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Qualche giorno fa Vinton Cerf, il padre di Internet e grande autorità dell’informatica, ha tenuto una conferenza nella città universitaria>>>

Qualche giorno fa Vinton Cerf, il padre di Internet e grande autorità dell’informatica, ha tenuto una conferenza nella città universitaria tedesca di Heidelberg sul tema: “Come conservare i dati digitali”. La modernizzazione della società passa attraverso la diffusione dei sistemi elettronici di telecomunicazione, dai computer ai telefoni cellulari, a cui sono affidati pensieri, messaggi e innumerevoli testi, dalle lettere personali a libri e articoli scientifici, a fotografie, a dati relativi alle infinite attività umane come rilevamenti dell’inquinamento, dati meteorologici, fino alle denunce delle tasse e a documenti della pubblica amministrazione. Fino a quando riusciremo a ritrovare e consultare questi documenti digitali?

«Io non riesco a leggere delle lettere importanti scritte anni fa - ha detto Cerf - perché i programmi con cui sono state scritte non esistono più. Ancora peggio non riesco ad accedere a testi scritti originariamente su nastri magnetici» perché gli ossidi di ferro hanno perso la magnetizzazione o perché non ci sono più strumenti per “leggerli”. Grandi sforzi sono stati e vengono continuamente fatti per informatizzare uffici, archivi e biblioteche e per affidare a supporti informatici i propri scritti. L'informatizzazione è stata ed è di grandissima importanza. Non c'è dubbio che il possesso di un computer e di un collegamento con Internet permette a qualsiasi persona, dovunque si trovi, e in qualsiasi ora del giorno e della notte, di accedere ad una massa incredibile di informazioni. La conoscenza così assicurata è certo liberatoria e anzi rivoluzionaria, accessibile anche alle classi meno abbienti, a coloro che non possono andare di persona nelle biblioteche pubbliche e negli uffici.
Comincia però a circolare qualche preoccupazione sulla "durata" delle informazioni e conoscenze affidate alle misteriose ultramicroscopiche sequenze di segnali magnetici depositati su un supporto di pochi grammi di plastica e metalli vari. I primi computer personali affidavano i dati a dischetti flessibili da "cinque pollici e un quarto"; i messaggi si "depositavano" su tali dischetti traducendo le lettere e i segni in segnali magnetici mediante "programmi" come Wang, WordStar e poi varie versioni di Windows, ecc. I progressi dell'elettronica hanno permesso di "compattare" le informazioni su dischetti più piccoli, da "tre pollici e mezzo" e poi ancora su dischi magnetici, capaci di contenere molte più informazioni ma che potevano essere “letti” soltanto con computer differenti. Senza contare che anche i "dischi" si deteriorano, sono soggetti ad attacchi di parassiti; nei climi caldi sono letteralmente mangiati da funghi; in alcuni casi lo strato magnetico è alterato dall'inquinamento.
Non solo, quando un computer cominciava a fare le bizze (io ne ho cambiati otto o nove in trenta anni) bisognava sostituirlo e il nuovo spesso non era capace di "leggere" quello che era stato scritto con il computer precedente e che si doveva considerare "perduto" se non veniva trasferito su un supporto magnetico leggibile dal nuovo computer. Bisognava così ricorrere a dei professionisti capaci di estrarre dai vecchi supporti magnetici e dai vecchi computer le informazioni scritte con programmi e macchine ormai in disuso; dei recuperatori di testi nascosti simili ai monaci che copiavano a mano su carta i testi greci e latini scritti su pergamena, sparsi nelle biblioteche medievali.
Cerf ha suggerito di creare musei di computer di moltissimi tipi, capaci di leggere parole e immagini registrate con sistemi operativi dimenticati, e archivi dei codici di linguaggio (alcuni noti solo ai produttori) con cui sono stati scritti i sistemi operativi, da tenere continuamente aggiornati ed efficienti, se non si vuole diventare “fantasmi nella storia”. Anche molti testi “pubblicati” su Internet appena pochi anni fa non si trovano più o perché il sito che li ospitava ha cambiato nome o localizzazione o perché sono stati cancellati; molti non si trovano più neanche nello speciale Internet Archive che pur cerca di conservarne una parte. La stessa crescente diffusione dei libri elettronici, meno costosi di quelli di carta, più “ecologici” perché permettono di non tagliare alberi e di inquinare di meno le acque, ci induce a porci la stessa domanda: fino a quando saranno leggibili?
Un problema non banale come dimostra il fatto che nel 2013 l’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Istruzione, la Scienza e la Cultura, ha riunito a Vancouver 400 bibliotecari di tutti i paesi per discutere su come conservare la memoria del mondo nell’era digitale. C’è il rischio che fra pochi decenni i nostri figli e nipoti restino ciechi e sordi davanti a quello che noi oggi avevamo scritto, detto, raccolto, fotografato e registrato per loro, tanto più, ha detto ancora Cerf nella sua conferenza, che dell’importanza di una informazione spesso ci si rende conto soltanto dopo secoli.
Con tutti i nostri progressi, finora soltanto l'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1450) e la diffusione della carta hanno permesso di riprodurre testi duraturi; esistiamo e comunichiamo grazie a queste due invenzioni che ci permettono di trovare e leggere, come se fossero scritti ieri, libri e giornali e immagini “vecchi” anche di centinaia di anni. Voi dite quello che volete, ma io un testo digitale che mi sta a cuore, che vorrei fosse leggibile ancora fra trent’anni, me lo stampo su carta.
L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Assisto come tutti, al vivace dibattito che si svolge in Italia e in Europa sui grandi temi delle riforme istituzionali, della crescita del Prodotto Interno Lordo >>>

Assisto come tutti, al vivace dibattito che si svolge in Italia e in Europa sui grandi temi delle riforme istituzionali, della crescita del Prodotto Interno Lordo PIL e del lavoro, sulla necessità di fermare l’immigrazione, di aumentare i consumi, di realizzare grandi opere, sulle eccellenza di cui possiamo vantarci: auto di lusso, moda, gioielli, specialità alimentari. Ogni tanto, magari, appaiono notizie sulle condizioni miserevoli di centinaia di migliaia di immigrati lavoratori stagionali, ammassati in rifugi malsani, di città e strade allagate, di italiani poveri che talvolta non hanno di che mangiare, di fastidiosi dimostranti che protestano per la perdita del posto di lavoro nelle fabbriche e negli uffici, di fumi tossici che appestano l’aria di alcune città, di schiumose acque di fogna che finiscono nel mare anche nelle delicate zone naturali.

Sono comunque lontani i tempi di quarant’anni fa, quando l’ondata della contestazione ecologica ha investito l’Italia e il mondo, e tanti sostenevano invece che il degrado e l’intossicazione dell’ambiente erano proprio dovuti al “dovere” di far crescere il PIL, accusato di essere il triste indicatore che accompagna la produzione di merci e il conseguente inevitabile inquinamento dell’aria e delle acque e l’impoverimento delle risorse naturali, l’indicatore che cresce anche se aumentano gli incidenti stradali e il gioco d’azzardo.
Tutte queste ubbie della contestazione sono state “fortunatamente” spazzate via dalla saggezza dei governanti che nella crescita economica e dei consumi vedono l’unico rimedio alle crisi economiche, la ricetta per il glorioso cammino dell’umanità, anzi per la stessa soluzione dei problemi ambientali. Spazzate via ma non del tutto; nelle settimane scorse sono calati a Roma i rappresentanti dei movimenti popolari internazionali per discutere dei temi, squisitamente ecologici: “terra, casa, lavoro”, chiedendo solidarietà e giustizia contro gli effetti distruttivi del potere economico. Erano persone delle cooperative agricole, dei sindacati, dei raccoglitori e riciclatori di rifiuti, dei lavoratori delle miniere, e hanno descritto le condizioni miserevoli in cui vivono nel mondo duemila milioni di persone: in certe zone con un gabinetto ogni ottocento persone.
La voce di questi movimenti è stata raccolta dal Papa Francesco che ha tenuto un lungo discorso, di cui ha parlato anche questo giornale, riconoscendo l’origine dello scandalo della mancanza di abitazioni, di lavoro, di terra proprio nel “culto idolatrico al denaro”. «All’inizio della creazione, ha ricordato il Papa, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla». Questo disegno è stato sconvolto dall’accaparramento di terre, dalla deforestazione, dall’appropriazione dell’acqua, dai pesticidi, tutte forme di violenza ecologica che hanno strappato intere generazioni dalla loro terra natale. E ha continuato: «Durante questi incontri avete parlato di pace e di ecologia. E’ logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo la pace e se distruggiamo il pianeta. Tutti i popoli della terra, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi».
E ancora: «Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire più di tutti siete voi, gli umili, voi che siete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte ad un disastro naturale. Il creato non è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso». A proposito della casa il Papa ha ricordato che «un tetto, perché sia una casa, deve avete anche una dimensione comunitaria. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini. Città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie, che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra».
Ho voluto riprodurre letteralmente queste parole del Papa perché, a mio parere, contengono un programma di azioni che assicurerebbero un genuino sviluppo anche nel nostro paese, occasioni di quel lavoro che in Italia manca. Al di là delle fittizie proposte di merci verdi, bio, sostenibili, come le chiamano, la soluzione dei grandi problemi del nostro paese richiede progetti di occupazione per produrre cose realmente utili, nuove e diverse città, beni materiali e servizi capaci di soddisfare dei veri bisogni umani. Bisogni di mobilità decente, di abitazioni con servizi adeguati, di acqua e depuratori delle fogne, di difesa del suolo e di rimboschimento, anche per rallentare i cambiamenti climatici, bisogni di alimenti a prezzi che siano remunerativi per gli agricoltori e accessibili alle classi meno abbienti. E infine lavoro per sollevare dalla miseria, in tanti paesi del mondo, chi non ha acqua, elettricità, medicine, case: una ingegneria senza frontiere «affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra». Grazie al Papa ecologo.

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E’ passato mezzo secolo da quando l’economista Kenneth Building (1910-1993) ha scritto dei contributi fondamentali destinati a sollevare una ondata >>>

E’ passato mezzo secolo da quando l’economista Kenneth Building (1910-1993) ha scritto dei contributi fondamentali destinati a sollevare una ondata di attenzione per i problemi ambientali. Boulding era nato in Inghilterra a Liverpool, si era laureato a Oxford nel 1931 e nel 1932 era poi emigrato negli Stati Uniti dove era stato professore di Economia nelle Università dello Iowa, del Michigan e infine del Colorado. Boulding fu un apprezzato economista e anche presidente della Associazione Americana degli Economisti ma la sua maggiore fama gli venne da alcuni scritti provocatori sui problemi ambientali che risalgono agli anni sessanta del Novecento, quando cominciava a circolare l’attenzione per la scarsità delle risorse naturali e per gli effetti degli inquinamenti.

Bastava il buon senso per osservare, come quasi nessuno allora faceva, che ogni attività “economica” consiste nel trarre dei beni dalla natura, nel trasformarli in oggetti, in beni materiali commerciali, e che in tale operazione si formano scorie e rifiuti che finiscono nell’ambiente circostante danneggiandone gli abitanti. A differenza di quanto avviene nei cicli ecologici, in cui (quasi) tutte le scorie sono rimesse in circolazione, utili per altre forme di vita, nei cicli economici la natura resta impoverita da quanto gli umani portano via dal terreno, dalle miniere e dai pozzi, e le scorie si accumulano come crescenti corpi estranei dannosi per l’ambiente.
Il ciclo dei beni “economici” della natura riesce ad andare avanti con continua espansione perché il pianeta Terra è molto grande. Ma, avvertì Boulding, fate attenzione e guardate la storia degli stessi Stati Uniti; i primi pionieri, all’inizio del 1800, sono sbarcati dall’Europa sulle coste atlantiche avendo davanti terre sterminate, boschi e pascoli in cui allevare allo stato brado animali che potevano fornire la carne ad una popolazione crescente e ne avanzava anche per l’esportazione. Il cowboy è stato ed è il simbolo dell’America; spinge gli animali nei pascoli e poi nei macelli e i pascoli apparivano senza fine; se i pascoli più vicini si impoverivano, ci si poteva spingere verso l’Ovest, il Far West, dove acque e pascoli e boschi permettevano la continuazione di crescenti attività economiche.
I pionieri americani avevano potuto correre verso l’ovest uccidendo i nativi, i “pellerossa”, e distruggendo le popolazioni dei bisonti che vivevano in libertà nei pascoli senza padroni e fornivano il nutrimento dei nativi. Con l’avvento della “civiltà” le grandi terre libere vennero frazionate e assegnate a proprietari che potevano sfruttarle a proprio piacimento. A mano a mano che i terreni e i pascoli diventavano meno fertili per l’eccessivo sfruttamento, c’era pur sempre un “altro Ovest”, fino a quando i pionieri e i cowboys si sono trovati davanti alle Montagne Rocciose. Ma anche quelle potevano essere scavalcate verso le fertili terre della California; impoverite anche quelle, i cowboys si sarebbero trovati davanti l’oceano in cui non ci sarebbe stato nessun pascolo di cui appropriarsi e nessun animale da vendere e macellare.
Boulding scrisse che non sarebbe stato possibile continuare a vivere sul pianeta Terra secondo l’“economia del cowboy” e che sarebbe stato necessario organizzare la vita economica riconoscendo che, per quanto grande, la Terra è uno spazio chiuso, grande ma non infinito, non diversa, fatte le proporzioni, da una navicella spaziale. Gli astronauti possono contare soltanto sulle risorse che si trovano dentro la navicella e dentro la stessa navicella, e in nessun altro posto, possono mettere i loro rifiuti. Anche gli astronauti, che siamo poi tutti noi, della “navicella spaziale Terra”, Spaceship Earth, possono trarre tutto quello che gli occorre soltanto dal nostro pianeta e soltanto li dentro possono mettere i loro rifiuti.
Negli anni sessanta del Novecento il concetto di Spaceship Earth guadagnò la prima pagine dei settimanali, fu il titolo di libri e articoli e ispirò la prima Giornata della Terra dell’aprile 1970. L’attenzione di Boulding per il destino ecologico degli abitanti del nostro pianeta aveva anche una radice etica: Boulding, Era quacquero, seguace di una “chiesa” basata sul pacifismo, sul rifiuto delle armi e della guerra, sull’austerità e sulla nonviolenza, e come tale riconosceva che anche lo sfruttamento dei beni comuni naturali e gli inquinamenti e gli sprechi sono forme di violenza agli altri abitanti del pianeta, al “prossimo” e fonti di conflitti.
Personaggio di grande interesse umano, oltre che scientifico, Boulding è stato instancabile nel “predicare”, direi, la necessità di un cambiamento nelle regole dell’economia, compatibile con i vincoli ecologici della Terra, la necessità di porre dei “limiti” allo sfruttamento delle risorse naturali. Boulding non è più citato neanche nei testi di economia; eppure la navicella spaziale Terra è sempre quella, con le sue terre e i suoi oceani; anzi è raddoppiato in mezzo secolo, il numero degli “astronauti”, ormai sette miliardi, che la occupano, tutti impegnati a portare via alimenti, alberi, minerali, fonti di energia, e a mettere dovunque i rifiuti dei loro consumi, tutti sperando che succeda qualcosa che ci consenta di continuare il nostro comportamento da cowboy. Purtroppo anche nel caso della Terra, nessuno ci può portare da fuori qualcosa, cibo o acciaio o petrolio, e non possiamo gettare il nostro pattume negli spazi interplanetari.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Se non fosse una cosa così seria verrebbe quasi da sorridere a pensare alle migliaia di persone che ogni anno da venti anni si trascinano da un paese all’altro a discutere senza risultati su come fermare i peggioramenti climatici. Da Berlino, a Kyoto nel 1997, a Marrakesh, a New Dehli, a Nairobi, alla fascinosa Bali, a Cancun, alla favolosa Doha, a Lima nel Peru, con un supplemento a New York la settimana scorsa. Sono ministri, capi di governo, funzionari ministeriali, esperti, ambientalisti e soprattutto lobbysti, quei funzionari che le grandi industrie mandano in giro ad accertarsi che non venga presa qualche decisione che danneggi i loro affari. Perché di soldi e di merci e di affari, si tratta.
Il peggioramento del clima, che da anni è sotto i nostri occhi, con piogge quando dovrebbe esserci il sole, con grandinate quando dovrebbe piovere gentilmente, con siccità nei suoli agricoli, in attesa che improvvise tempeste li riempiano di acqua, con tranquilli fiumiciattoli che allagano intere città, è dovuto al cambiamento della composizione chimica dell’atmosfera provocato dalle attività “economiche” umane. La quantità dell’anidride carbonica CO2 presente nell’atmosfera è aumentata, in cinquanta anni, da 2400 a 3000 miliardi di tonnellate, con un inesorabile continuo aumento annuo di circa 15 miliardi di t; è questo gas, insieme ad alcuni altri “gas serra”, che trattiene sulla superficie dei continenti e degli oceani una crescente frazione della radiazione solare.
Da un parte all’altra del pianeta, terre e mari vengono così scaldati e si alterano i cicli naturali di evaporazione e di condensazione dell’acqua e la circolazione del calore attraverso gli oceani. La modificazione chimica dell’atmosfera è direttamente proporzionale ai consumi delle fonti di energia fossili, petrolio, carbone e gas naturale, le quali a loro volta servono per fabbricare e tenere in moto tutte le meraviglie della società moderna: automobili e materie plastiche, aerei e telefoni cellulari, cemento e condizionatori d’aria, perfino prodotti agricoli e zootecnici che forniscono il cibo quotidiano. Una qualche attenuazione della crisi si potrebbe avere piantando più alberi, i quali “portano via” un po’ della CO2 dell’atmosfera, tanto che è stato inventato un meccanismo economico per cui chi immette CO2 nell’atmosfera può continuare ad inquinare pagando qualche paese sottosviluppato perché pianti un po’ di alberi, una specie di commercio delle indulgenze.
Purtroppo la crisi climatica viene aggravata perché, in molti paesi poveri, su grandi superfici le foreste vengono tagliate per recuperare terreni agricoli e pascoli e legname e per aprire miniere, nella speranza di guadagnare qualche soldo e qualche posto di lavoro. In tutte le conferenze internazionali sul clima i governanti da venti anni ripetono le stesse cose; analizzano le cause, ormai notissime, del riscaldamento globale, e dichiarano con fermezza che ciascun paese ha intenzione di limitare le emissioni di “gas serra” compatibilmente con le necessità economiche, cioè mai. Le economie di tutti i paesi, di quelli di antica industrializzazione (del primo mondo), di quelli del secondo mondo di recente industrializzazione e di quelli del terzo mondo, poveri e poverissimi, vogliono più cibo, più acqua, più energia, più merci, tutte cose che inevitabilmente comportano un aumento dell’inquinamento ambientale e non solo di quello responsabile dei peggioramenti climatici.
I governanti di alcuni paesi, come quelli europei, promettono di introdurre innovazioni tecnologiche “verdi” per diminuire le emissioni di gas serra, limitandole ai valori di qualche anno fa; ma anche così la quantità di gas serra che si accumulano nell’atmosfera --- ed è la loro quantità totale che conta ai fini del riscaldamento globale --- aumenta. Poco favorevoli a forti limitazioni del consumo di combustibili sono i paesi come India e Cina e anche i paesi poveri che chiedono ai paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa, forti inquinatori, di dare per primi il buon esempio limitando le loro emissioni. I mutamenti climatici hanno un duplice effetto: costano soldi, pubblici e privati, a causa dei danni apportati dalle frane e dalle alluvioni, dalla distruzione dei raccolti, e provocano l’aumento dei prezzi delle merci. Ma sono anche fonti di violenza e di dolori umani; milioni di persone, soprattutto dai paesi più poveri, emigrano dalle terre rese sterili dalla siccità, o sommerse dalle acque, ma trovano le porte sbarrate dall’egoismo dei paesi più ricchi che, con i loro consumi enormi, sono stati la vera causa delle loro disgrazie climatiche.
Il problema è aggravato dal fatto che sta inesorabilmente aumentando il numero di persone che aspirano alla crescita economica. Secondo recenti previsioni delle Nazioni Unite la popolazione mondiale sta passando dagli attuali 7 a dieci o più miliardi di persone nei prossimi decenni. Persone che sono consumatori affamati di cibo e acqua e di merci essenziali, ma avidi anche di merci inutili offerte da quella stesse imprese, più o meno verdi, che dichiarano a gran voce quanto amano il pianeta. E’ inevitabile che la popolazione mondiale aumenti ancora per molti anni, fonte di ulteriori conflitti per spazio e materie prime scarsi, di avvelenamento e di mutamenti della stessa struttura chimica, fisica e biologica del pianeta. Potrà andare avanti a lungo questa corsa di corridori ciechi, incapaci di vedere verso quali crisi planetarie stanno andando?
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Continuamente si parla di un aumento o di un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e tali variazioni si esprimono ... >>>
Continuamente si parla di un aumento o di un rallentamento della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) e tali variazioni si esprimono in “tanto percento”, più o meno. Ma che cosa è “cento” ? La grandezza di riferimento è un numero che in Italia ammonta a circa 1500 miliardi di euro e che viene calcolato dall’Istituto Nazionale di Statistica con una procedura che risale addirittura agli anni trenta del Novecento quando un giovane emigrato dall’Unione Sovietica, Wassily Leontief (1906-1999), poi premio Nobel 1973, perfezionò negli Stati Uniti quello che aveva fatto per l’Ufficio statistico del suo paese. L’idea era calcolare la ricchezza di un paese misurando, in dollari o altra moneta, il flusso di denaro che scorre da un settore all’altro dell’economia. Si trattava di mettere in una “tabella” il valore dei beni che l’agricoltura vende all’industria e ai consumi familiari; che l’industria vende all’agricoltura e ai consumi finali delle famiglie; queste infine possono pagare i beni forniti dall’agricoltura e dall’industria col ricavato dalla “vendita” del lavoro dei suoi membri.

