Flop del candidato di Renzi a Roma: alle primarie del PD ci è andato meno della metà di quelli che ci andarono per eleggere Marino. La Repubblica, 7 marzo 2016
Un paio di esempi del modo in cui di distorcono le leggi e le direttive calpestando diritti personali e sociali fondamentali, per accontentare i potenti di turno normative a favore della speculazione
Che sul fronte del diritto alla casa questo fosse un paese al contrario un po’ ce ne eravamo accorti. Questi ultimi mesi sono stati esemplari. Nella legge di stabilità per il 2016 è stata confermata l’odiosa esenzione IMU in vigore dal 2013 (art. 2 del D.L. n. 102/2013) per gli immobili invenduti dalle imprese di costruzione. Non solo, ma questo privilegio fiscale, inizialmente previsto per soli tre anni, è stato garantito per sempre dal Governo Renzi. E’ chiaro come questa sia una norma che agevoli fiscalmente solo le grandi imprese di costruzione senza riconoscere gli stessi diritti ai comuni mortali che, ad esempio, ereditino una casa e la vogliano rivendere non potendola mantenere. In più questa normativa “droga” il mercato immobiliare perché consente ai costruttori di aspettare che i prezzi si alzino per vendere il loro stock abitativo. Così facendo, inoltre, si impedisce a chi è in cerca di una prima casa di beneficiare di prezzi accessibili.
L’ultima forzatura pro speculazione edilizia, in ordine di tempo, è quella contenuta nell’articolo 16 del decreto legge n. 18 del 2016 (c.d. “Decreto banche” – v. box 1 in calce ). Con questa norma si permette a chi fa il mestiere di comprare e rivendere case alle aste immobiliari, di fare più soldi. Infatti potranno comprare e rivendere casa pagando solo 200 euro di tassa fissa (anziché il 9% sul prezzo di aggiudicazione). Quindi se, per esempio, ad una asta fallimentare avente ad oggetto un immobile dal valore di 200.000 euro si dovessero presentare una persona che cerca di comprare la sua prima casa e un’impresa immobiliare che compra e rivende, quest’ultima, in caso di aggiudicazione, sarà avvantaggiata perché dovrà pagare di tasse solo 200 euro (anziché 18.000), mentre il semplice cittadino in cerca della sua prima casa ne dovrebbe pagare ben 4.000 (2%). Insomma il Governo privilegia la speculazione immobiliare, la incoraggia, non solo a svantaggio di coloro che cercano di acquistare la loro prima casa, ma anche dei contribuenti. Infatti questo ulteriore privilegio neanche risulta a costo zero per i cittadini perchè costerà 220 milioni di soldi pubblici (vedi il comma 3).
E il futuro? Non è certo roseo perché è in via di approvazione uno schema di decreto legislativo (v. box 2) nel quale è previsto che le banche, in caso di ritardo nel pagamento delle rate del mutuo, si possano riprendere la casa direttamente, senza attivare alcuna procedura giudiziaria di vendita. La solita scusa che si accampa è che la direttiva 2014/17/UE imporrebbe questa norma. Ma a ben leggerla non è affatto così, in quanto la direttiva non esclude, come invece fa il decreto legislativo in itinere, che l’accertamento del valore sia effettuato sotto la supervisione giudiziaria. Con questo decreto legislativo si faranno stracci di secoli di civiltà giuridica che hanno sempre vietato il c.d. patto commissorio, cioè il prelievo diretto del bene dato in garanzia. E questo perché è chiaro che le banche e i creditori in generale sono molto più forti dei debitori, che sono le parti fragili del rapporto e vanno tutelate, specie nel caso in cui si tratti della prima casa. Per questo il patto commissorio è sempre stato proibito, anche dal nostro codice civile (art. 2744), almeno fino ad oggi…
Questi sono gli esempi riferiti solamente agli ultimi due mesi, ma sono tante le norme che sono state approvate in questi ultimi dieci anni, in nome di una invocata crisi del settore edilizio e finanziario. Si continuano a vedere norme che forzano le ragioni della tutela del paesaggio, dei beni comuni, dei consumatori e del diritto alla casa, a tutto vantaggio della speculazione edilizia e della grande finanza. La lista è lunga: piani casa, deroghe regionali agli standard urbanistici, silenzio-assenso per le autorizzazioni paesaggistiche, depotenziamento delle Soprintendenze, rivalutazione delle quote che gli istituti di credito detengono in Banca Italia, svendita del patrimonio culturale del Paese. E si potrebbe continuare.
Sarebbe ora che ci fosse una inversione di tendenza e che si imboccasse la strada delle regole scritte nell’interesse generale e non dei potentes di turno.
Il manifesto, 4 marzo 2016
Qualche giorno fa Matteo Renzi è andato a Milano a prospettare entusiasticamente il «nuovo orizzonte» della ricerca italiana: l’annuncio dell’avvio del progetto Human Technopole, un centro di ricerca e innovazione affidato al IIT, Istituto italiano di tecnologia di Genova, ente di diritto privato che disporrà – senza valutazione e selezione alcuna – di un finanziamento di 1,5 miliardi di euro in dieci anni, 150 milioni l’anno di cui 80 milioni già stanziati dal bilancio 2015 (oltre ai 100 milioni annui di contributi «normali» all’Istituto). Il progetto si avvarrà del riutilizzo delle strutture dell’Expo milanese.
Come stabilito con un rapido decreto di Presidenza del Consiglio e del Tesoro, atto da cui stranamente manca proprio il ministero dell’Università e della Ricerca. Il mondo della ricerca e della scienza sta urlando di rabbia e indignazione.
È paradossale infatti che mentre di tagliano fondi per università e ricerca scientifica si trovi non un tesoretto, ma «un tesorone» per finanziare un’istituzione privata. Che – bontà sua – ha già individuato i prossimi partner per l’operazione; non escludendo peraltro – almeno questo! – le università pubbliche milanesi.
A fronte di questo, il bilancio dell’università e della ricerca italiana langue: l’ultimo programma relativo ai Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale, Prin, disporrà di appena 92 milioni di euro, stanziati dopo oltre tre anni di attesa, a fronte delle oltre le 4400 proposte presentate. Così nell’ambito di tale programma i progetti prescelti non potranno occupare più di 1 giovane ricercatore.
Sembra che si voglia incentivare, non bloccare, la «fuga dei cervelli» in atto, le migliaia di giovani laureati che ogni anno lasciano l’Italia. Come dimostrato dai vincitori italiani di molti bandi per progetti comunitari, che però operano in servizio presso –e a beneficio di — università ed istituzioni scientifiche estere. L’università e la ricerca italiana sembrano così costituire, fin dai governi Berlusconi con un trend che prosegue fino a Renzi, dei veri e propri accidenti («altro che eccellenze») cui l’esecutivo deve ovviare, ridimensionando progressivamente quello che evidentemente assume come problema.
Altri dati illustrano meglio il quadro: fin dal ministero Gelmini si sono ridotti il Ffo (Fondo di Finanziamento Ordinario) ed il First (Fondo Investimenti Ricerca Scientifica e Tecnologica): a quest’ultimo sono andati meno di 60 milioni di euro, compreso il fondo per la ricerca di base. Si parla di cifre in media pari a circa un decimo di quanto investito negli altri grandi paesi europei. E il fondo è preannunciato in riduzione per il prossimo triennio. Ancora, perfino un settore tradizionalmente «ricco» della nostra ricerca, quale quello dell’innovazione nel primario, ha visto la relativa disponibilità contrarsi fino a 21 milioni di euro (il piccolo Lussemburgo vi investe circa 10 volte tanto).
I fondi per la diffusione della cultura scientifica sono stati quasi azzerati presso il Miur, erano rimasti 10 milioni di euro (20 volte meno che la media europea) che si ridurranno del 40% nel prossimo triennio. Tutto ciò si riflette ovviamente anche sull’organizzazione didattica: si chiudono corsi e corsi di laurea, mentre il reclutamento con Abilitazione è praticamente fermo: a due anni dalla conclusione della prima selezione (intanto è terminata anche la seconda), più dell’60% degli abilitati ad associato e del 70% di quelli di prima fascia non hanno avuto modo di accedere al nuovo ruolo.
In questi giorni più di 20 mila docenti universitari da tutta Italia stanno rifiutando di inviare i propri prodotti scientifici per la VqR (Valutazione della Qualità della Ricerca). I docenti contestano i metodi di valutazione adoperati, assai discutibili; ma soprattutto adesso protestano per il blocco degli scatti stipendiali, nonché il trattamento carrieristico, pensionistico e di fine rapporto. Saranno contentissimi a sapere che stanno finanziando la Grande Opera per la ricerca presso l’Expo!
In tutto questo il governo assegna 1,5 miliardi di euro ad un ente privato che però riutilizzerà «le strutture dell’Expo». Forse il problema è proprio questo, l’Expo: al di là della polemica attuale sui 20 milioni eventualmente persi per i costi dell’attività Expo rispetto ai ricavi – su cui abilmente la grancassa renziana, di cui Sala è uno dei portavoce milanesi, ha oggi orientato il dibattito -, c’è, ben più grosso anche se rimasto sullo sfondo, il problema della copertura dei costi dei terreni: un debito di miliardi di euro, che grava sulla Società Arexpo, cioè oggi su Regione Lombardia e Comune di Milano.
La «bolla» è attualmente in mano alle banche che, per evitarne lo scoppio fragoroso, hanno bisogno di risorse per il riutilizzo di aree e strutture, che coprano il finanziamento dei nuovi programmi di ridestinazione, ma soprattutto il buco enorme creatosi con l’acquisizione delle aree. Come in casi analoghi, forse il vero obiettivo della «Grande Opera per la ricerca» non è la ricerca.
Ma è proprio così? Ad un esame più attento non sembrerebbe. Leggendo con più attenzione i dati Istat ed anche la stampa, sia quella generalista che quella specializzata, emerge un quadro assai più torbido. Per comodità prendo ad esempio l’editoriale del Sole24Ore di mercoledì 2 marzo. In esso Luca Ricolfi, pur sotto un titolo redazionale compiacente, offre un panorama assai meno sgargiante. Nel quale emerge con forza un’ipotesi più che probabile. Al di là della disputa sui numeri, che dipendono ovviamente dai punti e dai parametri di riferimento, l’incremento dei posti di lavoro non è che l’esito di un’onda lunga dovuta a tre cause: il contratto a tutele crescenti (jobs act), la generosissima decontribuzione, la liberalizzazione dei contratti a termine dovuta al decreto Poletti del marzo del 2014. Il mercato del lavoro si è servito prevalentemente di questi ultimi, generando precarietà. Per poi orientarsi sul contratto a tutele crescenti grazie alla decontribuzione ad esso collegata (più di 8mila euro per assunto). Questa scelta si è venuta intensificando in prossimità dell’abbattimento previsto della contribuzione medesima.
