Il Sindaco di Dunquerque, in Normandia, non proprio scherzando, ha chiesto che la necropoli di Tuvixeddu gli sia data in affidamento. Il Sindaco di Barumini considera un tesoro il villaggio nuragico benché pieno di pietre e “cocci”. Perfino gli Amministratori di Olbia la Sviluppista si sono commossi quando sono stati trovati i relitti di navi romane e medievali. Ovunque, quando una comunità ritrova una traccia del proprio passato si sente più sicura sulle gambe.
Ma a Cagliari le cose vanno diversamente. Qua si cammina su gambe di cemento e piedi di mattoni, e si dichiara guerra ai “cocci”. Qua il passato è un ingombro e ci impedisce di essere “moderni”. Qua il Sindaco sbuffa perché, dice, si esagera con la tutela e c’è un Direttore delle Sovrintendenze, indicato come il “Garzillo di turno”, il quale disturba i lavori in corso che inciampano continuamente in “cocci”, altrove chiamati reperti. Ci si ferma perfino se si trova il relitto di una nave romana. Ma a cosa serve una nave romana? Non galleggia più. Una seccatura. Andata a picco proprio davanti al molo crociere dove migliaia di turisti, accolti da indigeni festosi, devono sbarcare, mordere la città per un giorno e fuggire lasciandoci i loro giudizi, annotati dai cronisti come responsi divini.
In questa città la tutela è soffocante. La villa di Tigellio è piena di “cocci” e spezza il profilo dei palazzoni intorno. I punici, ostili al Comune di Cagliari, hanno eretto templi in zone B, edificabili, i romani, nemici del PUC, hanno costruito terme dove dovevano sorgere due banche e pedanti bizantini hanno fatto mosaici dove era prevista una città mercato.
E’ urgente cancellare le tracce del passato. Che non pensino che siamo arretrati.
I sepolcri abusivi di Tuvixeddu sono un ostacolo al furore edificatorio. Dice il Sindaco che vuole fare “rivivere” la necropoli e chissà come “rivive” un cimitero. Hanno preso atto che la necropoli c’è, ne hanno tracciato liberamente i confini e deciso che qualche centimetro oltre quei confini si può costruire. E’ perfino accaduto che quattrocento sepolture siano finite sotto i palazzoni del viale senz’alberi di Sant’Avendrace. Insomma, qui non è sacra la necropoli, sono sacri i progetti e il mondo è capovolto.
Si è padroni di considerare “coccio” un’anfora sbrecciata, una sepoltura punica come un buco nel calcare o il tramonto come una lampadina che si spegne. Ma nessuno ha il diritto di eliminare un paesaggio millenario per sostituirlo con una brutta sbobba urbana.
E il “Garzillo di turno” di cui parla il Sindaco, disgraziatamente non è “di turno”. E’ l’eccezione nelle Sovrintendenze dell’Isola. Ci fosse un “ turno degli Elio Garzillo” oggi non avremmo un patrimonio archeologico e un paesaggio così maltrattati. Con il “turno dei Garzillo” avremmo conservato i nostri beni anziché ricoprirli di cemento e asfalto. Noi abbiamo patito sino a poco tempo fa un’attività di tutela che ha teorizzato e praticato una rovinosa “mediazione”. Con il visibile risultato che la tutela è stata schiacciata, la città resa mediocre e i luoghi consumati dalla frenesia edilizia. Abbiamo prodotto bruttezza e offeso l’armonia del nostro bel sito naturale perché non è vero, purtroppo, che un “Garzillo di turno” si trova sempre.
Ora il Ministero vuole in pensione anticipata i funzionari migliori e magari gli “Elio Garzillo” usciranno dai “turni”. Resterebbero le conseguenze salutari delle loro azioni ma noi forse torneremmo a una distruttiva “mediazione”. La città sarebbe ripulita dai “cocci”, lo “sviluppo” liberato da anticaglie, ruderi e sepolcri. Finalmente moderni.
L'articolo è stato pubblicato anche ne la Nuova Sardegna oggi, 25 gennaio 2010, col titolo "Archeologia? Solo cocci che ostacolano il progresso"
Il costruttore Gualtiero Cualbu al quale i giudici del Consiglio di Stato vietano oggi di edificare a Tuvixeddu, paragonò con squisitezza gli ambientalisti a “un cancro per la città”. Ma noi, che siamo ambientalisti e anche di più, consideriamo un cancro la smania edificatoria che divora Cagliari e riteniamo i palazzi a Tuvixeddu una grave complicanza. L’impresa Cualbu aveva previsto villette e strade nel colle che è la nostra storia, anche quella sentimentale che ci lega a quei luoghi, rocce bianche, falchi, orchidee, un mondo naturale perfetto e una necropoli stupefacente. Il Comune, un’eccezione planetaria, indifferente al valore di quel sito e, si vede, poco sentimentale, è schierato da vent’anni con l’impresa, disposto a difendere i mattoni sino all’estremo grado di giudizio.
La Sovrintendenza, la cui funzione “naturale” di tutela è stata deformata in un’opera di mediazione totale, funzionari che non ammettono l’evidenza dei nuovi ritrovamenti. Più di mille tombe scavate e negate nell’area che i giudici hanno definito unitaria. Per il sovrintendente negazionista Santoni una richiesta di rinvio a giudizio. Per la relazione dell’attuale sovrintendente Minoja basterà forse il pubblico giudizio.
Oggi, dopo la sentenza del Consiglio di Stato, si deve finalmente considerare tutto il colle un’unità paesaggistica e si può ambire ad abbattere la brutta palazzata già costruita in via Is Maglias. Il valore dei luoghi vince sugli affari e sulla rendita. Crolla la città dei costruttori e si sfalda l’accordo di programma che non è una tavola della legge. Salta per aria l’idea che la comunità sia in debito con l’impresa e vince il principio che, casomai, è l’impresa in debito con la comunità. Insomma, il Bene Comune, opposto al vantaggio di pochi, questa volta non fa capitombolo.
E i danni di immagine minacciati dall’impresa? Be’, un danno di immagine, in effetti, c’è. Ma lo abbiamo patito noi e la città. Cagliari, a causa delle scelte del Comune, di alcuni Sovrintendenti e della stessa impresa, è apparsa nelle pagine di grandi quotidiani italiani ed europei come una città che arriva a ripudiarsi da sé in cambio di palazzine. La città esce ridicolizzata dalla vicenda, altro che capitale, altro che metropoli civilizzata.
Animosa la giunta Soru, coraggiosi tutti coloro che, privi di un interesse personale, hanno speso energie per difendere il colle sacro. L’ex direttore regionale Elio Garzillo, l’ex sovrintendente Fausto Martino, le associazioni ambientaliste - per esempio Italia Nostra che ricorre al Consiglio di Stato - disposte perfino a sentirsi paragonate a un cancro. Greve il tentativo di trasformare i sostenitori del colle in un’associazione a delinquere. Il piemme ha archiviato le accuse a Soru, ai suoi assessori e consulenti. E ha chiesto, dopo inquietanti intercettazioni telefoniche, sette rinvii a giudizio, tra i quali l’ex sovrintendente Vincenzo Santoni.
Il Tar Sardegna, a favore delle costruzioni, contraddetto dalla luminosa sentenza del Consiglio di Stato che prescrive per il colle un regime di tutela “volta alla salvaguardia della relazione di insieme che si è prodotta nella storia tra le diverse testimonianze della civiltà umana e il più ampio ambito del contesto naturale”.
Infine questa è anche la sconfitta della rovinosa mediazione sproporzionata tra un bene fragile (la necropoli) e il potere della rendita. E’ accaduto che due posizioni contrarie e nette si siano battute in tribunale e che il tribunale abbia deciso di proteggere il bene immenso del colle. Dalla mediazione di quelli del “costruiamo un po’ meno e non esageriamo con la tutela” sarebbe nato un mostro.
Oggi possiamo fare della necropoli un luogo di meraviglia. Basta pochissimo, purché vinca l’idea che il progetto perfetto, l’unico possibile a Tuvixeddu, è quello che non si vede perché là, da vedere, devono esserci esclusivamente il colle e i suoi tesori.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
In un clima teso - c’era perfino la polizia - è stato presentato il progetto che prevede una pioggia di ville, residences e club house a Malfatano. Tutti intorno a un plastico montato nell’Aula del Consiglio provinciale, come davanti a un presepe edilizio. Nella mangiatoia, appunto, il progetto Malfatano. Una presentazione postuma, per bocche buone, visto che a Tuerredda sono già molto avanti con i metri cubi. Ma quella è solo una piccola parte e tutti i crinali più belli aspettano il cemento come il condannato aspetta il boia.
Moderatore dell’incontro un giornalista, mai stato a Malfatano, che si è definito “parte terza” benché scriva per il Sole 24ore, giornale di Confindustria. Però il gruppo Marcegaglia avrà in gestione il resort di Malfatano e così la terzietà ha fatto capitombolo.
L’incontro potrebbe essere riassunto da un’espressione fulminante del Presidente della società costruttrice, la Sitas, che, magnificando il progetto, ha parlato di “sviluppo del paesaggio”. E noi ci siamo atterriti. Sì, perché questo povero paesaggio, anziché essere lasciato in pace e rispettato, viene “progettato, ridisegnato, recuperato, riqualificato” e infine “valorizzato” con il solito arricchimento di pochi. Così lo “sviluppano”. E a Teulada restano più poveri di prima perché perdono il loro unico tesoro. Poveri, ma “valorizzati”. Una tragedia.
Però, come sempre, i problemi, quelli più profondi, non derivano dall’impresa. Il brutto clima dell’incontro proveniva dalle viscere delle nostre comunità.
Il sindaco di Teulada, ambientalista abusivo, presente all’incontro, non si muove da solo. Lo scorta una falange di lavoratori del cantiere. Lui li usa a sostegno dei suoi argomenti, evita di dire loro che in sessant’anni nessuno ha mai pensato per i teuladini un modo di vivere che garantisse dignità e un lavoro durevole. Li ha convinti che l’unica possibilità di stare al mondo consiste nell’impastare calce e mettere un mattone sull’altro. Ha dimenticato la ricchezza che deriverebbe dal risparmio e dall’uso saggio del territorio che li ha tenuti in vita per secoli. Utilizza le difficoltà di quelle cento persone per muoverle contro chi gli propone un altro uso della terra e una vita diversa. Il Sindaco trasforma le preoccupazioni di cento lavoratori in rabbia contro gli altri. Divide e allontana l’intera comunità teuladina dalle altre comunità.
Eppure il dubbio che quel progetto sia una disgrazia inizia a serpeggiare tra i teuladini e perfino tra quei cento lavoratori. Serpeggia addirittura tra gli architetti del paesaggio, compreso quello che, sorprendendo tutti, ci ha rivelato come nella nostra campagna si trovino cisti, lentischi, fichi d’india e corbezzoli. C’è sempre da imparare, perfino dagli architetti.
Nessuna titubanza, invece, nel mondo della scienza. Un botanico della nostra Università ha spiegato, preciso come un laser, che la flora di Malfatano è in sofferenza. Sarà, a noi sembra una macchia in buona salute e l’ultimo incendio è di vent’anni fa. Ma la scienza progredisce ogni giorno e il botanico, che nulla obietta al progetto, forse immagina che 150.000 metri cubi fertilizzeranno su murdegu. Sitas farà investimenti su erbe officinali e corbezzoli. Forse è lì per questo e per ingannare il tempo costruisce case.
A garanzia della bontà natalizia del progetto si useranno, oltre che sindaci e botanici sardi biodegradabili, pietre sarde che vengono da Orosei, estranee a Malfatano, ghiaia sarda nei sentieri, cibi sardi (ma solo per gli ospiti del resort ché a Teulada non coltivano per tutti). E’ previsto esclusivamente l’uso di sardi ecocompatibili, camerieri, giardinieri e cuochi. Lo chiamano indotto e cosa induca lo si vede ogni giorno.
