il manifesto
Dai bonus alle permanenze oltre limite, il modello di accoglienza funziona ma cozza con la burocrazia, da cui l'inchiesta della procura. Ma lui dice: sono innamorato dell'onestà e della giustizia, non ho niente da nascondereono arrivati in tanti, da tutta la Calabria e oltre, per sostenere il sindaco di Riace, Mimmo Lucano. La procura di Locri lo indaga per «abuso d’ufficio, concussione e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche in relazione alla gestione del sistema di accoglienza».
Lui ha lo sguardo indignato ma sicuro delle proprie ragioni. E si commuove davanti all’affetto di tanti compagni: «Ciò che dirò in procura martedì prossimo, lo dico adesso a voi. Ribadisco la piena fiducia nel lavoro dei magistrati». Poi racconta l’inizio di quello che oggi è definito il modello di accoglienza Riace.
Cominciò tutto nelle famiglie riacesi che ospitavano i profughi, in modo spontaneo. «Io sono partito una ventina d’anni fa, con i miei ideali, quando ho conosciuto Dino Frisullo e la causa curda», spiega Lucano ripercorrendo le tappe che hanno portato all’apertura del fascicolo da parte della procura.
«C’è stata – prosegue – un’attività di monitoraggio nel luglio 2016 che ha messo in evidenza delle irregolarità burocratiche. Dopo pochi giorni abbiamo ricevuto un’altra visita ispettiva da parte dei funzionari della prefettura di Reggio Calabria. E nonostante noi lo abbiamo richiesto diverse volte, non ci è stato mai fornito l’esito di questa ispezione».
Eppure finì sul tavolo di un cronista de Il Giornale che – aggiunge il sindaco – «la usò per denigrare il nostro operato. Persino Forza Nuova e Fiamma Tricolore misero mano a quella relazione, quando vennero a manifestare qui contro di noi».
Il rapporto con la prefettura rimane in effetti ancora pieno di ombre. Non potrà mai recepire la dimensione umana dell’accoglienza. «Quella dimensione che non può scadere dopo 6 mesi, come prevederebbe la normativa», precisa il primo cittadino con riferimento a una delle contestazioni che gli vengono mosse: l’utilizzo dei fondi a sostegno di migranti non più ospitabili perché i progetti sancirebbero il loro allontanamento alla scadenza dei 6 mesi. Eppure sono ben 80 le persone che lavorano nei progetti, più altre 14 dopo la creazione di un asilo nido multietnico.
«La nostra è un’economia diffusa in cui è difficile per le mafie avere un controllo perché è coinvolto tutto il territorio. E a proposito, mi piacerebbe vedere le carte relative ai controlli sulle strutture di Isola Capo Rizzuto e Crotone», attacca Lucano, precisando che i suoi familiari “sono stati costretti ad andare via per cercare lavoro altrove, mentre sul mio conto corrente io possiedo solo 500 euro».
Per quanto riguarda la questione dei bonus, rivendica la correttezza del suo operato: «Serviva una moneta locale per l’accesso ai servizi sul territorio locale». Gli sembrava infatti assurdo che profughi sfuggiti alla guerra dovessero pure subire i ritardi della burocrazia italiana nell’erogazione dei fondi.
«Sono più innamorato della giustizia che della legalità», chiosa il primo cittadino, denunciando i limiti di una legalità strabica, che spesso autorizza delle grandi ingiustizie sociali ma non riconosce diritti elementari.
«Che cosa potrei raccontare ai miei figli ed a tanti compagni venuti qui da altre parti del mondo, se commettessi atti disonesti? Noi non siamo legati ad un partito, ma ad ideali forti».
Scattano in piedi tutti i presenti. Spontaneo affiora un applauso che sembra non finire mai. Dopo Lucano, prendono la parola in tanti.
Omar, arrivato qui dal Ciad nel 2012, spiega il meccanismo perverso che porta molte amministrazioni dei progetti Sprar a chiedere prestiti alle banche quando non riescono a coprire le spese per l’accoglienza: «Sono costrette a contrarre prestiti per anticipare i fondi che vengono erogati con molto ritardo. Spesso sono a tassi agevolati, ma non è giusto usare i fondi pubblici per pagare le banche. Con i buoni, noi permettiamo ai profughi di fare acquisti, aiutando anche le piccole realtà locali a restare in vita, e quando i soldi arrivano, ripaghiamo i debiti».
Tramonta il sole alle spalle di Riace. Ma tutto è ancora più chiaro, adesso, dopo le parole del popolo dell’accoglienza.
il Fatto Quotidiano,
Le politiche sull’immigrazione del governo italiano e gli accordi con la Libia nel mirino del Consiglio d’Europa. È il commissario per i Diritti umani Nils Muiznieks a chiedere spiegazioni al ministro dell’Interno Marco Minniti. Il commissario giudica in modo positivo l’impegno dell’Italia nel salvare vite umane nel Mediterraneo e le politiche di accoglienza, ma lo Stato, sottolinea Muiznieks, ha il dovere di garantire i diritti umani.
“La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è chiara su questo dovere. Alla luce dei recenti rapporti sulla situazione dei diritti umani dei migranti in Libia, consegnandoli alle autorità libiche o ad altri gruppi li si espone a un rischio reale di tortura o trattamenti inumani o degradanti. Per questo motivo chiedo al governo italiano di chiarire il tipo di operazioni di sostegno che pensa di fornire alle autorità libiche nelle loro acque territoriali e quali salvaguardie l’Italia abbia messo in atto per garantire che le persone intercettate o soccorse da navi italiane in acque libiche non si trovino in situazioni contrarie all’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”.
Fin qui le richieste contenute in una lettera del 28 settembre scorso, evidentemente scaturita da notizie e reportage pubblicati dai più importanti giornali internazionali. Ieri la risposta del ministro Minniti. “Mai navi italiane o che collaborano con la Guardia costiera italiana hanno riportato in Libia migranti tratti in salvo. L’attività delle autorità italiane è finalizzata alla formazione, equipaggiamento e supporto logistico della Guardia costiera libica, non ad attività di respingimento”, chiarisce il titolare del Viminale. “Ci tengo a sottolineare – aggiunge inoltre Minniti – che la più recente strategia italiana, condivisa e apprezzata a livello europeo, è imperniata anche, ma non solo, sul sostegno alle autorità libiche deputate al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori, per favorire una gestione degli stessi e contribuire, obiettivamente, a ridurre il rischio di incidenti e naufragi, rischio che potrà essere azzerato solo con l’interruzione delle partenze”. Ed è proprio questo il nodo: fino a che punto reggono gli accordi ufficiali con le fragili autorità libiche, e quelli “ufficiosi” (ammessi pubblicamente dagli stessi capi delle bande di trafficanti, ma sempre smentiti dalla Farnesina) con le più potenti milizie, soprattutto quelle che si finanziano con il traffico di esseri umani e il contrabbandi di greggio?
A giudicare dalle ultime notizie arrivate dalla Libia sembra che la situazione si stia già sfaldando e che presto assisteremo a una ripresa degli sbarchi. Secondo le notizie riportate da Saleh Graisia, portavoce della “Sala operativa per la lotta all’Isis”, nei giorni scorsi migliaia di migranti sono rimasti intrappolati a Sabrata, a 70 chilometri da Tripoli, dopo essersi ritrovati in mezzo agli scontri tra opposte milizie. Centinaia di morti e feriti, e migliaia di profughi rinchiusi nei centri di raccolta della milizia di Al Ammu, una delle principali organizzazioni del traffico di esseri umani. Nei suoi magazzini, rivelano fonti governative libiche, sarebbero stati ammassati migliaia di profughi pronti a partire. Almeno 3.000 sarebbero stati rintracciati dall’ente che contrasta l’immigrazione clandestina e trasferiti nei campi di detenzione ufficiali. In questi centri, dove ancora scarso è l’intervento e il controllo dell’Onu, sono garantiti i diritti umani?
Il rispetto di questi standard, è la risposta di Minniti alla lettera di Nils Muiznieks “è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche, proprio per favorire forme operative di cooperazione sempre più strutturate con le agenzie delle Nazioni Unite”.
postilla
Da ciò che si comprende, la questione del rispetto dei diritti umani «è costantemente al centro del dialogo dell’Italia con le autorità libiche», ma i fuggitivi sono sempre intrappolati tra il deserto e i campi di concentramento dei trafficanti di schiavi. E Minniti è tranquillo.
il Fatto quotidiano
Quando qualcuno urla “morte agli arabi” cosa intende? Chi deve ucciderli esattamente? Se tocca a lui, che fa, suona i campanelli del suo condominio e se chi apre è un arabo lo sgozza?
Insomma, come si cura un fanatico? Partire dall’inseguimento di un gruppo di esaltati armati sulle montagne dell’Afghanistan, nel deserto dell’Iraq o nelle città della Siria è una cosa. Combattere contro il fanatismo in sé è tutt’altra.
L’attacco alle Torri gemelle di New York, l’11 settembre 2001, così come altre decine di attentati in centri urbani e luoghi affollati in diverse parti del mondo, non è il frutto della rabbia che i poveri nutrono contro i ricchi. Questa guerra si gioca tra i fanatici, convinti che il loro fine giustifichi qualunque mezzo, e tutti gli altri, per i quali la vita è un fine, non un mezzo. È una battaglia fra chi ritiene che, a prescindere da quello che intenda per “giusto”, il giusto sia più importante della vita stessa, e gli altri, secondo i quali la vita viene prima di quasi tutti gli altri valori.
Molti dimenticano che l’islam estremista non ha affatto il monopolio del fanatismo violento. Il fanatismo è molto più antico dell’islam. Più antico del cristianesimo e dell’ebraismo. Chi tira bombe contro gli studi medici in cui si praticano aborti, chi uccide immigrati in Europa, chi assassina donne e bambini ebrei in Israele, chi brucia una casa con dentro un’intera famiglia palestinese nei Territori occupati da Israele, chi profana sinagoghe, chiese, moschee e cimiteri, tutti costoro sono diversi da al Qaeda e dall’Isis per quello che fanno e per la misura del loro operato, ma non nella natura dei loro misfatti. Oggi si parla di “crimini d’odio”, ma forse sarebbe meglio dire “crimini di fanatismo”.
Un importante scrittore israeliano, Sami Michael, raccontò un giorno di un lungo viaggio in macchina insieme a un autista. A un certo punto questi cominciò a spiegargli quanto importante, e pure urgente, fosse per noi ebrei “uccidere tutti gli arabi!”. Sami Michael ascoltò educatamente finché l’autista non ebbe finito la sua concione e, invece di scandalizzarsi, gli fece una domanda ingenua: “E chi, secondo lei, dovrebbe uccidere tutti gli arabi?”. “Noi! Gli ebrei! Bisogna farlo! O noi o loro! Non vede cosa ci fanno continuamente?” “Ma chi di preciso dovrebbe uccidere tutti gli arabi? L’esercito? La polizia? O i pompieri? O i medici in camice bianco, con delle iniezioni?”. L’autista si grattò il capo, tacque, rifletté sulla domanda e alla fine rispose: “Bisogna dividerci il compito fra noi. Ogni maschio ebreo dovrà uccidere alcuni arabi”.
Sami Michael non si arrese: “Va bene. Diciamo che lei, in quanto cittadino di Haifa, ha in carica un condominio della sua città. Passa di porta in porta, suona il campanello, domanda educatamente agli inquilini: ‘Scusi, siete per caso arabi?’. Se rispondono di sì lei 31 spara e li uccide. Finito di uccidere tutti gli arabi del condominio che le è stato assegnato, scende e se ne va a casa e allora, prima di allontanarsi, sente improvvisamente da un piano alto il pianto di un neonato. Che fa? Torna indietro? Sale su per le scale e spara al neonato? Sì o no?”. Lungo intervallo di silenzio. L’autista meditò. Alla fine rispose al suo passeggero: “Senta, signore, lei è una persona veramente crudele!”. Questa storia fa uscire allo scoperto qualcosa del guazzabuglio che si trova talora nell’animo del fanatico: un insieme di ottusità, sentimentalismo e scarsa fantasia. Grazie a quel neonato Sami Michael ha costretto il fanatico seduto al volante a mettere in funzione la propria fantasia, facendo con ciò vibrare le sue corde emotive. L’autista, che amava i bambini, è rimasto interdetto, si è offeso, si è riempito di rabbia per quel passeggero che lo ha costretto a materializzare in una terribile immagine l’astratto slogan “Morte agli arabi!”. Ed ecco che proprio nella rabbia di quell’autista è forse riposto un barlume di speranza, per quanto timida e parziale: quando il fanatico si trova nella condizione di dare concretezza allo slogan, di configurare i tratti dell’orrore e di mettersi nei panni dell’assassino di un neonato, forse a volte – solo a volte – si risveglia in lui un certo disagio. Una lieve esitazione. Compare tutt’a un tratto una crepa nell’ottusa muraglia del fanatismo.
Certo, non si tratta di una medicina miracolosa. Ciononostante, forse ogni tanto l’attivarsi dell’immaginazione, la costrizione a osservare molto più da vicino la sofferenza delle vittime, forse tutto ciò ogni tanto può fare da contraltare all’astratta crudeltà di formule quali “Morte agli arabi!” o “Morte agli ebrei!” o “Morte ai fanatici!”. Uccidere tutti gli arabi è molto più facile che uccidere un solo neonato arabo.
La storia di Sami Michael, che riuscì a mettere in imbarazzo o a confondere per un attimo l’autista che invocava l’uccisione di tutti gli arabi, dimostra che al fanatico non piace immaginare i dettagli del gesto al quale si vota con ardore. Gli piace lo slogan, il proclama, sempre che non si trovi costretto a tradurlo in urla, suppliche, gemiti di agonia, pozze di sangue, cervelli spappolati sul marciapiede. È vero che il mondo è pieno di sadici ma gran parte dei fanatici non è fanatica per sadismo, anzi, lo è per ideali astratti, desiderio di redenzione e riscatto universale in nome dei quali “ci si deve liberare dei malvagi”. Chissà se ad alcuni fanatici, nel momento in cui traducessero lo slogan “Dobbiamo annientare tutti i malvagi” in una descrizione delle sofferenze che ciò necessariamente implica – sofferenze terribili e strazianti – tremerebbe la mano… Almeno a quelli che non sono anche dei sadici patologici…
Immaginare il mondo interiore, le idee e anche le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro. Farlo anche – anzi: soprattutto – mentre dentro di noi monta quel miscuglio febbrile di rabbia, umiliazione, obbrobrio, tracotanza e incrollabile convinzione di aver subìto un torto, di essere dalla parte del giusto. Forse anche chiederci di tanto in tanto, “E se io fossi stato lei? O lui? O loro?”, mettendosi per un attimo nei panni del prossimo e persino nella sua pelle non per attraversare il fiume o “rinascere”, ma soltanto per capire e anche sentire quel che c’è laggiù: cosa ’è oltre il fiume? Che cosa hanno in testa? Come si sentono laggiù? E che aspetto abbiamo noi, da laggiù?
Questa curiosità non ci conduce necessariamente a un relativismo etico onnicomprensivo e neanche alla negazione di sé in nome dell’affermazione dell’altro. Ci conduce, ogni tanto, a una scoperta sensazionale, la scoperta che esistono molti fiumi, che da ogni sponda di quei fiumi si vede un paesaggio diverso, affascinante e sorprendente; che sono affascinanti anche se non si attagliano a noi, sorprendenti anche se non ci conquistano. Forse la curiosità ha davvero un potenziale di apertura, di tolleranza.
il manifest
IL SINDACO DI RIACE INDAGATO:
«SONO POVERO E SERENO,
FORSE DO FASTIDIO»
intervista di Silvio Messinetti
Intervista a Mimmo Lucano. Il primo cittadino: Non posso farci nulla se il modello di accoglienza che stiamo sperimentando è visto come un’anomalia burocratica. Funziona. Ben vengano i controlli, io non ho conti segreti
Sindaco Lucano, dalle contestazioni avanzate dagli inquirenti pare che lei in concorso con altri abbia architettato «la grande truffa dei migranti». Come si sente? Sta vivendo un incubo?
«L’inchiesta parte da una vecchia ispezione prefettizia venuta a verificare presunte anomalie burocratiche nella gestione dell’accoglienza. Sono sconcertato e senza parole, ma per certi versi mi viene quasi da ridere perché non ho nessun bene nascosto. Non possiedo niente, non ho nessun conto segreto, percepisco una modesta indennità di 1.050 euro, non ho mai praticato familismo e nepotismo, la mia famiglia vive fuori da Riace, a mille km da qui, in Toscana. Non ho mai approfittato della mia posizione. Ma una cosa voglio ribadirla proprio al . Io sono un comunista nel senso ideale più ampio. Se un cittadino viene a Riace per me ha gli stessi miei diritti. Per questo oggi Riace non è più solo un comune calabrese. È un comune del mondo. E io accolgo tutti. Io vivo di ideali. Se questa la chiamano “anomalia burocratica” io non posso farci niente. Allora ben vengano i controlli su di me e che siano i più approfonditi possibili».
In effetti, dopo questi primi controlli lei stesso ha sollecitato ulteriori verifiche, poi effettuate. Adesso questo avviso di garanzia inaspettato. Lei si sente perseguitato perché scomodo?
«Non voglio fare del vittimismo. Ma è chiaro che vogliono colpire un modo diverso, e in controtendenza, di approccio ai flussi migratori. Noi non alziamo muri ma costruiamo ponti. Conservo sempre presente l’insegnamento di Dino Frisullo, la sua utopia di fratellanza tra popoli. Il nuovo conflitto di classe è l’immigrazione e io sto con gli immigrati, con i subalterni di questo secolo».
Nelle scorse settimane si era detto indignato e sfiduciato con lo Stato e con il Viminale dopo la sospensione dei fondi e dopo il rischio di abolizione dei bonus e delle borse-lavoro. Che rapporti ha con il Viminale?
«Diciamo altalenanti. Dopo questi dubbi sollevati dal ministero mi sono recato personalmente a Roma in questi giorni e mi hanno assicurato che sbloccheranno i fondi, anzi pensano anche di aumentarli. Ma di sicuro tutte queste voci che periodicamente si rincorrono contro i pilastri del nostro modello possono penalizzarci. Perché i bonus tutelano la dignità del rifugiato, spesso umiliato nella consegna di alimenti. Grazie ai buoni-moneta queste persone hanno immediatamente autonomia economica e libertà di scelta dei beni di prima necessità, entrano subito in contatto con i riacesi e si integrano. È questo il succo del modello Riace: costruire processi rigenerativi e perenni della società. Perché i migranti non devono essere dei pacchi depositati per sei mesi e poi recapitati altrove. Da noi costituiscono la linfa vitale e rigenerativa del territorio. Ed è così che siamo sopravvissuti alle lungaggini burocratiche di trasferimento delle risorse dallo Stato agli enti territoriali, grazie ai bonus. Ma negli ultimi due anni ci hanno costretto a un calvario, due anni di falsità e di congetture sulla base di verifiche effettuate in modo superficiale e approssimativo, senza sentire i soggetti beneficiari dei progetti, veri testimoni in grado di attestare la qualità dei servizi a loro erogati. Nessuna audizione con gli operatori, nessun colloquio con la popolazione, nessun contatto con i commercianti. la verifica è stata solo sulla documentazione e con toni ostili e punitivi. Forse vogliono costringerci a chiudere. Ma se manca la fiducia sono io il primo a volerlo».
Bergoglio ha sempre espresso gratitudine e ammirazione per il suo operato. «Le porte della mia casa saranno sempre aperte per lei», ha dichiarato in sua presenza. Magari se fosse respinto dallo Stato italiano, lei potrà chiedere asilo in Vaticano?
«È una buona idea. Anche perché a volte rifletto e mi dico che il papa argentino è l’ultimo uomo a dire cose di sinistra nel mondo».
IL POLVERONE DI RIACE
«La scheda. Le tappe di ispezioni e accuse contro Mimmo Lucano, sindaco calabrese amato da Wenders e da Bergoglio»
Prima la relazione del prefetto di Reggio, Michele Di Bari, che annotava «criticità estremamente preoccupanti, sia per gli aspetti amministrativi e organizzativi che per gli aspetti di merito, riguardanti i servizi rivolti agli stranieri, assolutamente carenti e privi di effettiva pianificazione».
A fine 2016 un video su Youtube, pubblicato da un nick name anonimo, che voleva far credere che il sindaco avesse pilotato un appalto con i fondi regionali per il dissesto idrogeologico. Da qui le sue dimissioni, poi revocate a furor di popolo. Poco tempo fa la visita degli ispettori del ministero chiamati a giudicare il modello dell’accoglienza che anni fa ha colpito anche il regista tedesco Wim Wenders. Infine la circolare del Viminale e della prefettura reggina che decretava la sospensione dell’erogazione dei fondi per presunte irregolarità.
Nell’attacco concentrico contro Mimmo Lucano, sindaco di Riace mancava solo quel tassello: un’indagine che dipingesse «la grande truffa dei migranti». E puntualmente, l’indagine della procura di Locri è arrivata. Insieme a un avviso di garanzia con un capo d’accusa pesante che sembra fatto apposta per sollevare un polverone: truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ai danni dello Stato e dell’Ue, concussione e abuso d’ufficio, in concorso. Poco importa che in realtà si tratta nient’altro che del supplemento di una vecchia indagine del gennaio scorso per le contestazioni sollevate dagli ispettori prefettizi per verificare l’eventuale fondatezza delle accuse.
Per questo è stato eseguito anche un decreto di perquisizione e sequestro per acquisire tutta la documentazione sui progetti. Tra i destinatari dell’avviso anche Fernando Capone, presidente di Città futura-don Puglisi, l’associazione che oggi coordina tutti i progetti in corso. Lucano dopo la prima ispezione- con risultati negativi – non solo ha presentato puntuali controdeduzioni, ma ha sollecitato ulteriori controlli, poi effettuati, dei quali tuttavia non è mai riuscito a conoscere l’esito.
Left
«La Libia è diventata una prigione a cielo aperto, lontano dagli occhi e lontano dal cuore… Oggi non è più possibile nemmeno onorare la morte o curare e alleviare le sofferenze di chi affronta questi viaggi della speranza». Parole dettate dall’esperienza, parole che suonano come un possente atto d’accusa rivolto ai “securisti” di casa nostra, in primis al ministro dell’Interno, plenipotenziario per il Mediterraneo, Marco Minniti.
A pronunciarle, nel corso di un dibattito al Festival d’Internazionale a Ferrara, è Stefano Argenziano, coordinatore dei progetti di migrazione e delle operazioni di Medici senza frontiere in Libia. Occorre tenerle bene in mente, queste parole, quando oggi, 3 ottobre, assisteremo alla solita parata di dolore e lacrime di coccodrillo in ricordo della più grave strage di innocenti avvenuta nel “mar della morte”: il Mediterraneo (3 ottobre 2013, la strage di Lampedusa, il terribile naufragio vicino all’isola dei conigli, costato la vita a 368 persone, quasi tutte eritree).
Tenere a mente quanto denunciato da Nancy Porsia, reporter coraggiosa che ha documentato sul campo gli orrori dell’inferno libico: «Al momento – spiega – la Libia non è un partner per la risoluzione di un problema europeo di consenso elettorale», gli fa eco Porsia, che anzi rincara la dose: «la politica migratoria europea è un sistema criminogeno», non è il traffico ad alimentare i flussi, ma al contrario esso è la risposta a una domanda crescente. Per questo la soluzione sarebbe «una politica più aperta di rilascio di visti presso le ambasciate». Ai securisti che blaterano di un rischio per la nostra democrazia determinato da una inesistente “invasione” di migranti, andrebbe risposto con le parole di Khalifa Abo Khraisse, sceneggiatore trentenne libico, autore delle “Cartoline da Tripoli”, che fa la spola fra Sud e Nord del Mediterraneo.
«Voi qui leggete e ascoltate termini che in Libia non hanno significato. Leggete che il governo italiano ha fatto un accordo con il governo libico, ma quelle sono semplicemente persone alle quali le milizie hanno permesso di insediarsi come governo. E lo stesso vale per la guardia costiera libica: non esiste. Anche ‘centri di detenzione’ è una definizione molto aleatoria: come si fa a stabilire quanti sono, quando a volte sono semplici punti di raccolta in mezzo al deserto? Non c’è possibilità di monitorare questi centri». Occorre prestare attenzione, e dare risalto, alle denunce di quanti praticano solidarietà verso i più indifesi tra gli indifesi, e per questo considerati testimoni scomodi, presenze ingombranti da chi, per una manciata di voti, a quel mondo – Ong, gruppi di base, volontari – ha dichiarato guerra.