A questo punto serietà vorrebbe che ci si interrogasse se questa trasformazione del tempo determinato in tempo indeterminato – si fa per dire, perché priva della protezione contro i licenziamenti ingiusti che era prevista dall’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori – ha possibilità di segnare una reale inversione di tendenza consolidandosi nel tempo. E qui i facili entusiasmi scemano rapidamente. Nel complesso l’economia mondiale, già dentro una crisi epocale - Larry Summers parla di “stagnazione secolare” - sta per entrare in una congiuntura ancora più sfavorevole. Difficile che un paese come il nostro, che ha già perso il 25% della propria potenzialità produttiva, possa risollevarsi solo con misure che agiscono solo dal lato dell’offerta di lavoro. Se si guarda all’insieme del mondo del lavoro, quindi anche al mondo del lavoro autonomo o presunto tale, si scopre che l’occupazione totale – fatti salvi i travasamenti dal lavoro autonomo al lavoro dipendente in virtù delle decontribuzioni e delle altre norme favorevoli - è rimasta negli ultimi sei mesi pressoché invariata.
Ma soprattutto bisognerebbe capovolgere l’angolo di visuale. Guardare cioè non solo al tasso di disoccupazione ma a quello di occupazione. Ovvero al peso dei lavoratori sul totale della popolazione in età da lavoro. L’Italia, per diventare un paese normale, per dirla alla D’Alema, dovrebbe aumentare di sette milioni i suoi posti di lavoro. Nei primi nove mesi del 2015 il tasso di occupazione è sì tornato sopra il 56%, ma siamo lontani da quello francese (64%) o da quello tedesco (74%). Da noi il tasso di occupazione tra i più giovani è sceso al 15%, ovvero 10 punti in meno rispetto all’inizio della crisi. Contemporaneamente è salito quello tra gli anziani, a seguito dell’allungamento dell’età pensionabile. In Italia le persone che non studiano e non lavorano sono ormai 14 milioni, di questi 4,4 hanno meno di 24 anni. Una generazione perduta per lo studio e il lavoro, le cui conseguenze si faranno sentire nel tempo sia in termini economici che civili.
Per tutte queste ragioni non c’è davvero nulla per esultare. Tanto più che politiche di interventi strutturali nella nostra economia per favorire il rilancio di investimenti pubblici e privati in settori innovativi capaci di impiegare lavoro e conoscenze non se ne vedono. Il Governo prepara invece un Documento di economia e finanza per aprile – in vista delle prossima legge di stabilità - il cui cuore sembrano essere ritocchi all’Ires in favore delle imprese e forse qualche anticipazione sull’Irpef, cioè l’imposta sulle persone fisiche. Ma in questo caso si vorrebbe ridurre da cinque a tre gli scaglioni, con aliquote pari al 23%, 27% e 43%. A beneficiarne sarebbero particolarmente i redditi medio-alti, con un risparmio di circa 2430 euro l’anno per chi ne guadagna 50mila e di 3.500 euro l’anno per chi sta sui 60mila. Come si vede Renzi sente approssimarsi il periodo elettorale.
Quanti "gufi" l'avevano predicato, quante persone lontane dal cerchio magico del twittatore l'avevano compreso? Ora i nodi vengono al pettine: «Ammonta a 63 miliardi, Lazio e Piemonte in testa. Carenza di liquidità e risorse minori del previsto destinate al sistema sanitario nazionale».La Repubblica, 3 marzo 2016
La corposa relazione della Corte dei conti non è un semplice esercizio statistico: l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione con la legge del 2012 prevede infatti l’obbligo del pareggio di bilancio non solo per lo Stato centrale, ma anche per tutte le amministrazioni pubbliche, Regioni comprese, che devono assicurare l’equilibrio tra entrate e spese la sostenibilità del debito. L’indebitamento, dunque dice la Corte, deve seguire la «regola aurea» ovvero i prestiti devono servire solo per gli investimenti e non per finanziare la spesa corrente.
E i creditori? Sono sostanzialmente banche e Cassa depositi e prestiti. La Corte dei conti spiega che i 63,4 miliardi sono composti da 22,7 miliardi di mutui, 22,1 miliardi di anticipazioni di liquidità da parte dello Stato (ad esempio, per pagare i debiti dei fornitori) e di 13,4 miliardi di titoli obbligazionari. Quest’ultima voce è per circa 9,3 miliardi attribuibile a strumenti di finanza derivata a copertura di mutui e prestiti obbligazionari: la Corte segnala tuttavia che gli accantonamenti operati dalle Regioni a fronte della restituzione dei bond sono in crescita e sono indicativi di una «maggiore consapevolezza »« e prudenza degli enti locali.
La classifica delle Regioni con maggiore debito pro-capite vede in testa la Valle D’Aosta a quota 4.775 euro, seguita dal Lazio con 3.380 euro, dal Piemonte con 2013 euro. Se si guarda al solo debito destinato a finanziare la spesa sanitaria ci si accorge come questo rappresenti un vero e proprio “fardello” sulle spese delle Regioni: il debito sanitario è cresciuto dai 17,5 miliardi del 2011 al 29,6 del 2014 con un incremento di 12,1 miliardi pari al 69,1 per cento.
Perché cresce l’indebitamento delle Regioni? La spiegazione che dà la Corte dei Conti parla di «carenza di liquidità», dovuta a ritardi nei trasferimenti e alla riduzione delle risorse destinate al servizio sanitario nazionale. Insomma: i tagli stanno provocando l’esplosione del debito. Due i dati citati dalla Relazione, che lamenta anche i tagli «lineari » e ritardi nella efficientazione: nel 2014 la spesa sanitaria è stata di 111 miliardi in crescita «contenuta» di soli 984 milioni rispetto al 2013; dato che si associa ad una riduzione della spesa sanitaria in rapporto alla spesa complessiva della pubblica amministrazione dal 17 per cento del 2010 al 16% nel 2014. La spesa sanitaria, rileva la Corte, nel quinquennio 2010-2014 ha avuto «incisive economie» seconde solo alla spesa per investimenti e la spesa pro capite è scesa dai 1.843 euro del 2013 ai 1.768 del 2014.
Un iter veloce, quindi. E che non servirà aspettare molto per la decisione lo spiega subito il neo presidente della Consulta, il fiorentino Paolo Grossi: «Penso che si possa arrivare in un tempo ragionevolmente breve a qualche cosa di definito».
I giudici messinesi hanno deciso che la Consulta dovrà pronunciarsi sul alcuni nodi dell’Italicum. A partire dalla questione di una soglia minima per accedere al ballottaggio. I ricorrenti, infatti, fanno notare che si potrebbe verificare una situazione di frammentazione politica per cui andrebbero al ballottaggio due forze politiche premiate solo il 20 per cento dei voti.
Il meccanismo dell’Italicum a quel punto prevede il secondo turno e l’assegnazione di 345 seggi al vincitore. E questo viene ritenuto incostituzionale dai ricorrenti. Ma anche il premio di maggioranza viene considerato contrario ai principi costituzionali, perché lede il «principio di rappresentanza democratica». Nel mirino sono finite anche la norma che prevede 100 seggi bloccati per i capilista e la relativa «impossibilità di scegliere direttamente e liberamente i deputati».
«Spero che quello di Messina sia soltanto il primo - ha detto Besostri - e che magari alla fine la questione di costituzionalità giunga alla Consulta su tutte e 13 le obiezioni ». Soddisfatti anche i grillini che hanno firmato il ricorso. Il rinvio dell’Italicum alla Consulta, spiega il gruppo della Camera, «rafforza la nostra convinzione che la legge sia incostituzionale». Scettico e perplesso, invece il ministro dell’Interno Angelino Alfano: «Non mi stupisce. Siamo in Italia, dove una legge prima di diventare vigente è già mandata alla Consulta».
Brexit. Intervista di Massimo Sideri a Vittorio Colao. Europa politica:«Il sogno dei padri fondatori può rimanere ma bisogna modernizzarlo. Oggi è sul benessere, l’occupazione giovanile e il progresso scientifico e sociale che ci giochiamo il futuro dell’Europa».
Corriere della Sera, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)
Come voterà al referendum sulla Brexit Vittorio Colao, a capo di una delle più importanti multinazionali inglesi, il gruppo Vodafone?
«Io sono italiano, non voto in Gran Bretagna»
Sul voto inglese l'opinione di Timothy Garton Ash e l'intervista di Enrico Franceschini allo scrittore Alan Bennet.
La Repubblica, 21 febbraio 2016 (m.p.r.)
È IN GIOCO IL FUTURO
ECCO PERCHE TUTTI DEVONO
COMBATTERE LA“BATTAGLIA D'INGHILTERRA”
di Timothy Garton Ash
È iniziata una nuova Battaglia d’Inghilterra. Dal suo esito dipenderà il destino di due unioni, il Regno Unito e l’Unione Europea. Se gli inglesi voteranno per uscire dalla Ue, la Scozia voterà l’uscita dal Regno Unito. La Gran Bretagna non esisterà più. E lo shock della Brexit su un continente già scosso da altre crisi potrebbe essere l’inizio della fine dell’Unione Europea.
Se teneta alla Gran Bretagna o all’Europa, e meglio se tenete ad entrambi, impegnatevi in questa battaglia. L’accordo di Bruxelles non è l’ideale, ma la partita è ancora tutta da giocare. Gli europei del continente spesso considerano gli inglesi incorreggibilmente ostili all’Europa. Non è vero. Da decenni i sondaggi rilevano che esiste un’ampia parte di indecisi che possono spostarsi in una direzione o nell’altra. Accadde al referendum del 1975 quando si registrò un forte spostamento dal no al sì all’Europa: è possibile che si ripeta oggi. Il 42% di chi nei sondaggi ha dato un’indicazione di voto potrebbe cambiare idea. Particolarità di questo referendum, poi, è che ad avere diritto di voto sono i cittadini dei paesi del Commonwealth, mentre francesi, italiani, tedeschi che vivono da tempo in Gran Bretagna e ne subiranno le conseguenze, sono esclusi. Che abbiate diritto di voto, o meno, una voce l’avete. Fatela sentire. Vi suggerisco un paio di argomenti.
Innanzitutto il problema vero non sono i dettagli dell’accordo. Quando Cameron mesi fa rese nota l’agenda negoziale, era già chiaro che non saremmo arrivati a una ridefinizione del nostro rapporto con la Ue, né che ci saremmo ritrovati in un’Europa “riformata”. Su questo hanno ragione gli euroscettici: le istanze di Cameron erano più modeste di quanto le abbia fatte apparire e il risultato ottenuto è piccolo. Ma sarebbe folle far dipendere il futuro economico e politico della Gran Bretagna nei prossimi decenni da un dettaglio come il freno alle prestazioni di sicurezza sociale ai lavoratori immigrati. La Brexit è rischiosa. È indiscutibile. Come si sta dentro la Ue lo sappiamo, come si starebbe fuori, no.
