C'è un filmato di oltre 30 minuti che lascia pochi dubbi sull'operarto della Guardia Costiera libica nell'incidente in mare costato la vita a una cinquantina di migranti. Il video esclusivo di Sea Watch, l'ong tedesca che con la sua nave era stata inviata sul posto dal Centro di coordinamento dei soccorsi di Roma, ha ripreso momento per momento l'intervento compiuto a circa 30 migla e dalle coste libiche.
Migranti venduti come schiavi a Sahba. Le drammatiche storie raccolte dall'Oim
si vedono i militari libici picchiare i sopravvissuti sul ponte della motovedetta. Sono immagini forti. Maltrattamenti da cui alcuni migranti cercano di sfuggire gettandosi nuovamente in mare. Le urla di donne e bambini lasciano senza fiato. Se la strage non è stata ancora peggiore lo si deve non solo alla presenza di Sea Watch ma a un elicottero della Marina Militare italiana inviato nella zona e che ha sorvegliato l'intera operazione. Una presenza che ha parzialmente fatto da deterrente. Fino a quando i libici, con i motori avanti tutta, riprendono la rotta verso Tripoli con un uomo di colore rimasto aggrappato alla scaletta esterna. La coraggiosa manovra compiuta dall'elicotterista italiano sembrava più simile ad un'azione in dase di combattimento che non a una normaale pattugliamento a ridosso di mezzi alleati, come dovrebbero essere quelli libici. Il velivolo della Marina dopo avere osservato la scena, insegue la motovedetta libica ordinando al comandante di fermare i motori, ma questi al contrario compie una brusca virata. A quel punto l'elicottero si mette di traverso puntando il muso verso la motovedetta, che dopo qualche istante riprende la rotta. L'uomo rimasto impgigliato nella scaletta, però, è sparito. Le telecamere di Sea Watch non riescono a riprenderne il salvataggio e, assai probabilmente, il migrante è morto annegato.
La polizia di Ragusa ha raccolto numerose testimonianze ma non è stato ascoltato l'unico volontario italiano, Gennaro Giudetti, membro del team di soccorso della Sea Watch. Nel corso di una intervista a Radio Radicale Giudetti ha raccontato di avere assistito a una vera strage. E nel parapiglia in acqua, a pochi metri dalla motovedetta libica, «ho dovuto scegliere chi salvare e chi lasciare affogare. Non è giusto», ha detto il 26enne.
Domani Sea Watch terrà una conferenza stampa per spiegare in dettaglio l'accaduto. Elementi che potrebbero venire acquisiti dai magistrati ragusani nel caso in cui decidessero di aprire un'inchiesta sul naufragio che ha portato alla morte di almeno 50 persone.
a Repubblica, 14 novembre 2017.«Il gip nega l’archiviazione per la strage di migranti dell’11 ottobre 2013 Smentita la versione della Marina: “Non ordinò alla Libra d’intervenire”. 268 i morti nel naufragio dell’11 ottobre 2013: 60 erano bambini in fuga dalla Siria»
SUL naufragio dei bambini c’erano due verità. Quella riferita dalla Marina militare al Parlamento. E quella dei papà sopravvissuti al massacro, raccontata nel film-inchiesta “Un unico destino”, prodotto da Espresso e Repubblica con 42° Parallelo e Sky. Ieri mattina il giudice per le indagini preliminari di Roma, Giovanni Giorgianni, ha dimostrato che la versione consegnata dai militari alla massima istituzione della Repubblica non è vera.
È l’effetto più evidente della decisione del Tribunale, che ha respinto la richiesta di archiviazione della Procura e accolto gran parte del ricorso degli avvocati delle vittime, Alessandra Ballerini, Emiliano Benzi e Arturo Salerni: le 268 persone annegate nel naufragio dell’11 ottobre 2013, tra cui sessanta bimbi in fuga dalla Siria, potevano e dovevano essere salvate. Per questo il giudice ha stabilito l’imputazione coatta, cioè la necessità di un processo, per due alti ufficiali in servizio quel giorno e un supplemento di indagini per la comandante di nave Libra, l’allora tenente di vascello Catia Pellegrino, 41 anni, famoso volto immagine della Marina.
Omicidio colposo e omissione d’atti d’ufficio, i reati contestati. Una decisione inevitabile, che riaccende le preoccupazioni su quanto sta ora accadendo in mare tra la Libia, Malta e l’Italia: le regole d’ingaggio sono praticamente le stesse.
Sono passati quattro anni dal naufragio dell’11 ottobre. Ma i muri di gomma costruiti intorno a quel pomeriggio hanno rinviato a oggi la resa dei conti giudiziaria. La ministra della Difesa, Roberta Pinotti, ha assicurato massima collaborazione e trasparenza alle indagini. E così si è espresso l’attuale capo di Stato maggiore della Marina, Valter Girardelli. Ma nella lunga catena di comando fino al mare, non tutti i sottoposti condividono la linea. Questa era infatti la versione ufficiale comunicata al Parlamento il 17 maggio scorso: «La Marina riferisce che, appena informata dalla centrale operativa del comando generale del Corpo delle capitanerie di porto delle attività di ricerca e soccorso in atto, a cura del centro di coordinamento del soccorso marittimo maltese, ha disposto di propria iniziativa che nave Libra, distante circa quindici miglia nautiche dal natante in difficoltà, si dirigesse verso il punto segnalato».