Unica consolazione dopo l’incontro, un architetto che non ce la faceva più e si è augurato che gli alberi crescano in fretta e coprano le costruzioni. Finalmente un architetto che considera un progetto invisibile come il migliore dei progetti. Il motto è “costruire e poi occultare”. Evidentemente ha compreso di avere qualcosa da nascondere: il progetto Malfatano.
L'articolo di Giorgio Todde uscirà anche su La Nuova Sardegna
Malfatano e la collina di Tuerredda, comune di Teulada, trasformati in cantiere edile. Un progetto invasivo che arriva dritto dai terribili anni sessanta con un tocco di stile Dallas-dinasty. La solita balla da capitan Fracassa che 150.000 metri cubi porteranno “lavoro” per incanto. Rivive l’antica pars dominicana, quella del padrone, a scapito della comunità di massai. I teuladini condannati a divenire un’indifferenziata manovalanza – un cameriere ogni quaranta posti letto, qualche muratore a scadenza, qualche giardiniere che anziché innaffiare il proprio campo innaffierà i giardini dei prìncipi – e un plotone di disoccupati ai confini del territorio dei nuovi signori delle spiagge e delle campagne vendute. E quando i padroni di Teulada chiederanno, per capriccio e concessione, qualche prodotto locale per la mensa dei ricchi, non ci saranno neanche formaggio, vino, grano per il pane, perché a Teulada non si produrrà più nulla.
Il “modello di sviluppo” che il Sindaco immagina per i suoi cittadini è talmente retrò da costituire una novità. E toglie speranza apprendere che il progetto Malfatano si sia concretizzato, anni fa, con un sindaco che si qualificava progressista. Altro che progresso. Altro che “indotti economici” per tutti. Questo è un modello con il quale si rinuncia al miglioramento sociale, alla qualificazione professionale, all’agricoltura, alla possibilità di operare e vivere secondo le personali capacità, si accettano tassi desolanti di scolarizzazione, si negano apprendimento e conoscenza, uniche forma di ricchezza durevole di una comunità. E si tratta di affari per pochi.
Nessuno immagina che i teuladini debbano rinchiudersi nei “furriadroxius”, fissati in una macchina del tempo. Le donne all’arcolaio, i maschi con la falce nei campi e con le greggi nei pascoli. Ma un’Amministrazione deve provvedere, o tentare di provvedere alla scuola e allo studio, a una possibilità di vita dignitosa, indipendente ed economicamente accettabile, a un lavoro duraturo per i suoi amministrati. Deve immaginare un’economia reale di cui sia responsabile la comunità, non un’economia affidata ad altri, a capitali luccicanti che alimentano se stessi. Non deve consegnare i propri cittadini e la terra su cui cammina e vive ad altri.
E’ inammissibile che il Sindaco di quel paese, impresario edile, propugni una crescita fondata su un uso atroce del mattone che ha fallito ovunque e in certi casi è saltato in aria con fragore. Le comunità che hanno distrutto le proprie prerogative si sono inesorabilmente impoverite. Ancora di più quando gli indigeni hanno “sgombrato” dalla loro incomoda presenza il territorio più bello.
Edilizia e turismo non sono veleni in sé, s’intende. Il veleno è contenuto nell’uso improprio delle due risorse che divengono tossiche se male utilizzate, nella politica microscopica che si allinea con i poteri economici dalle cui tasche cascano resti e rimasugli sui quali noi isolani da mezzo secolo ci avventiamo famelici. Il veleno è nel considerare “inutilizzato” un luogo intatto mentre lasciarlo com’è è il migliore degli “usi” possibile.
Ci rassicura un’idea, una filosofia economica che preveda “anche” il turismo ma conservando il legame con le proprie origini, senza distruggere il territorio e senza l’onta dello “sfratto” a chi lo abita e lo lavora da secoli. Un turismo tutto in mano a chi vive davvero i luoghi e li “risparmia”. Economie agricole aggiornate, lontane dalla retorica del contadino zappatore con la schiena curva. Una comunità operosa che costruisce il futuro sul proprio passato.
La nuova “signoria fondiaria” decisa dal Comune di Teulada ci riporta indietro sino all’economia curtense quando il signore del castello dominava grandi territori e lasciava le briciole ai massai. E proviamo per questo una profonda, dolorosa vergogna.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
La penisola di Malfatano ci conserva un uomo vigoroso e fatto con poco, di nome Ovidio Marras, che nel suo furriadroxiu, antica unità produttiva del Sulcis, alleva bestiame e coltiva un orto accerchiato da una colossale speculazione edilizia. La sua vita si è scontrata, storia già vista, con una forza economica che ha adocchiato il colle, sopra la spiaggia miracolosa di Tuerredda, e con un sindaco, quello di Teulada, il quale dichiara senza arrossire che i suoi cittadini potranno finalmente fare i giardinieri e i guardiani anche d’inverno.
In cambio Teulada ha offerto in saldi 700 ettari di costa dove un gruppo di ditte, compresa l’ecologica Benetton, anch’esse senza arrossire, tireranno su 150mila dozzinali metri cubi di alberghi e villoni in un sito di perfezione divina. Per costruire questo mostro, che ha vinto un premio chiamato con malinconica schiettezza il “Mattone d’Oro”, il sindaco e l’impresa hanno spezzettato in “tanti piccoli impatti” la valutazione complessiva di impatto ambientale. Incuranti della Comunità europea che considera inaccettabile questa “astuzia” da Bertoldo.
Nel sito internet della “Mita Resort”, intricata società del gruppo Marcegaglia che gestirà questi spietati metri cubi, c’è la spiegazione della vita assediata di quell’uomo, un partigiano antisviluppista. La Mita amministrerà l’albergo. E definisce il proprio progetto di “colta semplicità”. Vediamola questa “colta semplicità”. Albergo, 300 camere, e ville da un milione e mezzo di euro. Insomma, 150mila metri cubi di “colta semplicità”. Così a Teulada passano docili dalla servitù militare a quella turistica, tanto sempre servitù è.
La “colta semplicità” avrebbe dovuto suggerire al sindaco, alla giunta, alla Mita, all’impresa trevigiana e a tutte quelle coinvolte, specie quelle isolane, di sostenere la rete preziosa dei furriadroxius anche riconvertendoli, ma a patto di conservare la funzione originaria di unità produttiva. Questo richiedevano la “colta semplicità”, il nostro Piano paesaggistico e il pubblico interesse.
Malfatano era oltretutto un approdo punico, forse fenicio, un porto al confine del mito. Così, ecco che spunta altra “colta semplicità”. L’impresa “collabora” con la Soprintendenza archeologica che studia un poco i luoghi e in uno slancio di “colta semplicità” approva albergo e ville che “valorizzeranno” con un faretto qualche micro-rudere. Addio fenici e punici, ora ci sono i trevigiani e la Sovrintendenza li tutela più delle vestigia. Il sindaco si appunterà le stelle degli alberghi dove vorrà, ma sarà ricordato, insieme alla sua giunta e a quelle precedenti, per non avere protetto il tessuto sociale di Malfatano conservando “vivi” i furriadroxius e proteggendo i suoi “amministrati”, soprattutto Ovidio Marras. Il sindaco impresario sarà ricordato per la distruzione di Malfatano.
Ovidio di Tuerredda resiste, coltiva e alleva, ed è considerato un nemico di quest’idea di sviluppo malato, perché lui non vuole diventare servo. La speranza è nella sua tempra di pastore e contadino che fa vivere l’economia dei furriadroxius, più solida, moderna, durevole e onorevole di quella luccicante che produce posti di lavoro volatili e servitù turistiche distruggendo luoghi e bellezza.
Quanto alla “colta semplicità” che dilaga nell’Isola, ricordiamo che l’ex arsenale di La Maddalena, 119 milioni di denaro pubblico, è stato “donato” in gestione per 40 anni proprio alla Mita resort per 60.000 euro l’anno previo contributo di 31 milioni di euro. E per non turbare la “colta semplicità” della Mita, la Regione Sardegna pagherà un’Ici annua di 400.000 euro, sette volte l’affitto. Siamo servitori gentili, noi, e non disturbiamo.
L'articolo è stato pubblicato oggi anche su la Nuova Sardegna il 25 agosto 2010
“Quelli del sì a tutto” avrebbero quotidiane dimostrazioni dell’utilità di un salvifico “no”. Ma se ne impipano. L’Isola si perde anche perché certi suoi podestà sviluppisti considerano l’attività politica simile a quella immobiliare, e le confondono. Tutt’e due attività lecite, s’intende. Lecite ma in conflitto quando si sommano nella stessa persona.
San Teodoro è un esempio di paese-cantiere edile, dove la politica è tutta concentrata nell’azione incontenibile di costruire. Un territorio governato dall’esaltazione immobiliare che lo ha portato alla perdita di sé. Un luogo sublime, come tanti altri dell’isola, che la “politica del sì” ha trasformato in un funebre grumo di case e gru. I sindaci impresari passeranno alla storia dell’isola come i nostri flagelli antichi, ma avranno ferito a morte i luoghi.
I suoli, considerati come uno strumento per riempire la pancia, immancabilmente ripagano gli scempi, si sa. Villagrande ha avuto i suoi morti perché si costruiva sul greto del fiume. Capoterra, indenne da inondazioni sino agli anni ’60, incoraggia un raccapricciante uso del territorio e per conseguenza subisce lutti e distruzione che restano nella memoria di ognuno, salvo in quella di chi, perduto il senno, continua a costruire.
Chissà quanti sindaci d’impresa amministrano i nostri 380 comuni. Chissà quanti candidati edilizi hanno utilizzato nei comizi l’idea brutale che nel metro cubo è contenuta la felicità eterna. Chissà quanti amministrano e contemporaneamente costruiscono.
Qualcuno ha declamato che lui il Paesaggio lo “deve fabbricare”, un altro che lo “restaura”, un altro ancora che “lo ricostruisce”. Insomma, la politica, grande e piccola, vede come propria bussola non il benessere dei singoli e la protezione del patrimonio naturale che ci è stato consegnato, no. Non il cosiddetto “uomo al centro” del Creato, l’uomo che, proprio perché è al centro, dovrebbe difenderlo questo povero Creato. No. L’ago magnetico è dritto e fisso verso gli affari di pochi, senza cura delle conseguenze, senza la filosofia richiesta quando si ragiona di uomo e paesaggio.
E’ naturale che l’impresa desideri costruire. E talvolta tira calci per farlo. Non è naturale, anzi, così nasce un mostro, che l’impresa diventi contemporaneamente amministrazione e ci governi. Questa è una mescolanza che ci conduce in un territorio grigio e indistinto, dove l’ambiguità può scivolare verso l’illegalità. E le conseguenze sono drammatiche, qualsiasi legge si faccia per proteggere il territorio.
Le casette che si moltiplicano come virus, secondo la primitiva “ideologia”: più mattone, più ricchezza. Il sogno di container carichi di turisti. Le stagioni che si accorciano e gli alberghi che si allungano. Migliaia di case vuote, inutili, brutte, spettrali per undici mesi l’anno. E la risposta a questo orrore è nell’inevitabile e certo “premio di cubatura”, l’elisir per ogni male.
Nessun ragionamento, nessun amore per i luoghi, nessun senso della patria, delle origini. Nessuna memoria, nessuna speranza per una terra così disposta a vendersi e già così venduta per qualche metro cubo. D’altronde come il cane assomiglia al padrone, anche il paesaggio assomiglia a chi lo abita. Una società mediocre produce un paesaggio mediocre, paesi miseri, città brutte, periferie atroci.