Negoziare la Brexit sarebbe d’altronde impresa lunga e faticosa. Nigel Lawson e altri fautori dell’uscita sostengono che basta abrogare l’Atto unico europeo del 1972 e saremmo liberi. A loro avviso i nostri partner continentali ci concederebbero generoso accesso al mercato unico grazie a un accordo li libero scambio «più utile a loro che a noi». Bel sogno. Vi consiglio di leggere l’attenta analisi di Jean-Claude Piris, ex direttore dei servizi giuridici della Ue, per capire che incubo sarebbe districare quella matassa giuridica. Parlatene ai politici continentali. Quello che abbiamo visto a Bruxelles è il massimo che sono disposti a fare. Non ci farebbero favori in caso d’uscita. L’accordo di Bruxelles dimostra che i partner europei hanno accettato la volontà della Gran Bretagna di fermarsi all’attuale livello di integrazione. La situazione ottimale, se esiste, è quella odierna, non la Brexit. Fa freddo fuori.
Più guardiamo a Norvegia e Svizzera, meno la loro posizione appare attraente e molti imprenditoria e sindacati britannici non vogliono prendersi quel rischio. La Ue ha usato il potere d’attrazione del suo mercato unico di 500 milioni di consumatori per garantirsi vantaggiosi accordi di libero scambio con gran parte del mondo. È contro ogni logica pensare che la Gran Bretagna farebbe affari migliori da sola. Michael Froman, responsabile del Commercio Usa, lo scorso anno ha affermato che se la Gran Bretagna uscisse dalla Ue non sussisterebbe alcun accordo di libero scambio e gli Usa non avrebbero nessun interesse a negoziarlo. Non solo. L’adesione alla Ue ci pone al riparo da terrorismo e criminalità internazionale. Non sono io a dirlo, ma Theresa May, ministro degli interni conservatore. Per questo ha mantenuto la Gran Bretagna nella più importante rete europea di cooperazione giudiziaria e di polizia e si è schierata contro la Brexit.
Restare nella Ue è vitale per la sicurezza interna. Il feldmaresciallo Lord Bramall, non è certo un paladino entusiasta dell’Unione, fa notare che se ne uscissimo la nostra sicurezza sarebbe messa in pericolo da «un’Europa oltremanica piegata e demoralizzata». Se restiamo possiamo essere fautori di una politica estera europea che affronti la cause di problemi profondi come quello dei profughi. Vladimir Putin e Marine le Pen ci vogliono fuori. Barack Obama, Angela Merkel e tutti i nostri tradizionali amici, in Europa, Nord America e Commonwealth, ci vogliono dentro. Serve dire altro?
La Brexit sarebbe diastrosa per l’Irlanda. L’ex premier John Bruton sostiene che «annullerebbe l’opera di pacificazione, sollevando pesanti questioni sui confini e sull’accesso al mercato del lavoro». Da noi risiedono più di 380 mila irlandesi che hanno diritto di voto in questo referendum. Milioni di britannici (come me) hanno origini irlandesi. Se avete a cuore l’Irlanda, votate per restare nella Ue. La Scozia lascerebbe il Regno Unito. Se non volete, votate per l’Ue. La Ue si può cambiare. Le riforme ottenute da Cameron sono modeste, ma in paesi come la Germania molti credono che le riforme siano imprescindibili e non una scelta da fare obtorto collo per mantenere la Gran Bretagna nell’Unione. Se restiamo quella lobby di fautori di riforme si rafforza. Questi argomenti sono improntati alla cautela, non a un visionario ottimismo. Gli euroscettici li definiranno allarmistiche. Se si può definire allarmismo invitare qualcuno a non buttarsi da un transatlantico senza salvagente col mare forza nove. In realtà è solo semplice buon senso.
Traduzione di Emilia Benghi
“NON CHIUDIAMOCI NELLA NOSTRA ISOLA GRIGIA”
Londra. «Noi inglesi abbiamo già fatto abbastanza stupidaggini a riportare al potere i conservatori, speriamo di non farne un’altra ancora più grossa portando questo paese fuori dall’Europa». Alan Bennett non ha dubbi su come votare nel referendum sull’Unione Europea che si terrà in giugno in Gran Bretagna: «Risolutamente sì alla Ue», dice l’81enne scrittore. E poi l’autore di
La sovrana lettrice e tanti altri romanzi e saggi (tutti tradotti in Italia da Adelphi) spiega perché.
Allora è d’accordo con l’attrice Emma Thompson quando ha affermato che è meglio restare ancorati all’Europa che rinchiudersi in questa grigia, piovigginosa isoletta?
«Come darle torto? È difficile negare che la Gran Bretagna sia un’isola. E per accorgersi che è grigia e piovigginosa basta guardare fuori dalla finestra, in una giornata come quella di oggi».
«L’istituto nazionale di statistica ha presentato un dossier con gli “indicatori demografici” relativi all’Italia per l’anno 2015». Articoli di Mariolina Iossa e Roberto Ciccarelli,
Corriere della Sera il manifesto, 20 Febbraio, 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
NASCITE AL MINIMO STORICO, CRESCONO I RESIDENTI STRANIERI
«L’Ue non esiste più se non come entità burocratica. Lo spettacolo di questi due giorni di Consiglio europeo - il vertice dei capi di Stato e di governo - lo ha sancito con plastica evidenza: non è stata altro che un’assemblea di Stati nazione e pure litigiosi».
Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2016 (m.p.r.)
Che alla fine l’accordotra i leader dell’Ue eDavid Cameron - altermine di una trattativainfinita di cui non si conosconoi dettagli - serva davveroa trattenere Londra; che sifaccia finta o meno di avere unastrategia comune su migrantie profughi; che mentresi introducono discriminazionitra i cittadini europei si ostentinoo meno sorrisi a favoredi telecamera. Che questoavvenga o no una cosa è certa:l’Ue non esiste più se non comeentità burocratica. Lospettacolo di questi due giornidi Consiglio europeo - il verticedei capi di Stato e di governo- lo ha sancito con plasticaevidenza: non è stata altroche un’assemblea di Statinazione e pure litigiosi. Eccoun breve racconto per punti.
Brexit
Trattative infinite aBruxelles per dare qualchecartuccia a Cameron da giocarsisul fronte del Sì al referendumsulla permanenza diLondra nell’Ue (gli euroscetticisono avanti di 2 puntinell’ultimo sondaggio e tra lorosi schiera anche il ministrodella Giustizia di Cameron).L’accordo doveva essere sancitoieri mattina, ma l’annuncio è arrivato solo alle 10 di sera:«Il teatro è finito», ha twittatola presidente lituana DaliaGrybauskaite. Almeno alla fine- dopo il rinvio di colazione,pranzo e merenda - i leader europeisi sono sfamati nella cenacomune. Mentre andiamo instampa, non si conoscono iparticolari dell’accordo. I retroscenadell’ultim’ora sostengonoche Londra non avràun potere di veto sulle sceltedell’Eurozona (di cui non faparte), ma ha ottenuto il “frenodi emergenza”: una discriminazioneper i lavoratori europeiche si trasferiscono in GranBretagna, i quali - in sostanza -avranno assegni familiari piùleggeri rispetto ai colleghi enon avranno diritto alle casepopolari. E questo, pare, per 7anni: Bruxelles aveva proposto4 anni, Londra ha replicatochiedendone 13, l’accordo - dicono- è arrivato nel mezzo.
Austria
Come promesso, sen’è fregata del divieto di Bruxelles(“misure illegali”) e delleposizioni degli altri leadereuropei e ieri ha chiuso le frontiere(autorizzate 80 richiestedi asilo al giorno e 3.200 transitiverso altri Paesi): «L’annoscorso abbiamo preso 90 milapersone, quest’anno abbiamodeciso di accogliere 37.500 richiedentiasilo. Se in proporzionealla popolazione ognipaese facesse come noi - hadetto il cancelliere Werner Faymann- potremmo distribuire2 milioni di rifugiati». L’Italia,ovviamente, non gradisce:«Creare barriere al Brennero- dice il ministro Alfano -è una pura illusione: non si puòrisolvere il problema dei migrantiin un solo Paese».
L’Ungheria e gli altri
Il governodi Orban si è schieratocon Vienna e ha annunciatoche domani chiuderà i varchiferroviari con la Croazia. IPaesi della rotta dei Balcani(Slovenia, Croazia, Serbia eMacedonia) faranno altrettanto:hanno, peraltro, già firmatoun accordo con l’Austria.Esiste pure un piano B promossoda Polonia, RepubblicaCeca, Slovacchia e Ungheria:una barriera in Macedonia senon si riuscirà a sigillare lafrontiera turca (la CommissioneUe chiede a Erdogan di faredi più, ma Ankara non vuole rinunciarea un lucrativo poteredi ricatto sull’Europa).
Germania
Il ministrodell’Interno tedesco Thomasde Maizière, ieri al Bundestag,ha minacciato Austria, Ungheria,etc: «È inaccettabileche alcuni Paesi tentino di trasferirei problemi comuni unilateralmentesulle spalle deitedeschi. Questo, alla lunga,non sarebbe senza conseguenze».Affronteremo la questionedei migranti, ha spiegatopoi, negli accordi di Schengen«finché sarà possibile».
Grecia
Alexis Tsipras, a cui èstato ordinato di sigillare le suefrontiere entro marzo, ieri hatentato di uscire dall’angolo:ha minacciato di non votarel’accordo sulla Brexit se non sirisolve la questione migranti.Hollande e Merkel lo hannotranquillizzato: c’è tempo finoa marzo e Bruxelles “farà la suaparte” (cioè, darà dei soldi).
Italia
Matteo Renzi chiedein sostanza che venga rispettatol’accordo sui “ricollocamenti” di una parte dei profughiche arrivano in Italia(40mila in due anni) e Grecia(66mila) sottoscritto mesi fa.Ad oggi, dicono i numeri dellaCommissione, sono state ricollocate288 persone dall’Italia e 295 dalla Grecia. Il principaleostacolo sono i Paesidell’Est, che rifiutano i ricollocamenti:Renzi ha propostodi penalizzarli economicamentesui trasferimenti comunitari;Ungheria e Polonial’hanno definito “un ricatto”.
I migranti
Il conflitto siriano- dice l’Onu - ha creato 13milioni di profughi, la maggiorparte dei quali è nei paesi confinanti:nel 2015 un milione dipersone ha tentato, comunque,di raggiungere l’Europa,venti volte più che nel 2014.Anche quest’anno gli arrividovrebbero essere un milione.Tra le poche decisioni delConsiglio: i flussi vanno contenutianche coi respingimentialle frontiere esterne.
«Dall’affare tabacchi a Mani Pulite, Storie (e guai) di chi si oppose a scandali e ruberie».