Il provvedimento del giudice Giorgianni depositato ieri, dopo l’udienza tra le parti del 27 ottobre, dimostra una realtà molto diversa: dalle 16.22 di quel giorno la Marina militare e la Guardia costiera non solo non hanno disposto ma hanno respinto le richieste telefoniche e via fax di Malta che sollecitava l’impiego immediato del pattugliatore comandato da Catia Pellegrino. La Libra era la nave più vicina: 15 miglia corrispondono a meno di un’ora di navigazione. «È evidente », scrive il gip, «come un ordine immediato di procedere alla massima velocità in direzione del barcone dei migranti... emesso subito dopo la ricezione del fax delle 16.22 avrebbe permesso a nave Libra di giungere sul punto in cui si trovava il barcone con ogni probabilità anche prima del suo ribaltamento o, in ogni caso, in un momento che avrebbe consentito di contenere quanto più possibile le devastanti conseguenze». La Libra, pur essendo a meno di venti miglia, è arrivata alle 18, ormai al tramonto: cinquantatré minuti dopo il rovesciamento e 5 ore e 34 minuti dopo la prima richiesta di soccorso. Nel frattempo, dei 480 passeggeri finiti in acqua, 268 sono annegati.
L’ordine alla Procura perché formuli la richiesta di rinvio a giudizio è stato disposto nei confronti dell’allora comandante della centrale operativa della Squadra navale della Marina, il capitano di fregata Luca Licciardi, 47 anni: è l’ufficiale che si sente ordinare alla Libra di allontanarsi perché, letterale, «non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette» maltesi. Il secondo ufficiale per cui si chiede il processo è il responsabile della sala operativa della Guardia costiera, il capitano di vascello Leopoldo Manna, 56 anni: «Dopo la espressa richiesta di utilizzo di nave Libra da parte di Malta, non emette l’ordine di far intervenire la nave da guerra italiana». Supplemento d’indagini per la comandante Pellegrino: il gip ordina alla Procura di valutare le testimonianze dei piloti dell’aereo militare maltese che avrebbero supplicato la Libra sul canale radio delle emergenze, senza ottenere risposta. Accolta l’archiviazione per gli ufficiali della Guardia costiera, Clarissa Torturo e Antonio Miniero, per il capitano di fregata Nicola Giannotta, diretto sottoposto di Licciardi, e per l’allora comandante in capo della Squadra navale, ammiraglio Filippo Maria Foffi. Da adesso l’inchiesta ha un nuovo inizio.
Tra le accuse l’omicidio colposo. Chieste ulteriori indagini per la comandante Pellegrino
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I morti nel naufragio dell’11 ottobre 2013: 60 erano bambini in fuga dalla Siria
Qui sopra, Besher Dahhan, un anno, con i suoi fratelli Mohamed, 8 anni, e Tarek, 4 anni, dispersi in mare nel naufragio dell’11 ottobre 2013 e mai più ritrovati. A sinistra, nave Libra, il pattugliatore della Marina militare che a
L’espansione coloniale israeliana nella Valle del Giordano prosegue. Tel Aviv non ha mai nascosto l’enorme interesse su quel 30% di Cisgiordania, la zona più fertile dell’intera Palestina storica e unica via di comunicazione con il mondo esterno per il governo dell’Anp. Da anni il governo Netanyahu pone come precondizione intoccabile all’eventuale negoziato il mantenimento del controllo militare e di sicurezza sulla Valle del Giordano, annullando di fatto ogni possibilità di uno Stato palestinese sovrano.
Secondo fonti locali, ora le autorità israeliane stanno lavorando al trasferimento forzato di 200 palestinesi (di cui 45 donne e 60 bambini) dai propri villaggi e dalle proprie terre nelle comunità di Ein al-Hilweh e Umm al Jamal, nella parte settentrionale della Valle del Giordano. Mahdi Daraghmeh, membro del consiglio municipale della Valle del Giordano, ha denunciato ieri la consegna di ordini di demolizione e di evacuazione a 30 famiglie palestinesi da 60 abitazioni e strutture agricole.
Datati primo novembre, ma consegnati ieri, gli ordini danno solo 8 giorni di tempo. Dunque, sono “scaduti” nello stesso giorno della notifica. Le famiglie aspettano l’arrivo dei bulldozer israeliani in qualsiasi momento. Secondo Daraghmeh, la motivazione reale è l’espansione delle colonie agricole.
Una paura che si lega a quanto annunciato dal ministro israeliano dell’Abitazione, Yoav Galant, che mercoledì ha reso noto un piano “per rafforzare le comunità ebraiche nella Valle del Giordano”, un progetto che – attraverso fondi statali a cooperative e insediamenti agricoli a chi deciderà di trasferirsi e l’eliminazione dei limiti alla costruzione – raddoppierà il numero di coloni israeliani nell’area. Da 6mila a 12mila: le colonie presenti nella Valle del Giordano, 37, sono esclusivamente colonie agricole e i residenti non sono numerosi come nel resto degli insediamenti della Cisgiordania.
Numeri ridotti ma effetti devastanti per la popolazione palestinese: dal 1967 la Valle del Giordano è per oltre il 90% sotto il controllo israeliano, tra Area C, zone militari chiuse e aree di addestramento. Area A, sotto il controllo palestinese, sono solo la città di Gerico e piccolissime porzioni di alcuni villaggi. È a Gerico che buona parte della popolazione è stata costretta a trasferirsi in questi 50 anni, spinti da demolizioni di case, espansione coloniale e perdita dei mezzi di sussistenza: dei 320mila abitanti pre-1967 ne restano 56mila, meno del 20% delle riserve d’acqua sono utilizzabili da palestinesi e il tasso di povertà è pari al 33,5%, il più alto della Cisgiordania.
Senza acqua e con sempre meno terra a disposizione, le comunità palestinesi hanno difficoltà estreme nel coltivare la terra e sono per lo più costretti a lavorare per pochi shekel al giorno nelle colonie israeliane, che da parte loro producono a basso costo e si rendono molto più competitivi sul mercato interno, prigioniero, palestinese.
L’obiettivo di un simile piano è chiarissimo. Israele va avanti nell’espansione territoriale in una zona strategica per rendere più difficile in futuro un’eventuale evacuazione dei coloni. Tel Aviv sa che il tempo è prezioso e che ogni metro guadagnato sarà un punto in più al tavolo del negoziato. E la Valle del Giordano è centrale nei piani del governo.