Quelli che, a detta loro, “fabbricano, restaurano, ricostruiscono” il Paesaggio, lo costringono con tale violenza che lo perdono. Perdono, accecati da un piccolo guadagno immediato, perfino il vantaggio economico che un paesaggio bello contiene in sé finché è bello. Ci privano, ricoprendo tutto di “bruttezza”, del diritto sacro di godere del Paesaggio e di vivere in armonia.
La scomparsa della spiaggia sublime di San Teodoro, sommersa dal fiume che da millenni porta l’acqua allo stagno, il fiume innocente soffocato dai mattoni e da argini insulsi, sono la rappresentazione perfetta di come i “costruttori” di Paesaggio considerano la terra. Tutto è lì per loro. Ora che hanno sfinito i suoli e le acque il diluvio sommergerà anche loro. Senza arca, però.
La spiaggia di san Teodoro, prima e dopo ... l'incuria
L'articolo è stato pubbòicato oggi anche su la Nuova Sardegna
Con un sospiro di sollievo gli albergatori sardi hanno registrato un labile tutto esaurito di qualche giorno grazie alla moltitudine che a ferragosto si è rovesciata sull’isola dal cielo e dal mare. Neppure abbiamo fatto in tempo a ragionare sul fenomeno che, frenetici come girini, i villeggianti si preparano, dopo l’esodo, al controesodo. E “quelli del sì” sono stati felici per qualche giorno.
Ma “ quelli del sì” e alcuni sfortunati albergatori hanno sentito qualcosa di insolito nell’aria proprio mentre godevano questa boccata d’ossigeno.
Era il flagello della cacca generata a ferragosto che ritornava al produttore perché i depuratori non ce l’hanno fatta benché siano, si sa, sovradimensionati proprio per i periodi di pienone. Era troppa questa cacca. Tanta incontinenza non era stata prevista dai sostenitori del nostro efficace modello di sviluppo. Gli stessi che propugnano premi di metri cubi agli alberghi per ingrandirli e moltiplicano non solo i servizi, attenzione, ma le camere d’albergo per ammucchiare più gente. Premiano chi non ha saputo fare dell’isola un luogo rispettato per tutto l’anno dai suoi abitanti e da chi lo visita. E chiamano “riqualificazione” quest’uso inconsulto del territorio.
“Quelli del sì” ampliano gli alberghi e abdicano alla leggendaria “stagione lunga” e al “risparmio” dei luoghi. E cadono in una mortale contraddizione. Non si possono nello stesso tempo stipare le coste di metri cubi e turisti e pretendere che quel turista, immerso nel suo stabulario come una cozza nella quale il cibo entra e esce, corra perfino a vedere il cosiddetto interno isolano al quale intanto ne fanno di tutti i colori sino alla desertificazione.
“Quelli del sì”, a forza di sì, hanno da mezzo secolo la responsabilità morale, e non solo, della scomparsa di buona parte dei nostri paesaggi, storici e naturali. Questo gli verrà rimproverato da chi riceverà in dono da loro l’inconfondibile “bruttezza sarda” che dalle città e i paesi si è estesa alle campagne, frutto della confortevole filosofia del sì e dell’intolleranza alle regole. Come i guai provocati da chi sfreccia a centocinquanta all’ora e sfacciatamente definisce “agguato” una multa con l’autovelox. Troppe regole, dicono.
La politica di “quelli del sì” è facile da praticare. Dire sì, produrre leggi a corto raggio, il “tutto e subito”, evita norme fastidiose, divieti e codicilli capziosi.
La cacca di questi giorni non è una cacca qualunque, ha un significato profondo e dimostra come le nostre acque, certificate da innumerevoli bandierine blu, siano naturali. E qualcuno proporrà per la stagione spilorcia ridotta a un mese di ingigantire i depuratori perché per trenta giorni la pressione sulle coste diviene insopportabile e la cacca insostenibile. Questa cacca metaforica, castigo degli spensierati, verrà ricordata. Verrà ricordato l’albergatore negazionista che ha detto: “Non è cacca, signori, sono meduse” e poi si è angosciato non già per l’orrore, no, ma per il danno minore, quello all’immagine. L’immagine dovrebbe corrispondere sempre alla sostanza ma in questo caso la sostanza è sconveniente.
Molta cacca, sosterranno, significa che la nostra isola è una meta ambita e basterà distribuirla meglio sulla costa e sull’interno. La cacca, spesso cacca internazionale, volgerà a misura del successo del nostro turismo, diverrà un volàno dello sviluppo e accrescerà il Pil. D’altronde è un segno di salute e fortuna nella cabala napoletana.
Ha dichiarato l’assessore al turismo di un paese costiero che bisogna “riflettere e spalmare il turismo un po’ dappertutto”. Non abbiamo capito esattamente cosa volesse dire. Ma la parola “spalmare”, termine “strategico” del linguaggio aziendale, non è stata scelta con accortezza. Ha ragione l’assessore, bisognerà riflettere a lungo sul nostro povero mare fecale, però noi, nel frattempo, ce ne restiamo tra “quelli del no”.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 25 agosto 2009
Chi ama il paesaggio viene talvolta liquidato come estremista, pasdaran, massimalista, komeinista, fanatico, oppure apostrofato con formule vuote come “basta con le ideologie”, “siete quelli del no”. Ma vediamo.
Chiamano vacanze gli sbarchi apocalittici in Gallura, le migliaia di auto arroventate, l’isola scossa di colpo da un turismo anfetaminico, una regione di un milione e mezzo di abitanti che brulica per un mese di altre centinaia di migliaia di persone piene di esigenze spirituali e corporali, i fuoristrada sulle dune di Piscinas, le spiagge trasformate in rosticcerie, i fiumi di alcol, le cale alla nafta, i ginepri amputati. Ma neppure davanti a tutto ciò si riflette sulla necessità di governare questo fenomeno distruttivo, questo uso sfrenato della nostra unica risorsa. No. Si accetta qualsiasi cosa. La stagione è corta, dicono, e allora allunghiamo gli alberghi.
C’è stato un indicativo convegno promosso dagli albergatori e dai rappresentanti dell’onesto partito detto dei Riformatori che vuole riformare anche gli alberghi i quali non devono lavorare solo due mesi l’anno e dovrebbero procurare lavoro per dodici mesi anziché dispensare uno stipendio che appare a luglio e agosto, poi scompare e riappare, forse, un anno dopo.
Ma neppure gli integerrimi Riformatori hanno resistito alla mania irragionevole del cosiddetto “premio di cubatura” che non si rifiuta a nessuno. Così abbiamo saputo che a 300 metri dal mare si possono costruire palestre, centri benessere e centri congressi. Tra i 300 metri e i 2 chilometri, per ottenere il 20% di letti in più si aumenta la volumetria del 50%. Nel manuale del perfetto cementificatore non è mancato il tocco di verde dei campi da golf che devono essere fatti subito sennò i filantropi investitori vanno da altre parti. Un pasdaran albergatore ha deplorato che in questa lotteria dei premi di cubatura ci si è dimenticati degli sfortunati alberghi a 300 metri e ha chiesto come rimedio alla crudele ingiustizia il 10% di metri cubi in più per chi è là da 5 anni, il 20% per chi è lì da 10 anni e il 30% se l’albergo è là da 20 anni o più. Un’usucapione alberghiera. Così, hanno detto, si sta “al passo coi tempi”.
Comunque vada ti premiano con un allargamento o un allungamento. Questo sì, ci pare un modo ideologico di concepire regole fondate su diritti inesistenti che, oltretutto, ignorano diritti fondamentali. Perfino i pacati Riformatori prevedono regali a chi, come gli albergatori isolani, ha fallito, lavora un mese l’anno ma pretende una ricompensa per la propria incapacità. Come se per rimediare al tracollo di una fabbrica si proponesse di allungarla con un bel premio in metri cubi.
C’è nell’aria un massimalismo del metro cubo, un estremismo edilizio, un fanatismo sviluppista. La stagione è corta e allora si prolungano gli alberghi. Nessun tentativo di governare gli avvenimenti, solo la volontà di inseguirli affannando, chiusi in un’asfissiante visione edificatoria del mondo.
Lo stesso atteggiamento “ideologico” di chi, sgombro dalla prudenza del dubbio, vide nella chimica l’unico possibile futuro dell’Isola, creò posti di lavoro di cartapesta e molto dolore.
Basterebbe in questi giorni un’occhiata ai moli infernali di Olbia per comprendere che non servono metri cubi ma regole. Fra trenta giorni tutti se ne andranno e ricomincerà il lamento dell’inoperoso albergatore sardo.
Quando la costa sarà una costruzione continua, esauriti i perniciosi premi di metri cubi, privi dell’unico patrimonio che possediamo, il Paesaggio, poveri senza rimedio, prenderemo di colpo coscienza, come è accaduto per la chimica, della scelta rovinosa che abbiamo fatto. Non abbiamo saputo governare la nostra terra e non avremo più nulla di nostro, né un’ideale di paesaggio, né di territorio, né di patria.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 4 agosto 20098
L'impresario cagliaritano, padre del progetto di 270.000 metri cubi a Tuvumannu e a ridosso della necropoli di Tuvixeddu, ha affermato, a questo proposito, di aver subìto, oltre che numerosi torti, anche un danno di immagine. Questa faccenda dell'immagine è una diavoleria moderna e corrisponde, più o meno, alla vecchia e superata reputazione. Prima e dopo la lettura di queste dichiarazioni ci è apparso chiaro di averlo patito noi il danno di immagine. Noi e tutti gli abitanti dell'Isola che si è dimostrata un luogo dove si divora quello che da altre parti sarebbe sacro. Il mondo è proprio a testa in giù. Noi, proprio noi, dovremmo richiederli i danni per la reputazione guastata, chiederli a chi ha fatto conoscere la nostra città al mondo - perfino il Times ne ha parlato - per il cemento intorno alla necropoli e per una strada di scorrimento in un bellissimo canyon, accanto ai sepolcri. Siamo rinomati per le 431 sepolture scomparse sotto il cemento di un garage.
I templi di Agrigento circondati da metri cubi volgari, il Parco dell'Appia antica zeppo di abusi, Pompei a rischio, ascensori alle Cinque Terre. Cagliari è colpita allo stesso modo. Un elenco interminabile di danni all'immagine e al patrimonio di chi abita i luoghi e li vede violentati. Il danno di immagine è dell'intero Paese che si sbrana da sé. Il lamento del costruttore ricorda "s'attitidu" della nostra tradizione, il pianto funebre, ed è in tono con la necropoli, ma distorce le parti sino a stravolgerle perché il "morto" non è il progetto di Coimpresa. Il "morto", se si può dire, è la necropoli. Forse, mutati i tempi, qualche giure astuto otterrà un risarcimento dalle imprese che rendono ogni giorno più insopportabile la città sopprimendone la bellezza. Ma sarà una giustizia postuma.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 10 agosto 2008
E’ apparso un articolo dal tono mezzo apostolico e mezzo giuridico a firma dell’ex Soprintendente archeologico, Vincenzo Santoni, che ha avuto una parte a nostro avviso negativa nelle disavventure di Tuvixeddu. Lo scritto mescola il Papa con massime giuridiche, omelie con la sentenza del Tar sulla necropoli. Ci ricorda con un tono da Paolo di Tarso, che dobbiamo camminare insieme sostenuti da “una ferma inquietudine per la verità”. Poi prende il tono tenebroso del giure.
L’ex Soprintendente parla anche di tutela. E proprio sulla tutela del colle ci siamo interrogati dopo la gravosa lettura dell’articolo.
Sappiamo dalla stampa che qualche giorno fa la Guardia Forestale ha controllato con un sopralluogo se a Tuvixeddu c’è corrispondenza tra il progetto del giardino a gradoni babilonesi e la sua realizzazione.