Corriere della sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)
Giù le mani da Giovanna Ceribelli. Troppe volte, nel passato più recente e più remoto, chi ha denunciato uno scandalo come la commercialista di Caprino Bergamasco che ha fatto scoppiare l’ultimo bubbone della Sanità lombarda è stato abbandonato a se stesso, isolato, punito. Come fosse colpevole di non essersi fatto gli affari suoi.
Chissà quando si aprirà l'armadio nel quale (supponiamo a Bruxelles) sono conservati gli atti della vergogna di questo secolo, la strage dei migranti?
Ilsole24ore.com, 15 febbraio 2015
L’Armadio della vergogna sarà desecretato da domani. Si tratta dei documenti rivenuti nel 1994 fra cui si trovano 695 fascicoli d'inchiesta e un registro generale con 2.274 notizie di reato relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l'occupazione nazifascista. I documenti saranno desecretati secondo la “direttiva Renzi” e sono destinati ad apparire sul canale dell'archivio storico della Camera.
Da domani consultabile l’elenco
Da domani, dunque, sul sito internet dell'Archivio storico della Camera dei deputati, all'indirizzo http://archivio.camera.it/, sarà possibile consultare l'elenco e richiedere copia dei documenti declassificati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti che nella XIV legislatura si è occupata della vicenda del cosiddetto «armadio della vergogna». Istituita con la legge 107/2003, la Commissione aveva il compito di indagare sulle anomale archiviazioni provvisorie e sull'occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare, contenenti denunce di crimini nazifascisti, commessi nel corso della seconda guerra mondiale e riguardanti circa 15mila vittime.
Boldrini: un nuovo capitolo del percorso di trasparenza di Montecitorio
«Sono contenta che il percorso di trasparenza di Montecitorio si arricchisca di un nuovo e importante capitolo - ha commentato la presidente Laura Boldrini - perché un Paese veramente democratico non può avere paura del proprio passato». A seguito di specifiche sollecitazioni della presidenza della Camera alle varie autorità che le avevano redatte originariamente, sono state declassificate e rese ora consultabili. Si tratta di documenti che la Commissione d'inchiesta ha acquisito dagli archivi del ministero degli Affari esteri, del ministero della Difesa, dell'allora Servizio informazioni e sicurezza militare (Sismi), del Consiglio della magistratura militare e del Tribunale di Roma. La disponibilità di questi documenti completa e integra i testi dei resoconti delle sedute della Commissione che erano già stati pubblicati in rete in corso di svolgimento, fra l'8 ottobre 2003 e il 16 febbraio 2006, e che sono tuttora consultabili nel testo integrale all'indirizzo http://legxiv.camera.it/_bicamerali/nochiosco.asp?pagina=/_bicamer ali/leg14/crimini/home.htm
. Il manifesto la Repubblica, 13 febbraio 2016 (m.p.r.)
Il manifesto
L’incontro è avvenuto in un clima di grande emozione. Il patriarca Kirill, in visita ufficiale a Cuba, aveva passato la mattinata in cerimonie ufficiali e in un «incontro di cortesia» col presidente Raúl Castro.
Ma l’attenzione generale era polarizzata lontano dal centro dell’Avana, verso l’aeroporto José Martí, dove duecento giornalisti erano in attesa dell’aereo papale. Che è giunto alle due del pomeriggio locali. Ad attenderlo,per il saluto ufficiale, il presidente Raúl e il vertice ecclesiale cubano guidato dal cadinale Jaime Ortega. Caloroso il saluto tra il papa e il più giovane dei Castro, finalmente sotto un solo caraibico dopo settimane di tempo plumbeo. La cerimonia di benvenuto per il suo secondo viaggio a Cuba è stata però semplice, ridotta al minimo.
Poi il presidente cubano ha accompagnato il pontefice verso la sala dell’aeroporto dove lo attendeva il patriarca di tutta la Russia. I due massimi esponenti della cristianità hanno avuto un colloquio di un paio di ore. Seduti uno di fronte all’altro, prima sotto i riflettori delle tv di tutto il mondo e i flash dei reporter per le immagini destinate a rimanere nei libri di storia; poi isolati e protesi ad affrontare i temi che possano permettere alle due chiese, la cattolica occidentale e l’ortodossa orientale, di stabilire «un ponte» verso un futuro.
Nella notte di giovedì era stata messa a punto una dichiarazione congiunta che esprime punti di vista comuni sui problemi della lotta al terrorismo, sulla necessità di bloccare la persecuzione nei confronti dei cristiani che, in Medio oriente e in Africa del Nord, sono bersaglio di attacchi da parte di estremisti musulmani, militanti dello Stato islamico in primis.
La dichiarazione affronta anche temi etici e sociali, come la difesa della vita del matrimonio e un appello alla pace. Non veniva escluso che i due leader religiosi potessero modificare in qualche punto la dichiarazione, spingendo in avanti il terreno di discussione, in modo da dimostrare che l’incontro è stato veramente un «nuovo inizio»
In ogni modo, da entrambe le parti si è è sottolineato che sia l’incontro, sia la dichiarazione rappresentano «uno storico apporto alla causa ecumenica, al dialogo interreligioso in generale e alla pace nel mondo» e una grande e storica opportunità «perché centinaia di milioni di fedeli nel mondo lavorino assieme in favore di una convivenza civile e per la pace».
In seguito, il papa proseguirà per la sua importante visita in Messico, mentre Kirill resterà fino a domenica a Cuba e poi proseguirà nella sua prima missione in America latina, in Brasile, Cile e Paraguay.
Cuba ha espresso chiaramente l’orgoglio per essere stata scelta come sede dello storico evento. Si tratta per il vertice politico cubano di qualcosa di ben più importante che rappresentare «un terreno neutro», in ballo è il riconoscimento della «vocazione di pace e di dialogo» dell’isola, che già da anni ospita le trattative di pace tra governo colombiano e la guerriglia delle Farc e da più di un anno è protagonista di trattative per normalizzare i rapporti con gli Stati uniti. Il presidente Raùl Castro, è previsto partecipare nella foto che vedrà riuniti i due massimi leader della cristianità.
Immagine che gli conferisce lo status di politico internazionale, credibile e capace di mediazioni efficaci in difficili situazione di crisi.
La Repubblica
STORICO ABBRACCIO ALL'AVANA TRA FRANCESCO E IL PATRIARCA
L’Avana. Finalmente. «Somos hermanos ». L’avvio è in italiano, poi in spagnolo. L’interprete russo, paziente e divertito, traduce tutto. Siamo fratelli, dice Francesco a Kyril. E un triplice bacio sulle guance, alla russa, completato da un abbraccio, suggella a Cuba, trasformata in isola del negoziato, il primo incontro nella Storia fra un Pontefice di Roma e il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Dopo mille anni, cattolici e ortodossi, parti separate della grande famiglia cristiana, si riconoscono e si parlano direttamente attraverso i loro leader. È la prima volta dopo lo scisma del 1054, e la nascita nel 1589 del Patriarcato di Mosca in rotta con Costantinopoli. Oggi, dal suo ridotto nella sede di Istanbul, al Fanar, il Patriarca Bartolomeo benedice l’incontro via Twitter.
Una decisione formale non è mai arrivata, ma il premier Matteo Renzi non si rassegna facilmente all’idea di abbandonare il suo progetto di coinvolgere l’amico Marco Carrai a Palazzo Chigi per la sicurezza cibernetica. “Il governo è libero di avvalersi di consulenze”, ha detto il ministro Maria Elena Boschi in Parlamento due settimane fa.
L'intervento del presidente dei vescovi italiani conduce a distorcere l'uso di una forma di votazione (il voto segreto) che era finalizzato a garantire la libertà delle coscienze, oggi è lo strumento della loro coartazione.
Il Fatto quotidiano, 12 febbraio 2016
Il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha superato la linea sottile che separa il diritto della Chiesa di esprimere valutazioni, esortazioni e moniti in assoluta libertà, specie su questioni etiche, dalla vera e propria ingerenza in questioni che riguardano solo il Parlamento. Un conto è dare voce al sentimento morale cattolico contro le unioni omosessuali, in particolare contro le adozioni; e persino sollecitare le resistenze di una parte consistente dell’opinione pubblica avversa alla nuova legislazione. In una società liberale questo è concesso, anzi è dovuto agli esponenti delle confessioni religiose. Ed è bene che sia così.
Passano i giorni, si rinvia l’inizio delle votazioni, ma non si vede un possibile punto d’incontro. Anzi, la tensione tende a crescere in Senato e certi fragili accordi dei giorni scorsi sono già saltati oppure non trovano concreta applicazione. Come lo scambio fra Pd e Lega: da un lato, la rinuncia di quest’ultima a mettere in votazione una massa esorbitante di emendamenti; dall’altro, una linea più aperta e meno intransigente del Pd su altri emendamenti sostanziali che non potranno essere cassati con espedienti di tecnica parlamentare.
In altri termini, la matassa non si sbroglia e la prospettiva di una legge Cirinnà amputata di alcuni aspetti non secondari — le adozioni, appunto — oggi sembra plausibile, anche se non ancora probabile. È chiaro che le parole del presidente della Cei hanno l’effetto di esasperare gli animi. Il ricorso al voto segreto è una prassi legittima in Parlamento, sebbene limitata a circostanze ben definite. Un tempo serviva a proteggere il deputato o il senatore da rivalse e vendette del potere costituito, oggi che rischi non ce ne sono diventa spesso solo un alibi e una scomoda scappatoia. Lanciare il sasso e ritirare la mano, secondo un’immagine ben nota.
La storia repubblicana insegna che l’evoluzione del costume e il rapporto fra cattolico e laici trae vantaggio da un confronto ragionevole, privo di estremismi di qualsiasi tipo. Non è detto quindi che l’iniziativa della Cei, quella sottile linea rossa che è stata scavalcata dal presidente dei vescovi, sia destinata a produrre risultati utili per il punto di vista della Chiesa. Il senso religioso e morale di un paese non si esalta e non si cancella a seconda di come il Parlamento vota una legge della Repubblica.
Ancor meno se questo o quell’emendamento viene approvato grazie allo scrutinio segreto che scava nelle inquietudini dei parlamentari. Se il voto deve essere di coscienza, esso merita di manifestarsi senza infingimenti. Altrimenti si tratterebbe di una coscienza molto debole.E quando la posta in gioco è etica, il primo a rifiutare una coscienza debole e irresoluta dovrebbe essere il cardinale Bagnasco.
Insomma, Obama promette di compiere un atto dovuto (aiutare sul caso Regeni) se l'Italia aiutagli USA in due azioni nefaste: gettare più benzina sul fuoco della guerra e decretare, con il TTIP, la prevalenza degli interessi economici sui diritti personali, sociali, ambientali.
