ex capo delle Br Moretti ottenne la semilibertà, fornita in apertura, si presta ad essere letto e compreso anche da chi sa poco o nulla. Circoscrive le lacune e le omissioni documentali per poter ribadire quanto invece sappiamo per certo, a dispetto delle menzogne governative e brigatiste.

Per anni Flamigni è stato deriso, denigrato come un pazzo visionario, osteggiato con cause per diffamazione (da cui è sempre uscito vincente, anche contro Cossiga), adesso, dopo che i fatti gli hanno dato ragione su tutto (dalle carte rimaste nascoste in via Montenevoso all’esistenza di un “quarto uomo”, solo per citare le più clamorose “anticipazioni” scaturite dalle sue ricerche), il rischio è che la sua voce limpida sia sommersa dal rumore.

Mentre la nuova Commissione Moro, agli occhi degli addetti ai lavori, sembra dedita principalmente a confondere le acque e sfornare scoop di dubbia fondatezza con pretese di scientificità (clamorosa la “ricostruzione 3D” della strage di via Fani che fa a pugni con le perizie) che non a far procedere le conoscenze e dove, a dispetto delle direttive altisonanti del Governo sugli archivi del terrorismo, ancora non sono saltati fuori i verbali delle riunioni del comitato di crisi interforze attivo durante il sequestro (e pieno di affiliati alla P2), questo saggio è una preziosa pietra d’inciampo.

Sappiamo moltissimo, del caso Moro, e ciò che non sappiamo getta luce sull’“anatomia del potere italiano” (per citare un saggio di Gotor, altro caposaldo sulla vicenda) e le caratteristiche del terrorismo in Italia: Patto di omertà consolida e approfondisce il patrimonio di verità, insegna a ragionare e a non cedere allo scetticismo.

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Lo scopo era impedire una ricostruzione veritiera del sequestro e dell’omicidio

«Hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune».

La Repubblica, 26 ottobre 2015 (m.p.r.)

Chi ha vinto e chi ha perso nel Sinodo sulla famiglia? Molti ritengono che il Papa sia uscito rafforzato da questo difficile passaggio. Ma si tratta di una vittoria singolare. Se avesse voluto affermare la sua volontà, il Papa avrebbe potuto scegliere strumenti molto più efficaci di un Sinodo. Si è proposto, piuttosto, di promuovere un libero dibattito fra tante «opinioni diverse» da cui è scaturisse l’«immagine viva» di una Chiesa che non usa «moduli preconfezionati». Con l’applauso che ha accompagnato queste parole del suo discorso finale i vescovi hanno riconosciuto apertamente che l’obiettivo è stata raggiunto. Di sicuro, perciò, hanno perso quanti hanno avanzato il sospetto che Francesco volesse manipolare il dibattito per garantirsi esiti precostituiti. Ma far parlare tanti - anche chi non la pensa come te - è davvero una vittoria fuori dal comune.

È stato inoltre ipotizzato una pesante condizionamento della Curia sul dibattito sinodale. Ma una Curia, prevalentemente italiana, come quella dell’ultima fase del pontificato di Benedetto XVI oggi non esiste più. Proprio tra i suo collaboratori, Francesco ha trovato un convinto sostegno, come mostra l’efficace lavoro compiuto da padre Lombardi e da quanti sono stati in prima linea nelle tempeste mediatiche dei giorni scorsi. Si deve anche a loro se è uscito complessivamente sconfitto il “partito mediatico” - prevalentemente italiano - che ha lavorato intorno al monsignore gay, al rilancio della lettera dei tredici cardinali e allo strano falso del tumore del Papa e di cui hanno fatto parte anche giornali e televisioni che hanno usato questi “scoop” per far circolare l’ipotesi di un nuovo Vatileaks. Ma il Sinodo non è stato seriamente condizionato da questo “partito mediatico”.
Francesco, piuttosto, ha subito un’opposizione a viso aperto di curiali e non curiali, in gran parte non italiani, come l’australiano Pell, il gunineano Sarah, il tedesco Muller ecc. Non italiani sono stati anche gli artefici della convergenza che invece ha aperto la strada ad un esito condiviso, in particolare austriaci e tedeschi come i cardinali Shoenborn e Marx. Ma non si può dire che il Papa abbia vinto attraverso l’affermazione del suo partito: un “partito del Papa”, infatti, non esiste per il semplice motivo che Francesco non ha fatto nulla per crearlo.
Tutto ciò significa che Francesco vuole distruggere il potere del Papa? C’è chi ha visto in questo sinodo una vittoria delle Chiese locali sul controllo centrale. Indubbiamente, lo stesso Francesco ha usato il termine decentramento, commemorando l’istituzione dell’organismo sinodale voluta da Paolo VI nel 1965. Ma per lui decentramento è anzitutto quello che si realizza rispetto a se stessi. E le dinamiche di questo Sinodo hanno rilanciato l’importanza del Papa non solo quale garante dell’unità della Chiesa, ma anche come animatore di un cambiamento costante dei cattolici in sintonia con il cambiamento incessante dei tempi. Non è più tempo oggi di una dialettica tra conservatori e progressisti tutta interna alla logica della cristianità. Prevale piuttosto una dialettica tra le spinte autoreferenziali di una struttura ecclesiastica che cerca di conservare se stessa, non solo a Roma ma anche nelle diocesi di tutto il mondo, e spinte missionarie di una Chiesa in uscita, in cui spesso gli impulsi che vengono dal centro sono essenziali per dar voce alle domande non raccolte della periferia.
Chiedersi chi ha vinto e chi ha perso in questo Sinodo significa, insomma, scoprire quanto la Chiesa cattolica sia cambiata in soli due anni di pontificato di Francesco. Lo conferma anche l’impianto della relazione finale - simile a quello della Laudato Si - che si apre con un’analisi del contesto antropologico, sociale, economico in cui si colloca la famiglia oggi, condivisibile anche da parte di non credenti. Solo dopo aver messo a fuoco che la famiglia costituisce un cardine prezioso per tutta la società contemporanea, il testo si chiede che cosa la Chiesa può fare per aiutarla. Nessun modello di famiglia cristiana da imporre, ma piuttosto l’interrogativo su come mettersi al servizio della famiglia comunque questa si presenti: problematica, ferita, a tappe…
La vera battaglia che Francesco cerca di vincere è quella di spingere i vescovi ad andare incontro alla realtà e soprattutto, agli uomini e alle donne che li circondano: è questo lo scopo ultimo di un “discernimento” che non riguarda solo i divorziati.
«L’Africa non ha bisogno di aiuti, ma di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata». L'entità e le cause della crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri e tra bianchi e neri. La

Repubblica, 26 ottobre 2015

La fine dell’apartheid ha reso indubbiamente possibile l’uguaglianza formale dei diritti civili fondamentali, ma non ha consentito di ridurre la disuguaglianza abissale delle condizioni di vita. Una constatazione motivata in parte da fattori internazionali.

A poco più di vent’anni di distanza dalla fine dell’apartheid e dalle prime elezioni libere (1994), il Sudafrica si interroga più che mai sul problema delle disuguaglianze. La strage di Marikana, dove 34 minatori in sciopero per chiedere aumenti salariali erano stati massacrati dalla polizia, nell’agosto del 2012, continua a tormentare la coscienza del Paese. L’Anc (African National Congress), al potere senza interruzione dall’inizio della transizione democratica, ha reso possibile un’uguaglianza nei diritti civili fondamentali: il diritto di voto, il diritto di spostarsi liberamente sul territorio e di svolgere, teoricamente, tutte le professioni. Ma questa uguaglianza formale non ha consentito di ridurre l’abissale disuguaglianza delle condizioni di vita e dei diritti reali. Il diritto a un lavoro e a un salario dignitosi, il diritto a una scuola di qualità, il diritto di accedere alla proprietà, il diritto a una reale democrazia economica e politica. Il Paese si è sviluppato, la popolazione è cresciuta notevolmente, ma la promessa di uguaglianza non è stata mantenuta.

Secondo gli ultimi dati disponibili, il 10% più ricco si accaparra circa il 60-65% del reddito nazionale, contro il 50-55% in Brasile, il 45-50% negli Stati Uniti, il 30-35% in Europa. Peggio ancora: questo scarto estremo che separa il 10% in alto (composto ancora in larga maggioranza da bianchi) dal 90% in basso si è aggravato dopo la fine dell’apartheid. Questa triste constatazione si spiega in parte con fattori internazionali: la deregolamentazione e l’esplosione dei compensi nel settore finanziario (molto importante in Sudafrica), l’aumento delle quotazioni delle materie prime (che beneficia soprattutto una minuscola élite di bianchi), un dumping fiscal e sociale generalizzato. Ma si spiega anche con l’insufficienza delle politiche messe in atto dall’Anc: i servizi pubblici e scolastici disponibili nelle zone più disagiate rimangono di mediocre qualità; nessuna riforma agraria ambiziosa è mai stata realizzata, in un Paese dove i neri si erano visti sottrarre il diritto di possedere terre ed erano stati parcheggiati in riserve e township, dal Natives Land Act del 1913 fino al 1990; il patrimonio fondiario, immobiliare e finanziario resta largamente nelle mani dell’élite bianca, così come le risorse minerarie e naturali; le timide misure di empowerment economico della comunità nera, che mirano a costringere gli azionisti bianchi a cedere una quota delle loro azioni a neri, sulla base di transazioni volontarie ai prezzi di mercato, hanno beneficiato un’infima minoranza di neri che aveva già i mezzi (o le conoscenze politiche) per comprarle.

Risultato prevedibile: l’Anc è sempre più contestato a sinistra dal partito degli Economic Freedom Fighters (Eff), che propongono una serie di misure radicali: istruzione e previdenza sociale per tutti, ridistribuzione delle terre, nazionalizzazione delle risorse minerarie. La minoranza bianca è spaventata: la settimana scorsa una deputata bianca, una sorta di Nadine Morano locale, reclamava il ritorno dell’ultimo presidente dell’apartheid. Per riprendere in mano la situazione, l’Anc potrebbe introdurre, a partire dal 2016, un salario minimo nazionale e utilizzare questo strumento per ridurre le disuguaglianze, come fece il Brasile con Lula. Qualcuno pensa anche all’introduzione di un imposta progressiva sui capitali, per poter ridistribuire gradualmente il potere economico. Il progetto, già preso in considerazione fra il 1994 e il 1999, alla fine era stato abbandonato dall’Anc. Secondo l’ex presidente Mbeki, la polizia e l’esercito, tuttora guidati da bianchi, non l’avrebbero permesso.

Una cosa è certa: che si tratti di nazionalizzazione delle miniere, o di un qualsiasi progetto che costringa le multinazionali e i detentori di patrimoni a contribuire in misura più significativa di adesso alle casse dello Stato, il Sudafrica avrebbe bisogno della collaborazione dei Paesi ricchi, e non della nostra ipocrisia. L’élite finanziaria sudafricana lo ripete fino alla nausea: negli anni 80 eravamo costretti a negoziare, ma oggi possiamo facilmente trasferire i nostri fondi all’estero e nei paradisi fiscali. L’opacità del sistema finanziario internazionale è un autentico flagello per l’Africa: si calcola che il 30-50% delle attività finanziarie del continente si trovi in qualche paradiso fiscale. Eppure, se solo Europa e Stati Uniti decidessero di farlo sarebbe tecnicamente semplice creare un vero e proprio registro mondiale dei titoli finanziari. Come spiega Gabriel Zucman ne La richesse cachée des nations (Le seuil, 2014), basterebbe che le autorità pubbliche unificassero e prendessero il controllo dei depositari privati che attualmente svolgono questo ruolo. L’Africa non ha bisogno di aiuti: ha bisogno di un sistema legale internazionale che le consenta di non essere saccheggiata in permanenza.

(traduzione di Fabio Galimberti) L’autore è direttore didattico all’Ehess e professore alla Scuola di economia di Parigi

«Disoccupazione e disuguaglianza nell’accesso all’istruzione sfavoriscono ancora, 20 anni dopo la fine dell’apartheid, la maggioranza nera del Paese». Secondo

Il manifesto, 24 ottobre 2015

Tra gas lacri­mo­geni, gra­nate stor­denti, lanci di pie­tre e canti, è cul­mi­nata ieri davanti all’Union Buil­ding di Pre­to­ria — sede della Pre­si­denza della Repub­blica e degli uffici del Governo suda­fri­cano — la mega pro­te­sta degli stu­denti uni­ver­si­tari esplosa circa dieci giorni fa in un grande movi­mento a livello nazio­nale, pro­ba­bil­mente il più grande dalla fine dell’apartheid nel 1994.

