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"Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi".

Il manifesto, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)

Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale.

Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa.

Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi.

Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo.

Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica.

E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a “intervenire” (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che giungono (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria?

Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante “notte di Primo Levi”. E’ stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani – testimoni diretti degli eventi – hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine; farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare.

Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti.

Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo, non saremo ricordati. Per una volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica “buona scuola”.

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Nell' Italia neoliberista il sistema è sempre lo stesso. Quando i banchieri o gli altri gestori/approfittatori del sistema capitalista sbagliano i conti, le loro perdite le paga lo Stato, cioè noi cittadini: o con l'aumento delle tasse o con la riduzione del welfare. Il manifesto, 27 gennaio 2016

In vista del Consiglio dei Ministri del 28 gennaio che si troverà sul tavolo il delicato Dossier banche, il Ministro dell’economia Pier Carlo Padoan si è recato a Bruxelles, dove non gli è parso vero di fare sfoggio di infondato ottimismo definendo, di fronte alla Commissione Lavoro dell’Europarlamento, la situazione italiana come “in ripresa” e persino connotata da “un’occupazione di migliore qualità”.
Non abbiamo ancora i dettagli, ma nel successivo confronto con la commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager, sarà risultato difficile a Padoan mascherare le difficoltà in cui si dibatte il paese, specificatamente per quanto riguarda il suo settore bancario, da sempre presentato come tra i più solidi. Ma un arretramento di dieci punti di Pil e la perdita del 25% di produzione industriale, quali si sono verificati nella nostra economia nella Grande Crisi, non potevano non avere effetti deleteri sullo stato di salute dei crediti delle banche.

Infatti dal 2008 i crediti deteriorati (o non performing loans, NPL) accumulati dal sistema bancario italiano ammontano 350 miliardi di euro. Sono catalogati in quattro categorie, delle quali la più consistente e preoccupante è costituita dai bad loans, che ammontano a circa 200 miliardi, ovvero i prestiti per i quali il debitore è già fallito. Sono le sofferenze vere e proprie. Poi ci sono gli “incagli” (ovvero prestiti che la banca reputa di improbabile restituzione); gli “scaduti” (da più di 90 giorni); i “ristrutturati” (quelli su cui la banca è già intervenuta per facilitare il debitore sui tempi e sui tassi di restituzione).

L’idea su cui si muove il governo italiano e su cui ruota il dibattito è la costituzione di una o più bad bank, cioè un nuovo veicolo societario che gestisca i crediti deteriorati, correndo tutti i rischi del caso, ma anche godendo degli eventuali rendimenti ovviamente più alti data l’improbabilità del recupero. E’ un sistema che ha preso le mosse nei primi anni Novanta. In Europa fu la Svezia a sperimentare una delle prime bad bank. La sua comparsa in Italia avviene a cavallo del secolo quando il Sanpaolo dopo l’acquisizione – salvataggio del Banco di Napoli si servì di una Società per il recupero dei crediti in sofferenza.
Il problema è naturalmente stabilire quali siano i prezzi di mercato dei crediti deteriorati. Ma ve ne è uno che lo sovrasta. Cosa dovrebbe succedere infatti se i pacchetti di crediti acquistati dalla bad bank determinassero in realtà un rendimento inferiore al prezzo con cui sono stati pagati? Visto che nessuno ci vuole perdere, e meno che mai nel mondo bancario, dovrebbe a questo punto scattare una sorta di rete di salvataggio. E questa verrebbe naturalmente garantita dallo Stato. Anche le più raffinate e sofisticate soluzioni avanzate da economisti e gruppi di studiosi, come quelli della Luiss, finiscono inevitabilmente per poggiare sull’intervento dello stato, quale salvatore in ultima istanza. Ciò che viene teoricamente e praticamente negato dai fautori del neoliberismo, ovvero la Banca centrale come prestatore in ultima istanza per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, oppure lo Stato occupatore in ultima istanza per favorire l’incremento dell’occupazione, viene perfettamente previsto e attuato per sgravare le banche dei crediti deteriorati
Qui si innesta lo scontro con l’Europa che è il vero e concreto sottostante ai recenti bisticci fra Renzi e le massime autorità della Ue. Infatti se l’assicurazione pubblica ha un costo molto basso potrebbe essere considerata un aiuto di Stato – che la Ue aborrisce - e le banche potrebbero sgravarsi dei crediti deteriorati gonfiandone il prezzo. Se quel costo invece fosse più alto potrebbe risultare inappetibile e quindi inservibile ai fini dello sgravamento dei crediti inesigibili dal bilancio delle banche.
Nelle intenzioni del governo, almeno finora, la garanzia dovrebbe essere fornita da una controllata della Cassa depositi e prestiti, le cui potenziali funzioni di agente per il rilancio dell’economia produttiva verrebbero invece curvate al servizio del salvataggio di un sistema bancario nel quale si sono aperte oramai troppe falle per poterlo continuare a definire solido e sano.
Ma i crediti malati non si sono certamente materializzati tutti d’un colpo. Come abbiamo visto sono giunti a quell’impressionante volume come conseguenza della crisi e delle politiche di austerity che l’hanno ingigantita e prolungata. Intanto i governi che si sono succeduti hanno fatto finta di non vedere. Come hanno osservato diversi analisti finanziari, il governo italiano, che ora pesta i piedi e rotea i pugni, ha la responsabilità di essersi mosso troppo tardi per intervenire sulle sofferenze bancarie, perdendo l’opportunità di farlo – come ad esempio è successo nel caso spagnolo – quando questo ancora non andava direttamente a sbattere contro i divieti della Ue. La campana d’allarme rappresentata dall’entrata in vigore del bail in (ovvero dell’obbligo degli azionisti, dei possessori di obbligazioni e dei depositanti sopra i 100mila euro di partecipare al salvataggio degli istituti di credito in difficoltà) ha colto il governo Renzi in un sonno troppo profondo.
Gli eredi delle tante stagioni del colonialismo, che hanno condotto alla miseria e alla disperazione e fomentato le guerre e hanno dimenticato il tempo dei genocidi nazisti, ne proseguono una ancora più devastante.

Il manifesto, 26 gennaio 2016

Anche i simboli hanno il loro peso. Nato trent’anni fa a bordo di un barca, il trattato di Schengen rischia oggi di essere affondato dai barconi carichi di migranti. Quello che si potrebbe leggere come l’inizio della fine, è stato annunciato ufficialmente ieri ad Amsterdam al termine del vertice informale tra i ministri degli Interni dei 28, quando si è saputo della richiesta avanzata dagli stati europei alla Commissione Ue di avviare le procedure per consentire di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Si tratta di una possibilità prevista dall’articolo 26 del Trattato e applicabile solo in casi eccezionali, come la comprovata incapacità di uno stato nel controllare le proprie frontiere.

Finora sono cinque i Paesi che hanno sospeso il trattato sulla libera circolazione. Oltre a Germania e Austria, anche Francia, Danimarca e Svezia. A premere di più per la proroga sono Berlino e Vienna, per le quali i controlli alle frontiere scadranno a maggio e insistono per rinnovarli. Ma non solo loro. A chiedere frontiere più blindate sarebbero infatti molte capitali, tanto che ieri la ministra austriaca degli Interni Johana Mickl-Leitner, tra i più risoluti nel chiedere misure per arginare gli arrivi di migranti, ha avvertito i partner europei: «Il Trattato sta per saltare. Ciascuno è consapevole che l’esistenza dello spazio Schengen è in bilico e che deve succedere qualcosa velocemente».
Ovviamente non sono certo i profughi che fuggono dalla guerra i responsabili di questa situazione, e Bruxelles dovrebbe guardare piuttosto alla sua incapacità di far rispettare gli impegni presi già da mesi, come quello sui ricollocamenti, agli stati membri. Cosa che però non accade. Il risultato è che gli interessi nazionali prevalgono su tutto spingendo ogni stato a decidere in autonomia. Così c’è chi alza muri, chi rafforza i controlli alle frontiere e chi come l’Austria fissa un tetto alla sua disponibilità ad accogliere i migranti (127.500 fino al 2019).
A spaventare non è solo il milione di profughi arrivato l’anno scorso, ma quelli che potrebbero affacciarsi alle porte dell’Europa non appena le condizioni del tempo lo permetteranno. «Più di 30mila persone sono arrivate via mare finora nel 2016, vale a dire in sole tre settimane», ha detto un allarmato Dimitri Avramopoulos, il commissario Ue all’immigrazione di solito attento a non creare allarmi.
Sul banco degli imputati è finita così soprattutto la Grecia, ancora una volta accusata da molti paesi di non fare sforzi a sufficienza per fermare i migranti e per la quale è perfino ventilata l’ipotesi di una sua possibile esclusione da Schengen. Un atto di accusa portato soprattutto dalla Germania e che ha provocato l’immediata reazione del ministro alle politiche migratorie di Atene Yoannis Mouzalas. «Basta con queste gioco di accuse ingiusto», ha detto durante il vertice. Elencando poi una serie di inadempienze dell’Unione europea, promesse di mezzi e aiuti mai realizzati. «Di tutte le cose che abbiamo chiesto - ha proseguito il ministro - abbiamo ottenuto solo una parte, sia in termini di uomini che di mezzi per gestire l’emergenza».
Il rischio che la situazione possa degenerare a questo punto non è più solo teorico. Bruxelles accelera per la costituzione di una guardia di frontiera terrestre e marittima in grado di intervenire alle frontiere in aiuto di quei paesi in difficoltà nel fronteggiare il flusso di migranti, ma deve spingere anche sui ricollocamenti, facendo fronte alle resistenze di chi, come i paesi dell’est, non ne vogliono neanche sentire parlare. La Slovenia ha addirittura proposto di aiutare la Macedonia a rafforzare i suoi confini, un’idea che guarda caso sarebbe piaciuta a Ungheria, Croazia, repubblica ceca, Polonia, Slovacchia e Austria e che non dispiacerebbe neanche a Bruxelles, anche se ancora non si è pronunciata ufficialmente. Ma che ovviamente allarma non poco la Grecia che in questo modo vedrebbe centinaia di migliaia di migranti bloccati all’interno dei propri confini.

Tra quanti ancora sostengono strenuamente Schengen c’è l’Italia, preoccupata da un’eventuale fine di Schengen. «Abbiamo poche settimane per evitare che si dissolva tra gli egoismo nazionali», ha detto ieri al termine del vertice di Amsterdam il ministro degli Interni Angelino Alfano. Al Viminale si sta pensando anche all’apertura di un hot spot ai confini con la Slovenia: «Dobbiamo tenerci pronti ad un’ipotesi di flusso dalla frontiera nord est a seguito della rotta balcanica», ha spiegato Alfano.

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La Repubblica, 26 gennaio 2016

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LA DECISIONE di recarsi a Ventotene a rendere omaggio ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, padri fondatori del federalismo europeo, sgombra il campo da ogni incertezza sul profilo europeista del capo del governo. Renzi ha sempre sottolineato, anche con enfasi, come il nostro futuro sia legato ad una maggiore e migliore integrazione europea. E invece il processo di integrazione sovranazionale sta facendo paurosi passi all’indietro. L’autorevolezza delle istituzioni comunitarie — Bce esclusa, per fortuna (soprattutto nostra) — è al punto più basso e, corrispettivamente, dominano gli interessi e gli egoismi nazionali.

In realtà, gli interessi nazionali sono sempre stati difesi nella vita dell’Unione Europea. Basti ricordare le prese di posizione della Francia gollista sull’agricoltura o il rebate (lo sconto) preteso da Margaret Thatcher. Ma oggi non si litiga su alcuni provvedimenti che possano favorire qualcuno. Si tratta di evitare che certe decisioni provochino danni devastanti in tutta l’Ue. Quindi, insistere come fa Renzi su una gestione comunitaria della migrazione biblica a cui stiamo assistendo senza alzare nuovi muri — posizione che l’Italia ha sostenuto nella riunione dei 28 ministri degli Interni ieri — o su una politica economica non più appiattita sul rigore ma indirizzata alla crescita, come richiesto dagli economisti di tutto il mondo, è sacrosanto. Solo che nella questione del rigore siamo in difficoltà, per tempi e modi. Il “momento” è passato. Lasciando solo il governo greco a sbagliare tutto, l’anno scorso, è stata persa l’occasione propizia per impostare una strategia diversa.

Oggi non c’è più la spinta dell’urgenza e della drammaticità. Per uno 0,2 percento in più o in meno nel rapporto deficit/Pil non si smuovono dogmi economici consolidati. Si fa piccolo cabotaggio. Per questo non ha senso, come sostengono anche autorevoli analisti internazionali — per tutti si veda il graffiante intervento di Wolfgang Munchau sulla “assenza di adulti” nell’entourage del presidente del Consiglio —, andare all’assalto della Commissione e della Germania con dichiarazioni gladiatorie.

Attaccare tutti dichiarando che l’Italia è un grande Paese, che merita rispetto, porta solo all’isolamento. Di posture crispine, per non dire di peggio, l’Italia ha già fatto amare esperienze. Non vorremmo che il riferimento ideale a Giorgio La Pira, a cui spesso si richiama Renzi, venisse preso alla lettera dal premier, vista l’impoliticità di quell’uomo generoso che si immaginava mediatore tra America e Vietnam al tempo del conflitto indocinese.

Il velleitarismo e il provincialismo sono due vizi storici della nostra politica estera. Se a questi aggiungiamo il pressapochismo e il disinteresse verso le questioni europee, visto che i nostri politici arrivavano spesso ai meeting senza adeguata preparazione, e persino inconsapevoli degli interessi nazionali (per non dire dei parlamentari europei, assenteisti e pronti a dimettersi alla prima occasione), allora confermiamo la fama di europeisti a parole, ma pasticcioni e inconcludenti nella discussione dei dossier più caldi. Finché comunque eravamo in linea con il vecchio motore franco-tedesco, bastava il sostegno verbale all’Europa ad evitare problemi. Ma se ora si vuole battere il pugno sul tavolo bisogna avere le carte in regola, a incominciare dall’osservanza delle norme dell’Ue, che invece infrangiamo più di ogni altro Paese.

Per essere presi sul serio è necessario essere seri. Per questo, alle belle parole su una Europa dei valori e ai bei gesti, come la visita a Ventotene, vanno fatte seguire proposte concrete, ben articolate, e anche di respiro. Il governo dovrebbe avere il coraggio di fare un salto di qualità: di proporre una revisione dell’architettura istituzionale e delle funzioni dell’Unione per renderla più vicina ai cittadini, con un Parlamento in grado di controllare e indirizzare le politiche e una Commissione non più succube del Consiglio. All’Unione, come ripete Renzi, va data una scossa. Giusto. E allora, invece di parole, il governo butti sul tavolo europeo un disegno articolato di riforme. È così che si conquista quell’autorevolezza che consente poi di giocare un ruolo attivo all’interno dell’Ue. E anche di difendere gli interessi nazionali.

Il summit europero raccontato da Andrea Tarquini e i ragionamenti di Ilvo Diamanti sul concetto di "confine": «sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Le frontiere e i confini: sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. ».

La Repubblica, 25 gennaio 2016 (m.p.r.)

LA NOSTRA IDENTITÀ IN QUEL TRATTATO.
NON PUÒ BASTARE LA MONETA UNICA
di Ilvo Diamanti
Un giorno dopo l’altro, l’Europa appare sempre più divisa. D’altronde, è difficile affidare il progetto unitario a una moneta. Tanto più in tempi di crisi economica e finanziaria. Perché se l’Europa si riduce a un euro, allora si svaluta. E l’anti-europeismo si allarga. Tuttavia, la questione europea diventa critica quando vengono messi in discussione i confini. Meglio: quando vengono ripristinati i controlli sui confini. Non per caso, la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, a Davos, ha espresso il timore che l’emergenza prodotta dai flussi di migranti possa compromettere il trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone tra gli Stati dell’Unione. Perché in quel caso verrebbe - implicitamente - rimesso in discussione il progetto di costruzione europea. Lo stesso timore è stato ribadito dal premier Matteo Renzi. D’altronde, l’euro, come i mercati, non ha confini. Può circolare comunque e dovunque. Le persone no. E i limiti imposti ai migranti si riproducono e rimbalzano anche sui residenti. Perché le frontiere sottolineano la sovranità degli Stati nazionali rispetto a quella europea. In definitiva: riflettono - e accentuano - la debolezza dell’Europa. Come progetto e come soggetto.