Così come non può considerarsi un elemento marginale, a sinistra, nella discussione di ipotetiche alleanze elettorali con il Partito democratico, oggi al Governo, quello della politica estera. Quel mondo solidale chiede tre atti concreti: la chiusura dei lager libici e la fine del sostegno ai signori della guerra, milizie e tribù, in affari con i trafficanti di esseri umani, che l’Italia sta pagando per fare da aguzzini di migranti; la fine della vendita di armi all’Arabia Saudita, armi (bombe) con cui l’”Isis bianco” (il regno Saud), massacra il popolo yemenita; il riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina a fronte della forsennata politica di colonizzazione portata avanti da Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Sono richieste che richiamano coerenza, determinazione, rispetto di quei principi spesso evocati ma quasi mai praticati. E i principi, i valori, non sono negoziabili.
il manifesto, «Una prospettiva, quella dello storico inglese Stephen A. Smith, che mentre descrive "Un impero in crisi 1890-1928" estende gli effetti dei "dieci giorni che sconvolsero il mondo" fino alle attuali tensioni nazionaliste»
Un centenario in sordina quello della rivoluzione d’ottobre del 1917: certo, sono moltissime le iniziative commemorative e le occasioni di studio preparate in Russia e nel mondo, ma nessun festeggiamento commensurabile a quelli che segnarono, ad esempio, i duecento anni della rivoluzione francese. Nella nostra editoria ad alcune pubblicazioni di indubbio interesse e novità, per esempio il volume in uscita da Jaca Book, La rivoluzione russa di Pier Paolo Poggio, Giovanni Codevilla e Stefano Caprio, va ad aggiungersi da Carocci un importante contributo dello storico inglese, Stephen A. Smith, La rivoluzione russa Un impero in crisi 1890-1928 (pp. 464,euro 34,00) nella introduzione al quale si chiarisce subito che scrivere di questi eventi è per forza di cose «un’impresa di carattere peculiarmente politico», ciò che fa scegliere all’autore di attenersi a una trattazione il più possibile obiettiva.
Questo stesso intento porta Smith ad ampliare la trattazione storica della rivoluzione russa, partendo dagli anni del regno di Alessandro III, e a dedicare ampio spazio anche ai fatti di inizio secolo, dalla guerra giapponese alla rivoluzione del 1905 fino alla Grande Guerra. Allo stesso tempo, la sua trattazione si estende a tutti gli anni venti, al periodo della Nep, e giunge alla Grande Svolta staliniana alla vigilia della collettivizzazione, della grande industrializzazione e degli anni del Terrore.
Una particolare attenzione, dunque, viene prestata a temi e questioni che nella storiografia precedente al 1991 avevano suscitato minore interesse e, in concreto, al problema della dimensione imperiale e nazionale della rivoluzione, questione ancora molto viva ai giorni nostri, e che nei confronti della rivoluzione è stata a suo tempo acutamente trattata da Vittorio Strada nel suo volume Rivoluzione e impero (Marsilio).
Tutti i dettagli della storia
Proprio la questione dell’impero spinge Smith ad affrontare le implicazioni etniche e nazionali della rivoluzione e della guerra civile. Dalla rassegna di quegli eventi si ottiene un quadro di riferimenti assai utile anche per indagare le questioni nazionali nel mondo post-sovietico dei nostri giorni, dall’annoso problema del nazionalismo grande russo, dell’antisemitismo, ma anche della russofobia, a quello dei nazionalismi degli altri popoli dell’impero (dal Baltico, al Caucaso, all’Ucraina, all’Asia Centrale) e oltre. Sono tutti aspetti dei conflitti interni alla rivoluzione che Smith giustamente confronta e contrappone agli intenti dichiarati del nascente potere proletario: affermare una prospettiva internazionalista e universale, che avrebbe dovuto realizzarsi nella vittoria del socialismo in tutto il pianeta.
Lo storico inglese ripercorre la storia dei rapporti e delle contrapposizioni tra i bolscevichi e gli altri movimenti politici di orientamento socialista, caratterizza i dissidi anche all’interno dello stesso partito comunista, traccia tendenze e conflitti che risultano significativi anche per comprendere la storia più recente di quelle nazioni e di quei popoli che vennero inglobati nelle varie repubbliche socialiste dell’Urss. Sempre con un occhio attento alla storia più recente, Smith affronta il tema delle persecuzioni contro la Chiesa e la politica antireligiosa sviluppata fin dal successo del colpo di stato dell’Ottobre.
Centrale, poi, l’analisi dei tratti sociali, culturali, politici del variegato mondo contadino russo e del suo rapporto con il nuovo potere dei Soviet. Allo stesso tempo, Smith sviluppa anche un fruttuoso confronto con la storia della cultura russa e sovietica, tra tradizione, innovazione, pragmatismo e aspettative catartiche, negli anni che precedettero la piena affermazione dello stalinismo. E affronta in modo assai vivace il tema della violenza rivoluzionaria, rifiutando molti degli stereotipi interpretativi fin qui accettati e mettendo a confronto il periodo dell’autocrazia con quello del nascente stato sovietico, quello della guerra civile e quello del terrore rosso della Ceka.
Approda così a constatare la «ubiquità della violenza» nella rivoluzione: nel mettere ovviamente in evidenza la tendenza del potere sovietico a «plasmare il corpo sociale» con pratiche di schedatura, carcerazione, deportazione e così via, non minimizza il carattere violento e repressivo dell’ancien régime enumerandone i numerosi antecedenti e stabilendo interessanti analogie. Di grande rilievo è anche l’analisi offerta dallo storico inglese del rapporto tra azione rivoluzionaria, gestione del potere e ideologia, e, allo stesso tempo, del passaggio dalla rivoluzione di popolo a quella «dall’alto» attuata da Stalin fino al recupero di molti tratti dell’autocrazia.
I
nterpretazioni precedenti
In questa prospettiva, Smith tiene conto, pur tendendo a superarle, delle varie letture precedentemente offerte della rivoluzione russa, da quella di Martin Malia, che parla di «ideocrazia», attribuendo grande importanza all’ideologia anche nelle scelte pratiche e contingenti della gestione del potere, a quella di Richard Pipes che vede la persistente influenza dello zarismo nel definirsi del nuovo stato sovietico e della stessa concezione della dittatura del proletariato che si realizza poi nell’incontrastata autorità di Stalin.
Il quadro che se ne ottiene è pacatamente obiettivo: qualcuno lo leggerà come «distaccato e disilluso», ma Smith offre l’opportunità unica di poter ripercorrere le diverse fasi della storia russa con un occhio al loro significato più propriamente universale, all’opposizione tra socialismo e capitalismo anche in una prospettiva che conduce alla contemporaneità e alle nuove situazioni conflittuali del nostro tempo tra Russia e Occidente.
Certo è che lontano dai trionfalismi e dalle aspettative che parvero dischiudere i «dieci giorni che sconvolsero il mondo», accettata la fine «della spinta propulsiva dell’Ottobre» e lontano da qualsiasi posizione di parte, sottolinea l’importanza della rivoluzione nell’edificare uno stato che non solo seppe tener testa a lungo al capitalismo, ma soprattutto fornì un alto tributo di sangue come decisivo baluardo contro la vittoria del fascismo.
In questi tempi di dilagante russofobia e riabilitazione di movimenti nazionalistici a suo tempo alleati del nazismo quella di Smith è una presa di posizione decisa e niente affatto scontata.
Nell'immagine: Aleksandr Deyneka, La difesa di Pietrogrado
integrazionemigranti.gov.it.
foreignpolicy.comAnche Suketu Metha, scrittore e giornalista, lui stesso migrante, esprime il suo punto di vista sulla grande sfida del nostro secolo di sistemare un afflusso assai variegato di migranti. Flusso destinato a crescere, per effetto dei cambiamenti climatici e conflitti.
Il rifugiato, dice Suketu riprendendo le parole di Bauman porta con sé lo spettro di caos e di illegalità che lo hanno costretto a lasciare la sua patria e il disordine economico e politico che è stato causato dal colonialismo, e dagli "stati-nazioni" mal definiti che si sono poi succeduti. Portando l'onere del suo stato fallito, viene a bussare alle porte dell'Ovest. Può essere stato un chirurgo nella sua presunta nazione, ma qui è pronto a svolgere qualunque compito, ma non può mai sperare di essere uno di loro a causa della leggi che proteggono la loro gilda da persone come lui. Deve essere abietto, rinunciando a una parte equa della ricchezza della sua nuova abitazione o di qualsiasi tipo di franchising politico. Tutto quello che può sperare è una misura di sicurezza personale e l'opportunità di rimandare abbastanza denaro alla sua famiglia affinché possano inviare il ragazzo più grande ad una scuola privata. Il rifugiato è rifiutato dalle nazioni ricche e ordinate perché è la somma dei nostri peggiori timori. Rappresenta la paura, che in un prossimo futuro tutto potrebbe cambiare radicalmente, irrevocabilmente, improvvisamente e anche noi potremmo essere costretti ad abbandonare .
"L'Occidente viene distrutto, non dai migranti, ma dalla paura dei migranti" afferma Metha. Di tutti i rifugiati, quello che spaventa di più e il maschio senza donna, con i suoi occhi scuri e il desiderio per la donna bianca. Questa paura porta gli elettori a scegliere leader che stanno facendo danni incalcolabili a lungo termine. Per esempio, Donald Trump negli Stati Uniti, Viktor Orban in Ungheria, Andrzej Duda e la sua "Legge e Giustizia" in Polonia. Era sempre la paura dei migranti che ha portato gli elettori britannici a votare per Brexit. Ma questa fobia, dice Metha, può essere la più grande minaccia per la democrazia. "Quando i paesi tutelano i diritti delle loro minoranze, essi tutelano anche, come effetto collaterale positivo, i diritti delle loro maggioranze. E anche l'inverso è vero è quando non tutelano i diritti delle loro minoranze, i diritti di tutti i cittadini sono in pericolo."
L'autore conclude sostenendo che gli immigrati, che piaccia o no a Trup, May Orban, continueranno ad arrivare, alla ricerca di una vita migliore per se e i loro figli. Non sono da temere, questi immigrati sono giovani e con il tempo pagheranno le pensioni per la popolazione anziana dei paesi ricchi, sempre in crescita. Non solo, portano energia, perché nessuno ha più intraprendenza di loro, che hanno lasciato la loro casa per fare un viaggio difficile qui, sia che siano giunti legalmente o meno. Cuoceranno, balleranno e scriveranno in modi nuovi ed emozionanti. Faranno i loro nuovi paesi più ricchi, in tutti i sensi della parola. "L'armata immigrata che sta arrivando alle tue sponde è in realtà una flotta di salvataggio"(i.b.)
A version of this article originally appeared in the September/October 2017 issue of FP magazine.
On Oct. 1, 1977, my parents, my two sisters, and I boarded a Lufthansa plane in the dead of night in Bombay. We were dressed in new, heavy, uncomfortable clothes and had been seen off by our entire extended family, who had come to the airport with garlands and lamps; our foreheads were anointed with vermilion. We were going to America.
To get the cheapest tickets, our travel agent had arranged a circuitous journey in which we disembarked in Frankfurt, then were to take an internal flight to Cologne, and onward to New York. In Frankfurt, the German border officer scrutinized the Indian passports for my father, my sisters, and me and stamped them. Then he held up my mother’s passport with distaste. “You are not allowed to enter Germany,” he said.
It was a British passport, given to citizens of Indian origin who had been born in Kenya before independence from the British, like my mother. But in 1968 the Conservative Party parliamentarian Enoch Powell made his “Rivers of Blood” speech, warning against taking in brown- and black-skinned people, and Parliament passed an act summarily depriving hundreds of thousands of British passport holders in East Africa of their right to live in the country that conferred their nationality. The passport was literally not worth the paper it was printed on; it had become, in fact, a mark of Cain. The German officer decided that because of her uncertain status, my mother might somehow desert her husband and three small children to make a break for it and live in Germany by herself.
So we had to leave directly from Frankfurt. Seven hours and many airsickness bags later, we stepped out into the international arrivals lounge at John F. Kennedy Airport. A graceful orange-and-black-and-yellow Alexander Calder mobile twirled above us against the backdrop of a huge American flag, and multicolored helium balloons dotted the ceiling, souvenirs of past greetings. As each arrival was welcomed to the new land, the balloons rose to the ceiling to make way for the newer ones. They provided hope to the newcomers: Look, in a few years, with luck and hard work, you, too, can rise here. All the way to the ceiling.
For most of our history as a species, since we evolved from being hunter-gatherers to pastoralists, humans have not been attuned to the radical, continuous movement made possible by modernity. We have mostly stayed in one place, in our villages. Between 1960 and 2015, the overall number of migrants tripled, to 3.3 percent of the world’s population. Today, a quarter of a billion people live in a country different from the one they were born in — one out of every 30 humans. If all the migrants were a nation by themselves, we would constitute the fifth-largest country in the world.
The signal challenge for the world’s richest countries in the 21st century is accommodation of a tremendously variegated influx of migrants. As climate change and political conflict drive ever greater numbers of people from the villages and war zones of the world, the displaced seek sanctuary anywhere they can find it. You think 5 million Syrian refugees are a problem now? What happens when Bangladesh gets flooded and 18 million Bangladeshis have to seek dry land?
At the same time, there has been a dramatic rise in income inequality. Today, the eight richest individuals, all men, own more than does half of the planet, or 3.6 billion people, combined. The concentration of wealth also leads to a concentration of political power and the redirection of outrage against inequality away from the elites and toward the migrants. When the peasants come for the rich with pitchforks, the safest thing for the rich to do is to say, “Don’t blame us, blame them” — pointing to the newest, the weakest.
What is the difference between the refugee and the migrant? It is a strategic choice of words, to be made at the border when you’re asked what you are; etymology is destiny. You could be sent back if you’re just an “economic” migrant, but you could also be shunned and feared if you’re identified as a refugee. Whether you’re running from something or running toward something, you’re on the run.
The refugee, as the Polish sociologist Zygmunt Bauman said in a 2016 interview with the New York Times, brings with him the specter of chaos and lawlessness that has forced him to leave his homeland. The economic and political disorder that was caused by the orderly rich countries when they sloughed off their redundant populations into colonies and then retreated, leaving behind ill-defined “nation-states.” The refugee, though, suffers from statelessness. He cannot “go home” because his home has been wrecked by banditry or desertification.
So, bearing the burden of his failed state, he comes knocking on the West’s doors, and if he finds one of them ajar, he slips in, not welcomed but barely tolerated. He may have been a surgeon in his alleged nation, but here he is ready to perform any task — clean the bedpans in a hospital where he is more qualified than most of the doctors — but can never hope to be one of them because of the laws protecting their guild from people like him. He must be abject, renouncing claims to an equitable share of the wealth of his new habitation or to any kind of political franchise. All he can hope for is a measure of personal security and the opportunity to remit enough money back to his family so that they can send the eldest boy to a private school near the refugee camp in which they await their chance to be reunited with their father, brother, husband in his marginal existence.
We reject the refugee in the orderly nations because he is the sum of our worst fears, the looming future of the 21st century brought in human form to our borders. Because he wasn’t necessarily impoverished in the country he came from — he might have been a businessman or an engineer just a year ago, before everything changed — he is a reminder that the same thing could happen to us, too. Everything could change radically, irrevocably, suddenly.
The West is being destroyed, not by migrants but by the fear of migrants.
And yet the world’s richest countries can’t figure out what they want to do about migration; they want some migrants and not others. In 2006, the Dutch government tried to make itself unattractive to potential Muslim and African migrants by creating a film, To the Netherlands, that included scenes of gay couples kissing and topless women sunbathing. The film was a study aid for a $433 compulsory entrance exam for people immigrating for family reunification. Except those making more than $54,000 a year, or citizens of rich countries like the United States, for whom the requirement was waived. The film also showed the run-down neighborhoods where immigrants might end up living. There were interviews with immigrants who called the Dutch “cold” and “distant.” The film warned of traffic jams, problems finding a job, and flooding in the low-lying country.
In 2011, the city of Gatineau, Quebec, published a “statement of values” for new immigrants that cautioned against “strong odors emanating from cooking,” which might offend Canadians. It also informed migrants that, in Canada, it was not OK to bribe city officials. Also, that it was best to show up punctually for appointments. It followed a guide published by another Quebec town, Hérouxville, which warned immigrants that stoning someone to death in public was expressly forbidden. The warning was duly noted by the town’s sole immigrant family, which refrained from stoning its women in public.
In Germany, the country’s “welcome culture” changed in one season, from that guilt-expiating September in 2015 to “rapist refugees go home” after the Cologne attacks that same New Year’s Eve. Of all refugees, the most frightening is the womanless male migrant, his eyes hungrily scanning the exposed flesh of the white woman. The words the tabloids and right-wing politicians use to describe these Afghan or Moroccan men are similar to terminology used to describe black men in the United States in the early 20th century: as sex-hungry deviants. In 1900, South Carolina Sen. Benjamin Tillman spoke from the U.S. Senate floor: “We have never believed him [the black man] to be the equal of the white man, and we will not submit to his gratifying his lust on our wives and daughters without lynching him.”
Fast-forward to 2017: “Pro-rata, Sweden has taken more young male migrants than any other country in Europe,” said Nigel Farage, a British member of the European Parliament, in February. “And there has been a dramatic rise in sexual crime in Sweden — so much so that Malmo is now the rape capital of Europe.” This claim was quickly debunked: By 2015, the year Sweden took in a record number of asylum-seekers, sex crimes decreased 11 percent compared with the year before.
While it is true that there are horrific stories of organized rings of rapists with immigrant backgrounds — such as a group of Pakistanis in Rotherham, in the U.K., who groomed teenage girls for sex — there’s no evidence that immigrants overall rape or steal at rates higher than the general population. Mug shots of dark-skinned criminals, whether Moroccan or Mexican, somehow strike more terror in the Western imagination than those of homegrown white rapists. The fear is primal, tribal: they’re coming for our women.
Driven by this fear, voters are electing, in country after country, leaders who are doing incalculable long-term damage: Donald Trump in the United States, Viktor Orban in Hungary, Andrzej Duda and his Law and Justice party in Poland. It was fear of migrants that led British voters to vote for Brexit, the biggest own goal in the country’s history.
The phobia of migrants can be the greatest threat to democracy. Look at Germany under Chancellor Angela Merkel, with its flourishing economy and democratic institutions, and then take a look at its neighbor Poland, whose ruling party just attempted to take over its judiciary, or Hungary, where Orban has destroyed the country’s free press. It shows that when countries safeguard the rights of their minorities, they also safeguard, as a happy side effect, the rights of their majorities. The obverse is also true: When they don’t safeguard the rights of their minorities, every other citizen’s rights are in peril.
Last summer, I drove out to the Hungarian-Serbian border with a volunteer for a church-based organization providing supplies to refugees. I had been in Hungary for a week studying its attempt to win the crown of Europe’s most hostile country for refugees. All over the country, there were blue posters bearing questions like, “Did you know? Since the beginning of the immigration crisis, more than 300 have died in terrorist attacks in Europe,” and “Did you know? Brussels wants to settle a whole city’s worth of illegal immigrants in Hungary,” and “Did you know? Since the beginning of the immigration crisis, the harassment of women has risen sharply in Europe.” The government was urging its citizens to vote in a referendum against accepting an EU quota of refugees: 1,294 refugees in 2016, for a country with almost 10 million people.
We crossed the Serbian border at Roszke and spent four hours looking for a road to get to the cluster of tents we’d seen right by the side of the highway near the border. We drove on dirt roads in the depopulated countryside, past orchards of apple, peach, and plum trees. From the car window, I picked a purple plum off a branch. It wasn’t quite ripe yet.
A woman told us which road to take to the “Pakistani camp.” We rattled down a rutted road by the superhighway and came up to the camp. It was an instant South Asian slum, but with backpacking tents instead of plastic sheets, just like the Sziget music festival I’d just come from. The festival had been filled with golden children, the flowers of white Europe, who, on payment of the $363-per-person entry fee, could luxuriate in their own tent city for a week.
There were children in the refugee camp, too, but younger and brown: preteens and toddlers on the run with their families. They played cricket amid the garbage. It cost 1 euro to use the toilet at the border. So people from the long lines of cars waiting to cross used the bushes instead, which served as the migrants’ temporary home, where they slept and ate, waiting for the doors of Europe to open.
We opened the trunk of our car and handed out water bottles, chocolates, socks, and underwear. A group of men came over; when they identified me as Indian, they shook my hand and spoke to me in Urdu about their travels. One of them was from the Pakistani city of Lahore, where there were bombings and killings. He’d been here for just a few days. The Hungarians wouldn’t let him in even though he had no desire to stay in that country; he wanted to go on to Germany, Sweden. The Serbians wouldn’t let him go back to Macedonia. “It’s closed in the front. It’s closed from the back,” he said.
A large black vehicle pulled up, and two big Serbian policemen dressed in black stepped out. “Please go,” they told us; we didn’t have official permission to visit the camp. They reminded us that the Hungarians were worse than the Serbians: “They have drones and cameras” monitoring the camp from the other side of the border fence.
For the few refugees who make it over the fence, it’s no promised land. At the time, any migrant caught within roughly five miles of the border would be arrested and deported. The Hungarian provision has since been expanded to include migrants detained in any part of the country. In November 2015, Orban told Politico, “All the terrorists are basically migrants.” Like much else coming out of his mouth, this statement was factually wrong: Many of the perpetrators of terrorism, in Europe and elsewhere, are native-born, like Timothy McVeigh and Anders Behring Breivik.
Eight months later, he turned the statement on its head, broadening it: All migrants are terrorists. “Every single migrant poses a public security and terror risk.”
An essential prerequisite to denying entrance to the migrant is to posit a dualism, a clash of civilizations, in which one is far superior to the other.
In July, U.S. President Donald Trump delivered a speech in Poland about what distinguishes Western civilization:
“Today, the West is also confronted by the powers that seek to test our will, undermine our confidence, and challenge our interests.… The world has never known anything like our community of nations.
“We write symphonies. We pursue innovation. We celebrate our ancient heroes, embrace our timeless traditions and customs, and always seek to explore and discover brand-new frontiers. We reward brilliance. We strive for excellence and cherish inspiring works of art that honor God. We treasure the rule of law and protect the right to free speech and free expression. We empower women as pillars of our society and of our success. We put faith and family, not government and bureaucracy, at the center of our lives.… And above all, we value the dignity of every human life, protect the rights of every person, and share the hope of every soul to live in freedom. That is who we are. Those are the priceless ties that bind us together as nations, as allies, and as a civilization.”
All hail Western civilization, which gave the world the genocide of the Native Americans, slavery, the Inquisition, the Holocaust, Hiroshima, and global warming. How hypocritical this whole debate about migration really is.
The rich countries complain loudly about migration from the poor ones. This is how the game was rigged: First they colonized us and stole our treasure and prevented us from building our industries. After plundering us for centuries, they left, having drawn up maps in ways that ensured permanent strife between our communities. Then they brought us to their countries as “guest workers” — as if they knew what the word “guest” meant in our cultures — but discouraged us from bringing our families.
Having built up their economies with our raw materials and our labor, they asked us to go back and were surprised when we did not. They stole our minerals and corrupted our governments so that their corporations could continue stealing our resources; they fouled the air above us and the waters around us, making our farms barren, our oceans lifeless; and they were aghast when the poorest among us arrived at their borders, not to steal but to work, to clean their shit, and fuck their men.
Still, they needed us. They needed us to fix their computers and heal their sick and teach their kids, so they took our best and brightest, those who had been educated at the greatest expense of the struggling states they came from, and seduced us again to work for them. Now, again, they ask us not to come, desperate and starving though they have rendered us, because the richest among them need a scapegoat. This is how the game is now rigged.
In 2015, Shashi Tharoor, the former U.N. undersecretary-general for communications and public information, gave a compelling Oxford Union speech that made the case for (symbolic) reparations owed by Britain to India. “India’s share of the world economy when Britain arrived on its shores was 23 percent. By the time the British left, it was down to below 4 percent. Why?” he asked. “Simply because India had been governed for the benefit of Britain. Britain’s rise for 200 years was financed by its depredations in India.”
Tharoor’s speech reminded me of the time my grandfather was sitting in a park in suburban London. An elderly British man came up to him and wagged a finger at him. “Why are you here?” the man demanded. “Why are you in my country?”
“We are the creditors,” responded my grandfather, who was born in India, spent his working years in Kenya, and was now retired in London. “You took all our wealth, our diamonds. Now we have come to collect.”
If you believe you’re a citizen of the world, you’re a citizen of nowhere,” proclaimed British Prime Minister Theresa May in October 2016.
But it was only in the early 20th century that the modern, convoluted superstructure of passports and visas came about, on a planet where porous borders had been a fact of life for years beyond count. Migration is like the weather: People will move from areas of high pressure to those of low pressure. And so they will keep coming, in boats and on bicycles, whether you want them or not — because they are the creditors.
Why are Mexicans, Guatemalans, Hondurans, and Salvadorans desperate to move north, to come to U.S. cities to work as dishwashers and cleaning ladies? It’s because Americans sell them guns and buy their drugs. Their homicide figures are indicative of a civil war. So they move to the cause of their misery; they, too, are the creditors. If you don’t like them moving here, don’t buy drugs.
Why are Syrians moving? Not for the lights of Broadway or the springtime charms of Unter den Linden. It is because the West — particularly, the Americans and the British — invaded Iraq, an illegal and unnecessary war that exacerbated a four-year drought linked to global warming and set in motion the process that destroyed the entire region. They have reaped what the West has sown. If there were any justice, America would be forced to take in every Arab displaced from his or her home because of that war. The 1,600-acre Bush family ranch in Texas would be filled with tents hosting Iraqis and Syrians. You break it, you own it.