Noi italiani, obbedienti a Minniti, abbiamo ucciso ieri cinquanta fuggitivi dai paesi che noi abbiamo ridotto a inferni per pagare il nostro benessere. Li abbiamo ammazzati con le armi che abbiamo regalato ai nostri alleati libici per liberarci dal fastidio dei migranti
«THIS IS ITALIAN Navy helicopter, channel 16, we want you to stop now, now, now».
L’elicottero della Marina italiana volava basso in tondo e provava a fermare la motovedetta libica mentre John moriva, trascinato via a folle velocità, sospeso in aria sul mare, una mano disperatamente attaccata alla cima e l’altra protesa verso la moglie, ormai in salvo sul gommone della Sea Watch.
«Lui era lì, sul ponte della barca e gridava verso di me. I libici lo picchiavano con delle corde, lo prendevano a calci, poi l’ho visto scavalcare e buttarsi in acqua. È andato giù, l’ho visto riemergere, era riuscito a riaggrapparsi alla fune sul fianco della motovedetta. Gridava: “aspettatemi, aspettatami, aiuto, non lasciatemi qui…”. Ma a un certo punto i libici hanno riacceso il motore e la barca ha fatto un balzo in avanti trascinando via lui e tutti gli altri che stavano ancora in acqua. E non l’ho più visto. John non sapeva nuotare, era salvo ma è morto perché voleva raggiungere me che ero già in Italia».
Darfish piange senza sosta, in ospedale a Modica, mentre riavvolge il tragico film che lunedì mattina ha cambiato per sempre la sua vita. Lei, sul gommone della nave umanitaria tedesca, dunque «già in Italia », suo marito, a bordo della motovedetta della Guardia costiera, dunque destinato a tornare in Libia. Viaggio di andata e ritorno all’inferno. Di nuovo in prigione, di nuovo torture, violenza, un nuovo riscatto da pagare per riprovarci ancora. Una prospettiva agghiacciante anche per chi, come questa giovane coppia camerunense, è sopravvissuto alla traversata nel deserto, alla prigionia nella connection house e persino al naufragio di quel gommone davanti al quale il destino ha aperto loro le “sliding doors” del Mediterraneo. Un drammatico soccorso conteso tra i libici e le Ong che, per la prima volta da quando sono entrati in vigore gli accordi tra il governo italiano e quello di Al Serraj, ha aperto gli occhi dell’Europa sulla roulette russa a cui è affidato il destino delle migliaia di persone che ancora tentano la traversata nel Mediterraneo.
Un incidente che avrebbe fatto una cinquantina di dispersi e sul quale adesso indaga la Procura di Ragusa. Nei prossimi giorni i pm vaglieranno le testimonianze dei 59 superstiti portati a Pozzallo dalla Sea Watch insieme al corpicino del bimbo di due anni, annegato sotto gli occhi della madre, e a quelli delle altre quattro vittime recuperate e trasferite a bordo di un’altra nave umanitaria, la Aquarius di Sos Mediterranèe. Dovranno stabilire se su queste morti vi siano delle responsabilità di qualcuno degli attori intervenuti nelle operazioni di soccorso che, coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera di Roma, hanno dovuto fare i conti con il contemporaneo arrivo sul luogo del naufragio della motovedetta libica e della nave umanitaria.
L’Italia da una parte e la Libia dall’altra, il gommone semiaffondato in mezzo, tanti corpi galleggianti in acqua ma soprattutto decine di persone, che ormai in salvo sull’imbarcazione libica, si sono buttate in mare nel vano tentativo di raggiungere quei due gommoni che avrebbero aperto loro le porte dell’Europa. Terribili disperati minuti di caos spezzati dalla fuga in avanti della motovedetta libica che, dopo aver tentato di trattenere a bordo con minacce e violenze i migranti, ha riacceso i motori ripartendo a tutto gas verso Tripoli con 42 superstiti a bordo che imploranti tendevano le mani urlando verso mogli, figli, fratelli, sorelle da cui proba- bilmente sono stati divisi per sempre.
La scena, da girone dantesco, è rimasta impressa non solo nei racconti di chi ce l’ha fatta, ma anche nella scatola nera della Sea Watch che ora l’equipaggio della ong tedesca mette a disposizione degli inquirenti per andare a fondo nelle indagini. Il disperato grido partito dall’elicottero della Marina italiana presente sulla scena è tutto registrato nelle conversazioni sul canale 16 riservato ai soccorsi: «Guardiacostiera libica, questo è un elicottero della Marina italiana, le persone stanno saltando in mare. Fermate i motori e collaborate con la Sea Watch. Per favore, collaborate con la Sea Watch », l’invito inascoltato.
Nel racconto di Gennaro Giudetti, attivista italiano imbarcato sulla Sea Watch, tutto l’orrore di quei momenti: «Quando siamo arrivati sul posto c’erano già diversi cadaveri che galleggiavano e decine di persone in acqua che gridavano aiuto. Abbiamo dovuto lasciare stare i corpi per cercare di salvare più gente possibile. I libici ci ostacolavano in tutti i modi, per quanto incredibile possa sembrare, ci tiravano anche patate addosso. Loro non facevano assolutamente nulla, abbiamo dovuto allontanarci un po’ per non alzare troppo il livello di tensione e in quel momento abbiamo visto che sulla nave libica i militari picchiavano i migranti con delle grosse corde e delle mazze. In tanti si sono buttati a mare per raggiungerci e sono stati spazzati via dalla partenza improvvisa della motovedetta. È stata una cosa straziante. E la colpa è di tutti noi, degli italiani, degli europei che supportiamo questo sistema. Quelle navi libiche le paghiamo noi. Quando ho raccolto dall’acqua il corpo di quel bambino, ho toccato davvero il fondo dell’umanità ».