I ranger – così oggi chiamano le guardie forestali - hanno rilevato differenze importanti tra il disegno degli architetti e quanto, invece, l’impresa ha realizzato. Insomma, sembra che durante l’esecuzione del progetto il costruttore abbia fatto di testa propria. La stampa ha parlato dei camminamenti che da 80 centimentri si sono allargati a 4 metri, delle fioriere in stile babilonese - ma questa faccenda dello stile è una sciagura già presente nel progetto - che esorbitano le dimensioni prescritte. In sostanza la realizzazione del progetto è diversa dal progetto originale.
Ci chiediamo come sia potuto accadere che la Soprintendenza archeologica, rappresentata all’epoca proprio dallo stesso Vincenzo Santoni, abbia trascurato il controllo dei lavori nel giardino che confina con l’area di maggior valore archeologico. Ci domandiamo se è normale che ci sia voluta la benemerita Forestale per eseguire delle semplici misurazioni. Ci chiediamo se non sarebbe bastato un Soprintendente armato solo delle proprie gambe, di occhi, occhiali e di un metro lineare. Ci domandiamo dove fosse la Soprintendenza archeologica quando la dimensione dei camminamenti si quintuplicava, dove fosse il Soprintendente quando le fioriere crescevano oltre misura.
D’altronde ci siamo già posti la stessa domanda in altre occasioni.
Ci siamo chiesti perché la stessa Soprintendenza abbia permesso la copertura dell’anfiteatro, la cementificazione dell’antico camminamento scavato nella roccia a Buoncammino. Ci siamo chiesti dove era la Soprintendenza quando il colle di Tuvumannu e i suoi reperti sono stati ricoperti da desolanti costruzioni di cemento armato, dove era quando un tempio punico è stato ricoperto da un’agenzia di viaggi, dove era quando a Santa Gilla scomparivano i segni preziosi della città fenicia e di quella giudicale affogati da una volgare città mercato, tanto sempre città sono. Ci chiediamo con amarezza quale tutela ricevano oggi le tombe di Viale Sant’Avendrace che saranno nascoste alla vista da un nuovo palazzo di cinque piani.
Beh, noi crediamo che l’azione di tutela debba essere esercitata esclusivamente per quello che la parola significa. Pensiamo che la tutela non ammetta vie di mezzo e che in nessun caso debba consistere in una mediazione. Altri sono chiamati a mediare.
Il compromesso tra parti impari ( Tuvixeddu fragile e l’impresa piena di forza ) è causa di un danno irrimediabile al bene più debole. Questa consuetudine disastrosa fa sì che il bene, limitato ed esauribile, perda ad ogni mediazione un pezzo di sé, sino all’esaurimento. Noi ci aspettiamo dalle Soprintendenze una lineare e coraggiosa azione di pura tutela e protezione, senza vie di mezzo.
La valorizzazione di un patrimonio culturale viene dopo la sua salvezza. Farlo conoscere e divulgarlo spetta alle regioni, non alle Soprintendenze. La conoscenza di quel patrimonio, dice il nostro ordinamento, deve in ogni caso privilegiare la tutela che resta l’esigenza primaria. Insomma, prima si tutela e poi, solo poi, si valorizza.
Dalle nostre parti si procede al contrario, come i gamberi. E la tutela è poco praticata. Nell’Isola viene prima la “fruizione” dei luoghi. E per renderli “fruibili” i luoghi vengono di fatto alterati e distrutti. Poi, quando è troppo tardi, si procede alla tutela. Un esempio su tutti. L’Anfiteatro romano è stato ricoperto con tavole e tubi proprio a causa della “fruibilità” e della “valorizzazione”. Lo si è falsificato, alterato, reso invisibile e si racconta che così lo si tutela.
L’articolo dell’ex Soprintendente ci ha tolto un altro po’ di speranza. Tuvixeddu è anche una metafora del rapporto tra noi, la nostra storia e un distruttivo presente che qualcuno confonde con la modernità.
Sino a non molti anni fa la Sardegna non possedeva, per fortuna, un’immagine. Nessuno ci conosceva, nessuno sapeva nulla di noi. Poi, di colpo, ci è precipitata addosso l’Immagine, senza la quale, sino ad allora, avevamo vissuto bene, benino.
In questi giorni, durante il dibattito sull’immondezza, alcuni Consiglieri regionali, e un piccolo coro di Sindaci metrocubisti ( cinque sindaci solitari su più di trecento ) hanno tirato in ballo l’Immagine dell’Isola. Hanno detto, nientemeno, che dallo smaltimento di immondezza altrui la Sardegna avrebbe ricevuto un danno grave, appunto, di immagine.
I Consiglieri e i sindaci si sono preoccupati della nostra bella immagine costruita con sofferenza e molto sangue, anche a Orgosolo, con il sangue recente di Peppino Marotto, con quello degli omicidi che lo hanno seguito e dei moltissimi che lo hanno preceduto. Hanno temuto, i Consiglieri, che il nostro impegno secolare nel campo dei sequestri di persona, bambini compresi, finisse in un nulla per un poco di immondezza. Che finisse in una bolla di sapone l’impegno profuso nel devastare i nostri paesi, nella distruzione delle nostre coste, nello spopolare l’interno, nel trasformare in una landa nera la spiaggia del Poetto, nel rendere orribili le periferie di Cagliari, di Sassari, Olbia, Alghero, nel fare di Nuoro un’unica periferia, nel rendere una trappola mortale la nostra strada più importante, mai finita. Che andasse in fumo lo sforzo della nostra criminalità per restare la criminalità d’un tempo che però, in nome dell’immagine, si è adeguata alla modernità con ruspe per i bancomat. Che si vanificasse l’impegno di mantenere gli indici di abbandono scolastico tra i più alti e il numero dei laureati tra i più bassi perché servono camerieri e muratori. Insomma, si sono preoccupati, pochi Sindaci e pochi Consiglieri, di difendere un’immagine costruita con pazienza e cura.
E mentre il resto dell’Italia indicava l’Isola come buon esempio di civiltà, i nostri pochi Consiglieri e Sindaci trasformavano l’immondezza (non scorie radioattive ma immondezza comune) in una bandiera politica. Che la politica si possa trasformare in immondezza è noto. Ma che un cassonetto possa essere di destra o di sinistra è difficile da comprendere.
Però, siccome alla fine tutto torna all’equilibrio, la nostra vera immagine è stata presto ristabilita. Tutta l’Italia ha visto le bandiere con i quattro mori sventolare insieme alle fiammelle tricolori e poi la teppaglia prezzolata assediare un’abitazione privata. Così anche Cagliari ha avuto, come si dice, la sua visibilità in prima serata sino al premio dell’apertura dei telegiornali nazionali. Un successo. Sono stati arrestati sei ideologi antispazzatura per reati vari e sono stati condotti in carcere due maestri di pensiero per un attentato incendiario all’abitazione privata del Presidente della Regione. Massima visibilità e immagine salvata, dunque. E se i nostri indipendentisti irsuti e Consiglieri appassionati all’immagine continueranno a “battersi” con questa energia otterremo risultati ancora migliori, sino all’eccellenza. Basta insistere, la strada è quella buona e l’immagine sarà salva.
Pubblicato anche su La nuova Sardegna, 16 gennaio 2008
Questo articolo è stato pubblicato contemporaneamente su eddyburg.it e su la Nuova Sardegna (27 febbraio), quest'ultimo ha titolato "Col decreto salvacoste in Sardegna ora cresce una nuova coscienza civile"
Con l’entrata in vigore del decreto salva coste un indimenticabile consigliere regionale argomentò, con una logica tutta d'un pezzo, che il danno della legge già si avverava e che la dimostrazione consisteva in una drammatica diminuzione degli ordinativi degli infissi. Gli infissi fermi nelle fabbriche rappresentavano, secondo il consigliere, un segno certo di come la crescita si sarebbe inesorabilmente fermata. L’argomentazione conferisce all’infisso un folgorante valore simbolico e essa tratteggia un modo non isolato di ragionare.
Si creò, in reazione al decreto, un immediato clima da controriforma che oltre a fornire una rendita perpetua a pensosi studi legali, ha determinato la divisione della cosiddetta opinione pubblica in due parti. Si è scritto, si è discusso, si sono organizzati convegni interminabili contro le regole e a favore delle regole e, mentre anche le poltroncine sbadigliavano, si cercavano scappatoie e si ragionava di vulnus mortali, proprio così, ai Comuni, di autonomie soffocate oppure, sosteneva la parte avversa, rispettate. Intanto, per fortuna, alcuni punti fermi restavano decisi e stabiliti.
Per esempio.
Tutti sanno che le cosiddette zone F dei piani regolatori erano quelle aree destinate allo sfruttamento turistico, le zone più belle, puntigliosamente perimetrate nelle carte. Oggettivamente più belle, visto che esiste un bello assoluto sul quale tutti i contendenti, guarda caso, sono d’accordo. Ma il fatto è che sommando le volumetrie previste nelle zone F la nostra Isola sarebbe stata, in assenza di regole, ricoperta di 70 milioni di metri cubi. Lo sarebbe stata, questa era l’intenzione disgraziata, se le zone F non fossero state provvidenzialmente cancellate dalle nostre cartografie attraverso le nuove norme.
Si arrestò di colpo la sbornia cementificatrice destinata ad arricchire pochi e a produrre un danno irreparabile e eterno. Il territorio sarebbe stato definitivamente consumato e reso irriconoscibile e con esso saremmo stati irriconoscibili anche noi. Altro che Popolo Sardo, altro che identità senza uguali, sepolti sotto i mattoni. Si mobilitò un piccolo esercito di garçon pipì al servizio delle imprese, innumerevoli pesci pilota navigavano nervosi nelle nostre acque terse. Si moltiplicarono i mediatori, i conciliatori pronti a tutto. E l’onorevole preoccupato per gli infissi - archetipo di un ragionare diffuso – continuò, pare, a preoccuparsi.
Secondo la parabola sviluppista quei 70 milioni di metri cubi avrebbero costituito una quantità equivalente di lavoro e di benessere, la pietra filosofale dello sviluppo, il mattone filosofale.
Un’argomentazione falsa alla quale gli economisti ( perfino la banca mondiale ) hanno da tempo fornito una risposta. Per quanto sia vero che paesi ( piccoli, di solito isole ) prosperino per il turismo è ancora più vero che il modello di crescita sostenuta dal metro cubo ha creato in buona parte del nostro meridione una diffusa povertà intrecciata con la delinquenza organizzata, ha cancellato migliaia e migliaia di chilometri di coste. E questi 70 milioni di metri cubi avrebbero ripetuto una realtà drammatica già vista. Avrebbero consolidato rendite, sì, ma non sviluppo. Si sarebbero arricchiti i già ricchi. Si sarebbe creato un lavoro facile, certo, ma di bassa specializzazione e, principalmente, di breve durata. Poi, daccapo, tutti poveri. Ma, soprattutto, avremmo esaurito il territorio e creato 70 milioni di metri cubi di interminabile dolore. Il contrario di uno sviluppo durevole.
Ma nelle discussioni infinite intorno all’argomento c’è un aspetto importante che anche i sostenitori degli infissi dovrebbero, guardando oltre gli infissi, tenere in considerazione.
Il responsabile di questo processo di civilizzazione non è un solo un governo e non è una legge per quanti insegnamenti possano essere contenuti dentro un codice. Quel governo e quella legge sono l’espressione di un mutamento storico nella percezione che la nostra società ha dei grandi valori, anche economici, connessi al paesaggio e al territorio. Ed è questo mutamento avvenuto nell’opinione pubblica che ha determinato la necessità di regole certe e ha dato forma a un governo. Non il contrario.
In altre parole la cosiddetta opinione pubblica ha richiesto un cambiamento nel governo del territorio e quello che avviene è quello che è stato richiesto. La maggioranza desidera che l’Isola sia conservata, protetta e tutelata dalle norme.