Tuttavia, sarebbe sbagliato trattare i “confini” semplicemente come un problema. Da superare e, possibilmente, eliminare. Per dare forza alla sovranità e all’identità europea. Le frontiere e i confini: servono. Sono necessari. Non solo sul piano istituzionale, ma anche cognitivo. Come la geografia, le mappe. Servono a orientarci, a rappresentare il mondo intorno a noi. I cambiamenti dei confini - e della geografia - riflettono, a loro volta, i cambiamenti nella distribuzione e nell’organizzazione del potere, su base territoriale. Il nostro dis-orientamento, negli ultimi decenni, negli ultimi anni, riflette il declino, in alcuni casi, il dissolversi dei nostri punti di riferimento. La trasformazione rapida e violenta del limes, com’era definito il confine (in continua evoluzione) dell’Impero romano. (E come recita il titolo di una nota rivista di geopolitica: liMes, appunto).
Noi, infatti, siamo orfani dei muri che per decenni hanno (de)marcato il nostro mondo. Eppure, al tempo stesso, gli davano senso, oltre che rappresentazione. Il muro di Berlino, a Est. Il Mediterraneo a Sud. Erano frontiere politiche, ma anche sociali e culturali. Ideologiche. Oggi non ci sono più. A Est: dallo sfaldamento dell’Unione Sovietica è riemersa la Russia. Che, tuttavia, non costituisce più, come prima, “l’altro” polo del Mondo. Ma “un” polo, per quanto importante. Mentre, nel caso del Mediterraneo, non si tratta più di un muro. Non ci separa (e non ci difende) più dall’Africa, né dal Medio- Oriente. È, invece, un confine stretto. Mentre il mondo è divenuto sempre più largo. E sempre più vicino. Incombe su di noi. La globalizzazione, per riprendere una nota definizione di Antony Giddens, è stretching spazio-temporale. Allungamento dei processi e delle relazioni nello spazio e nel tempo. E, dunque, perdita dei confini. Perché tutto ciò che avviene dovunque, nel mondo, anche molto lontano da noi, può avere riflessi immediati qui. Adesso.
Anche perché tutto avviene e scorre sotto i nostri occhi. Riprodotto e amplificato dai media. In diretta. E tutto rimbalza sulla rete. A cui tutti possono accedere. In tempo reale. Per questo, i confini non ci possono difendere. Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di confini. Di frontiere. Perché, come ha sostenuto Régis Debray, in un testo alcuni anni fa (dal titolo significativo Eloge des frontières, Gallimard 2010, pubblicato in Italia da ADD, 2012): «…una frontiera riconosciuta è il miglior vaccino possibile contro l’epidemia dei muri». (D’altronde, neppure i muri possono frenare i movimenti di persone, quando si tratta di esodi spinti dal terrore e dalla fame). Né, tanto meno, possono - né vogliono - fermare i flussi economici e monetari. Per questo, tanto più per questo, abbiamo bisogno di frontiere. Per dare ordine alla nostra visione del mondo. Per sentirci sicuri. Per avere la sensazione che esistano autorità in grado di governare la società. Capaci di esercitare la sovranità nel territorio in cui viviamo.
Perché, in fondo, è questo il fondamento - e il significato - dello Stato. Senza confini e senza frontiere, noi rischiamo di perderci. Di divenire, noi stessi, eterni migranti. Alla ricerca di una terra. Non “promessa”. Una terra e basta. Noi abbiamo bisogno di mappe per orientarci. Il trattato di Schengen è importante. Perché supera e apre i confini “interni” all’Europa. Ma, al tempo stesso, marca i confini “esterni”. Dentro i quali è possibile la libera circolazione. In base ai quali è possibile negoziare con gli “altri”. Così, de-finisce (cioè, delimita) l’Europa. Lo spazio entro il quale non abbiamo bisogno di passaporti da esibire alle frontiere. Perché non ci sono controlli alle frontiere. Anzi, non ci sono frontiere. Lo spazio dove, cioè, possiamo dirci - e sentirci - europei. Non uno Stato nazionale, ma una Confederazione di Stati nazionali. Che condivide alcuni interessi ma, anzitutto, un sentimento comune.
Per questo, come hanno osservato, polemicamente, Lagarde e Renzi, le limitazioni imposte alle frontiere di alcuni Stati europei rischiano di provocare il fallimento del Trattato di Schengen. E, insieme, del progetto europeo. Perché l’Europa, questa Europa, è senza confini. L’Europa: dove comincia e dove finisce? Chi ne fa parte? Chi ne farà parte? Difficile comprenderlo. Tanto più se, invece di indicare un limes, un territorio condiviso, che distingua noi dagli altri, i governi nazionali sono impegnati a erigere barriere interne all’Europa, invece di delineare e condividere quelle esterne. E in questo modo confermano e, anzi, accentuano l’incapacità di costruire l’Europa. Perché, senza uno spazio comune, senza un confine condiviso: com’è possibile costruire un’identità europea? Sentirsi e dirsi europei? La globalizzazione è allungamento dei processi e delle relazioni, nello spazio e nel tempo.

SCHENGEN LA BATTAGLIA DEI CONFINI
Di Andrea Tarquini

Oggi il summit europeo sui profughi. In Germania la politica dell’accoglienza della Merkel è sempre più in difficoltà. E gli stop alla libera circolazione mettono a rischio l’Unione

Berlino. Oggi ad Amsterdam il vertice straordinario dei ministri dell’Interno dell’Unione europea sui migranti è atteso come una scadenza decisiva non soltanto per la libera circolazione tra i paesi dell’area Schengen, ma per l’avvenire stesso dell’Unione e della moneta unica. Come ha ammonito la presidente del Fondo monetario, Christine Lagarde, lo stesso futuro dell’euro è in forse se Schengen verrà di fatto sospeso o revocato. E nelle ultime ore, alcuni paesi-chiave (Germania, Austria, Danimarca, Svezia e Norvegia) hanno chiesto la proroga fino al 2017 dei controlli provvisori al confine. Posizione cui l’Italia e altri paesi si oppongono duramente: «Nessun passo indietro, sarebbe un affossamento delle libertà conquistate in decenni d’integrazione, e l’Europa corre un rischio mortale», ha detto il titolare del Viminale Angelino Alfano.

A Calais intanto nuovi scontri con i profughi al confine hanno indotto i camionisti britannici a invocare l’intervento dell’esercito. A sorpresa a Londra il premier Cameron ha promesso di accogliere 3.000 bimbi siriani e 20mila profughi da campi vicini al paese arabo. Ma a Berlino sale la sfida dei falchi ad Angela Merkel e all’Europa meridionale. Julia Kloeckner, vicepresidente Cdu e finora fedelissima della leader, l’ha attaccata duramente. Ha proposto di ridurre gli ingressi e creare ai confini centri di raccolta dove i richiedenti asilo vengano distinti dai profughi economici, subito espulsi. L’idea è creare hot spot in Germania. Attacco implicito a Italia e Grecia accusate di non istituirli. L’offensiva di Kloeckner arriva dopo un crollo della CduCsu nei sondaggi, dal 39 al 32%, con gli xenofobi di Alternative fur Deutschland che sarebbero terzo partito.

«Strategia unica degli avvocati dello stato nei tribunali dei ricorsi. Boomerang di palazzo Chigi: Premio troppo alto? "Protegge dai cambi di casacca". Gaffe di Renzi sulla fiducia: sulle riforme non si può».

Il manifesto, 23 gennaio 2016

Il governo (palazzo Chigi e il ministero dell’interno) difende la legge elettorale con una strategia unica in tutti i tribunali dove l’Italicum è stato portato in giudizio — con l’accusa di violazione del diritto di voto dei cittadini, ma con l’obiettivo dichiarato di far arrivare la legge alla Consulta e ottenerne la bocciatura come fu per il Porcellum. Presentati in quasi tutti i tribunali dei capoluoghi regionali, i ricorsi saranno esaminati per la gran parte prima del prossimo 1 luglio, il giorno in cui scadrà la «clausola di salvaguardia» e l’Italicum entrerà pienamente in vigore. I primi ricorsi saranno discussi a inizio febbraio (Genova il giorno 1, Potenza il 2, Trieste il 3 e Messina il 5) e in preparazione di quelle udienze l’avvocatura dello stato sta presentando, in ogni tribunale, le sue risposte alle argomentazioni dei cittadini ricorrenti. Sono identiche e documentano per la prima volta le ragioni di difesa dell’Italicum da parte del governo, al di là dello slogan renziano «è una legge che presto ci copierà tutta Europa» (cosa che, trascorsi nove mesi da quanto è stata approvata, non risulta stia accadendo).

Abbiamo letto le memorie presentate dalle avvocature distrettuali di stato per conto di palazzo Chigi e Viminale a Genova, Trieste e Milano. Nel capoluogo lombardo pende un ricorso diverso (per risarcimento del danno, avvocati Bozzi e Tani), che ha tempi di esame più lunghi ma che è in uno stadio più avanzato rispetto agli atri: al termine dell’udienza di giovedì scorso il giudice si è riservato di decidere. Nello schema di ricorso messo a punto (dall’avvocato Felice Besostri) per il «Coordinamento per la democrazia costituzionale» sono individuate una quindicina di cause di incostituzionalità dell’Italicum. Il governo risponde a tutte, a cominciare da quella che è considerata tra le più evidenti dai ricorrenti: il fatto che la legge elettorale sia stata approvata — alla camera — con il ricorso alla fiducia. Il che sembrerebbe escluso dalla Costituzione che all’articolo 72 prevede che «la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale». Una previsione che ha peraltro confermato appena tre giorni fa proprio il presidente del Consiglio, che intervenendo al senato sulla revisione costituzionale ha detto: «Il punto vero però è che le riforme costituzionali non fanno mettere le fiducia, ma hanno restituito fiducia agli italiani». Su quel «non fanno mettere la fiducia» speculerà il coordinamento, visto che il riferimento costituzionale è unico sia per le leggi di revisione che per la legge elettorale. Nuove memorie saranno presentate ai giudici dei 19 tribunali individuati per i ricorsi. Intanto l’avvocatura ha risposto sostenendo che la questione di fiducia non ha fatto venir meno la votazione dell’Italicum «articolo per articolo» dunque deve intendersi perfettamente regolare. Peccato però che una volta chiesta la fiducia la discussione sul testo si interrompe e si passa a votare a favore o contro il governo (avviene sempre ed è avvenuto anche per la legge elettorale). C’è un precedente del 1980 nel quale la giunta della camera (presidente Iotti) stabilì che il voto sulla questione di fiducia «dà vita a un iter autonomo e speciale» ma la presidente Boldrini nell’ammetterlo sull’Italicum non ha voluto seguirlo. Al senato, poi, è successo anche di peggio, dal momento che a dicembre la commissione decise di portare il testo in aula senza relatore (Renzi aveva fretta), senza dunque concludere la «normale» fase referente. Curioso poi che tra le ragioni dell’avvocatura venga citato l’ostruzionismo del senatore Calderoli e dei suoi milioni di emendamenti. Non ammettere la possibilità della fiducia, scrivono gli avvocati del governo, «comporterebbe con ogni probabilità il blocco dei lavori». Ma quel precedente riguarda la riforma costituzionale, quando la questione di fiducia non fu posta e l’ostruzionismo superato con altre tecniche (il cosiddetto «canguro»).

In alte parti delle memorie dell’avvocatura di stato si sostiene la necessità dell’alto premio di maggioranza previsto dall’Italicum per proteggere la maggioranza «dai frequentissimi cambi di partito o di gruppo parlamentare»; argomento interessante provenendo da un governo che esattamente grazie a questi cambi è riuscito ad approvare le sue riforme. Infine, alla tesi dei ricorrenti che un ballottaggio tra liste per la formazione dell’organo legislativo come quello introdotto dall’Italicum, «non è previsto in nessun ordinamento democratico conosciuto», il governo replica che non è così. Perché c’è in Valle d’Aosta, e in Toscana.

uffington post online, 22 gennaio 2016

Mario Draghi ha parlato e come d’incanto le borse si sono risollevate. Non è un miracolo, è esattamente quello che ci si aspettava. Anche perché non era poi così difficile prevedere quello che il potentissimo governatore della Banca centrale europea avrebbe detto. Il novello re Mida infatti ha confermato che per ora non si prevedono muove misure, si mantengono quelle che già ci sono, ma che a marzo la Bce è pronta ad ampliare “senza limiti” l’acquisto di titoli, pur restando ovviamente nei termini definiti dal proprio statuto.

Tutto bene? Tutti felici? Non proprio. Intanto perché lo stesso annuncio di Draghi mette in luce che le cose fin qui non sono andate benissimo. Infatti l’obiettivo di accrescere l’inflazione, di avvicinarla al fatidico 2%, è stato largamente mancato. Lo stesso Presidente della Bce ha riconosciuto che le aspettative per una inflazione crescente nel corso dell’anno appena cominciato si sono indebolite, tenendo conto dei dati verificati a dicembre.

La deflazione continua e non conosce ancora terapie valide a combatterla. Draghi stesso ha più volte detto che la politica monetaria da sola non basta. Ma non si intravedono a livello europeo politiche economiche e fiscali in grado di aggredire la crisi profonda nella quale siamo precipitati. Che il neoliberismo e le politiche di austerity abbiano fallito sono ormai in molti a riconoscerlo, ma al di là delle chiacchiere sulla flessibilità rispetto ai vincoli troppo rigidi, non c’è alcuna inversione di tendenza sostanziale. Tantomeno nel nostro paese, malgrado i recenti litigi fra Renzi e i big della Ue.
Intanto la crisi economica e finanziaria globale non recede. Il volume complessivo del debito è aumentato rispetto al 2008. McKinsey stima che già nel 2014 ammontasse a 57mila miliardi di dollari in più rispetto all’inizio della crisi. Rispetto ad allora è cambiata la composizione del debito. Il peso maggiore non grava sulle spalle delle famiglie americane, quanto sulle imprese cinesi o di altri paesi emergenti o emersi, ma già carichi di guai. Fitch stima che in Cina il debito complessivo – in questo caso prevalentemente privato – è arrivato al 196% del Pil a fine settembre 2015. E’ in buona parte in valuta estera e solo un terzo è assicurato contro il rischio cambio. Insomma una nuova bolla si sta gonfiando e potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
D’altro canto le mosse della Federal reserve di innalzamento, seppure prudente e moderato, dei tassi, ha favorito lo spostamento capitali dai paesi di nuovo sviluppo verso gli Usa. A ciò si deve aggiungere che la guerra dei prezzi del petrolio, e i suoi risvolti finanziari, colpisce i paesi produttori che avevano in questo la loro principale risorsa, più che la produzione e l’esportazione di shale oil americano.
Diversi economisti tuttavia sostengono che non ci sarebbe da preoccuparsi troppo, perché il “sistema” ha imparato a difendersi dopo la scoppola della crisi dilatatasi a seguito del fallimento della Lehman Brothers. Le banche centrali non praticano più politiche restrittive e il meccanismo delle cartolarizzazioni – che diffuse urbi et orbi i subprime americani – è oggi un poco più sotto controllo.

Ma questo ottimismo si infrange almeno contro due duri elementi di realtà. Il primo concerne il fatto che nessuno ha messo mano al cosiddetto sistema bancario ombra, denunciato nei suoi ultimi libri dal compianto Luciano Gallino. Nessuno controlla quell’intreccio di fondi, di società, di investitori, di manovratori finanziari che, in quasi totale assenza di regolamentazione, hanno erogato credito in modi vari a singoli o imprese particolarmente dei paesi emergenti. Secondo una recente ricerca del Financial Stability Board il volume del denaro movimentato sarebbe pari a 137mila miliardi di dollari, dei quali 36mila in particolare potrebbero essere una mina vagante per la stabilità finanziaria.

Il secondo elemento è che le politiche di stimolo monetario, soprattutto se prolungate nel tempo, hanno come effetto collaterale quello di incrementare il mercato azionistico e di aumentare le già gigantesche diseguaglianze di reddito e quindi sociali. Lo ha affermato anche Joseph Stiglitz, confortato da molteplici studi di diversi centri internazionali, in una sua apparizione al Festival dell’economia di Trento: "In una economia moderna non si fa la distinzione tra debitori e creditori, ma tra chi risparmia e chi ha un patrimonio per nascita. Una politica come il Quantitative Easing può aumentare la disuguaglianza se si abbassano i tassi di interesse, le azioni si impennano i ricchi stanno ancora meglio ma i risparmiatori non hanno più fonti di reddito".
Infine bisogna pure tenere conto che il Quantitative Easing non può durare in eterno. Che anzi fin d’ora bisognerebbe preoccuparsi delle conseguenze sull’economia di una sua interruzione, quindi della necessitò di progettare atterraggi morbidi. Ma non mi pare che se ne occupi alcuno. Tutti intenti a brindare alle spumeggianti dichiarazioni di Mario Draghi. Effetto Titanic.
Una notizia agghiacciante. Diventa infinita la capacità di ricatto di Re Matteo I. Neanche ai tempi di Mussolini il potere occulto veniva privatizzato e affidato a un amico personale del Duce.

Il Fatto quotidiano, 16 gennaio 2016

C’è un uomo felice in questi giorni. Il suo nome è Carrai. Marco Carrai. Anzi, per la precisione agente Marco Carrai. Il suo amico e mentore Matteo Renzi lo ha incoronato zar italiano della cyber security e la nomina diventerà ufficiale nei prossimi giorni, quando la Presidenza del Consiglio avrà sfornato il decreto che farà nascere l’Agenzia per la sicurezza informatica e la inserirà al vertice del nostro sistema dei servizi segreti. Un parto che però non sarà facilissimo, tra gelosie, guerricciole di potere e conflitti d’interessi (dell’imprenditore Carrai).