The most burdened hosts, though, are the ones that have had a much smaller role than the United States in creating the problem. In 2016, Lebanon, with a population of 6.2 million, hosted more than 1.5 million refugees. Eighty-four percent of refugees are in the developing world. The Trump administration has moved to reduce the U.S. refugee count from a proposed 110,000 to 50,000 in 2017 and may further slash the program next year. Turkey, by contrast, with a population a quarter of the size, has more than 3 million registered Syrians living inside its borders.
It is every migrant’s dream to see the tables turned, to see long lines of Americans and Britons in front of the Bangladeshi or Mexican or Nigerian Embassy, begging for a residence visa. My mentor, the distinguished Kannada-language writer U.R. Ananthamurthy, was once invited to Norway to give a talk at a literary festival. But the Norwegian government wouldn’t give him a visa until the last minute, demanding that he produce testimonials and bank statements and evidence that he wasn’t going to stay in the country. When he finally got to Oslo, the Indian ambassador threw a party for him.
“Is it easy for Norwegians to get an Indian visa?” Ananthamurthy asked the ambassador.
“Oh, yes, we make it really easy for them.”
“Why should it be easy?” my mentor demanded. “Make it difficult!”
My own family has moved all over the Earth, from India to Kenya to England to the United States and back again — and it is still moving. One of my grandfathers left rural Gujarat for Calcutta in the salad days of the 20th century; my other grandfather, living a half-day’s bullock-cart ride away, left soon after for Nairobi. In Calcutta, my paternal grandfather joined his older brother in the jewelry business; in Nairobi, my maternal grandfather began his career, at 16, sweeping the floors of his uncle’s accounting office. Thus began my family’s journey from the village to the city. It was, I now realize, less than a hundred years ago.
Enoch Powell’s 1968 speech was aimed at people like my family, particularly my mother’s — East African Asians who were beginning to migrate to the country of their citizenship. He forecast doom for an England that would be foolish enough to take them: “It is like watching a nation busily engaged in heaping up its own funeral pyre.… As I look ahead, I am filled with foreboding; like the Roman, I seem to see ‘the River Tiber foaming with much blood.’”
A half-century later, the Thames is not foaming over with blood. It’s actually the opposite. The East African Asian refugee community — Christians, Hindus, Muslims, Parsis, and Sikhs — is one of the wealthiest communities of any color in the U.K.; their educational achievements eventually outran those of native-born whites.
The Hudson is not foaming over with blood, either. “In the past decade, population growth, including immigration, has accounted for roughly half of the potential economic growth rate in the United States, compared with just one-sixth in Europe, and none in Japan,” the analyst Ruchir Sharma points out in the New York Times. “[I]f it weren’t for the boost from babies and immigrants, the United States economy would look much like those supposed laggards, Europe and Japan.”
Countries that accept immigrants, like Canada, are doing better than countries that don’t, like Japan. But whether Trump or May or Orban likes it or not, immigrants will keep coming, to pursue happiness and a better life for their children. To the people who voted for them: Do not fear the newcomers. Many are young and will pay the pensions for the elderly, who are living longer than ever before. They will bring energy with them, for no one has more enterprise than someone who has left their distant home to make the difficult journey here, whether they’ve come legally or not. And given basic opportunities, they will be better behaved than the youth in the lands they move to, because immigrants in most countries have lower crime rates than the native-born. They will create jobs. They will cook and dance and write in new and exciting ways. They will make their new countries richer, in all senses of the word. The immigrant armada that is coming to your shores is actually a rescue fleet.
la Repubblica
Petruno Irpino (Avellino). «Si chiama Victory, ma per noi è Vittorio, anzi Vittò. E da quando a Petruro sono arrivati Vittò, Testimony, Marvellous, Shiv e tutti gli altri, anche noi vecchi abbiamo ricominciato a sentirci vivi, qui prima c’erano soltanto silenzio e funerali». Ubaldo Mazza, 80 anni, ex minatore, “zio Ubaldo” per tutti, una selva di capelli bianchi, gioca con Victory, nigeriano di 17 mesi, catapultato dalla vita con la mamma Precious in questo borgo dell’Irpinia arroccato tra boschi e castagneti. Strade di pietra, vento, montagne, l’odore del mosto e dell’uva. «Sapete? Andrà all’asilo. Con tutti questi nuovi bambini il Comune ha deciso di riaprirlo, qui la scuola era chiusa da vent’anni».
Victory corre, saltella, guarda zio Ubaldo e ridono come matti, il mondo — a volte — può anche essere salvato dai ragazzini, un vecchio e un bambino che sanno di essere una coppia irresistibile, testimonial, anzi, di una “integrazione possibile”. Italiani e migranti insieme in un progetto che la Caritas di Benevento ha chiamato Rete dei comuni welcome. Ossia un’alleanza basata sull’accoglienza e su un “welfare locale ad esclusione zero” che fermi l’esodo da questi piccoli paesi bellissimi ma ormai spopolati tra il Sannio e l’Irpinia, disseminati di vitigni abbandonati, campi incolti, bar deserti e nascite zero.
E dunque porte aperte ai profughi in attesa di asilo che attraverso i fondi degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) stanno riportando vita, nascite e reddito tra le strade deserte dei borghi. Ma anche alle famiglie italiane più fragili che qui potrebbero ritrovare migliori condizioni di vita. E bisogna addentrarsi nel silenzio di Petruro Irpino, provincia di Avellino, 210 abitanti, dove grazie a sette bambini migranti a breve riaprirà l’asilo, per assistere a un esempio di laboratorio sociale. Dove Precious, nigeriana, fa il tirocinio da parrucchiera, mentre la piccola Testimony passa le sue mattine con Teresa, ragazza italiana che le fa da baby sitter e così si paga gli studi, mentre la mamma Pamela, anche lei nigeriana, lavora in un’azienda agricola.
Nella loro lindissima casa, Rajvir Singh e la moglie Meher, afghani di religione Sikh, preparano ravioli di verdure da cuocere in un brodo speziato, in attesa che Shiv, 10 anni, torni con lo scuolabus. Perseguitati in Afghanistan perché di religione Sikh, Rajvit, Meher e Shiv portano nel cuore il dolore più grande. Racconta Marco Milano, esperto di relazioni internazionali, oggi responsabile dello Sprar: «I talebani hanno ucciso davanti ai loro occhi il fratello di Shiv, Meher non si è mai ripresa…». Per questo Rajvit vuole restare in Italia. «Qui è bello, ci sono le montagne e la terra. Posso lavorare e mio figlio può crescere nella pace». E Rajvit entrerà a far parte della cooperativa che italiani e migranti stanno per fondare recuperando terre e coltivazioni.
«Il Greco di Tufo, l’Aglianico, il Fiano, abbiamo un patrimonio di vigneti che rischiano di morire. Molti giovani di qui — dice Marco Milano — emigrati al Nord o all’estero, stanno tornando per partecipare ai progetti “welcome”. Tanto che oltre ai bambini stranieri ricominciano a nascere i figli di coppie italiane...». Ma non c’è solo Petruro Irpino. A Chianche, dove «c’erano più lampioni che abitanti», era rimasta una sola adolescente italiana, Carmela, adesso ci sono quindici rifugiati e tra poco aprirà un nuovo alimentari “etnico”.
Il cibo è memoria e gli odori che escono dalle cucine si mescolano, il riso e pollo dei migranti, i fusilli al pomodoro delle case italiane. «Favorite — dice Zi’Ngiulina — la mia porta è aperta». Carmela ha un bel sorriso: «Studio a Benevento ma qui, a casa, mi sentivo davvero sola. Adesso con le ragazze e i ragazzi migranti è tornata la vita...». A Rocca Bascerana i rifugiati sono trenta, il sindaco Roberto Del Grosso dice con chiarezza: «L’integrazione c’è stata, possiamo ospitarne altri». «Con i 35 euro al giorno destinati ai richiedenti asilo — spiega Francesco Giangregorio dello Sprar di Chianche — paghiamo i corsi, ma affittiamo anche case dai proprietari italiani. Gli ospiti, poi, con i cinque euro al giorno che vengono loro consegnati come pocket money, fanno la spesa nei negozi di qui che infatti stanno riaprendo».
Insomma una micro-economia che ricomuncia a muoversi grazie a un melting pot italiano e straniero che consuma e chiede servizi. Donne, uomini e bambini che hanno vissuto l’orrore, i lager libici, gli stupri e adesso tra questi boschi che volgono all’autunno sembrano respirare. Hayatt, etiope, bella e riservata, oggi diventata “operatrice agroalimentare”, fuggita dopo lo sterminio della sua famiglia. Mercy e Evelyn, nigeriane, scampate (forse) alla tratta. E tanti, ottenuto lo status di rifugiati scelgono di restare. Noman, ad esempio, assunto legalmente come edile alla fine del tirocinio, così come Seck, del Mali, in una ditta di compostaggio.
«Il nostro obiettivo è che restino, ripopolino i nostri comuni e si integrino in percorsi di legalità», spiega con passione Angelo Moretti, responsabile comunicazione della Caritas, cuore e anima della rete dei “Comuni Welcome”. «I grandi centri di accoglienza del Sud sono in mano alla criminalità, lo sappiamo. Nei nostri progetti gli ospiti invece devono formarsi, vivono in piccoli gruppi, i bambini vanno a scuola. E questo dà dignità. Abbiamo lavorato molto prima che i migranti arrivassero per preparare l’integrazione. Oggi raccogliamo i frutti. E anche questa economia inizialmente assistita, si sta trasformando in economia reale, con le cooperative tra italiani e migranti».
Alle 5 del pomeriggio sulla piazza di Petruro quindici bambini giocano a pallone. Italiani, afghani, nigeriani, sudamericani, ghanesi. «Goal» lo sanno dire tutti. «Quante voci — dice Zio Ubaldo — sembra di essere cinquant’anni fa...».
il manifesto,
Sarà stato l’effetto del voto tedesco o magari, come è più probabile, le frizioni interne al partito e la paura di perdere voti. Fatto sta che ieri Angelino Alfano ha lanciato l’ennesimo altolà sullo ius soli. «Una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata e un regalo alla Lega» ha mandato a dire il ministro degli Esteri al premier Paolo Gentiloni, dimenticando che in un anno e nove mesi in cui il testo è rimasto fermo al Senato forse il momento giusto per approvarlo si sarebbe potuto anche trovare.
Le parole del titolare della Farnesina suonano invece ancora una volta come una pietra tombale sulla legge e, guarda caso, arrivano appena ventiquattro ore dopo l’appello che il cardinale Gualtiero Bassetti, neo presidente della Cei, ha lanciato al parlamento e allo stesso Gentiloni perché invece si affrettino a dare il via libera al ddl sulla cittadinanza, indicato come un passaggio fondamentale per l’integrazione di decine di migliaia di giovani nati nel nostro Paese da genitori immigrati. Probabilmente la paura che la richiesta dei vescovi potesse fare breccia a palazzo Chigi e smuovere il premier, magari convincendolo a porre finalmente la fiducia sul provvedimento come promesso, deve aver convinto Alfano a intervenire per rassicurare i suoi elettori in vista del voto siciliano, scongiurando allo stesso tempo possibili (ma per la verità ormai alquanto improbabili) sorprese da parte del capo del governo.
Le sue dichiarazioni hanno comunque l’effetto di provocare il consueto fiume di reazioni da parte di chi, sempre a parole, fosse dipeso da lui la legge l’avrebbe già approvata da tempo. «Non è vero che non è questo il momento propizio», dice quindi Matteo Richetti, portavoce della segreteria Pd, che annuncia l’intenzione del partito di cercare in aula i voti necessari, uno per uno. «La maggioranza parlamentare è la maggioranza parlamentare, e chi ci sta lo approvi con noi». Già, peccato che solo qualche sera fa, parlando a «Cartabianca» su Rai3 della possibilità di approvare lo ius soli, era stato lo stesso segretario Matteo Renzi ad ammettere: «In questo momento non ci sono i numeri perché c’è paura, e se non ci sono i numeri non è che si possono stampare».
La verità è proprio questa: senza la fiducia per lo ius soli non c’è nessuna possibilità di vedere la luce in questa legislatura. Tra discussione del Def e legge di stabilità i tempi sono ormai strettissimi e senza un intervento di palazzo Chigi cercare i voti in aula è un’impresa pressoché disperata. Sulla legge pendono inoltre 48 mila emendamenti, presentati quasi tutti dalla Lega, e anche a volerli «cangurare» ne resterebbero sempre almeno 6-700. Troppi per discuterli in così poco tempo. Non a caso il coordinatore di Mdp – che insieme a Sinistra italiana e a qualche senatore ex 5 stelle è l’unico partito a non mostrare incertezze sulla legge – si appella al premier chiedendogli di dimostrare «forza e autonomia». «Basta paure e incertezze, il governo non insegua la destra. Lo ius soli riguarda 800 mila ragazzi e questo conta molto di più di Alfano», dice Roberto Speranza. E non manca chi, nel movimento di Bersani, è pronto a scommettere che un intervento del premier sbloccherebbe davvero la situazione «Se il governo mettesse la fiducia – spiega infatti una senatrice – gli alfaniani uscirebbero dall’aula e la legge passerebbe. Nessuno ha davvero voglia di far cadere il governo».
A destra intanto, com’era prevedibile, si brinda. Anzi, le parole di Alfano scatenano una gara per aggiudicarsi il merito di aver affossato la legge. «Amici, grazie a voi siamo riusciti a fermare lo ius soli e perfino l’inutile Alfano! Grazie», esulta su Facebook Matteo Salvini. Al leader del Carroccio replica però la portavoce del partito di Alfano, Valentina Castaldini: «Mentre Salvini sbraita e invoca le ruspe noi facciamo i fatti», dice. «Se sullo ius soli non viene posta la fiducia e non viene approvato è solo grazie ad Alternativa Popolare che si è opposta in maniera energica negando la propria disponibilità a votarlo. Salvini se ne faccia una ragione».
Secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate sulle coste italiane 103.097 persone, in calo rispetto al 2016 soprattutto a causa del codice di condotta per le Ong emanato dal governo italiano e a causa degli accordi stretti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj che fermano le persone in Libia. Nigeria, Guinea e Bangladesh rimangono i Paesi da cui proviene la maggior parte dei profughi»
Guerre, carestie, povertà: sono tanti i fattori che spingono decine di migliaia di persone a raggiungere l’Italia dalle coste dell’Africa (già oltre 100mila nel 2017). Il nostro Paese è da tempo il principale porto di arrivo per le rotte dei migranti nel Mediterraneo: secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate 103.097 persone, in calo rispetto alle 130.620 dello stesso periodo del 2016. Parliamo di una cifra pari circa al 2% del totale degli stranieri residenti in Italia, che secondo l’Istat sono poco più di 5 milioni.
Il dato sugli sbarchi non rappresenta che una parte di chi emigra. A migliaia non raggiungono la meta, perché bloccate prima dei porti di Libia e Tunisia o perché vittime di naufragi. L’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) riporta che, nel 2017, 2.561 persone hanno perso la vita sui barconi di fortuna in viaggio verso l’Italia, un numero comunque in calo rispetto al record dello scorso anno, quando si registrarono 5.096 morti in mare, di cui ben 700 tra il 25 e il 28 maggio.
La diminuzione degli arrivi e delle tragedie nel Mediterraneo sono anche il risultato di un drastico cambiamento nella gestione dell’emergenza immigrazione da parte del governo italiano, a partire dal codice per le Ong. Gli accordi raggiunti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj hanno fatto sì che da luglio a settembre 2017 – cioè nei mesi in cui generalmente partono più barconi – siano arrivate in Italia “soltanto” 19.343 persone, contro le 61.821 del 2016. Quindi, tre mesi fa, l’invito alle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo a sottoscrivere il codice di condotta che limita il loro raggio d’azione e prevede che, su richiesta delle autorità nazionali, le navi delle organizzazioni debbano ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per “raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani”. Se da una parte gli accordi hanno limitato in modo considerevole gli sbarchi, dall’altra hanno aumentato il numero di persone rimaste bloccate in Libia: secondo alcune associazioni umanitarie sarebbero circa 15mila i migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, fermati nel tentativo di partire.
Tra i 103.097 arrivi di quest’anno, una percentuale considerevole è costituita da minori non accompagnati. Sono stati 13.418, più del 13% del totale, e per loro il Parlamento ha approvato da pochi mesi una legge che sancisce parità di trattamento rispetto a chi gode della cittadinanza italiana o è cittadino dell’Unione europea, disponendo anche che il respingimento alla frontiera non possa essere disposto in nessun caso.
1. Nigeria:
il terrore cieco di Boko Haram
nel paese dei sei figli per donna
La maggior parte delle 103.097 persone sbarcate in Italia nel 2017 viene dalla Nigeria. Sono 17.061, pari al 16,5% degli arrivi. Il Paese è in guerra da più di 7 anni, da quando Boko Haram, l’organizzazione terroristica affiliata all’Isis in guerra contro il governo, ha ottenuto il controllo su alcuni territori. Secondo l’Onu, il fertility rate (il numero di figli per ogni donna) è di 5,7, mentre l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni per gli uomini e 52,6 per le donne. Secondo i dati della Word Bank, nel 2011 85,2 milioni di persone (circa il 53% della popolazione di allora) viveva con meno di 1 dollaro e 90 al giorno, la soglia della povertà assoluta. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International riferisce che “le forze di sicurezza continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.
2. Guinea:
i tristi primati della tortura
e delle mutilazioni genitali
La Guinea è uno degli Stati più poveri del mondo. Sono 9.056 (8,7% del totale) gli uomini e le donne in fuga dal Paese in cui tre anni fa scoppiò l’epidemia dell’Ebola, causando 2.346 morti. Lo scorso anno il nuovo codice penale ha abolito la pena di morte, ma Amnesty International denuncia ancora “episodi di tortura e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Nella graduatoria stilata dall’Onu in base all’Isu (l’Indice di Sviluppo Umano, che incrocia dati sul reddito pro capite, sull’istruzione e sulla qualità della vita), la Guinea occupa il 183esimo posto su 188 Paesi. L’Unicef riporta che circa il 96% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subìto mutilazioni genitali di qualche tipo, in un Paese in cui un’indagine del 2015 mostrava che il 63% delle ragazze tra i 20 e i 25 anni si fosse sposata prima dei 18 anni.
3. Bangladesh:
spinti ad ovest dalla povertà
e (anche) da altri profughi
Dal Bangladesh, Paese separatosi dal Pakistan nel 1971, sono giunti in Italia 8.794 persone da gennaio, pari all’8,5% del totale degli sbarcati. In queste settimane il Bangladesh vive l’emergenza dei Rohingya, la minoranza islamica in fuga dalla Birmania. Circa 400mila profughi hanno passato il confine birmano, rifugiandosi in Bangladesh, in un Paese che è tra i più poveri dell’Asia e che non è in grado di gestirne l’accoglienza. Dal 2015 ci sono state decine di attacchi terroristici – in quello di Dacca, nel luglio 2016, morirono anche 9 italiani – riconducibili a gruppi vicini all’Isis. Secondo l’Unicef, circa il 18% delle ragazze si sposano prima dei 15 anni: è uno dei tassi più alti al mondo. Anche il dato sull’alfabetizzazione è preoccupante: solo il 61% della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (la media mondiale è dell’86%).
4. Costa d'avorio: una lotta tra fazioni infinita
e le cellule superstiti di Al Qaeda
Proprio quando la Costa d’Avorio sembrava uscita dall’incubo della guerra civile, iniziata nel 2002, le elezioni del 2010 hanno portato nuovamente il caos nel Paese. Il presidente Alassane Ouattara ha dovuto vedersela con le truppe legate al vecchio presidente, Laurent Gbagbo, poi arrestato e accusato di crimini contro l’umanità. Adesso il Paese, da cui nel 2017 sono arrivati in Italia 8.482 persone, pari all’8,2% del totale, fa i conti con i continui attacchi jihadisti di Aqim – una cellula di Al Qaeda – e con condizioni di estrema povertà per la popolazione. La Costa d’Avorio è al 171esimo posto sui 188 della graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e ha un’aspettativa di vita di soli 53 anni. Il tasso di mortalità infantile è del 5,3%, tra i più alti del mondo.
5. Mali: l’intrigo internazionale
nella terra dei bambini soldato
Nel 2012 in Mali è scoppiato un conflitto interno che ha portato le truppe del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ad occupare la parte nord del Paese. L’attività di alcuni gruppi islamisti ha complicato il quadro e nel 2013, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia di Hollande ha inviato i propri aerei in supporto del governo centrale, contro le truppe indipendentiste dell’Azawad e contro gli estremisti islamici. Anche l’Italia, dal 2013, ha fornito supporto logistico all’operazione. Tutte le trattative di pace sono finora saltate e il conflitto è ancora in corso, mentre le Nazioni Unite denunciato l’ampio utilizzo di bambini-soldato. Dal Mali – in cui si registra il secondo tasso di mortalità infantile più alto del mondo, pari al 10% – sono arrivate in Italia 6.121 persone da gennaio, circa al 6% del totale.
6. Eritrea: isolamento internazionale,
dittatura e schiavitù militare
Ex colonia italiana nel periodo fascista, l’Eritrea è sotto la dittatura di Isaias Afewerki da quasi 25 anni, cioè da quando, nel 1993, un referendum ne legittimò il potere. L’Eritrea è stata gradualmente isolata dalla Comunità Internazionale. Una commissione d’inchiesta voluta dall’Onu nel 2014 ha stabilito che l’Eritrea “non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha né un parlamento né istituzioni democratiche” e “c’è un clima di impunità per i crimini contro l’umanità commessi da un quarto di secolo”. Secondo l’Onu, migliaia di persone – 5.612 quelle giunte in Italia nel 2017, il 5,4% del totale – fuggono dal servizio militare, paragonato a una schiavitù camuffata: la leva dura ufficialmente 18 mesi, ma i militari vengono poi costretti a rimanere nell’esercito.
7. Senegal: la giustizia sommaria
alle porte del Sahara
Il Senegal è uno snodo fondamentale per le partenze verso il deserto del Sahara, anticamera dei porti in Tunisia e in Libia. Da gennaio sono arrivate 5.610 persone, il 5,4% del totale, in fuga da un Paese in cui oltre 5 milioni di persone – il 37% della popolazione – vive sotto la soglia di povertà assoluta di 1 dollaro e 90 al giorno. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International evidenzia come ci siano forti limitazioni alle libertà personali, comprese quelle sessuali, e ai diritti civili, come la facoltà di espressione e associazione. La giustizia, secondo Amnesty, è applicata in modo sommario e contribuisce a un grave sovraffollamento delle carceri. Il tasso di natalità è di circa 5 figli per ogni gni donna e fa sì che la popolazione, negli ultimi 15 anni, sia aumentata di circa il 50%.
8. Gambia: due milioni
sotto lo scacco di una Repubblica islamica
Dopo 22 anni di dittatura, lo scorso anno il presidente Yahya Jammeh è stato costretto all’esilio. Il Gambia era stato dichiarato “Repubblica Islamica” e Amnesty International ha a lungo denunciato la soppressione di ogni libertà, soprattutto per mano dei Jungulers, un esercito di sicurezza privato. Da qualche mese le cose vanno meglio, ma il Gambia resta un Paese poverissimo – 173esimo su 188 nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano – con ancora molte difficoltà a lasciarsi alle spalle la dittatura. Secondo le Nazioni Unite, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni ben il 16% delle donne si è sposata prima dei 15 anni. Dal Gambia, dove vivono appena due milioni di persone, sono arrivate in Italia 5.594 persone negli ultimi nove mesi, il 5,4%degli sbarcati.
9. Sudan: emergenza umanitaria
tra guerra civile e secessione
Sette anni fa un referendum ha ufficializzato la separazione tra Sudan e Sudan del Sud. Al voto si era arrivati dopo una guerra civile che, seppur a intermittenza, andava avanti dagli Anni 80. Nella parte ovest dello Stato, in Darfur, si alternano periodi di guerra e di tregua in un conflitto che, si stima, ha causato negli anni oltre 400mila vittime. Mentre in Sud Sudan si è tornati a combattere e il Paese è in grave emergenza umanitaria, in Sudan Amnesty International denuncia che “le forze di sicurezza hanno preso di mira membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altre violazioni”. Questi fattori, uniti a una diffusa povertà, hanno spinto 5.480 persone ad arrivare in Italia nel 2017, pari al 5,3% del totale.per raggiungere le famiglie
La comunità marocchina in Italia è composta da oltre 430mila residenti, che costituiscono uno dei principali motivi per cui anche quest’anno 5.064 persone (il 4,9% del totale) hanno raggiunto l’Italia dal Paese del Maghreb. Nonostante sia considerato uno dei casi più virtuosi dell’Africa, il Marocco ha ancora molti problemi di diritti. Le Nazioni Unite, in un rapporto inviato a Rabat nei giorni scorsi, hanno chiesto interventi, per esempio, sul riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, sulla disparità di trattamento tra i generi sulle questioni di eredità – le donne sono escluse dalla successione, a meno di diverse indicazioni –, sulla condanna delle violenze coniugali e sul problema delle spose bambine. Amnesty International, intanto, continua a denunciare l’opera di contrasto del governo all’attività di diverse organizzazioni per i diritti umani.
Nigrizia.