Ilsole24ore.com9 Febbraio 2016
Nel primo vertice tra Obama e Mattarella, l’Italia segna un punto a favore sui dossier più scottanti: migranti, Libia, economia ed Europa. Il presidente Usa vuole impegnare la Nato nella crisi umanitaria nel Mediterraneo. E ha offerto collaborazione sull’uccisione di Regeni.
Il tono affabile con cui Barack Obama prende la parola e si rivolge al suo «collega professore di diritto costituzionale» Sergio Mattarella racconta molto del clima di questo primo faccia a faccia. Sul tavolo c’erano questioni piuttosto cruciali e dirimenti per l’Italia ma quella cordialità con cui il presidente americano parla del capo dello Stato - «il primo siciliano» - dà una sfumatura in più su come siano andati i colloqui. Che certamente segnano un punto a favore dell’Italia su almeno tre dossier: crisi dei migranti, Libia, economia ed Europa.
Nello studio ovale, illuminato da una giornata di sole, i due presidenti arrivano con almeno mezz’ora di ritardo rispetto alla rigida programmazione della Casa Bianca. E già il fatto che il vertice sia andato oltre i tempi previsti – in tutto è durato un’ora e trenta - diventa il primo indizio del buon esito dell’incontro a cui ha partecipato anche il ministro Paolo Gentiloni. Che ha una novità, soprattutto: l’impegno di Obama di coinvolgere la Nato nella crisi dei migranti non solo per ragioni di sicurezza ma anche per gli aiuti umanitari e il salvataggio di vite. Un cambio di scenario strategico per l’Italia, che è in prima linea nella gestione dell’emergenza, e anche un punto a favore di questa visita di Mattarella alla Casa Bianca. A quanto pare, si tratta un’ipotesi avanzata visto che Obama ha riferito al capo dello Stato di averne già parlato con la Merkel e di volerne informare e discutere al più presto con Renzi e con Hollande.
«Una collaborazione tra l’Ue, gli Usa e la Nato, per far fronte alla crisi umanitaria e smantellare il traffico di esseri umani», ha detto Obama riconoscendo «l’impatto terribile sull’Europa e sull’Italia in particolare». Seduti l’uno accanto all’altro nelle poltrone dello studio ovale, il caminetto che fa da sfondo, dopo Obama prende la parola Mattarella che conferma quella solida alleanza con gli Stati Uniti che «ci consente oggi e ci consentirà in futuro di fronteggiare sfide nuove e di sconfiggere i nemici della pace, della libertà e dei diritti umani».
E in effetti l’altro dossier scottante è quello dell’Isis che per oggi vuol dire anche Libia. Su questo fronte, la posizione portata da Mattarella ha avuto il placet della Casa Bianca e non era scontato visto che la linea americana è divisa: il Pentagono preme per un’azione militare a breve per impedire la diffusione dell’Isis mentre la Casa Bianca è più cauta. Ecco, ieri, Obama ha confermato a Sergio Mattarella che la volontà americana coincide con le posizioni italiane e dunque ci si muoverà entro il perimetro Onu aspettando la formazione di un governo unitario e intervenendo - eventualmente - solo su richiesta di quest’ultimo. È noto che ci sono ancora dei problemi sulla nascita di un governo libico ma ieri il capo dello Stato e Obama sono stati concordi nel dare più tempo ed evitare che un’azione militare intempestiva porti i circa mille miliziani libici - che oggi contrastano l’Isis - su posizioni anti-occidentali. «Abbiamo discusso degli sforzi congiunti per aiutare la Libia a formare un governo che permetta alle loro forze di sicurezza di stabilizzare il loro territorio e neutralizzare l’Is», ha confermato Obama.
Anche questo passaggio non era scontato. L’interesse americano è oggi prevalentemente spostato su Siria e Iraq e solo per una parte marginale sulla Libia, argomento fino a un po’ di tempo fa considerato tabù per l’uccisione dell’ambasciatore Stevens negli anni in cui Hillary Clinton era segretario di Stato. Oggi il tabù è caduto dopo che la Clinton ha reso una lunghissima audizione alla commissione del Congresso che indaga su quella vicenda e da cui è uscita senza danni. E dunque sulla Libia l’Italia incassa un appoggio anche perché gli Usa apprezzano l’intervento italiano in Iraq. «Grazie per il lavoro di protezione alla diga di Mosul» ha detto Obama nelle dichiarazioni finali.
Infine, un altro successo di questa visita è l’assist di Obama a politiche espansive in Europa mentre l’Italia si sta facendo parte attiva della firma entro l’anno del Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale con gli Usa. E se ne capisce il motivo leggendo i numeri: 1 miliardo di investimenti americani in Italia durante il 2014, sono invece 3,7 miliardi quelli italiani in Usa.
«Servono impegni affinché non si ripresentino le gravi crisi del passato che destabilizzano i Paesi sviluppati e precludono una vita migliore nei Paesi in via di sviluppo», ha detto Mattarella mostrando di aver trovato ascolto e appoggio presso Obama in questo momento di divisioni in Europa anche sulle ricette economiche. E soprattutto c’è una forte intesa a evitare Brexit. «Vogliamo la Gran Bretagna a bordo», ha detto il presidente Usa.
Ma al termine della visita, quando la stampa aveva lasciato lo studio ovale, Obama ha offerto a Mattarella la collaborazione Usa alle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni in Egitto. Di questo avevano già parlato il ministro Gentiloni e Kerry, presenti all’incontro tra Mattarella e Obama insieme al vice presidente Biden e la consigliera della sicurezza Susan Rice.
Qual è la differenza tra Augusto Pinochet, golpista cileno, e Abdal-Sisi, golpista egiziano? Nessuna differenza, risponderà chi non conosce Il Principe di Machiavelli nella versione in uso a Palazzo Chigi. L’ignaro si lascerà impressionare dalle similitudini tra i percorsi compiuti dai due generali. Tanto Pinochet quanto al-Sisi sono nel vertice militare quando il governo che li ha nominati sprofonda in una grave crisi di consenso. Entrambi pugnalano quel governo con un colpo di stato. Entrambi s’intestano il potere e massacrano oppositori. Entrambi massacrerebbero di più se non fossero frenati, il cileno dalla Chiesa, l’egiziano da Obama. Così Pinochet si ferma a quota 3 mila uccisi; al-Sisi probabilmente l’ha raggiunto. Parte alto, almeno 1.150 morti in un giorno, 14 agosto 2013. «Il più grave massacro di dimostranti nella storia dei crimini contro l’umanità», dice Sarah Leah Whitson, di Human Right Watch, ascoltata lo scorso novembre dal Congresso Usa.
«Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile».
Repubblica.itGreenitalia.org, 3 febbraio 2016 (m.p.r.)
Repubblica.it
SMOG, L'EUROPARLAMENTO RADDOPPIA
I LIMITI DI EMISSIONI PER LE AUTO
Con pochi voti di scarto, approvata la modifica del regolamento sugli ossidi di azoto, i precursori delle polveri sottili. Socialisti e verdi si sono opposti ma hanno persodi
ROMA – Largo alle polveri sottili, quelle che corrodono i nostri polmoni, quelle che fanno scattare la febbre da smog contro la quale ci limitiamo a prendere l’aspirina dei blocchi del traffico. Misure vere no. O, almeno, no se entrano in conflitto con le industrie che contano. Oggi l’europarlamento ha votato a strettissima maggioranza l’approvazione di una modifica del regolamento che stabilisce il tetto delle emissioni di NOx, gli ossidi di azoto che sono precursori delle polveri sottili. La dose ammessa per legge è stata generosamente raddoppiata. Le auto potranno inquinare, per gli NOx, il 110% in più di quello che era stato stabilito prima del dieselgate.
Una volta scoppiato lo scandalo sono emersi infatti i trucchi di serie, il fatto che i laboratori di omologazione dei nuovi modelli, finanziati dalle case automobilistiche, ricorrevano a ogni sorta di stratagemmi (gomme super gonfie, lubrificanti speciali, aerodinamica modificata) per far sì che dalle prove in questi ambienti ovattati, dalle caratteristiche lunari, emergessero dati ben lontani da quelli misurabili sulle strade terrestri. E naturalmente molto più confortanti.
Ora che bisogna fare sul serio, con test veri che mostrano quanto inquina realmente ogni auto, cambiano le norme. Il tetto si alza. Il regolamento europeo 715 del 2007 aveva stabilito che per i veicoli euro 6 il limite di emissione per gli ossidi di azoto (NOx) fosse di 80 milligrammi a chilometro. Il voto del Parlamento ha fatto passare la norma proposta dalla Commissione che alza i limiti per gli NOx del 110% nel periodo che va dal settembre 2017 al 31 dicembre 2018 e del 50% nel periodo successivo. Invece di respirare 80 milligrammi di NOX per ogni chilometro per ogni macchina in circolazione, l’anno prossimo ne respireremo 168.
“La maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco della parte più retriva dell’industria automobilistica, senza curarsi della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento sempre più alti e pericolosi”, accusa Monica Frassoni, copresidente dei Verdi europei. “È sorprendente che nella lista dei votanti a favore ci sia anche il presidente della commissione Ambiente del Parlamento europeo, la cui maggioranza si era schierata contro l’indebolimento dei limiti stabiliti”.
In aula ha prevalso il voto suggerito dai gruppi, con i popolari che hanno guidato la battaglia per alzare i limiti, mentre verdi e socialisti, con qualche eccezione, si sono opposti. «È certamente uno schiaffo all’ambiente e alla salute dei cittadini, ma è anche uno schiaffo all’idea di un’Europa vicina alle persone, capace di difendere interessi concreti e non solo percentuali sul debito», commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club. «Per restituire dignità alla politica e speranza a tutti bisogna cambiare rotta».
Una «scelta assurda e insensata che va contro la salute dei cittadini e l'ambiente. Un vero e proprio condono che premia i furbi e non l'innovazione e la qualità». Così ha commentato il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani. «In piena emergenza smog e con i livelli di inquinamento alle stelle», continua, «quello che è avvenuto è veramente assurdo, ed è solo a favore delle lobby automobilistiche».
Greenitalia.org
SCANDALOSA DECISIONE DELL'EUROPARLAMENTO: LE AUTOMOBILI POTRANNO INQUINARE DI PIÙ
Scandalosa decisione all’Europarlamento: aumentato il livello delle emissioni degli ossidi di azoto del 110% rispetto alle attuali soglie. Si tratta di una decisione gravissima e assurda, anche rispetto a quanto accaduto nei mesi scorsi con la vicenda Dieselgate-Volkswagen. Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile, con buona pace della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento dei centri urbani sempre più alti e pericolosi. Anche molti europarlamentari italiani hanno deciso di innalzare le quantità di PM10 e NOx da far inalare ai cittadini.