MIGLIAIA DI MIGRANTI IN ARRIVO, DECINE DI MORTI di Adriana Pollice
«Mediterraneo. Il numero crescente di sbarchi e tragedie smentisce il ministero degli interni. E la guerra alle Ong impedisce soccorsi rapidi ed efficaci. Partono da Tunisia e Algeria ma anche dalla Libia, Stato fallito con cui Roma ha stretto accordi»
Con il saluto d’onore degli ufficiali di bordo, ieri mattina sono sbarcate sul molo del porto di Reggio Calabria le salme di 5 donne e 3 uomini, tutti annegati. Erano sulla nave Diciotti della Guardia costiera e facevano parte del gruppo di migranti recuperati venerdì, in diverse operazioni, al largo delle coste libiche.
Ce l’hanno fatta a salvarsi in 765, tra i quali 112 minori (63 non accompagnati). Dal gruppo erano già stati prelevati con l’elicottero 14 ustionati gravi per contatto con il carburante dello scafo su cui erano stipati, tre talassemici e una bambina con dolori al petto.
Dopo le operazioni di rito, partiranno per i centri di accoglienza di undici regioni. Arrivano da 27 stati differenti, sparsi tra Asia e Africa, dal Pakistan al Nepal, dalla Somalia al Libano. Venerdì la nave militare spagnola Cantabria aveva incrociato al largo della Libia un gommone affondato con 64 sopravvissuti e 23 annegati.
Ieri il papa, in un discorso alle università cattoliche, si è augurato per il futuro una classe dirigente aperta ad accogliere: «Vorrei invitare gli atenei a educare i propri studenti, alcuni dei quali saranno leader politici, imprenditori e artefici di cultura, a una lettura attenta del fenomeno migratorio in una prospettiva di giustizia, di corresponsabilità globale e di comunione nella diversità culturale».
Sono stati 2mila i migranti soccorsi nel Mediterraneo tra lunedì e venerdì. Il ministro degli interni Marco Minniti, lo scorso week end alla conferenza programmatica del Pd, aveva vantato i risultati della sua politica in tema di blocco degli sbarchi: «Gli arrivi in Italia sono diminuiti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e ci sono stati 8.500 rimpatri volontari assistiti».
Gli accordi con la Libia (incluse le milizie attive sul territorio) prevedono il blocco delle partenze e il contenimento dei flussi nei centri di detenzione locali (in condizioni terribili), in cambio di mezzi navali, addestramento, sostegno economico. Evidentemente il meccanismo si è rotto.
Questa settimana, infatti, la marina libica ha recuperato in diverse operazioni 900 migranti, tra questi anche sette cadaveri, al largo delle proprie coste ma le motovedette, invece di riportarli a terra, li hanno imbarcati su mezzi militari europei verso l’Italia.
La politica messa in campo da Minniti con le Ong non ha certo migliorato le cose. Il numero di soccorritori è drasticamente diminuito rendendo le operazioni più insicure.
Mercoledì la nave Aquarius di Sos Méditerranée ha dovuto sostenere quattro interventi in 18 ore, 588 naufraghi salvati: «Abbiamo soccorso un gommone con 108 persone a bordo e ci siamo preparati a soccorrere un secondo gommone. Prima che la nostra lancia arrivasse sulla scena, l’imbarcazione si è rotta e le persone hanno cominciato a saltare in acqua. Erano in molti in acqua. Abbiamo lanciato i mezzi di galleggiamento e stabilizzato la situazione. Anche se abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non potremo mai essere sicuri che tutti siano stati salvati», ha spiegato Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni Search and Rescue dell’Aquarius. Impossibile sigillare le frontiere italiane anche sui fianchi est e ovest. Venerdì nel crotonese è riuscito ad approdare un barcone con 48 migranti.
A condurli sulle coste calabre, dietro il pagamento di 6mila dollari a testa, uno scafista russo, Timur Shirchenko, arrestato dalla polizia italiana. Ieri una motovedetta della guardia costiera siciliana ha intercettato una piccola barca con 23 persone a bordo: erano tutti algerini ed erano diretti in Sardegna. Tratti in salvo, sono stati trasportati nel porto di Calasetta, nel Sulcis. Ancora nel Sulcis, il giorno precedente, erano arrivati 38 algerini.
Si tratta delle cosiddette barche fantasma, natanti di ridotte dimensioni che da Algeria e Tunisia arrivano indisturbati sulle spiagge di Sicilia e Sardegna portando piccoli gruppi. La marina tunisina ieri ha bloccato 12 connazionali su uno scafo in avaria al largo di Sfax.
Ieri sono sbarcati nel porto di Taranto 324 migranti dalla fregata tedesca Mecklenburg. Stamattina a Salerno ne sono attesi 400, accanto ai superstiti ci saranno anche i cadaveri: 26 salme, tutte donne. Domani arriverà a Crotone la nave dell’Ong Proactiva Open Arms con 378 scampati al mare.
Il tema migrazioni entra nella campagna elettorale per le regionali siciliane con Forza Italia, in vantaggio nei sondaggi, che attacca il Pd: «Il tappo libico è saltato – dice il parlamentare Gregorio Fontana –, ci sono di nuovo i morti, gli sbarchi sono ripresi. Solo che vengono dirottati verso le coste pugliesi e calabresi per evitare che l’ennesimo fallimento dell’esecutivo vada a interferire con le elezioni siciliane. Il bluff governativo è venuto alla luce».
IN MILLE PEZZI IL «CODICE MINNITI» di Alessandro Del Lago
«Morti a mare. Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, «si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel». Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico»
n naufragio in ottobre, quando le condizioni dl mare sono già pessime, 23 i morti recuperati. Probabilmente, molti di più i cadaveri scomparsi nelle vastità marine. 600 salvataggi in un solo giorno. Altri morti e centinaia di salvataggi sempre nel Canale di Sicilia negli ultimi tre giorni.
Le cronache riportano questi dati con una certa impassibilità, come se si trattasse di normali conteggi amministrativi o di statistiche demografiche. Ma c’è qualcosa che non torna. Anzi, molto.