A lanciare l’allarme è un nuovo rapporto dell’International Crisis Group, che rileva come le violenze tra pastori e contadini in Nigeria stiano diventando sempre più pericolose, tanto da poter essere equiparate all’insurrezione di Boko Haram nel nord-est del paese. Secondo lo studio, intitolato “Herders against Farmers: Nigeria’s Expanding Deadly Conflict“ (Contadini contro agricoltori: sanguinoso conflitto nigeriano in espansione), nel 2016, circa 2.500 persone sono rimaste uccise a causa degli scontri e finora il governo, sia a livello federale che statale, si è dimostrato incapace nel contrastarli.
All’origine dell’atavica conflittualità tra contadini e pastori c’è la ricerca di nuovi terreni e spazi vitali per l’allevamento delle mandrie, il possesso e il controllo dell’acqua, la chiusura delle tradizionali vie di migrazione, il furto di bestiame e i danni arrecati alle coltivazioni.
La relazione rileva però che le radici del conflitto sono più profonde e vanno ricercate nella siccità e nella desertificazione, che hanno degradato i pascoli e prosciugato molte fonti di approvvigionamento idrico nella cintura saheliana settentrionale della Nigeria. Tali cause hanno costretto molti pastori a spostarsi verso sud in cerca di pascoli e acqua per il loro bestiame.
Altre motivazioni che hanno spinto un numero crescente di pastori a migrare verso la parte meridionale della Nigeria, sono da ricercare nell’insicurezza negli stati settentrionali generata dall’insurrezione di Boko Haram e dal susseguirsi di atti di banditismo nelle zone centro-settentrionali e nord-orientali del paese.
Anche l’incremento di insediamenti umani, l’espansione delle infrastrutture pubbliche, l’acquisizione di terreni su larga scala da parte degli agricoltori e altri interessi commerciali privati, ??hanno sottratto i pascoli ai pastori. Pascoli che gli erano stati riservati dal governo dopo l’indipendenza dal Regno Unito, quando il paese era una federazione di tre regioni.
Tensioni etniche e religiose
Il report evidenzia pure che la diffusione del conflitto negli stati del sud sta ulteriormente aggravando i già fragili rapporti tra i principali gruppi regionali, etnici e religiosi del paese. Le comunità cristiane, di maggioranza del sud, risentono dell’influenza esercitata dai pastori, prevalentemente musulmani, descritti in alcune narrazioni come “milizie islamizzate”.
I pastori nomadi appartengono in prevalenza al gruppo dei fulani e tale appartenenza imprime una dimensione etnica alle violenze. Il fatto che i fulani siano presenti in molti paesi dell’Africa occidentale e centrale, implica inoltre che qualsiasi scontro di congrua rilevanza tra essi e altri gruppi nigeriani, potrebbe avere anche ripercussioni regionali.
Gli analisti dell’Istituto di Bruxelles sottolineano che negli ultimi cinque anni sono state uccise migliaia di persone e anche se i dati precisi non sono disponibili, una stima basata sull’analisi delle fonti aperte dal 2011 al 2016, indica una media annuale di oltre 2 mila vittime, superando in alcuni anni il numero di quelle provocate dagli attacchi del movimento jihadista Boko Haram.
Decine di migliaia di persone sono inoltre state forzatamente sfollate, con ingenti danni per raccolti e bestiame che hanno causato la perdita di miliardi di naira (la moneta nigeriana, un milione di naira equivale a circa 2.360 euro) e pesanti ripercussioni per le economie locali.
Indifferenza dei governi
A fronte di questa situazione, la reazione delle autorità federali e statali della Nigeria, finora è stata ben poco incisiva. Le agenzie di sicurezza federali e le forze dell’ordine non hanno istituito meccanismi di prevenzione o di risposta rapida per arginare le violenze. L’incapacità dimostrata dalle istituzioni nigeriane nel contrastare gli scontri, ha indotto sia i pastori che gli agricoltori a gestire la situazione da soli, aggravando di conseguenza il conflitto.
In conclusione, il rapporto ritiene che il fallimento del governo federale nel definire un approccio politico chiaro e coerente per risolvere la crisi e riconoscerne la portata, unito alla mancanza di una risposta decisiva ed efficace, comporti per la Nigeria il rischio di sprofondare in conflitti sempre più letali, mettendo in pericolo la sicurezza di tutti i nigeriani.
il manifesto, A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo"
«Per manifestolibri è in uscita il libro di Michele Prospero Ottobre 1917 - La rivoluzione pacifista di Lenin. Sull’argomento, poi, nelle giornate del 28 e 29 settembre, al Dipartimento di Filosofia dell’Università La Sapienza si terrà il convegno «A cent’anni dalla rivoluzione di ottobre. L’Urss, la via italiana e il ripensamento del socialismo». Un’anticipazione dell’intervento al simposio del filosofo a Villa Mirafiori»
Ricostruendo i passi sempre ponderati che i bolscevichi seguirono tra il febbraio e l’ottobre del 1917 viene confermata l’immagine che Lenin aveva della politica come «matematica superiore». La strategia era in lui chiara sin da febbraio. Se i liberali hanno la forza per compiere una loro rivoluzione, che se la sbrighino pure da soli calandosi nell’arte così poco poetica della critica delle armi. Non possono pretendere che ai proletari, ai soldati fuggiaschi, alle plebi contadine spetti il compito di indossare le maschere del costituzionalismo, pressoché ignoto vocabolo nella tradizione russa.
Le fabbriche che sono insorte, la diserzione in massa dei contadini in divisa suggerirono a Lenin che era comparso un protagonista nuovo, che all’inizio marciava in forme del tutto spontanee. Il problema era di offrire al moto disordinato di piazza un’organizzazione per fare della folla irregolare un vero soggetto. Ci voleva per questo una politica organizzata. Altrimenti l’insubordinazione diventava una pura scintilla di rivolta che si dipanava senza alcun progetto. Il capolavoro di Lenin fu proprio questo: tramutare una ribellione di massa già in atto, e con una forte intonazione plebea, in un grande assalto politico a quello che lui chiamava un «anello di legno» del capitale, pronto a sgretolarsi al primo impeto.
IL SALTO NEL BUIO di ottobre presuppone una rigorosa analisi dei limiti della rivoluzione di febbraio. Per Lenin due erano i nodi irresolubili per la coalizione salita al potere. Il primo era legato alla terra e alla forte pressione contadina per avere il pane. Il nuovo potere rinviava all’infinito il voto per l’assemblea costituente proprio nel timore che avrebbe potuto diventare la cassa di risonanza delle richieste di terra. Il secondo punto di allarme era la guerra. Il governo di febbraio era per la continuazione dell’impresa bellica e anzi ogni tanto proponeva persino sanguinose controffensive patriottiche. Che rivoluzione era mai quella che deponeva lo zar ma proseguiva la sua guerra e lasciava la terra e le fabbriche ai padroni?
Per Lenin la Russia era precipitata in una situazione di emergenza (insieme sociale e bellica) e invece il governo in carica riteneva di cavarsela con la definizione del sistema elettorale per la Duma. La debolezza della soluzione liberale al problema hobbesiano dell’ordine lasciava campo alle suggestioni golpiste dei militari. Secondo Lenin la risposta al dilemma dell’autorità scaturiva dalla stessa aporia esplosa con il «dualismo dei poteri». Con la proliferazione, accanto agli organi fragili rispolverati dal governo provvisorio, di un vecchio istituto inventato nel 1905, il soviet come nuova forma della rappresentanza dal basso, era possibile compiere una rivoluzione sociale.
Non ci sarebbe stata la presa del Palazzo d’Inverno senza la testarda insistenza di Lenin a compiere l’attacco frontale per sciogliere la insostenibile contraddizione tra due poteri che rivendicavano sovranità. Nel suo partito c’era chi invitava a cogliere in maniera tradizionale le opportunità della rivoluzione liberale per cercare di strappare diritti più avanzati. La ricognizione dei rapporti di forza indusse invece Lenin a ritenere che, a differenza del 1905, non era possibile limitarsi a un riassetto della forma politica in un senso più liberale. La distruzione, il caos, l’insubordinazione diffusa richiedevano una diversa prospettiva: il potere ai soviet.
Ha faticato molto Lenin per persuadere la vecchia guardia che non si poneva la questione astratta della preferenza tra organismi liberali e forme autocratiche di potere. Il problema era di rispondere all’emergenza prodotta dalla guerra, e quindi di conquistare il potere vagante per scongiurare il caos. Non c’erano altri antidoti alla dissoluzione generale che una mobilitazione armata e di massa per la pace e la terra. La leggenda narra di un partito bolscevico costruito come una rigida macchina monolitica che raggruppava un manipolo di cospiratori assetati di potere e mossi da violenza. Questa banalizzazione del leninismo come sinonimo di spirito settario non corrisponde ai processi reali.
LA STESSA FAVOLA del centralismo democratico, come congegno della subordinazione gerarchica e della rigida omogeneità d’azione del partito-caserma, urta con la vicenda storica di un Lenin che si trovava spesso in minoranza nella sua organizzazione.
Persino la Pravda lo censurava o prendeva le distanze da un suo scritto. Lo stesso ordine di insurrezione ricevette una accoglienza assai dura. Kamenev denunciò sui giornali nemici le prove in corso di assalto al palazzo e per questo gesto irrituale attirò su di sé solo l’epiteto di crumiro. Cercò addirittura di persuadere il ricercato Lenin a farsi ammanettare. Non esisteva insomma alcun culto della personalità. Nel ’17 quello bolscevico era un partito a maglie così larghe da apparire una federazione di sensibilità eterogenee, un organismo che anche nella illegalità sembrava (un po’ troppo) vivacemente plurale.
Per convincere i riottosi della necessità di una presa delle armi non bastarono un congresso straordinario, due distinte risoluzioni votate a maggioranza dal comitato centrale. Tormentato e teso (Lenin stesso minacciò le dimissioni) fu il cammino per la presa del Palazzo d’Inverno.
L’INSURREZIONE non obbediva a una tattica militare spregiudicata, era invece l’efficace risposta storico-politica alle contraddizioni aperte dalle guerre mondiali (Lenin prevedeva che un altro ancora più distruttivo conflitto sarebbe scoppiato in un tempo sordo ai richiami del «famoso scrittore Keynes»). L’alternativa per lui non era certo tra un costituzionalismo slavo e il potere rosso, ma tra la dissoluzione nel caos del vecchio impero e la brutale dittatura militare. Dopo la quasi incruenta conquista del potere, legittimata da una deliberazione dei soviet che a settembre erano in maggioranza schierati con i bolscevichi, Lenin fu sorpreso dall’esito negativo del voto per l’assemblea costituente (prese solo il 24 per cento). In un primo tempo, anche per convivere con la contraddizione di due maggioranze antitetiche, Lenin era disponibile a un governo di coalizione con la sinistra dei socialisti rivoluzionari (cui fu affidato il dicastero chiave dell’agricoltura).
GLI ACCADIMENTI REALI, le lotte, le posizioni provocatorie dei raggruppamenti socialisti (escludere Lenin e Trotsky dal governo, nella scommessa che i bolscevichi sarebbero presto stati spazzati via) ruppero l’alleanza e portarono alla soluzione di un governo di partito. La vittoria dell’Ottobre era ritenuta un accadimento non più reversibile.
A cento anni di distanza, quell’esperienza che segnò il Novecento, produsse miti, mobilitazioni, speranze, utopie, tragedie non può essere semplicemente archiviata nella galleria degli orrori. La prima grande manifestazione di massa che si tenne a Roma liberata nel 1944 si svolse allo stadio Palatino. Parlarono insieme Nenni e Togliatti perché l’Ottobre era patrimonio comune. I loro discorsi furono stampati dall’Avanti e dall’Unità in un opuscoletto di 31 pagine con il titolo in rosso: V
iva la Rivoluzione d’Ottobre! Persino Veltroni, in un cinema romano, nel ’77 celebrò i 60 anni dei soviet. Anche se la rimozione è di moda, la ricostruzione democratica in Italia è connessa con il fantastico scatto del ’17.
Nell'immagine Marc Chagall, litografia da «La Rivoluzione».
il Fatto Quotidiano
Guerre, carestie, povertà: sono tanti i fattori che spingono decine di migliaia di persone a raggiungere l’Italia dalle coste dell’Africa (già oltre 100 mila nel 2017). Il nostro Paese è da tempo il principale porto di arrivo per le rotte dei migranti nel Mediterraneo: secondo i dati del Viminale, da gennaio sono sbarcate 103.097 persone, in calo rispetto alle 130.620 dello stesso periodo del 2016. Parliamo di una cifra pari circa al 2% del totale degli stranieri residenti in Italia, che secondo l’Istat sono poco più di 5 milioni.
Il dato sugli sbarchi non rappresenta che una parte di chi emigra. A migliaia non raggiungono la meta, perché bloccate prima dei porti di Libia e Tunisia o perché vittime di naufragi. L’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) riporta che, nel 2017, 2.561 persone hanno perso la vita sui barconi di fortuna in viaggio verso l’Italia, un numero comunque in calo rispetto al record dello scorso anno, quando si registrarono 5.096 morti in mare, di cui ben 700 tra il 25 e il 28 maggio.
La diminuzione degli arrivi e delle tragedie nel Mediterraneo sono anche il risultato di un drastico cambiamento nella gestione dell’emergenza immigrazione da parte del governo Italia, a partire dal codice per le Ong. Gli accordi raggiunti tra il ministro degli Interni Marco Minniti e il governo libico di Fayez al-Sarraj hanno fatto sì che da luglio a settembre 2017 – cioè nei mesi in cui generalmente partono più barconi – siano arrivate in Italia “soltanto” 19.343 persone, contro le 61.821 del 2016.
Quindi, tre mesi fa, l’invito alle Ong che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, a sottoscrivere il codice di condotta che limita il loro raggio d’azione e prevede che, su richiesta delle autorità nazionali, le navi delle organizzazioni debbano ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria per “raccogliere informazioni e prove finalizzate alle indagini sul traffico di esseri umani”. Se da una parte gli accordi hanno limitato in modo considerevole gli sbarchi, dall’altra hanno aumentato il numero di persone rimaste bloccate in Libia: secondo alcune associazioni umanitarie sarebbero circa 15.000 i migranti rinchiusi nei centri di detenzione libici, fermati nel tentativo di partire.
Tra i 103.097 arrivi di quest’anno, una percentuale considerevole è costituita da minori non accompagnati. Sono stati 13.418, più del 13% del totale, e per loro il Parlamento ha approvato da pochi mesi una legge che sancisce parità di trattamento rispetto a chi gode della cittadinanza italiana o è cittadino dell’Unione europea, disponendo anche che il respingimento alla frontiera non possa essere disposto in nessun caso.
Nigeria - Il terrore cieco di Boko Haram, nel Paese dei sei figli per donna
16%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La maggior parte delle 103.097 persone sbarcate in Italia nel 2017 viene dalla Nigeria. Sono 17.061, pari al 16,5% degli arrivi. Il Paese è in guerra da più di sette anni, da quando Boko Haram, l’organizzazione terroristica affiliata all’Isis in guerra contro il governo, ha ottenuto il controllo su alcuni territori. Secondo l’Onu, il fertility rate (il numero di figli per ogni donna) è di 5,7, mentre l’aspettativa di vita alla nascita è di 52 anni per gli uomini e 52,6 per le donne. Secondo i dati della Word Bank, nel 2011 85,2 milioni di persone (circa il 53% della popolazione di allora) viveva con meno di 1 dollaro e 90 al giorno, la soglia della povertà assoluta. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International riferisce che “le forze di sicurezza continuano a commettere gravi violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate”.
Guinea - I tristi primati della tortura e delle mutilazioni genitali
8,7%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La Guinea è uno degli Stati più poveri del mondo. Sono 9.056 (8,7% del totale) gli uomini e le donne in fuga dal Paese in cui tre anni fa scoppiò l’epidemia dell’Ebola, causando 2.346 morti. Lo scorso anno il nuovo codice penale ha abolito la pena di morte, ma Amnesty International denuncia ancora “episodi di tortura e maltrattamenti” da parte delle forze dell’ordine. Nella graduatoria stilata dall’Onu in base all’Isu (l’Indice di Sviluppo Umano, che incrocia dati sul reddito pro capite, sull’istruzione e sulla qualità della vita), la Guinea occupa il 183esimo posto su 188 Paesi. L’Unicef riporta che circa il 96% delle donne tra i 15 e i 49 anni ha subito mutilazioni genitali di qualche tipo, in un Paese in cui un’indagine del 2015 mostrava che il 63% delle ragazze tra i 20 e i 25 anni si fosse sposata prima dei 18 anni.
Bangladesh - Spinti ad Ovest dalla povertà e (anche) da altri profughi
8,5%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Dal Bangladesh, Paese separatosi dal Pakistan nel 1971, sono giunti in Italia 8.794 persone da gennaio, pari all’8,5% del totale degli sbarcati. In queste settimane il Bangladesh vive l’emergenza dei rohingya, la minoranza islamica in fuga dalla Birmania. Circa 400.000 profughi hanno passato il confine birmano, rifugiandosi in Bangladesh, in un Paese che è tra i più poveri dell’Asia e che non è in grado di gestirne l’accoglienza. Dal 2015 ci sono state decine di attacchi terroristici – in quello di Dacca, nel luglio 2016, morirono anche 9 italiani – riconducibili a gruppi vicini all’Isis. Secondo l’Unicef, circa il 18% delle ragazze si sposano prima dei 15 anni: è uno dei tassi più alti al mondo. Anche il dato sull’alfabetizzazione è preoccupante: solo il 61% della popolazione sopra i 15 anni sa leggere e scrivere (la media mondiale è dell’86%).
Costa d'Avorio - Una lotta tra fazioni infinita e le cellule superstiti di Al Qaeda
8,2%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Proprio quando la Costa d’Avorio sembrava uscita dall’incubo della guerra civile, iniziata nel 2002, le elezioni del 2010 hanno portato nuovamente il caos nel Paese. Il presidente Alassane Ouattara ha dovuto vedersela con le truppe legate al vecchio presidente, Laurent Gbagbo, poi arrestato e accusato di crimini contro l’umanità. Adesso il Paese, da cui nel 2017 sono arrivati in Italia 8.482 persone, pari all’8,2% del totale, fa i conti con i continui attacchi jihadisti di Aqim – una cellula di Al Qaeda – e con condizioni di estrema povertà per la popolazione. La Costa d’Avorio è al 171esimo posto sui 188 della graduatoria basata sull’Indice di Sviluppo Umano e ha un’aspettativa di vita di soli 53 anni. Il tasso di mortalità infantile è del 5,3%, tra i più alti del mondo.
Mali - L’intrigo internazionale nella terra dei bambini soldato
6%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Nel 2012 in Mali è scoppiato un conflitto interno che ha portato le truppe del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad ad occupare la parte nord del Paese. L’attività di alcuni gruppi islamisti ha complicato il quadro e nel 2013, dopo una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia di Hollande ha inviato i propri aerei in supporto del governo centrale, contro le truppe indipendentiste dell’Azawad e contro gli estremisti islamici. Anche l’Italia, dal 2013, ha fornito supporto logistico all’operazione. Tutte le trattative di pace sono finora saltate e il conflitto è ancora in corso, mentre le Nazionu Unite denunciato l’ampio utilizzo di bambini-soldato. Dal Mali – in cui si registra il secondo tasso di mortalità infantile più alto del mondo, pari al 10% – sono arrivate in Italia 6.121 persone da gennaio, circa al 6% del totale.
Eritrea - Isolamento internazionale, dittatura e schiavitù militare
5,4%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Ex colonia Italiana nel periodo fascista, l’Eritrea è sotto la dittatura di Isaias Afewerki da quasi 25 anni, cioè da quando, nel 1993, un referendum ne legittimò il potere. L’Eritrea è stata gradualmente isolata dalla Comunità Internazionale. Una commissione d’inchiesta voluta dall’Onu nel 2014 ha stabilito che l’Eritrea “non ha un sistema giudiziario indipendente, non ha né un parlamento né istituzioni democratiche” e “c’è un clima di impunità per i crimini contro l’umanità commessi da un quarto di secolo”. Secondo l’Onu, migliaia di persone – 5.612 quelle giunte in Italia nel 2017, il 5,4% del totale – fuggono dal servizio militare, paragonato a una schiavitù camuffata: la leva dura ufficialmente 18 mesi, ma i militari vengono poi costretti a rimanere nell’esercito.
Senegal - La giustizia sommaria alle porte del Sahara
5,4%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Il Senegal è uno snodo fondamentale per le partenze verso il deserto del Sahara, anticamera dei porti in Tunisia e in Libia. Da gennaio sono arrivate 5.610 persone, in fuga da un Paese in cui oltre 5 milioni di persone – il 37% della popolazione – vive sotto la soglia di povertà assoluta di 1 dollaro e 90 al giorno. Il rapporto 2016/17 di Amnesty International evidenzia come ci siano forti limitazioni alle libertà personali, comprese quelle sessuali, e ai diritti civili, come la facoltà di espressione e associazione. La giustizia, secondo Amnesty, è applicata in modo sommario e contribuisce a un grave sovraffollamento delle carceri. Il tasso di natalità è di circa 5 figli per ogni donna e fa sì che la popolazione, negli ultimi 15 anni, sia aumentata di circa il 50%.
Gambia - Due milioni sotto lo scacco di una Repubblica islamica
5,4: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Dopo ventidue anni di dittatura, lo scorso anno il Presidente Yahya Jammeh è stato costretto all’esilio. Il Gambia era stato dichiarato “Repubblica Islamica” e Amnesty International ha a lungo denunciato la sopressione di ogni libertà, soprattutto per mano dei Jungulers, un esercito di sicurezza privato. Da qualche mese le cose vanno meglio, ma il Gambia resta un Paese poverissimo – 173esimo su 188 nella graduatoria basata sull’Indice di sviluppo umano – con ancora molte difficoltà a lasciarsi alle spalle la dittatura. Secondo le Nazioni Unite, nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 49 anni ben il 16% delle donne si è sposata prima dei 15 anni. Dal Gambia, dove vivono appena due milioni di persone, sono arrivate in Italia 5.594 persone negli ultimi nove mesi.
Sudan - Emergenza umanitaria tra guerra civile e secessione
5,3%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. Sette anni fa un referendum ha ufficializzato la separazione tra Sudan e Sudan del Sud. Al voto si era arrivati dopo una guerra civile che, seppur a intermittenza, andava avanti dagli Anni 80. Nella parte ovest dello Stato, in Darfur, si alternano periodi di guerra e di tregua in un conflitto che, si stima, ha causato negli anni oltre 400.000 vittime. Mentre in Sud Sudan si è tornati a combattere e il Paese è in grave emergenza umanitaria, in Sudan Amnesty International denuncia che “le forze di sicurezza hanno preso di mira membri dei partiti politici d’opposizione, difensori dei diritti umani, studenti e attivisti politici, sottoponendoli ad arresti e detenzioni arbitrari e ad altre violazioni”. Questi fattori, uniti a una diffusa povertà, hanno spinto 5.480 persone ad arrivare in Italia nel 2017, pari al 5,3% del totale.
Marocco - Immigrazione di lunga data per raggiungere le famiglie
4,9%: la percentuale del singolo Paese sul totale degli sbarchi nel 2017. La comunità marocchina in Italia è composta da oltre 430.000 residenti, che costituiscono uno dei principali motivi per cui anche quest’anno 5.064 persone hanno raggiunto l’Italia dal Paese del Maghreb. Nonostante sia considerato uno dei casi più virtuosi dell’Africa, il Marocco ha ancora molti problemi di diritti. Le Nazioni Unite, in un rapporto inviato a Rabat nei giorni scorsi, ha chiesto interventi, per esempio, sul riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio, sulla disparità di trattamento tra i generi sulle questioni di eredità – le donne sono escluse dalla successione, a meno di diverse indicazioni –, sulla condanna delle violenze coniugali e sul problema delle spose bambine. Amnesty International, intanto, continua a denunciare l’opera di contrasto del governo all’attività di diverse organizzazioni per i diritti umani.
il Fatto Quotidiano
"La natura torna al galoppo”. È un detto francese che uso per spiegare i fenomeni migratori che sono ciclici e impossibili da frenare, nonostante nuove restrizioni e frontiere fisiche e commerciali”. Si intitola per l’appunto Frontiere (Il Mulino) l’ultimo saggio del professor Manlio Graziano. Piemontese, da anni insegna Geopolitica e Geopolitica delle religioni alla Sorbonne di Parigi e presso l’istituto di Studi Geopolitici a Ginevra.
Professor Graziano, è giustificato l’allarme immigrazione che dura ormai da un paio d’anni?
No, non lo è. Nella storia ci sono state altre ondate di globalizzazione. La più eclatante nell’era moderna è stata tra il 1870 e il 1913 quando, non è un caso, si strutturò il diritto internazionale, che contribuì a ridurre l’importanza delle frontiere. Durante quella fase si spostò il 10% della popolazione mondiale, allora di circa un miliardo di persone. Significa almeno 100 milioni di individui. Una cifra che, fatte le proporzioni con gli attuali 7 miliardi di abitanti del pianeta, mostra di per sé che l’allarme che percorre l’Occidente è quantomeno prematuro.
Ma allora stava iniziando la seconda Rivoluzione industriale, c’era bisogno di qualsiasi tipo di manodopera. Oggi no.