Una nomina del genere, il premier ce l’aveva in mente da parecchio. Del resto è almeno dai tempi di Niccolò Pollari e Gianni De Gennaro che Palazzo Chigi si trastulla periodicamente con l’idea di nominare un super sceriffo della lotta contro hacker e phishing, una specie di Nicholas Negroponte “alla pizzaiola”. Il corpaccione dei Servizi, specie l’Aise (il Servizio esterno, ex Sismi), si è però sempre opposto per non perdere competenze conquistate negli anni e così si è arrivati al 2016 con una riforma a metà.

Carrai però fa parte del Giglio magico ed è un esperto di sicurezza informatica. Nell’entourage del premier giurano che “gli ha fatto una testa così” sulla guerra al cyber crime e chi segue il settore ricorda bene che nei mesi scorsi lo stesso Carrai, che ha alcune società nel ramo, ha spinto in ogni modo per ottenere un contratto con Telecom Italia. In questo aiutato e consigliato anche da Franco Bernabè, socio e amico di vecchia data, oltre che ex presidente della stessa Telecom.

Dopo mesi di pressing, Renzi si è dunque convinto della necessità di una nuova struttura ad hoc incardinata presso la Presidenza del Consiglio e nei giorni scorsi ha dato la lieta novella all’amico imprenditore, ai sottosegretari Luca Lotti e Marco Minniti (che ha la delega sui servizi di sicurezza) e all’immancabile Maria Elena Boschi. Il problema è che Carrai ha preteso la qualifica, per sé e per i suoi uomini, di agente segreto. Insomma, la famosa “licenza di uccidere”. Non che abbia in programma omicidi, ma il suo ragionamento è stato il seguente: “Se devo fare la guerra al crimine informatico, non basta essere una polizia, ma devo avere le prerogative e il raggio di azione dei servizi di spionaggio. Anzi, di controspionaggio”. Il discorso fila abbastanza dritto, ma pone un problema: il raccordo operativo con i Servizi (Aise, Aisi e Dis, Dipartimento per le informazioni e la sicurezza della Presidenza del Consiglio).

Lo schema su cui sta lavorando Renzi prevede dunque che l’agente Carrai e i suoi uomini siano incardinati funzionalmente sotto il Dis, diretto dall’ambasciatore Giampiero Massolo, in modo da avere la copertura operativa necessaria, ma poi dipendano direttamente da Minniti. Come la prenderà Massolo, per il quale pare peraltro che sia già pronta una poltrona da consigliere di Stato, è tutto da vedere. Della faccenda, in ogni caso, si sta occupando lo stesso Minniti. E non sarà una passeggiata neppure con l’Aise di Alberto Manenti.

Carrai, come detto,ha tutte le carte in regola per una simile nomina, al di là del fatto che la sua scelta da parte di Renzi rappresenta l’apoteosi del Giglio Magico (ci manca solo Davide Serra alla Consob). L’imprenditore fiorentino è tra i soci fondatori di “Cys4”, una società tutta dedicata alla sicurezza informatica, e in tale veste non ha esitato a fare un po’ il lobbista della categoria, facendo arrivare alle orecchie dell’amico premier la “notizia” che per le aziende italiane il cyber crime sarebbe una piaga da oltre 9 miliardi di euro di danni l’anno.

Di “Cys4” Carrai è il presidente, mentre l’amministratore delegato è Leonardo Bellodi, ex manager delle relazioni esterne di Eni. E tra i partner tecnologici della società vi sono alcuni esperti informatici israeliani. Carrai del resto è di casa a Tel Aviv, ha fatto da “piazzista” del gas israeliano presso Eni, vanta ottime relazioni con il governo di Netanyahu e il suo sbarco al vertice dei servizi italiani è certamente una buona notizia per Israele. Con la nomina a “Zar della lotta al cybercrime”, Carrai dovrà in ogni caso sterilizzare in qualche modo le proprie attività imprenditoriali nel settore. Le quote azionarie passeranno probabilmente al fratello oppure si darà vita al solito blind trust all’italiana, in cui nessuno formalmente si occupa di nulla, ma tutti ci vedono benissimo (specie al momento di incassare i dividendi).

Il manifesto, 16 gennaio 2016 (m.p.r.)

L’Aquila. L’Abruzzo abbandona il referendumantitrivelle. E lo fa con una decisionedella Giunta regionale che, ingran segreto, ingrana la marcia indietro,ignorando il mandato del Consiglio regionaleche, invece, compatto, il 24 settembre2015 aveva scelto di portare avanti laconsultazione popolare insieme ad altrenove Regioni (Basilicata, Marche, Puglia,Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria,Campania e Molise).

Voltafaccia delpresidente Luciano D’Alfonso (Pd) chein questa maniera lancia un chiaro segnaledi fedeltà al premier Matteo Renziche si sta muovendo su ogni fronte perevitare il referendum antipetrolio.D’Alfonso baratta la cancellazione delprogetto «Ombrina Mare» e i soldi del Masterplan(753 milioni) con l’abbandono delreferendum? Sta di fatto che la RegioneAbruzzo, senza farlo sapere troppo in giro,ha revocato l’incarico all’avvocato StelioMangiameli per i quesiti referendari antitrivelleche il 19 gennaio saranno all’attenzionedella Corte Costituzionale.

«Si tratta di un atto gravissimo ed irresponsabile,dell’ennesimo colpo inferto allademocrazia nel nostro Paese», fa presenteil Coordinamento nazionale No Triv.«Non solo il referendum non è più da temponella disponibilità di nessuno se nondella Corte Costituzionale - aggiungono iportavoci dei No Triv - ma, volendosi spingerefino ad infrangere le regole, avrebbedovuto essere il Consiglio regionale, cherappresenta tutti gli abruzzesi, a discuteree decidere se deliberare su questo drasticocambio di rotta. Il presidente D’Alfonso ela giunta si dimettano immediatamente!!!»

«L’Abruzzo ha rotto di fatto il fronte delleRegioni che si erano coalizzate contro il dilagaredelle trivellazioni in mare - commentaMaurizio Acerbo, di Rifondazione comunista-. La cosa più grave è che lo ha fattonon solo nascondendolo alla cittadinanzama persino in maniera illegittima visto cheil Consiglio regionale è all’oscuro di tutto.Da quel che mi risulta l’Abruzzo ha decisonon solo di non affiancare le altre Regioninel conflitto di attribuzione davanti allaCorte Costituzionale, ma persino di ritirarsidefinitivamente dalla compagine referendaria.Lo avranno deciso D’Alfonso e il suoesecutivo per ingraziarsi Renzi ma va sottolineatoche non era nelle loro facoltà inquanto queste decisioni spettavano al Consiglio.Tutto ciò - prosegue l’ex consigliereregionale ed ex parlamentare, Acerbo - dàla misura della senso dalfonsiano delle istituzioniché neanche la conferenza dei capigruppoè stata sentita. Non credo che l’avvocaturaregionale o il delegato LucrezioPaolini in questa materia possano legittimamenteassumere posizioni senza mandatodel Consiglio come invece sembra siaaccaduto».

«Può il presidente surrogare il Consiglioregionale, che aveva deliberato intal senso? O in un delirio di onnipotenzacrede di poter sostituire chicchessìa?»:lo chiede il senatore Fabrizio Di Stefano(FI), che aggiunge: «Una cosa è certa:questa scelta non rappresenta la volontàdegli abruzzesi e sicuramente dei consiglieriregionali di Forza Italia, che si farannosentire per contrastare questa iniziativache di certo nessuno vuole. Nonsi dica che la Legge di stabilità ha fermato"Ombrina" - aggiunge Di Stefano -."Ombrina" forse è stata bloccata, ma altretrivellazioni, anche più devastanti,possono ancora essere autorizzate. Sommiamola sospensione dell’autorizzazionead "Ombrina", l’autorizzazione allasocietà Petroceltic in Puglia e questa iniziativa:sono a mio giudizio indizi che cifanno preoccupare».

Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016 (m.p.r.)

Ancora una fumata nera per ladecadenza da deputato diGiancarlo Galan. Con scambiodi accuse tra MovimentoCinque Stelle e Pd. I grillini, infatti,hanno accusato i dem di rallentarel’iter che, secondo la legge Severino,porterà l’ex governatore del Venetoalla perdita del seggio parlamentare.Galan, infatti, nell’ottobre del 2014ha patteggiato una condanna a 2 annie 10 mesi diventata definitiva il 3 luglio2015, arrivata per l’inchiesta relativaagli appalti del Mose, che Galansta scontando ai domiciliari dopoaver passato 78 giorni in carcere. Daallora sono passati sette mesi, mal’ex ministro berlusconiano èancora deputato.

«È intollerabileche Galan sia ancora un deputatodella Repubblica nonostantela sua condanna definitiva.Questo succede perchéil Pd ha disertato perben due volte la giuntaper le elezioni permettendoa Forza Italia e Ncddi prendere tempo»,ha attaccato ieri DavideCrippa, capogruppo deiCinque Stelle in giuntaper le elezioni. Secondo ilgrillino «la diserzione inmassa dei deputati del Pdnon può essere casuale,ma è evidentementefrutto di un ordine discuderia». Accuse rispediteal mittente daidem. «Le parole di Crippa stupisconoassai. Avendo chiarito con lui cheil Pd vuole senza dubbio andare avantisulla decadenza di Galan nellaprossima riunione, le polemichestrumentali lasciano il tempo chetrovano», ha osservato il capogruppodem Giuseppe Lauricella.

Per la precisione ieri è saltata lariunione del comitato permanenteper le incompatibilità, ovvero un incontrodella giunta ristretto, che dovràrelazionare sulla vicenda. Poi laparola tocca alla giunta per le elezioninel suo complesso, che si esprimeràcon un voto, e infine la palla passaall’aula, che voterà anch’essa.«Le polemiche dei grillini sono strumentali.Gli slittamenti sono successia causa degli impegni parlamentari,per esempio, a dicembre, la legge distabilità. Ma da parte nostra non c’èalcuna remora, anzi siamo più decisiche mai a votare la decadenza», ha assicuratoLauricella. Ma il MovimentoCinque Stelle non sembra convintoe aspetta il Pd al varco alla riunioneprevista per la prossima settimana.

Sta di fatto, però, che il deputato azzurrocontinua a percepiredenaro pubblico nonostantela condannadefinitiva. Non tuttele indennità previstedal trattamento economicodei parlamentari,ma una buona fetta. Galan,infatti, riceve i 5 mila euro nettimensili previsti dallo stipendio.Mentre non gli viene assegnata né ladiaria (circa 3.500 euro), né il rimborsospese per l’esercizio di mandato(3.690), e nemmeno gli altri rimborsiprevisti, come quelli per le spese telefoniche.Dalla condanna, luglio2015, Galan a oggi, gennaio 2016, hapercepito circa 35 mila euro come deputatoancora in carica. A cui vannoaggiunti gli accantonamenti per il vitalizio.All’ex governatore sono staticontestati i reati di corruzione, concussionee riciclaggio.

Secondo laprocura del capoluogo veneto, infatti,l’ex ministro della Cultura ha percepito «uno stipendio di un milione dieuro l’anno più altri due milioni unatantum per le autorizzazioni necessarieall’opera». Così, il 22 luglio2014, la Camera decise sul suo arresto,nonostante il tentativo di rinvioda parte del capogruppo di Forza ItaliaRenato Brunetta perché Galan, acausa di una frattura del perone, eraricoverato in ospedale e non potevaessere in Aula a difendersi. L’Aulaconcesse l’arresto non ravvisando ilfumus persecutionis con 395 voti e favoree 138 contrari. E ora, a causa dellaSeverino, arriverà anche la decadenza.Sempre che la giunta per elezioniriesca a riunirsi e a votare.

Ipotesi inquietante: se il malefico regista dell'ignominiosa caccia alla donna non fosse né islamista fanatico né razzista furbastro ma l'automatismo dei meccanismi cibernetici che ogni giorno usiamo?

Il manifesto, 14 gennaio 2016

Sugli attacchi alle donne la notte di capodanno in diverse città della Germania c’è ancora molta luce da fare. C’è chi parla di una regia, di una strategia escogitata non si sa bene da chi, né a che scopo, tuttavia finora nessuna «mente» è stata identificata, né è chiaro come questa avrebbe agito, per coordinare un così grande numero di attacchi in parecchie città diverse e lontane.

Senza essere esperta sociologa, ritengo possibile che quel che è avvenuto sia uno esempio di «fenomeno emergente», un effetto imprevedibile sviluppato in modo pressoché autonomo, come diretta conseguenza delle condizioni date.

Come prima condizione vediamo un gran numero di persone frustrate da una qualità di vita decisamente scarsa, a volte pessima, in un paese in cui per contro, la maggior parte degli «altri» gode di un sistema che invece funziona bene (per gli altri), almeno apparentemente. La seconda componente del sistema è il fatto di trovarsi in grande numero tutti insieme contemporaneamente, nello stesso posto; dove questo non è fisicamente vero, la connessione via social network fa le veci della vicinanza. Allora un possibile supporre uno scenario in cui «semplicemente» sia avvenuta una prima aggressione, forse semplici insulti (certo, non sarebbe un bel gesto, ma nemmeno un fatto raro in occasioni di folle, magari tutti un po’ ubriachi o esaltati dal clima); supponiamo che uno dei protagonisti abbia postato su Fb o Twitter il fatto.

Tra chi ha ricevuto il messaggio, è certo possibile che qualcuno abbia «tratto ispirazione» ed emulato il fatto. Naturalmente, nel mondo social, è come non averlo fatto se non lo condividi, ed ecco che il giro si allarga, rimbalza, si carica, e quella che poteva essere una semplice bravata diventa sempre più grave e pesante fino ad arrivare a quella che oggi viene descritta come una violenza inaudita e organizzata contro le donne (tedesche?). In ambito scientifico c’è un filone di studio che si occupa proprio delle proprietà emergenti, e di forme «attive» di autorganizzazione, in cui per esempio anche semplici sfere in un fluido, possono acquisire comportamenti apparentemente organizzati (flussi di massa, spirali, fontane..) senza che nessun impulso esterno abbia fornito indicazioni, ma solo in presenza della alta concentrazione, e del fatto che vi sia dell’energia disponibile.

Questo avviene perché il comportamento di un elemento influenza ed è a sua volta influenzato da quello degli altri elementi intorno, un fenomeno che si sviluppa anche in forme viventi, come per esempio nel volo degli stormi di uccelli. Anche dal punto di vista teorico è possibile simulare le condizioni e produrre comportamenti emergenti, e addirittura è possibile creare <TB>«sciami di robot» che si autorganizzano, e si comportano in modo coordinato, anche senza che nessuna indicazione di comportamento venga imposta al sistema.

C’è da augurarsi che l’ipotesi sia sbagliata: è meno spaventosa l’idea che ci fosse sotto un disegno, perché in questo caso sapremmo (almeno in teoria) come affrontarlo. Ci sarebbe molto da temere invece di fronte ad un fenomeno che coinvolge così facilmente un così grande numero di persone, senza nessun controllo, e senza che vi sia modo di prevedere, e possibilmente prevenire lo svolgersi delle cose.

* Institute of Clinical Physiology – Cnr Pisa, Italia

Cronaca semiseria d'una storia dell'Italia di oggi. Una sindaca con gran voglia di far bene, strattonata tra partiti di opposti populismi, la criminalità organizzata e i media ingordi di scandali.

