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Di Genova si sa poco e niente. Si parla del ponte, ma non della città sottostante, la cui forma - quella di un uomo a terra con le braccia allargate - riflette la condizione attuale. Dalla rivista La Città, n. 6/2018 (m.b.)

Cinquant’anni fa Eugenio Montale scriveva, in un libro dell’Italsider, alcune pagine fondamentali sulla sua città. adottando la prospettiva dell’esule e rievocando tempi già allora lontani:
«Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le villes d’art del mondo; una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di caruggi che giungeva fino al porto». E ricorrendo al repertorio zoologico (e architettonico) ne sintetizza l’immagine così: «Genova era una città fatta a chiocciola, con un centro unico abitato dai ricchi e dai poveri». Poi, intervenuti tanti cambiamenti, usa per il presente in cui scrive un’altra similitudine animale, destinata a diventare famosa: «Una città che è una striscia di venti chilometri, da Voltri a Nervi, e a mezza via il grosso nodo centrale. Vista da un aereo deve sembrare un serpente che abbia inghiottito un coniglio senza poterlo digerire».
Oggi, dopo la tragedia del 14 agosto, come appare Genova? Messe da parte immagini da bestiario medievale, forse come una T rovesciata: un uomo a terra con le braccia allargate, rispettivamente, ad est e ad ovest delle due Riviere, la testa e il tronco reclini sul centro e le gambe unite distese verso l’interno della Val Polcevera. Lugubre? Irrealistico? Forse. Ma ben risponde – come tragedia alla farsa – a quanto s’è visto dopo il crollo del ponte Morandi: i selfie con i politici del rinnovamento ai funerali di Stato; il plastico da Vespa con Toninelli sorridente; il passaggio di Conte a Genova con il suo numero da commedia dell’arte («fogli bianchi, questi? No, pieni di parole che saranno fatti!»); la tiritera del decreto e poi i suoi, quanto meno eterogenei, contenuti.
A questo s’è aggiunta, quasi a beffa delle vittime della tragedia e della sorte degli sfollati, una gran dose di retorica. Nostrana e foresta: tempi di ricostruzione privi di ogni fondamento; odi alla risurrezione, funzionali a un rito consolatorio clamorosamente inutile; ripristino del mito polveroso della Superba; e proclami del solito ministro che, come in un fumetto, dice che «il super-commissario agirà alla velocità della luce». Una nebbia di stereotipi, di frasi fatte, di atti linguistici scorretti («io prometto» non equivale a dire «piove» ma è già un fare o, se resta senza seguito, un non fare irresponsabile) che ha messo in sordina realtà, considerazioni, domande su cui si gioca il futuro della città. Intanto, al di là di chi per ragioni umane ed economiche è rimasto coinvolto nel disastro, c’è qualcuno a cui importa davvero di Genova? A Roma ma anche nella stessa Genova?
In una città che, negli ultimi anni, ha fatto della separazione delle sue realtà urbane, e dei ceti sociali e delle varie economie, la sua insegna? Il crollo del ponte, in fondo, non ha fatto che sancire quanto era già nello stato delle cose: periferie abbandonate a sé stesse e viste con aria di sufficienza da chi sta al ‘centro’; piani di recupero monchi o mai realizzati; aree industriali dismesse da anni; scoordinate operazioni di lifting diventate dall’oggi al domani fatiscenti.
C’è un dato linguistico in proposito eloquente più di ogni discorso. Si sente sempre parlare di città spaccata in due, come se Genova esistesse solo su un asse orizzontale con Nervi e Voltri agli estremi. Ora, dovrebbe essere evidente che in realtà Genova è spaccata in tre (e in tanti altri pezzi). Zone rossa e arancione sono sia parte di Sampierdarena che sbocco e ingresso della Val Polcevera.
Se la seconda è sempre stata, con la sua storia passata di raffinerie e quella pre sente di grandi insediamenti commerciali e cittadine in basso e di borghi in alto, altra dalla città, Sampierdarena è un caso ancora più istruttivo: all’Ansaldo s’è sostituita la Fiumara ma nel cambio il quartiere non ci ha guadagnato e anzi s’è impoverito; la ‘piccola città’ d’un tempo ha patito dell’epidemia di sale-giochi e compra-oro – in perfetta sintonia tra loro – e di fenomeni di criminalità, giovanile e no; tante le saracinesche abbassate; e il valore degli immobili precipitato mentre è aumentata l’intollerabilità del traffico.
C’è chi resiste difendendo spazi di civiltà e d’integrazione in un contesto che è, insieme e paradossalmente, caos e deserto. A dimostrare come nella realtà – e non nelle ‘narrazioni’ delle macchine della persuasione – l’ossimoro sia la figura più ricorrente. E quella dal gusto più amaro.
Ora, tutto ciò è avvenuto perché le logiche particolari di gruppi e caste di una Genova neofeudale si sono sempre sottratte a un pensiero in fondo assai semplice: che una città vera è come un corpo o un organismo e che è pericoloso lasciar atrofizzare alcune sue parti a scapito di altre o trattarle come luoghi di scarto o porzioni solo fastidiose o superflue. A far questo, una città rischia di diventare, tutta, una sola periferia. La periferia dell’idea che ha di sé stessa e quindi un’invenzione, un paranoico esercizio retorico, una coroncina del rosario dai grani staccati. Ripiegata su di sé e poco interessata a prepararsi un passato da ricordare in futuro. Una realtà urbana spezzata. Il suo complessivo e unitario paesaggio umano e sociale si potrà vedere – come scriveva Montale – «solo in sogno perché i suoi abitanti lo hanno reso irriconoscibile». Ma sarà il sogno di chi dorme da esule nella sua casa.

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