Ci sono altri settori come quello delle banche, quello dei governi, che comprano beni e servizi sia dall’agricoltura e dall’industria sia dalle famiglie, pagandoli col ricavato dalle tasse, quelli delle importazioni ed esportazioni, ma nel complesso, nel corso di un anno, le entrate e le uscite da ciascun settore economico sono “quasi” pari. Negli anni quaranta del Novecento, infine, l’economista anglo-australiano Colin Clark (1905-1989) suggerì di introdurre il concetto di PIL definito come il valore monetario dei beni assorbiti dai ”consumi finali” delle famiglie. Ci sono voluti anni per trovare dei metodi di calcolo omogenei fra i vari paesi; uno degli inconvenienti di questa procedura è che molti scambi di denaro sfuggono ai controlli; in particolare l’evasione fiscale e le attività criminali o vietate come il commercio della droga, la prostituzione, il gioco clandestino, eccetera. Gli uffici statistici internazionali si sono arrovellati sul modo di tenere conto di queste grandezze che possono arrivare ad alcune o molte unità percento del PIL misurato; per l’Italia alcune centinaia di miliardi di euro all’anno, adesso in parte compresi nel PIL

Nel 1970 ancora Leontief scrisse un articolo mettendo in evidenza che nel calcolo del PIL non figurano i costi dovuti al degrado ambientale: un automobilista paga la benzina che azione il suo veicolo, ma nessuno risarcisce i danni di chi respira i velenosi gas di scarico. Quanto costa ai cittadini il danno alla salute e ai beni materiali provocati dall’inquinamento dell’atmosfera o delle acque, la perdita di ricchezza dovuta alle frane e alluvioni ? Per fare figurare queste grandezze nel calcolo del PIL Leontief propose di aggiungere alla tabella degli scambi monetari, un settore relativo ai “costi ambientali”, un problema di cui gli uffici statistici europei cercano da anni di tenere conto attraverso la contabilità di una qualche forma di ”economia circolare” che tenga conto anche dei benefici e dei danni associati all’uso delle risorse naturali. Ben presto ci si è resi conto che non si può calcolare il costo dell’inquinamento dovuto, per esempio, alle industrie o ai trasporti, se non si hanno informazioni esatte su quello che esce da ciascuno di questi settori, espresso non in soldi, ma in chili o tonnellate di agenti chimici.

La chimica spiega che, per il principio di conservazione della massa, in ogni processo la massa della materia che partecipa ad una reazione deve essere “rigorosamente” uguale a quella delle materie finali della reazione, prodotti vendibili e rifiuti inquinanti insieme. Alcuni studiosi, in Germania, ma anche nell’Università di Bari, hanno proposto di elaborare una “tabella” in cui figurano gli scambi, espressi in tonnellate, fra i vari settori economici, includendo anche i beni tratti dalla natura senza pagare niente, e la massa, pure in tonnellate, degli agenti inquinanti che fuoriescono dai vari settori produttivi (industria, agricoltura, trasporti, vita domestica) e che finiscono nell’ambiente danneggiando le persone. In questa “economia circolare” la somma delle tonnellate delle materie entrate in ciascun settore economico deve essere uguale a quella delle materie in uscita.

E’ stato così proposto di elaborare un “Prodotto Interno Materiale Lordo” (PIML) che, per analogia col PIL monetario, si calcola come il peso di tutti i materiali assorbiti in un anno dal settore dei “consumi finali” e entrati nell’economia come beni a vita lunga (autoveicoli, edifici, mobili, eccetera). Nel caso dell’Italia il PIML dal 2000 in avanti è variato poco, intorno a circa 800 milioni di tonnellate all’anno (500 di questi come gas inquinanti immessi nell’atmosfera), acqua esclusa; è come se la vita, gli spostamenti, i consumi di ogni persona, in un anno richiedessero la movimentazione di circa 14 tonnellate di materiali, duecento volte il suo peso. Grazie a questi calcoli è possibile identificare da dove provengono i rifiuti generati da ciascuna attività di produzione e di consumo, la loro composizione chimica e il loro destino, in parte nelle operazioni di riciclo, in parte nei vari corpi riceventi ambientali. Se i conti sono fatti bene, si possono identificare tutte le fonti di inquinamento e scoprire frodi ed evasioni; le leggi della chimica e della fisica non ammettono imbrogli.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

In questa calda e bizzarra estate fa piacere leggere che il sindaco di Bari ha deciso di stanziare dei fondi per assicurare...>>>

In questa calda e bizzarra estate fa piacere leggere che il sindaco di Bari ha deciso di stanziare dei fondi per assicurare un piccolo reddito mensile a disoccupati che si impegnino in lavori in cooperative; l’hanno chiamato “reddito di cantiere” ed ha un precedente illustre, ottanta anni fa.

Siamo nel 1933, in piena crisi economica mondiale; negli Stati Uniti ci sono milioni di disoccupati, vaste terre rese sterili dall’erosione e dalle alluvioni; il 14 marzo di quell’anno, dieci giorni dopo essere stato eletto, il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) predispose un progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati in lavori di difesa ambientale, in cambio di alloggio e di un piccolo compenso. Il 31 marzo 1933 il parlamento americano approvò l'istituzione dei Civilian Conservation Corps (CCC) e, nell'estate del 1933, 300.000 giovani americani disoccupati, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, erano nei boschi impegnati in opere di difesa del suolo, che da molti anni erano state trascurate. Piantarono alberi, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e greti dei fiumi. Più di due milioni e mezzo di giovani americani prestarono servizio nei CCC; nel 1935 fu raggiunto il massimo numero di 500.000 presenze. Durante il periodo di funzionamento dei CCC furono piantati 200 milioni di alberi e furono gettate le basi di quello che sarebbe diventato il servizio di difesa del suolo del Dipartimento dell’Agricoltura.

Una simile iniziativa si ebbe in Italia a partire dagli anni cinquanta del Novecento con i cantieri di rimboschimento organizzati dalla Cassa per il Mezzogiorno e con la legge del 1952, voluta dal Ministro dell’agricoltura Amintore Fanfani (1908-1999) che era un colto professore di storia dell’economia. Soprattutto nel centro sud vennero piantati milioni di alberi che contribuirono a rallentare il dissesto idrogeologico. Mi auguro che anche i “cantieri” dei disoccupati pugliesi siano dedicati ad alleviare i molti problemi di Bari e della Regione, dalla regolazione del flusso delle acque alla sistemazione delle coste.

Una seconda buona notizia viene dalla Puglia settentrionale; la Regione ha stanziato fondi per assicurare alloggi agli immigrati che svolgono lavori saltuari nei campi e che finora sono stati soggetti al caporalato e allo sfruttamento in alloggi vergognosi. Anche in questo caso c’è un precedente, ancora nell’”Età di Roosevelt” quando milioni di piccoli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare le terre che avevano in affitto, rese sterili per il vento e le piogge, per migrare verso un qualche lavoro nei campi della fertile California. La storia di una di queste famiglie, ispirata ad eventi reali, è raccontata nel libro “Furore” di Steinbeck e nel film omonimo del registra John Ford. La famiglia dei Toad, giovani e anziani, decide di caricare le povere masserizie su una traballante automobile per andare a ovest dove dicono che in California, terra di ricchi raccolti, è possibile trovare occupazione in agricoltura.

Dopo un lungo terribile viaggio la California, terra promessa, si rivela però subito ostile; ci sono troppi immigrati, non c’è lavoro per tutti e le paghe sono basse al punto che è i Joad arrivano mentre è in corso uno sciopero; i padroni, attraverso ”caporali” organizzati dalla criminalità, sono disposti ad assumere i nuovi arrivati come crumiri che subito si scontrano con gli altri poveri in sciopero, poveri contro poveri. Uno spiraglio è offerto da un campo di accoglienza statale della “Resettlement Administration”, l’agenzia creata, anche questa, dal presidente Roosevelt e affidata a Rexford Tugwell (1891-1979), un professore di economia, studioso di agricoltura, ma soprattutto una eccezionale figura di difensore dei diritti civili e degli emigranti. Nel campo dell’agenzia gli immigrati con poca spesa trovano casette decenti, docce e acqua corrente, spazi per i bambini; l’agenzia statale ha cura anche di procurare lavoro a paghe dignitose, organizza opere di difesa del suolo e rimboschimento, assegna piccoli appezzamenti di terreno e organizza cooperative. Nel film i padroni degli operai in sciopero usano la criminalità locale, con la complicità della polizia, per cercare, senza successo, di smantellare il campo di accoglienza che sottrae al loro sfruttamento la mano d’opera.

Una simile iniziativa si ebbe in Italia, dopo la Liberazione, negli anni cinquanta. Il “Comitato Amministrativo di Soccorso Ai Senzatetto”, l’UNRRA-CASAS, col sostegno del “Movimento di Comunità” di Adriano Olivetti (1901-1960), assicurò una vera abitazione, non un rifugio, ai contadini meridionali immigrati nelle terre della riforma fondiaria. Apparve anche allora che un intervento pubblico di costruzione di alloggi e di assistenza civile può alleviare il disagio dei poveri togliendoli dalle grinfie della speculazione, della illegalità e della criminalità.

Che proprio dalla Puglia stia partendo un “New Deal” come quello rooseveltiano con iniziative saldamente ancorate alla soluzione di concreti problemi, insieme, di occupazione e umani e ambientali ? Molti governanti, per accattare voti promettono di diminuire le tasse; io sono contento di pagare le tasse se in parte servono a rendere un po’ più decente la vita di coloro che si sfiancano nei campi, sotto il sole, per pochi soldi, per assicurare frutta e verdura fresche sulla nostra tavola.

Vedi anche l'articolo di Eddyburg che integra i ricordi evocati da Giorgio Nebbia con quello di un grande pugliese, Giuseppe Di Vittorio.

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, avvenuto il 6 agosto, e di Nagasaki, avvenuto il 9 agosto di 69 anni fa, le due città distrutte in pochi minuti con 200 mila dei loro abitanti, dal lampo di due bombe atomiche, due ”piccole” bombe atomiche ciascuna con un potenziale distruttivo equivalente a quello di 15.000 chili di tritolo. Per chi ha venti anni oggi è un evento lontano, citato nei libri di storia, più o meno come era lontana per me, quando avevo venti anni, la prima guerra mondiale. E poi, duecentomila morti, che cosa sono mai ? abituati come siamo a sentire parlare di morti a diecine di migliaia per volta in questo o quell’altro, paese del mondo.

Ma i morti delle città giapponesi sono stati diversi, perché dovuti ad un’arma diversa dalle altre, il cui incubo non ci ha mai abbandonato, e che si riaffaccia in tutti i conflitti a cui assistiamo tutti i giorni. Pensiamo a quello fra Israele e la Palestina, con razzi che si avvicinano alla città segreta di Dimona nel deserto dove vengono fabbricate le bombe nucleati israeliane; ai conflitti sui territori di confine fra India e Pakistan, tutti e due dotati di bombe nucleari; alle contese fra Cina e India, tutti e due dotati di armi nucleari, per il controllo delle acque del Brahmaputra; a controversie fra le tre grandi potenze nucleari, Stati Uniti, Russia e Cina, per il controllo di qualche territorio o di qualche materia prima in qualche parte del mondo.

Nonostante gli accordi per la diminuzione degli arsenali nucleari, le bombe nucleari ancora presenti nel mondo sono oltre 15.000, con potenze distruttive che arrivano a valori equivalenti a quelli di alcuni milioni di tonnellate di tritolo. Ancora più preoccupanti sono le possibili conseguenze ambientali di uno scambio, anche limitato, di bombe nucleari fra due stati. Dal 1948, quando Stati Uniti e Unione Sovietica hanno cominciato ad avvertirsi reciprocamente, con esplosioni nell’atmosfera, sui deserti o negli oceani, della potenza delle proprie bombe nucleari, prima a fissione e poi a fusione (le bombe H), l’opinione pubblica è stata dibattuta fra tre alterne posizioni.

La credenza che un bombardamento nucleare avrebbe posto fine vittoriosamente a qualsiasi conflitto, una credenza alimentata da quello che Eisenhower, un presidente degli Stati Uniti, definì, nel 1961, il complesso militare-industriale, che fa soldi fabbricando e vendendo armi. Il demone della tentazione di ”vincere” una guerra o di fermare un conflitto con qualche bomba atomica non ha mai abbandonato la mente dei più oltranzisti vertici militari di molti paesi. Altri credono che basti il possesso di armi nucleari per dissuadere qualsiasi altro paese ad usare a sua volta le proprie, la insensata teoria della “deterrenza”. Per fortuna un’altra parte (anche se limitata) dell’opinione pubblica è consapevole del pericolo anche solo dell’esistenza delle armi nucleari.

Una parte degli scienziati che conoscono i caratteri e le conseguenze delle bombe nucleari è stata attiva nel denunciarne i pericoli e ha ispirato vari libri e film. Fra questi ultimi si possono ricordare “L’ultima spiaggia”, diretto nel 1959 da Stanley Kramer, che descrive un paese in cui, dopo un “accidentale” scambio di bombe nucleari, sta arrivando la morte per la radioattività che ha già estinto la vita nel resto del pianeta; sono del 1964 i due film “A prova di errore”, di Sidney Lumet, in cui le capitali Washington e Mosca sono distrutte perché i bombardieri nucleari sono sfuggiti a qualsiasi controllo, e “Il dottor Stranamore”, di Stanley Kubrik, in cui uno scienziato psicopatico vuole, e riesce a, distruggere il “nemico”, e insieme il mondo, con la “sua” bomba H. Il film “Il giorno dopo”, del 1983, mostrava come diventerebbe il mondo in seguito all’esplosione di bombe nucleari.