È vero che oggi c’è più richiesta di manodopera di alto livello, ma ci sarà comunque sempre bisogno di forza lavoro a bassa qualificazione.
Quella più bassa rimane generalmente in Italia. Perché?
Chi ha delle ambizioni, voglia di emergere, di studiare per ottenere un lavoro decente sa che l’economia italiana è stagnante e quindi cerca di andare in Germania o Francia. L’Italia, inoltre, non ha l’autorevolezza sufficiente per esigere dall’Europa un comportamento più equo. Speriamo che dopo le elezioni di ieri in Germania, la situazione si stabilizzi, si esca dalla campagna elettorale, un periodo che inevitabilmente costringe i leader politici a non esporsi sul tema dell’immigrazione o a demonizzarlo come fanno in molti, proponendo soluzioni irrealistiche ammantate di buon senso che fanno presa sulla gente disorientata e ansiosa a causa dei mutamenti sempre più rapidi. Ma è un problema psicologico, non reale, questo sì devastante, alimentato da politici opportunisti. L’essere umano tende a volere certezze, ecco perché risorgono i nazionalismi e gli estremismi religiosi. La gente vi si aggrappa come alle rocce nella corrente temendo di perdere la propria identità.
Le Monde ha criticato il ministro dell’Interno Minniti accusandolo di fatto di aver pagato tangenti ai trafficanti per bloccare i migranti africani nei paesi di passaggio. Ma non le sembra che anche Macron sia connivente con questo sistema quando chiude le frontiere a Ventimiglia e senza sborsare un euro? O la Merkel, quando diede i soldi europei a Erdogan per nascondere sotto il tappeto turco i profughi di guerra che tentavano di venire in Europa attraverso il mare Egeo e la Grecia?
Sì, è così. Con la differenza che i migranti nei cosiddetti centri di accoglienza libici sono sottoposti a trattamenti inumani, a torture, stupri, schiavitù. Con la fretta di risolvere il problema, il governo italiano, se è vero quello che leggo e sento dire, sembra abbracciare soluzioni farraginose e al limite del disumano.
Cosa dovrebbe fare intanto il resto d’Europa?
Io sono un analista e non propongo soluzioni. Ma è certo che un’Europa forte e coesa dovrebbe avere un unico piano di gestione dei flussi a livello comunitario e costringere i paesi recalcitranti a soddisfare le quote di ricollocamento stabilite.
Ma anche tra chi ha tenuto fede al programma di ricollocamento, come la Germania e la Francia, sembra orientato a non accettare più i migranti, meglio rifugiati. E visto che il fenomeno durerà anni l’Italia, che è il molo dell’Europa, cosa dovrebbe fare ?
Ripeto, il mio compito non è proporre soluzioni. Ma sono convinto che se tutte le risorse fossero destinate all’accoglienza anzichè alla chiusura, quello che è un problema potrebbe diventare un’opportunità.
I tedeschi prevedono ogni anno di essere in grado di ricevere un certo numero di migranti, sorpassato il quale non sarebbero più in grado di scolarizzarli e di dare loro un’opportunità di lavorare né di curarli gratuitamente con il sistema sanitario pubblico. L’Italia non può chiudere le coste sul Mediterraneo come se fosse un confine di Stato.
Anche la cancelliera Merkel deve lisciare il pelo dell’elettorato. I tedeschi, come pure gli italiani, le risorse le avrebbero, ma per non urtare i possibili elettori preferiscono spendere per bloccare gli immigrati anziché per accoglierli.
E la soluzione proposta da Matteo Renzi di “aiutarli a casa loro”?
È assurda perché l’emigrazione è una conseguenza dello sviluppo che provoca l’espulsione dei contadini dalle campagne. Più aiuti in loco si traducono in più sviluppo e dunque in maggior emigrazione. Del resto, come dicono i cinesi, “il serpente sciocco si morde sempre la coda”.
Nena News
“La libertà verrà, è inevitabile. L’occupazione avrà fine o con l’indipendenza dello Stato di Palestina o, se vogliono, con uguali diritti per tutti gli abitanti della Palestina storica, dal fiume [Giordano] al mar [Mediterraneo]”. A dirlo è stato ieri il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) sul podio della 72esima Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il discorso di Abbas è stato però complessivamente deludente: il leader di Fatah ha sì espresso parole dure nei confronti “dell’apartheid” israeliana e della complicità della comunità internazionale per il suo sostegno al “processo di colonialismo di insediamento” israeliano, ma ha anche espresso fiducia sull’abilità del presidente Usa Trump di porre fine al conflitto israelo-palestinese. Una fiducia, quest’ultima, che appare priva di alcun fondamento logico: proprio due giorni fa all’Onu The Donald ha ribadito la sua forte alleanza con Israele e, concentrandosi sull’Iran e Corea del Nord, ha ignorato del tutto la causa palestinese.
Abbas ha poi ricordato la questione di al-Aqsa a Gerusalemme dicendo che Israele sta “giocando con il fuoco” poiché sta cercando di cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee, teatro questa estate di due settimane di proteste. Il presidente è ritornato su quei giorni lodando la risposta “pacifica” dei palestinesi alle decisioni delle autorità israeliane. Il passaggio ad al-Aqsa ha offerto all’anziano leader l’opportunità per mandare un messaggio a Israele: non trasformare il “conflitto politico” in uno religioso esacerbando le tensioni a Gerusalemme est.
Il popolo palestinese, ha aggiunto, ha fatto “tutti gli sforzi possibili per fare la pace con i vicini israeliani”, ma lo stato ebraico ha rifiutato tutte le iniziative. A partire dalla “soluzione a due stati” il cui rifiuto di Tel Aviv “pone a rischio l’intera regione”. Lo status quo – ha aggiunto – peggiora sempre di più per le continue violazioni della legge da parte d’Israele”. Una situazione che si fa sempre più difficile perché, ha sottolineato, la Palestina sta terminando lo spazio per formare uno stato indipendente a causa “dell’inarrestabile attività coloniale israeliana sul territorio palestinese”. Nonostante però si accorga di questa realtà sul terreno, Abbas continua a sposare la vecchia linea: la necessità di una soluzione a due stati con Israele nei confini del 1967.
Abbas ha poi criticato il sostegno ad Israele da parte della comunità internazionale apparendo più convincente: “L’apartheid – ha detto – è stata abolita in Sud Africa, ma è ancora presente in Palestina. Come può essere accettabile? Proprio per sconfiggere questa discriminazione, ha argomentato, la comunità internazionale deve fornire un esatto quadro temporale entra il quale l’occupazione israeliana dovrà terminare, deve implementare la Risoluzione 194 (il ritorno dei rifugiati palestinesi prodotti dalla fondazione d’Israele del 1948), garantire protezione internazionale ai palestinesi fin quando non sarà terminata l’occupazione israeliana e smetterla di essere complice del “processo di colonialismo d’insediamento” israeliano. La strada, ha osservato, è già stata tracciata durante la segregazione razziale in Sud Africa quando il paese africano fu oggetto di un boicottaggio internazionale.
Significativo il passaggio su Hamas e Striscia di Gaza. Qui il presidente ha dichiarato che “non ci sarà nessuno stato. E non ci sarà uno stato palestinese senza Gaza” esprimendo il suo “sollievo” per i recenti sforzi di riavvicinamento compiuti dai rivali islamisti. Proprio sulla riconciliazione nazionale, Abbas ha detto che alcuni ufficiali dell’Autorità palestinese si recheranno la prossima settimana a Gaza per “assumere le loro responsabilità” e ha aperto alla possibilità di indire in futuro le elezioni generali.
Qualche ora prima di parlare dal podio dell’Assemblea Generale dell’Onu, Abbas aveva incontrato Trump e il Segretario generale dell’Onu Guterres. Con il primo, il leader di Fatah ha parlato degli sviluppi regionali esprimendo la sua fiducia sull’abilità dell’inquilino della Casa Bianca di mediare un accordo tra Palestina e Israele. Secondo quanto riporta l’agenzia palestinese Wafa, il presidente palestinese ha affermato che il quarto incontro con Trump da quando è stato eletto alla presidenza statunitense “mostra la serietà” di quest’ultimo nel voler raggiungere “l’accordo del secolo in Medio Oriente quest’anno o nei mesi a seguire”.
Con il Segretario generale dell’Onu, invece, sono stati discussi i recenti sviluppi politici palestinesi. Abbas ha però anche esortato il capo delle Nazioni Unite a far rispettare le risoluzioni internazionali relative alla Palestina. Posizioni che, almeno a parole, il Segretario dell’Onu condivide: lo scorso mese, in visita alla Striscia di Gaza, ha chiesto la fine del decennale assedio israeliano descrivendo la situazione nella piccola enclave come “una delle crisi umanitarie più drammatiche” che ha mai visto.
il manifesto
Era il 28 marzo del 1999 quando alla riunione del Tavolo di Coordinamento governo associazioni per gli aiuti alla ex Jugoslavia, presenti l’attuale ministro Marco Minniti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e Livia Turco, allora ministra del governo D’Alema, alle organizzazioni intervenute fu proposto – racconta Giulio Marcon nel suo libro “Le ambiguità degli aiuti umanitari: indagine critica sul terzo settore” – di partecipare al grande progetto italiano di assistenza ai profughi kosovari: Missione Arcobaleno. “Mentre bombardano, aiutano i profughi”, scrive Giulio Marcon. Dopo quasi vent’anni il governo Gentiloni e il ministro Minniti propongono un metodo analogo. Lo stesso schema di allora.
«Non staremo sotto il vostro elmetto». Questa fu la risposta di Raffaella Bolini, dirigente dell’Arci, per esprimere il dissenso del Consorzio Italiano di Solidarietà e di una parte delle organizzazioni presenti, che non partecipò alla Missione Arcobaleno. Anche oggi per noi dell’Arci, e non solo, la questione si pone negli stessi termini: non indosseremo la giacca del governo italiano e dell’Unione europea che hanno dichiarato guerra ai migranti. Fanno accordi con dittatori e governi fantoccio, con milizie criminali che torturano e stuprano, inviano strumenti e risorse per bloccare le persone in modo che nessuno possa arrivare alle nostre frontiere a chiedere protezione. Alle organizzazioni sociali, alle Ong che si occupano di progetti di cooperazione allo sviluppo, chiedono di collaborare per garantire servizi e i diritti umani delle persone che subiscono trattamenti disumani e violenti.
Come con la missione Arcobaleno si mettono in campo risorse, pare 6 milioni di euro, per intervenire nei lager libici, aprire nuovi campi e gestirli, in collaborazione con le autorità libiche. Presentate progetti, diranno, come avrebbero detto da lì a poco, nel lontano 1999 per i profughi kosovari. Aiutiamoli in Libia, con progetti da finanziare alle Ong. Cioè aiutiamoli a casa di altri per non farli arrivare in Europa, a “casa nostra”, e sentirci a posto con la coscienza. Un tentativo, come avvenne all’epoca, di avere una copertura dalla società civile, dal terzo settore, per un’operazione vergognosa, in questo caso di esternalizzazione delle frontiere, di guerra ai migranti, che ha trovato una forte opposizione sociale, nonostante l’ampio consenso pubblico.
Il tentativo di dividere le organizzazioni tra buone e cattive, com’è stato fatto con il codice delle Ong. Chi collabora sarà premiato, sul piano della comunicazione pubblica e delle risorse. Chi dissente sarà criminalizzato e isolato. Si rilancerà l’insulto “buonista” per mettere all’indice chi non vuole arrendersi alle violazioni della nostra Costituzione (ex art.10), della legge e delle convenzioni internazionali. Si dirà, com’è stato detto con il Codice Minniti, che c’è chi vuole partecipare a risolvere i problemi e chi invece fa l’anima bella e non si preoccupa del crescente razzismo che deriverebbe dagli arrivi sulle nostre coste, come dicono i “razzisti democratici”.
La Missione Arcobaleno fu una brutta pagina della storia delle organizzazioni che svolgono attività di solidarietà internazionale e di tutela dei diritti. Un’iniziativa di un governo di centrosinistra per dividere e distrarre l’opinione pubblica, ricercando un consenso altrimenti difficile da ottenere. Oggi, protagonisti nuovi e vecchi, ripropongono quel tentativo. Speriamo che nessuno caschi in questo tranello, per soldi o per calcolo politico. Una risposta forte e chiara di dissenso dalla società è auspicabile. E proveremo insieme ad altri a metterla in campo in questo autunno.
Nel frattempo, come in quella primavera del 1999, è bene far arrivare al governo un forte signornò!
il manifesto«Immigrazione. L’assist del papa rinfocola la canea antiprofughi, ma Francesco ha voluto evidenziare che non c’è accoglienza senza integrazione. I posti vanno cercati in Europa».
Certamente papa Francesco era consapevole che l’assist dato alle politiche migratorie del governo italiano avrebbe avuto l’effetto di rinfocolare la canea antiprofughi delle destre razziste, non solo italiane ma anche europee. Destre di cui peraltro le strategie del ministro Minniti – e prima di lui le parole di Renzi – ricalcano i punti fondamentali: l’abbiamo sempre detto «non c’è più posto»; caso mai, «aiutiamoli a casa loro», ecc.
Francesco ha voluto evidenziare una cosa che questo giornale sostiene da sempre: che non c’è accoglienza senza integrazione; senza la capacità di dare casa, lavoro, reddito, scuola e servizi sociali a chi si è visto costretto a cercare tra noi rifugio o speranza di sopravvivere. Ha anche ricordato che la questione dei profughi e dei migranti, insieme a quella del clima – tra loro strettamente legate – è la questione centrale del nostro tempo: tanto per il «cuore», cioè per lo spirito da cui ciascuno di noi si deve sentire guidato, quanto per la «politica», cioè per le scelte che ogni paese deve fare.
Ricevere, dice Francesco, è un comandamento di Dio, perché «tu sei stato schiavo – migrante – in Egitto». Ma poi, è come se Mosè, nel sottrarre il suo popolo al dominio del faraone, ne avesse lasciata in Egitto una buona metà, perché nella terra promessa «non c’è posto per tutti»; magari per poi aiutarli là, «a casa loro». Ma dicendo «Primo: quanti posti ho?», Francesco ha perso una grande occasione, che forse lo separerà, lasciandoli più soli di quel che già sono, da quanti cercano di andare alla radice del problema, perché solo così lo si può affrontare se si vuole aprire una prospettiva vincente.
Il fatto è che «i posti» per i nuovi arrivati non sono in numero fisso; questo dipende dalle scelte politiche. Per il fascista Orbán, e per i governi del gruppo di Visegrad, non ce n’è neanche uno. Per la Germania sembrava che ci fossero senza limiti. Ma poi, lasciata sola, anche la Germania ha stretto lei il passaggio.
PER L’ITALIA, CHE Francesco ringrazia, insieme alla Grecia, «perché hanno aperto il cuore sui migranti», la situazione è più complessa. Metà della popolazione proprio non li vuole; l’altra metà, o forse meno, li ha accolti volentieri e in molti si sono prodigati per alleviarne le sofferenze. Ma le scelte politiche sono venute dopo, di fronte a un flusso che entrambi i governi non sono riusciti a fermare; e non senza tollerare, quando non scatenare, episodi di violenza contro esseri così indifesi. L’arrivo di tante persone ha comunque costretto entrambi i governi a creare molti più «posti» di quanto ne avrebbero voluti. Tuttavia, a creare «il problema», cioè l’insofferenza o l’aperta ostilità da cui profughi e migranti sono spesso circondati, è il modo in cui la maggior parte di loro viene trattata, o abbandonata senza prospettive, o imprigionata in contenitori piazzati senza alcuna attenzione tra la parte più emarginata della popolazione locale, e non il loro numero. La questione dei «posti mancanti» nasce di lì.
Ma quello che a Francesco certo non sfugge è il fatto che il ministro Minniti e il governo italiano, i posti che non vogliono o non riescono a creare in Italia non sono andati a cercarli in Europa – dove peraltro la maggior parte dei nuovi arrivati vorrebbero andare – adoperandosi per forzare le chiuse dell’Unione e dei loro governi con tutti i mezzi a propria disposizione; cioè mettendo in chiaro che da ciò dipende non solo la coesione, ma la sopravvivenza stessa dell’Unione. Perché un’Europa sigillata come una fortezza assediata è destinata a finire in mano alle destre nazionaliste e xenofobe: scioviniste non solo nei confronti dei profughi, ma di tutte le altre nazioni europee.
I POSTI CHE «MANCANO» in Italia Minniti è andato a cercarli in Libia e ancora più giù; e sappiamo di che posti si tratti. Lo sa anche Francesco; e a ricordarglielo è stato anche, in un post virale, Andrea Segre, il regista del film
L’Ordine delle cose. Così risulta alquanto ipocrita il suo auspicio che il governo italiano faccia di tutto per risolvere in modo umanitario il problema delle persone rimaste in Libia. Certo – dice Francesco – la condizione di chi è rinchiuso nei Lager libici deve cambiare e all’Africa non bisogna più guardare come a un continente da sfruttare; ma sono auspici vaghi che non si discostano da quelli dei governi europei impegnati a fondo nel fare il contrario. E anche l’accenno al tema intorno a cui ruota tutta la presunta strategia «umanitaria» europea – la distinzione tra profughi e migranti economici – non fa chiarezza.
Forse su una distinzione così importante occorre porsi una domanda elementare: un’adolescente nigeriana, venduta dalla sorella ai gestori della tratta, o reclutata dagli stessi con la promessa di un lavoro, e poi violentata in modo seriale, sia in Libia, da prigioniera, che, da schiava del sesso, in Italia (il paese al primo posto nel mondo per turismo sessuale, con nove milioni di maschi adulti frequentatori abituali di prostitute), magari preservando la sua verginità per il primo cliente, come raccontato nel bel reportage di Francesca Mannocchi sull’Espresso, è una profuga o una «migrante economica»? E la stessa domanda si può porre a proposito di decine di migliaia di uomini sfruttati in modo bestiale nelle campagne e nei retrobottega dei ristoranti, o definitivamente lasciati per strada, per i quali quella è comunque la loro ultima chance di sopravvivenza.
Il fatto è che le barriere frapposte all’arrivo di un popolo che fugge dai rispettivi paesi perché là non può più vivere, affrontando non solo un viaggio pieno di rischi e violenza, ma anche un futuro di emarginazione e miseria (perché che cosa li aspetti una volta «arrivati» in Italia non sfugge più a nessuno), non sono fatte solo di reti, di filo spinato, di cani inferociti e di guardie armate, né solo di accordi con banditi vestiti da Guardia costiera o da sindaci libici.
LA VERA BARRIERA è la politica dell’Unione europea, che in Africa e in Medio Oriente continua a distruggere i loro paesi affiancando o conducendo direttamente guerre devastanti e sostenendo multinazionali che saccheggiano i loro territori; e che in Europa pratica politiche che non sanno né vogliono dare posti di lavoro, reddito e casa a un numero enorme dei propri cittadini; e che proprio per questo non hanno più «posti» per chi arriva da fuori. Ma l’Europa, cioè tutti noi, si salverà soltanto quando queste politiche potranno essere rovesciate; e non scaricandone il peso sui più disperati. Dove non arrivano, e non arriveranno, né i governi né il papa, dovrà essere un movimento di massa a imporre quella grande svolta.
barbara-spinelli.it
Strasburgo, 12 settembre. Barbara Spinelli è intervenuta nel corso della seduta Plenaria del Parlamento europeo dopo la dichiarazione del Vicepresidente della Commissione/Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, sui “Recenti sviluppi in materia di migrazione”. Di seguito l’intervento:
Immagino che il vicepresidente Mogherini conosca i moniti dell’Alto Commissariato Onu e di Medici senza frontiere, a proposito degli effetti degli accordi di Parigi su Libia, Ciad e Niger. Nei moniti si parla di campi di detenzione libici dove i migranti subiscono violenze e morte. L’allarme delle Ong concerne anche il controllo da parte del Ciad e del Niger delle rotte di fuga, a Sud della Libia. Saranno loro – assistiti da forze europee – a controllare le oasi dove le carovane si fermano per dissetarsi. Le nuove rotte saranno minate o prive di pozzi d’acqua.
La verità è che l’Africa diverrà una nostra prigione, dalle inaudite proporzioni, che co-finanziamo. E la cosa più impressionante è che l’Unione è al corrente di questo. Non ignora che l’80 per cento degli sfollati già è in Africa. Che in Europa arriva una parte minima. Che la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra.
Ciononostante, l’Unione si rallegra della diminuzione dei flussi, degli smuggler beffati. Questo rallegrarsi è il capitolo più nero della sua storia presente. Nei comunicati, l’ipocrisia giunge sino a sostenere che questo avverrà rispettando i diritti dell’uomo. Definire “inaccettabili” i centri di detenzione libici è del tutto insensato, Signora Mogherini, visto che l’Unione li ha accettati.
La cosa sicura è che l’Unione non potrà dire, quando sarà chiamata a render conto – perché prima o poi lo sarà: “Non sapevamo”.
14 settembre 2017. Due realtà politiche molto vicine tra loro sia per la sostanza neoliberista e la maschera democratica dei partiti dominanti sia per l'assenza di un'alternativa di sinistra.
A un mese dalle elezioni parlamentari tedesche anche nella stampa italiana (p.es.
l'Espresso 35/2017) si parla già di una "beatificazione" della Cancelliera Merkel ripetendo il cliché, caro alle destre, di un suo presunto "spostamento a sinistra" - dall'accoglienza dei migranti nel 2015 alle recenti riforme civiche. Eppure non si tratta d'altro che dell'abile pragmatismo conservatore della cancelliera che riesce spesso a cogliere delle tematiche nell'aria facendole sue, smontandole e rendendo obsolete le rispettive richieste politiche dell'opposizione. Questa è una prassi conservatrice collaudata in Germania, basti ricordare le riforme di welfare
ante litteram di un Bismarck, che introdusse nell'Ottocento di fronte alla temuta avanzata della SPD già una prima previdenza sociale o del Cancelliere Adenauer, che varò nel lontano 1957 un consistente aumento delle magre pensioni di vecchiaia e il loro aggancio dinamico ai salari, assicurando con ciò la maggioranza assoluta alla sua CDU nelle elezioni successive.
Secondo tutte le previsioni la cancelliera seguirà dunque i suoi predecessori Kohl e Adenauer ponendosi per un quarto mandato alla guida del governo della Bundesrepublik, più che altro per la non-esistenza di una vera alternativa politica, ritornello ripetuto da anni dalla stessa Merkel. «
Keine Experimente» (nessun esperimento): in Germania vince ancora quella vecchia massima della CDU, anni '60, contro cui la SPD già allora seppe contrapporre solo un timido: «Osare più democrazia!» ("
Mehr Demokratie wagen".)
Eppure in Italia non ci si stanca di ammirare proprio quella stabilità politica tedesca contrapponendola alla deplorata instabilità italiana. Il che corrisponde alla realtà solo se si confrontano i numeri dei rispettivi governi nel dopoguerra, ma non la persistenza del blocco sociale ed economico al potere nei due paesi. Qui l'Italia potrebbe vantare addirittura una stabilità maggiore, dovuta ad un vero e proprio blocco del sistema delle forze al potere, non avendo mai permesso al maggior partito di opposizione di arrivare alla guida del governo. Solo dopo la fine dell'URSS, il conseguente scioglimento del PCI e la esplicita svolta della sua reincarnazione nel PD verso posizioni neoliberiste, questa ex-sinistra ha potuto - sempre per breve tempo e in coalizioni con varie forze del centro politico - assumere la guida del paese, per lo più per compiere le impopolari, ma decisive scelte europeiste come l'entrata nell'Euro e varie misure di deregolarizzazione economico-sociale. E lo stesso blocco sociale (nonostante le seguenti fantasiose denominazioni delle vecchie forze politiche in campo) dovrebbe continuare a guidare il Belpaese anche dopo le elezioni politiche del 2018, almeno secondo gli auspici di Berlino e Bruxelles, magari addirittura con una Grosse Koalition alla tedesca, tra una ri-berlusconizzata FI e il residuale PD.
Intanto la Grosse Koalition incombe ancora sulla Germania, nonostante essa in tre legislature abbia portato il partner minore, l'SPD, ad un declino che pare ormai inarrestabile. Lo stesso sfidante attuale, Martin Schulz, estratto ex novo dal cappello elettorale come un coniglio bianco, non è riuscito a smarcarsi da una impostazione politica troppo vicina a quella della cancelliera in carica. Dopo l'unico duello televisivo tra i due, percepito piuttosto come un “duetto”, Schulz viene anche già visto come possibile futuro vicecancelliere e ministro degli esteri. Anche in Germania - dove i partiti postbellici non hanno subito la Caporetto dei partiti italiani - le elezioni del parlamento federale si sono ormai da anni trasformate in confronti tra i singoli leader, ai quali gli elettori si sottomettono per lo più come sudditi. Ma la disaffezione ai partiti tradizionali si manifesta anche lì sia nell'astensionismo crescente, sia nella proliferazione di partiti minuscoli: nelle elezioni del prossimo 24 settembre gli elettori possono scegliere tra ben 21 liste diverse.