Il simbolo dell’infisso abbandonato nei magazzini contiene una sua sostanza. Ma l’argomentazione che la disoccupazione scompare con l’apparizione e la moltiplicazione degli infissi - metafora di un’economia che funziona – è fasulla. Quando tutto sarà costruito e ogni angolo colmato di metri cubi non sapremo più dove cercare lo sviluppo. Così gli infissi e tutto quello che essi rappresentano nell’allegoria concepita dall’onorevole, torneranno a giacere nei magazzini, per sempre.
P.S.: Nel 1834, quando la Sardegna era lontana dal “grand tour” Antoine Valery scrive di Cagliari e della necropoli di Tuvixeddu. Decanta la bellezza del colle e delle sepolture che però, dice Valery, “ gli abitanti della città notano appena”. Beh, evidentemente le vicende e le parole di oggi hanno origini lontane. Noi siamo sempre gli stessi. Interessati agli infissi sui quali fondiamo il futuro e il passato non ci interessa.
Questo articolo è pubblicato contemporaneamente su eddyburg.it e su la Nuova Sardegna del 6 febbraio 2007
La necropoli di Tuvixeddu, a Cagliari, cerca di resistere a ingegneri, architetti valorizzatori, giunte comunali, progettisti, manager e managerini. I nostri antenati che sono stati sepolti nel colle, alla fine, si difenderanno.
Il rettore a vita dell’università di Cagliari ha dichiarato, a proposito della “questione” Tuvixeddu, che nella nostra capitale non si riesce a cambiare mai nulla. E siccome non ci sono eccezioni a questa regola, da quasi un ventennio non cambia neppure lui. Ha ragione il rettore-urbanista il quale ha molte responsabilità nel progetto originario che prevedeva più di 600.000 metri cubi sparsi su Tuvixeddu, ha ragione. Una città così cristallizzata in piccoli poteri fissi non combinerà mai nulla di buono. Questa rigidità minerale si riverbera su ogni attività, su università e intelletti, progetti e intraprese, politica ed economia, e anche sull’opinione pubblica. Questa sostanziale anima paurosa le impedisce perfino di essere considerata capitale dell’isola. La città segue un orologio a sé stante, che misura una sua ora diversa. E quando qualcosa si muove accadono disgrazie, mandiamo in frantumi pezzi preziosi e proteggiamo con cura il peggio, sempre.
Il tentativo di speculazione delle imprese che vogliono costruire sul colle lo avevano previsto perfino i nostri morti. E avevano immaginato come qualcuno avrebbe fatto scomparire i costoni bianchi e abbaglianti del colle coprendoli con palazzine dozzinali in cambio di un guadagno immediato e di un danno eterno. Si inizia col ricoprire i costoni di metri cubi, si urbanizza (già fatto) un versante della collina e poi, magari, nasceranno altre palazzine sino a che il sudario di cemento ricoprirà tutto. E si parla di impresa, di diritti dell’impresa, di pregi dell’impresa trascurando che per la nostra Costituzione i beni culturali, paesaggistici e archeologici sono un valore primario, un’immensa ricchezza, e vengono prima dell’impresa. Così è in un paese civile. Si grida addirittura che, sospesi i lavori, non c’è più certezza del diritto perché le carte sarebbero a regola d’arte. Le solite carte, non sempre in regola, con le quali si è devastata mezza isola. E si dimentica che, invece, è stato un giudice - espressione vivente del diritto - che ha stabilito, secondo legge e in modo esemplare che il cantiere doveva fermarsi. La certezza del diritto c’è, per fortuna, e la esercita chi deve esercitarla.
Il progetto che attenta a Tuvixeddu è un progetto integrato, prevede cioè una cooperazione tra pubblico e privato. E così il privato, non contento di cancellare le falde candide del colle, ha fatto dono al comune del più volgare giardinetto pubblico che sia dato vedere accanto a un parco archeologico. Lungo i dirupi bianchi del colle, dove fioriscono orchidee, nidificano i falchi, accanto alle tombe scavate nella roccia, in un grande catino che aveva un fascino raro, beh, là un progettista ha sfigurato l’area costruendo un cosiddetto parco attrezzato, un giardinetto che se ne impipa del contesto e ha l’aria di una Milano 2 . Muri e muretti grigi, fioriere, senza dimenticare un laghetto artificiale zen, un totale sovvertimento del luogo che è irriconoscibile, sfregiato. Nessun rispetto del sito, nessun rispetto della storia. Il rispetto mancava prima quando il catino era ridotto ad una discarica e manca ora che il catino sembra una piazzetta di periferia. Si passa dallo stupore allo sconforto davanti alla squallida trasformazione di un’area sacra per millenni, diventata un “parco attrezzato” da sobborgo. Bisogna vederlo questo “parco” : hanno spianato la vecchia cava, resa docile e levigata. Lo si vede e di colpo si capisce che la nostra Isola, il suo patrimonio di paesaggi e di resti del passato non hanno nessuna speranza di sopravvivere.
Non potevano i defunti della necropoli prevedere che alcuni funzionari deputati a proteggere le loro tombe gli si sarebbero rivoltati contro. Essi vedevano uno scudo nella Soprintendenza. Invece la Soprintendenza ha dato il suo assenso a questa spartizione di un’unica area omogenea. E i responsabili degli uffici di tutela, anziché pattugliare il colle giorno e notte, anziché difenderlo per intero, hanno assecondato lo spezzettamento in tre parti, hanno dato l’assenso ad un’alterazione grave dei luoghi e difeso pubblicamente il progetto sino a permettere un laghetto artificiale. D’altronde un autorevole rappresentante della nostra Soprintendenza ha dichiarato che sua funzione è “mediare”. E a Tuvixeddu questa disastrosa teoria della mediazione (che significa cedere ogni volta una parte non riproducibile di un bene) ha prodotto un danno irreversibile che fa il paio con il Poetto, stesso grigiore dove prima splendeva il bianco. Hanno cambiato perfino il colore del posto che, si vede, non era gradito al progettista del giardinetto pubblico. Un paesaggio è fatto di linee e di colori e quando si falsificano, appunto, le linee e i colori allora lo si sta privando con violenza dell’identità, lo si distrugge per il capriccio di un architetto.
Nessun progettista possiede l’autorità di ridisegnare secondo il proprio ghiribizzo un sito di quell’importanza. I luoghi li distruggiamo per mancanza di cura o per eccesso di cura e sul colle c’è un accanimento atroce, davvero doloroso.
Le sue falde candide diventeranno la solita sfilata di palazzine per il ragionamento distruttivo che se c’è un angolo libero lo si riempie di mattoni, perché “fare e fare” produce benessere. Un equivoco tragico, la perdita del controllo dello sviluppo che si è ammalato e ha causato la sparizione del paesaggio nella maggior parte di questo paese governato e ossessionato dal mattone.
A casa sua, pallido, il turista, guarda le fotografie della vacanza mentre fuori piove e piove. E guardandosi mormora: “Sarà… ma questo non sembro io, questo è un altro… ”
C’è qualcosa di molto triste e perfino drammatico nei villaggi vacanze, anche in quelli dell’isola, così alla deriva dal continente. C’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio dove si mangia si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno. Qualcosa che non si riesce a comprendere del tutto.
Neppure gli animatori incaricati di ravvivare l’ospite sott’olio solare e di affrancarlo dalla tristezza riescono a liberare il turista dai residui del dolore. Eppure l’animatore è stato concepito proprio come un essere metafisico addestrato a trasferire i patimenti dell’ospite sul proprio corpo, istruito per disinfettare il cervello dell’ospite, per farlo regredire sino all’infanzia sacrificando la propria età verde. L’animatore invecchia ad ogni stagione perché la sua essenza viene risucchiata dal vacanziere il quale perde rughe, cammina più dritto e ha uno sguardo meno opaco che all’arrivo. Ma neppure il sacrificio dell’animatore è sufficiente.
Così la sera, sgrassato e deodorato, fermo davanti ad un immenso buffet, il turista sente di continuo il peso di una brutta idea che gli arriva dal profondo e che non riesce a cacciare via né col cibo, né con l’alcol e neppure con le danze propiziatorie.
La notte, nella stanza bianca, la paura di qualcosa di imminente non gli scompare neppure con molte gocce di sonnifero. E la mattina, arenato in spiaggia, non riesce ad essere contento sotto il sole che lo consuma.
Il fatto è che al ciclo del villaggio manca qualche cosa per essere davvero perfetto e lui, l’ospite, non riesce a comprendere il perché di questa incompletezza dolorosa. A volte, però, di colpo, magari proprio l’ultimo giorno, capisce.
Beh, al villaggio, per essere davvero un villaggio, mancano due eventi fondamentali che renderebbero naturale il ciclo vitale del turista. Nel villaggio si dovrebbe nascere e morire.
Sì, sporadicamente qualcuno, stupito dall’ insolito vigore che si sente addosso, muore all’improvviso. Ma è raro, non si usa nei villaggi. Muore perché il cuore non ce la fa, troppi cambiamenti, troppi. La vacanza è una crudeltà, è dura, bisogna faticare.
Per il momento la morte nel villaggio è solo un’eccezione non prevista. La nascita, poi, è ancora più insolita.
Peccato, perché il parto turistico sarebbe un parto felice e la morte turistica sarebbe la migliore delle morti, il valore della vita nel villaggio aumenterebbe e i defunti, accompagnati dall’animatore gentile, se ne andrebbero in un aldilà turistico e senza più pensieri.
Sepolti nel cimitero del villaggio dove un’anagrafe uguale alle altre anagrafi registra tutto e dove si viene interrati rivolti verso il mare.
E niente più vacanze prive del soffrire naturale. Senza soffrire non c’è felicità possibile. La sofferenza non la si può lasciare a casa. Non si prova piacere se non si sa di dover patire e se non si è patito. Non si può ballare o guardare un tramonto felici se si dimentica di poter morire là dove ci si trova. La vacanza deve essere proprio questo: una paura appassionata di perdere il mondo intorno. Piacer figliod’affanno… provare pena per gustare la gioia di uscire per un po’ dal dolore e godere della dolcezza amara della vacanza.
Saggio il viaggiatore pellegrino morto in canoa davanti alle coste smisurate e divine di Cala Luna, fortunato quell’altro morto in bicicletta con negli occhi la strada orientale e il mare. Loro avevano capito che il bello naturale assume un valore incalcolabile proprio perché in fondo al bello ci si trova la morte che gli conferisce valore e significato, finalmente.
Ecco perché il villaggio turistico, così com’è, deve essere riformato oppure abbattuto con le ruspe.
L ’orto concluso all’interno del quale non penetrano la malattia e la morte, non arrivano epidemie e la peste viene lasciata fuori, l’ orto concluso non deve esistere più. Il dolore deve arrivare dappertutto e per ognuno.
Povero il turista che, senza comprendere, è traslato, poco più che vivo, dall’aeroporto al villaggio dove viene ingozzato come un oca e poi traslato di nuovo dal villaggio all’aeroporto e da lì a casa sua dove ora riguarda, con le lacrime agli occhi, le fotografie del luogo dove è stato sequestrato per una settimana. Quella, forse, non era vita.
E può darsi che, osservando le foto, comprenda che il turista - cioè lui stesso - è solo un oggetto inanimato mentre il viaggiatore viandante possiede la capacità del pensiero con la quale decide cosa vedere, dove andare, cosa mangiare ma, soprattutto, non si fa imprigionare in nessuna fiaba perché le favole - tutte piene di spaventi e paure - gliele hanno già raccontate quando era bambino.
Questo testo è stato pubblicato da la Nuova Sardegna alla fine dell'estate del 2005
La carta ha avuto, nella storia, un ruolo rivoluzionario e il mondo è progredito vertiginosamente quando le macchine a vapore hanno prodotto carta per tutti. Alle volte più carta che idee.
Ma per la carta sono scomparse foreste e intere regioni hanno cambiato il loro paesaggio. La Sardegna, dice qualcuno, ha subito un disboscamento selvaggio e forse possedeva più boschi di oggi anche se il geografo Le Lannou sostiene che l’Isola non è stata mai granché ricca d’alberi.