Il Fatto quotidiano, 14 gennaio 2016


Nella commedia A cheservono questi quattrini, Eduardo De Filippo racconta un apologo: “Una volta aun contadino cinese fuggì il cavallo. E tutti vennero a fargli le condoglianze.‘E chi vi dice che sia una disgrazia?’, rispose il contadino. Infatti ilcavallo tornò con altri sette. Tutti tornarono per congratularsi. ‘E chi vidice che sia una fortuna?’, rispose il contadino. Infatti, cavalcando uno deisette cavalli, il figlio cadde e si ruppe una gamba. Tutti tornarono a fare lecondoglianze al contadino, che rispose: ‘E chi vi dice che sia una disgrazia?’.Infatti scoppiò la guerra e il figlio, grazie alla gamba rotta, fu riformato”.La storia pare scritta per i 5Stelle, ma anche per quei partiti che volesseroeventualmente fare tesoro del “caso Quarto”.
C’era una volta un’avvocatessa,Rosa Capuozzo, che voleva cambiare le cose nella sua città, Quarto, comuneinquinatissimo alle porte di Napoli. E scelse il M5S che predicava legalità etrasparenza. Il Meet up locale la candidò, Grillo e Casaleggio le concessero ilsimbolo. Il capobastone Alfonso Cesarano, che faceva il bello e il cattivotempo in città, si preoccupò e si diede da fare per sostenere il Pd, con cui siera sempre trovato bene, scartando Forza Italia ma solo perché era in crisinera e non poteva vincere. Il Pd però presentò liste irregolari e fu esclusodalle elezioni.
Mentre tutti facevano le condoglianze al boss, uno che lasapeva lunga lo consolò: “E chi ti dice che sia una disgrazia?”. Infatti ilclan chiese aiuto a un ex consigliere Pd, Mario Ferro, per avvicinare uncandidato M5S, Giovanni De Robbio, e cooptarlo in cambio di 900 voti. LaCapuozzo stravinse il ballottaggio col 70% e De Robbio fu il consigliere piùvotato. Mentre il capobastone si fregava le mani, il solito bene informato logelò: “E chi ti dice che sia una fortuna?”.
Infatti la Capuozzo cominciò agovernare all’insegna della legalità. Il ras si disperò, ma il solito amico lorincuorò: “E chi ti dice che sia una disgrazia?”. Infatti saltò fuori che lasindaca viveva nella casa del suocero con una mansarda abusiva e subito la cosafinì in un dossier distribuito a consiglieri e giornali. De Robbio la avvicinòminacciando altre rivelazioni se lei non avesse affidato un impianto sportivo eregalato nomine ai compari.
Convinto di averla in pugno,il capobastone stappò lo spumante, ma il consigliori lo ammonì: “E chi ti diceche sia una fortuna?”. Infatti la Capuozzo negò i favori richiesti, la Procurascoprì i rapporti di De Robbio (e di Ferro) con il clan e i 5Stelle loespulsero.Il boss prese a testate ilmuro, ma l’amico lo rallegrò: “E chi ti dice che sia una disgrazia?”.
Infattila sindaca commise l’errore di non denunciare il ricatto ai pm, che però loscoprirono dalle intercettazioni. Il caso deflagrò su giornali e tv, con lagrancassa del Pd cui non sembrava vero di rivendicare non la propria trasparenza(non esageriamo), ma almeno l’altrui connivenza.
Infatti, dopo qualche giorno,i 5Stelle chiesero alla Capuozzo e alla sua giunta di dimettersi per rispedireQuarto alle urne. Il capobastone era al settimo cielo. Ma ecco il guastafeste:“E chi ti dice che sia una fortuna?”. Infatti la Capuozzo & C. decisero diresistere. “E chi ti dice che sia una disgrazia?”, sibilò il consigliori alboss ricaduto in depressione. Infatti, più i ribelli restano in carica, piùdiventa improbabile un’altra vittoria dei 5Stelle.
La storia finisce qui inattesa delle prossime puntate. Il M5S si lecca le ferite. Ha perso un punto neisondaggi e soprattutto – come scrive compiaciuta la stampa governativa – “laverginità”. Ma chi gli dice che sia una disgrazia? Chi ha trasformato in casonazionale questo scandaletto locale sperava di veder uscire con le ossa rotteDi Maio e Fico. I quali invece hanno dimostrato che mai avevano saputo delricatto alla Capuozzo: non demonizzando le intercettazioni, ma chiedendo di pubblicarlegiocsando d’anticipo con l’esibizione degli screenshot con tutti gli scambi dimessaggi con la sindaca. Tant’è che, persa la speranza di liberarsi delpericoloso rivale Di Maio, lo stesso Renzi ha dovuto chiudere il caso con latragicomica difesa della Capuozzo.
Casomai però i 5Stelle fossero tentati difesteggiare lo scampato pericolo, qualcuno dovrebbe domandargli: “E chi vi diceche sia una fortuna?”. Perché, è vero, Di Maio e Fico non sapevano nulla delricatto, ma per troppo tempo hanno sottovalutato il caso politico che stavaesplodendo a Quarto, anziché precipitarsi sul posto a informarsi e risolverlo.Ed è vero che il M5S ha confermato la sua diversità espellendo il consiglierecolluso e la sindaca reticente, ma è pure vero che le espulsioni arrivanosempre tardi. Specie in zone così inquinate dalla criminalità organizzata, nonsolo i 5Stelle, ma tutti i partiti che davvero schifano i voti mafiosi devonostudiare meccanismi più efficaci per selezionare i candidati e tener fuori nonsolo i collusi, ma anche gli avvicinabili e i ricattabili, con filtri molto piùstretti. I meet up e il web non bastano.
Un tempo i partiti avevanostrutture sul territorio capaci di sapere tutto di tutti. Oggi non più, e pergiunta i 5Stelle non vogliono diventare partito. Ma possono replicare su scalaregionale l’esperimento del direttorio, dando a persone fidate l’ultima parolasulle candidature: per tener d’occhio una giunta votata dal 70% in zone ad altadensità mafiosa; per respingere una brava donna che vuol fare il sindaco, maabita in una casa con sospetti abusi edilizi; per dirimere le beghe locali cheinevitabilmente sorgono quando si governa da soli contro tutto e contro tutti.Il che può essere una fortuna, ma anche una disgrazia.

Il manifesto, 12 gennaio 2016

Alla fine ilbubbone è scoppiato (“E’ bene che gli scandali avvengano”). L’aggressionecontro decine e decine di donne la notte di Capodanno, a Colonia e in altrecittà tedesche, ma anche in Svizzera, Austria, Svezia e Finlandia, da parte difolti gruppi di uomini stranieri, prevalentemente arabi, mette in evidenza leenormi difficoltà a cui sta andando incontro la convivenza tra cittadini diorigine europea e immigrati; ora, dopo l’arrivo in Europa di un milione diprofughi nel giro di un anno, molto di più che in passato. E proprio per questomette del pari in evidenza la grande cura con cui questa difficoltà vaaffrontata.

E’ un evento,questo di Colonia, che non va né sottodimensionato né sottovalutato; non soloperché a impedire di farlo già provvedono e provvederanno sempre più sia lafuria razzista delle organizzazioni di destra che le dissertazionipseudoculturali sulla civiltà europea della stampa e dei media di regime; e nonsolo perché è verosimile che, seppure in altre forme, eventi come questo sianodestinati a ripetersi; ma soprattutto perché comprendere il meccanismo che loha messo in moto e il modo in cui maneggiare questa materia così delicata eincandescente è tutt’altro che semplice: volenti o nolenti, ci terrà impegnatia fondo nei prossimi anni. Alcuni punti possono essere però sottoposti allanostra riflessione fin da ora.

Innanzitutto sitratta di una manifestazione particolarmente disgustosa di una guerra di uominicontro donne: una guerra in corso, con diversa intensità e diverse manifestazioni,da sempre e su tutto il globo. Proprio per questo ci coinvolge tutti: nessunopuò chiamarsene fuori senza chiedersi se non c’è qualche nostro atteggiamento,comportamento o omissione, espliciti o rimossi, che quella guerra contribuiscein qualche modo ad alimentare o a perpetuare.

Per questo varigettata qualsiasi interpretazione che tenda a riportare quell’evento a unoscontro di culture o di civiltà: musulmani contro cristiani, o arabi rozzi eincolti contro europei civili, o popoli che soggiogano e disprezzano le donnecontro quelli che “le hanno” emancipate e le rispettano: non c’è certo piùviolenza in quello che è successo a Colonia di quanto vanno a fare milioni dituristi del sesso in tanti paesi dove è loro concesso farlo, o di quanto si ritengonoin diritto di fare tante truppe di occupazione: e non solo in guerra; si pensi peresempio alla lunga lotta delle ragazze giapponesi vittime per decenni delleviolenze perpetrate dai militari delle basi americane in Giappone. Ma, perrestare vicini a noi, vale la pena ricordare che il modello di quanto messo inatto a Colonia la notte di Capodanno è facilmente riconducibile amanifestazioni come l’Octoberfest di Monaco, dove, senza bisogno di profughi emigranti, le molestie contro le donne - solo in alcuni casi apparentementeconsenzienti perché in preda ai fumi dell’alcol - sono all’ordine del giorno ele denunce di stupro, solo dopo l’ultima edizione, sono state oltre duecento.

Peggio ancora èil grido di battaglia rigurgitato da alcuni dei maggiori esponenti dellacultura italica mainstream: “Difendiamo le nostre donne!”, dove quel “nostre”dice tutto. Le “nostre donne” vanno difese perché sono “cosa nostra”. La sortedelle altre donne al più non ci riguarda, quando non le si considera direttamente“a disposizione”. E quel “nostre” può oscillare dalla ristretta cerchia di unnucleo familiare (salvo violarle in vari modi all’interno di quella stessafamiglia) alla cerchia larghissima della “famiglia europea”, o di una suacomponente “legittima”: purché ci sia un “fuori”, ci siano delle altre donnenei cui confronti il dovere di tutela non vale, e non deve valere. E’ unsentire diffuso, speculare, ancorché spesso inconsapevole, al possesso delledonne esplicitamente rivendicato dalle manifestazioni più estreme dellepolitiche islamiste: le “loro” donne vanno tenute sotto chiave e nascostedietro un velo o un burka: le “altre” possono essere fatte oggetto delle piùferoci forme di violenza.

Queste sonoconsiderazioni di ordine generale, ma non vanno trascurate le specificità.Anche se, come alcuni video hanno evidenziato, tra le donne molestate a Coloniace ne erano diverse di aspetto mediorientale, il cuore dell’evento è stato unaaggressione di giovani uomini, immigrati o profughi, contro donne tedesche: enon, principalmente, per derubarle durante i palpeggiamenti, ma, caso mai, perpalpeggiarle mentre le derubavano. Una vera e propria sfida nei confronti dellaloro “emancipazione”, del loro abbigliamento, del loro andare in giro di nottee, beninteso, del loro avere una vita sessuale libera che agli aggressori ènegata tanto dalla cultura da cui provengono quanto dalla loro condizione diuomini soli, destinati a rimaner tali per molto tempo o per sempre.

Qui laprima considerazione da fare è che il rispetto per le donne viene meno quantominori sono le possibilità di frequentarle liberamente e su un piede di parità,sia che questo dipenda da vincoli culturali o religiosi, sia da una condizionedi segregazione, come è di fatto quella di molti migranti.
Poi variconosciuto che queste aggressioni sono state programmate e organizzate. Avràcontato anche, e molto, il passaparola; ma la contemporaneità dello stessoevento in tante città, le sue modalità, il fatto che alcuni degli aggressoriavessero in tasca un foglio con le parole con cui accompagnare i loro approcciscomposti, il fatto di stracciare il permesso di soggiorno vantandosi dipoterne ottenere un altro il giorno dopo, e soprattutto il dato che l’epicentrosia stata una città governata da una donna fatta oggetto di un attentato e diun’aggressione politica per le sue scelte di accoglienza nei confronti deiprofughi non dovrebbero lasciare dubbi in proposito.

Non è alle centinaia dimigliaia di profughi che hanno affrontato con figli e famiglie un viaggiocarico di pericoli, di umiliazioni, di fatica e di stenti che può essereattribuito un comportamento del genere. Anche se verrà accertato che tra gliaggressori ci sono dei profughi arrivati di recente, la cosa non può esserespiegata che con il fatto che si siano aggregati a bande di connazionali giàcostituite e cresciute nella segregazione. Di certo l’obiettivo era accrescerela tensione tra comunità islamiche e cittadini europei. Difficilmente leindagini potranno fare chiarezza, ma se vi fosse stato anche qualche apporto istituzionaledi infiltrati nelle comunità islamiche o tra i profughi è da questo che FrauMerkel dovrebbe guardarsi ben più che da un eccesso di nuovi arrivi.

Quello che ifatti di Colonia ci insegnano, o ci possono aiutare a capire meglio, è cheaccogliere significa, sì, il contrario di tutto quanto l’Unione europea stafacendo nei confronti dei profughi: corridoi umanitari sicuri, abolizione delpermesso di soggiorno e dei vincoli di Dublino III, sistemazione decente elavoro per tutti (cioè un piano europeo vero, in grado di creare milioni diposti di lavoro sia per profughi e migranti che per i cittadini europeidisoccupati), reddito garantito per chi non trova lavoro e, quindi, rovesciamentoradicale delle politiche di austerità.

Ma accoglienza significa soprattutto - equi contano molto gli atteggiamenti soggettivi - creare un ambiente doveprofughi e migranti non si sentano e non vengano trattati come un corpoestraneo nei confronti del resto della popolazione; perché è in quei “corpiestranei” che si costruiscono o si consolidano quelle identità separate che poisi manifestano in forme di contrapposizione sempre più violente e atroci; dicui la violenza contro le donne è la più radicale di tutte. D’altronde ilmantenimento o la riconquista di un controllo pieno sulle vite delle donne sonoanche la vera posta in gioco delle tante guerre che si combattono ai confinidell’Europa e ora, sempre di più, anche al suo interno.

Certo, parlare diaccoglienza in questi termini appare lontano mille miglia dallo stato di cosepresente. Ma la strada della nostra emancipazione, di uomini e donne, cominciacon il mettere in chiaro dove vogliamo arrivare. E se non cominciamo a farloandando a fondo, senza ipocrisie, nei modi in cui viviamo i rapporti tra uominie donne, anche tutto il resto rischia di sfuggirci di mano.

Nuovi elementi sulle violenze di Colonia nella cronaca di Andrea Tarquini. L'opinione della storica tedesca Ute Frevert. intervistata da Antonella Guerrera.

La Repubblica , 11 gennaio 2016 (m.p.r.)



“LA NOSTRA SOCIETÀ STA REAGENDO ANCHE GRAZIE AL FEMMINISMO”
di Antonello Guerrera

Nonostante le violenze, il femminismo in Germania è vivo. Ha permeato la nostra società a tutti i livelli. Le donne non sono discriminate nel nostro Paese. Altrimenti non ci sarebbe mai stato uno scandalo del genere». Ute Frevert è una delle più celebri storiche tedesche, insegna al Max-Planck-Institut di Berlino e ha a lungo studiato il femminismo in Germania e nel mondo. Risponde indirettamente alle accuse di un’altra intellettuale tedesca, Nina George, che ieri su Repubblica ha tacciato il suo Paese di sessismo e quotidiana violenza nei confronti delle donne, considerate solo come potenziali “madri”. Per Frevert, invece, i fatti avvenuti a Colonia e in altre città a Capodanno non sono il sintomo di una discriminazione subdola e strisciante nella società tedesca. E Frevert difende anche la polizia, accusata da più testimoni di aver sottovalutato, o peggio ignorato, le denunce delle donne abusate.
Perché, professoressa Frevert?
«Perché la polizia è stata semplicemente colta di sorpresa quella notte. Non era stato calcolato il potenziale pericolo. E non è rimasta inerme di fronte alle molestie e alle violenze sessuali. Non ci credo. Perché la società tedesca è cambiata moltissimo da tre-quattro decenni a questa parte. Anche grazie al femminismo».
Eppure da più parti si parla di discriminazioni sessuali mai soffocate in Germania. Solo qualche tempo fa c’è stata la clamorosa protesta “Aufschrei” (“grido di scandalo”) contro il “sessismo imperante”. Crede davvero che il femminismo sia così influente nel suo Paese?
«Il femminismo in Germania è imponente, perché col tempo è riuscito ad “emigrare” nella politica e nella società. Tutte le nostre istituzioni, dalla scuola pubblica alle chiese, fino all’esercito, incarnano una grande sensibilità nel combattere la discriminazione femminile. Anche per questo l’indignazione per i fatti di Colonia è stata così massiccia».
Ora però le tedesche hanno paura.
«Hanno paura come prima, niente di più. Gli attacchi a sfondo sessuale ci sono sempre stati in Germania, anche nelle migliori famiglie tedesche».
Ma quello che è successo a Colonia è un crimine «totalmente inedito», non trova?
«Inedito? Lei forse non è mai stato al Carnevale proprio di Colonia. Che da questo punto di vista è un pessimo esempio: non può immaginare quante persone in strada, in massa, sono sempre lì a toccare culi e tette alle donne».
Però, in questo caso, si è parlato di una violenza di genere legato all’Islam, che secondo alcuni e in certe circostanze discrimina le donne. Lei è d’accordo?
«Non voglio generalizzare, perché la religione musulmana è un insieme eterogeneo di pratiche e tradizioni. E le violenze di Colonia hanno gettato un’ombra ingenerosa su migranti e profughi, che ora vengono travolti dalla Sippenhaft (una sorta di “colpa collettiva per associazione”, come capitava anche durante il nazismo, ndr) scatenata da quel branco di ubriachi e frustrati di Capodanno. Ma certo ci sono grosse difficoltà comunicative e di comprensione in questo senso. Molti uomini che arrivano in Europa da Paesi plasmati dall’Islam non riescono ancora a interpretare il comportamento delle donne europee. Il nostro livello di emancipazione li travolge. E così interpretano male alcuni nostri simboli, come le minigonne o i capelli al vento, intendendoli come un invito al sesso. L’unica cosa possibile è una strategia doppia: repressione massiccia di questi comportamenti, ma anche una maggiore formazione interculturale».
Lei pensa che cultura islamica e totale parità tra i sessi siano due concetti compatibili?
«Certamente sì. Non a caso, anche tra le musulmane ci sono molte femministe che ogni giorno combattono stereotipi e disciminazioni nei propri Paesi. In Europa in passato c’è stata un’ardua resistenza contro i movimenti di emancipazione femminile. Persino la nostra società deve farne ancora molta di strada per arrivare a una vera parità».