Basta riandare allo scorso ferragosto alle parole del ministro degli interni Minniti, al culmine di una campagna condotta contro le Ong e alimentata da media e procure.
Minniti aveva dichiarato che con il codice di comportamento imposto alle navi di soccorso e gli accordi con i libici, «si cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel». Quale luce e quale tunnel? La soluzione escogitata da Minniti l’Africano era semplice: scopare la questione dei migranti sotto il tappeto libico affinché le impaurite popolazioni italiche, soprattutto al nord, non avessero più preoccupazioni e anche – honni soit qui mal y pense («guai a chi pensa male» ) – per sottrarre voti a leghisti, berlusconiani e grillini, che sulla paura dei migranti stanno costruendo la loro fortuna elettorale.
E come sistemare la faccenda? Finanziando il governicchio di al Serraj a Tripoli, che controlla poco più di un fazzoletto di terra in riva al mare, e i signori della guerra anti-Isis. Noi vi diamo soldi e armi e vendiamo sottocosto un po’ di vedette. Voi in cambio, ci fermate i migranti, cioè li internate nei vostri campi.
E i migranti che, inevitabilmente, continueranno ad arrivare? Qui Minniti, coerentemente con la discrezione appresa occupandosi di servizi segreti, tace, gira la testa, glissa. Esattamente come hanno fatto tutti i suoi predecessori, primi ministri e dell’interno, da Amato in poi.
Anche i sassi sanno che rispedendo i migranti in Libia se ne condanna una buona percentuale a morte, e gli altri alle torture, agli stupri e all’inedia. La Libia non è un paese «safe», come esigono le ipocrite normative internazionali, ma un guazzabuglio di bande in cui tutti combattono contro tutti e l’Isis, sconfitto in Iraq e Siria, fa affluire i suoi uomini.
E gli scontri armati tra le centinaia di milizie libiche, dati per «finiti» in realtà sono ripresi proprio in questi giorni. Gli interlocutori del «patto» di Minniti si combattono fra loro.
Le denunce di Msf, Amnesty International ecc. sono incessanti. Persino l’Onu, solitamente cauta in materia, ha ammonito che con le limitazioni imposte alle navi delle Ong e gli accordi con la Libia i morti sarebbero aumentati, nel deserto e in mare. Silenzio delle istituzioni.
L’evidente motto di Minniti, occhio non vede e cuore non sente, ha funzionato per un paio di mesi, con qualche protesta delle Ong e sparse sparatorie in mare dei libici, che hanno invaso le acque internazionali per proteggere i propri interessi nell’affare. Finché, in questi giorni, gommoni e barconi hanno ricominciato a fare la spola e i migranti annegano.
Bisogna essere ciechi per non vedere che dai paesi sub-sahariani, con redditi annuali inferiori a quanto una media famiglia italiana spende in un mese in beni di prima necessità, centinaia di migliaia di migranti si metteranno in marcia verso il Marocco, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, l’Egitto.
Se vengono fermati a una frontiera, cercano di passare da un’altra parte, come farebbe ognuno di noi nei loro panni. Bisogna essere ipocriti fino all’oscenità per continuare a blaterare di un piano Marshall per l’Africa che nessuno metterà mai in cantiere.
E bisogna essere trasparenti come funzionari dei servizi segreti per tacere che in Ciad, sud della Libia e Niger, per non parlare dell’Africa centro-occidentale, si combattono guerre con partecipazione occidentale (contro l’Isis, certo, ma soprattutto per il controllo delle materie prime e dell’influenza geopolitica).
Così, chi si mette in marcia per non morire di fame o in qualche bombardamento, finirà, se sopravvive, in qualche campo libico o tenterà, come sempre, la sorte in un gommone.
La luce infondo al tunnel vero, ministro Minniti?
internazionale,
Non è mai successo niente di simile: un impero promette una terra che non è stata ancora conquistata a un popolo che non ci vive, senza chiedere il permesso agli abitanti del posto. Non c’è altro modo di descrivere l’incredibile incoscienza colonialista che viene fuori da ogni sillaba della dichiarazione Balfour, con cui cent’anni fa, il 2 novembre 1917, il Regno Unito s’impegnò a facilitare la nascita di uno stato per il popolo ebraico in Palestina.
Questa settimana i primi ministri di Israele e Regno Unito festeggiano un’enorme conquista sionista. Ma è arrivato il momento di fare un esame di coscienza. Il tempo di festeggiare è finito. Sono passati cento anni di colonialismo, prima britannico poi israeliano, e a farne le spese è stato un altro popolo. È stato un disastro senza fine. La dichiarazione Balfour avrebbe potuto essere un documento giusto, se avesse garantito un trattamento equo sia al popolo che sognava quella terra sia al popolo che la abitava. Il Regno Unito però preferì i sognatori, pochissimi dei quali vivevano in quel paese, a discapito degli abitanti, che stavano lì da centinaia di anni e che erano la maggioranza assoluta. A loro preferì non dare alcun diritto nazionale. Immaginate se uno stato promettesse di trasformare Israele nella patria nazionale degli arabi israeliani e chiedesse alla maggioranza ebraica di accontentarsi dei “diritti civili e religiosi”. È quello che successe all’epoca, ma in modo ancora più discriminatorio: gli ebrei erano una minoranza ancora più esigua (meno di un decimo) di quanto non lo siano oggi gli arabi israeliani.
Così il Regno Unito gettò i semi di una catastrofe che oggi continua ad avvelenare entrambi i popoli con i suoi frutti. Non c’è da festeggiare. Anzi, il centesimo anniversario della dichiarazione dev’essere un monito a rimediare all’ingiustizia mai riconosciuta, né dal Regno Unito né, ovviamente, da Israele. Dalla dichiarazione Balfour nacquero non solo lo stato di Israele, ma anche le politiche nei confronti delle “comunità non ebree”, come si legge nella lettera inviata dal ministro degli esteri britannico lord Arthur James Balfour al barone Rothschild, rappresentante della comunità ebraica e sionista convinto. La discriminazione degli arabi israeliani e l’occupazione delle terre dei palestinesi sono la continuazione diretta di quella lettera. Il colonialismo britannico spianò la strada a quello israeliano, anche se non era nelle sue intenzioni farlo continuare per altri cento anni.