Rispetto alle elezioni del 2005 e del 2013 anche in Germania la prospettiva politica si è ulteriormente spostata a destra. Allora gli elettori si erano espressi ancora in maggioranza numerica proporzionale per i partiti a sinistra della Cdu/ Csu, ovvero per Spd/Linke / Grüne - una coalizione politica tuttora irrealizzabile tra queste forze - sicché di fatto la Merkel fu "senza alternativa" già allora. Ma questa volta la sinistra è fuori gioco dall'inizio e la questione di un'alternativa politica non si pone affatto (avendo Martin Schulz escluso dall'inizio una coalizione con la Linke). Decisivi per eventuali nuove prospettive di coalizione della Cdu/Csu saranno dunque i voti a favore dei partiti minori, che figurano ciascuno intorno al 10%, in prima linea i Verdi e di nuovo i liberali della FDP, risuscitati grazie ad un nuovo leader yuppi, oltre alla Linke e all' AfD, fuori dall'orbita di governo.
La crescente protesta sociale dei tedeschi non ha rafforzato la sinistra della Linke, ma si è raccolta negli ultimi anni intorno ad una destra, che si autoproclama abilmente come unica "Alternativa per la Germania "(Afd). L' affermazione di questo nuovo partito xenofobo, composto da varie anime più o meno estremiste, compresi elementi ex-democristiani e neo-nazisti, costituisce una preoccupante novità nel panorama politico. Per lunghi decenni la Cdu/Csu si era sempre vantato di aver tenuto fuori dalla sfera del governo federale i partiti "a destra della Csu", soprattutto i neonazisti dellla Npd e dei Republikaner, che non avevano mai oltrepassato l'ambito regionale.
Al riguardo è diffusa l'opinione chela svolta a destra sarebbe una conseguenza della politica generosa di Mutti Merkel verso i profughi, che in verità non sarebbero poi così benvoluti dal paese profondo, come voleva farsi credere. Con ciò non si mette in conto la crescita dei movimenti di destra già ben prima dell' estate del 2015, in seguito al crescente disagio sociale nei Länder perdenti (ad est come ad ovest) nella riconversione economica della Germania dopo l'affrettata riunificazione nazionale. Una tematica che la politica ha rimosso ormai da un quarto di secolo.
La Germania, il paese più ricco d'Europa, è storicamente connotata da una grande diseguaglianza economica, caratteristica rafforzata dalla riforma monetaria del 1948, attuata nelle zone occidentali sotto controllo degli alleati a guida USA, che anticipò la successiva divisione nazionale. Ma nella Repubblica federale il divario sociale venne mitigato negli anni della ricostruzione postbellica e del boom economico da strumenti di welfare crescenti. Un complesso sistema di sussidi sociali e di disoccupazione, smantellato dopo il 2000, ovvero razionalizzato secondo le direttive neoliberiste della Agenda 2010, aveva ancora tenuti a bada i milioni di disoccupati degli anni Settanta e Ottanta. La cosiddetta riunificazione aveva poi risollevata la bassa congiuntura economica e portato anche ad una profonda "riforma" sia delle condizioni di lavoro che del welfare unificato, ad opera della Spd del Cancelliere Schröder (2001/04). Fu l'inizio del lento declino politico alla Spd. Queste cosiddette riforme Hartz hanno precarizzato il lavoro e imposto ai disoccupati e ai lavoratori poveri (working poor) un rigidissimo controllo burocratico e sociale, difficilmente pensabile e ancor meno imponibile in paesi con strutture statali meno forti ed efficienti. Eppure proprio a questo “modello tedesco” dovrebbero ispirarsi anche gli stati più deboli economicamente, secondo il volere del governo di Berlino. Questo intende Angela Merkel quando parla dei “compiti a casa” (Hausaufgaben) per l'Europa, al momento è la Francia di Macron a provarci ancora.
E non mancano i tentativi di "riforma" neanche in Italia -da tempo nel mirino sono p.es. le pensioni italiane finora ancora "più ricche" percentualmente rispetto a quelle tedesche, che corrispondono ormai solo più al 47% dell'importo dell'ultimo stipendio (2016), con tendenza al ribasso. Ma in Germania esse vengono integrate, almeno per i più fortunati, da diverse forme pensionistiche aziendali o private, quasi inesistenti in Italia. Prove evidenti dell' inadeguatezza assoluta al bisogno reale delle nuove proposte di welfare in Italia sono anche i recenti progetti della REI, ovvero del magro sussidio previsto per appena un quarto dei milioni di poveri. In un' Italia deindustrializzata con milioni di disoccupati e senza massicci investimenti pubblici e privati per una riconversione dell'economia mancano i soldi per garantire la sopravvivenza a tutti, a meno che non si invertono i meccanismi di fondo che sorreggono l'economia europea. Ma di questo non si parla, non si discute nei comizi elettorali. E nei programmi dei partiti dominanti mancano - in Germania come in Italia - proprio delle visioni ampie per un futuro che possa affrontare in modo diverso le grandi contraddizioni e i compiti urgenti del nostro tempo.
Che cosa allora si dovrà aspettare domani un qualunque nuovo governo italiano da un reiterato governo della grande finanza tedesca a guida Merkel, con o senza Schäuble, ma con un probabile nuovo presidente della Bce (dal 2019) di cognome Weidmann? E chi dirigererà il nuovo ministero delle finanze europee appena propagandato dal Presidente Juncker?
Nel silenzio del governo italiano prosegue il depistaggio sul rapimento, la tortura e l'assassinio di Giulio Regeni. Una complicità basata su interessi petroliferi? Non c'è bisogno di essere maligni per sospettarlo.
la Repubblica, 11 settembre 2017
Prima hanno messo off line il loro sito Internet. E ora arrestato e “fatto sparire” uno dei loro legali che si stava recando a Ginevra per una conferenza alle Nazioni Unite, dove avrebbe parlato anche del sequestro, la tortura e la morte di Giulio Regeni. Continua la guerra dell’Egitto di Al Sisi all’Ecrf (l’
Egyptian commission for right and freedom), ossia i consulenti legali della famiglia Regeni al Cairo.
L’offensiva è ripartita nei giorni scorsi quando l’Ecrf ha pubblicato on line il nuovo rapporto sulle sparizioni forzate censendone 378 negli ultimi 12 mesi. Report che in Egitto non si può più scaricare dalla pagina Internet dell’associazione, perché la pagina è stata chiusa dal governo.
Ieri è successo però altro, denunciano dall’Ecrf. L’avvocato Ibrahim Metwaly, 53 anni - una delle persone che fisicamente avevano scritto quel rapporto in cui vengono messe nero su bianco alcune pratiche del regime egiziano, purtroppo ben note in Italia è stato fermato all’aeroporto del Cairo mentre saliva su un volo per Ginevra dove era stato invitato per relazionare al consiglio dei diritti umani sulla situazione in Egitto.
«Metwaly avrebbe dovuto parlare, tra le altre cose, di suo figlio Omar, sparito nel 2013 e anche di quanto accaduto in Egitto a Giulio Regeni », fanno sapere dall’Ecrf. «Ibrahim – dicono ancora – sembra essere sparito nel nulla. Dopo il suo arresto, per accuse che chiaramente non ci sono assolutamente note, non abbiamo saputo più nulla. E per questo siamo molto preoccupati per quanto può accadere».
Che Sisi e il suo governo abbiano nuovamente alzato l’attenzione contro chi si occupa di tutela di diritti umani era, d’altronde, chiaro da giorni. Dopo la pubblicazione da parte di Human Rights Watch di un altro rapporto-denuncia sull’uso sistematico della forze e della tortura da parte dei servizi di sicurezza egiziani, era partito l’ordine di oscurare anche il loro sito per rendere clandestina la ricerca. Si tratta in questo caso di 63 pagine nelle quali vengono raccolte testimonianze di detenuti e familiari di scomparsi che raccontano come «la polizia e i funzionari della Sicurezza nazionale usano regolarmente la tortura nei loro interrogatori per costringere presunti dissidenti a confessare o divulgare informazioni ».
«Quel rapporto è pieno di calunnie», hanno risposto funzionari del governo. Che hanno riservato ad altri lo stesso trattamento di Ecrf e Human Rights: da maggio il governo egiziano ha bloccato 420 siti web e agenzie di informazione, come il giornale on line Mada Masr o i media indipendenti, da Al Jazeera all’Huffington Post Arabic.
Sarà dunque questo il clima che troverà la prossima settimana il nostro ambasciatore, Gianpiero Cantini, che dopo più di un anno riaprirà la sede diplomatica italiana al Cairo. Ed è in questo clima che si dovrebbe tenere, probabilmente entro il mese di settembre, il vertice dei magistrati italiani con la procura generale del Cairo che ha promesso, per l’ennesima volta, «tutto lo sforzo per trovare gli assassini e i torturatori di Giulio». Sforzo che, fino a questo momento, si è rivelato poco più che una presa in giro.
«Russia, Usa, Francia, Cina, Gran Bretagna, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord hanno bombe, missili, sottomarini. Una corsa al riarmo in barba ai trattati».
il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2017 (p.d.)
Il mondo è in pieno riarmo nucleare. Non tanto per il numero di testate, in lento calo dopo il nuovo trattato Start del 2010, ma per i programmi di modernizzazione delle forze nucleari avviati da tutte le nazioni armate di atomica. Non solo la Corea del Nord, ma tutti i nove Stati nucleari sono impegnati in costosissimi progetti per la costruzione di bombe più potenti o di nuovi missili, bombardieri e sottomarini per il lancio di testate nucleari. Una competizione tra programmi a lungo termine che, come osserva l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, dimostra che “nessuno di questi Stati sarà pronto a privarsi del suo arsenale nucleare nel prevedibile futuro”.
Il 92% delle quasi 15.000 testate nucleari esistenti – di cui 4.150 schierate, cioè ponte all’uso – si trova negli arsenali americani e russi in quantità equivalenti: 7.000 in Russia (di cui 1.950 schierate) e 6.800 negli Stati Uniti (di cui 1.800 schierate). Le due potenze nucleari europee, Francia e Gran Bretagna, detengono rispettivamente 300 testate (quasi tutte schierate) e 215 testate (la metà schierate). La Cina ha 270 bombe, tutte schierate, così come gli eterni nemici India e Pakistan che ne hanno circa 130 ciascuna, tutte puntate contro il vicino avversario. Anche le 80 atomiche di Israele sono pronte all’uso. Infine la Corea del Nord, che sembra averne almeno una ventina, il triplo secondo Washington.
Troppo spesso nel tracciare la mappa globale del Risiko atomico (che fino agli Anni 90 comprendeva anche Sudafrica, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan) ci si limita a questi nove Paesi dimenticando di citare anche gli Stati nucleari “in subappalto”, tra cui l’Italia, vale a dire le cinque nazioni che fin dagli Anni 60, in virtù della dottrina atlantica della “condivisione nucleare” (Nuclear Sharing) detengono bombe atomiche Usa che, in caso di conflitto nucleare, saranno impiegate dalle forze aeree nucleari nazionali (oggi i Tornado, domani gli F-35). In tutto almeno 150 bombe, di cui un terzo in Italia (nelle basi di Aviano e Ghedi), altrettante in Turchia e il resto spartito tra Germania, Belgio e Olanda. Tutti Paesi, Italia compresa, che non a caso hanno boicottato il Trattato per la messa al bando degli armamenti nucleari approvato a luglio dall’Assemblea generale Onu.
Stati Uniti. Obama aveva avviato – e Trump sta portando avanti – un poderoso programma di ammodernamento nucleare da 400 miliardi di dollari fino al 2026 (un trilione di dollari in trent’anni) per potenziare le bombe termonucleari tattiche B61 (comprese quelle schierate in Italia), costruire i nuovi bombardieri nucleari a lungo raggio B-21 per rimpiazzare i vecchi B-52 e B-1, i nuovi missili nucleari da crociera Long-Range Standoff, i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Ground Based Strategic Deterrent destinati a sostituire i vecchi Minuteman III e infine i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Columbia che prenderanno il posto della classe Ohio.
Russia. Anche Putin, in risposta al dispiegamento dello scudo antimissile americano in Polonia e Romania e allo sviluppo del programma Usa Prompt Global Strike (Attacco Globale Fulmineo), sta investendo molto nell’ammodernamento dell’arsenale nucleare ex-sovietico. Dopo aver costruito i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi RS-24 Yars in grado di trasportare sei testate termonucleari capaci di colpire obiettivi diversi, il Cremlino sta testando gli ancor più potenti missili intercontinentali pesanti da silos RS-28 Sarmat, che di testate ne potranno trasportare addirittura quindici e che pare abbiano capacità di condurre bombardamenti atomici orbitali. Senza dimenticare i nuovi bombardieri nucleari Tu-160 e i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Borei.
Gran Bretagna. Nel 2015 il governo conservatore del primo ministro David Cameron, su proposta del segretario alla Difesa Michael Fallon, ha avviato il discusso programma di sostituzione della flotta di sottomarini lanciamissili nucleari classe Vanguard con i nuovi sottomarini classe Dreadnought che verranno armati con missili Trident II dotati di nuove testate Mark 4A, più potenti e precise. Il costo complessivo del programma è stimato in 45 miliardi di dollari.
Francia. La Difesa francese, oltre a portare avanti il programma di ammodernamento dell’arsenale missilistico nucleare sottomarino con i nuovi missili balistici intercontinentali M51, ha avviato dal 2012 lo studio per la sostituzione dei sottomarini lanciamissili nucleari classe Triomphant. Analogamente, per la componente aerea, Parigi ha deciso l’ammodernamento del missili nucleari da crociera a medio raggio ASMP-A in dotazione ai bombardieri Mirage e Rafale e la loro sostituzione con missili nucleari supersonici e stealth ASN4G (prodotti da MBDA, partecipata da Leonardo).
Cina. La Repubblica popolare cinese sta testando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi Dongfeng-41 (DF-41) ognuno in grado di trasportare una dozzina di testate termonucleari: una volta operativi, saranno i missili a più lunga gittata esistenti al mondo, in grado di colpire il territorio americano. Grande importanza riveste per Pechino lo sviluppo di un’effettiva deterrenza nucleare marittima basata sulla creazione di una flotta di moderni sottomarini lanciamissili nucleari, i Type 094 classe Jin, armati con i nuovi missili nucleari intercontinentali JL-2. La Cina si sta dotando anche di un bombardiere strategico nucleare stealth a lungo raggio Xian H-20 per rimpiazzare gli H-6 di vecchia concezione, così da mettersi al pari con i B-21 americani.
India e Pakistan. I due storici nemici (non firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare del 1970) stanno entrambi lavorando per accrescere i loro arsenali, oltre a potenziare le rispettive forze nucleari, non solo per deterrenza reciproca. Nuova Delhi sta sviluppando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Agni-V in grado di colpire anche la Cina e si sta dotando per la prima volta di una flotta di sottomarini lanciamissili nucleari, classe Arihant, armati con i nuovi missili K-4, attualmente in fase di test. Islamabad rincorre il nemico lavorando ai nuovi missili nucleari balistici Shaheen-III, e alla costruzione di una deterrenza nucleare marittima, ma soprattutto allo sviluppo di piccoli ordigni nucleari tattici da impiegare contro l’India.
Israele. I progetti nucleari militari israeliani rimangono avvolti nel mistero, a partire dal reale numero di testate (il doppio delle 80 dichiarate secondo alcune fonti). Si sa solo che Tel Aviv (non aderente al Tnp) sta testando un nuovo missile nucleare balistico intercontinentale, il Jericho IV, in grado di colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta, e sta continuando ad accrescere la sua flotta di sottomarini tedeschi classe Dolphin, in grado di lanciare missili Popeye armabili con testate nucleari.
Corea del Nord. Come noto, il regime di Kim Jong-un ha condotto negli ultimi mesi una serie di test con missili balistici Hwasong che gli consentono di minacciare con armi nucleari non solo il Giappone e la base americana di Guam nel Pacifico, ma addirittura la costa ovest degli Usa e l’Europa. Non è chiaro se, oltre alla gittata, questi missili siano anche in grado di colpire accuratamente il bersaglio.
Ecco i personaggi di cui Gentiloni e Minniti sono complici: uomini come Al Ammu «il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza».
Corriere della Sera, 9 settembre 2017
Ancora nel 2010 Ahmad Dabbashi era un facchino appena ventenne al mercato all’aperto. Uno di quelli che si presta per lavoretti a ore di ogni tipo, trasporta le cassette della frutta, scarica i camion e aiuta anche nei traslochi, con il padre impiegato all’ufficio postale di Sabratha e i fratelli ancora bambini che giocano a pallone per la strada.
«Un poveraccio a cui non avresti dato un soldo. “Ammu, mi regaleresti una sigaretta?”, chiedeva strascicato a quelli che incontrava. Così diceva, “ammu”, che in arabo significa zio. E per tutti era diventato “Al Ammu”, lo zio. Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano?».
Sono le parole di Mohammad, un suo vecchio vicino di casa. E rispecchiano fedelmente ciò che a Sabratha e dintorni è oggi il parere più comune: Al Ammu, l’ex facchino, ha fatto fortuna.
D i ciò che era rimane solo il soprannome. Per il resto, ha prosperato nel caos seguito alla rivoluzione «assistita» dalla Nato, allo sfascio violento del post-Gheddafi. Tanto che ora è una delle figure più famose, ma anche temute e controverse, della Tripolitania occidentale. Noi siamo venuti a cercarlo direttamente nel suo «regno»: Sabratha, il cuore pulsante degli scafisti e dei trafficanti, dove criminalità organizzata e persino jihadismo militante spesso trovano territori comuni, ma soprattutto meta agognata per centinaia di migliaia di disperati in arrivo dall’Africa sub-sahariana pronti a tutto pur di imbarcarsi verso le coste italiane. La «riconversione»
A fine agosto gli uffici locali della Reuters e della Associated Press sono stati i primi a rivelare la sua recente «riconversione» da principe degli scafisti a collaboratore di primo piano con il progetto del governo italiano per il blocco dei flussi migratori. Il servizio di intelligence della polizia locale ci dice «che ultimamente avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez Sarraj». Una vicenda che racconta tanto della Libia contemporanea, dove chiunque voglia cercare di cambiare le cose deve comunque confrontarsi con un Paese tenuto volutamente allo stato tribale per quasi mezzo secolo nella logica del divide et impera di Muammar Gheddafi e adesso lacerato da una miriade di lotte e divisioni interne senza fine. «Personalmente posso capire che gli accordi del governo Sarraj con Dabbashi abbiano aspetti ambigui. In Occidente potete anche pensare che siano poco morali. Ma questa è la realtà della Libia. Chi vuole intervenire fa i conti con le forze che dominano sul campo, che spesso sono poco pulite, ambigue, persino criminali. Con la milizia di Dabbashi c’era poco da fare. Combatterla significa rilanciare il bagno di sangue e per giunta con nessuna prospettiva di vittoria. Il modo migliore era integrarla, agire pragmatici. Cosa che i servizi d’informazione italiani e Minniti, con il quale mi sono incontrato più volte in Libia e a Roma, hanno ben intuito. Presto ne vedremo i risultati positivi», ci dice con tono realista il 43enne Hussein Dhwadi, da tre anni sindaco di Sabratha. Questi afferma di «non escludere, ma non sapere, se davvero gli italiani hanno pagato Dabbashi e in quale forma». Cosa del resto già nettamente negata sia dalla Farnesina che dall’ambasciata italiana a Tripoli.
Tuttavia, nella stessa Sabratha non mancano i nemici feroci di Dabbashi ben contenti d’investigare. «È un mafioso, un bandito, che sino a poche settimane fa ha assassinato i nostri agenti e prosperato nell’illegalità, nell’arbitrio. Non potrà mai essere nostro alleato», dice Basel Algrabli, 36 anni, direttore della locale Unità Anti-Migranti. Gli argomenti più forti arrivano dai responsabili dei servizi di intelligence della polizia urbana, con cui abbiamo parlato per due ore. Ma chiedono di non essere identificati nel timore di vendette contro di loro e le famiglie. Su Ahmad Dabbashi e il suo clan hanno interi dossier, alcuni dei quali ci sono anche stati mostrati: hanno iniziato infatti a seguirlo già un paio d’anni dopo il linciaggio mortale di Gheddafi a Sirte nell’ottobre 2011.
Da tempo «Al Ammu» aveva scoperto che poteva far soldi occupandosi dell’ordine pubblico. Uccise «quasi per caso» un miliziano di Zintan che insidiava alcune ragazze su una spiaggia locale. Diventa allora un piccolo eroe, per qualche mese gestisce gli accessi alla spiaggia, poi si avvicina al Libyan Fight Group, il fronte jihadista libico che simpatizza per Al Qaeda. Con il latitare delle vecchie autorità gheddafiane il campo religioso guadagna punti. La gente gli dà credito, lo paga per garantirsi sicurezza. Lui assolda fratelli e cugini. Poi, il salto di qualità: ruba 250.000 dinari a un commerciante locale, comincia a trafficare in droga e petrolio. Adesso può pagare i suoi uomini, si procura le Toyota blindate montanti mitragliatrici pesanti. Oggi ne possiede a decine utilizzate da centinaia di miliziani, forse oltre 300 ai suoi ordini diretti. Tanti raccolti dalla strada, dai luoghi della sua giovinezza.Affari di famiglia
La sua struttura si militarizza nel 2014. Al Ammu comanda adesso la «Brigata Anis Dabbashi», intitolata a uno dei cugini morti in uno scontro a fuoco. Un’altra Brigata, la «48», è invece diretta dal fratello più giovane, Mehemmed chiamato «al Bushmenka», con la partecipazione attiva dei cugini Yahia Mabruk e Hassan Dabbashi. Nel 2015 impongono il monopolio sui movimenti dei camion verso il deserto e lungo la costa dal confine con la Tunisia al porticciolo di Zawiya. Non però verso Tripoli, perché qui domina violenta la potente tribù dei Warshafanna, ex sostenitori di Gheddafi oggi propensi a stare con il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Sempre secondo le stesse fonti, è in questo periodo che «Al Ammu» si assicura anche una parte dei servizi di protezione dei cantieri e terminali di petrolio e gas a Mellitah: dunque, indirettamente, delle attività Eni nel Paese. «Probabilmente è allora che lui ha i primi contatti con gli 007 italiani. Rapporti che poi si approfondiscono ai tempi del rapimento dei quattro tecnici italiani della Bonatti proprio diretti dalla Tunisia a Mellitah (di cui poi due tragicamente assassinati, ndr. )», aggiungono. Il capo del clan Dabbashi però è un ricercato, per lui è difficile viaggiare, specie all’estero. Tocca allora a Yihab, il fratello giovane più fidato, fungere da negoziatore e businessman del gruppo. Sulla rete difende il buon nome dei Dabbashi, oggi li rilancia come gruppo legittimo e garante della legge. «Yihab ha trattato per conto del fratello anche l’accordo sui migranti. Abbiamo le tracce dei suoi movimenti recenti. Sappiamo che tra fine luglio e fine agosto è volato a Malta con la compagnia privata Medavia. Di recente è stato a Istanbul, in Germania e in altre due nazioni europee. Con gli agenti dei servizi italiani si è incontrato più volte in alcuni hotel di Gammarth, la costa turistica di Tunisi. Sarraj e gli italiani si sono assicurati la sua collaborazione in cambio di almeno 5 milioni di euro e la promessa che i Dabbashi ne usciranno puliti e le loro milizie saranno legalizzate», leggono dai loro documenti i capi dell’intelligence.Il blocco
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Porti vuoti, spiagge deserte dove prima ogni notte estiva con il mare calmo imperava l’affanno delle partenze, niente barconi, nessun gommone all’orizzonte. Il traffico dalla Libia è praticamente fermo. I Dabbashi sono una garanzia. «Quanto erano efficienti nel traffico di esseri umani, tanto oggi sono bravi nel bloccarlo. Sino ai primi del luglio scorso si erano assicurati l’80% delle partenze dalle nostre coste, un affare milionario. Il loro slogan presso gli africani era che si doveva pagare tanto, almeno 1.000 dollari a testa, ma i loro trasporti erano i più certi. Crediamo avessero contatti anche con organizzazioni criminali italiane. Oggi sono attenti ad attuare i blocchi delle partenze già a terra, il lavoro dei guardiacoste libici serve ormai a poco o nulla», afferma Algrabli.