“MOLESTARE LA DONNA BIANCA”, L'ORDINE AL BRANCO DIFFUSO ONLINE
di Andrea Tarquini

Colonia. «Molesta e aggredisci la donna bianca, usala come vuoi»: l’ordine era arrivato online. Così è stato organizzato il blitz di violenza sessuale contro le “infedeli” diffuso nell’Europa intera. «A Capodanno attuate il Taharrush gamea ovunque in Europa, assaltate le loro donne, fate vedere chi siamo». I grandi media tedeschi raccontano, governo federale e Bka (lo Fbi tedesco) non smentiscono e di fatto confermano l’ipotesi orribile. Taharrush gamea, fosca definizione, fu l’altro volto, quello oscuro, delle primavere arabe: significa molestare e aggredire le donne in strada, mostrare il predominio dei maschi. La notizia esaspera lo shock in Germania e in Europa, mentre si diffondono dati allarmanti: «Nel 2016 si prevedono arrivi di migranti stimati tra gli otto e i dieci milioni».
E-mail e sms, messaggi criptati o in chiaro, trasmessi ovunque in arabo e inglese, tedesco e italiano e altre lingue ai residenti d’origine araba nel Vecchio continente: a questo, fanno capire gli inquirenti, alludeva la giovane speranza della socialdemocrazia, il ministro della Giustizia Heiko Maas, parlando di «azione organizzata e cordinata».

Interpellati da Repubblica, i responsabili del ministero dell’Interno e del Bka non smentiscono: «Indaghiamo su tutte le piste, senza escludere nulla, tantomeno il fatto che l’appello alle aggressioni sessuali di massa sia stato una trappola diffusa online dall’ultradestra xenofoba o neonazista contro i migranti. Ma quest’ultima ipotesi, cioè che i neonazi siano in grado di mobilitare islamici o islamisti in Europa per suscitare odio contro i migranti, ci appare improbabile».
Colonia nel frattempo è tornata paradossalmente a uno stato di tranquillità, tra plotoni di cortei di maschere che si preparano all’imminente carnevale come se nulla fosse successo. Niente più polizia a presidiare il centro invaso sabato dal corteo di Pegida, poi sciolto dagli agenti e dalla contro-manifestazione anti-razzista. Ma dietro le quinte è allarme rosso. «Se il guardasigilli dice quel che dice, avrà le sue ragioni, sente ogni giorno i suoi compagni di partito dell’Spd a Colonia e i governi di tutta Europa», nota un’alta fonte del ministero della Giustizia. La mappa del piano d’assalti contro le donne fa paura: ben 12 le città europee, di cui sette tedesche, erano nel piano d’azione.
«È una nuova dimensione del crimine», dice allarmato in diretta tv il ministro dell’Interno Thomas de Maizière, fedelissimo di Angela Merkel. «È chiaro che tutto è stato preordinato e organizzato», incalza il suo collega socialdemocratico Heiko Maas. Orrore sull’orrore: l’Europa abituata da decenni a vivere l’atmosfera felice di pari diritti delle donne e di spazio multietnico senza frontiere si scopre come riserva di caccia dei nuovi gruppi dell’odio.
«Niente conferme, ma soprattutto niente smentite, il problema è grave», ci ripetono fonti dei ministeri di Giustizia e dell’Interno, oltre che dello Fbi tedesco (Bka). Taharrush gamea, la nuova sfida islamista all’Europa dopo la strage di Parigi. Ma chi sono i colpevoli? «Attenzione a non accusare in corsa i migranti appena arrivati», avvertono fonti dell’intelligence di Berlino. La mappa della nuova armata del terrore contro le donne, è più complessa. «La maggior parte degli indagati e dei sospetti», confessano gli agenti «non sono migranti dell’ultima ora: da Colonia a Stoccarda, da Helsinki a Zurigo, gli assalti erano troppo precisi. Mostrano conoscenza da guerriglia urbana delle città in cui sono avvenuti». Aggiunge un alto ufficiale della polizia di Colonia: «Sono gruppi, clan, bande di nordafricani, non persone richiedenti asilo. Vivono da noi una volta entrati nello spazio di Schengen, hanno permessi provvisori. Sono i nuovi euronomadi, vivono viaggiando tra Germania e Olanda, tra Italia Austria e Scandinavia, si tengono in contatto online tra loro ogni volta che serve, e ascoltano ogni messaggio. Sanno coinvolgere qualcuno dei molti nuovi migranti, ma solo per fare numero».
Euronomadi, spesso adolescenti, dicono i dossier segreti dell’intelligence tedesco: anche nordafricani tra i 15 e i 17 anni. «Noi che adesso dobbiamo difendere i pochi tra loro identificati e indagati ci troviamo di fronte a una realtà nuova, finora sconosciuta», confessa Ingo Lindemann, difensore d’ufficio di alcuni arabi arrestati. Da Colonia a Zurigo, da Helsinki a Vienna, nei dossier delle polizie emergono identikit spaventosamente analoghi. Adolescenti, giovani, 35enni, tante storie personali diverse, tutti uniti dallo stesso istinto d’obbedienza a quegli appelli online alla mobilitazione «contro la donna bianca».
«Dobbiamo indagare a fondo, non chiedeteci diagnosi precoci», insistono gli 007 tedeschi e fonti vicinissime al ministero dell’Interno. Ma aggiungono: «Se il ministro della Giustizia ha parlato di piano coordinato, va preso sul serio». Con queste paure la Colonia del carnevale imminente, la Germania di Angela Merkel in crisi e l’Europa intera si preparano all’indomani.
«Colloquio di Giuseppe Lo Bianco con il procuratore di Agrigento Renato Di Natale: “Abbiamo dovuto aprire 25 mila procedimenti senza senso”».

Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2015 (m.p.r.)

Palermo. «Non so come andrà a finire visto che sembra che il governo ci abbia ripensato, ma quel reato si poteva abolire un anno prima, quando è arrivata la delega dal Parlamento: sarebbe stato più facile approvarlo senza l’emergenza terrorismo e ne avrebbe guadagnato l’efficienza di tante procure in prima linea nel fronteggiare l’immigrazione e il traffico di esseri umani». Nel suo ufficio al Palazzo di Giustizia di Agrigento, il procuratore Renato Di Natale indica i fascicoli aperti nel solo 2015 per perseguire un reato «che non è stato un deterrente al fenomeno, ha ostacolato le indagini e ha intasato inutilmente gli uffici impegnando cancellieri e segretari in migliaia di singoli processi».
Gli indagati ad Agrigento sono 25 mila, tanti quanti gli uomini e le donne sbarcati dal 2014, senza contare i fascicoli aperti per perseguire tutti quelli che hanno fornito una falsa identità: «Lo scopriamo quando li arrestano, magari in Veneto o Lombardia - dice Di Natale - ma il fascicolo va aperto ad Agrigento perchè qui è stato commesso il reato». “Reato inutile e dannoso”, anche per l’Anm. Ma nella città del ministro Alfano che non vuole abrogare il reato c’è la procura di frontiera che sorveglia l’ingresso in Europa dalla sponda sud del Mediterraneo: gli immigrati sbarcati a Lampedusa, a Linosa, a Porto Empedocle, nonché la maggior parte di quelli raccolti in mare aperto dalle forze dell’ordine, finisce qui, ad affollare il registro degli indagati tra i più nutriti del Paese.
Con questa norma, infatti, «per ognuno di essi si deve aprire un fascicolo - prosegue il procuratore - iscrivere il nome, spesso falso, nel registro degli indagati, e salvo i casi di rifugiati, arrivare ad una condanna per 5.000 euro, che chi arriva senza neanche le scarpe, con tutto il rispetto, non può pagare: non credo sia questo il modo di risanare il buco nel bilancio della Giustizia». E visto che gli sbarchi «sono quasi raddoppiati» rispetto al 2014 «la norma - prosegue il procuratore - non ha avuto un effetto deterrente, anzi, ha ostacolato le indagini perchè la diffidenza di chi ha patito un viaggio in mare in condizioni difficili è aumentata di fronte ad un interrogatorio alla presenza di un difensore, nel quale era chiamato ad identificare gli scafisti, un riconoscimento che il più delle volte può essere immediato, sul molo dello sbarco. E ricordiamo che chi viene sentito come indagato ha la facoltà di mentire, chi invece è testimone ha l’obbligo di dire la verità».
Se si abroga, dice Di Natale, «nel mio ufficio si libereranno energie da impiegare in altre direzioni». In questi anni le procure hanno applicato valutazioni diverse, ritenendo, ad esempio, che la condotta dell’immigrato fosse punibile tout court, perchè evidenziata dalla sua volontà di mettersi in viaggio verso l’Italia, o, al contrario, non fosse perseguibile, perchè terminata al momento dei soccorsi, per mezzo dei quali ha raggiunto il territorio italiano: altre ancora hanno ritenuto di non perseguire i migranti, rilevando lo “stato di necessità” che li ha spinti a mettersi in viaggio verso l’Europa.
Sui fatti di Colonia le analisi di Natalia Aspesi e Giuliana Sgrena; le considerazioni della scrittrice tedesca Nina George intervistata da Antonello Guerrera e dello scrittore algerino Kamel Daoud.

La Repubblica il manifesto, 10 gennaio 2016 (m.p.r.)

La Repubblica
TUTTI I BRANCHI DEI MASCHI

di Natalia Aspesi

Quella notte le donne venivano aggredite, spogliate, picchiate, derubate. Venivano derise da un muro di maschi stranieri organizzati, e intanto ai maschi poliziotti tutto sembrava un gioco festoso da non interrompere, e i maschi cittadini che presumibilmente accompagnavano le donne o comunque attraversavano la piazza come loro preferivano guardare dall’altra parte, evitando di intervenire a difendere le vittime assalite da maschi migranti e apparentemente non armati, quindi pericolosi ma non troppo.

Quella notte, a Colonia, ma anche altrove, le donne si sono ritrovate completamente sole, tra maschi violenti, maschi indifferenti, maschi spaventati. Di nuovo dentro la loro storia secolare di isolamento, impotenza, sopraffazione, abbandono, pericolo, che ogni tanto sembra finita e invece non lo è mai: probabilmente ancora una volta usate per consentire a un branco di maschi di disprezzarle e rimetterle al loro posto di sottomissione e irrilevanza, e a un altro branco di maschi di ergersi, dopo i fatti e solo a parole, a indispensabili protettori, a eroici paladini della loro libertà, che per secoli hanno ostacolato e ostacolano tuttora; e a un altro branco ancora a servirsene come pedine di una sporca politica.
Ma da quando le donne, e si parla solo di quelle occidentali, e in particolare le italiane, sono libere davvero, non solo per le tante nuove leggi degli ultimi settant’anni? Ci sono frammenti di realtà che rinascono dalla memoria individuale o scopri in un film: e per esempio negli Anni ’50 il ricordo che se il parto metteva a rischio la vita della madre o del bambino, era il marito che doveva scegliere chi poteva vivere, ed era sempre il bambino. Oppure, nel recente grande film tedesco Il labirinto del silenzio, un giornale radio della fine degli Anni ’50 informa che da quel momento le donne, se sposate, potranno lavorare solo col consenso del marito. Piccoli omicidi, minuscoli ostacoli, dentro un mondo di esclusione e impotenza delle donne, di supremazia e potere degli uomini.
Certo le donne fanno i ministri e i capi di Stato, spesso benissimo ma è sempre non sulla loro capacità politica ma sul loro corpo di donna che gli avversari l’attaccano: culona, non la scoperei mai, lesbicaccia, cesso eccetera. Gli attacchi sul web contro i pensieri delle donne, metti povere loro che non gli piaccia Zalone e lo mettano su Facebook: le minacce di morte sono il meno, e i più violenti verbalmente, se le avessero davanti, forse strapperebbero loro gli slip come a Colonia.
Anche le donne occidentali non sono quiete da nessuna parte, in piazza le assaltano gli immigrati ma spesso il branco è del paese, e anche in casa devono stare attente, gli stessi loro uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccar loro la testa.

Il manifesto
INCIVILTÀ DI GENERE
di Giuliana Sgrena

Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki.

Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono.

È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale.

Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne.

Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso.

Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare «i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo». Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia.

Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura.

Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania.

È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando.

Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne.



La Repubblica

“FATTI GRAVI E CRIMINALI,
MA LA GERMANIA È UN PAESE SESSISTA”

intervista a Nina George di Antonello Guerrera
«Quello che è successo a Colonia la notte di San Silvestro è una vergogna. Ma sono comportamenti frequenti in Germania. I tedeschi, che oggi si scandalizzano per gli atroci fatti di Capodanno, fanno finta di non vedere. Nel mio Paese le donne sono sempre state discriminate. E lo sono ancora. È arrivato il momento di dirlo». È glaciale il j’accuse di Nina George, 42enne scrittrice tedesca, pluripremiata autrice del bestseller mondiale Una piccola libreria a Parigi (Sperling & Kupfer). Lei si dice « ancora scossa dopo Colonia». Ma «non ha paura».

Perché ce l’ha così con il suo Paese?
«Perché ora questa vicenda viene strumentalizzata dai razzisti, come abbiamo visto ieri con la manifestazione di Pegida. Ma sono cose che sono sempre successe. È sconvolgente l’omertà dei tedeschi. Perché le nostre donne non dicono niente quando sono i connazionali ubriachi a molestarle durante l’Oktoberfest (la celebre sagra della birra a Monaco, ndr) o lo stesso Carnevale a Colonia? Che vergogna».

Però una violenza collettiva del genere, forse coordinata, non si era mai vista.
«Sono criminali che non hanno niente a che fare con l’-Islam e che vanno puniti con estrema severità, non c’è dubbio. Ma sono cose che, in silenzio, sono sempre successe in Germania. Perché, nonostante i bei proclami, qui le donne non vengono mai difese. Abbiamo visto come le loro denunce agli agenti siano rimaste inascoltate quella notte a Colonia. Oppure come gli uomini presenti non le abbiano difese. In Germania manca il coraggio. E le donne raramente denunciano le violenze, perché sanno che non vengono ascoltate. Questo è un Paese che discrimina le donne».

Come fa a dirlo, scusi? Perfino il cancelliere è una donna.
«Ma la concezione della donna in Germania è molto particolare. Fa male dirlo, ma è così. La donna da noi viene vista principalmente come una potenziale mutti, una “mamma”, e questo influisce molto sulla vita quotidiana, sui salari, sul rispetto. Basta vedere la percentuale di artiste o scrittrici famose. Sono pochissime. Due anni fa c’è stata una clamorosa protesta delle donne, la Aufschrei (una sorta di “grido scandalizzato”, ndr) che denunciò pubblicamente il clamoroso sessismo nel nostro Paese. Ma tutti l’hanno già rimossa. E nulla è cambiato».

Niente? Nemmeno dopo il decennio di Angela Merkel?
«Anche se oggi mi ha un po’ deluso associando spudoratamente i fatti di Colonia all’immigrazione, lei è un vero esempio di donna, lontano da ogni stereotipo di “ragazza copertina”. Certo, oggi i tempi sono migliori rispetto a quando c’erano Kohl o Schröder. Ma il problema rimane. Del resto, la Germania non ha mai avuto un vero femminismo. È ora di plasmarne uno per il XXI secolo. Non sarà facile. Ma ora il problema vero è un altro».

Quale?
«Il razzismo che pervade sempre di più la nostra società. Si faccia un giro sui social network in Germania: è inquietante la valanga di bufale xenofobe che ogni giorno circuiscono sempre più persone. Online c’è una propaganda invisibile che sta inquinando le radici dello Stato democratico tedesco. Una mia amica era alla stazione di Colonia la sera di San Silvestro e poco dopo su Facebook ha scritto un post in difesa dei migranti. Ha ricevuto minacce di morte. E qualcuno le ha detto: “Meritavi di essere stuprata”».

La Repubblica
IL CORPO DELLE DONNE E IL DESIDERIO DI LIBERTÀ
DI QUEGLI UOMINI SRADICATI DALLA LORO TERRA

di Kamel Daoud.
Cos’è accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli aggressori e come di sicuro come la pensano gli occidentali.
Il “fatto” in se” è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato, terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le “nostre” donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano contro l’accoglienza ai rifugiati.

I colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Il “fatto” ha già riaperto il dibattito sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo “accogliendo o asserragliandosi”. Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali proiettanopregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna.

In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna - fondamentale per la modernità dell’Occidente - rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la “propria cultura”. Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità.

Il rifugiato è dunque un “selvaggio”? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima.
Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei.

Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: «La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere». È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della “virtù”.

Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una nefandezza da “velare”. La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente (quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata “l’essenza” stessa della sua modernità - laddove l’aggressore non ha visto altro che un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute.

Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è “pubblico” e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa semplicemente distribuire “carte” ma richiede di accettare un contratto sociale con la modernità.

Nel mondo di “Allah”, il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri “fedeli”, evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka. L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché “da noi” non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza.

Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri, sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di uccidere.

I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei “valori” da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico.
Traduzione di Marzia Porta

Le strategie del presidente per convincere il suo paese della necessità di limitare la diffusione delle armi. Contro di lui le lobby e l'opinione pubblica. Il discorso del Presidente Obama, la cronaca di Giulia D'Agricolo Vallan, le dichiarazioni della moglie di una vittima. La Repubblica, il manifesto Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2016 (m.p.r.)
La Repubblica

PERCHÈ VOGLIO TOGLIERE LE PISTOLE ALL'AMERICA

di Barack Obama

L’epidemia di violenza con armi da fuoco nel nostro Paese rappresenta una crisi. I morti e i feriti per arma da fuoco costituiscono uno dei maggiori pericoli per la salute e la sicurezza del popolo americano. Ogni anno, oltre trentamila americani perdono la vita per colpa delle armi. Suicidi. Violenze domestiche. Sparatorie fra bande criminali. Incidenti. Centinaia di migliaia di americani hanno perso fratelli e sorelle o seppellito i loro figli. Siamo l’unica nazione avanzata sulla terra che assiste con una simile frequenza a una violenza di massa di questo genere. Una crisi nazionale come questa esige una risposta nazionale.