Ecco i loro nomi:
ENF
Mara Bizzotto
Mario Borghezio
Gianluca Buonanno
Lorenzo Fontana
Matteo Salvini
ECR
Raffaele Fitto
Remo Sernagiotto
PPE
Lorenzo Cesa;
Salvatore Cicu;
Alberto Cirio;
Lara Comi;
Herbert Dorfmann;
Elisabetta Gardini;
Giovanni La Via;
Fulvio Martusciello;
Barbara Matera;
Alessandra Mussolini;
Aldo Patriciello;
Salvatore Domenico Pogliese;
Massimiliano Salini
Antonio Tajani.
Si sono astenuti:
S&D
Simona Bonafè;
Caterina Chinnici;
Silvia Costa;
Luigi Morgano:
Michela Giuffrida.
Lo dichiarano i portavoce di Green Italia Annalisa Corrado e Oliviero Alotto.
Anche nella patria della rivoluzione liberale governi di pseudo sinistra provano a modificare la Costituzione calpestando i diritti comuni. Articoli di Anais Ginori e Anna Maria Merlo,
La Repubblicail manifesto, 3 febbraio 2016
La riforma, in discussione all’Assemblée Nationale da qualche giorno, sta spaccando la Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, la legge costituzionale propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza “usa-e-getta” che si concentrano le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra francesi.Il riferimento alla binazionalità è scomparso ma rimane il problema di come fare per non creare apolidi. Se l’attuazione pratica di questa misura rimane vaga, è il simbolo che fa discutere. «Cosa sarebbe il mondo se ogni paese decidesse di espellere i suoi connazionali giudicati indesiderabili? », si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane Taubira, nel pamphlet che ha appena pubblicato dopo le sue dimissioni causate proprio dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si stanno levando contro il testo che dovrebbe essere votato in prima battuta la settimana prossima, per poi passare al Senato.
«Il progetto del governo tratta in modo impari i francesi, apre la strada alla creazione di apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà politiche, fondamento stesso della democrazia», scrivono i promotori dell’appello. A preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo reati contro la sicurezza dello Stato ma anche «l’attacco grave alla vita della Nazione». Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: «Significa aprire la porta alla revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un potere autoritario».
La legge costituzionale dovrà essere approvata da deputati e senatori, per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero le Camere riunite. Hollande dovrà ottenere due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta.
Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader socialista, si cominciano a levare voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non sosterrà il progetto di revisione costituzionale perché «le leggi ci sono già». E il favorito alla primarie a destra, Alain Juppé, si è schierato contro: «La lotta al terrorismo — ha detto — si fa aumentando le forze dell’ordine e dando più potere all’intelligence».
Riforma costituzionale . Oggi in Consiglio dei ministri il prolungamento di altri tre mesi dello stato d'emergenza. La riforma costituzionale sulla privazione della nazionalità a rischio, contestazioni a sinistra (ma anche a destra). Taubira attacca con un libro
Oggi in Consiglio dei ministri sarà presentata la proposta, poi sottoposta al voto del parlamento, di prolungare di altri tre mesi lo stato d’emergenza, che, già confermato dopo i primi 12 giorni seguenti gli attentati del 13 novembre, scade ora il 26 febbraio. Poi, venerdì, inizia all’Assemblea il dibattito sulla riforma della Costituzione, per introdurre non solo lo stato d’emergenza nella Carta (una proposta che alcuni, come lo storico Pierre Rosanvallon, giudicano positivamente, perché chiarirebbe la legge del ’55, votata durante la guerra d’Algeria), ma soprattutto la molto più controversa privazione della nazionalità.
La confusione regna sovrana sui due fronti e il governo è in difficoltà, preso in trappola da se stesso. Contro il prolungamento dello stato d’emergenza hanno manifestato migliaia di persone in tutta la Francia sabato scorso. Una richiesta di sospensione della Lega dei Diritti dell’uomo è stata però respinta dal Consiglio di stato la scorsa settimana, perché “il rischio di attentati resta”. Nei fatti, l’efficacia dello stato d’emergenza nella lotta al terrorismo resta da dimostrare: ci sono state 3200 perquisizioni (senza l’intervento del giudice, come permette lo stato d’eccezione), ma sono state aperte solo 4 inchieste che hanno a che vedere sul terrorismo e una sola persona è stata incriminata, mentre 400 persone sono ai domiciliari. Hanno subito questa privazione di libertà anche persone che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, come dei militanti ecologisti legati alla contestazione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, a riprova dell’arma a doppio taglio dello stato d’emergenza.
L’inserimento nella Costituzione della privazione della nazionalità ha già causato un terremoto politico, con le dimissioni della ministra della Giustizia, Christiane Taubira, la scorsa settimana, l’ultima garante a “sinistra” del governo Valls. Taubira, lunedi’, ha pubblicato un libro di meno di 100 pagine, Murmures à la jeunesse, che è un j’accuse contro la proposta della privazione di nazionalità, “inefficace”, “con effetti nulli sulla dissuasione”.
L’ex ministra, che è nata a Cayenne, si chiede: “cosa sarebbe il mondo se ogni paese espellesse i propri cittadini considerati indesiderabili?”. Per modificare la Costituzione, ci vuole un voto ai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo che deve essere passato negli stessi termini nelle due camere. Ma si arriverà al Congresso? E con quale testo di legge?
Per rispondere alla contestazione di una riforma che avrebbe introdotto nella Costituzione una differenza tra cittadini, riservando la privazione della nazionalità ai soli bi-nazionali (con due passaporti), Valls ha ora proposto un testo senza riferimenti alla bi-nazionalità, ma che non limita più la pena ai soli condannati per terrorismo ma la estende anche ai reati contro la nazione con condanne fino a 10 anni di carcere. Un vero pasticcio, intanto perché sarebbe comunque riservato ai bi-nazionali (Valls ha promesso che la Francia ratificherà le norme internazionali che proibiscono di creare apolidi). Ma in più con il rischio di aprire la possibilità di privare della nazionalità per diversi motivi, quando ci sarà un’altra maggioranza (per esempio per ragioni politiche).
Il testo è confuso e non ancora definito, mentre Hollande non è più certo di avere la maggioranza. C’è una fronda consistente a sinistra, dove un centinaio di parlamentari potrebbero votare contro o astenersi. Circolano petizioni e prese di posizione, firmate da vare personalità (dall’economista Piketty a Cohn-Bendit e Jacques Attali) per chiedere al governo di rinunciare. Anche l’obiettivo di unità nazionale sembra fallito. A destra crescono i dubbi. Per ragioni di fondo, in qualche caso, ma anche per opportunismo (non dare una vittoria a Hollande). Tra i candidati alle primarie per l’Eliseo, Alain Juppé è contro, e anche François Fillon ha dei dubbi, mentre Sarkozy è d’accordo, visto che era una sua idea. Florian Philippot del Fronte nazionale afferma: “deciderà Marine Le Pen” su come voteranno i due deputati e i due senatori di estrema destra, “ma se il principio di privazione della nazionalità sarà ben presente nel testo allora potremmo votarlo, visto che sarà una vittoria ideologica del campo dei patrioti, che noi incarniamo”.
L'adunata di coloro che pensano che la loro verità, essendo l'unica legittima, debba conformare la vita di tutti gli altri. Chiamalo, se vuoi, fanatismo. Articoli di N. Rangeri, Kocci e A Santagata.
Il manifesto, 31 gennaio 2031
di Norma Rangeri
L’altra faccia delle cento piazze arcobaleno di una settimana fa, piene di «si» e di speranza per i diritti delle nuove famiglie. Perché i nuovi/vecchi crociati che hanno riempito il Circo Massimo di Roma rappresentano il «no» alla libertà degli altri. E in nome di una — presunta — «verità che non ci lascia mai!» come ha gridato dal palco uno degli organizzatori del raduno. Del resto le bandiere dell’Aquila nera con un cuore rosso crociato di «Alleanza cattolica», o il grande striscione «Padre, madre, figlio, popolo, nazione» sono il simbolo di un’area culturale integralista, dei «principi non negoziabili», pronta allo scontro frontale contro le legge sulle unioni civili. E contro i diritti altrui.
Nel family day organizzato dalle associazioni più conservatrici si è ritrovata l’Italia che appartiene al passato, mobilitata dalle diocesi, dai vescovi, dal centrodestra di Giovanardi e di Alfano, venuta nella Capitale per ascoltare la nutrita carrellata di oratori prodighi di parole funeree («i figli della provetta non sapranno su quale tomba piangere i loro genitori»), di scenari apocalittici («non vogliamo la strage degli innocenti»), vestiti da scudieri in difesa della famiglia «naturale», come se fossero gli unici guardiani del bene dei bambini. Perché, come scrive anche Stefano Rodotà nel suo ultimo libro, questa piazza negava a tante donne e uomini il diritto di amare liberamente.
Nonostante i colori, i palloncini, le canzoncine, il Circo Massimo ha trasmesso al Paese un messaggio cupo, perché con lo sguardo rivolto al mondo di ieri, chiuso e timoroso del confronto, come dettava il vademecum distribuito ai presenti che consigliava di non parlare con i giornalisti (succedeva così anche nei movimenti di sinistra, ma non a caso oltre quaranta anni fa).
Perché a parlare doveva essere solo il palco di Massimo Gandolfini, il medico bresciano, presidente del Comitato organizzatore «Difendiamo i nostri figli».
Abbiamo sentito più volte ripetere «questa piazza non è contro nessuno». Ma era pura retorica. Perché erano più significativi il video con i neonati strappati alle madri e le frasi come «le femministe dovrebbero vomitare per l’utero in affitto». E poi bastava ascoltare il tenore che apriva il comizio con «Mamma» di Beniamino Gigli, per fare quel salto agli anni Cinquanta del secolo scorso, un tempo lontano nel quale i cattolici del «no» vorrebbero riportare l’Italia, bloccando la legge — la moderata legge — sulle unioni civili.
Perché lo scontro che, purtroppo, ancora distingue il nostro dagli altri più avanzati paesi europei è sempre lo stesso: tra chi pensa che un credo religioso obblighi tutti a sottomettersi ai suoi precetti, e chi invece vuole un laica difesa dei diritti di tutti, senza discriminare le minoranze, per una libertà che conosce un solo confine: la libertà dell’altro. Perché chi divorzia non obbliga nessuno a divorziare, chi sceglie l’aborto non tocca la scelta di maternità, chi ricorre alla fecondazione assistita non ostacola la coppia fertile, chi vuole creare una famiglia gay non si impone né, soprattutto, vuole distruggere la famiglia eterosessuale.
La bandiera dei diritti civili non è mai stata innalzata dalla destra e non a caso i sondaggi, per quello che valgono, dicono che l’adesione al Family day è crescente mano mano che ci si sposta a destra nello schieramento politico. E alle forze conservatrici e reazionarie apparteneva la maggioranza dei politici presenti al Circo Massimo, nutrita pattuglia che domani rientrerà in Parlamento per tentare di affossare la legge, avendo già ottenuto di rinviare il voto a martedì prossimo, proprio con l’obiettivo di far pesare la piazza e di dare un avvertimento al presidente del consiglio («Renzi ci ricorderemo»).