Intanto, a partire dal 1980, vari gruppi di studiosi hanno messo in evidenza che l’eventuale esplosione di bombe nucleari non solo immetterebbe nell’atmosfera grandi quantità di elementi radioattivi che ricadrebbero nelle acque degli oceani e sulle terre emerse, contaminando la vegetazione, gli animali, le acque dei fiumi e dei pozzi, ma provocherebbe anche vasti incendi e farebbe sollevare dal suolo grandi masse di fumi e polveri che oscurerebbero il cielo filtrando una parte dei raggi solari; la temperatura del pianeta si abbasserebbe provocando un lungo e freddo “inverno nucleare”, con minori raccolti agricoli e con la diffusione della fame fra i sopravvissuti all’effetto diretto delle bombe. Il contrario del “riscaldamento” della Terra con cui stiamo facendo i conti adesso, dovuto all’inquinamento atmosferico e che provoca piogge torrenziali e siccità.

Alla fine di ogni anno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approva, sostenuta della maggioranza dei paesi, una mozione che chiede l’eliminazione di tutte le armi nucleari e ogni anno la sua attuazione viene bloccata. Il film “L’ultima spiaggia” finisce con l’immagine di una città senza vita in cui sventola uno striscione con su scritto: “C’è ancora tempo, fratelli”: è vero, “saremmo” ancora in tempo, se volessimo, ad evitare catastrofi nucleari ambientali e umane.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzwtta del Mezzoiorno

Dopo aver avuto occasione di parlare più volte dell'attuale stato dell'ambiente in Italia...>>>
Dopo aver avuto occasione di parlare più volte dell'attuale stato dell'ambiente in Italia, non sarà male riportare un documento, finora inedito: la relazione sullo stato dell'ambiente resa nota dal Ministro dell'ambiente greco-romano di 2000 anni fa.

E' uno scherzo, naturalmente, perché in epoca greco-romana, duemila anni fa, non c'era un ministro dell'ambiente, anche se c'erano gravi problemi di erosione del suolo, di sfruttamento delle risorse naturali e drammatiche condizioni di vita urbana, di inquinamento e di lavoro. Non è vero che i problemi di inquinamento e di distruzione dell'ambiente sono cominciati con la rivoluzione industriale del 1800; da allora certamente sono stati messi in moto mezzi di distruzione molto più potenti, è aumentata la popolazione, sono state fatte innovazioni tecniche con effetti devastanti sulla natura. Ma lo spirito di sfruttamento della natura a fini economici ha radici ben più antiche e non è male andare a cercarle, anche per capire dove si deve agire, soprattutto sul piano della informazione e della cultura, per cercare di rallentare la discesa verso catastrofi ecologiche sempre più gravi.

La nostra immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente si può ricostruire utilizzando i risultati di alcune ricerche che, fortunatamente, si stanno moltiplicando: un crescente numero di storici si e' messo a scavare nei testi e nelle testimonianze del passato per cercare gli aspetti ecologici. Fra le molte opere vorrei citare due recenti libri: il primo e' stato scritto da un professore dell'Università di Bari, Paolo Fedeli: La natura violata: ecologia e mondo romano (Editore Sellerio, Palermo); l'altro è stato scritto da un professore dell'Università tedesca di Bochum, Karl-Wilhelm Weeber, ed è intitolato: Smog sull'Attica: i problemi ecologici nell'antichità (Garzanti, Milano).

La nostra relazione sullo stato dell'ambiente comincia con la vita urbana: erano Atene e Roma città belle e felici? neanche per sogno. Intanto una rigorosa minoranza aveva case decenti, fino a lussuose ville nel verde, nel caso di Roma. Ma la maggioranza della popolazione a Roma abitava in palazzoni di proprietà dei grandi speculatori --- fra cui spiccava il ricchissimo e spietato Crasso --- che lasciavano i loro inquilini in condizioni igieniche indescrivibili, in edifici male illuminati e male ventilati, affacciati su strade strette a maleodoranti. Escrementi rifiuti solidi e liquami, gli scarti delle macellerie e dei negozi, finivano nella strada e le fogne, che pure a Roma erano state costruite fin dai tempi cosiddetti "dei re", scaricavano il loro fetido liquame nel Tevere. La città di Roma aveva un soddisfacente sistema di acquedotti che portavano, in molti casi, l'acqua nelle abitazioni; le tubazioni dell'acqua erano fatte di piombo, un metallo tossico che lentamente si scioglieva e veniva assorbito con l'acqua potabile dalla popolazione. C'è una lunga controversia sul possibile declino dell'impero romano per colpa di una diffusa intossicazione da piombo; e' difficile dare una risposta certa, ma non c'e' dubbio che la popolazione dell'antichità era esposta a varie forme di intossicazione. Metalli tossici erano presenti nelle pitture con cui venivano adornate le case dei ricchi ed erano presenti nei cosmetici e belletti di cui si ornavano le donne.
Una delle più ricche fonti di informazioni sulla vita urbana e' costituita dalla Storia naturale di Plinio; una grande enciclopedia scritta duemila anni fa con preziose notizie sui prodotti della natura --- minerali, vegetali e animali --- sui prodotti di commercio e sulle loro falsificazioni e frodi. (Di recente ne è stata pubblicata da Einaudi una nuova bella traduzione in italiano moderno, con testo a fronte, in sei volumi). Avidi bottegai disonesti sofisticavano il pane, il vino, le spezie, il miele e i metalli preziosi, spesso provocando intossicazioni collettive simili a quelle che talvolta conosciamo anche noi. Un capitolo della nostra immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente si occupa del traffico urbano che non aveva, naturalmente, a che fare con le automobili, ma che si svolgeva in strade strette, percorse dai carri e dai cavalli dei ricchi o dei mercanti che sfrecciavano nelle strette strade; oggi le strade sono ingombre di macchine in sosta; allora lo erano di banchi di mercanti, di pecore, di una folla che sfuggiva come poteva alle case anguste per riversarsi all'aria aperta, per far la corte ai ricchi e ai politicanti in cerca di voti.

Atene e Roma si trovano in zone con climi dolci e gradevoli, ma l'inverno era - allora come oggi - freddo e molte case dovevano ricorrere a sistemi di riscaldamento. Se i nostri impianti di riscaldamento a gasolio o metano immettono nell'atmosfera ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri, eccetera, le stufe e i camini greci e romani bruciavano legna che immetteva nell'aria molti agenti inquinanti, soprattutto polveri e anche sostanze tossiche e cancerogene, respirate dagli abitanti nelle case e che ricadevano sulla popolazione all'esterno e sulle strade. Se la Roma e la Atene di oggi sono afflitte da problemi di rumore, ancora peggio era, duemila anni fa, il rumore di giorno e di notte, dal rotolio delle ruote dei carri agli schiamazzi notturni.

Molte cose le conosciamo perche' ci sono pervenuti editti e leggi per cercare di arginare il rumore, di rendere piu' sane le abitazioni, di mettere ordine nel traffico. Se stavano male gli esseri umani, altrettanto male stavano gli animali, considerati "cose", oggetto di commercio (ma non si fa forse commercio internazionale, spesso clandestino, anche oggi di animali esotici ?). Soprattutto gli animali esotici o quelle che erano considerate "bestie feroci", venivano sfoggiati (ma non lo fanno alcuni ancora oggi ?) come oggetti di lusso. A Roma i giochi del circo, buoni per tenere tranquilla la gente e per raccogliere voti, avevano le loro attrazioni centrali nella lotta fra uomini e animali, fino alle carneficine in cui, per la delizia della plebe, venivano offerti alle "fiere" intere popolazioni di dissidenti e sovversivi, come i cristiani. La caccia, quando non serviva a procurarsi del cibo, era un sadico esercizio: e non c'era un WWF che ne denunciasse gli orrori. Il capitolo successivo della nostra relazione sullo stato dell'ambiente tratta le attività industriali: non è stata inventata nel 1700 l'industria, in quanto complesso di attività capaci di trasformare le risorse della natura in merci e oggetti.

I due libri, di Fedeli e Weeber, che ho prima ricordato consentono di ricostruire bene il quadro delle attività manifatturiere: le principali riguardavano l'estrazione dei minerali metallici dalle miniere. Qui ci aiutano anche molte testimonianze archeologiche: le antiche miniere di argento di Laurion, nell'Attica, si visitano ancora oggi e mostrano come fosse avanzata la tecnica mineraria, così come mostrano come fosse durissimo il lavoro di estrazione del minerale.

I greci estraevano oro a Taso, un'isola dell'Egeo; i romani estraevano oro e argento in Spagna (nel secondo secolo dopo Cristo solo a Nuova Cartagine erano impiegati 40 mila minatori), zolfo in Sicilia, minerale di ferro nell'isola d'Elba, trasformato in ferro sulla terraferma. Dettagli tecnici si trovano nella "Storia naturale" di Plinio, già ricordata: Plinio si accorge che le attività minerarie sono una forma di violenza contro la natura, ma non può sottrarsi dall'ammirazione per il potere dell'uomo nel dominio della natura. Il quale uomo, addetto alle attività minerarie e metallurgiche, viveva e lavorava in condizioni indescrivibili; in generale queste scomodissime attività erano svolte da prigionieri di guerra e schiavi e la minaccia di essere inviati "ad metalla", al lavoro nelle miniere, terrorizzava. Tanto più che i minatori soffocavano e venivano sfibrati dalla fatica e dalle malattie dentro le miniere; fuori erano esposti a polveri e inquinamento associati alle operazioni di trasformazione dei minerali nei metalli, nei materiali e nelle merci economiche. Allora, come oggi, il motore della violenza contro gli esseri umani e contro la natura era rappresentato dalla avidità di potere e di denaro; anche se oggi chi esercita tale avidità la maschera dietro uno, spesso ipocrita, grande amore per l'ecologia.

Vorrei finire questa immaginaria relazione sullo stato dell'ambiente nell'antichità, notando che finalmente si comincia a diffondere una attenzione per i danni che vengono arrecati non solo alla nostra generazione, ma anche alle generazioni future. La stessa definizione di "sviluppo sostenibile" richiede azioni che consentano lo sviluppo della nostra generazione senza togliere risorse ambientali e condizioni di uguale sviluppo per le generazioni future. Oggi è facile riconoscere le azioni dannose che avranno effetti sul lontano futuro; la continua immissione di anidride carbonica nell'atmosfera consente alla nostra generazione di avere sempre più energia (il cui sottoprodotto è appunto l'anidride carbonica) con l'effetto di modificare il clima e la temperatura della Terra in cui vivranno miliardi di persone nel 2050 o nel 2100.

Lo stesso vale per la distruzione dell'ozono: le future generazioni saranno esposte a più intense radiazioni ultraviolette nocive perché noi usiamo i clorofluorocarburi per i nostri "economici" frigoriferi o per fare comode imbottiture di plastica espansa per cuscini e materassi. Il caso più vistoso è quello delle scorie radioattive, il sottoprodotto della produzione nucleare di elettricità: intere generazioni future dovranno fare la guardia ai depositi di tali scorie, anche quando le centrali saranno state chiuse da decenni. Non c'è peraltro dubbio che le terre esposte oggi all'erosione sono il risultato del diboscamento praticato in Europa duemila anni fa da milioni di nostri antenati che hanno ricavato senza fatica legname e terre coltivabili a spese delle foreste del tempo.

Anche loro hanno praticato uno sviluppo "insostenibile" che ha portato al loro stesso declino e a danni grandissimi alla nostra lontana generazione. Queste considerazioni dovrebbero farci pensare al futuro con una nuova mentalità: la crisi ecologica ha le sue radici nella crescente avidità di ciascuna generazione --- o di una minoranza di ciascuna generazione --- con effetti dannosi per chi verrà dopo. Se veramente, come dichiariamo in tanti e come dichiarano i nostri governanti e gli uffici ecologici delle Nazioni Unite, ci sta a cuore il destino delle generazioni future dobbiamo cominciare a cambiare le nostre regole economiche, i nostri comportamenti, i nostri stili di vita individuali e collettivi. Se le avessero fatto le classi dominanti del tempo greco-romano forse noi avremmo, oggi, meno frane e alluvioni.­

Il pensiero marxista ha elaborato la teoria della lotta di classe, intesa come ... >>>

Il pensiero marxista ha elaborato la teoria della lotta di classe, intesa come contrapposizione di interessi fra gruppi di persone, relativamente omogenee, appartenenti ad una ”classe”, appunto, per la conquista di diritti che un’altra classe negava. La “classica” lotta di classe si è svolta fra datori di lavoro e lavoratori nella società capitalistica. Il dovere dell’imprenditore capitalistico, anche in quanto appartenente ad una ”classe” di simili soggetti economici, era ed è l’aumento del proprio capitale monetario; per raggiungere questo fine egli deve dipendere da altre persone, da una “classe” di dipendenti ai quali “deve” essere pagato meno possibile la merce che tale classe vende, il lavoro, che deve “pesare” il meno possibile sui bilanci aziendali con richieste di sicurezza nel luogo di lavoro, di sicurezza sociale, eccetera.

Col passare del tempo, col rafforzamento della consapevolezza dei propri diritti, col contributo anche di una (piccola) parte della borghesia, quella che riconosceva l’ingiustizia e la violenza delle regole dell’operare capitalistico, e con una lunga continua lotta per l’affermazione di una qualche visione socialista, “di sinistra”, dei rapporti civili e politici --- la classe dei lavoratori ha ottenuto condizioni di vita e di salari e di sicurezza più decenti. Il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori non era poi sprecato, per il capitalismo, perché consentiva di far crescere una classe di consumatori in grado di assorbire le merci e i servizi che il capitale poteva offrire in maggiore quantità, sempre al fine di aumentare i propri guadagni, con l’ulteriore vantaggio di presentarsi come benefattore merceologico della società.

Successivamente il capitale, messi abbastanza quieti i lavoratori nelle loro rivendicazioni salariali, ha scoperto che poteva aumentare i propri profitti esercitando violenza non più tanto su un gruppo omogeneo di persone --- come erano i diretti dipendenti --- ma su gruppi molto più diffusi di soggetti impreparati e indifesi.

Le frodi, l’immissione in commercio di alimenti, tessuti, merci, materiali, macchinari difettosi o dannosi perché poco costosi, si sono rivelate preziose fonti di arricchimento. In definitiva le frodi arrecavano danno alla salute o al salario o alla vita non di singole persone o di gruppi di persone, ma di vasti strati della popolazione, ignari di quanto il capitale gli offriva negli opulenti negozi.

Fortunatamente ci sono state persone che, raccogliendo informazioni sull’operare degli imprenditori, talvolta notizie filtrate attraverso i lavoratori stessi, hanno cominciato a denunciare le frodi, hanno mobilitato l’opinione pubblica e hanno dato vita, attraverso scritti e dibattiti, ad un movimento di cittadini e “consumatori” che assumevano un carattere di “classe”, vittima dell’altra classe di venditori-frodatori.

La nuova classe dei frodati ha alzato la voce ed ha chiesto leggi più rigorose sulla qualità dei prodotti commerciali, ha chiesto l’intervento dello stato che ha (avrebbe) il dovere di proteggere le persone danneggiate; i governi dei vari stati, peraltro, si sono spesso mostrati riluttanti a interventi rigorosi, sotto la pressione della “classe” dei venditori che cercava di minimizzare i pericoli e i danni denunciati.

Alcune delle merci pericolose, dai solventi cancerogeni, ai pesticidi, ai metalli tossici, attraenti dal punto di vista dei profitti dei produttori e dei venditori, oltre ad avvelenare gli umani alteravano anche gli animali allo stato naturale, i cicli ecologici, inquinavano l’atmosfera e le acque. Anche in questo caso alcuni (pochi) chimici, biologi, ecologi hanno denunciato le sostanze dannose per una massa diffusa e indefinita di consumatori, una nuova classe di ”inquinati” nel corpo e nell’ambiente circostante.

Intanto il capitale ha visto che era possibile assicurarsi profitti sfruttando anche in altro modo il grande patrimonio senza padrone della natura. Ogni processo di produzione genera delle scorie e dei rifiuti gassosi, liquidi e solidi e quale miglior sistema per sbarazzarsene, senza spesa, dell’immetterli nei corpi riceventi naturali, nell’aria, nei fiumi, nel mare, sui terreni abbandonati ?. Fino a quando qualcuno ha cominciato a denunciare le merci e i processi inquinanti, gli effetti vicini e lontani, nello spazio e nel tempo, provocati da ciascun inquinatore e da tutti i membri della sua classe e da coloro che, sempre nel nome del profitto, assaltavano a fini speculativi i terreni, i boschi, le spiagge.

Sono così sorti gruppi, associazioni, movimenti impegnati nella difesa dei cittadini frodati o inquinati, impegnati nella richiesta di leggi più rigorose, impegnati, addirittura, nella denuncia degli effetti perversi sulla salute e sull’ambiente della ”società dei consumi”, orchestrata, grazie anche ad una sapiente propaganda, soltanto per il profitto dei venditori. Per qualche tempo, nella breve “primavera dell’ecologia”, nei primi anni settanta nel Novecento, c’è stata, almeno in alcuni movimenti, una corretta analisi “di classe”, “di sinistra”, della contrapposizione fra inquinatori e inquinati, ed è stato riconosciuto che i primi inquinavano e danneggiavano la classe degli inquinati proprio perché agivano secondo le regole del capitalismo. Qualcuno allora ricordò alcune pagine di Marx ed Engels in cui erano anticipati con grande lucidità i problemi che caratterizzavano gli ultimi decenni del Novecento.