Jacob Zuma non ha per ragioni di sicu­rezza incon­trato i mani­fe­stanti come pre­ce­den­te­mente annun­ciato, ma ha reso noto sulla tv di stato — dopo un incon­tro con i lea­der degli stu­denti, le auto­rità uni­ver­si­ta­rie e fun­zio­nari di governo — di aver con­ge­lato il piano degli aumenti delle tasse uni­ver­si­ta­rie per il 2016. Le prime dimo­stra­zioni con­tro il piano degli ate­nei di aumen­tare le tasse annuali sino all’11,5% a par­tire dall’anno pros­simo (e dun­que con­tro la deci­sione del governo di non inter­ve­nire con mag­giori finan­zia­menti a soste­gno dell’istruzione) sono scop­piate il 13 otto­bre scorso all’University of the Wit­wa­ter­srand (Wits) di Johannesburg.

Da allora le pro­te­ste (echeg­giate su Twit­ter sotto l’ashtag #Fee­sMust­Fall) hanno col­pito almeno altre 15 uni­ver­sità, costrin­gen­dole alla sospen­sione delle lezioni. A Johan­ne­sburg, migliaia di stu­denti della Wits e dell’University of Johan­ne­sburg hanno sfi­lato per le strade e si sono radu­nati davanti al Luthuli House, quar­tier gene­rale dell’African Natio­nal Con­gress (Anc) per con­se­gnare le loro richie­ste al segre­ta­rio gene­rale del par­tito al governo Gwede Man­ta­she. Nell’Eastern Cape, presso la Nel­son Man­dela Metro­po­li­tian Uni­ver­sity (Nmmu), la poli­zia ha spa­rato pro­iet­tili di gomma e gra­nate assor­danti per disper­dere gli stu­denti. A Cape Town, 23 stu­denti sono stati arre­stati mar­tedì scorso per aver bru­ciato pneu­ma­tici e eretto bar­ri­cate agli ingressi dell’università (Uct).

La rivolta è arri­vata anche, il giorno dopo, davanti alla sede del Par­la­mento a Cape Town, dove la poli­zia in assetto anti­som­mossa ha lan­ciato gas lacri­mo­geni e gra­nate stor­denti con­tro cen­ti­naia di stu­denti che ave­vano fatto irru­zione all’interno della recin­zione presso l’entrata prin­ci­pale dell’edificio per impe­dire al mini­stro della Finanze Nhla­n­hla Nene di illu­strare il bilan­cio prov­vi­so­rio dello Stato.

La dichia­rata esi­genza degli ate­nei uni­ver­si­tari di aumen­tare le tasse per poter assi­cu­rare i loro stan­dard for­ma­tivi non ha incon­trato la soli­da­rietà delle classi diri­genti al potere e la loro dispo­ni­bi­lità a mag­giori sov­ven­zio­na­menti ma ha tro­vato la rab­bia degli stdenti neri. A evi­den­ziarsi ancora una volta è la pro­ble­ma­tica mag­giore che fa da sfondo a tutte le altre in un Paese che arranca a rina­scere dalle ceneri del vec­chio regime dell’apartheid, vale a dire l’accesso equo e garan­tito all’istruzione. Le pro­te­ste di que­sti giorni in Suda­frica, lungi dal coin­vol­gere alcuna parte poli­tica, caval­cano un males­sere gene­rale della popo­la­zione che non può pre­scin­dere dalla divi­sione tra bian­chi e neri che ancora affligge la nazione arco­ba­leno. A mani­fe­stare e a difen­dere le loro ragioni con­tro un aumento delle tasse (non bilan­ciato con i red­diti delle fami­glie di pro­ve­nienza) che per mol­tis­simi signi­fi­che­rebbe la rinun­cia agli studi sono gli stu­denti neri (i bian­chi lo fanno per solidarietà).

Disoc­cu­pa­zione, povertà, dise­gua­glianza nell’accesso alle risorse eco­no­mi­che e all’istruzione sfa­vo­ri­scono ancora — più di vent’anni dopo la fine dell’apartheid — la mag­gio­ranza nera del Paese.

E restano figlie di poli­ti­che eco­no­mi­che ed edu­ca­tive che con­ti­nuano a rei­te­rarsi a svan­tag­gio delle classi più svan­tag­giate. Alla rab­bia degli stu­denti molti dei quali sono «born free» cioè nati liberi nel post-apartheid, la poli­zia e le classi dell’Anc al potere hanno oppo­sto gas lacri­mo­geni e pro­iet­tili di gomma susci­tando addi­rit­tura le pre­oc­cu­pa­zioni del dipar­ti­mento di stato ame­ri­cano che attra­verso il por­ta­voce John Kirby si è detto inten­zio­nato a con­ti­nuare a moni­to­rare la situa­zione. Imma­gini spe­cu­lari a quelle di un pas­sato mai del tutto sra­di­cato e che ripor­tano alla mente quelle, certo più dram­ma­ti­che e feroci, del mas­sa­cro nella town­ship di Soweto del 16 giu­gno del1976 quando la poli­zia aprì il fuoco con­tro 10 mila stu­denti neri che pro­te­sta­vano con­tro un decreto del regime di intro­durre l’Afrikaans nelle scuole come lin­gua obbligatoria.

Non è la prima volta che gli stu­denti scen­dono in piazza quest’anno per sol­le­vare que­stioni legate a divi­sioni raz­ziali ancora ben radi­cate. È quanto è suc­cesso ad aprile scorso con le pro­te­ste stu­den­te­sche che hanno gui­dato la cam­pa­gna di rimo­zione delle sta­tue di per­so­naggi sto­rici che hanno fatto la sto­ria del colo­nia­li­smo e dell’apartheid. E che ha visto cadere per prima quella di Cecil Rho­des (impe­ria­li­sta bri­tan­nico della fine dell’800), divelta dal soste­gno da cui per anni ha sovra­stato l’entrata dell’University of Cape Town (Uct).

P

A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.

Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53 stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla misura e sui limiti della progressione; non sul principio».

A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi). Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di sopportazione».

Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità e di coerenza con la Costituzione.

Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere, stimolando comportamenti virtuosi.

Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione, la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.

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Un'analisi inquietante ma corrispondente al vero delle complicità oggettive del rottamatore d'Italia. «Se a Renzi rie­sce di deva­stare il Paese, è perché in tanti ne sosten­gono varia­mente l’azione».

Il manifesto, 18 ottobre 2015

Dinanzi all’enormità di quanto sta acca­dendo occorre essere esi­genti sul ter­reno ana­li­tico. Com’è pos­si­bile che tutto que­sto avvenga? Chi ne è responsabile?

Certo, Renzi è oggi l’incontrastato pro­ta­go­ni­sta della scena poli­tica ita­liana. Chi si è a lungo baloc­cato col man­tra del poli­tico «senza visione» ricon­si­deri le deci­sioni assunte in que­sti venti mesi di governo .La buona scuola e il Jobs Act; le pri­va­tiz­za­zioni e i tagli alla spesa sociale; il for­sen­nato attacco al sin­da­cato; il com­bi­nato tra Ita­li­cum e deva­sta­zione iper-presidenzialista della Costi­tu­zione; l’occupazione mili­tare dei ver­tici Rai; lo scem­pio siste­ma­tico dei rego­la­menti par­la­men­tari; lo sdo­ga­na­mento di poli­tici pluri-inquisiti.

Tutto que­sto non sarà «visione», sarà sem­plice istinto, ma di certo non è dif­fi­cile leg­gervi una tra­iet­to­ria lineare di stampo auto­ri­ta­rio e thatcheriano.

Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cer­chio magico dei Lotti e dei Del­rio non potrebbe imporre al Paese il pro­prio dise­gno. Un discorso serio chiede a que­sto punto un’analisi attenta delle filiere di con­ni­venza e di com­pli­cità che gli per­met­tono di dila­gare con­so­li­dando il pro­prio potere e tra­sfor­mando pezzo dopo pezzo il sistema poli­tico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo ferire: senza con­flitti, senza resi­stenza né sostan­ziale oppo­si­zione su qual­si­vo­glia terreno.

Per un verso que­sto discorso guarda in alto, ai man­danti interni e inter­na­zio­nali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria pri­vata, ai ric­chi e ai grandi inve­sti­tori, agli alti gradi della diri­genza pub­blica. È gra­dito alle cor­po­ra­zioni pro­fes­sio­nali, ai corpi chiusi dello Stato, al pos­sente eser­cito degli eva­sori fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle cen­trali del potere euro­peo e atlan­tico, di cui non mette mai in discus­sione, se non a parole, inte­ressi e scelte.

Ma nem­meno tutto que­sto basta. Il ren­zi­smo non è una dit­ta­tura, ricatti e inti­mi­da­zioni non tol­gono che le isti­tu­zioni fun­zio­nino ancora in base alla rela­tiva auto­no­mia di ogni sin­gola arti­co­la­zione dello Stato e della società civile. E la stessa gran­cassa media­tica senza la quale il regime implo­de­rebbe non obbe­di­sce ai det­tami di un’occhiuta cen­sura gover­na­tiva. Insomma, i poteri alti sug­ge­ri­scono e pro­teg­gono, ma nean­che il loro appog­gio da solo baste­rebbe a garan­tire al capo del governo le con­di­zioni neces­sa­rie all’efficacia e alla con­ti­nuità di un’azione a suo modo «rivo­lu­zio­na­ria», nel senso della sov­ver­sione dell’ordinamento demo­cra­tico e costituzionale.

Dove guar­dare allora? Il sug­ge­ri­mento è quello di ripren­dere in mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine alla vita, un po’ il suo testa­mento spi­ri­tuale. Ne I som­mersi e i sal­vati i Lager sono con­si­de­rati un labo­ra­to­rio per l’analisi delle dina­mi­che di potere, un micro­co­smo in qual­che modo cor­ri­spon­dente all’intera società tede­sca. Ciò che col­piva Levi era il fatto che per­sino lì, nell’istituzione para­dig­ma­tica della vio­lenza bru­tale e della nega­zione dell’umano, il potere fun­zio­nasse anche gra­zie al sup­porto di una parte delle sue stesse vit­time. Che per­sino lì dove la fero­cia del potere mili­tare trion­fava, l’ordine era garan­tito anche dall’obbedienza, la quale impli­cava a sua volta una qual­che forma di con­senso, di con­ni­venza, di complicità.

In quel micro­co­smo «intri­cato e stra­ti­fi­cato» si ripe­teva «la sto­ria incre­sciosa e inquie­tante dei gerar­chetti che ser­vono un regime alle cui colpe sono volu­ta­mente cie­chi; dei subor­di­nati che fir­mano tutto, per­ché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma accon­sente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peg­giore di me”». In poche pagine Levi sti­lizza un’analisi delle moti­va­zioni (cor­ru­zione, viltà, dop­piezza, cal­colo oppor­tu­ni­stico) che indu­ce­vano la «classe ibrida» degli oppressi a col­la­bo­rare con l’oppressore. In que­sto senso (e sol­tanto in que­sto) la «zona gri­gia» dei kapos e delle Squa­dre spe­ciali del Lager cor­ri­spon­deva a quella assai più vasta dei cit­ta­dini tede­schi (ed euro­pei) che – senza l’attenuante dell’immediata minac­cia della vita – sosten­nero il regime nazi­sta, appro­fit­ta­rono dei pri­vi­legi che ne trae­vano e varia­mente coo­pe­ra­rono con i suoi crimini.

Lo schema è gene­rale e le dif­fe­renze, molto pro­fonde, non ingan­nino. A giu­di­zio di Levi il modello del Lager serve a indi­vi­duare ingre­dienti costanti delle dina­mi­che di potere. Serve a capire come il potere operi anche in una società coman­data da uno Stato tota­li­ta­rio. E serve a mag­gior ragione a com­pren­dere come esso fun­zioni in un Paese demo­cra­tico, dove la rela­zione poli­tica è carat­te­riz­zata da un tasso di vio­lenza incom­pa­ra­bil­mente minore. Se otte­nere con­senso era neces­sa­rio per­sino nel Lager, è evi­dente che senza con­senso non si potrebbe gover­nare una società come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco della vio­lenza e dove quindi è assai più com­pli­cato pre­ser­vare le gerar­chie costi­tuite e i rap­porti di forza.

Allora, per tor­nare a Renzi, dovremmo smet­terla di farne la nuova incar­na­zione del demo­nio assol­vendo in blocco chi gli per­mette di distrug­gere in alle­gria. Se a Renzi rie­sce di deva­stare il Paese, è per­ché in tanti ne sosten­gono varia­mente l’azione. I suoi com­pa­gni di par­tito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo luogo, non­ché quanti si osti­nano nono­stante tutto a votarlo. Gli alleati del suo Pd in seconda bat­tuta, nelle ammi­ni­stra­zioni e nelle varie sedi del sot­to­go­verno. E poi i diversi seg­menti della società civile – pezzi del sin­da­cato e del mondo coo­pe­ra­tivo; dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che bril­lano per con­corde silen­zio come se, via Ber­lu­sconi, qual­siasi pro­blema di demo­cra­zia e di giu­sti­zia sociale fosse per incanto risolto. È vero, ogni chia­mata di cor­reo è sgra­de­vole, tanto più se indi­scri­mi­nata. Ma la fur­be­sca col­la­bo­ra­zione col potere da parte dei subor­di­nati e per­sino degli oppressi è addi­rit­tura scan­da­losa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di nulla non ha pro­prio alcun senso.