Ma se il Family day del 2007 (quello con Renzi) giubilò i Dico, oggi i nuovi/vecchi crociati hanno uno schieramento parlamentare più difficile da condizionare ed egemonizzare. Anche perché in piazza c’era un grande assente: papa Francesco. L’unico papa nominato, Giovanni Paolo II, potrà aiutarli solo dall’aldilà.
LA CHIESA DEI SENZA BERGOGLIO
Gli osservatori attenti alle trasformazioni delle società occidentali hanno individuato due tendenze fondamentali che possono aiutarci a comprendere la giornata del Family Day. Da una parte, il ritorno delle religioni nella sfera pubblica come sfida alla globalizzazione spersonalizzante (nella versione avanzata da Habermas, come interrogativo posto dal multiculturalismo alla laicità effettiva delle nostre democrazie), dall’altra parte, il riemergere della religione come fattore di chiusura identitaria, uno strumento forte di una lunga tradizione di politicizzazione della fede.
Si tratta di due tendenze carsiche, talvolta convergenti nel discorso dei politici e degli attori religiosi, ma che si scontrano oggi con la realtà di società che vivono un processo di secolarizzazione crescente.
L’ultimo rapporto di Eurispes fotografa un Paese in cui la pratica religiosa è attestata al 25%, la tutela giuridica delle coppie di fatto è auspicata dal 67,6% della popolazione e il matrimonio tra omosessuali è accettato dal 47,8%. Questi dati non erano poi molto diversi dieci anni fa, al tempo del primo Family Day del 2007, lo erano invece il contesto politico (l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi) e quello ecclesiale, caratterizzato dalla linea politica «presenzialista» del card. Ruini, a sua volta forte del sostegno del «papa polacco» e poi del suo successore tedesco.
Si spiega quindi alla luce di questi cambiamenti la decisione dei vescovi di fornire un chiaro appoggio alla manifestazione del Circo Massimo senza però impegnare direttamente la Chiesa, come nei desideri di papa Francesco e di una parte dello stesso episcopato.
Per quanto riguarda i movimenti in difesa della «famiglia tradizionale», le parole d’ordine del Family Day non sono state meno intransigenti di quelle del passato, ma è nitida la percezione di essere di fronte a una galassia che si sente sempre più minoranza, un segmento della società che ha perso la sponda del governo e perfino la sintonia con il pontefice romano.
Ne è venuta fuori una manifestazione tanto pacifica e festosa nelle forme, quanto dura nei contenuti di fondo in un mélange di integrismo vecchia maniera (contro l’edonismo) e di psichiatrizzazione della società, accusata di aver perduto il senso del limite. Medicina e religione, del resto, sono andate a lungo a braccetto nella storia delle retoriche contro le «devianze» sociali e sessuali.
Senza entrare nel merito delle contraddizioni, è interessante osservare anche la permanenza dello schema della catena dei mali, secondo il quale l’introduzione dei nuovi diritti, come la stepchild adoption, porterà inevitabilmente alla pratica dell’utero in affitto e quindi allo sfruttamento delle donne più povere da parte di una presunta élite omosessuale. Dal Family Day arriva dunque un segnale forte e preoccupante che deve essere letto nel contesto del nostro tempo e non solo di quello italiano: nell’orizzonte del mondo cattolico in trasformazione, ma più in generale nella sfera delle forme assunte dal ritorno del religioso nella sfera pubblica.
Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia in occasione dell’approvazione del mariage pour tous, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti, spesso “dal basso”, che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire e che sono espressione di un’istanza che trova consensi in maniera interclassista e di cui beneficiano quelle forze politiche, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che si fanno promotrici di un certo linguaggio antimoderno, identitario e intransigente.
Si tratta di tendenze profonde, alle quali occorre rispondere sul piano discorsivo senza sottovalutare i rischi di questa politica della paura, tendenze che ci devono portare a interrogarci sul modo in cui adeguare la laicità alle nuove frontiere del diritto senza perdere la sfida culturale che deve accompagnare il cambiamento.
l Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2016
STATUE NASCOSTE, SI NASCONDE ANCHE IL GOVERNO RENZI
Inchino a RouhaniNessuno si prende la colpaFranceschini: “Né ioné il premier sapevamo”.Tronca chiede contoalla Sovrintendenza di Roma
Che cosa è successonel corridoio deiMusei Capitolini inCampidoglio al passaggiodel presidente iranianoHassan Rohani? Chi hadeciso di nascondere le opered’arte, quelle statue patrimoniodella cultura italiana edell’umanità, dietro degliimbarazzanti involucri? Chiha occultato non solo le statuema anche alcune porcellanee dipinti del Cinquecento?Il ministro dei Beni culturaliDario Franceschini affermadi non aver preso partealla decisione e che, allo stessomodo, neppure il premiersapesse.
1. Di chi è la responsabilitàper quanto accaduto ai MuseiCapitolini? Forse di RomaCapitale?
«Sulla vicenda delle statuedei Musei Capitolini - chiariscela Sovrintendenza aiBeni culturali di Roma Capitale- coperte in occasionedella visita del presidente iranianoRohani dovete chiederea Palazzo Chigi. La misuranon è stata decisa da noi,è stata un’organizzazione diPalazzo Chigi non nostra».Comunque sia il commissariostraordinario FrancescoPaolo Tronca ha chiesto alsovrintendente Claudio ParisiPresicce una relazionescritta su quanto accaduto.L’evento è stato ospitato inCampidoglio ma organizzatoda Palazzo Chigi, resta daaccertare chi fosse a conoscenzadi questa decisione echi no.
2. Quali spiegazioni ha fornitoil governo fin qui?
Il primo a prendere posizione,ieri mattina, a scacciare lecritiche e a iniziare lo scaricabarile è il ministro dei Beniculturali Dario Franceschini:«Non era informato né ilpresidente del Consiglio né ilsottoscritto di quella sceltadi coprire le statue».
3. Che cosa ha detto Renzi ariguardo?Nulla.
Il premier MatteoRenzi, dal canto suo, sollecitatodai giornalisti nel pomeriggiodopo il discorso in Senatorisponde così: «Oggiparlo di banche», e poi ancora:«Bersani? Verdini? Poi tisbagli e dici che copri loro...».
4. È davvero possibile chenessuno avesse informatoRenzi o qualcuno a lui vicino?
Solo nel pomeriggio di ieri,intorno alle 15, Palazzo Chigidetta queste note alle agenzie:«Il segretario generale diPalazzo Chigi Paolo Aquilantiha avviato una indagineinterna per poter accertare leresponsabilità e fornire, conla massima sollecitudine,tutti i chiarimenti necessarirelativi alla organizzazionepresso i Musei Capitolinidella visita in Italia del Presidenteiraniano Rohani. Losi apprende da fonti di PalazzoChigi».
5. Dove potrà arrivare l’indagineinterna di PalazzoChigi?
L’ufficio a forte rischio èquello del Cerimoniale. Lastruttura è guidata dal 2013da Ilva Sapora, finito più voltenel mirino, l’ultima pochesettimana fa per il caso deidoni alla delegazione italiananel viaggio in Arabia Saudita.L’indagine di Aquilantidovrà proprio “accertare leresponsabilità”. Sino ad allora,le ipotesi non mancano.
6. Chi era presente durantei sopralluoghi?
Nei giorni antecedenti allavisita di Rouhani, come daprotocollo, sono stati diversii sopralluoghi del cerimonialee della sicurezza di palazzoChigi in Campidoglio inteam con i rappresentanti delgoverno iraniano.
7. Quindi la decisione è statapresa su richiesta delladelegazione iraniana?
No, almeno a quanto dichiaratodallo stesso Rohani ieri:«È una questione giornalistica.Non ci sono stati contattia questo proposito. Posso diresolo che gli italiani sonomolto ospitali, cercano di faredi tutto per mettere a proprioagio gli ospiti, e li ringrazioper questo». Palazzo Chigisostiene che la decisione dicoprire le statue sarebbe statapresa senza un via libera alivello politico. Altra ipotesi,di cui molto si è parlato traieri e oggi è quella di un “eccessodi zelo”di qualche funzionariointerno che avrebbepreso una decisione di sua iniziativa.Ma, ancora per usarele parole di Franceschini,«ci sarebbero stati facilmentealtri modi per non andarecontro alla sensibilità diun ospite straniero così importante».
8. Qualcuno pagherà?
In attesa degli esito dell’indagine,non mancava chi ingiornata in Parlamento parlavadi avvicendamenti e unariorganizzazione nell’ufficiodel Cerimoniale del governo.
BENI TURALI
2) Riesumare i vecchi cari mutandoni usati nella Controriforma da Santa Romana Chiesa per celare gli organi genitali istoriati nella Cappella (sempre con rispetto parlando) Sistina e nei Musei Vaticani. Ma oggi insorgerebbe anche Sua Santità, che non pare turbato da quei nudi d’arte, per giunta opera di noti gay tipo Michelangelo, Leonardo e forse Caravaggio. 3) Mascherare peni e tette marmoree appendendovi un certo numero di Rolex d’oro made in Ryad. Ma i preziosi orologi erano tutti al polso della delegazione italiana e pareva brutto chiederli indietro. Così si è optato per un’idea altamente innovativa e anche esteticamente gradevole, a riprova del fatto che la nuova Italia renziana “cambia verso” anche nella censura: costruire una decina di scatoloni a parallelepipedo di compensato, dipingerli di bianco e usarli come scafandro per le statue più impudiche.
“AVREBBERO FATTO MEGLIO A RICEVERLO TRA FERRARI E PIATTI DI SPAGHETTI”
intervista di Emiliano Liuzzi a Philippe Daverio
«Èil simbolo del pressappochismoall'italiana. Probabilmentenella fretta della rottamazionerenziana hannomandato via anche quelli cheun minimo conoscono le regole:hanno sostituito il maggiordomocon un maniscalco». Aparlare Philippe Daverio, storicodell’arte, docente universitario,cavaliere dell’ordinedella Legion d’onore in Franciae medaglia d’oro ai benemeriti dellaCultura e dell’arte in Italia. Ovviamentesi riferisce alla visita di Rouhani aRoma e alle statue oscurate.
Come può essere venuta in mente unacosa del genere?
Non ho idea. mancano davverole basi della corretta diplomaziae ospitalità. Hanno fattouna sciocchezza, ma ripeto,sono la metafora di quest’Italia.Non dovevano ricevereRouhani in un museo. Dovevanoospitarlo in un garage inmezzo alle Ferrari e con unpiatto spaghetti. Quello avrebbeapprezzato moltissimo,si sarebbe fatto riprenderedalle sue tv sorridente e nonci sarebbe stata nessuna polemica.Le basi, mancano anche quelle.Con un ulteriore avvertimento per laprossima visita.