Da parte sua la classe degli inquinatori e degli speculatori ha esercitato pressioni sui governi per evitare vincoli o divieti, ha ridicolizzato la critica e la contestazione e, fatto abbastanza importante, è riuscita talvolta a mobilitare i dipendenti agitando la minaccia che vincoli e leggi più rigorosi contro le frodi, gli inquinamenti, la speculazione avrebbe fatto perdere il posto di lavoro. Ciascuna azione richiesta dalla classe degli inquinati per la difesa dei propri diritti, individuali e collettivi, avrebbe comportato, sostenevano e sostengono gli inquinatori, maggiori costi di produzione, minore convenienza a produrre e vendere, il licenziamento di parte dei lavoratori. La classe degli inquinati era così, furbescamente, presentata come nemica della classe operaia: e poco conta se i membri della stessa classe operaia e le loro famiglie sono i destinatari delle merci dannose e dei danni degli inquinamenti o delle alluvioni e frane provocate dalla speculazione.

Quella parte della contestazione che denunciava il capitalismo come vera fonte dei danni alla salute e alla natura è stata travolta dalla nuova ideologia che non c’è altro modo di produrre e di operare --- anzi non c’è altro modo di esistere --- al di fuori di quello determinato dal libero mercato e dal capitalismo, i quali possono essere corretti e aggiustati non con una lotta di classe, ma con una collaborazione che rende gli inquinatori meno violenti e gli inquinati più tolleranti, a condizione che si sia tutti uniti nel comune obiettivo di possedere più merci e più ricchezza.

Abbastanza curiosamente, in questo sonno della ragione dell’Europa e dell’Occidente, con virulenta diffusione anche nei paesi “liberati” dal comunismo, una contestazione di sinistra dei guasti umani e ecologici del capitalismo imperante continua a zampillare qua e là, spesso sommersa, ma resa oggi più visibile grazie allo strumento più raffinato del capitalismo, Internet. Del resto non erano stati gli strumenti più raffinati del capitalismo, le grandi biblioteche pubbliche di Londra e Berlino, a rendere accessibili ai padri del comunismo i testi su cui edificare la loro critica al capitalismo stesso ?

Se da noi si muove con fatica qualcosa, diciamo così, di rosso-verde, di contestazione di sinistra dei guasti consumistici ed ecologici, la voce di una contestazione rosso-verde si trova vivace, nel Nord e nel Sud del mondo, in molti movimenti “ecologici”, femministi, pacifisti, di difesa dei consumatori e delle minoranze. Forse una ripresa della analisi dei rapporti conflittuali fra capitalismo, socialismo e natura, potrebbe contribuire a far conoscere i volti di questa nuova lotta di classe fra vittime e oppressori, nel grande circo delle merci, fra inquinati e inquinatori, al fine di dare nuovo coraggio e speranza agli inquinati e di temperare l’arroganza e anche l’ignoranza degli inquinatori, i più recenti protagonisti del capitalismo dominante.

Che cosa c’entra una caffettiera con l’ambiente ? Forse più di quello che si creda ....>>>

Che cosa c’entra una caffettiera con l’ambiente ? Forse più di quello che si creda perché la stessa persona, Benjamin Thompson (1753-1814) che ha scoperto alcune leggi fondamentali che consentono oggi di “perdere” meno calore nell’ambiente e che ha inventato dispositivi per diminuire l’inquinamento, ha inventato anche nel 1806 la prima caffettiera, quella a percolazione usata negli Stati Uniti (la caffettiera “napoletana”, comune da noi, è stata inventata invece dal francese Morize. nel 1819). Thompson, di cui ricorre quest’anno il bicentenario della morte, fu un personaggio straordinario, davvero fuori del comune perché ebbe una vita avventurosa, fu prolifico inventore, apprezzato scienziato e partecipò intensamente agli eventi politici del suo tempo.

Thompson nacque a Woburn, nel Massachusetts, uno degli stati delle colonie americane allora sotto gli inglesi; frequentò le scuole elementari del suo villaggio e a 13 anni fu assunto da un mercante di Salem, nello stesso stato, il che gli diede l’opportunità di frequentare persone istruite e benestanti e di migliorare la propria educazione. Nel 1772, a 19 anni, la sua vita ebbe una svolta; conobbe e sposò una ricca vedova che aveva ereditato una tenuta a Rumford, alla periferia della città di Concord nel New Hampshire e che lo introdusse fra l’alta borghesia. Allo scoppio della rivoluzione americana” (1775-1783), la guerra dei coloni americani contro gli occupanti britannici, come grosso proprietario terriero Thompson si schierò con gli inglesi contro ”i ribelli”; in questa occasione fece le prime osservazioni sul calore che si sviluppa nei cannoni, dall’attrito dei proiettili nella canna; intuì e spiegò che il calore era una forma dell’energia proprio come quella meccanica dell’attrito fra due corpi.

Il concetto dell’equivalenza fra calore ed energia meccanica furono pubblicati in Inghilterra nel 1781 e riscossero grande attenzione; quando, alla fine della guerra, Thompson si trasferì a Londra (piantando in asso la moglie in America), era già noto ed apprezzato, partecipò all’attività delle società scientifiche e fu nominato ”Sir” dal re Giorgio III. La sua anima inquieta lo spinse a trasferirsi, nel 1785, in Baviera dove divenne aiutante di campo del principe Carlo Teodoro (1724-1799); qui rimase undici anni nei quali contribuì a diffondere la coltivazione della patata, studiò metodi per cuocere razionalmente il cibo consumando poco carbone e inventò una “zuppa” nutritiva a basso costo, utile per l’alimentazione delle classi povere, dei soldati e dei carcerati, una ricetta che fu utilizzata per molti decenni e che è ricordata con apprezzamento da Carlo Marx nel 22° capitolo del I libro del “Capitale”.

Il principe gli procurò il titolo di conte del Sacro Romano Impero e Thompson scelse il nome di Rumford, la cittadina americana da cui erano cominciate le sue fortune. Dal 1799 Thompson, ormai Conte Rumford, visse fra Francia e Inghilterra; erano anni tempestosi, dopo la morte della moglie, quella abbandonata in America, nel 1804 Thompson sposò la vedova del grande chimico francese Antoine Lavoisier (1743-1794), borghese rivoluzionario a cui la rivoluzione francese non risparmiò il taglio della testa. Thompson continuò a vivere fra la Francia e l’Inghilterra; partecipò alla fondazione di istituzioni scientifiche, fu eletto in varie accademie internazionali e fu anche nominato professore nell’Università di Harvard. I suoi scritti occupano cinque grossi volumi.

Dal punto di vista dell’economia, dell’energia e dell’ambiente le osservazioni di Thompson anticiparono di oltre mezzo secolo gli esperimenti che consentirono a James Joule (1818-1889) di misurare esattamente, ma solo nel 1850, che una caloria equivale e 4,18 unità di lavoro meccanico, l’unità che oggi chiamiamo “joule”. Ma vanno ricordate le invenzioni che consentirono la modificazione dei camini delle stufe; se si restringe il diametro del camino dal basso verso l’alto migliora il tiraggio e si disperdono nell’aria esterna i fumi nocivi e puzzolenti che prima spesso restavano all’interno delle case. Con lo stesso criterio Thompson perfezionò i forni industriali; il suo forno per la produzione della calce dalla cottura del calcare teneva separata il carbone dal calcare e in questo modo si otteneva della calce di migliore qualità, più pura, consumando anche meno energia, proprio secondo i criteri “ecologici” a cui ci si dedica oggi.

Dal punto di vista dell’economia energetica Thompson studiò a lungo la trasmissione del calore e riconobbe che l’aria stazionaria è un buon isolante termico, ma pensò che tutti i gas e anche i liquidi impedissero le perdite di calore, e non è così; ma stiamo parlando di esperimenti di oltre due secoli fa. Sempre per consumare meno energia Thompson perfezionò le cucine domestiche, attento insieme agli aspetti economici, ma anche alle condizioni che rendevano migliore la vita delle famiglie e dei lavoratori.

I suoi studi permisero di migliorare le candele di cera e le lampade ad olio; per valutare l’intensità dell’illuminazione propose come unità di misura la ”candela”, un nome usato ancora oggi (una lampada fluorescente da 40 watt produce una illuminazione di circa 200 “candele”) e si occupò anche della misura dei colori. Insomma, il benessere della nostra vita quotidiana deve molto al conte Rumford, che da duecento anni riposa nel cimiterino di Auteuil a Parigi. Almeno un grazie.


Articolo inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Secondo me, la chiusura di una fabbrica dovrebbe essere intesa come un lutto...>>>

Secondo me, la chiusura di una fabbrica dovrebbe essere intesa come un lutto nazionale. Lo spegnimento dell’ultimo, ormai rimasto unico, altoforno dell’acciaieria di Piombino meriterebbe l’esposizione delle bandiere a mezz’asta. Con la morte di una fabbrica scompaiono non soltanto i posti di lavoro; forse i lavoratori dell’acciaieria di Piombino conserveranno un salario, forse saranno convertiti in operatori ecologici per spazzare le scorie di un secolo e mezzo di polveri e fumi; forse l’acciaieria a ciclo integrale sarà convertita in acciaieria con forni elettrici per trattare rottami o col processo Corex, senza cokeria e altoforno.

In un momento di crisi come questo il pericolo di perdere un salario è certamente prioritario rispetto ad altre considerazioni. Ma “la fabbrica” è qualcosa di più di un posto di lavoro; la fabbrica è qualcosa di vivo che trasforma le risorse della natura, minerali o prodotti agricoli, in merci, in oggetti non solo vendibili, ma utili, necessari per la vita di altre persone. La fabbrica è storia; attraverso i capannoni di Piombino sono passate generazioni di operai e tecnici; accanto a quelle macchine sono morti padri di famiglia, per imprevidenza o egoismo dei datori di lavoro (non a caso i sette omicidi di Torino si sono avuti in un’altra acciaieria, quella della Thyssen Krupp); in quella fabbrica si sono concretizzate le speranze del primo giorno di lavoro e l’orgoglio di entrare a far parte di una famiglia, si sono svolte azioni di solidarietà, come anche di conflitti.

Nella “fabbrica” è nata la classe operaia - parola che non si deve oggi pronunciare - sono cresciuti i conflitti per un orario di lavoro più decente, per un salario che permettesse di sfamare le famiglie e di mandare i figli a scuola.Nella fabbrica è nata, con buona pace degli ecologisti da salotto, l’ecologia, la consapevolezza che le merci che gli operai stavano producendo si formavano trasformando la natura, con processi che inevitabilmente generano fumi e scorie che avvelenano prima di tutto gli operai all’interno e poi le famiglie all’esterno del muro di cinta, e poi la comunità più in generale. Lotte per nuovi diritti, di salario ed ecologici, che hanno fatto nascere la società moderna e da cui ha tratto beneficio tutta intera la comunità di un paese.

La fabbrica è stata la culla del capitalismo e dei “padroni”, di quelli che sfruttavano gli operai nel nome del profitto e che oggi, per lo stesso motivo, spostano fabbriche e lavoro da un punto all’altro del globo; padroni che sono stati sordi alla domanda di nuovi diritti dei dipendenti e della società, risparmiando per evitare depuratori e filtri e maggiore sicurezza. Piombino è stata “fabbrica” in tutti questi sensi, sorella delle innumerevoli fabbriche di questa terra; per questo la sua morte è un lutto.

A maggior ragione per il fatto che a Piombino si produceva l’acciaio, non una merce qualunque, ma la merce specialissima che permette di costruire grattacieli e ferrovie, di conservare in scatola gli alimenti, di muoversi e di scambiare conoscenze e pensieri, presente nelle abitazioni, nei ponti e nelle strade, in tutte i macchinari, perfino nelle merci più “verdi” ed “ecologiche”. Una merce che, nel bene e nel male, ha accompagnato il “progresso” non solo merceologico, ma anche scientifico, sociale, economico ed umano. Non a caso il rivoluzionario Josef Giugashvili aveva scelto, come nome di battaglia, Stalin, quello russo dell’acciaio.

L’Expo 2015, la grande esposizione universale, attesa a Milano per l’anno venturo, ha due temi.....>>>

L’Expo 2015, la grande esposizione universale, attesa a Milano per l’anno venturo, ha due temi: “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”. “Energia per la vita” può essere intesa sotto molti aspetti, ciascuno dei quali merita approfondimenti di carattere storico, ambientale, economico. Innanzitutto “la vita” per definizione, coinvolge un flusso di energia che comincia sempre con il Sole; anzi la vita, come noi la conosciamo, è comparsa quando la radiazione solare ha trovato sulla Terra le condizioni chimiche (acqua liquida, presenza di sali nei mari e sulle terre emerse, presenza di ossigeno, azoto e anidride carbonica nell’atmosfera) e fisiche (temperatura vicino a quella attuale), per avviare le prime reazioni chimiche che hanno portato alla formazione di esseri capaci di riprodursi.

Dapprima i vegetali che trasformano l’anidride carbonica in molecole organiche, poi gli animali capaci di nutrirsi di vegetali, poi gli organismi capaci di riciclare le spoglie e le scorie dei vegetali e degli animali e di rimettere in circolazione sostanze chimiche come “nutrimento” per gli altri esseri viventi. Vegetali, animali, decompositori, tutti tenuti in moto dall’energia solare, erano, da oltre un miliardo di anni, i protagonisti della vita quando alcuni animali si sono evoluti diventando i nostri antichi predecessori del genere Homo, poi evolutisi ancora nella specie Homo sapiens a cui apparteniamo noi.

A mano a mano che è aumentata la popolazione degli umani è aumentata la richiesta di alimenti ricavabili da vegetali e animali, la cui produzione ha richiesto a sua volta quantità crescente di energia, fino a quando è stato necessario integrare l’apporto dell’energia solare con l’energia muscolare del lavoro umano o degli animali e poi con l’energia dei combustibili fossili, carbone, petrolio, gas naturale, estratti dalle viscere della terra.

L’energia ha quindi un ruolo centrale per la vita e per l’alimentazione; occorre infatti altra energia per conservare i prodotti agricoli, per spostarli dai campi alle fabbriche, per trasformali in alimenti commerciali, per trasportarli nei negozi e infine per consumare il cibo nella vita familiare e collettiva. Per ciascun alimento si parla infatti di un “costo energetico” (alcuni lo chiamano “impronta energetica”), definito come la quantità di energia necessaria per ottenere gli alimenti che entrano nella nostra dieta; una grandezza difficile da calcolare, tanto che i diversi studiosi propongono risultati molto differenti per lo stesso alimento.

Prendiamo il costo energetico di un uovo; un uovo pesa circa 60 grammi ed è costituito da circa 6 grammi di guscio, da circa 18 grammi di tuorlo e da circa 36 grammi di albume. Un uovo fornisce, a chi lo mangia, circa 300 chilojoule (circa 80 chilocalorie, come si diceva una volta) di energia vitale e circa 8 grammi di proteine, le due componenti principali dal punto di vista nutritivo, insieme a piccole ma essenziali quantità di vitamine. L’uovo è il risultato di un lungo ciclo vitale che cominciato con l’alimentazione di una gallina ovaiola che “consuma” ogni giorno circa 100 grammi di mangime, il cui costo energetico è di circa 400 chilojoule.

Supponendo che nel corso di una giornata la gallina deponga un uovo, si potrebbe dire che sia questo il “costo energetico” dell’uovo. Ma l’uovo deve fare ancora molta strada prima di arrivare a casa nostra; dall’allevamento alle operazioni di lavaggio, poi di timbratura e di imballaggio, poi di trasporto al negozio, poi di trasporto dal negozio a casa. Si può quindi stimare che il costo energetico di un uovo ammonti a circa 2000 chilojoule, in parte sotto forma di prodotti agricoli, i mangimi per la gallina, in parte sotto forma di elettricità o gasolio per il funzionamento delle macchine, per la fabbricazione dell’imballaggio e per il trasporto. Se si considera che in Italia si “consumano” circa 13 miliardi di uova all’anno, si fa presto a vedere che il costo energetico delle uova corrisponde, nello stesso periodo, a quello di oltre mezzo miliardo di litri di gasolio.

Si può calcolare che l’energia necessaria, nei campi e negli allevamenti e per azionare macchine e mezzi di trasporto, solo per soddisfare i bisogni alimentari italiani in un anno, rappresenti circa la metà di tutta l’energia usata nel nostro paese. Circa la stessa proporzione vale se si calcola il costo energetico di tutti gli alimenti, più o meno due miliardi di tonnellate all’anno, usati per nutrire i settemila milioni di abitanti del nostro pianeta. L’intreccio fra energia e alimentazione è ancora più stretto perché gli alimenti rappresentano soltanto una piccola frazione, circa un quarto, della grandissima biomassa di prodotti agricoli e zootecnici che vengono trasformati in pane, pasta, carne, latte, conserva di pomodoro, zucchero, verdura, eccetera, cioè negli alimenti che arrivano ai consumatori finali.

I tre quarti di tale biomassa, quella “perduta” negli scarti e nei residui agricoli e industriali, e l’altra materia presente negli scarti e negli sprechi dei consumi finali, “contengono” a loro volta una grande quantità di energia che potrebbe, almeno in parte, essere recuperata sotto forma di sostanze combustibili e quindi come energia utile per le attività umane. Una sfida per quella merceologia e tecnologia agricola e alimentare da cui almeno un miliardo di persone nel mondo aspetta una risposta alla propria fame di energia oltre che di cibo.