Notizia interessante per quelli che invece del cervello hanno un portafoglio. «Il lavoro straniero vale 10 miliardi e paga le pensioni a 620 mila italiani. La Fondazione Moressa calcola il peso dei contributi previdenziali di oltre 2,3 milioni d’immigrati».

La Repubblica, 17 ottobre 2015

In Italia 620mila anziani devono ringraziare gli immigrati: sono loro a “pagargli” la pensione. Nell’ultimo anno infatti i lavoratori stranieri hanno versato ben 10,29 miliardi di euro in contributi previdenziali. Lo sa bene l’Inps: essendo prevalentemente in età lavorativa, i migranti sono soprattutto contribuenti. Non a caso, oggi la popolazione con più di 75 anni rappresenta l’11,9% tra gli italiani, solo lo 0,9% tra gli stranieri.

A pesare il tesoretto dei “nuovi italiani” è il Rapporto 2015 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, che verrà presentato il 22 ottobre a Roma.

Secondo le stime Istat, tra 10 anni gli stranieri supereranno quota 8 milioni, con un’incidenza del 13,1% sulla popolazione complessiva. Nel 2050, rappresenteranno un quinto della popolazione, mentre un italiano su quattro (23,1%) avrà più di 75 anni. «Dati che evidenziano il peso degli immigrati nel nostro Paese – sottolineano i ricercatori della Moressa – oggi, infatti, 1 italiano su 10 ha più di 75 anni; tra gli stranieri 1 su 100. In altre parole, nei prossimi decenni la popolazione italiana è destinata a invecchiare, mentre tra gli stranieri aumenteranno gli adulti in età lavorativa (oggi abbiamo 1 milione di minori)». E così già oggi il contributo economico dell’immigrazione si fa sentire soprattutto sui contributi pensionistici. «Contributi che vanno a sostenere il sistema nazionale del welfare (oltre alle pensioni, anche altri trasferimenti come maternità e disoccupazione) che si rivolge prevalentemente alla popolazione autoctona. Infatti, la voce “pensioni” è una delle voci principali della spesa pubblica nazionale e, vista l’età media, la popolazione straniera ne beneficia in misura molto marginale. Anzi, gli stranieri sono soprattutto contribuenti».

Grazie agli ultimi dati disponibili delle dichiarazioni dei redditi 2014 (anno di imposta 2013), la Fondazione Moressa fa una stima del contributo previdenziale dei nati all’estero. Nel tempo l’occupazione straniera nel nostro Paese è aumentata arrivando a quasi 2,2 milioni nel 2013 e 2,3 milioni nel 2014. Nel 2013 i loro contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,29 miliardi. «Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può affermare che i lavoratori stranieri pagano la pensione a 620mila anziani italiani. Inoltre – scrivono i ricercatori – sommando i contributi versati negli ultimi cinque anni si può calcolare il contributo degli stranieri dal 2009 al 2013 pari a 45,68 miliardi di euro, volume sufficiente per una manovra finanziaria».

Non è tutto. Il Rapporto 2015 elenca altri aspetti dell’immigrazione che incidono sull’economia del Paese. Il primo riguarda il Pil prodotto dai 2,3 milioni di occupati stranieri: un valore aggiunto di 125 miliardi, pari all’8,6% della ricchezza nazionale. A livello fiscale, i contribuenti stranieri hanno dichiarato nel 2014 redditi per 45,6 miliardi, versando 6,8 miliardi di Irpef. E ancora: le imprese condotte da persone nate all’estero sono 524.674 (8,7% del totale) e producono 94,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Nel periodo 2009/2014, gli imprenditori stranieri sono aumentati del 21,3%, mentre i nati in Italia sono diminuiti (-6,9%). «Infine – concludono gli studiosi della Fondazione – sebbene non sia possibile quantificare tutti i costi e benefici diretti e indiretti della presenza straniera, il confronto tra i flussi finanziari in entrata e in uscita aiuta a dare la dimensione dell’impatto economico dell’immigrazione: + 3,9 miliardi di saldo attivo per le casse dello Stato ».

Scava scava, i nemici più potenti di papa Francesco li trovi al vertice del potere globalizzato. C'era da aspettarselo.

La Repubblica, 14 ottobre 2015

LO chiamano «Papa argentino » per screditarlo. Per rimarcare la distanza, culturale e ideologica, fra loro e lui. Sono cardinali di curia e vescovi, certo, che tuttavia hanno dietro di loro anche gruppi di potere e di pressione precisi, consorterie fin dal 13 marzo del 2013 in-sofferenti verso il magistero sociale del Pontefice.

Ieri padre Federico Lombardi ha sminuito la portata deflagrante della lettera dei cardinali inviata a Francesco e pubblicata da L’Espresso . «Chi a distanza di giorni ha pubblicato la lettera ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai “firmatari”, almeno da alcuni dei più autorevoli», ha detto il portavoce vaticano. Che ha chiesto anche di «non lasciarsi condizionare», in quanto l’azione di disturbo è mossa da seconde linee. Eppure, l’effetto è il medesimo dei tempi di Vatileaks, quando le carte passavano da dentro il Vaticano e arrivavano fino ai media.
La vera pistola fumante del Sinodo, ha scritto non a caso il sito d’informazione Il Sismografo vicino alla Santa Sede, «è l’esistenza di una cordata di eminenti vaticanisti che hanno abbandonato il nobile mestiere dell’informazione per passare, con corpo e anima, a quello del velinaro (per di più maldestro)». Certo, per molti Oltretevere una differenza almeno apparente esiste fra l’ultimo periodo del pontificato di Ratzinger e oggi. Mentre allora c’erano cordate interne alla Santa Sede che si combattevano per ragioni di potere, oggi le posizioni eterogenee sembrano essere principalmente ideali, culturali. Ma, si chiedono nello stesso tempo ancora in Vaticano, può essere tanta insofferenza causata soltanto da posizioni divergenti sulla dottrina?

Per Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di I nemici di Francesco (Piemme) appena uscito, gli avversari del Papa sono anche coloro che lo screditano cercando di metterlo a tacere. «C’è una battaglia ideologica - dice -, questo è vero, condotta anche in buona coscienza. Tuttavia, in questi anni, dentro la curia c’è anche chi ha provato a rifilare a Francesco qualche polpetta avvelenata. Oltre al Sinodo e al recente caso del teologo omosessuale Charamsa, c’è stata la vicenda di un progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav - fondo di investimento a capitale variabile - in Lussemburgo. Il Papa se ne accorse all’ultimo momento e bloccò il progetto. Certo, non era niente di illegale, eppure l’immagine del Papa ne sarebbe stata compromessa. A significare che dentro c’è anche chi manovra per indebolire il carisma e la forza di Francesco».

Una tesi, quella di Scavo, che combacia, in parte, con quanto affermato da uno dei teologi sudamericani più vicini a Bergoglio, Leonardo Boff. Pur aperto sull’omosessualità - la visione dei vescovi che essa debba essere vissuta castamente «è riduttiva », ha affermato ad Oggi - il paladino della teologia della liberazione ritiene che dentro il Vaticano vi sia chi ordisce trappole contro il Papa. Boff pensa in particolare che dietro il coming out di Charamsa vi sia «una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al Papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno... Non si deve giocare per mettere il Papa alle strette».

Francesco dà l’impressione di sapere bene chi sono gli amici e chi i nemici. E che se c’è chi lo ama e lo segue, vi è anche chi farebbe volentieri a meno di lui. Nello stesso tempo, tuttavia, non vuole cedere alle teorie cospirative, all’idea che il Vaticano sia un covo di serpi. Eppure, spiega Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis, «è questo il momento più visibile e temerario nella lotta condotta da parte dell’establishment ecclesiastico contro di lui». E ancora: «Fin dal marzo 2013 si era percepito il montare della resistenza al pontificato, e si sapeva che il Sinodo dei vescovi era il punto chiave. Il fatto che la lettera sia stata consegnata al Papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, è prova che si tratta di un’iniziativa coordinata ben prima dell’inizio dell’assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla “ermeneutica cospirativa” del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita in America, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l’altro al Papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i sinodi per finta di Papa Wojtyla e Papa Ratzinger». In sostanza si riferisce al caso del saluto ricevuto presso l’ambasciata di Washington da parte di Kim Davis, l’impiegata comunale del Kentucky che ha rifiutato la licenza matrimoniale a diverse coppie gay, e che per questo è stata arrestata. La Davis, e parte del mondo conservatore statunitense, ha fatto passare questo saluto come un appoggio papale alle sue battaglie anti gay.

Chi ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera al Papa critica sui lavori del Sinodo è il cardinale australiano George Pell. Zar dell’economia vaticana, ha posizioni dure sulle aperture papali. Ritiene che concedere l’eucaristia ai divorziati risposati sia un male. Una posizione simile a quella di altri firmatari della lettera, fra cui il cardinale Robert Sarah per il quale pensare di dare l’eucaristia ai divorziati è opera del Maligno. La costituency di Pell è quella della finanza americana. Ritenuto vicino ai potenti Cavalieri di Colombo, quando deve tenere una conferenza va sempre al Pontifical North American College sul Gianicolo, il luogo in cui i circuiti curiali finanziari americani danno sfoggio di sé nella capitale. Così anche altri due cardinali firmatari della lettera: Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston- Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capo dei vescovi Usa.

Gran parte dell’opposizione mossa a Francesco viene dal mondo conservatore nord americano. È ancora Scavo, nel suo volume, a ricordare che a sostenere le battaglie dei “neocon” anti-Bergoglio ci sono uomini come Dick Cheney e capitali come quelli messi a disposizione dalla Halliburton. Scrive Scavo: «Bastano questi due nomi per farsi un’idea precisa degli ambienti “antipapisti” a stelle e strisce da cui partono alcuni degli attacchi a Bergoglio su vari fronti: economia, teologia, visione geopolitica ». Cheney è l’uomo ombra dell’American Enterprise Institute, di cui è stato vicepresidente e nel quale mantiene incarichi direttivi sua moglie Lynne, già consigliere d’amministrazione di Lockheed Martin, il principale produttore mondiale di sistemi di difesa: dai velivoli caccia ai missili a testata nucleare, dai radar ai blindati per il trasporto delle truppe.

Sulla rottamazione della Costituzione un commento di Norma Rangeri e la cronaca di Andrea Fabozzi.

Il manifesto, 14 ottobre 2015

LO SPIRITO INCOSTITUENTE
di Norma Rangeri

Il vice­pre­si­dente della Lom­bar­dia, arre­stato ieri per cor­ru­zione, è stato dav­vero sfor­tu­nato. La magi­stra­tura è inter­ve­nuta, pur­troppo per lui, prima che il nuovo Senato dei con­si­glieri regio­nali diven­tasse realtà. Per­ché tra i tanti obbro­bri che il governo del “fare” vor­rebbe rega­larci con il Senato delle regioni c’è appunto quello di un ramo del Par­la­mento for­mato dalla classe poli­tica più squa­li­fi­cata del nostro paese. Ma pro­tetta, domani, dall’immunità.

La nuova Costi­tu­zione di Renzi e Ver­dini ha tagliato un impor­tante tra­guardo. Con la bene­di­zione di Napo­li­tano. L’ex Pre­si­dente della Repub­blica, «il vero padre di que­sta riforma», secondo la mini­stra Boschi, è inter­ve­nuto per bene­dire la sua crea­tura. In fondo rico­no­scen­dovi quella “grande riforma” dise­gnata da Craxi ai vec­chi tempi della Prima Repubblica.

Con il voto finale alla prima let­tura del pro­getto con­tro­ri­for­ma­tore si mette agli atti lo “spi­rito inco­sti­tuente” che ha segnato que­sti lun­ghi mesi di for­sen­nato attacco alla nostra Carta costi­tu­zio­nale. A par­tire dall’anomalia, scon­si­de­rata, di essere una revi­sione della legge fon­da­men­tale ori­gi­nata non da un’iniziativa par­la­men­tare, ma da una pro­po­sta di governo.

Anzi, e più pre­ci­sa­mente, dalla volontà di un pre­si­dente del con­si­glio e “capo” di un par­tito i cui elet­tori non sono mai stati chia­mati a pro­nun­ciarsi su que­sto pro­getto di mano­mis­sione della Costituzione.