Ridurre la violenza con armi da fuoco sarà difficile. È evidente che con questo congresso non sarà possibile giungere a nessuna riforma di buon senso che limiti la diffusione delle armi. Non sarà possibile durante il mio mandato. Tuttavia, ci sono delle misure che possiamo intraprendere da subito per salvare vite umane. E tutti noi - a ogni livello di governo, nel settore privato e in quanto cittadini - dobbiamo fare la nostra parte. Abbiamo tutti una responsabilità. Martedì ho annunciato le nuove misure che intraprenderò, nei limiti della mia autorità legale, per proteggere il popolo americano e impedire che criminali e individui pericolosi possano dotarsi di armi da fuoco.

Fra queste misure figurano: fare in modo che tutti quelli che sono coinvolti nella vendita di armi da fuoco conducano verifiche sui precedenti dell’acquirente; potenziare l’accesso alle terapie contro le malattie mentali; migliorare la tecnologia per la sicurezza delle armi da fuoco. Queste misure non potranno impedire tutti gli atti violenti e non potranno salvare tutte le vite umane, ma se anche una sola vita venisse salvata grazie a esse, vorrà dire che ne valeva la pena. Continuerò a fare tutte le azioni possibili come presidente, ma oltre a questo farò tutte le azioni possibili come cittadino. Non farò campagna, non voterò e non sosterrò nessun candidato, neanche del mio partito, che non sostenga riforme di buon senso per limitare le armi. E se il 90 per cento di americani che sostengono queste riforme di buon senso faranno come me, riusciremo a eleggere i rappresentanti che ci meritiamo.

Tutti noi abbiamo un ruolo da giocare, anche chi possiede un’arma da fuoco. È necessario che la stragrande maggioranza di persone responsabili che possiedono un’arma, che piangono con noi dopo ogni strage dovuta alle armi, che sostengono misure di buon senso per la sicurezza delle armi da fuoco e che ritengono che le loro posizioni non siano adeguatamente rappresentate, si schierino con noi e pretendano che i politici ascoltino la voce delle persone che dovrebbero rappresentare.
Anche l’industria delle armi deve fare la sua parte. A cominciare dai produttori.
In America pretendiamo che i prodotti di consumo rispettino requisiti stringenti per garantire la sicurezza delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Le automobili devono rispettare standard di sicurezza e di emissioni rigorosi. I prodotti alimentari devono essere puliti e sicuri. Non possiamo sperare di spezzare il circolo vizioso della violenza con armi da fuoco finché non imporremo all’industria delle armi di adottare semplici misure per rendere più sicuri anche i suoi prodotti. Se un bambino non può aprire un tubetto di aspirina, dobbiamo fare in modo che non possa nemmeno premere il grilletto di una pistola.
Eppure, oggi, l’industria delle armi non rende conto a nessuno. Grazie a decenni di sforzi della lobby delle armi, il Congresso ha impedito ai nostri esperti in sicurezza dei prodotti di consumo di imporre che le armi da fuoco siano dotate dei più elementari dispositivi di sicurezza. Hanno reso più complicato, per gli esperti di salute pubblica del governo, condurre ricerche sulla violenza con armi da fuoco. Hanno garantito ai produttori di armi un’immunità di fatto dalle cause legali, che consente loro di vendere prodotti letali senza affrontare quasi mai nessuna conseguenza. Se si stesse parlando di sedili difettosi delle automobili, noi, come genitori, non lo accetteremmo. Perché dovremmo tollerarlo per prodotti - le armi da fuoco - che uccidono ogni anno così tanti bambini?
I produttori, che stanno vedendo crescere enormemente i loro profitti, dovrebbero investire nella ricerca per rendere le armi da fuoco più intelligenti e sicure, sviluppando per esempio sistemi di micropunzonatura per le munizioni, che possono aiutare a ricollegare i proiettili trovati sulle scene del delitto ad armi specifiche. E come tutte le industrie, i produttori di armi hanno il dovere, nei confronti dei loro clienti, di essere cittadini migliori vendendo le armi solo a soggetti responsabili.
È qualcosa che riguarda tutti noi. Non ci si chiede di dar prova dell’eroismo del quindicenne del Tennessee Zaevion Dobson, che prima di Natale è stato ucciso facendo scudo ai suoi amici. Non ci si chiede di mostrare la tolleranza dei tantissimi familiari delle vittime che si sono dedicati a mettere fine a questa violenza senza senso. Ma dobbiamo trovare il coraggio e la volontà di mobilitarci, organizzarci e fare quello che un Paese forte e sensibile fa di fronte a una crisi come questa.
Dobbiamo tutti pretendere leader abbastanza coraggiosi da combattere le menzogne della lobby delle armi. Dobbiamo tutti schierarci in difesa dei nostri concittadini. Dobbiamo tutti pretendere che i governatori, i sindaci e i nostri rappresentanti al Congresso facciano la loro parte. Cambiare non sarà facile. Non succederà dall’oggi al domani. Ma anche il diritto di voto per le donne non è stato conquistato dall’oggi al domani. La liberazione degli afroamericani non è avvenuta dall’oggi al domani. La conquista dei diritti per lesbiche, omosessuali, bisessuali e transessuali in America ha richiesto decenni di sforzi.
Questi momenti rappresentano la democrazia americana, e il popolo americano, nella loro veste migliore. Per fronteggiare questa crisi ci sarà bisogno della stessa incrollabile determinazione, per molti anni, a tutti i livelli. Se riusciremo ad affrontare questo momento con la stessa audacia, potremo rendere realtà il cambiamento che cerchiamo. E lasceremo ai nostri figli un Paese più forte e più sicuro.

Traduzione di Fabio Galimberti

Il manifesto

OBAMA PORTA LA BATTAGLIA PER IL CONTROLLO DELLE ARMI IN TV
di Giulia D’Agnolo Vallan

New York. Lo aveva fatto per la riforma sanitaria e per l’ordine esecutivo che avrebbe firmato legalizzando temporaneamente milioni di migranti: quando il Congresso gli volta la schiena, Obama scavalca il press corp della Casa bianca e porta le sue iniziative on the road, direttamente all’America. Dopo l’annuncio di martedì a Washington, è la volta della sua battaglia con le armi.
Prima tappa (in coincidenza con l’uscita sul New York Times di un un Op Ed, un editoriale presidenziale), la George Mason University in Virginia, dove Obama ha presenziato un town hall televisivo, trasmesso live da CNN e condotto da Anderson Cooper. Il pubblico in sala era scelto tra i rappresentanti di entrambe «le fazioni». Ma la National Rifle Association, invitata da CNN, ha rifiutato di esserci («non riteniamo necessario partecipare a un’iniziativa promozionale della Casa bianca» dice il loro comunicato). È andata però un’eroina della lobby delle armi, Taya Kayle (vedova dell’American sniper Chris Kayle), la prima domanda.
All’appassionata difesa del diritto alla pistola per difendere la famiglia, espressa dalla signora, Obama ha risposto con un aneddoto: «Io vengo da Chicago, dove le morti per armi da fuoco stanno facendo stragi di minorenni. La prima volta che sono stato in Iowa, per una campagna presidenziale, a un certo punto Michelle si è girata e mi ha detto: “Sai cosa? Se vivessi qui, in una fattoria isolata, lontano dallo sceriffo, e con il rischio che un malintenzionato si presenti alla porta, forse un’arma la vorrei anch’io..”. Le diverse realtà del nostro paese rendono questo un problema molto complesso».
Seduto informalmente su uno sgabello alto, il pubblico disposto a trecentosessanta gradi intorno a lui, il presidente ha mantenuto lo stesso tono, fermo ma colloquiale, rassicurante, per tutta la serata, tornando spesso sui temi elencati nell’annuncio dell’altro giorno: il bisogno di chiudere i loopholes (le zone grigie dell’attuale legislazione che permettono il commercio quasi incondizionato di armi via internet e presso i gun show, le fiere di settore), di studiare tecnologie per rendere le pistole più sicure, di investire nella cura delle malattie mentali…Tra i suoi interlocutori, un famoso sceriffo, una donna stuprata che vuole armarsi, un teen-ager di Chicago che ha perso il fratello e, insieme al marito astronauta, Gabrielle Gifford, la deputata dell’Arizona crivellata di proiettili un paio di anni fa.
Reiterando la promessa fatta nell’editoriale uscito oggi sul New York Times, Obama ha annunciato che non darà il suo sostegno ai candidati («anche quelli democratici») che si oppongono a delle «misure ragionevoli di gun control». L’enfasi che il presidente ha messo, sia ieri che alla Casa bianca, sul contesto elettorale non è gratuita. Considerata per anni una crociata politicamente dannosa, quella per il controllo delle armi conta oggi dalla sua alcuni sponsor molto importanti, tra cui Michael Bloomberg. È proprio dall’ex sindaco di New York - e dal suo gruppo Everytown for Gun Safety - che viene un’altra pedina di questa strategia della comunicazione che (come il town hall del presidente) sta cercando di raggiungere gli americani in modo diverso.
Con l’aiuto di Spike Lee (un fan storico della pallacanestro, il cui ultimo film, Chi-raq, tratta proprio l’effetto devastante della violenza d’arma da fuoco a Chicago), i capitali di Bloomberg sono infatti serviti a produrre una serie di spot (diretti da Lee) in cui alcune star della Nastional Basketball Association (tra cui Carmelo Anthony, Stephen Curry dei Golden State Warriors, Chris Paul dei Los Angeles Clippers) parlano dell’effetto delle violenza da arma da fuoco sulle loro vite. Nel primo degli spot, andato in onda il giorno di Natale, non vengono nemmeno pronunciate le parole «gun control». E i portavoce della NBA hanno dichiarato che la campagna pubblicitaria «non promuove nessuna legge o cambio di politica», ma va intesa come un public service announcement «per portare attenzione sul problema della sicurezza personale nelle nostre comunità». Certo, il messaggio dello spot, tra le righe, è molto chiaro, e l’entrata nel dibattito della NBA e dei suoi giocatori un passo di grandissima importanza, in quello che sembra sta delineandosi come il primo sforzo congiunto, a livello nazionale, di costruire un’alternativa sofisticata alla micidiale macchina promozionale della NRA.

Il Fatto Quotidiano
LA VEDOVA DI AMERICAN SNIPER BACCHETTA OBAMA: "SULLE ARMI SOLO FALSE SPERANZE"
Il marito era un soldato diprofessione, ormai conosciutodal pubblico per il film American Sniper,nel quale Clint Eastwood raccontala vita di Chris Kyle, il cecchino dei NavySeal. Gli iracheni lo chiamarono il “diavolodi Ramadi”, lui uscì vivo dalla guerraper poi essere ucciso nel 2013 da unex commilitone disturbato, in un poligonodi tiro, negli Stati Uniti.
La moglie di Kyle è entratanel dibattito sulle armie le leggi restrittive voluteda Obama, ma per criticarela linea del presidente:«Voglio sperare di continuaread avere il diritto diproteggere me stessa» hadetto Taya intervenuta al dibattito conObama, mandato in onda dalla Cnn.La signora Kyle ha rivendicato di fronteal presidente il diritto di possedere armi.«I controlli - ha affermato - non servirannoa proteggerci». Secondo la vedovaKyle, le misure proposte da Obamanon sono in grado di impedire lestragi di massa, perché «le persone chedecidono di uccidere infrangonole leggi e nonhanno lo stesso codice dicondotta morale dei cittadinionesti». Insomma, haconcluso la donna, dinanzialle misure della CasaBianca «si prova un falsosenso di speranza».

Le molte facce e le divrse verità nascoste dietro le minacce della Corea del Nord negli articoli di Massimo Fini e Manilo Dinucci. Il Fatto Quotidiano il manifesto, 8 gennaio 2016 (m.p.r.)



Il Fatto Quotidiano
LE MINACCE REALI
E LA BURLETTA DI KIM JONG-UN

di Massimo Fini

«Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin»

Il test sulla Bomba H, una sorta di potenziamento dell’Atomica diciamo così normale, effettuato dalla Corea del Nord, ha suscitato, come hanno enfatizzato ieri tutti i media, una condanna unanime di Ban Ki-moon, del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la consueta minaccia di ulteriori sanzioni economiche per “violazione del diritto internazionale”. Con tutta probabilità questo test è solo una burletta propagandistica come sembrano pensare anche gli Stati Uniti che hanno sollevato forti dubbi sulla sua validità.

Ma facciamo il caso che non sia una burletta. La Corea del Nord, con Israele, India, Pakistan, non ha firmato il ‘Trattato di non proliferazione nucleare’ (TNP). Di che “violazione del diritto internazionale” si sarebbe quindi resa responsabile? Se uno non firma un trattato non lo può nemmeno violare. In realtà i veri proliferatori del nucleare atomico sono gli Stati Uniti che hanno sì ridotto le loro testate (averne 10.000 invece che 15.000 non cambia niente visto che basta un centinaio di questi ordigni per distruggere l’intero pianeta) ma hanno fornito la tecnologia necessaria a circa 35 paesi fra cui Francia, Gran Bretagna, Canada, Israele, India, Australia, Algeria, Corea del Sud e persino all’arcinemico Iran (business ‘non olet’).
In genere i firmatari del TNP lo hanno rispettato non facendo nuove Bombe se già le avevano o non costruendole ex novo, per loro precisa volontà o perché impossibilitati a innescare un processo tecnologicamente così sofisticato (fra i paesi a cui gli Usa hanno fornito la tecnologia c’è la Repubblica del Congo, figuriamoci).
L’Iran è uno di quei paesi che non solo ha firmato il Trattato di non proliferazione ma lo ha anche rispettato accettando le ispezioni dell’Aiea che non hanno mai rilevato nelle centrali nucleari che Teheran ha costruito a usi civili e medici un arricchimento dell’u ranio superiore al 20 per cento (per arrivare alla Bomba l’arricchimento deve essere del 90 per cento) eppure per trent’anni ha subìto pesantissime sanzioni economiche dalla cosiddetta ‘Comunità internazionale’, cioè dagli Stati Uniti, e ne è uscito solo di recente perché i pasdaran iraniani servono all’Occidente, così come i peshmerga curdi, per combattere l’Isis senza rischiare la propria pelle. Dice: ma Kim Jong-un è un dittatore, “pazzo e imprevedibile”.
A parte il fatto che l’Atomica, come è noto, ha solo un valore di deterrenza e nessuno per quanto ‘imprevedibile’ sarebbe così pazzo da gettarla perché il suo paese e lui-meme sarebbe immediatamente spazzato via da una tempesta nucleare (e anche i dittatori, anzi soprattutto loro, ci tengono alla propria pelle) secondo Ian Bremmer, presidente del centro studi Eurasia Group, Kim Jong-un non è inserito nella lista dei ‘leader imprevedibili’. In questa lista c’è invece, oltre al leader ucraino Poroshenko e al re dell’Arabia Saudita, Vladimir Putin. Ma quando un mese fa l’autocrate russo invece di far test nucleari (non ne ha bisogno, anche lui di Bombe ne ha circa 10.000) minacciò, sia pur in modo ambiguo, di usare l’Atomica in Medio Oriente contro l’Isis, la cosa passò quasi sotto silenzio. Invece per la burletta di Kim Jong-un si è scatenato il finimondo.

Il manifesto
LE MINACCE REALI E
LA BURLETTA DI KIM JONG-UN

di Manilo Dinucci
«Gli Usa hanno fornito alla Corea del Nord le più importanti tecnologie per la produzione di armi nucleari»


Dopo l’annuncio di Pyongyang di aver effettuato il test sotterraneo di una bomba nucleare all’idrogeno, il presidente Obama, pur mettendo in dubbio che si tratti veramente di una bomba all’idrogeno, chiede «una risposta internazionale forte e unitaria al comportamento incosciente della Corea del Nord». Dimentica però che sono stati proprio gli Usa a fornire alla Corea del Nord le più importanti tecnologie per la produzione di armi nucleari. Lo documentammo sul manifesto 13 anni fa (5 febbraio 2003).