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Navigano lentamente in Parlamento varie iniziative legislative... >>>

Navigano lentamente in Parlamento varie iniziative legislative che mirano a limitare il “consumo di suolo”, cioè a rallentare o fermare la continua perdita di superfici agricole che ogni anno sono occupate da costruzioni e ricoperte da cemento e asfalto. Per dirla con parole chiare, i proprietari di terre agricole che rendono pochi soldi cercano di venderle ad alto prezzo a chi cerca superfici su cui costruire edifici o strade, con molto maggiori profitti. Ne conseguono non solo la perdita di attività e produzioni agricole, ma soprattutto profonde alterazioni sia del paesaggio, sia della circolazione delle acque e della ricarica delle falde idriche sotterranee. Per forza chi costruisce edifici o strade o parcheggi deve impermeabilizzare il suolo e deve livellare i terreni, distruggendo quelle spontanee vie di flusso delle acque che così, ad ogni pioggia intensa, allagano il territorio, spesso distruggendo le stesse opere costruite nei posti sbagliati.

C’è un altro volto del “consumo di suolo”; l’abbandono di spazi che sono importanti dal punto di vista ambientale e paesaggistico, ma che hanno basso valore per i proprietari. Mentre sulla utilizzazione errata e speculativa dei terreni agricoli esiste un vasto dibattito alimentato dai potenti interessi economici dell’edilizia e delle opere pubbliche e private, si parla meno del danno che l’Italia subisce per l’abbandono delle terre interne, specialmente delle colline e montagne e dei relativi paesini e piccole città che si stanno spopolando. C’è stata, nei decenni passati, una continua migrazione dalle parti interne, per lo più collinari e montuose, alle grandi città dove esistono, o si suppone che esistano, migliori condizioni di vita: scuole, ospedali, occasioni di lavoro.

Ancora più grave è lo spopolamento dei piccoli “borghi”, comunità che vivevano spesso di vita quasi autonoma utilizzando le risorse naturali e agricole, ma anche sociali e culturali, locali, che gli abitanti hanno abbandonato lasciando terre incolte, un vero e proprio spreco di suolo. Questa tendenza, umanamente comprensibile perché le persone, soprattutto giovani, cercano di “vivere meglio”, ha contribuito a quell’espandersi delle città e al “consumo di suolo” delle terre agricole di pianura. Si calcola che il 35 percento del territorio italiano sia occupato dal 15 percento della popolazione; in molte zone la densità della popolazione è bassissima, per lo più di anziani, benché esistano abitazioni inutilizzate e facilmente recuperabili.

Stanno aumentando, inascoltate, le voci di chi propone che i disegni di legge contro il “consumo di suolo” comprendano anche iniziative per ridare vita e speranza ai borghi e alle piccole città. Il problema riguarda anche il Mezzogiorno in cui l’abbandono delle zone interne e dei piccoli paesi, lasciati con scadenti servizi, è accompagnato di pari passo dalla congestione violenta delle città e da dissesti territoriali. Eppure proprio i borghi potrebbero diventare sedi di attività economiche e produttive con molti vantaggi; una parte degli abitanti, degli attuali o dei nuovi, potrebbe trovare lavoro, utilizzando e migliorando edifici e abitazioni esistenti, dedicandosi ad attività economiche come artigianato o la stessa agricoltura.

Adriano Olivetti (1901-1960), che era un imprenditore illuminato, lo aveva capito; la crescita dell’offerta di lavoro a Ivrea, dove esisteva la grande fabbrica di macchine per scrivere e di apparecchiature di calcolo ed elettroniche, portava lo spopolamento dei piccoli borghi vicini o costringeva i lavoratori ad un faticoso pendolarismo con la città. Ebbe allora l’idea di creare delle piccole attività industriali, specializzate nella produzione di parti degli oggetti richiesti dalla sua fabbrica di Ivrea, proprio nei vicini piccoli paesi del Canadese; l’obiettivo era quello di non far muovere i lavoratori, ma gli oggetti da loro fabbricati nei propri paesi, in stabilimenti in cui era previsto un orario flessibile, per cui gli operai in alcune ore della giornata potevano dedicarsi ai loro campi o alle loro stalle; il reddito veniva così investito nel miglioramento delle abitazioni e delle condizioni di vita locali. Purtroppo la morte prematura di Adriano Olivetti vanificò queste iniziative di vera e propria rinascita delle zone interne.

Oggi le nuove forme di produzione e lavoro in settori di avanguardia, come la microelettronica, che “vende” i suoi prodotti per telefono, potrebbe attrarre occupazione proprio nell’Italia minore, ricca di spazi e edifici spesso inutilizzati, spesso di grande bellezza, con una qualità della vita migliore di quella dei grandi agglomerati urbani. Paesi in cui spesso esistono scuole e licei di alta e antica tradizione, biblioteche con patrimoni sconosciuti e dimenticati, servizi sanitari spesso meno affollati e più “umani” di quelli delle metropoli.

Un decentramento e un recupero dell’Italia minore potrebbe creare ricchezza attraverso il riassetto del territorio; la regolazione del corso dei torrenti e fiumi eviterebbe futuri danni a valle e potrebbe fornire energia idroelettrica in piccoli impianti, potrebbe dar vita a coltivazioni di piante economiche per fibre tessili “ecologiche”, essenze aromatiche, per alcune delle quali esisteva già una tradizione poi abbandonata. La rinascita e valorizzazione del territorio “perduto”, restituito a funzioni economiche ed ambientali, consentirebbe di creare benessere oggi e di evitare costi collettivi futuri.

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“Tua per sempre”. E’ il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte ...>>>

“Tua per sempre”. E’ il messaggio che ci arriva da ciascuna delle conseguenze negative, durature, di tante violenze ambientali cui sono esposte la nostra, e molte future generazioni. Molti anni fa negli Stati Uniti un gruppo di studiosi pubblicò un libro intitolato: ”Il ruolo dell’uomo nel cambiare la faccia della Terra”, una storia delle modificazioni a lungo termine provocate dalle attività umane sulla natura, e quindi sulla salute e sul benessere umano. Diecimila anni fa gran parte della superficie del pianeta era coperta da foreste; i nostri antenati hanno imparato presto a trarre dal bosco legna per scaldarsi o per ricavare metalli dai minerali, per costruire solidi edifici o navi con cui solcare i mari e estendere i commerci.

L’impoverimento delle risorse forestali è stato tuttavia lento; ancora nel Medioevo era possibile andare da Roma a Parigi senza uscire mai dalle foreste; Federico II poteva andare a caccia nei boschi della Puglia. L’industrializzazione e l’aumento della popolazione e dei bisogni materiali hanno accelerato la distruzione di crescenti superfici dei boschi per conquistare campi coltivabili e per costruire grandi città; spazi di suolo sempre più grandi sono rimasti nudi, esposti alle piogge e all’erosione. Queste azioni sono la causa delle frane e alluvioni e dei relativi costi e dolori della nostra e delle future generazioni, eredità lasciataci da centinaia di generazioni del passato.

Peraltro non possiamo prendercela con i nostri predecessori perché (eccetto pochi filosofi o naturalisti inascoltati) non potevano prevedere la violenza a cui avrebbero condannato noi. Noi invece oggi sappiamo bene che molte nostre azioni avranno effetti negativi duraturi su quelli che verranno in futuro, eppure non smettiamo di compierle e anzi di aggravarle. Un breve elenco di queste violenze è contenuto in un recente numero della rivista “Resources”. Intanto continuiamo anche noi nella distruzione delle foreste per accedere ai preziosi minerali nascosti nel loro sottosuolo, o per avere spazi liberi da coltivare con una agricoltura intensiva, pur sapendo che questo modo di produrre piante economiche alimentari, o destinate alla trasformazione in carburanti “biologici”, provoca altre alluvioni, e sapendo che molti dei terreni strappati alle foreste, dopo poco tempo, diventano inadatti alla coltivazione di qualsiasi cosa da parte nostra e di chi verrà dopo di noi.

Altre modificazioni, durature nel futuro, della Terra sono provocate dall’inquinamento dell’atmosfera, dovuto al consumo di combustibili fossili e a molti processi industriali e responsabile del lento inarrestabile riscaldamento globale; è questa la causa delle improvvise tempeste, dei periodi di freddi intensi, dell’avanzata dei deserti e di mesi di siccità, spesso nelle stesse zone che poco prima erano state afflitte da devastanti piogge. I governanti dei vari paesi del mondo si affannano nel proporre di rallentare tale inquinamento, cioè di inquinare ogni anno un po’ meno dell’anno precedente, facendo finta di dimenticare che i disastri climatici sono dovuti alla continua aggiunta di nuove masse di gas a quelli ormai esistenti e permanenti per secoli futuri.

Altri effetti e pericoli duraturi sono dovuti ai rifiuti solidi e liquidi che vengono immessi nell’ambiente; ci si scandalizza, giustamente, per quelli che bruciano all’aria aperta, ma si dimentica che altrettanto grave e inarrestabile è il danno potenziale anche di tutti i rifiuti che sono sepolti nel sottosuolo in innumerevoli luoghi sconosciuti, in Italia e in tutti i paesi; gli agenti chimici presenti, di cui nessuno conosce natura o composizione o quantità, lentamente si disperdono nelle acque sotterranee e finiscono nei fiumi e nelle falde idriche che forniscono acqua per l’irrigazione e per le città. Anche in questo caso i governi, dopo breve indignazione, propongono bonifiche che non vengono portate a termine, o neanche avviate, sia perché costano, sia perché richiederebbero analisi e trattamenti a cui le Università e le industrie sono impreparati. Si pensi soltanto che la mortale “diossina”, oggi sulla bocca di tutti benché presente da secoli nell’ambiente, quarant’anni fa era quasi sconosciuta.

E fra i rifiuti una posizione specialissima, per i duraturi pericoli e danni futuri, hanno quelli radioattivi, i residui delle attività di preparazione dell’uranio e del plutonio impiegati nelle bombe nucleari e nelle centrali nucleari commerciali. Le oltre quattrocento centrali nucleari che nel mondo ogni anno producono 2600 miliardi di chilowattore, il 12 % dell’elettricità totale, generano ogni anno come sottoprodotti centinaia di migliaia di tonnellate di elementi, radioattivi per secoli, che lasciamo come eredità a centinaia di future generazioni. Senza contare che sulle nostre teste il cielo è affollato da “spazzatura” costituita da pezzi dei satelliti artificiali che non funzionano più, e che spazzatura spaziale eterna, fino a quando non ci cascherà sulla testa, diventeranno in pochi decenni le migliaia di satelliti che oggi ci rendono felici con le trasmissioni televisive, o i collegamenti telefonici, o ci spiano anche quando andiamo a fare la spesa.

Voi direte che questo è il progresso, ma si potrà ben pensare un “progresso”, una “civiltà”, meno violenti per coloro che verranno. Se esiste (si fa per dire) una etica che impone rispetto del prossimo, vicino e contemporaneo, non sarà il caso di elaborare una etica che induca a rispettare il “prossimo del futuro” ?

Ogni volta che qualche paese meno noto si affaccia nelle pagine dei giornali e nelle cronache televisive potete stare certi che “dietro” c’è qualche materia che i grandi paesi industriali ...>>>

Ogni volta che qualche paese meno noto si affaccia nelle pagine dei giornali e nelle cronache televisive potete stare certi che “dietro” c’è qualche materia che i grandi paesi industriali vogliono controllare.

Le guerre per le materie prime non sono certo nuove; gli antichi mercanti, quando trovavano dei venditori riottosi o avidi, non hanno mai esitato a conquistare con la forza le merci o le materie desiderate. La distruzione di Sodoma e Gomorra, le città divenute ricche per il loro monopolio nella produzione e nel commercio del sale, corrisponde probabilmente a un episodio di una delle tante guerre per le materie prime nell'antichità.

E' tutta da scrivere una storia dell'umanità basata sulla violenza per conquiste geografiche: soprattutto con l'inizio della rivoluzione industriale del 1800 è facile riconoscere le guerre per la conquista dei giacimenti di nitrati nel Cile (la lunga guerra fra Cile, Bolivia e Perù, sobillata dagli europei); per la conquista della parte dell'Amazzonia ricca di alberi della gomma; quelle per mettere fine al monopolio siciliano dello zolfo; per i giacimenti dei fosfati, eccetera. Molte manifestazioni dell'imperialismo hanno le loro radici nella conquista di giacimenti di materiali preziosi: la guerra per i giacimenti di ferro della Lorena, la spinta nazista alla conquista del petrolio russo, la spinta giapponese alla conquista della gomma in Malesia, eccetera.

La seconda guerra mondiale, combattuta fra i paesi industriali, aveva mostrato che una guerra moderna si poteva vincere soltanto con il possesso di materiali strategici, in gran parte presenti nei paesi coloniali: ai vecchi materiali --- petrolio, gomma, ferro --- se ne aggiunsero altri come cromo, vanadio, uranio, semi oleosi, ecc. I paesi coloniali, a mano a mano che si sono resi conto dell'importanza dei rispettivi territori e delle loro risorse, hanno cominciato a esigere la liberazione dalla condizione coloniale, considerata non soltanto una oppressione dei diritti umani fondamentali, ma anche come una occasione per rapinare gratis i materiali indispensabili per i vecchi e nuovi imperi.
Con l'indipendenza, molti nuovi stati si sono trovati padroni, finalmente delle "proprie" materie prime strategiche, in grado di chiedere per esse prezzi equi. I paesi industriali, da parte loro, hanno incoraggiato guerre locali --- si pensi alla guerra del Congo/Zaire/Katanga --- per assicurarsi cromo, cobalto, uranio. Ma la conquista delle materie prime non richiedeva, necessariamente, delle guerre: ai paesi industriali bastava insediare dei governi fantoccio, assicurarsi il monopolio della vendita di macchinari, capitali, armi, infrastrutture, bastava "educare" i cittadini dei paesi ex-coloniali nelle scuole e università occidentali per farne degli amici. Questi rapporti cripto-coloniali assicuravano comunque ai due imperi --- capitalistico e comunista --- merci e materie a basso prezzo. Fino a quando i paesi del "terzo mondo", come li aveva chiamati il geografo Sauvy, non hanno cominciato a organizzarsi per attenuare le molte iniquità.

Le guerre recenti delle materie prime sono cominciate, dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1951 quando Mossadeq in Iran depose lo shah e procedette alla nazionalizzazione del petrolio, un pessimo segno per le multinazionali che risposero col colpo di stato del 1953. Il governo fantoccio dello shah tornò al potere, rimettendo "ordine imperiale" nei rapporti fra l'Iran e le multinazionali petrolifere, le "sette sorelle", senza contare che quel gesto di prepotenza avrebbe innescato un irreversibile processo di crisi del potere economico dell’Occidente. Infatti come risposta il 19 luglio 1955, Nasser, Nehru, Chu En-Lai e Sukarno si riunirono a Bandung gettando le basi di un accordo fra paesi non allineati, ormai in numero sufficiente per poter contare nell'assemblea delle Nazioni Unite.

Nel 1956, nell'ambito di questo ordine mondiale alternativo, fu nazionalizzato il Canale di Suez, un altro segno della ribellione dei paesi in via di sviluppo; un intervento armato di Francia e Inghilterra fu evitato per l'intervento del presidente degli Stati Uniti Eisenhower che ristabilì l'ordine, apparentemente in modo così saldo da indurre le multinazionali addirittura a imporre una diminuzione del prezzo del petrolio greggio. A questa iniziativa i paesi esportatori di petrolio risposero creando, nel 1960, una organizzazione, l'OPEC, col proposito di regolare produzione e prezzi in modo da attenuare lo strapotere delle "sette sorelle" del petrolio.

Per cercare di mettere ordine in una situazione turbolenta, e non solo nel mercato del petrolio, le Nazioni Unite decisero di creare, nel 1964, una "conferenza" permanente per il commercio e lo sviluppo, UNCTAD secondo l'acronimo inglese, con l'obiettivo di stabilire accordi sui prezzi delle materie prime tali da non danneggiare i mercati ricchi e da assicurare un qualche flusso, verso i paesi poveri, di almeno un po' dei soldi necessari al loro sviluppo. La nuova agenzia ha tenuto una serie di riunioni in cui i paesi sottosviluppati hanno fatto sentire in modo crescente la propria voce.

Altre cose intanto stavano cambiando: nel 1964 il democristiano Frei fu eletto presidente del Cile, il principale produttore di rame, le cui miniere e raffinerie di rame erano nelle mani di poche grandi compagnie americane e occidentali. Frei avviò un processo di "cilenizzazione" delle miniere che venivano sottratte alle compagnie straniere; queste per estrarre rame dovevano pagare dei diritti, non molto elevati, dato che il governo cileno assicurò degli indennizzi per gli investimenti che esse avevano fatto nel corso dei decenni precedenti.

La fine degli anni sessanta del Novecento vede il mondo attraversato da una ventata di nuove aspirazioni, da quelle degli operai e degli studenti e quelle dei paesi del sud del mondo, anche alla luce della sconfitta che si stava delineando per gli Stati Uniti nel Vietnam. Il 1 novembre 1969 Gheddafi salì al potere, con un governo militare, in Libia, col programma di assicurare al suo paese maggiori guadagni dalla vendita del petrolio fino allora estratto dalle sette sorelle e pagato prezzi bassissimi. Il 14 settembre 1970 la Libia aumentò il prezzo del petrolio di 50 centesimi di dollaro al barile; alla fine del 1970 il prezzo del petrolio era salito da due a tre dollari al barile.