Al con­senso par­la­men­tare e elet­to­rale sono stati pre­fe­riti i patti del Naza­reno e i suc­ces­sivi accordi con quei galan­tuo­mini di Verdini&Co. Con le con­ti­nue, ripe­tute for­za­ture dei rego­la­menti par­la­men­tari det­tati e pie­gati ai tempi impo­sti dall’esecutivo. Uno stra­vol­gi­mento delle regole della discus­sione per­fet­ta­mente coe­rente con i con­te­nuti della riforma.

Prin­ci­pal­mente fina­liz­zata alla crea­zione di un pre­mie­rato senza con­trap­pesi, come in nes­sun paese euro­peo. Dise­gnato sulla silhouette di quello che nel suo inter­vento in dis­senso dal gruppo del Pd, Wal­ter Tocci ha defi­nito «il dema­gogo che potrà fare quello che vuole».

Del resto, di essere il domi­nus anche del futuro potere legi­sla­tivo que­sto pre­si­dente del con­si­glio se ne fa vanto («le riforme si fanno, l’Italia cam­bia, avanti tutta più decisi che mai»). Con moti­va­zioni di bassa lega (meno sena­tori, meno costi della poli­tica) e disprezzo per le mino­ranze, a comin­ciare da quelle del suo par­tito. Ber­sani e i fedeli della “ditta” hanno maso­chi­sti­ca­mente scelto di farsi umi­liare fino a votare la tra­sfor­ma­zione del Par­la­mento in cassa di riso­nanza dei pic­coli Cesare. Di oggi e di domani.

La prima pagina del mani­fe­sto di ieri, con il docu­mento fir­mato dai sei illu­stri costi­tu­zio­na­li­sti (Rodotà, Vil­lone, Azza­riti, Car­las­sare, Pace e Fer­rara) è entrata nell’aula di palazzo Madama gra­zie alla sena­trice di Sel, Lore­dana De Petris, che ne ha illu­strato il senso davanti all’assemblea.

Il docu­mento spiega per­ché e come, que­sta riforma, nell’abbinamento con la nuova legge elet­to­rale, costi­tui­sce una tor­sione auto­ri­ta­ria delle isti­tu­zioni, in defi­ni­tiva della demo­cra­zia par­la­men­tare: «Uno stra­vol­gi­mento dell’impianto della Costi­tu­zione del ’48, sulla sovra­nità popo­lare, sulla rap­pre­sen­tanza, sulla par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, sul diritto di voto».

Tut­ta­via ancora non è stata scritta la parola definitiva.Se si veri­fi­che­ranno le con­di­zioni per poterci espri­mere in un refe­ren­dum, saremo chia­mati, come già nel 2006, a una grande bat­ta­glia che potrà farci sve­gliare dall’incubo can­cel­lando que­sto frutto avve­le­nato del renzismo.

Va comun­que preso atto che il pre­si­dente del con­si­glio sta segnando punti a suo favore: gra­zie alla forza dei numeri e agli squal­lidi tra­sfor­mi­smi, vince. Però non con­vince. Per lui con­tano le ban­die­rine della con­qui­sta, come quelle che accom­pa­gna­rono la mar­cia trion­fale di Ber­lu­sconi. Ma Renzi sta facendo anche terra bru­ciata nel suo par­tito, per­ché ne sta distrug­gendo quel poco che resta della sua storia.

RIFORMARE LA RIFORMA
IL SENATO LA APPROVA
di Andrea Fabozzi

Senato. Il padre della nuova costituzione Napolitano mette la sua firma in aula. E renzianamente aggiunge: perfetta non poteva essere, adesso facciamo attenzione agli equilibri con l’Italicum. Le opposizioni non partecipano al voto. Il governo supera facilmente la soglia dei 161 voti, ma per la maggioranza assoluta sono necessari i transfughi

Cen­to­set­tan­totto voti, anzi 179 per­ché la cam­pio­nessa Josefa Idem, appena rien­trata dalla malat­tia, ha sba­gliato a votare «e mi scuso per i giorni in cui sono man­cata». È una mag­gio­ranza asso­luta larga, 18 voti sopra la soglia che sarà obbli­ga­to­rio rag­giun­gere nella seconda e defi­ni­tiva let­tura della riforma costi­tu­zio­nale che il senato potrà fare a par­tire dal pros­simo 14 gen­naio. Se, com’è pro­ba­bile, la camera non toc­cherà una vir­gola dei sei arti­coli del dise­gno di legge che dovrà rie­sa­mi­nare entro la fine dell’anno, ses­sione di bilan­cio permettendo.

Il governo è in trionfo, ma i numeri dimo­strano che i voti dei tran­sfu­ghi del cen­tro­de­stra sono indi­spen­sa­bili. A par­tire dal gruppo Ver­dini, con i suoi 13 sena­tori ieri tutti pre­senti, pas­sando per la cop­pia ex for­zi­sta Repetti-Bondi, i tre su dieci del resi­duo Gruppo Gal fino ai due sena­tori che non mol­lano Forza Ita­lia ma nean­che Renzi. In tutto venti voti deci­sivi per sca­val­lare la soglia di sicurezza.

Nel Pd la minoranza dei trenta che furono è stata completamente riassorbita.

E gra­ziata da Cal­de­roli, che non ha letto in aula gli sms degli ex bar­ri­ca­deri — il leghi­sta ha rin­no­vato la minac­cia: «Li met­terò in un libro, ne ho rice­vuti anche dal governo». Alla fine nel par­tito del pre­si­dente del Con­si­glio solo in quat­tro non hanno votato la riforma: Tocci e Mineo con­trari, Cas­son aste­nuto e la sena­trice Amati assente. Ma soprat­tutto è arri­vato l’annunciato voto di Gior­gio Napo­li­tano, che ha spie­gato di non essere inter­ve­nuto nei giorni del dibat­tito «per­ché mi è sem­brato più appro­priato». Ma quando si con­tano i voti, eccolo. L’ex pre­si­dente della Repub­blica è l’unico sena­tore a vita a votare, l’altra pre­sente, la sena­trice Cat­ta­neo da lui nomi­nata, è con­tra­ria alla riforma e si astiene.

Quando entra nell’emiciclo, bastone a destra e borsa da lavoro a sini­stra, il sena­tore Napo­li­tano schiva l’imbarazzante Barani, appena riam­meso in aula dopo la sospen­sione per gestacci, e si dirige verso l’amico Ser­gio Zavoli. Sta par­lando la pre­si­dente del gruppo misto, la sena­trice di Sel Lore­dana De Petris che in quel pre­ciso momento legge le prime righe dell’articolo dei costi­tu­zio­na­li­sti pub­bli­cato ieri dal mani­fe­sto. Napo­li­tano gira alla larga e cerca un posto nella prima fila, rapido glielo cede Casini. La mini­stra Boschi l’ha rico­no­sciuto padre della nuova Costi­tu­zione ma aven­dolo lì governo e Pd si mostrano timidi, prima del voto non cor­rono a far­gli la ruota.

Lasciano così spa­zio a Ver­dini, il quale sa come si con­qui­sta l’attenzione. L’ex brac­cio destro di Ber­lu­sconi piomba dai ban­chi in alto a destra dove ha trin­ce­rato i suoi e si inventa un omag­gio all’ex pre­si­dente, un saluto fatto di poche parole e molte foto­gra­fie. Nel frat­tempo tocca inter­ve­nire pro­prio ai ver­di­niani e prende la parola un sena­tore qual­siasi. Gli ex squa­li­fi­cati Barani e D’Anna non solo non par­lano ma ven­gono fatti sedere in modo da non entrare nella diretta tv.

Quando tocca a Napo­li­tano, che inter­viene a nome del gruppo delle auto­no­mie al quale si è iscritto appena sceso dal Colle, spunta il sena­tore Sci­li­poti, disdi­ce­vole rap­pre­sen­tante del tra­sfor­mi­smo quando il tra­sfor­mi­smo era disdi­ce­vole. Ormai è l’ultimo dei ber­lu­sco­niani e piazza sul banco di Napo­li­tano, a coprir­gli il testo dell’intervento, un foglio dove si legge «2011». Rife­ri­mento alla sto­ria del «golpe» del Colle, Monti a palazzo Chigi al posto di Ber­lu­sconi. I com­messi lo brac­cano, Sci­li­poti con­se­gna il foglio, poi ne tira fuori un altro dalla tasca. E via così tre volte, fino a che si placa e Napo­li­tano attacca. L’aula si fa silen­ziosa e anche piut­to­sto vuota, per­ché già i leghi­sti sono andati via sven­to­lando costi­tu­zioni e olio di ricino, poi quelli del Movi­mento 5 sfi­lano in muta pro­te­sta per non sen­tire l’ex pre­si­dente. E nel silen­zio comin­cia a squil­lare un tele­fono sugli abban­do­nati ban­chi leghi­sti, per cui i primi cin­que minuti di Napo­li­tano somi­gliano a quelli di C’era una volta in Ame­rica. Fino a che il tele­fono tace e si può sen­tire Napo­li­tano par­lare di sé stesso, di quello che ha fatto al Qui­ri­nale, di quello che aveva detto nel primo giu­ra­mento, della com­mis­sione di saggi che aveva bene­detto. Imme­dia­ta­mente dopo parla Qua­glia­riello che è giu­sto uno di quei saggi e comin­cia — ce ne fosse biso­gno — con una cita­zione di Napolitano.

Ma è pro­prio Napo­li­tano che, ina­spet­ta­ta­mente, avverte: «Biso­gnerà dare atten­zione a tutte le pre­oc­cu­pa­zioni espresse in que­ste set­ti­mane in mate­ria di legi­sla­zione elet­to­rale e di equi­li­bri costi­tu­zio­nali». Stiamo facendo una prova? È un invito a tor­nare indie­tro sulla legge elet­to­rale che pro­prio lui ha bat­tez­zato? Un inci­ta­mento a tor­nare al pre­mio per le coa­li­zione? Fio­ri­scono ipo­tesi, ma non è il caso di imma­gi­nare chissà quale piano. L’ex capo dello stato argo­menta ormai da ren­ziano. Que­sta riforma può non essere per­fetta, rico­no­sce il suo «padre» nel momento cui mette il sigillo, ma quello che ci ha fer­mato fino a qui «è stata la defa­ti­gante ricerca del per­fetto o del meno imper­fetto». Renzi avrebbe detto: «Si può essere o meno d’accordo su ciò che siamo facendo, ma lo stiamo facendo», e infatti l’ha detto.

A pro­po­sito di fare, appena com­ple­tato il pas­sag­gio trion­fale della riforma, il governo ha dovuto ammet­tere che alcune norme tran­si­to­rie pro­prio non stanno in piedi. Invece di rin­viare alla camera le cor­re­zioni, Grasso ha con­cesso di modi­fi­care il testo come «coor­di­na­mento». Rapida alzata di mano e via. Tutti ad abbrac­ciare Napolitano.

Il giorno stesso in cui re Matteo vince la sua battaglia contro la Costituzione repubblicana, decide di rilanciare l'evasione fiscale. Accontenta così una parte consistente del suo popolo, scavalcando a destra il povero Silvio.

La Repubblica, 14 ottobre 2015

«Sono maturi i tempi per l’utilizzo della moneta elettronica. Incrementarla ha un impatto positivo sulla riduzione del sommerso e sull’evasione fiscale, oltre che sul costo di gestione del contante che è di 4 miliardi l’anno per il settore bancario e 8 miliardi l’anno per il sistema Paese». Parole precise e nette di Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, pronunciate giusto un anno fa dinanzi alla commissione parlamentare di Vigilanza sull’anagrafe tributaria. «L’economia sommersa vale tra 255 e 275 miliardi e dunque tra il 16,3 e il 17,5% del Pil, sono dati preoccupanti», aggiungeva la Orlandi. «Il contante, in quanto mezzo anonimo e non tracciabile, alimenta le possibilità di sviluppare economia sommersa, di conseguenza la riduzione del contante rappresenta una delle chiavi per la lotta all’evasione». Più chiaro di così.

Eppure il governo Renzi triplicherà la soglia per il cash dal 2016. In un paese in cui l’82% delle transazioni e il 67% del loro valore si muove ancora sulla carta frusciante e in cui l’alfabetizzazione digitale e finanziaria stenta, ma cresce piano e andrebbe incoraggiata. «C’è resistenza», diceva la Orlandi. «Negli ultimi anni non abbiamo incrementato i sistemi di pagamento elettronico, mentre tutti gli altri paesi sì». Ricordando pure che i cittadini non traggono benefici dall’aumento della tracciabilità, «con poche eccezioni», e quindi non sono stimolati a strisciare carte e bancomat. O, in un futuro vicino, lo smartphone. L’eccezione sono i lavori in casa per ristrutturare o efficientare. I bonus generosi a loro abbinati, che scattano solo dietro bonifico parlante, hanno portato all’emersione di una base imponibile di tutto rispetto: 28 miliardi nel 2013, altri 28 miliardi e mezzo nel 2014, 24 miliardi previsti per quest’anno. La tracciabilità incentivata paga.