Anche nel 2017 Israele s’impegna a garantire “diritti civili e religiosi” ai palestinesi, che però non hanno una patria. Balfour fu il primo a prometterne una. In quel periodo, negli anni della prima guerra mondiale, il Regno Unito fece varie promesse contraddittorie. Ne fece anche agli arabi, ma ha mantenuto solo quelle fatte agli ebrei. Come ha scritto Shlomo Avineri su Haaretz, l’unico scopo della dichiarazione Balfour era quello di minimizzare l’opposizione degli ebrei statunitensi alla partecipazione degli Stati Uniti alla guerra.
Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono in Palestina. Da subito si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato. Non fu un caso che un piccolo gruppo di ebrei sefarditi che abitavano in Palestina si oppose a Balfour e difese l’uguaglianza con gli arabi. E non fu un caso che furono messi a tacere.
La dichiarazione Balfour permise alla minoranza ebrea di controllare il paese, ignorando i diritti nazionali di un altro popolo. Cinquant’anni dopo la pubblicazione del documento, Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza. Le invase con lo stesso piglio colonialista. E ancora oggi prosegue la sua occupazione, trascurando i diritti degli altri abitanti.
Balfour pensava che nello stato d’Israele gli ebrei avevano dei diritti e i palestinesi non li avevano e non li avrebbero mai avuti. Come i suoi successori nella destra israeliana, Balfour non lo ha mai nascosto. Nel suo discorso tenuto al parlamento britannico del 1922, lo dichiarò apertamente.
Nel centesimo anniversario della dichiarazione Balfour, la destra nazionalista dovrebbe chinare il capo e ringraziare la persona che ha dato origine alla superiorità ebraica in Israele, cioè Arthur James Balfour. I palestinesi e gli ebrei che vogliono giustizia invece dovrebbero essere in lutto. Se non ci fosse stata quella dichiarazione, forse oggi questo paese sarebbe diverso e più giusto.
il manifesto,
Israele/Palestina. Oggi è l'anniversario del documento con cui cento anni fa la Gran Bretagna promise un "focolare ebraico" in Palestina. Israele celebra, i palestinesi chiedono le scuse di Londra. La partenza ieri del premier israeliano Netanyahu per Londra, dove prenderà parte con i massimi rappresentanti politici britannici, ad eccezione del leader laburista Jeremy Corbyn, alle celebrazioni per il 100esimo anniversario della Dichiarazione Balfour - che promise un “focolare ebraico” in Palestina aprendo la strada alla nascita di Israele -, è stata accompagnata ieri dall’ironico saluto organizzato a Betlemme da Banksy.
Davanti al suo hotel, “The Walled Off”, con vista sul Muro, lo street artist britannico ha organizzato un party per i bambini dei campi profughi vicini, per ricordare gli 800mila palestinesi (oggi cinque milioni) costretti all’esilio dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948. Durante il party in strada è stata pronunciata una dura critica dei risultati della Dichiarazione Balfour.
L’evento si è aperto con l’invito da parte di un uomo vestito secondo la moda del secolo scorso ai bambini ad avvicinarsi al tavolo, dove spicca una torta coi colori della bandiera britannica. L’uomo poi ha pronunciato un discorso in cui critica la Dichiarazione Balfour “che diede inizio ad un secolo di confusione e conflitto”. Infine su sua richiesta una signora simile alla regina di Inghilterra apre una tenda e sul Muro appaiono così i simboli della casa reale britannica e la scritta a grandi lettere: Sorry.
La leadership palestinese intanto continua a chiedere le scuse di Londra, che la premier Theresa May ha escluso, e il riconoscimento britannico dello Stato di Palestina. Oggi migliaia di scolari di Cisgiordania e Gaza invieranno lettere di protesta alle autorità diplomatiche della Gb mentre una delegazione di decine di attivisti inglesi, partiti nei mesi scorsi da Londra, concluderà a Gerusalemme la sua simbolica “marcia di scuse” al popolo palestinese. In Israele al contrario l’anniversario della Dichiarazione Balfour viene celebrato con conference, incontri e numerose iniziative di ringraziamento alle autorità britanniche.
Faccio e rifaccio il conto, ma non riesco a credere al risultato. Eppure è sempre lo stesso: nella mia vita, tra anni di pendolarismo e stagioni di viaggi frequenti, ho attraversato la stazione centrale di Bologna almeno diecimila volte. E non una di queste mi sono sentito in pericolo. Un forte disagio, invece, l’ho provato davanti alla campagna di stampa dell’estate 2017 che la dipingeva come un luogo da cui scappare a gambe levate, dove i viaggiatori sono vessati dalle pretese dei mendicanti e circondati da “una folla di disperati”. Cosa che, semplicemente, non è vera.
I poveri che gravitano attorno alla stazione lo fanno per cercare risposta a semplici necessità, come quella di trovare un bagno per lavarsi o un riparo tranquillo per la notte. E, ancora, la stazione è un luogo dove chiedere l’elemosina o proporsi come facchini. Al culmine di questa campagna, il sindaco Virginio Merola ha incontrato i rappresentanti del governo e delle Ferrovie dello stato italiane spa (Fs). Invece di respingere l’odiosa equiparazione della povertà con il crimine, dalla riunione è uscita la promessa di realizzare “in tempi rapidi [il] maxi progetto di adeguamento strutturale della stazione per filtrare gli accessi”. La stazione sarà dotata di gate, cioè di varchi presidiati che consentono l’accesso ai binari solo a chi ha un titolo di viaggio. Una soluzione già da tempo studiata dalla Rete ferroviaria italiana (Rfi, gruppo Fs) e auspicata dalla destra bolognese.