Intanto il 3 novembre 1970 fu eletto nel Cile il governo socialista di Salvador Allende, con un programma di sviluppo economico e sociale e di "nazionalizzazione" delle attività del rame. Le compagnie straniere si erano ripagate in abbondanza degli investimenti fatti fino allora e Allende annullò gli indennizzi assicurati anni prima da Frei: le miniere di rame venivano "nazionalizzate” e restituite al popolo cileno. Le compagnie avrebbero potuto comprare il rame come qualsiasi altro cliente.

Le due ribellioni, della Libia e del Cile, ebbero un effetto devastante nei rapporti internazionali. I paesi del terzo mondo si resero conto che potevano, se solo lo avessero voluto, trattare da pari a pari con i due imperi --- americano e sovietico e con i loro satelliti industriali europei e asiatici --- imponendo prezzi più equi. I profitti dei paesi poveri avrebbero potuto essere utilmente impiegati per avviare un processo di istruzione, miglioramento delle condizioni igieniche, costruzione di nuove città --- in una parola per uno "sviluppo" umano.

Non a caso la terza "Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo" (UNCTAD III) si tenne nel maggio 1972 a Santiago del Cile e si concluse con una serie di dichiarazioni in cui i paesi del terzo mondo chiedevano più equi prezzi, un contenimento della concorrenza che i paesi industriali potevano fare, con le fibre e la gomma sintetiche, alle materie naturali dei paesi sottosviluppati, eccetera.

La sfida non poteva essere tollerata e gli Stati Uniti, il paese guida delle economie capitalistiche, decisero di "punire" il governo socialista di Allende con il colpo di stato (11 settembre 1973) durante il quale Allende fu "suicidato" e fu insediato il governo fascista di Pinochet, che riaprì le porte alle multinazionali americane. Si trattava di un segnale per i paesi del terzo mondo: migliori condizioni commerciali si sarebbero potute avere non con le buone, ma con gli strumenti del mercato e con la lotta. Il 6 ottobre 1973 scoppiò la breve quarta guerra arabo-israeliana; il successivo 8 ottobre i paesi aderenti all'OPEC --- paesi non solo arabi, si badi bene --- decisero di aumentare il prezzo del petrolio aumentando il prelievo fiscale. Il maggior prezzo avrebbe così fatto affluire nei paesi petroliferi ingenti quantità di denaro, investito per migliorare le condizioni dei paesi petroliferi stessi e per consentire a questi ultimi di aiutare i paesi sottosviluppati nel loro processo di sviluppo.

Dal 1973 al 1980 si ebbe un continuo aumento del prezzo del petrolio e una profonda crisi economica in occidente. Avrebbe potuto essere l'occasione per avviare dei processi di modernizzazione, di risparmio energetico, di più giusti rapporti con i paesi poveri, anche per attuare una politica di minore inquinamento e sfruttamento dell'ambiente. Il mondo industriale riuscì a soffocare altri focolai di ribellione, come il colpo di stato in Katanga nel giugno 1977 che aveva fatto aumentare temporaneamente il prezzo del rame e del cobalto. Nel marzo 1979 Khomeini abbattè il governo dello shah in Iran, e ne seguì un nuovo aumento del prezzo del petrolio, l'ultimo perché il mondo occidentale alimentò la lunga guerra fra Iran e Iraq, fra il 1980 e il 1988, che spaccò il blocco dei paesi sottosviluppati in due tronconi, fece rallentare il processo di sviluppo unitario e fece crollare --- e questo era lo scopo del mondo occidentale --- il prezzo del petrolio e delle altre materie prime.

Gli anni ottanta del Novecento furono quelli dello spreco, dello sfruttamento delle risorse naturale, dell'aumento del divario fra paesi industriali e paesi sottosviluppati e delle guerre. nell'Angola (diamanti e minerali), in Somalia (petrolio), nel territorio dei Sarawi (fosfati), destinate a rendere ancora più poveri i paesi già poveri.

Le guerre delle materie prime fin qui elencate possono insegnare qualche cosa ? A varie riprese gli studiosi hanno indicato che le materie prime --- alimentari, energetiche, minerarie --- ottenibili dal pianeta sono tutt'altro che illimitate, hanno raccomandato di rallentare gli sprechi per non dover affrontare un giorno problemi di scarsità e di conseguenti aumenti dei prezzi.

Finora l'invito al contenimento dei consumi, ad una più giusta ripartizione delle risorse --- materiali e finanziarie --- fra paesi ricchi e paesi poveri, ad uno sviluppo meno insostenibile, ad una cultura "planetaria", sono caduti inascoltati.E' cambiata la geopolitica planetaria: i "mondi" sono tornati ad essere tre, ma ben diversi da quelli di 60 anni fa: i paesi industrializzati, affamati di materie prime, i paesi di nuova industrializzazione, come Cina, India, Brasile, Indonesia, ancora più affamati di petrolio, gas, minerali, cereali, legname, e i paesi poveri e poverissimi che ”servono” soltanto come magazzini di materie prime rapinate dagli altri due mondi. E proprio fra i poveri e i poverissimi nascono movimenti di ribellione che tendono ancora più instabile la situazione mondiale. E se si diffondesse una geografia e una educazione della giustizia ?

“Economia” e “ecologia” sono parole che hanno la stessa radice, ”eco”, dal greco, che sta ad indicare la casa, il territorio... >>>
“Economia” e “ecologia” sono parole che hanno la stessa radice, ”eco”, dal greco, che sta ad indicare la casa, il territorio, la comunità. L’economia, un termine inventato dai filosofi greci, era nata per studiare e indicare le leggi, in greco nomos, appunto, le regole alla base dei rapporti e degli scambi umani nell’ambito di una casa, di una comunità. Poi, col passare del tempo, a partire dall’Ottocento il termine economia è stato impiegato per indicare i rapporti regolati dallo scambio del denaro, sulla base del principio che la massima felicità si ottiene aumentando la quantità del denaro disponibile perché con esso può aumentare la quantità delle merci prodotte e vendute e anche l’occupazione. La quantità del denaro scambiato in una comunità viene espressa con l’indicatore Prodotto Interno Lordo, la cui crescita è comunemente considerata una misura del benessere di tale comunità.
D’altra parte la parola ecologia, “inventata” dallo studioso tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) nel 1866, indica lo studio, la conoscenza, logos in greco, appunto, di quanto avviene in una casa, intesa questa volta come l’ambiente naturale, la grande “casa” in cui tutti i viventi svolgono le proprie funzioni di nascita, crescita, declino e morte, usando e trasformando le risorse naturali come le acque, l’aria, il suolo. Ma, per ragioni fisiche ben precise, l’aumento “economico” della produzione di beni materiali può avvenire soltanto impoverendo e sporcando le risorse e i beni “ecologici” della Terra, al punto da compromettere la stessa vita, il cui benessere sarebbe invece il fine delle attività economiche.
Questa contraddizione è stata, fin dagli anni sessanta del Novecento, denunciata dai movimenti ambientalisti che, nel nome della vita, chiedevano di limitare e controllare la base stessa della crescita economica, la produzione di beni materiali. Da parte loro gli economisti hanno ridicolizzato le obiezioni ecologiche sostenendo che la tecnologia è in grado di risolvere tutti i problemi di scarsità, purché ci siano soldi sufficienti. Alla diffusione della conoscenza e al superamento delle contraddizioni economia-ecologia-lavoro ha dedicato tutta la sua lunga vita Carla Ravaioli (1923-2014), morta nei giorni scorsi a Roma.

Laureata in lettere con una tesi in storia dell’arte, negli anni cinquanta e sessanta era stata una attivista dei diritti delle donne con alcuni libri (tradotti anche in tedesco e in altre lingue) che sono stati punto di riferimento per le lotte femministe. Si possono ricordare i suoi libri sulla condizione femminile, uno dei quali con una celebre “conversazione” con Moravia, l’intervista-confronto sul problema femminile con il Partito Comunista Italiano, un famoso libro sullo sfruttamento dell’immagine della donna nella pubblicità. Nel 1977 Carla Ravaioli fu eletta al Senato nel gruppo della Sinistra Indipendente, quel gruppo di intellettuali che il Partito Comunista Italiano candidava al Senato e poi alla Camera, pur non essendo iscritti al partito, un gruppo che aveva ospitato, nel corso degli anni, Lelio Basso, l’economista Claudio Napoleoni, Claudio Galante Garrone e tanti altri.

Erano gli anni della primavera dell’ecologia, la stagione in cui i disastri ambientali apparivano in tutta la loro drammatica evidenza in Italia e nel mondo. Gli anni dell‘incidente che aveva contaminato con la diossina la cittadina di Seveso, gli anni in cui le fabbriche come l’Acna di Cengio in Liguria, la SLOI di Trento, l’Enichem di Manfredonia, la Caffaro di Brescia, per citare solo alcune delle tante, stavano sversando le loro scorie tossiche nel sottosuolo e nei fiumi italiani. Le contraddizioni fra i due volti, apparentemente inconciliabili, dalla maniera di intendere la “eco”, avrebbero potuto essere superate con un aumento della cultura ecologica, come chiedeva un disegno di legge che la Ravaioli propose in Senato.

Per mettere in evidenza il bisogno di tale “nuova” cultura, la Ravaioli, nel libro “Bugie silenzi e grida”, esaminò criticamente gli articoli sull’ambiente apparsi in vari quotidiani italiani nel corso di un intero anno fra il 1987 e il 1988. Ma il suo principale impegno fu rivolto agli aspetti umani e sociali dell’”ecologia”, alle condizioni e all’ambiente di lavoro, ai rapporti fra sfruttamento della natura e guerra. Uno dei libri più recenti, pubblicato da una piccola casa editrice di Milano, aveva proprio il titolo “Ambiente e pace” per sottolineare che la vera pace può essere assicurata soltanto da più equi (la parola giustizia permea tutti gli scritti dell’autrice) rapporti fra i popoli e dal rispetto della natura e della vita.
Carla Ravaioli aveva scelto come missione del suo lavoro la necessità di convincere gli economisti e i sindacalisti che, nei programmi politici ed economici, occorre tenere conto dei vincoli imposti dall’ecologia. Gran parte dei suoi libri e numerosissimi articoli sono rivolti proprio alla ”conversione” dei responsabili delle scelte economiche; molto interessanti i suoi “colloqui” con economisti come Claudio Napoleoni, Guido Rossi, Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Massimo Livi Bacci, con sindacalisti come Mario Agostinelli e Bruno Trentin.

Carla Ravaioli ci mancherà e c’è da augurarsi che molti suoi scritti, sommersi in pubblicazioni poco accessibili, siano ripubblicati e meglio conosciuti a riprova del valore di questa grande intellettuale che resterà sempre viva nella storia del pensiero ecologico ed economico.

I modi di produzione di merci e di servizi, anche quando si tratta di servizi apparentemente "immateriali", hanno a che fare con beni fisici... >>>

I modi di produzione di merci e di servizi, anche quando si tratta di servizi apparentemente "immateriali", hanno a che fare con beni fisici, materiali. A parte i servizi essenziali come cibo e acqua e indumenti, in cui gli oggetti sono indispensabili, il servizio "informazione" richiede reti elettriche di rame e macchinari di plastica e metallo o carta per libri e giornali; il servizio "trasporto" richiede autoveicoli, treni, carburante, elettricità; il servizio "illuminazione" richiede lampade e elettricità prodotta dai prodotti petroliferi o dal carbone o dal moto delle acque entro tubazioni di metallo e cemento; il servizio "salute" richiede edifici, strumenti di misura, letti, prodotti chimici; eccetera.

L'analisi dei modi di produzione dovrebbe presupporre una analisi dei diversi oggetti con cui è possibile soddisfare i bisogni e ciascun oggetto è ottenuto mediante un flusso di materia ed energia che parte dalle risorse della natura --- minerali, acqua, combustibili, vegetali, animali --- passa attraverso macchinari in cui la materia naturale viene "addizionata" con lavoro umano e conoscenze (cioè con la storia incorporata in ciascun gesto del lavoratore, così come si è evoluto e si modifica ogni giorno e ogni anno)

I macchinari producono oggetti, che sono merci, acquistabili con denaro nel sistema capitalistico, ma che in assoluto sono "cose", aggregati di molecole di materia con la relativa energia "incorporata", oggetti che scorrono da un settore all'altro della vita sociale. Alla fine le "merci" vengono usate nel settore della famiglia, del lavoro, dei servizi e, naturalmente, non si "consumano" ma ritornano alla natura sotto forma di gas, liquidi o solidi, esattamente con le stesse molecole uscite dalla natura che incorporano la stessa energia (se pure, quest'ultima, in forma termodinamicamente meno "pregiata").

Siamo di fronte, quindi, ad una circolazione natura-merci-natura, o N-M-N. (Uso il termine "merce" nel senso di cose fisiche che fluiscono attraverso la produzione e il "consumo"). Le merci non sono neutrali rispetto ai bisogni che soddisfano, nel senso che lo stesso bisogno umano può essere soddisfatto con differenti merci (differenti alimenti o detersivi o autoveicoli) traendo, quindi, differenti materie dalla natura e restituendo differenti scorie alla natura.

L'analisi della circolazione natura-merci-natura mostra che la qualità, il "valore", di ciascuna merce non sono descritti dal prezzo monetario il quale dipende dal modo in cui vengono ottenuti i beni della natura. A parità di servizio certe merci vengono prodotte perché i rapporti imperialistici consentono di ottenere a basso prezzo minerali o fonti di energia dai paesi poveri; se i rapporti commerciali internazionali fossero diversi lo stesso servizio potrebbe essere soddisfatto da merci prodotte in modo del tutto differente.

Lo stesso ragionamento vale per la quantità di scorie che si liberano nel soddisfare una "unità di servizio" (il chilometro percorso da una persona; il chilogrammo di biancheria lavata da una famiglia; il chilogrammo di proteine mangiate da una persona) o per la sollecitazione a cui è sottoposto un lavoratore.

Al fine di identificare altre scale di valori, in prima approssimazione si potrebbe cominciare a cercare di riconoscere in ciascuna cosa-merce il "contenuto di natura": è molto maggiore il contenuto di "albero" in un chlogrammo di carta nuova che in un chlogrammo di carta ottenuta dalla carta straccia; il contenuto di "minerale" in un chlogrammo di alluminio ottenuto dalla bauxite rispetto a quello ottenuto dal riutilizzo dei rottami.

Analogamente va cercato il "contenuto di energia" di ciascun oggetto, definito, grossolanamente, come la quantità di energia necessaria per produrne la unità di peso o per ottenere la unità di servizio. E' l'idea che ha affascinato decine di critici del capitalismo, con proposte talvolta bizzarre, come l'assegnazione di una moneta-energia uguale per ciascun individuo e commerciabile. (Per una stimolante storia di queste idee si veda il libro di J. Martinez-Alier, "Economia ecologica", Garzanti, Milano, 1991). Infine, sempre in questa prima approssimazione, si dovrebbe cercare di riconoscere il "contenuto" di scorie che si formano nella fase di produzione e di "consumo" della solita unità di merce o di servizio, qualcosa come un "costo ambientale".

I "costi" in materie prime, in acqua, in energia e in scorie --- adesso le mode ambientaliste li chiamano “impronte” --- sono indicati in unità fisiche, naturali così come il lavoro viene indicato in ore lavorative (che dovrebbero includere quelle effettivamente associate al lavoro, in cambio di un salario, e quelle "regalate" dal lavoratore al datore di lavoro sotto forma di tempo impiegato nel trasporto al posto di lavoro). Indipendentemente dal prezzo in unità monetarie, in un pianeta di risorse naturali scarse, "vale" di più una merce che, sempre per unità di peso o di servizio svolto, richiede meno risorse naturali, meno acqua, meno energia e genera meno scorie.

Continuando con questo ragionamento dovrebbe "valere" di più una merce ottenuta da materie importate da paesi che lottano per la propria indipendenza, anche se le materie importate da paesi oppressori costano di meno. E poi dovrebbe valere di più una merce duratura rispetto ad una "a breve vita" (o del tipo usa-e-getta, come si suol dire) perché estrae meno risorse dalla natura e getta meno scorie nella natura, e così via.

Si tratta di un inizio di un cammino alla ricerca di nuove scale di valori da percorrere anche riscoprendo oscuri e dimenticati predecessori. Citerò solo un articolo del socialista ucraino Serhii Podolinski: "Il socialismo e l'unità delle forze fisiche, apparso nella "rivista socialista" La Plebe di Milano, anno 14, numeri 3 e 4 del 1881. Anche lui concludeva il suo articolo dicendo che bisognava partire dal valore fisico e naturale della produzione. Abbiamo già perso 130 anni!

E’ abbastanza curioso che, mentre si moltiplicano i segni del malessere ambientale >>>

E’ abbastanza curioso che, mentre si moltiplicano i segni del malessere ambientale in Italia, così poco spazio sia riservato alla lotta a tale malessere nei programmi governativi, se si eccettuano qualche promessa di stanziamenti di un po’ di soldi per rimediare i disastri dovuti alle frane e alle alluvioni o una generica promessa di rimuovere un po’ di rifiuti tossici nella ormai famosa “terra dei fuochi” della Campania. Eppure le cose da fare sarebbero tante e tutte offrirebbero occasione per raggiungere il principale obiettivo del paese: più lavoro per tutti.