Perché allora la decisione del governo? Perché rinunciare «a una delle chiavi per la lotta all’evasione», al “pagare tutti per pagare meno”? «Servirà a dare una spinta ai consumi e sarà comunque tutto tracciato», si giustifica Renzi. «È ovvio che quanto più bassa è la soglia dell’uso contante, tanto più compli- cate sono le forme dell’evasione», ragiona Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e del Tesoro. «Io l’avevo fissata a 100 euro quando ero nel governo Prodi e la porterei ora a 500 euro, il taglio massimo dell’euro. Ma il punto non è tanto il ruolo anti-evasione del tetto di tracciabilità, quanto per l’Italia il pericolo di riciclaggio. È da irresponsabili scherzare su queste cose, trovo questa decisione estremamente preoccupante ».

Molti invece esultano. Politicamente Ncd, Area Popolare e Scelta Civica, su tutti. Poi le categorie: Confesercenti, Confcommercio, Codacons, Federalberghi, Federgioco («consentirà ai nostri casinò di allinearsi con le case da gioco estero»), Federturismo («un segnale forte») e Confturismo. Invocano invece un ritorno allegro a evasione, riciclaggio, nero e sommerso sindacati e minoranza Pd. E gli italiani come la pensano? Secondo un’indagine Isfol Plus, condotta da Emiliano Mandrone, il 60% dei cittadini è disponibile ad abbandonare il contante, con un picco tra lavoratori dipendenti, laureati, benestanti, attivi socialmente e culturalmente. Anche Bankitalia, in diversi papers, sottolinea un legame indiscutibile tra cash ed economia sommersa. Tesi da sempre condivisa dal ministro Padoan che neanche dieci giorni fa esultava da Lussemburgo per l’accordo europeo sullo scambio automatico di informazioni: «Ci sono le basi per un forte recupero dell’evasione, di lotta all’elusione ». Nel mirino le multinazionali che lucrano vantaggi spostando sedi fiscali. E in Italia? Si alza la soglia.

Terribile l'oscuramento che i massmedia hanno gettato su un progetto, in corso d'attuazione che si propone di far prevalere le convenienze economiche delle imprese rispetto a tutte le regole che tutelano il lavoro, la salute, l'ambiente, la stessa democrazia. Per fortuna qualcuno reagisce.

Comune.info, 12 ottobre 2015
Sabato 10 ottobre 250mila persone provenienti da tutta Europa hanno dato vita a Berlino a una grande manifestazione aprendo così la settimana di mobilitazione internazionale contro il T-tip, il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti, che Usa e Ue stanno negoziando dal luglio 2013.

Nei prossimi giorni centinaia di iniziative si svolgeranno in tutte le città d’Europa, mentre sono oltre 3,2 milioni le firme di cittadini consegnate alla Commissione Europea.

Si apre una fase decisiva per quello che si profila come il più grande trattato di libero scambio del pianeta, nonché il nuovo quadro legislativo globale, cui tutti, volenti o nolenti, dovranno conformarsi. La pressione delle multinazionali e dei governi spinge perché si arrivi ad una bozza di accordo prima che negli Stati Unitiinizi la campagna elettorale delle presidenziali (previste nel novembre 2016), e la recente approvazione dell’omologo negoziato sul versante Pacifico (Tpp) ha galvanizzato le truppe di quanti vogliono trasformare lo stato di diritto in stato di mercato e realizzare l’utopia delle multinazionali: unico faro della vita economica, politica e sociale devono essere i profitti, cui vanno sacrificati tutti i diritti del lavoro e sociali, i servizi pubblici, i beni comuni e la democrazia.

Il T-tip è solo l’ultimo di una serie di processi messi in moto dagli anni ’90 del secolo scorso, quando la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio diedero un forte impulso alla globalizzazione neoliberale e resero stringente l’esigenza da parte delle grandi multinazionali e dei governi dei Paesi più ricchi del pianeta di costruire un accordo globale per la liberalizzazione assoluta degli investimenti in tutti i settori economici, consentendo alle multinazionali di dispiegare la loro azione a piacimento sull’intero pianeta, senza lasciare a governi e popolazioni alcuno strumento per condizionarne lo strapotere. Nacquero così in successione: il negoziato per l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (Mai) e l’Accordo Generale sul Commercio dei Servizi all’interno dellaWto (World Trade Organization), come pure, a livello europeo, la direttivaBolkestein; tutti tentativi falliti, grazie alla forte mobilitazione dei movimenti sociali globali, capaci di mettere in stallo l’intero sistema di grandi eventi per produrre grandi accordi. Da allora il quadro si è modificato e, nel tentativo di far rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta, governi e multinazionali hanno iniziato a produrre una miriade di accordi bilaterali o su piccola scala regionale.

Ed ora, approfittando della crisi economico-finanziaria globale, ritentano la scala più ampia: il T-tip, infatti, per la dimensione geopolitica – due continenti – ed economica – quasi il 60 per cento del Pil mondiale- vuole diventare l’accordo quadro, cui tutto il pianeta, volente o nolente, dovrà conformarsi. Il negoziato, che, nelle intenzioni di Usa e Ue, avrebbe dovuto concludersi nella più assoluta segretezza nel dicembre 2014, è in realtà ancora lontano dalla meta: il prossimo round, fissato nei giorni 19-23 ottobre a Miami, parte da un empasse su quasi tutti i tavoli di lavoro (dall’Isds, ovvero lo strumento di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati, che darebbe alle prime un potere assoluto, ai capitoli sull’agricoltura; dai servizi pubblici alle normative sugli appalti), mentre di qua e di là dall’Atlantico cresce ogni giorno di più la mobilitazione sociale per il ritiro senza se e senza ma del trattato. E tuttavia il tentativo di regalare l’intero pianeta alle multinazionali è serio e verrà perseguito fino in fondo, perché è su di esso che si gioca la battaglia tra la prosecuzione di un modello in piena crisi sistemica e una drastica inversione di rotta. Infatti, le enormi masse di denaro accumulate sui mercati finanziari in questi decenni hanno stringente necessità di essere investite in nuovi mercati: da qui la drastica riduzione dei diritti sul lavoro e la necessità di trasformare in merci i beni comuni, costruendo business ideali, perché regolati da tariffe e flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, con titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi. Un banchetto perfetto.

Ma con un problema: l’applicazione delle politiche di austerity, paese per paese e governo per governo, suscita ribellioni e mobilitazioni destinate ad aumentare nel tempo e a determinare possibili cambiamenti nel quadro politico, rendendo instabile l’intero continente europeo. Il T-tip serve esattamente a questo scopo: ade-storicizzare le politiche liberiste, trasformandole nel nuovo quadro giuridico oggettivo, all’interno del quale possono senz’altro convivere tutte le opzioni politiche possibili, a patto che non lo rimettano in discussione.

Per questo la battaglia per fermare il T-tip deve diventare prioritaria per tutti i movimenti: vincerla significherebbe infatti assestare un colpo mortale a questo disegno e iniziare a prefigurare la possibilità di un altro modello sociale. In Italia e in Europa.“O la borsa o la vita!” intimavano secoli or sono i briganti ai passanti che per sventura incappavano nella medesima direzione di marcia. “O la Borsa o la vita!” intimano oggi meno romantici e ben più feroci filibustieri del capitale finanziario internazionale. Si tratta semplicemente di scegliere la vita. Tutti assieme, la vita.

«Lettera del leader palestinese in prigione e Membro del Parlamento, detto il Mandela palestinese. “Nes­sun popolo accet­te­rebbe di con­vi­vere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo ane­lare, lot­tare, sacri­fi­carsi per la libertà. E la libertà del popolo pale­sti­nese è in grave ritardo”».

Il manifesto, 13 ottobre 2015 (m.p.r.)

L’esca­la­tion di vio­lenze non è comin­ciata con l’uccisione di due coloni israe­liani, è comin­ciata molto tempo fa ed è andata avanti per anni. Ogni giorno ci sono Pale­sti­nesi uccisi, feriti, arre­stati. Ogni giorno che passa, il colo­nia­li­smo avanza, l’assedio del nostro popolo a Gaza con­ti­nua, oppres­sioni e umi­lia­zioni si sus­se­guono. Men­tre molti oggi ci vogliono schiac­ciati dalle pos­si­bili con­se­guenze di una nuova spi­rale di vio­lenza, io con­ti­nuerò, come ho fatto nel 2002, a chie­dere di occu­parsi delle cause che stanno alla radice della vio­lenza: il rifiuto della libertà ai Palestinesi.

Alcuni hanno detto che il motivo per cui non si è rag­giunto un accordo di pace è stata la man­cata volontà del defunto Pre­si­dente Yas­ser Ara­fat o l’incapacità del Pre­si­dente Mah­moud Abbas, men­tre sia l’uno che l’altro erano dispo­sti e capaci di fir­mare un accordo di pace. Il vero pro­blema è che Israele ha scelto l’occupazione al posto della pace ed ha usato i nego­ziati come una cor­tina di fumo per por­tare avanti il suo pro­getto colo­niale. Tutti i governi del mondo cono­scono que­sta sem­plice verità, eppure molti di loro fanno finta che un ritorno alle ricette fal­lite del pas­sato ci potrebbe per­met­tere di rag­giun­gere libertà e pace. Fol­lia è con­ti­nuare a fare sem­pre la stessa cosa e aspet­tarsi che il risul­tato cambi. Non ci può essere nego­ziato senza un chiaro impe­gno di Israele a riti­rarsi com­ple­ta­mente dal ter­ri­to­rio pale­sti­nese che ha occu­pato nel 1967 (tra cui Geru­sa­lemme), una com­pleta ces­sa­zione di tutte le pra­ti­che colo­niali, il rico­no­sci­mento dei diritti ina­lie­na­bili dei Pale­sti­nesi, com­preso il loro diritto all’autodeterminazione e al ritorno, la libe­ra­zione di tutti i pri­gio­nieri pale­sti­nesi. Non pos­siamo con­vi­vere con l’occupazione, e non ci arren­de­remo all’occupazione.

Ci si esorta ad essere pazienti e lo siamo stati, offrendo occa­sioni e occa­sioni per rag­giun­gere un accordo di pace, dal 2005 ad oggi. Forse val la pena ricor­dare al mondo che, per noi, espro­pria­zione, esi­lio for­zato, tra­sfe­ri­mento e oppres­sione durano ormai da quasi 70 anni e che noi siamo l’unico pro­blema bloc­cato nell’agenda dell’Onu dalla sua fon­da­zione. Ci è stato detto che se ci affi­da­vamo a metodi paci­fici e alla strada della diplo­ma­zia e della poli­tica, ci saremmo gua­da­gnati l’appoggio della comu­nità inter­na­zio­nale per porre fine all’occupazione. Eppure, come già era avve­nuto nel 1999 alla fine del periodo di inte­rim, la comu­nità inter­na­zio­nale non ha intra­preso alcuna azione signi­fi­ca­tiva, come ad esem­pio costi­tuire una strut­tura inter­na­zio­nale per appli­care la legge inter­na­zio­nale e le riso­lu­zioni dell’Onu, varare misure per garan­tire la respon­sa­bi­liz­za­zione delle parti, anche attra­verso boi­cot­taggi, disin­ve­sti­menti e san­zioni, come era stato fatto per libe­rare il mondo dal regime dell’apartheid.

E allora, in man­canza di un inter­vento inter­na­zio­nale per porre fine all’occupazione, in man­canza di una seria azione dei vari governi per inter­rom­pere l’impunità di Israele, in man­canza di qua­lun­que pro­spet­tiva di pro­te­zione inter­na­zio­nale per il popolo pale­sti­nese sotto occu­pa­zione, e men­tre il colo­nia­li­smo e le sue mani­fe­sta­zioni vio­lente hanno un’impennata (com­presi gli atti di vio­lenza dei coloni israe­liani), cosa dovremmo fare? Stare inerti ad aspet­tare che un’altra fami­glia pale­sti­nese sia bru­ciata, che un altro gio­vane pale­sti­nese sia ucciso, che un altro inse­dia­mento sia costruito, che un’altra casa pale­sti­nese sia distrutta, che un altro bam­bino pale­sti­nese sia arre­stato, che i coloni fac­ciano un altro attacco, che ci sia un’altra aggres­sione con­tro il nostro popolo a Gaza?