Questa piccola riflessione sulla carta ha subìto un approfondimento improvviso dopo un diluvio tropicale di ricorsi al nostro Tribunale Amministrativo. Si favoleggia di quattrocento ricorsi contro il nuovo Piano Paesaggistico che mette regole - perfino tardive - al consumo sfrenato della terra e delle coste. Insomma una quantità straordinaria di carta che ha danneggiato foreste e ha fatto barcollare i messi giudiziari.
Alcuni di questi ricorsi risultano di grande peso e anche noi incompetenti apprezziamo come ciascuno si esprima secondo uno stile giuridico personale. Qualcuno procede con un bel passo forense, qualcuno zoppica. Ma ce n’è di consigliabili. Ne circola, per esempio, uno decorato con bei fregi rossi e adeguato ai fregi anche nei contenuti. Qualcuno ha scelto uno stile minimalista e stinto. Se ne possono vedere altri colmi di metafore avvolgenti, di parabole e di dottrina. Ce n’è che promettono sventura, epidemie, povertà, fame e ce n’è che nascono già ricoperti di sottile pulviscolo giuridico.
Ma tutti concordano sul fatto che le norme ci volevano, sì, però queste norme, proprio queste, non vanno bene. Non si poteva andare avanti come prima, questo no, e qualche precetto serviva, ammettono. D’altronde loro sono avvocati e quindi, per conseguenza, amano le norme e vi si immergono come in un fiume sacro, le studiano, ne ricavano il pane con il quale comprano la carta. Le norme sono, in uno studio legale, come il bisturi per il chirurgo e sono venerate. Ma queste nuove norme, dicono, sono senza misura, esagerate e perfino sgraziate. E non vanno bene ai clienti i quali contrastano il Piano Paesaggistico familiarmente indicato con il brutto suono di Ppr.
Le migliori teste giuridiche isolane non hanno lasciato le proprie scrivanie per mesi, e sono incappate inevitabilmente nel tema Autonomia, parola che ricorre in questa grande massa di fogli legali. Il dibattito sull’Autonomia muta col mutare degli anni ma oggi, a leggere una parte dei ricorsi, l’Autonomia è rimasta nuda, spogliata di ideali e appare ridotta alle sue vergogne, ossia ad una forma primitiva di autonomia inferiore che possiamo chiamare edilizia.
Alcuni comuni isolani infatti ricorrono contro la madre Regione perché il Piano Paesaggistico li priva, a sentirli, dell’autonomia che, in questo caso, consisterebbe nel costruire, edificare, utilizzare il proprio territorio con regole dettate da sé stessi in un’anarchia amministrativa nella quale ciascuno fa quello che vuole e il territorio è frantumato in microscopici regni autonomi, piccoli feudi arcaici.
E l’Autonomia, ridotta a autonomia, si confonde con il potere di rilasciare licenze edilizie, di definire lottizzazioni, di costruire a piacimento, confondendo l’amministrazione con gli affari i quali, invece, per andare d’accordo con gli ideali dovrebbero uniformarsi a regole, norme e leggi.
Chissà cosa penserebbero i padri dell’Autonomia a sentire che alcuni nostri comuni, per sentirsi autonomi, si ritengono padroni assoluti delle terre che amministrano e rifiutano limiti e regole.
Quest’idea, si sa, ha radici nella proprietà perfetta e in quella comune, nel viddazzone e negli ademprivi, radici in un tempo lontano. Ha spiegazioni ma non giustificazioni.
Vedere come un esercito di giureconsulti concorre, frugando nelle proprie dispense legali, a sostenere la terribile tesi del separatismo edilizio, beh, vedere questi studiosi del diritto lanciati al galoppo giudiziario contro le nuove regole procura dolore e toglie speranza.
Il rimbombo legale delle scrivanie giuridiche è sconfortante, ma neppure il più cinico cultore del diritto può negare che senza regole severe la nostra Isola diventerà rapidamente una muraglia di mattoni con vista a mare e morirà soffocata. Come le coste perdute senza rimedio di altre regioni già violentate dalla speculazione. E quelli che vedevano l’Isola come un’eccezione alla drammatica distruzione nazionale cercheranno l’intatto da altre parti. Magari in Corsica dove hanno fatto un referendum per conservare i vincoli che ai nostri sindaci edificatori suonano come un insulto. Là i vincoli li hanno invocati e là, evidentemente, chi amministra ama la propria terra. E quello si chiama amor patrio.
L'articolo è stato pubblicato oggi, 20 novembre 2006, anche su la Nuova Sardegna.
La sviluppite – forma malata dello sviluppo - è una malattia ben definita ma difficile da curare visto che il malato sviluppitico non sa d’essere malato e fugge dagli accertamenti. La sviluppite, come molte malattie, è democratica e non fa distinzioni. Così colpisce maschi e femmine, ricchi e poveri, individui di destra e di sinistra senza dimenticare quelli di centro.
L’unico farmaco attivo ad oggi – ma è una cura dolorosa come quella di Pinocchio – consiste nella somministrazione di un vincolo al giorno. Però è una cura lunga e alle volte ci vuole un ricovero forzato che però produce, si è visto, buoni risultati. Insomma sono essenziali i vincoli precoci e addirittura anche vincoli preventivi. Ma, alle volte, la malattia resiste alla cura e diventa cronica.
La terra sulla quale camminiamo è tutta ricoperta da vincoli, perfino quella sommersa.
Davanti ad un vincolo, la parte primitiva dello sviluppitico si ribella. Lo sviluppitico non vuole cure, prescrizioni, norme e regole.
Senza regole contro lo sviluppismo si è cercato di vivere nell’isola per molti anni e senza regole la vita sembra a molti più comoda. Ma è solo apparenza, un’illusione da Lucignolo che si prende un piccolo piacere subito e dopo sta male per sempre.
In una forma preoccupante si sono ammalati alcuni nostri borgomastri i quali continuano a considerare il mondo intorno come una cornucopia inesauribile.
E così perseverano nella svendita della loro terra sopra la quale sono nati e camminano, accettano forme di elemosine, continuano a violentare le coste ma non trascurano l’interno.
Balascia, massiccio del Limbàra,è un luogo di bellezza straordinaria. Bene, il sindaco di Oschiri, e la giunta sviluppista che lo sostiene, hanno ceduto una parte del monte - che dovrebbe essere sacro per chi lo abita - ad un’impresa dal nome verdissimo: enel green power. Hanno perfino scomodato il trattato di Kyoto ( ma se ne sono impipati della valutazione d’incidenza ambientale ) e permesso che tonnellate di granito venissero triturate. Hanno sventrato un’enorme superficie al solo scopo di costruire basi di cemento ciclopiche per un numero mostruoso di pale eoliche da installare in uno di luoghi più belli dell’isola. Tutto questo per un contratto di vent’anni. E in cambio hanno ottenuto 40.000 euro l’anno per i primi otto anni e poi 20.000 per gli altri dodici. Inoltre l’1,5 percento del valore dell’energia prodotta ammesso che se ne produca qualche chilowatt. Un’elemosina, appunto. Balascia ha un valore incalcolabile e Oschiri vende un suo pezzo per una manciata di monete. Posti di lavoro? Nessuno. Vantaggi? Solo danni irreversibili e il paesaggio mistico del monte alterato per sempre. Eppure è la loro terra, la stessa che li seppellirà e sotto la quale riposeranno in eterno.
Però le orride pale non sono ancora in piedi. Hanno perforato il monte, questo sì, ma le pale non ci sono ancora perché un tribunale le ha fermate.
Ecco un esempio di sviluppite che può guarire – salvo ricadute - con l’uso delle norme, in giusta posologia e debitamente somministrate. L’energia si può ricavare dal vento, certo, ma secondo le regole.
Le norme inducono alla riflessione e contengono in sé un effetto educativo duraturo che può condurre lo sviluppitico alla coscienza dell’errore. Questo ci auguriamo per il primo cittadino di Oschiri: la guarigione. Allora, risanato, salirà sulla cima del Limbàra, ascolterà il rumore del vento, contemplerà la meraviglia dei graniti del suo monte dopo avere coperto le voragini che ha fatto aprire e scriverà il suo “Infinito”.
La vicenda delle pale eoliche ad Oschiri è solo un esempio, ma è un paradigma.
L’isola, si sa, è assediata da grandi capitali che arrivano da altri mondi e da piccoli capitali locali, forse più affamati dei primi. L’isola è in pericolo per una visione aziendale del mondo, pericolosa nella testa di un popolo come il nostro che arriva dritto da genitori contadini e pastori. Un’idea che prevede un “efficace ed efficiente” sfruttamento del paesaggio.
E pensare che dall’impresa dovrebbe provenire la filosofia di una crescita che dura. Dovrebbe proprio l’impresa pensare uno sviluppo che non si esaurisca nello sfruttamento feroce della terra e delle acque proprio perché l’impresa sa bene che se finisce la propria “riserva” e se la costa diventa un unico lungo albergo vuoto e l’interno un deserto cosparso di pale eoliche e di paesi svuotati, arriverà il momento nel quale la stessa impresa non avrà più nulla da fare. Allora, come si dice, si delocalizzerà. Se ne andrà da altre parti, insomma, e abbandonerà l’isola ad un destino drammatico. Disoccupati, senza scuole, senza trasporti, senza economia e senza nessun futuro.
Proni, poco alfabetizzati, privi di orgoglio e di ragionevolezza, perfino vergognosi delle nostre origini, abbiamo accettato un modello di società a termine, a brevissimo termine. E abbiamo eliminato – con poche eccezioni – la nostra memoria salvo limitarla ad alcuni aspetti, solo apparenti, del passato che duplichiamo in modo artificiale e ossessivo. Noi non siamo quelli che riproduciamo nei nostri depliant.
Non c’è neppure una spiegazione affaristica all’esempio che abbiamo appena fatto, non c’è un guadagno che lo spieghi. Non arricchiscono Oschiri le ventidue pale di Balascia. Ne avrebbe vantaggio di certo la enel green power che ha un nome seducente ma non verdissimo. Si produce un danno che non ha speranza di essere riparato, non si fa bene a nessuno, non si crea neppure lavoro ma soltanto dolore per chi vede la propria terra scomparire dalla vista e dalla memoria. E chi perde il proprio paesaggio - per dolo o per stupidità le conseguenze non mutano - subisce un’amnesia tragica che lo porterà ad un’inevitabile, eterna e spaesata povertà.
Comparso in forma di articolo su La Nuova Sardegna del 14 novembre 2005
Raccontare la realtà crudele come se fosse una realtà radiosa è sempre stato un modo a buon mercato per rendere la vita meno dura. E dirsi bugie sino a convincersi che la bugia sia la verità, aiuta a sopportare il peso dell’esistenza. Chi non si racconta bugie conduce una vita crudele. L’illusione ha un così grande successo perché - come il valium, l’eroina e altre sostanze - aiuta a vivere.
Con lo scopo di creare un’illusione nasce la cosiddetta BIT che è nientemeno che la Borsa Italiana per il Turismo. Una, come si dice, convention di varie realtà regionali tutte rappresentate in modo fittizio, da rotocalco, addirittura mitologico e, in una parola, falso. Alla BIT ogni regione, anche la più devastata, si mostra con una mano di cerone spessa un dito, con tutte le vergogne nascoste e adornata da belle facce di giovani nel fiore degli anni che, si sa, è un fiore che dura poco. La BIT rappresenta una sfilata di luoghi comuni avvilenti.
La Calabria, che la mano dell’uomo ha trasformato in un’ininterrotta serie di orrori lungo la costa tirrenica - senza dimenticare quella ionica - si presenta alla BIT come una terra vergine e incontaminata. La Sicilia, che non possiede più un chilometro di costa conservato, è altrettanto vergine agli occhi della BIT anche se è deflorata da decenni. E tutte le regioni italiane sono, alla BIT, giovani intatte, mai toccate dalla mano volgare dell’uomo.