Una delle priorità è certo quella di diminuire i crescenti danni dovuti al dissesto idrogeologico, aggravati dalle bizzarrie climatiche, attraverso azioni decise e lungimiranti sia per il controllo delle vie di scorrimento delle acque. Non basta alzare gli argini dei fiumi, perché anche tali argini sono facilmente scavalcati dalle acque delle piene, quando gli alvei non ce la fanno più, non hanno più spazio per contenere le acque. Bisogna piuttosto vigilare su fiumi e torrenti per eliminare continuamente gli ostacoli che si sono accumulati e continuano ad accumularsi in seguito all’erosione del suolo nelle valli e colline e montagne, e bisogna frenare tale erosione con una politica di rimboschimento, come avveniva prima che il territorio fosse considerato soltanto spazio su cui costruire nuovi edifici e strade e ponti. Opere che, fuori di una pianificazione ispirata ad una vera cultura ecologica, diventano loro stesse ostacoli al moto delle acque verso il mare e quindi cause delle sempre più frequenti alluvioni.

Quelle che ho chiamato bizzarrie climatiche sono in realtà la conseguenza del riscaldamento planetario dovuto al crescente inquinamento dell’atmosfera. Qualsiasi emissione gassosa proveniente dai camini delle centrali e delle fabbriche, dai tubi di scappamento degli autoveicoli o dalle putrefazioni dei rifiuti, anche in un piccolo paese come il nostro, con appena 60 milioni di abitanti, rispetto ai settemila milioni di abitanti della Terra, va ad aggiungersi ai gas atmosferici responsabili del riscaldamento del pianeta. Agli inizi del Novecento l’atmosfera della Terra conteneva 2000 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il principale, ma non l’unico, gas responsabile di tale riscaldamento; nel 2010 ne conteneva ben 3000 miliardi di tonnellate, una quantità che aumenta in ragione di 15 miliardi di tonnellate all’anno, con velocità crescente a mano a mano che vengono bruciati carbone, petrolio, gas naturale, che aumenta la distruzione delle foreste.
Paesi ricchi e poveri, grandi imperi e piccoli paesi industriali come l’Italia, emergenti giganti economici e paesi poveri e arretrati, stiamo camminando tutti uniti, mano nella mano, verso un disastro climatico che è il prezzo amaro dell’apparente progresso. Senza contare che l’inquinamento dell’aria contribuisce al peggioramento non solo del clima del clima, ma anche della salute, al punto che per attenuarlo in molte grandi città gli amministratori sono costretti a limitare almeno la circolazione degli autoveicoli e le ore di riscaldamento invernale. Il malessere urbano cresce con l’aumentare delle persone che affollano le grandi città alla ricerca, spesso vana, di lavoro e di migliori servizi, in una reazione a catena di malessere ecologico. L’aumento delle popolazioni urbane comporta un aumento della richiesta di acqua potabile di buona qualità e una crescente produzione di acque inquinate che finiscono nelle fogne e poi contaminano i fiumi e le falde idriche sotterranee, quelle da cui spesso viene attinta l’acqua potabile per le città stesse.

Una situazione di disagio che potrebbe essere attenuata con un grande sforzo tecnico-scientifico di progettazione, costruzione e corretta gestione di impianti di depurazione delle acque sporche provenienti sia dalle città, sia dalle fabbriche e dagli allevamenti animali. Nella sola Italia i liquami contenenti gli escrementi degli allevamenti di bovini, suini, e pollame hanno un potere inquinante equivalente a quello dell’intera popolazione umana italiana. Alla contaminazione delle acque contribuisce anche lo smaltimento irrazionale dei rifiuti solidi: in Italia si tratta di 150 milioni di tonnellate all’anno, in parte urbani, in parte industriali; ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti nocivi provenienti dalle città, dalle centrali a carbone, da industrie metallurgiche e chimiche, dagli stessi inceneritori di rifiuti, finiscono in discariche spesso illegali, da cui metalli, elementi radioattivi e prodotti di putrefazione colano nel sottosuolo e contaminano le acque.

Per farla breve, la difesa dell’ambiente richiede prima di tutto conoscenze scientifiche sulla qualità e quantità delle merci e dell’energia prodotte e usate e dei loro prodotti di trasformazione, quelli che finiscono nell’aria, nelle acque, nel suolo; solo così è possibile far rispettare le leggi, che pure esistono e progettare impianti di filtrazione e depurazione di gas, liquidi e solidi inquinanti. Occorrono soldi pubblici e occorre del coraggio per dire no a, spesso potenti, interessi privati; il premio è un miglioramento della salute, un aumento dei posti di lavoro, un aumento di cultura, scientifico-tecnica ma soprattutto civile, e, perché no ?, una crescita della democrazia.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Da duemila anni, di questi giorni, ci viene ricordata la storia di una donna incinta ...>>>
Da duemila anni, di questi giorni, ci viene ricordata la storia di una donna incinta che cerca un posto in cui poter partorire, ma deve rifugiarsi in una grotta “perché non c’era posto per lei nell’albergo”. E’ un racconto di ieri e di oggi; ancora oggi nel mondo milioni di donne partoriscono e vivono in grotte o baracche o tende, perché non c’è altro posto per loro.
I governanti e le agenzie delle Nazioni Unite ripetono instancabilmente che la casa è uno dei diritti e dei “beni” umani fondamentali, insieme al cibo, all’acqua, alla salute e all’istruzione. Ma niente viene fatto per rispettare tale diritto nei paesi sottosviluppati e poveri, ma neanche nei paesi opulenti. Ogni tanto i telegiornali fanno vedere “le grotte” dei nostri giorni, le misere condizioni, spesso inumane, in cui vivono donne e uomini e bambini, anche nella civilissima Italia, nella civilissima Europa.
Eppure il problema può essere risolto con azioni politiche, economiche e tecniche. Non è tollerabile che, nel mondo, esista una piccola minoranza che possiede ville e ricchi appartamenti, magari negli svettanti grattacieli ultramoderni, e una folla di persone che cerca invano una casa e deve accontentarsi “di una grotta”. Una parabola di queste iniquità si trova nel romanzo di John Steinbeck, “Furore”, che racconta le disavventure dei contadini poveri nell’America degli anni trenta del Novecento, espulsi dai loro campi dall’avidità delle banche e dei proprietari terrieri. Una di queste famiglie affronta la “statale 66” per raggiungere la California dove “dicono” che c’è lavoro per tutti. La statale 66 è stata, per milioni di americani in quegli anni, una strada della speranza, come oggi il Mediterraneo per i migranti che cercano lavoro in Europa, il deserto verso il Mediterraneo per i migranti africani e asiatici.
E come questi migranti di oggi, anche la famiglia Joad incontra ostilità, rigetto, “caporali” che sfruttano il loro lavoro di raccoglitori di agrumi. Fino a quando raggiungono un campo predisposto dal Ministero dell’Agricoltura in cui questi migranti trovano una casetta, acqua corrente, gabinetti, decenti e un salario accettabile, pagato dallo stato. Con l’aperta ostilità dei grandi proprietari terrieri verso un governo che spendeva denaro pubblico per alleviare le condizioni di vita dei poveri sottraendoli allo sfruttamento. Nel Novecento, negli anni trenta della grande crisi, il presidente americano Roosevelt investì grandi quantità di soldi pubblici per assicurare un rifugio e un lavoro ai contadini poveri e incoraggiò anche la creazione di cooperative di edilizia popolare a prestiti agevolati, con l’aperta ostilità delle banche. Altra storia raccontata nel film di Ford. “La vita è meravigliosa”.
Nella breve stagione del centro sinistra anche in Italia furono finanziati con denaro pubblico gli interventi di edilizia popolare. Per il coraggioso progetto di dare la casa a chi ne è privo o vive in condizioni disumane, ci vogliono soldi da trarre da una politica finanziaria capace di distribuire secondo maggiore equità il denaro in circolazione, proprio quello che nessuna politica sembra intenzionata a fare. Ne deriva una ondata di “furore” da parte di coloro che chiedono casa e lavoro, come quelli che sono andati domenica scorsa in piazza San Pietro a Roma a sventolare davanti al Papa uno striscione con la scritta: ”I poveri non possono attendere”.
D’altra parte un progetto di edilizia capace di assicurare una casa a chi ne è privo, metterebbe in moto un settore economico in crisi, e la richiesta di una diversa edilizia avrebbe effetti positivi anche dal punto di vista ambientale. Non è infatti possibile continuare a costruire come si è fatto finora, con la conseguenza di un crescente numero di nuove abitazioni che restano invendute o non affittate dopo aver “consumato” inutilmente crescenti estensioni di suolo. Oggi ci sono tecnologie e conoscenze che permetterebbero di costruire case con i servizi essenziali, con minore consumo di materiali e di energia, con sistemi razionali di distribuzione dell’acqua e di gabinetti e fognature. Di costruire case con una diversa diffusione nel territorio evitando o diminuendo l’inquinamento dell’aria, che costringe i sindaci a vietare l’accesso nelle città, curando che le fogne non esplodano e che l’acqua sporca non invada le strade e le case.
A mio modesto parere, la crisi giovanile dipende anche dalla mancanza di una “visione”, di un progetto di città e di tecnologia nel quale la casa e il lavoro abbiano un ruolo centrale. Negli anni sessanta del Novecento la contestazione giovanile nacque, prima in America e poi da noi, proprio dall’aspirazione ad una nuova urbanistica; si leggevano i libri di Patrick Geddes e di Lewis Mumford che avevano ispirato Roosevelt trent’anni prima. L’economia non è soltanto soldi e bilanci ma è (sarebbe) anche moralità e solidarietà.

Nel libro “Furore”, prima citato, uno dei personaggi è una donna incinta e senza casa, come Maria duemila anni prima; Rosa Joad però perde il figlio e alla fine del romanzo offre il latte, ormai inutile, del suo seno ad un vecchio affamato che sta morendo: c’è più cristianesimo (e magari anche socialismo) in quelle pagine che in mille trattati di sociologia. Propongo che la lettura di “Furore” di Steinbeck, sia obbligatoria per quelli che aspirano ad essere eletti in qualche carica pubblica.

Da quando è stato eletto Papa, Francesco ha parlato almeno tre volte dello scandalo e della violenza della fame... >>>

Da quando è stato eletto Papa, Francesco ha parlato almeno tre volte dello scandalo e della violenza della fame nel mondo, un tema del resto trattato sempre anche da tutti i suoi predecessori. Ma nell’ultimo intervento, del 9 dicembre, il Papa ha ripetuto la parola “scandalo” per il miliardo di persone che ancora oggi soffrono la fame quando “il cibo a disposizione nel mondo basterebbe a sfamare tutti”. Ha poi continuato con parole ancora più dure: ha invitato le istituzioni e ciascuno di noi “a dare voce a tutte le persone che soffrono silenziosamente la fame, affinché questa voce diventi un ruggito in grado si scuotere il mondo”. Un ruggito, capite ? E ha continuato invitando a “diventare più consapevoli nelle nostre scelte alimentari, che spesso comportano lo spreco di cibo e un cattivo uso delle risorse a nostra disposizione”

Le parole del Papa contengono anche una sfida tecnico-scientifica, merceologica e pedagogica. E’ vero che la natura offre una sufficiente quantità di calorie e proteine alimentari con le quali sarebbe possibile soddisfare i fabbisogni di cibo per i sette miliardi di esseri umani; tali ricchezze della Terra non arrivano ai poveri affamati per le regole economiche internazionali e per la “globalizzazione dei mercati” che distorcono la loro distribuzione. Al punto che nei parsi ricchi molti si ammalano per eccesso di cibo e incredibili sprechi, mentre molti dei beni alimentari non sono accessibili neanche a coloro che li hanno prodotti. Nei paesi ricchi, abitati da appena due dei sette miliardi di terrestri, il cibo che troviamo nel negozio arriva dopo un lungo cammino che comincia nei campi dove le piante elaborano, con l’energia solare, semi, tuberi, frutti, verdure appositamente coltivati a fini alimentari.

Una parte di questi alimenti viene distrutta dai parassiti per mancanza di adeguate strutture di conservazione, una parte deperisce rapidamente e va perduta prima di essere trasferita ai luoghi di conservazione e trasformazione. Una parte degli alimenti vegetali viene destinata all’alimentazione degli animali da allevamento, oltre un miliardo di bovini, suini, pollame che trasformano i prodotti vegetali in carne e latte e uova, contenenti proteine pregiate dotate di un valore nutritivo maggiore di quello delle proteine di origine vegetale. La zootecnia assorbe circa dieci unità di valore alimentare vegetale per produrre appena una unità di valore alimentare animale pregiato. Poiché in questa trasformazione i produttori di cereali e gli allevatori di bestiame guadagnano di più che se vendessero gli alimenti vegetali per uso diretto, nel nome del profitto di poche imprese, grandi quantità di alimenti prodotti nei paesi poveri, o che potrebbero essere utilizzati direttamente dai poveri del mondo, vengono dirottati verso i più redditizi allevamenti zootecnici.

Non solo: una parte dei vegetali importanti a fini alimentari, soprattutto cereali, viene trattata per produrre carburanti “ecologici” utilizzabili al posto della benzina e del gasolio, con forti incentivi di molti governi; hanno ragione coloro che sostengono che il mais viene tolto di bocca ai poveri affamati per far correre i “suv” dei paesi ricchi. Eppure si sa che carburanti alternativi al petrolio potrebbero ben essere prodotti usando materie vegetali non alimentari, quei sottoprodotti che si formano durante ogni coltivazione agricola e che finiscono nei rifiuti. Altre perdite si hanno nelle fasi successive del ciclo degli alimenti; nessun prodotto arriva sulla nostra tavola direttamente dai campi o dagli allevamenti; i prodotti dell’agricoltura e della zootecnia vengono trasportati, spesso a distanza di migliaia di chilometri, e poi trasformati, conservati, inscatolati dall’industria agroalimentare con elevate perdite di sostanze preziose dal punto di vista nutritivo. Si può stimare che ogni dieci unità di valore nutritivo forniti dall’agricoltura e dalla zootecnica soltanto due arrivino come cibo al “consumo” finale, con conseguente spreco di beni ambientali, di energia, di acqua e relativi inquinamenti.

Ma lo spreco di cui parla il Papa non è solo questo. Circa il 30 percento degli alimenti che entrano nelle famiglie, nei ristoranti, nelle mense delle comunità, va perduto come rifiuti nelle discariche. Sono vissuto in un tempo in cui si raccontava ai bambini l’ingenua favoletta di Gesù che scendeva da cavallo per raccogliere una briciola di pane caduta per terra. Oggi la massa di perdite e di sprechi del ciclo alimentare ammonta a diecine di miliardi di tonnellate all’anno: utili programmi di ricerca scientifica permetterebbe di verificare dove si trovano gli sprechi, da che cosa sono costituiti, come è possibile trasformare il rifiuto in ricchezza, come è possibile trarre cibo di buon valore alimentare da sottoprodotti o da piante finora trascurate. Fortunatamente esistono alcuni, troppo pochi, centri di ricerche su questa “tecnologia della carità” e purtroppo il tema dello spreco alimentare è del tutto assente dai piani dei “saggi governanti.

L’avvicinarsi del Natale ci offre una ubriacatura pubblicitaria di cibi sempre più sofisticati e raffinati e le regole economiche sollecitano il “dovere” di comprarne sempre di più perché, dicono, questo aiuta l’economia. Nessuno parla di comportamenti e scelte coerenti con quelli suggeriti dal Papa venuto dall’altra parte del mondo; speriamo che il ruggito del mondo povero ci scuota dalla nostra indifferenza.

Stiamo appena risanando alla meglio le ferite apportate al nostro paese da alcune settimane di tempeste fuori dell’ordinario... >>>

Stiamo appena risanando alla meglio le ferite apportate al nostro paese da alcune settimane di tempeste fuori dell’ordinario, con terre allagate, case, campi e fabbriche invase dal fango, e dolori e disagi di migliaia di persone e danni monetari e morti. Fenomeni che ci hanno resi fratelli di milioni di altre persone colpite da tempeste e alluvioni, nel corso di questo 2013, in tante altre parti della Terra. Sono (abbastanza) note le cause di tali disastri per quanto riguarda i continenti: erosione del suolo dovuta a diboscamento e a colture intensive, mancanza di manutenzione dei fiumi e torrenti, costruzioni in luoghi non adatti di edifici, strade e ponti che hanno ostacolato lo scorrere naturale delle acque, eccetera.

Minore attenzione viene invece rivolta al ruolo che il mare ha in questi eventi così gravi; il mare, la cui superficie è oltre il doppio di quella delle terre emerse, è un gigantesco collettore dell’energia solare che scalda la superficie degli oceani (il più grande è quello Pacifico, seguito da quello Atlantico e dall’Oceano Indiano) e dei tanti mari, alcuni dei quali, come il Mediterraneo, sono poco più che grandi laghi all’interno dei continenti. L’acqua di mare è caratterizzata da una temperatura variabile a seconda della latitudine e della stagione e che risulta “in media” di circa 15 gradi Celsius, e da un contenuto medio di sali di circa 35 chilogrammi per metro cubo di acqua, anche questo variabile a seconda della vicinanza delle foci dei grandi fiumi di acqua dolce o della vicinanza dei ghiacciai polari.

Il flusso della radiazione solare scalda gli strati superficiali dei mari e fa evaporare una parte dell’acqua che si disperde nell’atmosfera, il terzo protagonista del grande ciclo dell’acqua sulla Terra. Il vapore acqueo caldo sale nella massa dell’atmosfera e si dirige verso zone della Terra più fredde, nelle quali si separerà dall’atmosfera in forma liquida ricadendo sui mari e sulle terre emerse sotto forma di piogge. Questo spostamento delle masse di vapore acqueo nell’atmosfera contribuisce a generare quelli che chiamiamo venti, il quarto protagonista del grande spettacolo che si svolge sul palcoscenico della natura. Le variazioni di temperatura della superficie terrestre e dei mari, i venti e i continui movimenti degli strati superficiali del mare hanno un ruolo benefico per l’esistenza umana: scaldano le parti fredde della Terra, rendono abitabili le zone calde e portano piogge nelle zone aride.