Tutto il mondo sa che Geru­sa­lemme è la fiamma che può ispi­rare la pace e che può accen­dere la guerra. E allora per­ché il mondo rimane immo­bile men­tre gli attac­chi israe­liani con­tro i Pale­sti­nesi della città e con­tro i luo­ghi santi musul­mani e cri­stiani – spe­cial­mente Al-Haram Al-Sharif – con­ti­nuano senza sosta? Le azioni e i cri­mini di Israele non distrug­gono sol­tanto la solu­zione dei due stati secondo i con­fini del 1967 e non vio­lano sol­tanto la legge inter­na­zio­nale, ma minac­ciano di tra­sfor­mare un con­flitto poli­tico risol­vi­bile in una guerra reli­giosa senza fine che inde­bo­lirà ulte­rior­mente la sta­bi­lità in una regione che è già preda di un disor­dine senza precedenti.

Nes­sun popolo della terra accet­te­rebbe di con­vi­vere con l’oppressione. È nella natura dell’uomo ane­lare alla libertà, lot­tare per la libertà, sacri­fi­carsi per la libertà. E la libertà del popolo pale­sti­nese è in grave ritardo. Durante la prima Inti­fada il governo di Israele lan­ciò lo slo­gan “spezza le loro ossa per spez­zare la loro volontà”, ma, una gene­ra­zione dopo l’altra, il popolo pale­sti­nese ha dimo­strato che la sua volontà è indi­strut­ti­bile e non deve essere messa alla prova.

Que­sta nuova gene­ra­zione pale­sti­nese non ha aspet­tato col­lo­qui di ricon­ci­lia­zione per incar­nare quell’unità nazio­nale che i par­titi poli­tici non hanno saputo rag­giun­gere, ma si è posta al di sopra delle divi­sioni poli­ti­che e della fram­men­ta­zione geo­gra­fica. Non ha aspet­tato istru­zioni per soste­nere il suo diritto, e il suo dovere, di opporsi a que­sta occu­pa­zione. E lo fa disar­mata, di fronte ad una delle mag­giori potenze mili­tari del mondo. Eppure con­ti­nuiamo ad esser con­vinti che libertà e dignità trion­fe­ranno, e noi avremo la meglio. E che quella ban­diera che abbiamo innal­zato con orgo­glio all’Onu sven­to­lerà un giorno sulle mura della città vec­chia di Geru­sa­lemme, e non per un giorno ma per sempre.

Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza pale­sti­nese 40 anni fa e sono stato impri­gio­nato per la prima volta a 15 anni. Que­sto non mi ha impe­dito di ado­pe­rarmi per una pace basata sulla legge inter­na­zio­nale e sulle riso­lu­zioni dell’Onu. Ma ho visto Israele, la potenza occu­pante, distrug­gere meto­di­ca­mente que­sta pro­spet­tiva un anno dopo l’altro. Ho tra­scorso 20 anni della mia vita, tra cui gli ultimi 13, nelle pri­gioni di Israele e tutti que­sti anni mi hanno reso ancora più con­vinto di que­sta immu­ta­bile verità: l’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace.

Coloro che cer­cano quest’ultima devono agire, e agire subito, per­ché si rea­lizzi la prima condizione.

Il fallimento di un'iniziativa per la quale l'Italia era già inadeguata quando la fondarono. Figuriamoci adesso.

La Repubblica, 11 ottobre 2015

La Scuola nazionale della pubblica amministrazione si è inceppata di fronte a un ostacolo più grande di lei: la pubblica amministrazione. Dei 26 vincitori del VI concorso, che si è concluso a luglio 2014 dopo una selezione rigorosissima (per il bando arrivarono più di 10mila iscrizioni) e dopo un anno di formazione di alto livello, lo Stato è riuscito ad assumerne soltanto 9. Più o meno a casaccio, tra l’altro, pescando nella graduatoria finale senza seguire l’ordine del merito. Gli altri 17 sono finiti in coda, ad aspettare che vengano riassorbiti tutti i dipendenti in uscita dalle province. Nella peggiore delle ipotesi, se ne riparla tra un paio d’anni.

Niente male per quello che, sulla carta, è l’istituto di eccellenza della Presidenza del consiglio. Costa alle casse dello Stato 21 milioni di euro all’anno ed è “deputato - si legge nel sito ufficiale - a selezionare, reclutare e formare i dirigenti pubblici”, “punto centrale del Sistema unico del reclutamento” e, dulcis in fundo, “creato per migliorare l’efficienza e la qualità della Pubblica amministrazione”. In pratica è l’equivalente italiano della storica École Nationale d’Administration parigina e ha il compito di portare all’interno di ministeri e agenzie dirigenti altamente specializzati e qualificati, che dovrebbero impedire pasticci tipo quello nel quale, per ironia della sorte, sono finiti.

È andata così. Il concorso è stato indetto a giugno del 2012 e prevedeva che i vincitori, dopo adeguata formazione, venissero assunti in ruoli dirigenziali: 26 posti, appunto, numero a cui si arrivava a seguito della ricognizione fatta dal Dipartimento della Funzione pubblica in base alle esigenze di personale. Non è un caso, infatti, che le domande di iscrizione furono tantissime, superarono quota diecimila. Alla prova preselettiva, a febbraio 2013, si presentarono più di 4mila candidati. Dopo una durissima scrematura durata altre quattro giornate d’esame, è stata stilata la lista degli ammessi a seguire le lezioni nella più splendida delle cornici: la Reggia di Caserta. La Sna infatti ha una delle sedi proprio in alcune sale all’interno della Reggia, per quanto vitto e alloggio siano totalmente a carico degli studenti per i nove mesi di corso.

Il corpo docenti, poi, è notevole e, come tale, viene pagato: oltre a diversi professori di università (tra cui Michel Martone, ex viceministro del Lavoro, il cui compenso è di 59.000 euro), figurano il consigliere parlamentare in pensione Marcello Degni (59.000 euro), il dirigente di ricerca all’Istat Efisio Gonario Espa (106.000 euro), il funzionario del Parlamento europeo Sandro Mameli (135.000 euro), Alberto Heimler già direttore centrale dell’Autorità garante della Concorrenza e Mercato (173.000 euro) e Angela Razzino, dirigente generale dell’Inail (152.000 euro). Alcuni insegnanti – stando a quando raccontano gli studenti – si sono visti pochissimo dalle parti di Caserta. Infine c’è il presidente, il professor Giovanni Tria, che tra lo stipendio dell’università di appartenenza e l’indennità Sna arriva a prendere 217.271 euro.

Sono cifre di una certa importanza, tant’è che la scuola spende per la retribuzione dei professori 2,7 milioni di euro all’anno, esattamente quanto l’École Nationale, con la differenza che là devono formare non 26 ma 90 studenti. Il confronto dei bilanci è imbarazzante per la Sna, perché è vero che costa la metà rispetto all’Ena di Parigi (21 milioni contro 42), ma è anche vero che ha meno di un terzo dei posti.

Comunque, ad agosto dello scorso anno il dipartimento della Funzione pubblica ha finalmente comunicato con una nota la lista delle posizioni di qualifica dirigenziale nelle varie amministrazioni, spettanti a chi aveva frequentato la Sna. Davanti al documento, però, c’è da rimanere perplessi. Sono spariti senza spiegazione i posti più ambiti, cioè i quattro previsti nella struttura di vertice della Presidenza del Consiglio. Non solo. I due dirigenti da assumere al ministero della Difesa dovevano firmare il contratto al massimo entro marzo 2015 ma ancora sono lì che aspettano. Per tutti gli altri l’impegno che si è assunto per iscritto il ministero di Maria Anna Madia era quello dell’assunzione “entro il 2015”. In nove casi su ventisei, è stato mantenuto, anche se non si capisce in base a quale logica. Per gli altri, invece, la prospettiva è quella di una lunga anticamera.

“Al Dipartimento della funzione pubblica non ci vogliono nemmeno ricevere – sostengono i vincitori non assunti – circola voce che dovranno prima smaltire le migliaia di dipendenti delle province. Ma anche su questo non ci dicono niente di certo, continuiamo a chiamarli inutilmente”. L’inghippo, come nelle peggiori storie di burocrazia, è contenuto in un minuscolo comma. Nella legge di Stabilità, scorrendo l’articolo 1 si arriva al comma 425 che prevede, tra le misure di contenimento della spesa per il riordino delle Province, un divieto di assunzioni a tempo indeterminato, specificato meglio anche da una successiva circolare del ministro Madia datata gennaio. “La normativa però esclude i vincitori di concorso”, sostengono gli studenti della Sna, che intendono rivolgersi all’avvocato per fare ricorso. Dalla loro parte, anche la logica. “Se il divieto è previsto dal comma 425 – osservano - perché nove di noi sono stati presi?”.

Una sintetica illustrazione della condizione iniqua nella quale sopravvive il popolo palestinese. L'obiettivo non dovrebbe essere quello di rovinare la festa a chicchessia, si tratti pure di due sudditi dei poteri dominanti, ma di contribuire alla fine del massacro di un popolo. Il manifesto, 11 ottobre 2015


Da quando, era l’inverno del 1969, stam­pa­vamo volan­tini con il rap­pre­sen­tante di Fatah in Ita­lia Wael Zwai­ter, ucciso il 12 otto­bre del 1992 a Roma dal Mos­sad, la con­di­zione pale­sti­nese invece di miglio­rare è tra­gi­ca­mente peg­gio­rata. Nono­stante due Riso­lu­zioni dell’Onu con­dan­nino da quasi 50 anni Israele per l’occupazione mili­tare dei ter­ri­tori pale­sti­nesi. È peg­gio­rata per­ché nel frat­tempo l’occupazione mili­tare israe­liana è avan­zata, nel disprezzo do ogni accordo di pace. Quel popolo non ha più spe­ranza e stru­menti per opporsi all’avanzata degli inse­dia­menti colo­nici che hanno ridotto la terra della Pale­stina ad un alveare senza con­ti­nuità ter­ri­to­riale e quindi con una dif­fi­coltà a legit­ti­mare, anche sulla carta, il diritto ad esistere.

Pri­vato di ogni diritto, rele­gato nei ghetti dei campi pro­fu­ghi in casa pro­pria, guar­dato a vista dalle torre mili­tari dell’occupante, sepa­rato dal Muro di Sha­ron — il primo edi­fi­cato dopo il mitico crollo del muro di Ber­lino. E con una lea­der­ship ormai ina­scol­tata per­ché inca­pace di cor­ri­spon­dere alle aspet­ta­tive popo­lari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei pro­pri capi sto­rici come Ara­fat rele­gato dai tank israe­liani nella Muqata e poi eli­mi­nato e come Mar­wan Bar­ghouti che lan­gue da anni nelle car­ceri israe­liane, alla fine si è diviso e radi­ca­liz­zato. Non nella forma a noi più con­sona, poli­ti­ca­mente e social­mente ma, in assenza di una reale società civile, nelle moda­lità ideo­lo­gi­che del richia­mano all’’Islam. Tema che, con i nuovi prov­ve­di­menti di Neta­nyahu e le ultime colo­nie israe­liane — che ridi­se­gnano anche la mappa dei luo­ghi reli­giosi di Geru­sa­lemme est fino a impe­dire il diritto a pre­gare -, torna peri­co­lo­sa­mente come l’unica ban­diera. Ora una nuova gene­ra­zione di gio­vani pale­sti­nesi è in rivolta. Ci si inter­roga se sia una nuova Inti­fada e i media, a dir poco disat­tenti alla tra­ge­dia dei Ter­ri­tori pale­sti­nesi occu­pati, pre­pa­rano schede ammo­nendo da lon­tano sui risul­tati della prima e della seconda Intifada.

Certo non abbiamo mai visto una rivolta più dispe­rata, men­tre l’appello alla pro­te­sta gene­rale viene dai lea­der di Hamas dalla Stri­scia di Gaza che ha subìto in que­sti anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata mas­sa­crata sotto gli occhi distratti del mondo. È dispe­rata que­sta rivolta per­ché il popolo pale­sti­nese si pre­senta a que­sto appun­ta­mento ancora una volta spac­cato e ridotto alla pro­te­sta indi­vi­dua­liz­zata dei col­telli e quindi quasi sui­cida e per­dente in anti­cipo. Sgo­men­tano gli accol­tel­la­menti dei coloni e le imma­gini dei gio­vani con il col­tello in mano, ma nes­suno s’indigna di fronte alle imma­gine dei carri armati, delle mitra­glia­trici o dei fucili dei sol­dati israe­liani che spa­rano sui mani­fe­stanti.