La storia inizia quando - dopo essere stato segretario alla difesa nell’amministrazione Ford negli anni Settanta e, negli anni Ottanta, consigliere del presidente Reagan per i sistemi strategici nucleari - Donald Rumsfeld entra a far parte nel 1996 del consiglio di amministrazione della Abb (Asea Brown Boveri), gruppo leader nelle tecnologie per la produzione energetica. Rumsfeld esercita subito la sua influenza per far avere alla Abb l’autorizzazione di Washington a fornire tecnologie nucleari alla Corea del Nord, nonostante essa abbia già un programma nucleare militare. Neppure tre mesi dopo, il 16 maggio 1996, il Dipartimento statunitense dell’energia annuncia di aver «autorizzato la Abb Combustion Engineering Nuclear Systems, una consociata interamente controllata dalla ABB, a fornire una vasta gamma di tecnologie, attrezzature e servizi per la progettazione, costruzione, gestione operativa e mantenimento di due reattori nella Corea del Nord».
Il Dipartimento statunitense dell’energia - responsabile non solo del nucleare civile, ma anche della produzione di armi nucleari - sa che tali reattori possono essere usati anche a scopi militari, e che le conoscenze e tecnologie fornite possono anch’esse essere utilizzate per un programma nucleare militare. La Abb può così stipulare nel 2000 con la Corea del Nord due grossi contratti per la «fornitura di componenti nucleari». In quel momento Rumsfeld è ancora nel consiglio di amministrazione della Abb, da cui si dimette nel gennaio 2001, quando assume l’incarico di segretario alla difesa nell’amministrazione Bush. Nel 2003, la Corea del Nord annuncia il suo ritiro dal Trattato di non-proliferazione (Tnp), a cui aveva aderito nel 1985.
I «colloqui a sei» (Usa, Russia, Cina, Giappone, Nord Corea, Sud Corea) per il suo rientro nel Tnp, subito iniziati, si interrompono nel 2006 quando la Corea del Nord effettua il primo dei suoi quattro test nucleari. Successivamente riprendono, ma si interrompono di nuovo nel 2009. La responsabilità è anche ma non solo di Pyongyang. Poiché il Trattato di non-proliferazione continua ad essere violato anzitutto dagli Stati uniti, primi firmatari, a Pyongyang sono arrivati alla cruda conclusione che è meglio avere le armi nucleari che non averle. Il Tnp obbliga gli Stati dotati di armi nucleari a non trasferirle ad altri (Art.1), e gli Stati non in possesso di armi nucleari a non riceverle (Art. 2). Obbliga allo stesso tempo tutti gli Stati firmatari, a partire da quelli con armi nucleari, ad adottare «effettive misure per la cessazione della corsa agli armamenti nucleari e il disarmo nucleare» fino a «un Trattato che stabilisca il disarmo generale e completo» (Art. 6). Obbliga inoltre tutti gli Stati firmatari a «rinunciare, nelle loro relazioni internazionali, all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato» (preambolo).
L’esempio di come si debba operare per il disarmo nucleare, lo danno soprattutto gli Stati uniti. Essi hanno varato un piano, del costo di 1000 miliardi di dollari, per potenziare le forze nucleari con altri 12 sottomarini da attacco, armato ciascuno di 200 testate nucleari, e 100 nuovi bombardieri strategici, ciascuno armato di oltre 20 testate nucleari. Contemporaneamente, violando il Tnp, stanno per schierare in cinque paesi Nato - quattro europei più la Turchia, che violano anch’essi il Tnp - circa 200 nuove bombe nucleari B61-12, di cui circa 70 in Italia con una potenza equivalente a quella di 300 bombe di Hiroshima.
Le forze nucleari Usa/Nato, comprese quelle francesi e britanniche, dispongono di circa 8000 testate nucleari, di cui 2370 pronte al lancio, a fronte di altrettante russe, tra cui 1600 pronte al lancio. Aggiungendo quelle cinesi, pachistane, indiane, israeliane e nordcoreane, il numero totale delle testate nucleari viene stimato in 16300, di cui 4350 pronte al lancio. E la corsa agli armamenti nucleari prosegue soprattutto con la continua modernizzazione degli arsenali.
Come si debba «rinunciare all’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato», lo dimostrano sempre gli Stati uniti e la Nato. Con la prima guerra contro l’Iraq nel 1991, la Jugoslavia nel 1999, l’Afghanistan nel 2001, l’Iraq nel 2003, la Libia nel 2011, la Siria dal 2013. E nel 2014 con il colpo di stato in Ucraina, funzionale alla nuova guerra fredda e al rilancio della corsa agli armamenti nucleari. Per questo la lancetta dell’«Orologio dell’apocalisse», il segnatempo simbolico che sul «Bulletin of the Atomic Scientists» indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare, è stata spostata da 5 a mezzanotte nel 2012 a 3 a mezzanotte nel 2015. Ciò a causa non tanto del «comportamento incosciente» di Pyongyang, quanto del «comportamento cosciente» di Washington.
«La risposta al Family day organizzata per il 23 gennaio dalle famiglie gay, in difesa della stepchild adoption Renzi affida a Boschi e Orlando la mediazione nella maggioranza, ma esclude emendamenti del governo».

La Repubblica, 8 gennaio 2016

Non una, ma tante piazze per l’uguaglianza delle famiglie ». Con questo slogan la galassia delle associazioni gay, con “Famiglie arcobaleno” in testa, sta preparando una mobilitazione in tutt’Italia il 23 gennaio per la stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner, considerata il minimo sindacale in fatto di diritti degli omosessuali. Ancora tutto provvisorio. «Un cantiere, a cui stiamo lavorando da tempo, non antagonista alla manifestazione cattolica », sostiene Marilena Grassadonia, presidente dell’Associazione delle famiglie gay. ma di fatto alla piazza cattolica del Family day i laici risponderanno con le “contropiazze” arcobaleno. E con un presidio davanti al Senato, il giorno dell’inizio del dibattito in Parlamento .

Dall’aula parlamentare di Palazzo Madama, dove il 26 approda la legge sulle unioni civili, la battaglia si sposta nel paese. Renzi mette in conto di sondare il terreno politico alla ricerca di una mediazione sulla stepchild adoption che eviti lo scontro. Saranno due ministri, il Guardasigilli Andrea Orlando, e Maria Elena Boschi a tentare di ricucire una maggioranza lacerata. Nelle intenzioni del premier soprattutto il Pd dovrebbe essere compatto, evitando agguati sulle unioni civili nei voti segreti.

È escluso però che il governo presenti direttamente una proposta di mediazione. «Non ci sarà mai», assicurano dal fronte dem. Luigi Zanda, il capogruppo del Pd a Palazzo Madama, è tuttavia certo che «soluzioni migliorative » saranno studiate. L’affido rafforzato, ad esempio? «Non intendo inseguire mozziconi di soluzioni, perché ho troppo a cuore che la legge passi, quindi vedremo», risponde. Monica Cirinnà, la senatrice dem prima firmataria della legge, è invece certa che il testo sia di fatto blindato e non ci sarà un arretramento rispetto alla questione dell’adozione.

I contatti, che pure ci sono, tra senatori dem e i vescovi, non metteranno in discussione l’impianto della legge sulle unioni civili, dice Sergio Lo Giudice, ex presidente Arcigay, un figlio con il suo compagno, per il quale il disegno di legge rappresenta solo un passo. Lui sarà in piazza. Come Franco Grillini, presidente di Gaynet, che da parlamentare presentò il primo disegno di legge sui Pacs. Ricorda, Grillini, quando nel 2005, il Vaticano chiese i nastri registrati della discussione in commissione parlamentare sulla sua proposta di legge. «Ora il Vaticano se ne tiene fuori, sa del resto che rispetto al matrimonio egualitario, quella delle unioni civili è una legge moderata ». Ad Angelino Alfano, il ministro dell’Interno che agita lo spauracchio del referendum abrogativo se la legge passasse, replica: «Sfida accettata, sarebbe una gigantesca pubblicità alle ragioni dei gay». Il tam tam della mobilitazione laica del 23 è lanciato da Arcigay, Arcilesbica, Famiglie arcobaleno, Agedo, Associazione Radicale Certi diritti, Mit, altre associazioni si stanno aggiungendo.

A gettare benzina sul fuoco è stato ieri anche un post di Mario Adinoldi, ultrà cattolico, che indica i “7 atti da compiere per fermare il ddl Cirinnà”, tra i quali: una presa di posizione netta dalla Chiesa, emendamenti sollecitati da mail bombing con cui sommergere i senatori.

Forse già oggi il Pd potrebbe convocare una riunione tra capigruppo e ministri per ragionare su un compromesso. Molti alfaniani si dicono a questo punto disponibili a ragionare di “affido rafforzato”, aperture vengono anche dal capogruppo Renato Schifani. Però le divisioni sono trasversali e lacerano i partiti. Nel Pd una direzione il 18 gennaio dovrebbe rinfrescare la linea, ma intanto è polemica tra il cattolico Franco Monaco e il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Il socialista Nencini ricorda che il concetto di famiglia si è allargato: «Unica preoccupazione sia il bene del bambino».

l manifesto, 8 gennaio 2016l
Sono un nodo difficile da districare, le violenze dell’ultimo dell’anno avvenute nella piazza tra la cattedrale e la stazione di Colonia. Un nodo, perché sono molti gli elementi che si impigliano gli uni negli altri. Prima di tutto i fatti. Di certo ci sono le denunce delle donne colpite, la loro angoscia, le lacrime, i racconti. Poi ci sono le anomalie. Ci sono voluti giorni perché vicende così clamorose diventassero pubbliche; la polizia, in epoca di terrorismo, ha lasciato così sguarnita una zona nota per la sua pericolosità.

E si moltiplicano le domande su chi siano in realtà gli assalitori, identificati per il loro aspetto straniero e la pelle scura; se si tratta di bande organizzate, e quali fossero le loro mire. Se i furti, le donne, oppure entrambi. Gli arresti per ora sono sei, la polizia non ha ancora proposto una ricostruzione esauriente. Ma si può partire anche dalle interpretazioni, dalla politica, dalle tesi che ai fatti si sovrappongono e ne rendono difficile la comprensione.

Una minaccia per le donne europee, attraverso di loro una forma della guerra dichiarata a tutti, questa è l’interpretazione prevalente, con toni più o meno accesi. In Italia si distingue come sempre Il Giornale: «Vogliono colpire le nostre donne», mentre compare l’immancabile accusa: «Perché le femministe italiane non parlano?».

Che la vicenda si intrecci con il milione di richiedenti asilo che quest’anno sono entrati in Germania è evidente. Come è evidente l’uso strumentale nella battaglia contro la cancelliera Merkel, sotto accusa da quando nel settembre scorso di fronte alla pressione sui confini dei profughi siriani disse: «Abbiamo la forza di fare quanto è necessario», e non pose limiti ai richiedenti asilo. Una scelta che rischia di penalizzarla nelle prossime elezioni.

Ma non si può ricondurre tutto a una questione di geopolitica, minimizzare fatti «disgustosi», come li ha definiti la stessa Angela Merkel. Ecco, io partirei proprio da questa definizione. In effetti le molestie sono disgustose. Uomini soli, ubriachi e, come dire, eccitati, che nella folla palpeggiano, toccano, irridono, oltre che rubare, fanno paura. Ma sono un fatto mai visto, non è mai successo?

Credo che il dovere della polizia sia di accertare se sia vera l’esistenza di un piano speciale, di un progetto organizzato di bande di giovani nordafricani, che in ogni caso poco hanno a che fare con i profughi appena arrivati. Accertarlo è necessario, sarebbe un fatto grave, sul quale per ora va sospeso il giudizio, di cui vanno analizzate bene le motivazioni, le finalità. E in attesa di dati certi non si può dire altro se non che è vero, le culture dei paesi di origine sono maschiliste, le donne che si muovono liberamente per strada, per di più di notte, sono perlomeno una stranezza fastidiosa se non una preda.

Ma non c’è stata una sottovalutazione, proprio di questo problema? E forse, ma mancano informazioni, non si è prestato subito ascolto alle denunce delle donne che hanno subito gli assalti?

Spazi illuminati, controllo discreto ma evidente delle zone dove ci sono gli assembramenti vistosi di giovani maschi, ascolto delle denunce di donne che si sentono insicure in alcune zone. La sicurezza delle donne, la libertà di muoversi senza paura è fatta di un insieme di misure, che sempre più le amministrazioni sono orientate a introdurre. Molto di più può fare il cambiamento di mentalità, la cultura, l’abitudine a vedere le donne muoversi liberamente, a non dare retta e a non avere paura degli uomini.

Anni fa, ai tempi del femminismo di piazza e di massa, su un autobus romano un uomo anziano disse a uno più giovane, che vistosamente stava molestando una ragazza: «Ma lassa perde, nun hai capito che nun hanno bisogno de noi, ormai». Non è per sdrammatizzare che racconto questo piccolo episodio, che mi sembra tuttora indicativo di come i cambiamenti entrano nella mente della gente per le vie più svariate. È che penso che si tratti un passaggio necessario, per chi arriva in un paese dove le donne godono di una libertà inaudita rispetto alle proprie abitudini. Un problema che va considerato in tutti i progetti di accoglienza, da trattare con la dovuta attenzione.

Ma l’arrivo dei profughi, dei migranti in Europa è proprio una minaccia epocale per le donne? Diversa dalla vita difficile che ciascuna si trova a condurre di solito, nelle strade e soprattutto nelle case, se si considerano le statistiche sulle donne maltrattate? Non comprendo come sia possibile pensare di separare le famiglie, far entrare le donne e i bambini, lasciare fuori gli uomini. Una cosa è ben nota, in qualunque contesto. Che sono gli uomini soli, separati dalle loro donne, dalle loro famiglie, a creare i maggiori problemi di ordine pubblico.

Certo, se entrano nei nostri paesi gruppi che perseguono lo stupro etnico, come è successo ai tempi della guerra in Bosnia, sarebbe un fatto di una gravità assoluta. Eppure, almeno alle notizie attuali, il paragone mi sembra del tutto spropositato. Un effetto dell’incontrollabile e pervasiva macchina della paura.

«Da Taranto a Brindisi, dalla Sardegna a Brescia: il Milleproroghe fa slittare ancora l’obbligo di stare nei limiti di emissione. Dovevano entrare in vigore nel 2008».

Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2016 (m.p.r.)
Il cosiddetto “codice dell’ambiente” in giuridichese sarebbe il decreto legislativo 152 del 2006. E, com’è intuitivo, è entrato in vigore dieci anni fa. Uno dei suoi articoli - recependo una direttiva europea - pone dei limiti alle emissioni dei cosiddetti “grandi impianti di combustione”, in sostanza centrali di produzione dell’energia con una capacità superiore ai 50 megawatt. Non sono, a detta degli esperti, limiti da talebani dell’ambientalismo: basti dire che sono stati scritti a Bruxelles, dove le lobby contano qualcosa. Eppure, nonostante le soglie tengano nel dovuto conto il profitto delle imprese, dieci anni non sono bastati a farle entrare davvero in vigore: nell’ultimo decreto Milleproroghe, infatti, c’è l’ultima di una lunga serie di rinvii per i “grandi impianti” costruiti prima del 2006, cioè quasi tutti.

Detto in parole povere, potranno continuare a non rispettare i limiti ancora per tutto quest’anno. Il meccanismo è tortuoso, ma non difficilissimo da capire. Il “codice dell’ambiente” concedeva già alle grandi centrali un paio d’anni per mettersi in regola: dal 2008 tutti entro i limiti, per carità. Intanto individuava una serie di deroghe, che andavano concertate con “l’Autorità competente”, che poi sarebbe l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) del ministero guidato da Gian Luca Galletti.
E qui arriva il Milleproroghe 2016, pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 dicembre: ovviamente si riallaccia al “permesso di inquinare” precedente, che scadeva a fine 2015, e lo estende al 31 dicembre di quest’anno. Per chi? Per tutti “i grandi impianti di combustione per i quali sono state regolarmente presentate, alla data del 31 dicembre 2015, istanze di deroga” in attesa della “definitiva pronuncia dell’Autorità competente”. A questo punto va notata la finezza dell’operazione: in attesa che Ispra decida sui livelli di emissioni di queste grandi centrali - vuoi per ritardi suoi, vuoi per incompletezza della documentazione allegata, vuoi per il destino cinico e baro - la proroga è concessa a chi ne abbia fatto richiesta entro il 31 dicembre, cioè un giorno dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto e addirittura otto giorni dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri (avvenuta il 23 dicembre).
Pare difficile, insomma, che qualcuno ne sia rimasto fuori. Certo, spegnere le centrali non è una bella cosa, ma quei limiti sono scritti nero su bianco dal 2006: tempo per mettersi in regola ce n’era. Se poi si mettono in fila un po’ di nomi di quelli che potrebbero ottenere la “licenza di avvelenare l’aria” oltre il consentito, la faccenda si fa allarmante: c’è un bel pezzo dei grandi inquinatori d’Italia. Nella lista, per dire, ci sono le centrali a carbone. La sola Enel – a stare al sito di Assocarboni – ne ha otto sparse per l’Italia: da Genova al Sulcis, da Marghera all’Umbria, da Torrevaldaliga Nord (lì vicino c’è pure un impianto Tirreno Power a olio e gas naturale) alla “Federico II” di Brindisi sud, che un rapporto Legambiente considerò la centrale più inquinante d’Italia per emissioni di Co2 e che un recente studio di tre ricercatori del Cnr (pubblicato sul l’International Journal of Environmental Research and Public Health) indica come responsabile di 44 morti evitabili l’anno.
Va ricordato almeno che pochi chilometri più a nord, sempre nel territorio di Brindisi, c’è anche la centrale di Edipower, società controllata dalla multiutility dei comuni di Milano e Brescia, A2A, che ha due impianti che usano (anche) carbone a Brescia e Monfalcone. E ancora. A carbone andava anche la famigerata centrale di Vado Ligure, proprietà di Tirreno Power (cioè i francesi di Gdf Suez, Sorgenia di De Benedetti e altri), finita al centro di un’inchiesta per disastro ambientale e il cui destino industriale non è ancora chiaro. E, comunque, non di solo carbone vivono i “grandi impianti di combustione ”: vecchi inceneritori; le centrali del polo petrolchimico siracusano (Augusta, Priolo, Melilli); la Sarlux della famiglia Moratti a Sarroch, nel sud della Sardegna, che brucia scarti della lavorazione del petrolio (e per farlo ha usufruito per anni degli incentivi per le “energie rinnovabili”).
La lista potrebbe continuare, ovviamente, ma ci limiteremo a citare un solo caso. Nella lista dei “grandi impianti di combustione” di cui Ispra monitora le emissioni c’è infatti anche la centrale termoelettrica dell’Ilva di Taranto, riacquistata qualche anno fa da Edison, che l’aveva comprata negli anni Novanta, all’epoca delle privatizzazioni. L’impianto serve l’acciaieria Ilva, ovviamente, e rivende al Gse (Gestore dei servizi energetici) l’eccedenza. Non se ne parla tanto per dire: Greenpeace, in un report del 2012, rivelò che su 19,7 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica emesse dall’acciaieria, 7,5 milioni di tonnellate erano responsabilità delle due centrali termoelettriche interne. Tutto prorogato, tranne il diritto (costituzionale) alla salute.