Cagliari, alla BIT, è la capitale del mediterraneo ma nel mediterraneo non lo sa nessuno. Marsiglia, Napoli, Barcellona e varie altre città non sono informate che la loro capitale è Cagliari.
Le nostre coste, alla BIT, sono uniche. Ma anche questa è una notizia della quale non sembra che tutti tengano conto e qualche eretico trova belli altri mari e altre coste.
E poi, oltre alla balla che viviamo nel migliore dei mondi, c’è un’idea mortificante che la BIT propaga: l’idea che un viaggio non è più un viaggio. Il viaggio si chiama “prodotto turistico”, il viaggio è diventato un prodotto.
Questa espressione, a rifletterci, è un’espressione drammatica. Il “prodotto turistico” annuncia un futuro privo di fantasia, privo di ogni processo di ideazione personale. L’idea stessa del “prodotto” asfissia anche la fantasia più libera. Immaginare, provare, sbagliare, arrivare alla conquista più piccola – anche la cottura di un uovo – attraverso la sperimentazione personale, avere un colpo di fantasia, e mettersi in viaggio liberamente, alla BIT non è accettato. Questa faccenda di inventarsi le cose, di cuocersi le uova da soli o di progettarsi addirittura un viaggio viene considerata come un male da estirpare. Non c’è più nulla da inventare, non è più necessario.
Tutto, alla BIT, è racchiuso in un marchio, fondato su un simbolo. E le regioni, per farsi riconoscere dalla gente, non utilizzano più le bandiere: utilizzano un marchio da appiccicare al prodotto.
La Sardegna si è procurata il suo marchio: una madre mediterranea circolare, con le pudende e tutto il resto. Il simbolo lo ha scelto un grande pubblicitario, tanto bravo che ha perfino resuscitato il senso estetico di alcuni consiglieri regionali i quali hanno discusso in aula e in televisione di cosa è arte e cosa non lo è, come in un dialogo di Platone. Un risultato rivoluzionario.
Però il fatto è che dietro ai simboli - geniali o no che siano - si trovano bugie.
La nostra isola alla BIT è stata rappresentata in bianco e nero e questo ha urtato il senso del bello di alcuni che vorrebbero la Sardegna sempre e tutta a colori. Ma il bianco e nero è l’unico modo possibile di rappresentarci.
Il pubblicitario – che alle volte è una specie di sensitivo – ha intuito bene quando ha scelto di non usare gli altri colori. Il verde, l’azzurro, il celeste e tutti gli altri colori gli sono mancati, ed è giusto così. Noi siamo un popolo in bianco e nero.
Sarebbe offensivo dimenticare in un tripudio di colori cosa succede da queste parti.
E noi alla BIT, per decenza, non dovevamo esserci.
La BIT è una caricatura, è un esempio perfetto di come il mondo non deve diventare.
Dell’isola non si deve mai più parlare, pochi devono sapere che esiste perché l’unico modo per conferirle un valore è il silenzio e l’invisibilità che l’ha sempre avvolta nei millenni.
Se oggi tragicamente un’intera generazione ha vissuto il dolore di un lavoro incerto perché si è pensato di costruire ciminiere e fabbriche che non avevano nessun passato e nessun futuro, se oggi qualcuno cerca di ingannare la generazione successiva con l’illusione di un’immensa Rimini di plastica dove i viaggi sono “prodotti” impacchettati, tutto questo si deve alla cosiddetta “visibilità” che è una malattia mortale, una strada senza ritorno.
Appena si diviene visibili si diventa anche un oggetto consumabile in tempi rapidi. E noi, sopravissuti per millenni, in pochi anni scompariremo ingoiati dalla “visibilità”.
Eravamo un piccolo popolo invisibile, nessuno ci conosceva e tutto avveniva da altre parti.
Ora la BIT ci vende come un prodotto e davanti a quest’idea si capisce che la distruzione è certa e molto vicina.
Alla prossima Borsa italiana per il turismo la Sardegna dovrebbe essere cancellata e noi non dovremmo più esistere per il mondo perché ci è sufficiente il danno che il cosiddetto mercato e le cosiddette borse hanno causato.
Ieri, a Villasimius, una giornata invernale e grigia, l’ansa della spiaggia, lo stagno pieno d’acqua e di vita erano bellissimi. Ma appena gli occhi si posavano verso il ripugnante albergo a tre piani che con violenza occupa ogni spazio sino ai margini dello stagno si poteva vedere cosa è in realtà un “prodotto turistico”. Poi, spostandosi di poco, si vedeva come, per procurare altri “prodotti turistici”, si sono fatte scomparire spiagge che, BIT dopo BIT, sono rimaste solo nelle fotografie.
L’unica possibilità di conservarci integri è che il silenzio e la dimenticanza ritornino ad essere gli unici padroni dell’isola. Zitti, dimenticati, impercettibili, invisibili.
Quest'articolo è comparso su la Nuova Sardegna nel luglio 2005
Da quando i sindaci e le giunte comunali hanno diviso l’isola in fettine di diverso prezzo, in vendita come sul banco di una macelleria ( c’è un etto in più, lo lasciamo ? ), da quando i sindaci e le giunte si sono convinte di essere i padroni di questi bocconi di territorio e ne fanno commercio, da allora tutte le parti sono esposte su un bancone planimetrico e hanno un cartellino del prezzo, come il filetto, controfiletto, sottopancia, giù giù sino ai garretti. Una grande bottega.
Chia, comune di Domus de Maria, sud ovest dell’isola, da molti anni è un luogo interamente in vendita perché un ingegnere occhiuto aveva capito molti anni fa che la bellezza di Chia era un grande valore commerciabile come un vestito o un auto oppure, appunto, come un capocollo. E da allora anche il sindaco di Domus de Maria ha vestito il camice del venditore. E così tutto è in vendita a Chia, tutto è visto in forma di metro cubo. E così Chia, che era una vergine prudente, ora è divenuta una sfacciata e si prende malattie contagiose all’angolo di una strada perché, a modo suo, si è data un valore in monete sonanti.
Certo, con la parola valore sono incominciati molti dolori per l’Isola e, quindi, anche per le coste di Domus de Maria. Ma ogni volta che una vendita inizia finisce solo quando si è spolpato tutto l’animale.
La parola valore… La parola valore muta significato di continuo a seconda di chi la pensa e la pronuncia. Non si riesce a farne un uso oggettivo perché ognuno possiede, naturalmente, una sua idea di valore. Così il termine valore assume significati diversi a seconda della bocca che fa da passaggio al suono.
Se il sindaco di Domus de Maria usa la parola valore riferendosi alla bellezza della spiagge di Chia oppure se il giovane Werther, capitato da queste parti, parla anche lui del valore di Chia, i due stanno parlando di due diverse categorie di pensiero che sulle labbra hanno lo stesso suono però non risuonano nello stesso modo dentro la testa di chi parla e neppure di chi ascolta. Sulla bocca del sindaco imprenditore turistico la parola valore assume un suono tenebroso. Sulla bocca di Werther assume un valore ideale, filosofico e di principio.
Si può osservare che anche il sindaco avrà di certo un suo ideale di valore. Lui è un imprenditore turistico e, festosamente, vedrà il mondo come un grande, immenso villaggio dove si mangia, ci si unge di olio, si fa il bagno, si mangia ancora e si danza sino a notte. Ma le notti di Chia, sono divenute notti di Valpurga. Per questo, pronunciato da lui, il termine si impregna subito di un significato angoscioso che mette i brividi.
Se il sindaco sviluppista di Olbia, quello di Teulada che conta le stelle dei futuri alberghi, il sindaco edile di San Teodoro, quello di Arbus e della sua costa rosticceria, quello di Palau che, travolto dai metri cubi, murerà perfino sé stesso, se il sindaco di Villasimius perso in un labirinto di mattoni, e se i tanti nostri sindaci d’impresa utilizzano la parola “valore” allora la terra trema, la costa e le rive tremano e si sentono perdute. Addio pace e innocenza.
Ma restiamo all’esempio di Chia.
Chia è un luogo spirituale dove il bello naturale si avvicina al divino. Però è anche un luogo violentato che, come una giovane incantevole ma in agonia, conserva una bellezza pallida e più seducente proprio perché è in pericolo mortale.
Vediamo quale significato può possedere la parola valore applicata a Chia.
Chia è un valore assoluto e metaforico. Assoluto perché rappresenta, nella sua parte intatta, un patrimonio perenne e perciò da non sfiorare e neppure calpestare. Metaforico perché contiene in sé un’idea di violenza ( quello che le è stato fatto e che si cerca di farle ) insieme a un’immensa meraviglia ( quello che non è stato toccato ). Insomma, Chia rappresenta allegoricamente lo stato della nostra isola: metà distrutta e metà conservata.
Perciò, se siamo d’accordo che Chia è un valore che si accresce quanto più conserva la sua parte intatta, allora noi questo valore dobbiamo conservarlo. Conservare… Nell’idea stessa del conservare è contenuta un’intera filosofia. Conservare significa anche comprendere il valore di quello che troviamo, comprenderlo e poi disporlo in un unico sapere.
La Conservazione, mentre tutto viene consumato selvaggiamente, è una novità rivoluzionaria, una conquista civile, l’unica difesa possibile della nostra terra, di noi stessi, perfino del nostro corpo. La Conservazione è una difesa contro il feroce sviluppismo che è la peste dell’isola e che come la peste si manifesta in maniera epidemica gonfiando sino alla mostruosità il modello metrocubico delle coste. La Conservazione dell’intatto giustifica la nostra stessa esistenza che ha una spiegazione solo se troviamo il filo che ci unisce al passato. E se non conserviamo noi stessi e il Creato intorno non lo troveremo più il nostro passato, come un malato che ha perduto la memoria delle cose lontane perché il cervello si è ammalato.
Senza Conservazione restiamo sciocchi che però non otterranno il regno dei cieli, smemorati che si illudono di diventare più ricchi con le minutaglie delle ricchezze altrui, divoratori di resti. Saremo consegnati alle generazioni future come i volgari devastatori di un paesaggio che era meraviglioso ma troppo mite e innocente per opporsi.
E tutto perché, creduli e ignoranti, ma non innocenti, abbiamo dato alla parola valore lo stesso significato che il macellaio da al quarto di bue appeso al gancio, sanguinante e pronto per essere tagliato come il cliente ordina. E noi verremo ricordati, se questa distruzione continua, come i macellai della nostra terra.
Articolo pubblicato su la Nuova Sardegna l'8 agosto 2005
Alla corte di Luigi sedici, in un film molto visto alcuni anni fa, c’era il personaggio del “garçon pipì”, un poverino che avvicinava l’orinale ai ricchi durante le feste perché i ricchi non fossero costretti ad allontanarsi dalla festa per un bisogno banale.
Ci sono state tante rivoluzioni e il ruolo del “garçon pipì” si è trasformato. Oggi si chiama in altri modi più aggiornati ma esiste sempre qualcuno che per un moto dell’anima si sente un “garçon pipì” e resterà “garçon pipì” sino al momento del trapasso dopo aver messo al mondo altri “garçon pipì” che tramandano questa attività insostituibile.
Ovviamente l’isola, come ogni luogo, ha generato i suoi “garçon pipì” i quali svolgono l’attività nella loro terra e alla terra restituiscono il prodotto del loro lavoro. E nel continente, nei luoghi dove ce n’era bisogno, sono emigrati dei “garçon pipì” isolani. Però molti sono rimasti in patria perché l’attività per loro non va male da queste parti. Il “garçon pipì” non conosce la cassa integrazione e di norma sostiene, insieme all’orinale, anche un suo modello di sviluppo.