Quelle armi sono «nor­mali», ma sono di uno degli eser­citi più potenti al mondo che occupa mili­tar­mente un altro popolo. Che ora, con una nuova gene­ra­zione che scende in piazza, può far sal­tare gli equi­li­bri fin qui disa­strosi e cri­mi­nali del Medio Oriente. Nes­suno giri lo sguardo dall’altra parte. La que­stione pale­sti­nese irri­solta è all’origine dell’intera tra­ge­dia medio­rien­tale: i pro­fu­ghi delle Pale­stina occu­pata, diven­tati milioni, hanno desta­bi­liz­zato regni, pseudo– demo­cra­zie e regimi, dalla Gior­da­nia al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è tra­sfor­mato in poco meno di un regime inte­gra­li­sta reli­gioso d’estrema destra. Inol­tre, prima che sia troppo tardi, com’è pos­si­bile dimen­ti­care che l’argomento ideo­lo­gico fon­da­men­tale quanto capace di ali­men­tare odio, quello della «occu­pa­zione dei luo­ghi sacri dell’Islam», è il tema costi­tu­tivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?

Due le ver­go­gne da denun­ciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.

La Casa bianca ieri ha denun­ciato le nuove pro­te­ste pale­sti­nesi come «ter­ro­ri­ste». È lo stesso pre­si­dente che al Cairo nel 2009 dichia­rava di sen­tire «il dolore dei pale­sti­nesi pri­vati del diritto alla loro terra». Sono pas­sati sei anni ed è legit­timo chie­dere: al di là dell’accordo geo­stra­te­gico con l’Iran, che cosa ha fatto real­mente per­ché la con­di­zione pale­sti­nese cam­biasse, quali occa­sioni ha dato, se non soste­nere la stra­te­gia di Ben­ja­min Neta­nyahu che rilan­cia la colo­niz­za­zione della Pale­stina? Ma che farebbe il popolo ame­ri­cano se fosse occu­pato mili­tar­mente e dis­se­mi­nato di colonie?

L’altra ver­go­gna è quella di Mat­teo Renzi, il governo più filoi­srae­liano della sto­ria repub­blica ita­liana. All’ultima seduta dell’assemblea gene­rale dell’Onu si è dimen­ti­cato dell’esistenza della Pale­stina ridi­co­liz­zando il ruolo di Abu Mazen. Ora la ban­diera della Pale­stina - che ha avuto per­fino uno stand all’Expo - sven­tola all’Onu, ma si rischia la beffa per­ché quello Stato e quella terra non esi­stono. Renzi annun­cia che farà un tour di pro­pa­ganda nei tea­tri ita­liani per rap­pre­sen­tare la piece «quanto sono bravo». Rovi­nia­mo­gli lo spet­ta­colo. Por­tiamo ad ogni suo appun­ta­mento la ban­diera pale­sti­nese: sven­to­larla nei Ter­ri­tori occu­pati per il governo israe­liano è reato.

Una rassegna dello straordinario effetto di espansione a cerchi concentrici, del nostro principale contributo alla cultura della modernità, curioso considerando la posizione dell'Italia all'epoca.

La Repubblica, 11 ottobre 2015

Certo, il manifesto del 20 febbraio del 1909 scompaginò per sempre le carte. Il mito della velocità lì propugnato era come se avesse accelerato le reazioni. Subito prendono a inseguirsi le traduzioni. In romeno addirittura il giorno prima ! A marzo gli undici punti appaiono in Russia (il terreno era propizio). In aprile il manifesto esce in spagnolo a Madrid (tradotto da Gómez de la Serna), ma lo stesso mese il poeta Ruben Darío lo pubblica già a Buenos Aires. Ancora in aprile lo troviamo in croato, a maggio in giapponese. L’anno successivo è già in versione turca. È come se si fosse stuzzicato un alveare. Il tempo di riprendersi e cominciano a pullulare manifesti fuori dal controllo della centrale milanese. A Parigi esce un Manifestofuturista contro Montmartre (1913), nello stesso anno Valentine de Saint-Point presenta un Manifesto futurista della lussuria («Cessiamo di schernire il desiderio, distruggiamo i sinistri stracci romantici»), mentre sulla rivista Fantasio — dove Apollinaire aveva pubblicato il suo Cubismo culinario — appare un Manifesto della cucina futurista che prevede tra l’altro «uova in camicia nel sangue di bue». Intanto a Lisbona il pittore Almada-Negreiros — «ispirato dalla rivelazione di Marinetti» e abbigliato in una sorta di bizzarra tuta da pilota — declama nel ‘17 un Ultimatum futurista alle generazioni portoghesi del XX secolo .

E se nel ‘21 viene distribuito a Tokyo un più tradizionale volantino col Manifesto del gruppo futurista giapponese , in Polonia Bruno Jasienski e i suoi sodali lanciano un agguerrito Manifesto relativo all’immediata futuristizzazione della vita , che postula una «rapida tracheotomia» affinché «la vita e l’arte polacca» possano sopravvivere. Ormai non si potrà più dare inizio a qualsivoglia impresa artistica senza avere un proprio manifesto. E un nome da non sfigurare. Ricciotto Canudo stila un Manifeste de l’art cérébriste , in Cile sbuca un Manifesto del Runrunismo , a Porto Rico un Manifestoeuforista (vi si afferma con ponderazione «il poeta dev’essere un tonico per l’umanità, non un lassativo»), in Messico un Manifesto estridentista . E a questa foga non si sottrae certo il Manifesto antropofago delbrasiliano de Andrade che — stilato «l’anno 374° dalla deglutizione del Vescovo Sardinha» — propone di ingurgitare e metabolizzare la cultura europea.

Il futurismo ha rapidamente conquistato il mondo. Diffondendosi da solo, quasi per contagio. Marinetti ne è l’araldo e allo stesso tempo il testimonial. I suoi viaggi servono anche a marcare il territorio (come gli rinfacceranno i cubofuturisti russi, con abbondante volantinaggio). Il diagramma dei suoi spostamenti sembra la vorticosa pubblicità di un’agenzia di viaggi d’ampio respiro. Escludendo la Francia, dove aveva da tempo piantato le proprie radici, lo troviamo nel 1910 a Londra (contestato dalle suffragette), poi a Bruxelles, Mosca, Pietroburgo, Praga. Nel ‘26 dilaga in Sudamerica: Rio, Buenos Aires, Montevideo. In Argentina lo scrittore Subirat lo definisce un «fossile». Sulla copertina di un libro brasiliano campeggia una lastra tombale col suo nome. Ma a leggere le sue memorie, l’impatto era stato tale che a Bahia la gente — «in ricordo dei clamorosi trionfi del Futurismo» — prese a chiamare «Marinetti» gli autobus pubblici.

La sua presenza in scena è sempre elettrizzante. Quasi a contestare anticipatamente Ezra Pound che — stizzito dal suo tentativo di annessione degli avanguardisti inglesi — il mese successivo l’avrebbe definito «un cadavere», nel maggio del ‘14 Marinetti declama a Londra alcuni brani di Zang Tumb Tuuum munito di «martelli appositi» (per rendere «i rumori della fucileria e delle mitragliatrici »), tre lavagne a cui si avvicina veloce «per disegnarvi, in modo effimero, col gesso, un’analogia », e un telefono con cui imita i comandi dei generali turchi e dà a sua volta ordini all’addetto a due enormi tamburi, posto in una sala lontana.

Così il futurismo, «parola d’ordine di tutti gl’innovatori o franchi-tiratori intellettuali», gesto iniziale che — ben prima di Breton e dei surrealisti — accorcia la distanza tra le parole e crea immagini splendide e inattese, questa istigazione a trasformare la pagina in un libero campo di forze, produrrà in giro per il mondo fogli dalla fantasiosa impaginazione, varianti della «multiforme prospettiva emozionale» voluta da Marinetti, come le «poesie in cemento armato » di V. Kamenskij, dove lo specchio della pagina è diviso in spicchi autonomi di testo, o alcune tavole parolibere giapponesi dove, accanto ai tradizionali ideogrammi (in verticale), troviamo i «Bruuuun» onomatopeici a caratteri latini (e orizzontali), o il tripudio di lettere in libertà sulle pagine della commedia transmentale Lidantju il faro di Zdanevic, o la copertina di En avant Dada di Huelsenbeck con la sua illusoria fuga prospettica di parole. Un debito non sempre riconosciuto.

Nel ‘29, su ReD il boemo K. Teige fa ammenda di un decennio di reticenze sul futurismo: sulla copertina campeggia Marinetti in posa declamatoria in un disegno di Hoffmeister, ma la banda rossa di colore che lo copre come una toga svela in trasparenza sotto ai suoi piedi uno sgabello con due scarpette posticce, per guadagnare qualche centimetro.

Il premier turco Erdogan, fervido commilitone degli Usa, della Nato e dell'Unione europea, è alleato dell'IS, contro il quale Usa, Nato e UE digrignano i denti. Non è la guerra

dei curdi, ma contro i curdi. La Repubblica, 11 ottobre 2015

Dopo averli dispersi ai quattro venti, Iraq, Iran, Turchia e Siria, oltre che in una diaspora antica, la storia si è divertita a rimettere i curdi al centro della scena: una scena di guerra e terrore. La strage di ieri, per il numero di vittime, il luogo – la stazione- e il contesto elettorale, è famigliare agli italiani che ricordano che cosa volesse dire Strategia della tensione. La guerra civile tra l’esercito turco e il partito comunista e indipendentista curdo, il Pkk di Abdullah Ocalan, ha fatto dal 1984 quarantamila morti. Dopo una tregua nel 2013, e una serie di falsi movimenti negoziali, nel luglio scorso è tornata a divampare. La scintilla è venuta da Suruç, al confine con la Siria: un incontro di giovani socialisti turchi e curdi per Kobane è stato bersaglio di un attentato suicida che ha fatto 32 morti e decine di feriti. Il sedicente Stato Islamico l’ha rivendicato, ma i curdi e gran parte dell’opposizione hanno denunciato la corresponsabilità del governo.

Il retroterra era nel risultato elettorale di giugno, che aveva mortificato il programma del presidente Erdogan, grazie all’affermazione del Partito democratico dei popoli, Hdp, col quale per la prima volta un partito curdo entrava in parlamento, superando largamente la soglia del 10 per cento dei voti. L’Akp di Erdogan aveva mirato alla maggioranza assoluta per riscrivere la costituzione, ed era invece sceso dal 49 al 41 per cento. Dopo aver simulato di trattare per un governo di coalizione, Erdogan aveva cercato la rivalsa nelle elezioni anticipate, fissate al 1° novembre: così stando le cose le avrebbe perse, e il Hdp avrebbe migliorato il successo di giugno. La campagna elettorale è stata allora confiscata dalla guerra riaperta al Pkk, e soprattutto al Hdp, che Erdogan attacca come il travestimento parlamentare del “ terrorista” Pkk. Quest’ultimo è ancora nella lista delle formazioni terroriste per gli Usa e l’Europa, ma con le tortuose complicazioni esplose nella dissoluzione di Siria e Iraq. Il Pkk è infatti la casa madre del partito curdo-siriano, il Pyd, e del movimento armato, l’Ypg e l’Ypj (femminile), che difende eroicamente il proprio territorio e la propria esperienza di autogoverno. A Kobane, che di quella resistenza divenne il simbolo, i curdi furono a lungo soli mentre la Turchia chiudeva la frontiera ai soccorsi, e solo in extremis ricevettero il sostegno dei raid americani. I curdi-siriani sono ancora il nerbo di qualunque piano della coalizione per riconquistare Raqqa, la capitale siriana dell’Isis. Non è solo in Siria che i combattenti fratelli (sorelle, perché le donne vi si battono davvero alla pari) del Pkk sono alleati della coalizione, ma anche in Iraq, dove il Pkk in esilio ha da decenni stabilito la propria base sui monti Qandil, e dove le sue forze hanno avuto un ruolo decisivo nel fermare l’avanzata dell’Isis e nel soccorrere la fuga disperata di yazidi e cristiani di Mosul e Niniweh.

Ecco un primo groviglio: una componente essenziale dei “piedi per terra” della guerra all’Isis figura ancora nella lista del terrorismo internazionale. E la Turchia, che si è guardata fino a poco fa dal contribuire seriamente alla guerra contro il califfato, e a volte si è fatta prendere con le mani nel sacco a foraggiarlo, conduce dall’estate una vera guerra al Pkk, con continui bombardamenti aerei alle basi del Qandil, cioè in territorio iracheno, di fatto del Governo Regionale del Kurdistan. Il governo turco vanta di aver eliminato in meno di tre mesi 1.800 militanti del Pkk, il quale nega e a sua volta proclama di aver ucciso centinaia di militari e poliziotti turchi. Pesantissimo è comunque il bilancio di morti e feriti civili, migliaia di arrestati, città, come Cizre, devastate. Il calcolo dell’Akp è di riguadagnarsi, in una tensione così sanguinosa, i voti che l’Hdp aveva meritato, oltre che fra le altre minoranze etniche e civili, anche fra gli elettori turchi allarmati dalla smodatezza delle ambizioni di Erdogan. La sua equazione è: il Pkk è terrorista, e l’Hdp è il Pkk in maschera.