Qualche volta la natura esagera; per motivi poco noti certe volte “piove troppo” e altre volte le piogge ritardano e provocano siccità. L’analisi delle forze che governano le grandi circolazioni di acque e aria sul pianeta, spiega che le normali bizzarrie climatiche si sono aggravate, in questo ultimo secolo, per il lento aumento della temperatura dell’atmosfera, e quindi della superficie dei mari, dovuto alla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per colpa degli inquinamenti umani. L’IPCC, il gruppo di scienziati di diversi governi che studiano i mutamenti climatici, ha di recente completato il quinto aggiornamento sul clima planetario che ha confermato il rapporto fra attività umane e peggioramento del clima. Mediante l’uso di modelli matematici adesso si capisce qualcosa di più sull’origine delle tempeste che devastano sempre più spesso tante parti del pianeta con una frequenza e violenta che non si ricordavano da decenni o secoli.

Che fare ? Le opere di rimboschimento o la protezione del verde esistente consentono di rallentare il flusso delle acque sul terreno e l’erosione. Soprattutto occorre cercare di prevenire le conseguenze che tali bizzarrie avranno sulle terre emerse, tenendo liberi da ostacoli gli alvei di torrenti e fiumi, “le strade” in cui le piene improvvise possano scorrere liberamente verso il mare. Questo richiede più rigorose norme che vietino le costruzioni vicino o lungo le strade dell’acqua e occorrono sistemi di vigilanza continua sui fiumi, torrenti e fossi: delle sentinelle idrologiche che informino continuamente le autorità responsabili sullo stato delle acque. Ma ci sono anche dei possibili preallarmi delle condizioni climatiche anomale.

Uno è costituito dalla misura della temperatura delle acque costiere, in genere in aumento quando si avvicinano piogge particolarmente intense. Mi chiedo quanti amministratori pubblici sappiano che l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha un proprio sito Internet www.mareografico.it, nel quale sono riportati, per numerose stazioni costiere, istante per istante, i caratteri fisici del mare: temperatura, acidità, salinità le informazioni essenziali per conoscere lo stato dei mari e il suo mutamento. Il prof. Antonio Lupo mi ha scritto che alcuni quotidiani del Friuli pubblicano ogni giorno i dati del mare misurati dai locali Istituti Nautici.

Mi auguro che tutti i quotidiani vogliano inserire un piccolo notiziario “del mare” considerando che l’Italia ha ottomila chilometri di coste, è esposta a siccità e tempeste che, in parte, possono essere previste proprio da tali dati. Questa vigilanza offre una nuova occasione di “servizio” alla comunità civile per le università e gli Istituti tecnici regionali, e per le autorità civili e militari del mare. Oggi è certo, infatti, che è il mare il vero grande protagonista e responsabile degli eventi da cui dipendono la vita e l’economia.

“L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer... >>>

“L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra”: queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le esplosioni delle bombe atomiche nell’atmosfera stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Lunghe lotte portarono alla cessazione delle esplosioni nucleari nell’atmosfera, poi anche di quelle nel sottosuolo; poi venne la distensione fra le due superpotenze, USA e URSS e poi la scomparsa dell’URSS che avviò un’era di relativa pace. Sorsero nuovi giganti industriali,e una ondata di progresso tecnico-scientifico in tutto il mondo; cominciò un aumento dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da un brusco aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi che contaminavano le terre e gli oceani, e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che modificarono rapidamente la composizione chimica dell’atmosfera.

Già nei primi anni del Novecento alcuni chimici come Arrhenius e Vernadskij avevano fatto quattro conti e avevano spiegato che un aumento della concentrazione di tali “gas serra” nell’atmosfera avrebbe portato un aumento della temperatura media della superficie dei continenti e dei mari, con un turbamento di quel delicatissimo e fragile equilibrio termico da cui dipendono le piogge e la formazione dei ghiacciai permanenti e dei deserti, la circolazione delle correnti che spostano il calore da una parte all’altra dei grandi oceani, scaldando alcune zone fredde e rinfrescando altre, rendendo fertili le terre nordiche e gradevoli quelle tropicali.

Ben presto si è visto che l’aumento della temperatura media del pianeta provoca la fusione di una parte dei ghiacciai polari con successive reazioni a catena: nella trasformazione dell’acqua solida in acqua liquida masse di acque fredde e prive di sali vengono miscelate con le acque saline del mare; inoltre dai ghiacciai che fondono si libera il metano, intrappolato da tempi antichissimi, che si disperde nell’atmosfera e contribuisce anche lui ai cambiamenti climatici. Tutte reazioni di cui si vedono le conseguenze certe sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di più intensi flussi dei fiumi in altre.

Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste

Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa Commoner (“Il cerchio da chiudere”) aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui “Limiti alla crescita”. Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento delle cose.

Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori ?

Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci saranno sempre più frequenti disastri ambientali come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri.

Lo stesso vale per i disastri mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per risarcire i danni che le persone hanno subito, per l’imprevidenza dei loro governi i quali non hanno preso le precauzioni - tanto per cominciare la limitazione delle emissioni di gas serra --- che avrebbero salvato vite e beni; poco conta se aumentano i dolori umani e le morti che non entrano nelle contabilità nazionali e aziendali, poco conta se l’agire “come al solito” provoca migrazioni di masse umane in fuga dall’avanzata dei deserti, dalle zone devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si contendono terre in cui vivere.

La seconda alternativa è offerta dalla recente invenzione della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. La fantasia dei resilientisti è senza fine nel suggerire come adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.

Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura. La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il minimo rimedio della pianificazione presuppone lo “sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.

Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.

Insomma la pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di risparmiare costi futuri. Nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.

50 anni fa a San Pietroburgo, nella Russia zarista, nasceva Vladimir Vernadskij, una delle persone più significative nella storia dell'ecologia... >>>

50 anni fa a San Pietroburgo, nella Russia zarista, nasceva Vladimir Vernadskij, una delle persone più significative nella storia dell'ecologia, un personaggio straordinario troppo poco conosciuto. Vernadskij, che aveva partecipato ai movimenti giovanili di protesta contro l'assolutismo degli Zar, dopo un periodo di studi in Germania, nel 1890 era diventato professore di geochimica, una giovane disciplina che studiava con strumenti chimici la composizione dei minerali. Per queste sue competenze era divenuto membro dell'Accademia russa delle Scienze ed era stato nominato presidente di una speciale Commissione per lo studio delle risorse naturali, incaricata di identificare i giacimenti di minerali di importanza economica sparsi nello sterminato impero russo. Vernadskij aveva studiato, in particolare, i minerali radioattivi che erano stati scoperti e descritti pochi anni prima dai coniugi Curie.



Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 Vernadskij aveva continuato i suoi studi e l'insegnamento. Non era membro del Partito Comunista, ma fu rispettato e apprezzato dal governo bolscevico e da Lenin, e poi da Stalin, che lo incaricarono di continuare a dirigere la Commissione per le risorse naturali e anzi di intensificarne l'attività. In un periodo della storia russa che molti descrivono come oscuro, violento, intollerante, questo non-comunista fu nominato presidente della prestigiosa Accademia delle Scienze dell'URSS, girava il mondo e passò alcuni anni, dal 1924 al 1926, a Parigi presso l'Istituto Pasteur.



A Parigi insegnò all'Università, mettendo a punto la nuova rivoluzionaria visione biogeochimica della grande unità di tutto il mondo biologico e inanimato, che sta alla base della moderna ecologia. Nel periodo di Parigi apparvero, prima in francese e poi in russo, due opere fondamentali di Vernadskij: "La geochimica" e "La biosfera". Nella Parigi di quegli anni venti - l'"età dell'oro dell'ecologia", come l'ha chiamata il biologo italiano Franco Scudo (1935-1998) - vivevano e insegnavano anche il grande matematico italiano Vito Volterra (1860-1940), che descrisse le leggi fondamentali della coesistenza delle popolazioni animali, e il russo Vladimir Kostitzin (1883-1963), emigrato dall'Unione Sovietica dopo un passato di rivoluzionario, a cui si devono altre opere fondamentali di biologia matematica.



Le lezioni di Vernadskij furono seguite dal gesuita francese Pierre Theilard de Chardin (1881-1955), che conduceva ricerche di paleontologia in Cina e a cui si deve il concetto di "noosfera", la forma in cui la storia naturale dell'uomo si completerà come trionfo della mente (noos in greco).

Tornato nell'URSS, Vernadskij si batté con successo perché l'Accademia delle Scienze sovietica restasse indipendente dall'influenza politica del governo, e continuò le sue ricerche sui minerali strategici e radioattivi che avrebbero assicurato all'Unione Sovietica la produzione industriale e la vittoria contro il nazismo.

Ma soprattutto Vernadskij va ricordato per aver elaborato, in forma compiuta, la grande visione unitaria della vita sul pianeta. Una vita che si basa sulla circolazione degli elementi dall'atmosfera alle piante, agli animali, al suolo, e poi di nuovo all'atmosfera e alle acque; di questi cicli vitali fanno, naturalmente, parte gli esseri umani.

Oggi sono stati inventati nuovi termini: si parla di visione "olistica", unitaria, appunto, dell'ecologia, ma il concetto di unità bio-geochimica della vita sul pianeta nasce proprio con Vernadskij quasi novant'anni fa. Vernadskij descrisse chiaramente le alterazioni del clima dovute alla modificazione della composizione chimica dell'atmosfera, tanto che già nel 1926 era chiaro quello che oggi chiamiamo "effetto serra". Vernadskij parlò del ruolo dell'ozono stratosferico come filtro delle radiazioni ultraviolette solari biologicamente dannose e delle conseguenze di quello che oggi chiamiamo il "buco dell'ozono". Negli studi biogeochimici di Vernadskij erano descritti i danni dell'erosione del suolo e i pericoli di perdita di fertilità dei terreni a causa delle attività antropiche irrazionali.



Ma forse l'opera più interessante, quasi il testamento scientifico e spirituale, è il breve saggio, pubblicato nel gennaio 1945 nella rivista americana "American Scientist", intitolato: "La biosfera e la noosfera". Vernadskij usa il termine noosfera con un significato diverso da quello di Theilard de Chardin; per Vernadskij la "noosfera" è l'insieme delle modificazioni operate sulla biosfera dalle attività derivate dalla mente umana. Vernadskij spiega bene che tali modificazioni possono essere negative per i grandi cicli biogeochimici da cui dipende la sopravvivenza della stessa specie umana, ma nota che tali modificazioni --- se dominate dalla mente umana, anziché dall'avidità di gruppi o singoli --- possono anche contribuire al progresso umano attraverso l'uso razionale delle ricchezze della natura.

Un messaggio di speranza che viene da uno scienziato che è passato, a testa alta e rispettato, attraverso lo zarismo e l'epoca sovietica, giustamente onorato in Russia tanto che a Mosca al suo nome sono intestati l'Istituto di Geochimica dell'Accademia delle Scienze, un grande viale e una stazione della metropolitana.

Il contributo di Vernadskij è poco noto sia perché molte delle sue opere sono state scritte in russo, sia perché c'è una specie di pigrizia, da parte di tanti, nei confronti delle radici culturali dell'ecologia. Soltanto nel 1999 l'editore Sellerio ha pubblicato un'ampia raccolta dei suoi scritti col titolo: "La biosfera e la noosfera". E sarebbe utile che tali scritti fossero letti da chi dovrebbe occuparsi di ambiente nell'Italia odierna.

Questo articolo è inviato contemporaneamebte alla Gazzetta del Mezzogiorno

Francamente sono stufo di scrivere due volte all'anno un articolo sul dissesto idrogeologico...>>>

Francamente sono stufo di scrivere due volte all'anno un articolo sul dissesto idrogeologico; almeno due volte all'anno le piogge intense, magari imputabili al cambiamento climatico che surriscalda il pianeta, tanto per dare la colpa a qualcuno, fanno uscire l'acqua dagli argini di fossi, torrenti, fiumi, sulle colline e nelle pianure, allagano e distruggono sottopassi, strade con i tombini che esplodono, campi coltivati con i loro faticati raccolti, fabbriche e abitazioni, strade e ferrovie. La risposta delle autorità è sempre la stessa: si invoca lo stato di calamità naturale, il che vuol dire chiedere allo stato qualche soldo, che arriva sempre in ritardo, per ricostruire nello stesso posto, le stesse cose che sono state spazzate via dalle acque, per rimborsare le perdite dei beni alluvionati o dei raccolti perduti.

I lettori di questo giornale sanno bene, sulla propria pelle, di che cosa parlo. Nessuno, cittadini, alluvionati, governanti, prende in considerazione che non c'è niente di "naturale"; si continua ad autorizzare costruzioni nelle lame, sulle rive dei fiumi, sul fianco delle colline, dove fa comodo ai proprietari dei suoli i quali non pensano che le loro stesse proprietà andranno in rovina, un anno o l'altro. Ogni anno nel nord e al centro e nel sud d'Italia, le alluvioni fanno danni da trent'anni a questa parte. I governanti emanano e correggono continuamente farraginose leggi sulla difesa del suolo, creano agenzie che assicurano appalti per opere che saranno spazzate via uno o dieci anni dopo.

I più fantasiosi chiedono investimenti di diecine di miliardi di euro per programmi di difesa del paesaggio e della bellezza d'Italia. Io credo che chi propone o approva o modifica leggi, non sia mai andato con gli stivaloni nel fango a spalare detriti, non sia mai sceso sul greto di un torrente, altrimenti avrebbe osservato che le alluvioni sono figlie di una chiara violenza contro la natura e richiedono soluzioni altrettanto chiare. L'acqua da miliardi di anni ha "l'abitudine" di scendere dall'alto al basso lungo le strade di minore resistenza; quando trova un ostacolo lo aggira e si crea delle vie di scorrimento più comode, oppure lo sposta e lo porta in basso, siano sabbia, pietre, piante.

D'altra parte la forza delle acque è rallentata e frenata dalla vegetazione spontanea, e così nei millenni le acque hanno "disegnato" le valli e hanno creato le pianure che sono poi diventate fertili, attraversate da fiumi che portano incessantemente al mare il loro carico di sostanze solide disciolte o in sospensione. Purtroppo il fondo delle valli e le pianure, là dove corrono le acque, sono stati e sono gli spazi più appetibili economicamente e là sono sorti villaggi e poi paesi e poi città, con le loro strade e "ponti" e sottopassaggi, con i loro "fiumi sotterranei" di fogne. Tutto guidato dalle leggi "economiche", cioè si è costruito dove c'erano interessi e proprietà privati o dove le opere costavano meno o erano più comode.

Con l'aumento della popolazione e del "benessere" le presenze umane hanno invaso gli spazi dove scorrevano le acque, hanno distrutto, con quartieri e strutture "sportive", la vegetazione che rallentava il moto delle acque, ogni intralcio agli affari e al "progresso". E le acque si vendicano, sono diventate più aggressive e veloci, è aumentata la erosione del suolo, sono diminuiti gli spazi per il libero scorrimento delle acque e queste, ad ogni pioggia più intensa si espandono e allagano le zone circostanti. Le fotografie e le immagini cinematografiche delle alluvioni sono più eloquenti di un trattato di geografia: guardate come i torrenti sono stati imprigionati in stretti canali, come il diboscamento ha lasciato esposte all'erosione grandi superfici delle valli.

Eppure i rimedi sono noti. Il primo è sradicare la dannosa idea che, pur di "portare a casa" qualche soldo nei comuni e nelle regioni, pur di favorire imprese private, si possano autorizzare costruzioni e opere che intralcino il moto "naturale" delle acque. La seconda ricetta consiste nel mettere al lavoro delle persone che puliscano i fossi e i torrenti eliminando almeno i principali ostacoli al moto delle acque per permettergli di scorrere nelle loro "naturali" vie, che svolgano la funzione di "sentinelle" delle acque. La prima cosa che Roosevelt fece quando divenne, nel 1933, presidente di un'America in piena crisi, piena di disoccupati, con il territorio devastato, fu la creazione dei corpi civili giovanili per la difesa del suolo, costituiti da giovani disoccupati, appartenenti a famiglie disagiate, col compito di svolgere proprio le operazioni di cui parlavo prima. Pochi anni dopo anche l'economista Ernesto Rossi (1897-1987) nel libretto "Abolire la miseria" (1946), auspicava l'istituzione di un "esercito del lavoro" costituito da giovani compensati con pubblico denaro e impegnati a svolgere "servigi pubblici gratuiti". E quale "servigio" più utile della guerra alle alluvioni ? La proposta fu ripresa in vari scritti dall'economista Paolo Sylos Labini (1920-2005).

Ho letto con interesse che una recente proposta di legge dei deputati Gianni Melilla e altri, del Gruppo SEL ("E" sta per "ecologia"), propone l'istituzione di un "Corpo giovanile per la difesa del territorio". Per pagare questi giovani lavoratori nella pulizia dei torrenti, nel rimboschimento, nella vigilanza del moto delle acque occorrono dei soldi pubblici, che sarebbero bene spesi. Si pensi che 3 milioni di euro, la cifra richiesta in una delle tante recenti alluvioni per parziale rimborso dei danni sofferti dagli alluvionati, potrebbero assicurare un salario per un anno a duecento "sentinelle" delle acque. Con l'effetto che l'anno dopo, due anni dopo, dieci anni dopo, si eviterebbero dolori e danni e distruzioni che costerebbero, alla comunità, ben più di quella cifra. Spero che qualcosa si muova, un giorno o l'altro.

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