Il progetto è in perfetta continuità ideologica con il decreto Minniti, e ne condivide l’obiettivo di espellere le persone marginali dai luoghi della vita cittadina. Per capire come si manifesta concretamente decido di andare a vedere e attraversare i gate a Milano centrale, dove sono stati già da tempo istituiti. La loro inaugurazione risale al maggio del 2015, lo stesso giorno in cui apriva Expo.
Controllo dei biglietti e prevenzione del terrorismo
In vista della grande fiera del cibo era stata approvata una nuova legge antiterrorismo e Giuseppe Sala, allora commissario governativo della manifestazione, dichiarava che l’esposizione poteva diventare “un bersaglio ideale”. Rfi non faceva alcun riferimento esplicito al terrorismo, ma annunciava “stazioni più sicure” grazie ai varchi presidiati. Il sospetto che sia stata sfruttata la data significativa e il clima emergenziale per introdurre una novità potenzialmente sgradita resta un sospetto, ma legittimo.
Nel settembre successivo anche Roma Termini alzava muri di plexiglas prima dei binari, e i gate entravano esplicitamente nella narrazione delle misure antiterrorismo. Si arrivava a scrivere che, con i varchi, “Trenitalia vuole sia contrastare il terrorismo, sia garantire protezione per i viaggiatori e per i dipendenti”. Nel novembre 2015, dopo il sanguinoso attacco al teatro Bataclan, Striscia la notizia ha mandato in onda un servizio in cui metteva alla berlina l’azienda ferroviaria per i controlli non abbastanza severi ai gate di Milano e Roma. La sovrimpressione avvertiva che le riprese erano state fatte sia “prima” sia “dopo gli attentati di Parigi”. Così, tra musica da comiche e risate registrate, il filmato celebrava il matrimonio tra il controllo del biglietto e la prevenzione del terrorismo.
Eppure è evidente che questo nesso non ha alcun senso. Con poco più di due euro un terrorista può procurarsi un biglietto per Zagarolo o Monza, usarlo per attraversare indisturbato i varchi a Termini o a Milano centrale e, immediatamente dopo, aprire il fuoco o farsi esplodere. Ma perché poi dovrebbe agire proprio vicino ai binari, quando ha tutto il resto della stazione a disposizione? Perché non scegliere come obiettivo, per fare un esempio non casuale, le dense code che si formano nelle ore di punta proprio a causa del controllo dei biglietti presso i gate?
Ancora nell’agosto 2017, la parlamentare del Partito democratico Francesca Puglisi insisteva per l’istituzione dei varchi a Bologna, facendo esplicito riferimento alla strage del 2 agosto 1980. Un atto terroristico che ha visto in azione le più nere trame dell’Italia repubblicana e che nessuno, fin qui, si era azzardato ad associare al controllo dei biglietti. Ogni argine è travolto, anche il più banale buonsenso e la minima consapevolezza storica. A Bologna perfino un falso allarme bomba ha alimentato la campagna per i gate. Due taniche dimenticate su un treno, attribuite arbitrariamente da una passeggera a uno “straniero di colore” che aveva già lasciato il vagone, hanno fatto scattare un’allerta del tutto infondata.
Nero, probabilmente, anche l’uomo con il borsone ritratto in silhouette sul rendering delle Fs che annunciava i varchi a Firenze Santa Maria Novella. Dopo la denuncia del contenuto razzista l’immagine è stata ritirata, ma la vicenda ha tutto il sapore del lapsus. Al di là delle generiche “ragioni di security”, sono infatti proprio ambulanti, mendicanti e poveri che le Fs vogliono intercettare ed espellere dall’area dei binari. “Il progetto [di istituzione dei gate], elaborato dal Gruppo Fs italiane in collaborazione con le Forze dell’Ordine e le Istituzioni, mira ad aumentare la sicurezza dei passeggeri e a prevenire i fenomeni di evasione, accattonaggio, attività illecite e vendite abusive in prossimità e a bordo dei treni”, si legge su Fsnews.
I segni dell’esclusione
A Firenze una stazione mai realizzata è costata, secondo Il Post, quasi 800 milioni di euro; a Bologna lo scalo per l’alta velocità inaugurato nel 2013 ne è costati 530. Ed è considerato dalla stessa Rfi “un esempio critico, non appetibile dal punto di vista commerciale”, con conti a rischio e difficoltà logistiche. Davvero, in queste due città, quel che urge sono i gate? No, decisamente le motivazioni fornite da Fs non dicono tutto: i varchi ai binari, prima di essere una soluzione tecnica, sono un dispositivo sociale. Come vedo, e tocco con mano, appena arrivato a Milano centrale. Qui capisco che l’uomo con il borsone evocato dal rendering non è gradito in nessun angolo della stazione, non solo nella parte sigillata dai gate. Le panchine sono scarse e ostili a chi ha bisogno di riposo, con braccioli “anti-bivacco” che impediscono di sdraiarsi. Non c’è più la sala d’attesa, sostituita da negozi già nella ristrutturazione del decennio scorso. I bagni sono a pagamento e delle fontanelle non resta neppure il ricordo.
Torno ai binari per aspettare Michele Lapini. Michele viene per fotografare i segni dell’esclusione, le emergenze visibili della separazione sociale che parte dai varchi e corre fino all’esterno della stazione. Supero i gate con un biglietto qualsiasi. Dallo sguardo distratto dell’addetto ricavo l’impressione che essere bianco e decentemente vestito sia un titolo di viaggio che aiuta ad attraversarli senza rallentamenti. Negli orari di punta la fila però si ingrossa, e per passare veloci diventa necessario dimostrare, seppure indirettamente, la consistenza del proprio conto corrente. È per questo che nasce il varco “fast track”, accesso “prioritario ed esclusivo” per viaggiatori dotati di Cartafreccia “platino” e “oro”, o delle corrispondenti “privilege” e “gold” di Italo.