Quale avvertimento?
Il vino. No, il vino non si può. Dell'ottimaacqua minerale, ma quelli chehanno sostituito il maggiordomo sappianoche a tavola con Rouhani nondeve esserci il vino.
Siamo irrimediabilmente cafoni?
Lo siamo più di prima. Gheddafi,nell’ultima visita, lo misero in una tenda.Viveva in una tenda, gli allestironouna tenda, non un museo.
Eppure siamo il Paese della “GrandeExpo”...
Lasciamo perdere, hanno fatto anchepeggio: i visitatori, quelli di altre religionie culture, accolti all’aeroportodalle statue coi salami appesi ai genitali.Manco sono usciti per arrivare incentro, hanno preso il primo aereo esono rientrati a casa. Se proprio vogliamo,a Roma, hanno fatto quasi unpasso avanti.
«Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio "disarmato copre le guerre» cui l'Italia partecipa, direttamente oppure con i carichi di armamenti che partono dalle sue operose fabbriche di morte».
Ilmanifesto, 28 gennaio 2016
E contro cittadini inermi che prendevano un treno o tornavano da un viaggio. Pancia a terra, mani in alto, perquisizioni, armi da guerra sfoderate dai militari. Subito in campo per l’avvistamento in un monitor di un uomo armato di fucile e per una voce su «spari». Senonché alla fine l’arma si è rivelata finta. Resta vero il terrore vissuto da chi si è trovato le armi spianate davanti.
E restano altrettanti interrogativi. Se l’arma fosse stata vera e poteva tranquillamente esserlo, a che serve quel dispositivo di guerra in atto con sentinelle armate fino ai denti e ovunque che ci troviamo davanti ogni giorno? Siamo sicuri che alpini e marò con armi automatiche in mano nei metrò e nelle stazioni ferroviarie siano davvero un presidio preventivo o non piuttosto una occasione in più di pericolo? Visto il semplice fatto che ogni volta che passiamo loro davanti siamo frapposti, cioè stiamo in mezzo, al bersaglio di una vera o presunta sparatoria contro veri o presunti terroristi: vale a dire che siamo da subito morti predestinati. Dobbiamo abituarci allo stato di guerra, a quell’emergenza che vede i profughi come nemici e che ormai non convince più nemmeno la ministra della giustizia francese Christiane Taubira che per questo ha deciso di lasciare la compagine governativa di Hollande.
Ora, naturalmente, bisogna trovare il colpevole per quei minuti di scene di guerra nel cuore di Roma. È il «terrorista ciociaro», dato «in fuga» ad Anagni che, inconsapevole, rischia ora di essere accusato di procurato allarme. Eppure la sua unica colpa è quella di avere perseverato nella pessima abitudine di regalare armi giocattolo al «figlio maschio» (articoli del resto in vendita in tutti i negozi d’Italia).
Tant’è. La brutta bestia della psicosi collettiva accredita attentati, pericoli e paura ad ogni angolo. Grazie anche ai media mainstream che, dimenticando il ruolo delle nostre guerre in Iraq, Libia e Siria che hanno prodotto il terrorismo che oggi ci torna in casa, alimentano ogni giorno questo clima scaldando i motori delle nuove guerre che si annunciano in calendario, a partire dal re-intervento in Libia. Una crisi ossessiva, tardo-coloniale, per la quale l’Italia ha auspicato un governo «unitario» solo per fare la guerra, per augurarsi poi che non ci sia per farla subito alle dipendenze degli Usa che, anche loro, già ri-scaldano i motori cancellando i disastri che lì hanno provocato.
Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio «disarmante» sui dati internazionali del Sipri che dicono che l’Italia spende 80 milioni di euro al giorno per le spese militari vere; o per le vagonate di armi altrettanto reali che ogni giorno inviamo dai nostri aeroporti – come in questi giorni da Cagliari – all’alleata Arabia saudita che ha inventato lo Stato islamico.
Che il falso sia una forma che interpreta e svela il vero?
Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2016 (m.p.r.)
Nel 1966 una prestigiosa casaeditrice italiana pubblicò unlibro di racconti fantastici,alcuni dei quali veramentespassosi, intitolato Storie naturali.Autore ne era DamianoMalabaila, del tutto sconosciutoalle patrie lettere.Leggendolo, non furono pochii lettori che ebbero delleperplessità: troppo esperta esorvegliata la scrittura, assolutamenteperfetto il dosaggiotra gli elementi costitutividi ogni racconto per essereopera di un autore esordiente.E poi: come aveva fatto unautore alle prime armi a esserepubblicato da una casaeditrice nota per la severitàdelle sue scelte? Dopo pocotempo, si ebbe la risposta.Damiano Malabaila non esisteva,era uno pseudonimodietro il quale si nascondeva,con somma sorpresa di melettore, niente di meno chePrimo Levi, l’autore dell’immortaleSe questo è un uomo.
Mi sono più volte chiesto sequesta sorpresa non fossecondivisa dallo stesso Levi,quando aveva scopertoin sé una venacosì divertentecome quellache segnagran partedelle Storienaturali,motivo peril quale forseaveva decisodi firmarlecomeMalabaila. Aogni modo,la sezioneProsa radiofonicadellaRai, per laquale io lavoravocome regista,decise di fareadattare a radiodrammauno diquesti racconti, Ilversificatore, e di farlo realizzarenegli studi di Torino.Ma quando, un mese dopo,i responsabili della Prosa ascoltaronoil radiodrammaprima di mandarlo in onda rimaseroallibiti, perché laqualità dell’interpretazionee della regia era di così scarsolivello che la trasmissione avrebbepotuto addiritturaconfigurarsi come una sortadi offesa all’autore Levi. Deciseroipso facto di farne unaseconda edizione completamentediversa affidandone ame la regia. Avevamo pocotempo perché l’opera era giàstata annunciata in cartellone.
Partii subito per Torino ela prima cosa che feci fu dichiedere per telefono un appuntamentoa Primo Levi,che non conoscevo. Quandolui seppe il motivo della miarichiesta si mostrò perplesso.«Ma Il versificatore non eragià stato «Sì, mavede, siccome non è venutotanto bene, allora…» . Tagliòcorto: «Posso invitarla domania pranzo al Cambio?» michiese. Il Cambio era il piùnoto e storico ristorante diTorino. «Volentieri!» risposi.Il versificatore era la storia diuna macchina capace di fareversi a comando e secondo alcuneprecise indicazioni, senonchéquesta macchina nelracconto di Levi spesso e volentierisi prendeva delle, diciamocosì, licenze poetiche,che finivano per generareequivoci e confusione.La mia idea era quelladi far parlare la macchinanon con la vocemeccanica e priva diqualsiasi intonazioneche sembra esserepropria dei robotparlanti, ma di farlerecitare i versi conun’intonazione enfaticapropria delcattivo poeta che legge unasua opera. Fermo restandoche avrei in qualche modotrattato la voce dell’attore,per suggerire che si trattavadi una macchina e non di unessere umano, col soccorsodell’Istituto di fonologia diMilano.
Mi presentai al Cambio conun certo batticuore: conosceredi persona Levi e parlarecon lui mi metteva in agitazione.Ma la dolcezza dei suoimodi, la cortesia, l’interesse,l’attenzione che da subitoprestò alle mie parole mi miseroperfettamente a mio agio.Scoprimmo, ma non ce lodicemmo, di esserci reciprocamentesimpatici, perciòquel pranzo in qualche modovenne da Levi prolungato:dopo aver preso il caffè midisse che aveva ancora tempoa disposizione e che avrebbeancora voluto parlare con medella mia Sicilia. Poi uscimmodal ristorante. Proprio attaccataal Cambio si ergeva lamaestosa facciata del TeatroCarignano: «Ha mai lavoratonel nostro teatro?» mi chieseLevi. «Non ne ho mai avutol’opportunità». «Ma non l’hamai visto neanche da spettatore?».«Neanche».Notò che l’ingresso principaledel teatro era spalancato.Mi guardò e mi disse:«Vuole visitarlo? Sono amicodel «Volentieri»risposi.
Entrammo. Un signoremolto elegante stavaparlando con una donna; alvedere Levi gli andò incontrocon la mano tesa, si salutaronocon calore. Levi gli spiegòil motivo della nostra presenza.Il direttore si mise a disposizione,fece accendere tuttele luci di sala: effettivamentesi trattava di un piccologioiello che dava un’idea digrandiosità. Chiesi di salirein palcoscenico, lui mi accompagnò,mi guidò a vederela cabina delle luci, mi mostrò,sia pure a distanza, l’organizzazione della soffitta ein quel momento venne chiamatoda un inserviente perchéera arrivata una telefonatadall’estero che il direttoreattendeva. Questi allora ci salutò,ci disse che potevamo,terminata la visita, usciredalla porta posteriore, la cosiddettaentrata degli artisti,e ci lasciò soli.
Rimasi ancora cinque minutia guardare quello splendoree poi dissi a Levi che potevamoandarcene. Nel retropalcoindividuammo laporta che conduceva all’uscita: si apriva su un corridoioche terminava proprio conl’entrata degli artisti. Vidiche vicino all’ingresso c’eralo sgabuzzino del portiere, ilquale se ne stava intento aleggere un giornale. Al sentirciavvicinare, il portiere alzògli occhi, il suo sguardo siilluminò, si alzò, aprì la portadel gabbiotto a vetri e mi corseincontro, la mano protesaaddirittura gridando: «DottorCamilleri! Che bella sorpresa!È venuto qui da noi perun’altra regia?». Mentre laterra letteralmente si aprivasotto ai miei piedi e io vi sprofondavodentro madido disudore, bofonchiai qualcosaal portiere e mi precipitaiverso l’uscita seguito da Levi.
In strada cademmo in unsilenzio imbarazzante. Io,che ero sconvolto, riuscii inqualche modo a controllarmi,e dissi a Levi: «Le devo unaspiegazione». «Non mi devenulla – fece lui gentilissimo-, ma se vuole parlarmene…».Allora gli raccontai comesolo sei anni prima io avessimesso in scena, proprioal Teatro Carignano, un’edizione speciale dell’atto unicodi Giovanni Verga Cavalleriarusticana, ma vuoi per l’infelice scelta degli attori, vuoiper un malaccorto errore diinterpretazione mia, quellospettacolo mi era parso ilpeggiore di tutti quelli da mefino a quel momento realizzatie l’avevo cancellato totalmentedalla mia memoria, sinoa scordarmi di aver lavoratoin quel teatro. «Ho fattouna vera e propria rimozione»dissi. Levi, che mi avevaascoltato in silenzio, guardandoun po’ imbarazzato lapunta delle sue scarpe, sollevòla testa e mi fissò dritto negliocchi. «Sapesse quante neho dovute fare io…» sussurrò.E riprendemmo a camminareancora in silenzio.