Vedere per credere. La notizia che non è più possibile (o diventa molto difficile) prendere la via del mare dalla Libia si sta spargendo a macchia d’olio. «Oltre 30.000 persone sono bloccate nella nostra regione. Stiamo cercando di spostarle su Tripoli, da dove potranno tornare più facilmente ai loro Paesi di origine grazie all’Onu e alle loro ambasciate. Sono per lo più nigeriani, eritrei, sudanesi, tanti del Ciad, della Costa d’Avorio e del Mali. Il fatto positivo è che sono nel frattempo diminuiti anche gli arrivi dal deserto sub-sahariano, solo il 30% rispetto ai primi di luglio. Ciò significa che la Libia per loro non è più un punto di transito valido. Lo verificheremo con certezza all’arrivo dei dati di fine settembre», dice ancora il sindaco di Sabratha.I «prigionieri»
La nuova situazione si manifesta amplificata a Triqsiqqa, che con i suoi ben oltre 1.000 migranti incarcerati (di cui al momento 120 donne) è oggi uno dei campi più vasti nella capitale. Si stima siano circa 600.000 gli «imprigionati» nell’imbuto libico. «Siamo in una prigione senza speranza. Io sono stato arrestato tre mesi fa. E adesso sono ben consapevole che via mare non si parte più», dice tra i tanti il diciottenne Hani Henessey, un ragazzino dai tratti fini e l’inglese quasi oxfordiano. Suo padre dentista lo condusse da bambino con la famiglia dal Sud Sudan a Londra. Ma di recente sono stati espulsi per lo scadere del visto. Hani dice però di essere gay e in quanto tale perseguitato in Africa. Vorrebbe tornare in Europa. E non sa come fare. Le storie di persecuzione, terrore e disperazione non si contano. Joe Solomon, nigeriano di 24 anni, dice di essere stato rapito da un gruppo di contadini libici. «Volevano 700 dollari per liberarmi. Quando ho spiegato che né io, né la mia famiglia, né i miei amici potevamo pagare, mi hanno tenuto come schiavo a lavorare nei loro campi per quattro mesi», ricorda. Sono vicende di razzismo antico, rimandano ai tempi della tratta araba degli schiavi dall’Africa alle coste del Mediterraneo. Viene persino da pensare che per quanto qui le condizioni siano orribili, con migliaia di persone chiuse al caldo nello sporco dietro le sbarre, fuori alla mercé dei libici incattiviti da guerra e povertà possa essere anche peggio. Ma va anche aggiunto che l’intera zona costiera è disseminata di campi per migranti, molti senza alcun controllo e mai visti da giornalisti o umanitari. Mentre visitiamo il campo l’ambasciata sudanese manda due funzionari che organizzano i rientri di 200 connazionali. Anche l’Organizzazione Internazionale dei Migranti (Iom) e lo Unhcr stanno intervenendo. «Ma sono ancora gocce nel mare. Perché le Ong internazionali non ci aiutano? Voi italiani, che avete qui anche un’ambasciata, perché non siete presenti, non siete mai venuti a visitarci?», protesta Abdul Nasser Azzam, il direttore del centro.
E Al Ammu? Come si muove colui che appare tra i maggiori artefici di tali epocali cambiamenti? Ancora a Sabratha raccontano che vorrebbe controllare lui stesso alcuni campi destinati al rimpatrio dei migranti grazie agli aiuti finanziari internazionali. Ma a noi non ha rilasciato commenti. «Se volete un incontro dovete avere il permesso delle autorità di Tripoli», ci fa dire, più formale e legale che mai.
I soprusi e la rete di interessi dietro il flusso migratorio delle ragazze nigeriane. Per comprendere la complessità delle condizioni socio-economiche e umane sia nel paese di origine che di arrivo, un'inchiesta del
New Yorker ripresa dall'Internazionale, 8 settembre 2017 (i.b.)
Sulla costa della Libia, pochi chilometri a ovest di Tripoli, è quasi mezzanotte. Alcuni trafficanti armati gonfiano dei gommoni in riva al mare. Circa tremila migranti, in gran parte originari dell’Africa subsahariana, aspettano in silenzio e scalzi, in file da dieci. I trafficanti libici ordinano ad alcuni di loro di disporsi a lato dei gommoni e di spingerli in acqua. I migranti tengono ferme le imbarcazioni mentre un trafficante fa salire a bordo più persone possibile. Quelle sedute al centro potrebbero ustionarsi se, a causa di una perdita, il carburante si mescolasse all’acqua. Quelle sui lati potrebbero cadere in mare. Ufficialmente nel 2016 sono morte almeno 5.098 persone nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. Ma la costa libica è lunga più di 1.700 chilometri, e nessuno sa quante imbarcazioni affondano senza che nessuno se ne accorga.
Su uno dei gommoni, dove ci sono 150 persone, una ragazza nigeriana, Blessing, scoppia a piangere. Ha viaggiato sei mesi per arrivare lì. Ha il volto scavato e le costole sporgenti. Si chiede se Dio abbia fatto visita a sua madre in sogno per dirle che è ancora viva. Le onde sono alte e le persone a bordo cominciano a vomitare. Poco prima dell’alba Blessing perde i sensi. Il gommone sta imbarcando acqua.
Una valvola di sfogo
Negli ultimi anni decine di milioni di africani sono scappati da carestie, siccità, persecuzioni e violenze. Anche se il 94 per cento di loro è rimasto sul continente, in centinaia di migliaia hanno cercato di raggiungere l’Europa. La rotta del Mediterraneo è diventata una sorta di valvola di sfogo anche per i paesi afflitti dalla corruzione e da profonde disuguaglianze. “Se non ci fosse l’Italia, in Nigeria scoppierebbe la guerra civile”, mi ha detto un migrante. Nel 2016, dopo che la valuta del paese africano è crollata, i nigeriani sono stati i più numerosi a tentare la traversata.
Il flusso di migranti verso l’Europa non è un fenomeno recente. L’Unione europea era riuscita in qualche modo a contenerlo, sia costruendo delle recinzioni intorno alle enclave spagnole in Marocco sia pagando i paesi costieri africani per impedire ai migranti di raggiungere le acque europee. Molte persone hanno passato anni nei paesi di confine, tentando più volte di attraversare le frontiere con l’Europa.
Quando si dirigono verso il Mediterraneo, i migranti africani involontariamente ripercorrono le antiche vie del commercio degli schiavi attraverso il Sahara. Per ottocento anni schiavi neri e concubine furono condotti con la forza attraverso gli stessi villaggi sperduti nel deserto. Queste vecchie rotte oggi sono ingovernabili e inondate di armi. Decine di migliaia di persone che partono di loro volontà finiscono nelle mani dei trafficanti, per essere vendute, costrette a fare lavori pesanti o prostituirsi. Gli uomini che finiscono in schiavitù per debiti vengono dall’intera Africa, ma quasi tutte le donne hanno caratteristiche molto simili: sono adolescenti originarie della zona di Benin City, la capitale dello stato di Edo, nel sud della Nigeria. Ragazze come Blessing.
Sono stato in Nigeria nell’autunno del 2016. È il paese più ricco dell’Africa, ma il denaro destinato alle infrastrutture finisce spesso nelle tasche di funzionari del governo.
A Benin City ci sono poche strade asfaltate e le interruzioni di corrente sono all’ordine del giorno. L’economia nigeriana è cresciuta grazie ai proventi del petrolio, all’agricoltura e agli investimenti stranieri, ma è aumentata anche la percentuale di persone che vivono in povertà.
Un giorno sono andato al mercato dei pezzi di ricambio di Uwelu. C’erano ragazzi che trasportavano motori di auto sui carretti e venditori a torso nudo che contrattavano sui pezzi raccattati dagli sfasciacarrozze. Seguendo un sentiero all’estremità occidentale del mercato, sono arrivato a una baracca dove una donna di mezz’età vestita di viola vendeva patatine, bibite e birra. Le ho chiesto se era Doris, la madre di Blessing. Lei ha annuito con un sorriso, poi è scoppiata in lacrime.
I genitori di Blessing avevano una casa e un pezzo di terra. Suo padre faceva il muratore, ma morì in un incidente d’auto quando Blessing era bambina. La famiglia era poverissima e Doris fu costretta a crescere i suoi quattro figli da sola. Il fratello maggiore di Blessing, Godwin, si mise a riparare macchine a Uwelu. Sua sorella Joy andò a vivere da una zia. All’età di 13 o 14 anni, Blessing lasciò la scuola per lavorare come apprendista da un sarto, ma lui voleva essere pagato per insegnarle il mestiere, e dopo sei mesi la mandò via. Blessing, scoraggiata, pensava di non avere un futuro. Poi alcuni amici le parlarono di un agente di viaggio di Lagos che poteva procurarle un passaporto, un visto e un biglietto aereo per l’Europa. L’uomo le promise che avrebbe trovato lavoro e guadagnato abbastanza per mantenere la sua famiglia. “Voleva partire”, mi ha assicurato Doris, che quindi decise di vendere la casa e la terra per dare tutti i soldi al tizio di Lagos. Lui però sparì subito dopo.
Doris e i figli si trasferirono in un appartamento più piccolo. Blessing, bella e slanciata, con gli occhi grandi e gli zigomi alti, aiutava la madre a vendere prodotti alimentari. La sera prendeva i soldi che avevano guadagnato e andava in un altro mercato dove tutto costava un po’ meno per rifornire il chiosco. Con il resto dei soldi compravano da mangiare, e a volte non mangiavano nulla.
Blessing si sentiva in colpa per aver messo in difficoltà la famiglia. Un giorno di febbraio del 2016, mi ha raccontato Godwin, “Blessing se ne andò senza dire niente a nessuno”.
Dagli anni ottanta
L’emigrazione delle ragazze di Benin City è cominciata negli anni ottanta, quando le prime donne del popolo Edo – stanche della repressione, delle incombenze domestiche e della mancanza di opportunità economiche – raggiunsero l’Europa in aereo con documenti falsi. Molte finirono a fare le prostitute sulle strade delle grandi città: Londra, Parigi, Madrid, Atene e Roma. Alla fine di quel decennio, secondo un rapporto delle Nazioni Unite, “la paura dell’aids aveva allontanato i clienti dalle prostitute italiane tossicodipendenti”, che furono rimpiazzate dalle nigeriane dello stato di Edo. Queste ragazze non guadagnavano molto per gli standard europei, ma abbastanza da permettere ai loro genitori a Benin City di lasciare le baracche per trasferirsi in una vera casa. Nei necrologi c’era l’abitudine di elencare i prodotti costosi – auto, mobili, generatori – comprati con le rimesse provenienti dall’Europa, e i vicini invidiosi prendevano nota. I sacerdoti pentecostali nelle loro prediche esaltavano la ricchezza e i vantaggi dell’emigrazione.
I racconti delle donne emigrate parlavano di lavori ben retribuiti come parrucchiere, sarte, governanti, bambinaie e cameriere, e quello che facevano davvero in Italia rimaneva un segreto. Così i genitori spingevano le figlie a prendere soldi in prestito per andare in Europa e aiutare la famiglia a uscire dalla povertà. Con il passare del tempo, le prostitute diventarono delle madam (tenutarie), che dall’Italia impiegavano altre persone in Nigeria: reclutatori, trafficanti e gente che falsificava i documenti. A metà degli anni novanta la maggior parte delle donne dello stato di Edo che andavano in Europa attraverso questi canali “era probabilmente consapevole del fatto che avrebbe dovuto prostituirsi per ripagare i debiti”, si legge in un rapporto dell’Onu. “Ma non conosceva le condizioni di sfruttamento violento e aggressivo a cui sarebbe stata sotto posta”. Dal 1994 al 1998 in Italia sono state uccise almeno 116 prostitute nigeriane.
Nel 2003 la Nigeria adottò la prima legge contro il traffico di esseri umani. Ma era troppo tardi. Il rapporto dell’Onu, pubblicato lo stesso anno, concludeva che questa industria “era così diffusa nello stato di Edo, in particolare a Benin City e dintorni, che secondo alcune stime tutte le famiglie della
città avevano almeno un parente coinvolto”. Decine di migliaia di donne dello stato di Edo hanno continuato a esercitare la prostituzione in Europa, e oggi alcune strade di Benin City sono intitolate alle madam. La città è piena di donne e ragazze che sono tornate a casa, ma alcune non riescono a trovare lavoro e vanno di nuovo in Europa.
Il quartiere dove tutto ha inizio
I primi trafficanti venivano quasi tutti da Upper Sakpoba road, in uno dei quartieri più poveri di Benin City, dove i bambini vendono patate dolci per strada e le prostitute guadagnano meno di due dollari a cliente. Le suore del Comitato per il sostegno e la dignità delle donne, un’ong locale, visitano le scuole e i mercati per avvisare le ragazze delle violenze che potrebbero subire se sceglieranno la strada della prostituzione. Una suora mi ha raccontato che le donne del mercato di Upper Sakpoba road fanno di tutto per allontanarle. “Sostengono che non dovremmo fermare questi traffici perché le ragazze guadagnano bene”, mi ha detto. “Le famiglie sono complici. Tutti sono complici”.
A Benin City gli accordi importanti si concludono di norma con un giuramento fatto alla presenza di un sacerdote juju (un insieme di credenze tradizionali dell’Africa occidentale). L’idea è che la legge si può infrangere, mentre le promesse fatte davanti agli antichi dèi no. Molti trafficanti sfruttano queste tradizioni per garantirsi l’obbedienza delle vittime. Dall’Italia le madam ordinano ai loro scagnozzi di portare le ragazze in un tempio dove un sacerdote juju celebra un rito di affiliazione usando, di regola, le loro unghie, il loro pelo pubico o il loro sangue.
“Ti fanno giurare che una volta arrivata non scapperai”, mi ha raccontato Sophia, appena tornata dall’Europa. La madam copre le spese di viaggio e in cambio la ragazza accetta di lavorare fino a quando non avrà ripagato il suo debito; la madam le sequestra i documenti e le dice che ogni tentativo di fuggire scatenerà un attacco del juju che vive nel suo corpo. “Se non paghi, muori”, mi ha detto Sophia. “Se parli con la polizia, muori. Se dici la verità, muori”.Prima di sparire, Blessing aveva incontrato una trafficante yoruba (uno dei principali gruppi etnici nigeriani, insieme a quello degli igbo), ma aveva rinunciato a partire quando aveva scoperto che voleva farla prostituire. Poco dopo la sua amica Faith le ha presentato una donna igbo con buoni contatti in Europa. Aveva modi gentili ed eleganti, ed era ben vestita. La donna ha promesso a Blessing e a Faith di portarle in Italia. Avrebbe pagato il viaggio e gli avrebbe trovato un lavoro, poi le ragazze avrebbero restituito i soldi. Blessing sognava di finire gli studi e di ricomprare la casa che la madre aveva perduto. Così è salita su un furgoncino insieme a Faith, alla donna e ad altre ragazze.
È stato l’inizio di un viaggio pericoloso verso nord, fino al Niger. Man mano che avanzavano la fertile terra rossa dei tropici diventava più arida e sottile: ben presto si vedevano solo sabbia e cespugli inariditi. Dopo molti giorni e almeno 1.500 chilometri di strada, hanno raggiunto Agadez, in Niger, un’antica città carovaniera all’estremità meridionale del Sahara.
Agadez è sempre stata un luogo di passaggio, un labirinto di muri di fango dove mangiare, riposarsi e prelevare un nuovo carico prima di partire per la destinazione successiva. Le mura più antiche furono costruite circa ottocento anni fa e nel 1449 la città diventò il centro di un regno tuareg. I mercanti si fermavano ad Agadez mentre attraversavano il deserto con carovane di sale, oro, avorio e schiavi. I tuareg diventarono famosi perché guidavano i mercanti attraverso il deserto, e poi li rapinavano.
Oggi per Agadez passa ogni genere di contrabbando: merci contrafatte, hashish, cocaina, eroina. Ai margini delle strade si vende petrolio libico rubato in bottiglie di liquore. Dopo la caduta di Muammar Gheddai, nel 2011, i tuareg e i tubu (una popolazione libica) hanno saccheggiato i depositi di armi abbandonati nel sud della Libia e venduto quelle che non gli servivano ai gruppi ribelli dei paesi vicini. Nel 2014, però, il valore del traffico di esseri umani ha superato quello di ogni altra attività economica.
Il furgone di Blessing si è fermato in un terreno recintato con al centro un edificio, una “casa di collegamento”, dove decine di migranti erano sorvegliati da uomini armati di pugnali e spade. Non c’era niente da fare lì, bisognava solo aspettare. La donna igbo non aveva ancora detto a Blessing e a Faith il suo nome; le aveva semplicemente pregate di chiamarla “madam” e gli aveva detto di non avventurarsi fuori. L’edificio si trovava in mezzo a un gruppo di squallide case di collegamento alla periferia della città, un ghetto per migranti. Il Niger fa parte della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cédéao), una zona dove non serve il visto per viaggiare da un paese all’altro. Le frontiere occidentali e meridionali del paese sono aperte a circa 350 milioni di cittadini di altri quattordici stati. Molti migranti avevano percorso in pullman più di mille chilometri ed erano arrivati ad Agadez con il numero di telefono del loro agente di collegamento, di solito un migrante diventato imprenditore, della stessa nazionalità o eredità coloniale.
La maggior parte delle ragazze nigeriane restava nelle case dei ghetti per migranti. Non avevano bisogno di lavorare perché il viaggio era stato pagato dai trafficanti in Europa. Le case di collegamento erano soffocanti e sovrafollate, ma loro ricevevano da mangiare ed erano al sicuro, almeno fino al momento di attraversare il deserto. Altre nigeriane, arrivate per conto loro, dovevano prostituirsi per mangiare e per poter continuare il viaggio. Ad Agadez le prostitute guadagnano circa tre dollari a cliente e versano buona parte di questa cifra alle madam locali in cambio di vitto e alloggio. Un’adolescente nigeriana mi ha confidato che ci sono voluti diciotto mesi e centinaia di clienti per guadagnare i soldi necessari ad andarsene.
L’unica attività di Agadez
Ogni lunedì gli autisti tuareg e tubu andavano nei ghetti dei migranti, incassavano i soldi dagli agenti di collegamento e caricavano circa cinquemila persone sui loro pickup Toyota, circa trenta in ogni auto. Si mettevano in marcia insieme a un convoglio militare nigeriano che li avrebbe accompagnati per un tratto del viaggio verso la Libia. Oumar, un giovane autista tubu, mi ha detto di aver percorso quel tragitto venticinque volte. Quando gli ho chiesto se doveva pagare tangenti lungo la strada, mi ha fatto un elenco preciso di posti di controllo e relative tariffe. Secondo un rapporto interno della polizia nigerina, ottenuto dalla Reuters, a un certo punto ad Agadez c’erano almeno settanta case di collegamento, ognuna sotto la protezione di un poliziotto corrotto. In un’altra indagine l’agenzia anticorruzione nigerina ha scoperto che, dal momento che i fondi destinati all’esercito venivano rubati nella capitale Niamey, le tangenti pagate dai trafficanti ai posti di blocco nel deserto erano essenziali per il funzionamento delle forze di sicurezza. Senza le bustarelle, i soldati non avrebbero potuto comprare la benzina, i pezzi di ricambio per i veicoli o da mangiare.
Nell’ottobre del 2016, poco prima del mio arrivo ad Agadez, la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva fatto una visita ufficiale in Niger. “Il benessere dell’Africa è nell’interesse della Germania”, aveva detto. Dopo la sua visita, era cambiato tutto. Gli agenti delle forze di sicurezza avevano fatto irruzione nei ghetti e arrestato i loro ex soci d’affari. Erano stati sostituiti i militari e gli agenti di polizia di guardia ai checkpoint nel deserto tra Agadez e la frontiera libica. Il presidente nigerino Mahamadou Issoufou aveva annunciato che lui e Merkel si erano accordati per “mettere un freno all’immigrazione irregolare”.
Secondo Mohamed Anacko, leader della comunità tuareg e presidente del consiglio regionale di Agadez, che amministra un territorio di 650mila chilometri quadrati, la realtà era molto diversa. “Il Niger ha il coltello puntato alla gola”, mi ha detto, spiegandomi che l’unica attività economica della città era il traffico di merci e persone. “Ogni trafficante mantiene un centinaio di famiglie”, ha aggiunto. Se la repressione fosse continuata quelle famiglie non avrebbero avuto “più niente da mangiare”. Per discutere della situazione, un giorno Anacko ha convocato una riunione del consiglio regionale di Agadez, a cui ha invitato anche i più importanti trafficanti del Sahara. Metà erano tuareg, l’altra metà tubu, tutti avevano combattuto in ribellioni recenti. Anacko aveva promesso di riferire le loro lamentele allo stato e di chiedere la liberazione dei trafficanti arrestati.
Dopo le dichiarazioni di apertura di Anacko, un tuareg di mezz’età di nome Alber si è alzato in piedi: “Non siamo criminali, siamo trasportatori!”, ha gridato. “Come faremo a mangiare? Porteremo i turisti? Non ci sono turisti! Non possiamo vivere!”. Poi ha indicato me: “Cosa vuole farci diventare? Dei ladri? Non vogliamo essere ladri! Non vogliamo rubare! Cosa dovremmo fare secondo lei?”.
Il giorno dopo ho incontrato Alber a casa sua. Mi ha fatto entrare e mi ha offerto dell’acqua da una grande conca. La stanza era buia. Sul divano c’erano altri tre uomini, tutti e tre capi di potenti famiglie di trafficanti. “Conosco più di settanta delle persone che sono state arrestate”, ha detto Alber. “Ma non conosco la legge. Nessuno conosce i dettagli della legge”. Anche se le autorità del Niger avevano approvato una legge contro le migrazioni irregolari nel 2015, non avevano mai fatto niente per applicarla. Né avevano avvertito i trafficanti delle conseguenze legali delle loro attività. “Chi può
impedirmi di portare qualcuno da Agadez a Madama? Siamo nello stesso paese. È come se guidassi un taxi”, ha detto Alber. “Nessuno andrebbe nel deserto se ci fossero alternative valide”, ha aggiunto Ibrahim Moussa, un altro trafficante. “Il deserto è un inferno. Sei sempre a un passo dalla morte. L’Unione Europea…”, ha sospirato. “Lì si vive bene. Per questo gli europei vogliono che il Niger metta fine all’emigrazione. Ma perché non possiamo vivere anche noi?”.
Tutti i trafficanti che ho incontrato temevano che il giro di vite ad Agadez avrebbe esposto i giovani del posto al reclutamento dei gruppi jihadisti. In passato, ha detto Moussa, “ogni volta che vedevamo un movimento sospetto informavamo lo stato”. Le soffiate dal deserto erano trasmesse attraverso la gerarchia dell’esercito del Niger e potevano trasformarsi in informazioni utili alle operazioni antiterrorismo statunitensi e francesi nella regione. Ma oggi, mi ha detto Alber, “se vedessi un gruppo di terroristi, lo direi allo stato? No, perché avrei paura di essere arrestato”. “Il deserto è grande”, ha aggiunto Moussa. “Senza di noi lo stato non saprebbe niente”. “Hai visto le montagne dell’Aïr?”, mi ha chiesto Anacko nel suo ufficio. “Nessun estremista islamico può metterci piede. Nessuno. Perché la popolazione non li vuole. La gente vuole la pace. Ma se l’economia si fermasse e le persone cominciassero a finire in prigione perché lavorano con i migranti, di certo i jihadisti riuscirebbero a penetrare nelle montagne. E il giorno in cui riusciranno a stabilire una base nell’Aïr, ilSahel sarà finito. Americani ed europei non riusciranno a cacciare i terroristi dalle montagne. Sarà come l’Afghanistan”.
Il cimitero nel deserto
Il giro di vite contro i trafficanti ha avuto un’altra conseguenza: più migranti morti. Per evitare i posti di blocco, i trafficanti hanno cominciato a usare strade meno battute e non hanno esitato ad abbandonare i loro passeggeri appena avvistavano quello che poteva sembrare un convoglio militare.
“So che rischio la vita, ma non m’importa”, mi ha detto Alimamy, un uomo della Sierra Leone che ho incontrato ad Agadez. Era quasi morto al primo tentativo di attraversare il Sahara. Aveva finito i soldi, il trafficante con cui era in contatto era in prigione, e lui stava cercando un altro modo per arrivare in Europa. “Se riesco ad arrivare in Italia, la mia vita andrà bene”, mi ha detto. In Sierra Leone “siamo già morti da vivi”.
Dopo le retate era diventato impossibile prelevare i migranti dalle case di collegamento per attraversare il deserto. Ma c’erano altri metodi. Oumar, il trafficante tubu, ha lasciato Agadez con un pick-up Toyota dotato di un navigatore satellitare Nokia, duecento litri di acqua e scorte di benzina. Ha superato senza difficoltà il posto di controllo in una gola di montagna. Ottanta chilometri dopo, passate le rocce vulcaniche del massiccio dell’Aïr, si è incontrato con altri sei trafficanti e insieme hanno aspettato il carico. Enormi autocarri trasportano quotidianamente lavoratori e provviste da Agadez fino alle miniere d’oro e di uranio nel deserto. I lavoratori, a volte più di cento su un solo camion, sono seduti in cima e si tengono stretti a funi. Ma quella volta il camion che si è fermato non trasportava minatori. Oumar e gli altri trafficanti hanno fatto salire i passeggeri sui loro pick-up e sono partiti in direzione della Libia.
Dopo diverse ore sulle montagne, Oumar ha raggiunto la porta del deserto, l’inizio del Ténéré. “Sembra il mare”, mi ha detto in seguito una nigeriana di diciassette anni. “Non ha inizio e non ha fine”. A volte passano anni senza che cada una goccia di pioggia. “Non sopravvive niente, neppure gli insetti”, mi ha detto Oumar. Ogni volta che ci passa, Oumar incontra un numero sempre più grande di cadaveri sepolti e disseppelliti dalla sabbia sempre in movimento. Se i migranti cadono dai camion, gli autisti non sempre si fermano.