«Il manifesto, 3 gennaio 2016

La messa a morte del leader sciita al-Nimr è una bomba contro il processo in atto in Medio Oriente e le coalizioni ufficialmente in campo contro lo Stato islamico.

Ma devastante come se non peggio dell’abbattimento in Siria dell’aereo russo da parte della Turchia. L’esecuzione, avvenuta con altre 46 persone, deflagra però non solo nel lontano Medio Oriente, ma in Occidente e qui in Italia. Occidente ed Italia fin qui silenziosi sul massacro in corso nello Yemen da parte dei bombardamenti aerei sauditi, taciturno sulle pene capitali emesse dallo stato più boia al mondo in percentuale rispetto al numero degli abitanti, strabico di fronte ad una dittatura feroce che opprime opposizioni e diritti umani. Eppure l’ultimo leader occidentale arrivato a omaggiare il regime medioevale dei Saud è stato proprio un mese e mezzo fa il «nostro» Matteo Renzi.

Si capisce per il «made in Italy», per la metropolitana che le imprese italiane stanno costruendo e, manco a dirlo, per i più sostanziosi traffici in armi di Finmeccanica in tutti i Paesi del Golfo. La petromonarchia dei Saud manda un messaggio di sangue al mondo, alla coalizione anti-Isis di nuovo conio (la stessa che da apprendista stregone ha attivato le forze jihadiste in tutta l’area, dalla Libia, all’Iraq alla Siria) e insieme al mondo sciita nemico giurato.

Vale a dire all’Iran, all’organizzazione libanese Hezbollah, al governo di Baghdad che combattono armi alla mano sul campo le forze del Califfato. A noi manda a dire che non sarebbe vero che Riyhad aiuta il terrorismo jihadista anzi lo condanna a morte: ma come dimenticare che proprio il regime dei Saud lo ha organizzato per anni in chiave di destabilizzazione dell’intera area. Ma al-Nimr, decapitato ieri, è responsabile solo di avere guidato, sull’onda delle tanto care quanto dimenticate Primavere arabe del 2011, la protesta democratica della minoranza sciita in Arabia saudita, repressa come quella in Barhein con violenza dall’esercito saudita, armato e addestrato dall’Occidente.

Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? L’Ue, alle prese con la crisi dei migranti, e gli Usa hanno da tempo deciso di assegnare un ruolo risolutore della crisi a Turchia e Arabia saudita, i baluardi militari ed economici dei nostri interessi. Pur sapendo che sono gli stessi Paesi che con il nostro aiuto hanno attivato la distruzione della Siria per fare a Damasco quello che è riuscito a Tripoli. Questi due Paesi sono ormai considerati decisivi per la riuscita del conflitto.

Ma con la provocazione dell’esecuzione del leader sciita al-Nimr appare sempre più chiaro – come scriveva ieri Gian Paolo Calchi Novati — il fatto che, anche di fronte ad una sconfitta parziale di Daesh — visti i mille nuovi rigagnoli del l’integralismo jihadista internazionale sempre più forte, denuncia lo stesso Pentagono, in aree come l’Afghanistan che dovrebbero essere bonificate dopo quattordici anni di intervento della Nato — che non c’è alcuna «vittoria» all’orizzonte. La guerra nell’area è destinata ad allargarsi. E stavolta non più solo per procura.

Il governo italiano, impegnato sia a sostenere Israele cancellando la questione palestinese, sia sul fronte delle guerre appaltate dagli Usa in Afghanistan, a Mosul in Iraq e prossimamente in Libia, esprimerà due righe di «alto» sdegno. Non romperà certo i rapporti diplomatici con Riyadh come sarebbe giusto se è la pace che si vuole conquistare.

E tutto continuerà come e peggio di prima.

Ci accontentiamo davvero di poco i questi tempi di tormento. Eppure, dobbiamo soffiare su ogni fiammella che appare all'orizzonte. Articoli di Stefano Folli, Andrea Fabozzi e Andrea Padellaro,

La Repubblica il manifesto e Il Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2016

il manifesto
QUELLO CHE MATTARELLA NON DICE

di Andrea Fabozzi

«Un discorso a-renziano che non incrocia l’attività del governo, innovando profondamente rispetto alla stagione di Napolitano. E con una clamorosa omissione: il presidente non cita mai la riforma costituzionale»
L’anno vecchio che secondo il bilancio del presidente del Consiglio «è andato meglio del precedente e meglio delle nostre previsioni» consegna invece nel discorso del presidente della Repubblica una lunga lista di problemi, antichi eppure inattaccabili dalle slide.

Il lavoro, che «manca ancora a troppi» giovani, quarantenni e cinquantenni, donne. Le diseguaglianze, che «rendono più fragile l’economia» e le discriminazioni che «aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà». L’eterna questione meridionale. L’illegalità di «chi corrompe e chi si fa corrompere», di chi «ruba, inquina, sfrutta, in nome del profitto calpesta i diritti più elementari». E tra le illegalità il presidente della Repubblica sottolinea l’evasione fiscale, quella contro la quale secondo il presidente del Consiglio «abbiamo fatto passi in avanti da gigante»; diventa nel testo letto da Sergio Mattarella l’unico punto esclamativo: «L’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti».

Nell’elenco dei problemi entra anche l’inquinamento, tema di cronaca affrontato politicamente: «L’impegno delle istituzioni deve essere in questo campo sempre maggiore. Si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così». Due giorni prima il presidente del Consiglio aveva scaricato anche quest’emergenza sui gufi: «Siamo passati da piove governo ladro a non piove governo killer».

Un discorso non certamente antirenziano il primo di capodanno di Sergio Mattarella, bensì a-renziano: la proposta di una realtà tenacemente diversa da quella raccontata ogni giorno e con ogni mezzo dal capo del governo. Ma in una chiave per nulla polemica. E con una modalità che - fatte le dovute differenze di ruolo, formazione, età - può persino essere avvicinata a quella consueta per Renzi: la posa informale, non ex cathedra, il rivolgersi direttamente ai cittadini e non ai palazzi della politica.

E il fatto che il presidente abbia scelto di non incrociare per niente l’attività di governo - in questo innovando profondamente rispetto alla lunga stagione di Napolitano - è stato certamente apprezzato da palazzo Chigi. Renzi lo ha prontamente sottolineato, lodando un «discorso bello e diretto al cuore degli italiani», quasi un messaggio sentimentale. Al contrario l’opposizione ha potuto apprezzare l’insistenza sui «problemi irrisolti» che, come ha detto il forzista Paolo Romani, «è un monito al governo che ha precise responsabilità». «Discorso leale», si è invece compiaciuto il presidente dei senatori Pd Zanda; per i renziani il fatto che il capo dello stato abbia scelto di tenersi lontano da ogni contrapposizione con il governo è ormai una solida certezza.

Il che non significa automaticamente che sul Quirinale si condivida ogni passo della strategia renziana. Qualche divergenza può ben esserci. In coerenza con il minimalismo di Mattarella, lo suggerisce stavolta un’omissione più che un’affermazione, un’omissione assai significativa. Malgrado il presidente della Repubblica abbia più volte nel corso dell’anno sostenuto la «grande riforma» costituzionale voluta dal governo, anche deludendo qualche avversario del premier, giovedì sera il presidente ha del tutto evitato l’argomento. Scelta clamorosa, essendo il 2016 l’anno in cui terminerà il lungo percorso di revisione costituzionale, con il referendum confermativo.

La parola più (ab)usata nello storytelling renziano, la parola «riforma», non è comparsa neanche una volta nei venti minuti del messaggio di fine anno. Se un referendum Mattarella ha citato è stato quello istituzionale del 1946 - «nel 2016 celebreremo i settant’anni della Repubblica» -; se una volta ha parlato della Costituzione non è stato per invocarne il necessario aggiornamento ma per descriverla come «non soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori». E se Renzi ha presentato l’ultimo passaggio della riscrittura della Carta come un plebiscito sulla sua persona, il capo dello stato ha compreso nel suo discorso un unico appello, il classico “monito” del Quirinale: «Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica».
La Repubblica
IL DOPPIO DISCORSO DEL PRESIDENTE
di Stefano Folli

La novità di questo Capodanno è che il discorso del Capo dello Stato era in realtà diviso in due parti. Una è quella che gli italiani hanno ascoltato la sera di San Silvestro in televisione. Ed il messaggio rivolto ai cittadini, un tempo si sarebbe detto alla gente comune. Un messaggio la cui caratteristica era l’educazione civica, l’invito ad aver «cura della Repubblica». L’idea che esistono i doveri accanto ai diritti. L’incoraggiamento a tener duro perché qualche segnale positivo s’intravede.
L’altra metà del discorso era rivolta all’insieme della classe dirigente, ma non è stata pronunciata il 31 bensì qualche giorno prima, in occasione della cerimonia degli auguri al Quirinale. Un intervento più formale, come è logico, nessuna poltroncina e nessuna stella di Natale sullo sfondo. Quel giorno Mattarella ha parlato all’establishment del Paese e ha toccato temi meno facili. Ha usato quel suo linguaggio un po’ criptico, ma di solito non oscuro, per chiedere che sia rispettato il complessivo equilibrio delle istituzioni. E ha citato in modo specifico il dramma delle banche, ammonendo fra le righe a fare attenzione. Il rischio di compromettere delicati assetti, con conseguenze gravi per il cosiddetto “sistema Paese”, è tutt’altro che remoto.
Sarà un caso, ma della commissione d’inchiesta parlamentare (dotata, come è noto, di poteri d’inchiesta equivalenti a quelli di cui gode la magistratura) non si parla quasi più. E lo stesso premier Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, si è ben guardato dall’insistere su questo tasto. La prudenza è d’obbligo. Ecco allora il senso dei due interventi del presidente della Repubblica. È necessario leggerli o ascoltarli insieme per cogliere il loro senso generale. Nel primo discorso Mattarella ha parlato da garante istituzionale. Ha suggerito cautela sulle banche e quindi anche sulla Banca d’Italia: non per lasciare impuniti coloro che hanno commesso eventuali abusi, bensì per evitare passi falsi e conseguenti rischi di destabilizzazione. Un conto è la ricerca delle responsabilità, un altro è la rincorsa al consenso immediato.
La sera di San Silvestro il presidente si è rivolto invece a chi non ha un lavoro e lo cerca senza trovarlo; a chi è disorientato perché non è sicuro della ripresa economica; a chi teme per la propria sicurezza nella nuova stagione del terrorismo («di matrice islamista », ha voluto precisare il Capo dello Stato). Un discorso rivolto ai giovani e alle donne, alcune delle quali citate per nome fra le eccellenze italiane. Mattarella ha una sua cifra espressiva pacata e severa che certo non fa di lui un trascinatore. Ma ha la capacità di parlare senza ricorrere alla retorica, con una naturale vocazione alla concretezza e nel rifiuto dell’enfasi.
Non ha bisogno di blandire il governo e nemmeno di citarlo: si muove su un terreno diverso da quello proprio dell’esecutivo e infatti nessuno può immaginare che l’attuale inquilino del Quirinale viva una qualsiasi tentazione “presidenzialista”. Al tempo stesso trasmette l’impressione di un Capo dello Stato che agisce molto dietro le quinte. In primo luogo con la conoscenza dei problemi e dei vari “dossier”, poi con il controllo delle leggi e infine esercitando una persuasione discreta sui diversi protagonisti della vita pubblica. È un ruolo e un compito in cui Mattarella sembra ormai essersi calato, dopo il necessario apprendistato istituzionale.
Ecco perché il messaggio di Capodanno è piaciuto a molti. Fino a raccogliere un parziale giudizio positivo persino dal leghista Salvini, il quale ha dovuto ammettere che sulla questione dell’immigrazione il cattolico Mattarella, l’uomo della solidarietà e dell’accoglienza, ha detto parole ferme circa il dovere di allontanare dal territorio nazionale chi non ha i requisiti per restarvi. Ma per capire bene quello che il capo dello Stato ha voluto dire agli italiani bisogna considerare insieme i due momenti: il discorso alle classi dirigenti e quello al paese reale. Incollati insieme i pezzi, il doppio intervento restituisce forse per la prima volta la cifra autentica e definitiva di questa presidenza.

Il Fatto Quotidiano
IL PRESIDENTENON URLAMA ALZA LA VOCE
di Andrea Padellaro

Questa volta Beppe Grillo ha avuto troppa fretta nel definire “un ologramma” Sergio Mattarella, perché se prima di registrare il suo contromessaggio avesse avuto la pazienza di ascoltare il messaggio del capo dello Stato, vi avrebbe trovato molti temi familiari ai Cinquestelle. Infatti, era dai tempi di Carlo Azeglio Ciampi, e forse anche di Sandro Pertini, che al Quirinale, nell’ultimo giorno dell’anno, non si alzava la voce (tenendola bassa com’è nello stile del nuovo inquilino) contro le metastasi del malaffare che stanno divorano l’Italia.

L’evasione fiscale giunta a livelli «inaccettabili»: 122 miliardi, come ha ripetuto due volte vista l’enormità dello scandalo. «L’illegalità di chi ruba, di chi corrompe e di chi si fa corrompere». L’attacco frontale contro «chi sfrutta, e chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, trascurando la sicurezza e la salute dei lavoratori». La «riconoscenza» ai magistrati e alle forze dell’ordine che conducono «una lotta senza esitazioni contro le mafie». Che differenza di linguaggio dal suo predecessore Giorgio Napolitano, che parlava dei magistrati preferibilmente quando c’era da sgridarli per il loro «protagonismo». Non è forse su queste battaglie che il M5S ha raccolto il suo crescente successo elettorale e costruito l’unica opposizione credibile alla vecchia partitocrazia?
Perché non rivendicarle, invece che sbattere Mattarella nel mazzo abusato del «sono tutti uguali»? Quanto a Matteo Renzi, al di là degli apprezzamenti rituali può dirsi davvero soddisfatto da un discorso che tocca i nervi scoperti di un’azione di governo che l’evasione fiscale pensa di combatterla alzando a tremila euro il limite del pagamento in contanti? Impedendo la tracciabilità dei versamenti in nero, che rappresentano il mare, anzi l’oceano dell’evasione sommersa? Dall’attacco di Mattarella contro una certa imprenditoria rapace esce poi malconcio un altro concetto caro al premier, quello secondo cui basta creare posti di lavoro, non importa come e a che prezzo, per meritarsi la medaglietta di Palazzo Chigi.
Nessun antagonismo, ci mancherebbe altro, con il governo Renzi a cui ha riconosciuto (senza mai nominarlo) il miglioramento della condizione economica. Però, rispetto al trionfalismo sui mirabolanti risultati del Jobs act, il presidente preferisce ricordare come i troppi giovani senza lavoro rappresentino per la nazione un disastro morale, prima ancora che sociale. Infine, la Costituzione. Non una parola sulle cosiddette riforme e sul referendum confermativo che Renzi usa in modo ricattatorio per farsi campagna elettorale. Per l’uomo del Colle, invece, «rispettare le regole vuol dire attuare la Carta, realtà viva di principi e valori». Messaggio coerente con la sua storia di cattolico di sinistra, quello di Mattarella non può esser il solito pistolotto natalizio ma deve tradursi in un impegno solenne con il Paese. Poiché il presidente rivendica, giustamente, il suo ruolo di arbitro lo aspettiamo alla prova dei fatti: quella delle leggi sbagliate da respingere e delle leggi giuste da pretendere.
«Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società» Intervista di Andrea Fabozzi.

Il manifesto, 30 dicembre 2015
«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. «In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo».

Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere.

Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: «A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità». Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica.

In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo «spagnolo» è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum?

L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum.

Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice?

È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista.

In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo.

Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti.

La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, «spirito Repubblicano» da far scattare ne abbiamo poco.

Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole.

Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla?

Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, «democratura» e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni.

Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali?
È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo.

L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica.

Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali — la rappresentatività, i diritti sociali e individuali — in cambio del mantenimento di quelli formali — il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo.

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