Beh, quello che vogliono fare alle nostre coste da queste parti, esige un rilevante reclutamento di persone che tengano il pisciauolo a chi genera - stando lontano - certi affari in nome di un interesse economicamente superiore e moralmente inferiore.
Questo ricordo cinematografico del “garçon pipi” ci è venuto in testa vedendo la lugubre mappa – esiste una mappa – dei campi da golf nella nostra isola dove tutto potevamo immaginare salvo che una proliferazione di green con buche, mazze e tutto il resto.
Per un magro campo da golf in una pineta di grande valore, in un sito di (insufficiente) importanza comunitaria, in un luogo protetto (poco) dalle direttive habitat, sono state abbattute molte migliaia di pini in un’area di 20 ettari di pineta. Nel drammatico sito internet del golf di Is Arenas vengono glorificate alcune caratteristiche del percorso. Si raccomanda la buca 14 che non è, pare, una buca come tutte le altre. E’ un’apertura di charme e sembra che i golfisti si emozionino quando arrivano a certi buchi. Si segnala la 16, percossa dal maestrale scortese che devia le palline in volo, mentre la 17 è definita addirittura una buca maestosa.
Altrettanto melanconici sono gli altri siti sul golf nella nostra isola assolata, dove tenere la mazza al giocatore è molto più faticoso che da altre parti.
Però attenzione, ché i veri garzoni non sono i caddy ( che speriamo non esistano più come gli spazzacamini ) ma sono quelli che creano qua - nella propria terra - le condizioni perché qualcuno lontano, nella forma di fantasma che non appare mai, affermi la propria forza e costruisca mura e castelli orrendi intorno alle buche. Gruppetti d’affare locali i quali, a forza di buchi in un suolo che non dovrebbero neppure calpestare, corrono dietro ad altri affaristi molto più grandi che albergano lontano, in silenzio, avvolti solo da fruscii delicati. Irraggiungibili.
Ma la buca, si sa, è solo un mezzo.
Ora, intorno alle buche magiche, qualche metrocubista vorrebbe, a pochi metri dalle acque sacre di Is Arenas, costruire ancora centinaia di migliaia di metri cubi che avrebbero per epicentro proprio la fascinosa buca 14. Eppure già troppa distruzione è avvenuta intorno a questa buca.
Per fortuna qualcuno si è opposto, ha sopportato denunce e processi, uscendone vincitore e ristabilendo un principio che dalle nostre parti non è chiaro a tutti ossia che esistono le armi del diritto: esistono le leggi. Perciò non si possono impunemente disboscare ettari di pineta, inquinare falde acquifere in una zona già oppressa dalla siccità, alterare il profilo di dune che erano là da chissà quanto tempo, sconvolgere un paesaggio credendosi un semidio, tutto per costruire un misero campo da golf.
Nell’isola – dove il sole a picco cuoce i cervelli – ci sono molti campi costruiti e molti campi da costruire. L’ex sindaco di Sassari ne aveva annunciato uno perfino nella Nurra che sembrava non poterne fare a meno. Una stravaganza che, secondo l’ex borgomastro, lancerebbe la Nurra nei circuiti planetari del golf. Fantastico. Ma il bandito Giovanni Tolu, si sa, gira ancora da quelle parti in forma di spettro e farà inciampare nelle buche della Nurra qualche golfista che vi scomparirà dentro, ingoiato dal centro della terra.
Chi metterebbe un fico d’india nella foresta nera oppure un nuraghe in central park? Neppure il più depravato urbanista. Invece qualcuno vuole, per l’isola, campi da golf desolanti che sono, appunto, proprio come un prato di stelle alpine in mezzo ai fichi d’india. E di campi ne vengono fuori dappertutto, con buche descritte come tabernacoli davanti ai quali si cade in ginocchio mentre sono solo buchetti per terra.
Il ragionamento è semplice. Costruiamo un campo da golf e allora ci servirà almeno una club house e poi, secondo logica, ci servirà un albergo, ci serviranno residenze, cemento, mattoni ecc. ecc. I nuovi comuni saranno fondati su una buca, cresceranno intorno a campi da golf e avranno il loro sindaco golfista con la mazza in pugno.
Ogni paese, salvo quelli scoscesi e a rischio di frane, vorrà il suo campo, il suo assessore al golf e la sua buca sarà più bella delle altre buche.
Ogni buca moltiplicherà il destino eterno e melanconico dell’indigeno cameriere, caddy, portamazze, muratore, schiavo in tutti i casi. Ogni green intossicherà il paesaggio soffocato dall’erba cannibale che incenerisce le altre piante innocenti.
Il padrone lontano, nei giorni e nei momenti giusti, si materializzerà nell’isola per prendere un poco di sole, e troverà il suo piccolo regno conservato e difeso dal proprio “garçon pipì” il quale mantiene in ordine le cose quando il padrone non c’è. La sua vita è una vita di mezzo, levitante tra la ricchezza che non otterrà mai e la povertà alla quale può ritornare da un momento all’altro.
Ha ragione il “garçon pipì”e a tremare anche davanti a corone di latta e troni di cartapesta. Senza la protezione del principe può precipitare dentro una buca che non è la 14, né la 16 o la 17, ma una buca molto più grande e tragica che gli si richiuderebbe sopra. Coperto, per sempre, da un mantello di edelweiss.
Articolo pubblicato da la Nuova Sardegna nel luglio 2005
Un candidato sindaco di un paesino dell’isola, vista mare, ha affermato in campagna elettorale che lui, se lo avessero eletto, avrebbe antropizzato gli uffici del comune e l’intera giunta. E ha spiegato, per gli elettori meno istruiti, che antropizzare, secondo lui, significava “umanizzare”. E così, siccome esiste un po’ di giustizia, si è giocato l’elezione e non antropizzerà mai un bel nulla salvo, forse, sé stesso.
Antropizzare significa lasciare il segno dell’uomo sul Creato. Fatto sta, però che, a causa degli urbanisti i quali fanno un uso sfrenato di questa parola, il verbo antropizzare si sta diffondendo e assume significati molteplici, alle volte inventati come nel caso del candidato sindaco antropomorfico. E qualche raffinato parla di impatto antropico oppure di forza antropica o di energia antropica ecc.ecc.
Anche nell’isola si antropizza l’antropizzabile.
Un bell’esempio è costituito dalla giunta antropica di Narbolia che per antropizzare intende, con ossessiva costanza che dura anni, costruire qualsiasi cosa oppure distruggere qualsiasi cosa. Tanto, sempre antropizzazione è.
Guardate cosa vogliono fare della costa di Santa Caterina di Pittinurri. Alberghi per i golfisti che accorrono affascinati dalle diciotto buche del campo di Is Arenas. Il responsabile della srl Is Arenas, dice che con le diciotto buche si richiamano dodicimila vacanzieri l’anno, la bellezza di settecento turisti per buca, tutti di prima scelta, i quali verrebbero qua per le buche e il mare accuratamente antropizzato. I turisti non vanno, per una loro regola, in posti poco antropizzati e più buche e alberghi trovano, più numerosi là si affollano. Così l’srl Is Arenas antropizza una pineta immensa, considera una procedura europea di infrazione come un “fastidio” antiantropico e vuole antropizzare sempre di più, ossia usurpare con i mattoni un luogo perfetto ma senza difesa dagli affaristi d’oltremare e dai camerlenghi locali. La stessa stoffa antropologica dei camerlenghi che avevano già servito, anni fa, i “filosofi” dell’industria nell’isola i quali hanno condannato un’intera generazione all’incertezza del lavoro, alla sofferenza di uno stipendio sfuggente come un’apparizione. Anche quei sapienti antropizzavano l’isola, e i loro maggiordomi li definivano filantropici.
Così oggi abbiamo un’industria che deturpa il golfo detto degli Angeli, antropizzati, ciminiere spente e licenziamenti dappertutto. E cercando nuova ricchezza dissipiamo in un attimo – curvi davanti alla prima srl che arriva – il tesoro enorme dell’intatto che ancora ci resta.
Che delicatezza nel verbo antropizzare. Si evita, con una parola, di usare sinonimi duri, poco eleganti come, ad esempio, distruggere, speculare, arricchirsi in pochi, dissipare il patrimonio naturale che possediamo. Un intero dizionario sgradevole riunito in un solo vocabolo elegante e snello che dice tutto.
L’isola, dal capo di sopra sino a quello di sotto, si antropizza e si conduce da sola al patibolo, contenta di stringersi il cappio da sola.
Narbolia è uno dei comuni che sarebbe ricco se solo si fermasse a riflettere. L’srl Is Arenas vuole costruire sulle sue coste, dove non si deve. Tutto qua è il succo. L’srl Is Arenas vuole antropizzare le coste di Narbolia. Non comprende, il sindaco di quel comune, che l’unico patrimonio in suo possesso, l’unico vero valore economico durevole, l’unico diamante di famiglia non può essere svenduto in un folle saldo. E’ chiaro: se conserva il paesaggio intatto, come per i diamanti, il valore risiederà tutto nella sua purezza e aumenterà.
Ma non c’è nessuna speranza.
Ad Oristano il temerario consiglio comunale ha detto sì ad una struttura turistica che si chiama spiritosamente “Su mattoni”. Ora, chiamare un’opera architettonica “su mattoni” è, almeno, un segno di franchezza. Spiega qual è l’orientamento vero della giunta il cui ago magnetico è rivolto in una sola direzione: cemento per tutti. E’ bastata una variante goliardica al Puc ( che ci vuole? ) e ora si costruiranno 500 posti letto, campi da gioco, una cosiddetta area spettacoli. Beh, si può già immaginare quanto sarà bello “Su mattoni”. Non c’è valium o alcol che lo renderanno sopportabile. Non ce lo invidierà neppure il più disperato degli uomini. La trasformazione dell’isola in una Rimini dei poveri è un segno raccapricciante di un declino dei costumi e, soprattutto è un impoverimento definitivo e irreversibile.
Chi è stufo di Rimini viene nell’isola perché gli hanno detto che ci sono acque terse e spiagge intatte. Viene e cosa trova? Un luogo che si chiama “Su Mattoni”. Un luogo antropizzato dalla giunta umoristica di Oristano che vorrà antropizzare anche il Sinis perché così è solo un deserto senza case e senza mattoni. E poi, questo Sinis, produce troppo poco e potrebbe dare molto di più che quattro uccelli, stagni con zanzare e qualche muggine.
Ogni sconcezza verrà definita come un segno di antropizzazione e la raffinata parola farà fare una bella figura al sindaco che la pronuncia. E’ una parola da tenere d’occhio. Hanno antropizzato il Poetto, Villasimius, Chia, la Gallura intera, la Costa Verde, monti e lagune, isole e arcipelaghi. Antropizzano tutto quello che trovano.
Per antropizzarci completamente ci manca di antropizzare l’amore che è ancora troppo naturale, troppo lasciato al caso: bisogna umanizzarlo, organizzarlo e renderlo fruttuoso. Bisogna investire sull’amore, è necessario un amore efficace e antropizzato, appunto. Ma siamo già sulla buona strada e chi ben inizia, si sa, è a metà dell’opera. Tra poco, questione di mesi, qualche giunta proporrà un villaggio color confetto dedicato al turismo sessuale che colpevolmente curiamo troppo poco ed è ancora rudimentale dalle nostre parti. E chissà come questo luogo di svago verrà battezzato. Migliaia di posti letto con letti di ogni tipo e a meno di due chilometri dalla costa.
Così nell’isola, già antropologicamente prostituita da anni, si concluderebbe il processo sottile dell’antropizzazione totale. Se porta turisti va bene anche il turismo sessuale. Tanto, chi ha dato via la propria terra e la propria memoria può dare via anche tutto il resto. Purché ci antropizziamo in fretta e la facciamo finita.
Articolo pubblicato da la Nuova Sardegna domenica 17 luglio 2005