È un fatto che il Pkk compie attentati indiscriminati contro chiunque indossi un’uniforme turca. È un fatto anche che da anni Ocalan – che rimane, dal suo ergastolo, l’icona del Pkk - esorta a deporre le armi. (L’evoluzione del marxismo-leninismo di Ocalan è singolare: specialmente per un femminismo sfrenato, esposto tuttavia nello stesso linguaggio ortodosso che serviva per il classismo). È inoltre vero che fra Hdp e Pkk ci sono legami (anche un fratello di Selahattin Demirtas è fra i dirigenti del Pkk) ma l’Hdp sa di essere gravemente danneggiato dal ritorno alle armi e ha ripetutamente spinto il Pkk a una tregua anche unilaterale. Il Pkk a sua volta invita ad appoggiare nelle elezioni l’Hdp, nega di volere “la guerra” e afferma di combattere solo per autodifesa. Venerdì aveva rinnovato la richiesta di un cessate il fuoco, e ieri, dopo la strage di Ankara, l’ha dichiarato comunque. Quanto a Erdogan, una settimana fa aveva convocato a Strasburgo migliaia di turchi immigrati in Europa per esaltare il passato del sultanato, ripudiare qualunque mediazione con i “terroristi” curdi, e promettere di schiacciarli fino all’ultimo.

Tutto ciò avviene mentre i caccia russi violano lo spazio aereo turco, la Nato si dice pronta a inviare truppe, e l’altro nemico giurato di Erdogan, Bashar al Assad, si rimpannuccia. La posta del sangue di ieri e di quello che scorrerà non sono solo le elezioni turche, pure così importanti, ma la ragnatela di guerre dirette o interposte che copre il vicino (vicinissimo) oriente. C’è oggi nelle persone di cuore una simpatia per i curdi, per il loro valore di patrioti, per i colori del piccolo Alan, che l’infamia della strage di ieri – cantavano chiedendo di deporre le armi - rafforza, com’è giusto. Ma i curdi sono tutt’altro che uniti.

Nello stesso autonomo Krg, il Kurdistan iracheno, la disputa tra Pdk di Barzani e Puk di Talabani e Kosrat sul rinnovo della presidenza si trascina e fomenta ribellioni tanto più paradossali perché si svolgono in un paese che va al fronte pressoché tutti i giorni. Venerdì, manifestazioni di dipendenti pubblici – insegnanti in sciopero, sanitari…senza stipendio da mesi, si sono mutate in scontri violenti con quattro morti e parecchi feriti, nella città di Qaladize, a nord di Suleymanyah.

«Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari, senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente».

Il manifesto, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Occu­pa­zioni, flash-mob al Miur, al mini­stero dell’economia e a palazzo Chigi, blitz con petardi e fumo­geni in filiali ban­ca­rie e agen­zie di lavoro inte­ri­nali come Man­po­wer a Napoli, pre­sidi e incon­tri al mini­stero dell’Istruzione. E poi 90 cor­tei con 5 mila stu­denti a Roma, due­mila a Bari, mille a Milano e altret­tanti a Palermo, tra gli altri. Ieri l’autunno di piombo della scuola gover­nata dagli algo­ritmi che deci­dono le sorti di un docente men­tre le prove Invalsi per­fe­zio­nano la valu­ta­zione della vita pro­dut­tiva degli stu­denti si è acceso all’improvviso. Ses­san­ta­mila stu­denti hanno mani­fe­stato con­tro la riforma della scuola, il Jobs Act, le poli­ti­che migra­to­rie della «For­tezza Europa» e il diritto allo stu­dio azzop­pato (ancora) dalla riforma dell’Isee.

Non è man­cato il rife­ri­mento ai pre­cari della scuola esclusi dalle assun­zioni di Renzi, pur avendo matu­rato il diritto. Una mobi­li­ta­zione «sociale» che ha cer­cato un’interlocuzione con i movi­menti esi­stenti: il «No Ombrina» con­tro le tri­vel­la­zioni dello «Sblocca Ita­lia», il 14 otto­bre a Roma, ricor­dano i col­let­tivi auto­nomi napo­le­tani «Kaos». Gli stu­denti non vogliono sen­tirsi soli e sono alla ricerca di con­nes­sioni. Ieri hanno schie­rato numeri impo­nenti, e non scon­tati, dopo giorni di silen­zio dei mag­giori sin­da­cati della scuola impe­gnati a discu­tere se, come o quando fare uno scio­pero gene­rale (Uni­co­bas lo farà il 23 otto­bre, i Cobas il 13 novem­bre, men­tre sono pre­vi­ste mobi­li­ta­zioni il 24 otto­bre). Tutto pro­cede in sor­dina dopo la «notte bianca» della scuola del 23 set­tem­bre scorso. Al clima non ha gio­vato il fal­li­mento della rac­colta firme sul refe­ren­dum con­tro il «pre­side mana­ger» pro­mosso da «Pos­si­bile» di Civati che ha segnato una spac­ca­tura con il movi­mento della scuola che all’assemblea di Bolo­gna del 5 set­tem­bre scorso ha deciso di stu­diare la pos­si­bi­lità di farne un altro nel 2017, con rac­colta firme nel 2016. Nel frat­tempo con­ti­nuano le pro­ce­dure delle assun­zioni dei 55 mila docenti pre­vi­sti in «fascia C» affi­dati a un algo­ritmo che costringe gli inte­res­sati a un’attesa soli­ta­ria e preoccupata.

Ancor prima che con­tro la pro­pa­ganda del governo, le reti stu­den­te­sche nazio­nali dei medi e degli uni­ver­si­tari (Rete della Cono­scenza, Uds, coor­di­na­mento Link, Udu, Stu­dAut), senza con­tare i col­let­tivi cit­ta­dini o metro­po­li­tani da Sud a Nord, si sono atti­vate con­tro la spa­ven­tosa nor­ma­lità di un paese ingri­gito e sof­fe­rente. Gli stu­denti, cia­scuno per la pro­pria parte, hanno ela­bo­rato una loro agenda e cer­cano di scuo­tere le foglie sull’albero. Link e Udu por­tano avanti la bat­ta­glia sul diritto allo stu­dio. La riforma dei para­me­tri dell’Isee ha creato un’emergenza sociale nel malan­dato diritto allo stu­dio ita­liano: per respon­sa­bi­lità di un nuovo indi­ca­tore decine di migliaia di stu­denti sono stati esclusi dalle borse di stu­dio, come se fos­sero diven­tati più ric­chi. Ieri sono stati rice­vuti al mini­stero dell’Istruzione. L’incontro non ha sod­di­sfatto Link («manca ancora una pro­po­sta con­creta» sostiene il coor­di­na­tore Alberto Cam­pailla); «Vogliamo inter­venti legi­sla­tivi e fondi sup­ple­men­tari» ha detto Jacopo Dio­ni­sio (Udu).

Una tren­tina di uni­ver­si­tari di «Stu­denti Indi­pen­denti» e «Alter­po­lis» ieri a Torino hanno occu­pato alle 7,30 del mat­tino il gaso­me­tro dell’Istalgas in corso Regina Mar­ghe­rita a Torino. In que­sto edi­fi­cio dovreb­bero essere costruite resi­denze uni­ver­si­ta­rie gestite da pri­vati. Per gli stu­denti è un’«operazione pro­pa­gan­di­stica che spac­cia una spe­cu­la­zione edi­li­zia per un’attività a bene­fi­cio degli stu­denti». Molti dei quali, oggi, non potreb­bero nem­meno vivere nella «casa dello stu­dente» pri­va­tiz­zata, dato che il governo ha cam­biato all’improvviso le regole per bene­fi­ciare delle borse di stu­dio. Alle undici i ragazzi sono stati sgom­be­rati mala­mente dalla celere. Nell’intervento è rima­sta con­tusa Ila­ria Manti, ex pre­si­dente del Senato degli Stu­denti dell’Università di Torino, e ha pro­dotto la pro­te­sta della Fiom e degli stu­denti con­tro «l’uso spro­po­si­tato della forza da parte della polizia».

Un’altra que­stione è «l’alternanza scuola-lavoro» pre­vi­sta dalla «Buona scuola», dal «Jobs Act» e appro­vata dalla con­fe­renza Stato-Regioni. Per gli stu­denti il poten­zia­mento dell’apprendistato spe­ri­men­tale «è uno sfrut­ta­mento». «Pro­spet­tiva inac­cet­ta­bile per gli stu­denti in stage — afferma Danilo Lam­pis (Uds) — L’apprendistato è un con­tratto di lavoro, qui si equi­pa­rano ore di lavoro sot­to­pa­gato con quelle di for­ma­zione in classe». «é un salto nel vuoto — spiega Gianna Fra­cassi (Cgil) — non c’è modo per indi­vi­duare imprese con un’adeguata capa­cità for­ma­tiva». Fran­ce­sca Puglisi, respon­sa­bile Pd scuola rispol­vera le argo­men­ta­zioni clas­si­che sui «choosy» che non vogliono lavo­rare: «È un po’ da snob pen­sare che la cul­tura del lavoro non debba “con­ta­mi­nare” la scuola — sostiene — Le espe­rienze pos­sono essere fatte anche nelle isti­tu­zioni cul­tu­rali». In realtà gli stu­denti cri­ti­cano il «modello tede­sco», la pro­fes­sio­na­liz­za­zione senza diritti e lo sna­tu­ra­mento dell’obbligo sco­la­stico, oltre al pre­ca­riato e al lavoro gra­tis masche­rato da for­ma­zione. Argo­menti troppo com­plessi per rien­trare nel for­mat pater­na­li­stico ren­ziano, ma spunti per un modello alter­na­tivo di istru­zione pubblica.

«La scrittrice Suad Amiry racconta la rabbia della sua gente per lo stallo del processo di pace. “La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla”».

La Repubblica, 10 ottobre 2015 (m.p.r.)

Suad Amiry risponde al telefono da New York, dove vive quando non è a Ramallah. Architetto e scrittrice, con i suoi libri (Sharon e mia suocera, Golda ha dormito qui, solo per citare due titoli, editi in Italia da Feltrinelli), è diventata una delle voci più note della società palestinese.

Signora Amiry, siamo di fronte alla terza Intifada?
«Negli ultimi due anni la situazione dei palestinesi è peggiorata, la vita quotidiana è diventata sempre più difficile. In questi mesi Gerusalemme è stata di fatto isolata: per noi andare a pregare è complicatissimo mentre i coloni ebrei sono riusciti ad entrare anche nella moschea di Al Aqsa. Le politiche di Israele hanno di fatto spinto i giovani per la strada: non c’è stata altra speranza. Questo è il vero problema, non cercare la giusta definizione per quello che sta succedendo ».
Anche i politici palestinesi però hanno commesso clamorosi errori…
«Certo. Abu Mazen ha tentato in tutti i modi di salvare il dialogo e per fare questo si è piegato al punto di perdere la faccia con i suoi, soprattutto con i più giovani. Gli israeliani non troveranno mai più un leader così moderato come il presidente Abu Mazen, eppure neanche con lui sono riusciti a sedersi intorno a un tavolo. Il risultato è l’arrivo sulla scena di una nuova generazione, che per mettere fine a questa situazione va in strada. Sono stata nel team dei negoziatori palestinesi e posso dire con certezza che quelli come me, che per anni hanno predicato la necessità di riconoscere lo Stato di Israele, oggi appaiono ridicoli agli occhi della maggior parte della gente dei Territori e della Striscia di Gaza. Noi chiedevamo rispetto, ma Netanyahu si è messo in tasca le nostre parole. Per anni Abu Mazen ha fatto arrestare chi scendeva in strada contro Israele: abbiamo fatto i protettori dei nostri occupanti. Ed ecco il risultato».
Sta dicendo che non c’è più speranza per l’eterno conflitto israelo-palestinese?
«No, non dico questo. Certo che c’è speranza: i ragazzi non sarebbero in strada se non avessero speranza. La speranza è che finisca l’occupazione. Questa situazione così ingiusta non può andare avanti per sempre. Vogliamo la pace, vogliamo una soluzione: ma bisogna essere in due per avere queste cose. Quello che non vogliamo, che non possiamo accettare, è continuare a vivere in uno stato di apartheid».
Cosa vede nel futuro?
«Le dico cosa vedo nel presente, qui in America, il paese dove ho studiato negli anni ’70 e dove per anni l’opinione pubblica è stata in modo compatto dalla parte di Israele. Oggi anche qui un numero crescente di persone iniziano a capire come vivono i palestinesi. La Palestina sta diventando un nuovo Sudafrica, un caso internazionale troppo imbarazzante per non fare nulla. L’apartheid finì quando il mondo disse basta, quando l’embargo economico diventò forte e mise alle strette il governo. Io mi auguro che presto accada lo stesso per noi».
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