Alla frontiera libica, una striscia d’asfalto segna l’inizio di una lunga autostrada che porta a nord. Ma l’illusione che il viaggio possa migliorare è subito demolita dal totale disprezzo della legge e dalle crudeltà in agguato. Nell’autunno del 2016, a un posto di blocco, un migrante della Sierra Leone di nome Abdul ha visto un libico che molestava un’adolescente nigeriana. “C’è stata una discussione. Il libico ha preso il fucile e le ha sparato alla schiena”, mi ha raccontato Abdul. “Abbiamo portato la ragazza sul pickup”. I libici gridavano: “Haya!”, cioè che se ne dovevano andare. La ragazza era ancora viva, ma l’autista ha fatto una deviazione di sei ore nel deserto, fino a un immenso cimitero di migranti, dove piccole pietre disposte a cerchio segnavano i punti dov’erano sepolti i cadaveri. Ce n’erano centinaia. Sotto alcune pietre c’erano passaporti e carte di identità. “La maggior parte dei nomi erano nigeriani”, ha continuato Abdul. “Di donne”.
Quando sono arrivati, la ragazza era già morta. Prima di lasciare Agadez, di norma i migranti ricevono il numero di telefono di un agente di collegamento nel sud della Libia. Per alcuni questo significa scendere ad Al Qatrun, un villaggio libico a 320 chilometri dalla frontiera con il Niger. Per altri significa pagare altri trentamila franchi cfa (più di cinquanta dollari) per raggiungere Sebha, una città carovaniera 290 chilometri più a nord. “Se entri a Sebha senza aver pagato l’agente di collegamento soffrirai!”, mi ha detto Stephen, un rifugiato ghaneano. “Ti picchiano la mattina. E la notte. E di nuovo all’alba!”. Stephen si è messo la testa tra le mani ripetendo più volte: “Sebha non è un buon posto”.
Le case di collegamento di Sebha sono molto pericolose per le donne. Come mi ha raccontato Bright, diciassette anni, originaria di Benin City, una notte un gruppo di libici armati di spade ha cominciato a radunare le donne in una di queste case. “Alcune di loro erano incinte. Erano rimaste incinte durante il viaggio, non a casa”, mi ha detto. “Stuprate”. Secondo le stime di un rapporto commissionato dall’Onu, quasi la metà delle profughe e delle migranti che passano per la Libia, comprese le bambine, subiscono aggressioni sessuali, spesso più volte nel corso del viaggio. Un nigeriano di ventun anni di nome John mi ha detto di aver visto uccidere delle migranti perché avevano respinto i loro carcerieri libici.
Le case di collegamento in Libia sono di proprietà di persone del posto ma spesso sono gestite da gente dell’Africa occidentale. “Alcuni sono ghaneani e ci trattano peggio dei libici”, mi ha detto un ragazzo originario del Ghana. I migranti sono incarcerati, picchiati, torturati con la corrente elettrica e spesso costretti a chiamare i familiari per farsi mandare altro denaro. “Sono rimasto in una di quelle case per un mese e due giorni”, mi ha detto Ousmane, 21 anni, del Gambia. La struttura era gestita da libici che, a scopo dimostrativo e per fare spazio ad altri detenuti, “ogni venerdì uccidevano cinque persone. Anche se pagavi, non era detto che ti liberassero”. Ousmane aveva detto ai carcerieri che non poteva pagare di più perché non aveva più nessuno che potesse inviargli dei soldi. “Un venerdì mi hanno chiamato”, mi ha detto. Dal momento che era uno dei più giovani, un altro migrante più anziano si è fatto avanti per farsi uccidere al suo posto. Prima che lo portassero fuori, ha detto a Ousmane: “Quando torni in Gambia, vai a mio villaggio e digli che sono morto”. Pochi giorni dopo Ousmane è riuscito a scappare. Tornato ad Agadez, ha raccontato la sua storia all’agenzia delle migrazioni delle Nazioni Unite, che l’ha aiutato a tornare nel suo paese.
A gennaio, stando al giornale Welt am Sonntag, l’ambasciata tedesca in Niger ha mandato un dispaccio a Berlino confermando le esecuzioni settimanali e paragonando le condizioni nelle case di collegamento dei migranti in Libia a quelle dei campi di concentramento nazisti. A volte i malati sono sepolti vivi.
Vendute
È la primavera del 2016: Blessing, Faith e la madam lasciano Agadez, attraversano il deserto e raggiungono Brak, poco a nord di Sebha, dove sono ospitate in una casa privata. La madam continua a promettere alle ragazze che in Italia potranno studiare e trovare un lavoro ben pagato. Non è chiaro se sia mai stata nella condizione di decidere del loro destino: le donne che accompagnano le ragazze attraverso il deserto spesso sono alle dipendenze dei traicanti in Italia. Un giorno a Brak la madam decide di vendere Blessing e Faith al proprietario di una casa di collegamento per farle lavorare come prostitute.
“Non è quello che ci avevi detto!”, protesta Blessing. “Avevi detto che saremmo andate in Italia, e ora vuoi lasciarmi qui?”. La ragazza scoppia a piangere. Anche se non ha fatto il giuramento juju, la madam minaccia di ucciderla. A Benin City la madre
di Blessing riceve una telefonata da una nigeriana con un numero italiano. Sono passati tre mesi da quando sua figlia è andata via, e la donna al telefono le dice che se non paga 480mila naira (circa 1.500 dollari), Blessing sarà costretta a prostituirsi.
Quella domenica, alla riunione settimanale dei commercianti del mercato di Uwelu Doris spiega la situazione di Blessing chiedendo aiuto. Anche se la donna ha già molti debiti, gli altri commercianti approvano la sua richiesta di un prestito, issando un interesse del 20 per cento. Il fratello di Blessing, Godwin, versa il denaro a uno sportello MoneyGram usando i dettagli forniti dalla donna al telefono. Ma poi non riceve più notizie.
Blessing viene consegnata a un’altra casa di collegamento a Brak. Qualche giorno dopo alcuni uomini armati la fanno salire sul retro di un camion insieme ad altri migranti e nascondono il carico sotto una coperta e dei cocomeri perché i trafficanti rivali non li vedano. Il camion parte in direzione di Tripoli. Faith rimane a Brak perché la sua famiglia non ha pagato. Blessing viene condotta in un grande centro di detenzione, una stanza di cemento in un deposito abbandonato vicino a Tripoli. Rimane prigioniera per mesi con un altro centinaio di persone. Per sentirsi più sicura sta accovacciata vicino ad altre ragazze nigeriane. I pestaggi arbitrari e gli stupri sono frequenti. A volte i migranti ricevono da bere solo acqua di mare. La gente muore sistematicamente di fame e malattie.
Così arriva anche il 22 agosto, il compleanno di Blessing. Ma lei ormai ha perso il senso del tempo. Piange ogni giorno, non sa da chi dipende il suo destino e quando s’imbarcherà. Ogni volta che starnutisce, si chiede se non sia un segno di Dio e se sua madre stia pensando a lei. Una notte di settembre le guardie del centro svegliano Blessing e gli altri migranti e li fanno salire su un camion, che li lascia su una spiaggia a ovest di Tripoli. Alcuni scafisti armati li stipano su un gommone, dicono una preghiera sulla sabbia e li spediscono in mare.
Da giorni la Dignity I, una nave gestita da Medici senza frontiere (Msf ), sta pattugliando quel tratto di costa libica. Poco dopo le otto di mattina, il primo ufficiale avvista il gommone di Blessing. L’equipaggio cala in acqua una piccola imbarcazione di salvataggio, che fa avanti e indietro per portare i migranti, quindici alla volta, sulla Dignity I. Nicholas Papachrysostomou, il coordinatore delle operazioni di Msf, aiuta Blessing ad alzarsi in piedi sul gommone. Lei ha la nausea e si sente debole. Ha i piedi avvizziti perché sono rimasti a mollo per ore in una pozza sul fondo del gommone. Due uomini la issano sulla nave tenendola sotto le spalle. Lei rimane sul ponte con le braccia incrociate singhiozzando, tremando, trattenendo il vomito e lodando Dio.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel 2016 nel Mediterraneo sono state salvate più di undicimila donne nigeriane, l’80 per cento delle quali era destinata allo sfruttamento sessuale. “Sono ragazzine di tredici, quattordici, quindici anni”, mi ha spiegato un agente dell’Oim. “Il mercato le vuole sempre più giovani”. L’Italia è il punto d’ingresso: da lì queste donne sono vendute alle madam di tutt’Europa.
A bordo della Dignity I un’infermiera registra la nazionalità e l’età di ogni migrante. Blessing le dice di avere diciott’anni ma, sospettando che sia una bugia, l’infermiera le lega un cordoncino azzurro al polso, per indicare che Msf la considera una minore non accompagnata. La maggior parte delle ragazze nigeriane ha lo stesso cordoncino. Le madam dicono alle più giovani che devono fingere di essere grandi, in modo da essere mandate nei centri d’accoglienza per adulti, dove i migranti possono muoversi liberamente. Altrimenti finiscono in rifugi più protetti per minori non accompagnati.
La Dignity I si dirige al porto di Messina, dove arriva dopo due giorni e mezzo di viaggio. A bordo ci sono 355 migranti. Il più piccolo ha tre settimane. Pochi hanno abbastanza spazio per stare sdraiati, ed è difficile camminare tra i corpi senza pestare braccia e gambe. Il pomeriggio del salvataggio Sara Creta, un’operatrice italiana di Msf, e io parliamo con Blessing e un’altra ragazza, Cynthia, che è cresciuta in una fattoria e poi ha venduto da mangiare sulle strade di Benin City. Blessing e Cynthia si sono conosciute sul gommone e stanno sedute vicino ad altre ragazze nigeriane. Sembrano tutte minorenni, anche se ripetono di avere diciott’anni. Blessing sorride e parla nervosamente, a scatti, continuando a massaggiare i piedi gonfi di Cynthia. Dice di essere stata rapita, senza scendere in dettagli. Mentre Blessing parla, Cynthia piange. Creta cerca di consolarle: “Una volta arrivate in Italia, non sarete costrette a fare nulla che non vogliate fare. In Italia siete libere, ok?”. Blessing si gratta per qualche secondo, poi dice: “Non posso”.
Tre nigeriane più anziane sembrano origliare la conversazione. Una di loro – tarchiata con una cicatrice a forma di falce sul mento – mi chiede cosa faccio sulla nave e alza le sopracciglia quando le dico che sono un giornalista. Non risponde alle mie domande e si limita a dichiarare: “Non ho pagato per il viaggio”. Con le altre due donne passa gran parte dei due giorni successivi appollaiata sul parapetto della nave a controllare le più giovani. A Messina i migranti sbarcano a gruppi di dieci. L’agenzia dell’Onu per i rifugiati ha mandato un rappresentante con dei volantini per informare i migranti sui loro diritti, ma sono in tigrino, la lingua dell’Eritrea e dell’Etiopia settentrionale. Molte persone che forse potrebbero avere diritto di asilo non sanno neanche cosa sia. Egiziani e marocchini sono radunati sotto un tendone azzurro, senza probabilmente sapere che l’Italia ha stretto accordi di rimpatrio con i loro paesi. Gli altri migranti vengono portati verso una colonna di pullman. Blessing e Cynthia mi fanno un cenno di saluto prima di salire.
La donna con la cicatrice a forma di falce sale sul loro stesso pullman. Molti migranti vengono temporaneamente sistemati al Palanebiolo, un campo improvvisato in un ex stadio da baseball alla periferia di Messina, prima di essere trasferiti in altri centri in Italia (il centro è stato chiuso all’inizio del 2017). Un paio di giorni dopo un gruppo di uomini soccorsi dalla Dignity I siede all’aperto su un blocco di cemento. Non hanno soldi né altri beni e si lamentano dei pasti scadenti e delle tende in cui entra la pioggia. Non hanno ricevuto cure mediche, neppure una crema antiparassitaria per trattare la scabbia. Alcuni indossano gli stessi vestiti con cui hanno viaggiato, induriti dal vomito secco e dall’acqua di mare. Non mi permettono di entrare al Palanebiolo, ma Cynthia è seduta fuori. Anche Blessing è ancora lì, ma quella mattina è uscita con un nigeriano che lavora nel centro. Tornano insieme qualche ora dopo. “Mi ha portato in treno!”, dice Blessing. “I bianchi… ho visto tanti bianchi”.
La vera età
Le ragazze mi rivelano la loro vera età: Cynthia ha 16 anni, Blessing ne ha appena compiuti 17. Mi raccontano di aver detto la verità agli operatori di Frontex, l’agenzia che controlla le frontiere esterne europee, ma io sono scettico perché al Palanebiolo sono ospitati solo migranti adulti. Scendiamo
insieme dalla collina per andare a mangiare. Nei pressi di un incrocio molto trafficato chiediamo indicazioni a un nigeriano alto con la barba. Si chiama Destiny, ha attraversato il Mediterraneo nel 2011 e ora lavora in un supermercato di Messina. Ha le braccia e il collo coperti di tatuaggi religiosi. Cynthia lo trova bello e lo invita a venire con noi. Raggiungiamo un bar poco lontano, ma appena entriamo la cameriera ci manda via dicendo che il locale è chiuso. Ai tavoli ci sono dei clienti italiani che consumano caffè e pasticcini. Rimaniamo davanti al bar per decidere cosa fare, inché la cameriera non esce dalla porta per mandarci via.
Torniamo al Palanebiolo. Blessing si muove a fatica e con passi lenti. Le fanno male le giunture, ancora gonfie dai tempi della prigionia in Libia. Destiny mi chiede dove alloggio. “Ah, Palermo!”, commenta. “La mia città preferita”. Mi fa l’occhiolino e, passando all’italiano perché le ragazze non capiscano, aggiunge: “È là che vado a scoparmi le nere per trenta euro”. La prostituzione non è un reato in Italia, ma attira l’attenzione della polizia, perciò le reti dei trafficanti cercano di procurarsi un permesso di soggiorno per ogni ragazza che mandano a lavorare sulle strade. Dal momento che hanno mentito a Frontex sulla loro età, le minorenni ricevono dalle autorità italiane dei documenti secondo i quali hanno diciott’anni o più, e questi documenti le proteggono dalle domande degli agenti.
Le intercettazioni della polizia italiana dimostrano che le reti dei trafficanti nigeriani si sono infiltrate nei centri di accoglienza, usano alcuni dipendenti per controllare le ragazze e pagano tangenti ai funzionari corrotti per accelerare le pratiche burocratiche. Un agente dell’Oim mi spiega che, nei centri come il Palanebiolo, “l’unica cosa che una ragazza deve fare è telefonare alla madam e dirle che è arrivata, specificando in quale città e in quale centro. Loro sanno cosa fare perché hanno uomini dappertutto”. Nei bordelli di Palermo le prostitute nigeriane hanno fino a quindici clienti al giorno: più ne ricevono prima riescono a comprarsi la libertà. Se qualcuno per strada gli sputa addosso, le ragazze vanno a recuperare la borsa che hanno nascosto tra i cespugli, prendono uno specchietto e, alla luce giallastra dei lampioni di via Crispi, si aggiustano il trucco. Poi tornano al lavoro.
“C’è un livello incredibile di razzismo non dichiarato, e lo dimostra il fatto che sulle strade non ci sono minorenni italiane”, conferma padre Enzo Volpe, un prete che gestisce un centro per bambini migranti vittime del traffico di esseri umani. “La società dichiara che è reato andare a letto con una
tredicenne o una quattordicenne. Ma se è africana? Non importa niente a nessuno. Non pensano a lei come a una persona”.
Due volte alla settimana padre Enzo carica un furgoncino di acqua e panini e, aiutato da un giovane frate e da una suora, va a offrire conforto e assistenza alle ragazze sulle strade. La sua prima fermata, un giovedì d’autunno, verso mezzanotte, è il parco della Favorita. Padre Enzo parcheggia il furgoncino vicino a uno spiazzo. Quattro nigeriane escono dai boschetti dove hanno acceso un falò. “Buonasera Vanessa”, dice padre Enzo. “Buonasera. Dio la benedica”. Si dispongono in cerchio, poi pregano e cantano inni che le ragazze hanno imparato in Nigeria. Si avvicina una macchina, da cui esce Jasmine, che dimostra quindici anni. “È il mio compleanno”, dice. Qualcuno le chiede quanti anni compie. Lei esita un attimo e poi risponde in italiano: “Ventidue”.
La suora ha portato una torta. “Se vai a pregare con loro e a dargli informazioni mediche, va tutto bene”, mi dice padre Enzo. “Ma se provi a fare domande su come funziona la rete non parlano. Spariscono”. Due settimane dopo lo sbarco a Messina, la maggior parte dei migranti della Dignity I è scappata dal Palanebiolo o è stata trasferita altrove. Blessing e Cynthia sono ancora lì, e hanno cominciato ad avventurarsi in città. Una domenica mattina una donna italiana ha notato le ragazze in chiesa e le ha invitate a prendere un caffè, il primo in assoluto. Un’altra donna gli ha regalato degli abiti usati. Io gli ho comprato degli antinfiammatori e dei farmaci contro la scabbia e i pidocchi.
Le ragazze hanno imparato a contare fino a dieci in italiano e conoscono alcune parole: pomodoro, farfalla, mal di stomaco. Cynthia grida “ciao!” a ogni automobilista, pedone e cane, ed è felice quando ottiene una risposta amichevole. “È una ragazza di campagna”, la prende in giro Blessing. “Mi piace salutare tutti!”, replica Cynthia. Un’auto si avvicina all’incrocio dove sono sedute le ragazze. “Ciao!”, dice Blessing alla donna alla guida. Lei tiene lo sguardo fisso davanti a sé e tira su il finestrino. “In Italia siamo molto bravi nella prima accoglienza, l’aspetto umanitario”, mi spiega Salvatore Vella, sostituto procuratore di Agrigento. “Arrivano. Gli diamo da mangiare. Li ospitiamo in un centro di accoglienza. E poi? Non c’è soluzione. Cosa facciamo con tutta questa gente?”. Vella guarda fuori dalla finestra. “Siamo onesti: questi centri di accoglienza hanno le porte spalancate, e noi speriamo che se ne vadano. Dove? Non lo so. Se vanno in Francia, per noi va bene. Se vanno in Svizzera, grandioso. Se restano qui, finiscono a lavorare in nero, praticamente scompaiono”.
A Palermo la maggior parte dei migranti vive a Ballarò, un vecchio quartiere sovraffollato con i vicoli tortuosi e i panni stesi alle finestre, dove si svolgono le corse illegali di cavalli e c’è il più grande mercato all’aperto della città. Una notte a Ballarò, in un bar all’aperto che puzza di sudore, erba e vomito, incontro un ex spacciatore originario del Mali. Le prostitute indossano calze a rete e
tacchi alti dodici centimetri. All’angolo due uomini cuociono della carne alla griglia su un fuoco acceso con i rifiuti. Italiani e africani si scambiano denaro e droga senza curarsi di chi c’è intorno. “È il potere della magia nigeriana”, mi dice il maliano. “Dà lavoro a chi non ha documenti”. Ballarò sembra in larga misura sotto il controllo delle bande nigeriane. Il gruppo più potente, Black axe (ascia nera), ha radici a Benin City e cellule in tutt’Italia, ed è responsabile di attacchi con coltelli e machete
contro altri migranti. Anche se le bande nigeriane sono armate e abbastanza organizzate, nessuna lavora da sola. “Se voglio fare affari, devo parlare con il capo siciliano”, mi spiega il maliano. I trafficanti devono dare a cosa nostra una certa quota dell’affare, precisa, altrimenti “puoi andare avanti per un paio di giorni, ma se capiscono che stai facendo qualcosa ti eliminano”. L’anno scorso, dopo una rissa vicino a Ballarò, un pregiudicato italiano ha sparato alla testa a un gambiano ferendolo gravemente. Le autorità italiane e i criminali locali concordano sul fatto che cosa nostra lucra da entrambe le parti: i boss nigeriani comprano grandi quantità di droga dalla maia, poi pagano un pizzo aggiuntivo per il diritto di smerciarla. Ballarò è da tempo sotto il controllo della famiglia D’Ambrogio, il cui capo, Alessandro, è in prigione. È impossibile dire quante nigeriane lavorino nei bordelli di Ballarò, ma molte sono vittime degli abusi dei clienti e vengono picchiate, marchiate o accoltellate dalle madam. Secondo Vella, s’indaga poco sulla violenza contro le prostitute nigeriane perché “la tendenza è stata quella di ignorare le organizzazioni criminali se commettevano reati solo contro gli stranieri”. Di conseguenza, spiega, da almeno quindici anni le bande nigeriane “raccolgono grandi somme di denaro, si armano” e sfruttano le minorenni impunemente.
Un funzionario della polizia di Palermo mi dice che per la sua squadra, impegnata a contrastare la criminalità nigeriana ma senza collaboratori nigeriani, Ballarò è praticamente impenetrabile. Senza contatti sul campo, mi spiega Vella, l’80 per cento del lavoro investigativo si concentra su intercettazioni telefoniche che la polizia non è in grado di capire. “Abbiamo migliaia di persone che vivono qui e parlano lingue di cui fino a quindici anni fa ignoravamo perfino l’esistenza”, continua Vella. “La persona che scelgo per ascoltare le intercettazioni di solito è un’ex prostituta o una ragazza che lavora in un bar. Devo fidarmi di lei, anche se praticamente non la conosco”. Il tutto è complicato dalle minacce alla sicurezza. “Durante i processi devo chiamare a testimoniare l’interprete”, racconta. Il suo nome e la sua data di nascita finiscono agli atti, e la rete dei trafficanti è così ramificata che “con una telefonata Skype o un messaggio riescono a ordinare ai loro compari di raggiungere un villaggio sperduto della Nigeria e bruciare le case con la gente dentro”.
Le ragazze di solito non conoscono l’entità del loro debito fino all’arrivo in Italia, quando si sentono dire che devono rimborsare fino a ottantamila euro. Alcune madam aumentano il debito facendo pagare alle ragazze la stanza, il vitto e i preservativi a prezzi esorbitanti. Una notte, a Palermo, parlo con tre nigeriane che lavorano vicino a piazza Rivoluzione.
Una di loro è cresciuta a Upper Sakpoba road a Benin City, prima di venire in Italia “da bambina” e di essere ripetutamente stuprata. Odia quello che fa ma non può smettere perché, dopo cinque anni a Palermo, deve ancora migliaia di euro alla madam. Blessing vuole studiare Per le autorità, uno degli aspetti più sconcertanti del mercato del sesso è che le vittime del traffico con la Nigeria non denunciano quasi mai chi le tiene prigioniere. La maggior parte delle ragazze ha paura di essere espulsa e anche di dover subire le conseguenze del juju. “Ho sentito che questo juju ha ucciso molte ragazze”, commenta Blessing. “È un incantesimo potente”. Dopo due mesi in Italia, Blessing, Cynthia e una sedicenne di nome Juliet sono le uniche migranti soccorse dalla Dignity I ancora al Palanebiolo. Blessing mi dice che molte ragazze della nave sono andate via dal campo insieme a dei trafficanti. Anche Blessing vuole andarsene. “Sono stufa della pasta”, dice schioccando la lingua in segno di frustrazione. “Mi manca la Nigeria, dove la gente sa cucinare”. Sente la mancanza della madre ed è seccata perché non ha ancora avuto la possibilità di studiare.
In Italia i migranti minorenni dovrebbero essere iscritti a scuola, ma le tre ragazze sono state lasciate al Palanebiolo perché tutti i centri per minori della Sicilia sono pieni (quando il Palanebiolo è stato chiuso, le ragazze sono state trasferite in un centro per minori).
A Benin City i libri scolastici di Blessing sono ancora sullo scafale della sua ex camera da letto. Doris ha venduto il materasso per comprare da mangiare. La stanza è occupata dalla sorella minore di Blessing, Hope, che ha quindici anni e ha lasciato la scuola per aiutare la madre nel chiosco. Per non perdere l’appartamento, Godwin dà una mano a pagare l’affitto. Il debito contratto da Doris per liberare Blessing in Libia continua a crescere.
“Non so come farà mamma a trovare quei soldi. Ma non posso vendermi, anche se ho bisogno di soldi”, mi dice Blessing. “È meglio andare a scuola, l’ho promesso a me stessa e a mia madre”. Blessing sogna di costruire una casa per sua madre. “Mia madre… voglio viziarla. Il motivo per cui sono qui è mia madre. Il motivo per cui sono viva oggi è mia madre. Il motivo per cui non intendo
prostituirmi è mia madre”. Le lacrime le rigano il volto. “Sono il respiro di vita di mia madre”. Blessing, Juliet e un’altra ragazza nigeriana, Gift, scendono la collina cantando inni religiosi e strappando un sorriso ai passanti. Il cielo è scuro, e comincia a piovigginare.
Ma loro continuano a camminare, allontanandosi dal campo come non hanno mai fatto prima. Raggiungono una spiaggia pochi chilometri a nord del porto di Messina. Smette di piovere, e per un attimo due arcobaleni scintillanti appaiono sull’acqua.
“Viene dal mare”, dice Blessing alludendo al doppio arcobaleno. “Guardalo adesso. Sta scendendo”. “Sì, viene dal mare”, risponde Gift. “E poi va nel cielo”.“Sì”. Le nuvole si spostano. “È inito”, fa Blessing.Gift annuisce. “È tornato nel mare”. Pregano. Poi Blessing entra in acqua e allarga le braccia gridando: “Ho attraversato il deserto! Ho attraversato questo mare! Se questo fiume non si è preso la mia vita, nessun uomo e nessuna donna potranno togliermela!”.