Bar al posto di profughi
Michele ha fame, così puntiamo verso il kebabbaro che si trova su un lato di piazza Duca d’Aosta, la piazza della stazione. Mentre scendiamo dal piano binari lo costringo a una sosta nel mezzanino. Questo ballatoio nel 2015 era luogo di sosta di migranti e profughi che arrivavano con i treni dall’Italia del sud, ed era un punto d’incontro tra loro e i volontari milanesi. Sgomberato a giugno di quell’anno, già in agosto era occupato da bar. La sequenza fotografica che ritrae il prima e il dopo del mezzanino mostra il volto feroce della valorizzazione commerciale: dove c’era vita, e solidarietà umana, ci sono anonimi tavolini e arredi da street food. Prima di riprendere la discesa ci sporgiamo sui menù, e vi troviamo un “arancino del giorno” al prezzo di sei euro. Con in bocca un sapore amaro, scendiamo gli ultimi gradini.
Superiamo la cancellata “anti-clochard” installata nel 2015 per sigillare la stazione nelle ore notturne e, appena gli occhi si abituano al sole, Michele indica qualcosa alla nostra sinistra, sotto gli sparuti alberi di piazza Duca d’Aosta. Visto da dove ci troviamo pare un tableau vivant: una cinquantina di uomini dai vestiti colorati e la pelle nera sono seduti lungo due lati di un’aiuola. Altri uomini in piedi, bianchi, in divisa e armati, li circondano.
Blitz in piazza Duca d’Aosta
Quando ci avviciniamo emergono i dettagli: i poliziotti controllano documenti, un ragazzo tra i fermati grida la sua amarezza, i cani antisommossa abbaiano senza che gli agenti facciano nulla per farli tacere. Attorno al gruppo si agitano giornalisti e fotografi, ma il giorno dopo, sulla stampa milanese c’è poco o nulla. L’operazione a cui assistiamo non fa più notizia, non è che la reiterazione in tono minore della grande retata del 2 maggio scorso, quando 300 agenti hanno trattenuto cinquantadue migranti. Dopo quel giorno, i rastrellamenti sono diventati routine: 26 luglio, 1 e 9 agosto, 12 settembre, 10 ottobre.
Le persone che non risultano in regola con il permesso di soggiorno vengono portate in questura, si fanno multe come quella di tremila euro a una venditrice “abusiva” di birra, e soprattutto si mette in scena la guerra in corso, la guerra contro i poveri. Nonostante lo spiegamento di forze, i suoi massimi sostenitori sono ben lontani dall’essere soddisfatti: se durante la prima retata Matteo Salvini esultava in diretta Facebook, ora Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia si rammarica che si tratti soltanto di “mini-blitz”. Chiedono di più, appellandosi al decreto più amato dall’estrema destra, quello sulla “sicurezza urbana” del ministro del Partito democratico, Marco Minniti.
In realtà, a spingere le persone a trattenersi in piazza Duca d’Aosta c’è soprattutto l’irrigidimento del sistema dell’accoglienza milanese, non più aperto ai migranti in transito ma solo a regolari e richiedenti asilo. Una conseguenza dell’“approccio hotspot” preteso dalle istituzioni europee e adottato dal governo Renzi nel 2015. Naturalmente la situazione della piazza è anche pretestuosamente drammatizzata, come dimostra la presenza dei tanti viaggiatori e turisti che ogni giorno siedono, tranquilli e indisturbati, a pochi metri dagli “stranieri e sbandati” oggetto delle retate.
Ci sediamo lì anche noi, quando il pomeriggio è ormai inoltrato e il blitz concluso. L’abbiamo visto: i poveri non sono semplicemente fermati dai gate, come avviene all’uomo con il borsone nel rendering delle Fs. Sono espulsi dalla stazione, dalla piazza, spesso dal sistema dell’accoglienza, e perfino quando si accampano in miseri cunicoli lungo i binari sono perseguitati da bravi cittadini che li segnalano a consiglieri di Forza Italia. D’altra parte, se la risposta delle istituzioni all’esclusione sociale è quella di far sparire gli esclusi, è inevitabile che nel ventre della società, sui social e nei bar, fermenti l’odio.
Adeguarsi ai cambiamenti delle stazioni
Alessandro Radicchi è direttore dell’Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle stazioni italiane (Onds), istituito dalle Fs per affrontare, anche tramite 17 help center, “il fenomeno dell’emarginazione sociale e delle povertà estreme nelle aree ferroviarie”. Prima di partire per Milano ho chiesto a Radicchi cosa pensasse dell’istituzione dei gate, e mi ha risposto che dopo l’iniziale rammarico – a Roma Termini il centro d’aiuto si trovava al primo binario – avevano avuto spazi più grandi e il servizio era addirittura migliorato. Non ho potuto fare a meno di pensare che la generosità delle Fs fosse proporzionale alle centinaia di metri di distanza messe tra la galleria commerciale di Termini e gli utenti della nuova sede dell’help center. E che invece, per quelle persone, la stazione continua a rappresentare la possibilità di raggranellare qualche spicciolo e forse anche quella di mantenere un contatto con la vita “normale” che vi scorre.
A Milano l’help center è più vicino, ma si viene accolti da una guardia in divisa e gli operatori parlano da dietro vetri da sportello bancario: non esattamente la situazione capace di intercettare le tante, e spesso necessariamente illegali, varietà dell’esclusione. Radicchi mi ha detto anche qualcosa di rivelatore a proposito delle trasformazioni delle stazioni: “L’help center deve essere come l’acqua, adeguarsi ai cambiamenti del territorio”. Un’immagine forte: i liquidi non hanno forma, assumono quella del contenitore. La interpreto in questo modo: il contenitore sono le Fs, che decidono in modo privatistico che forma dare alla stazione, mentre l’umanità che l’attraversa deve scorrere secondo le regole aziendali.
Per l’agio dei consumatori
Uno dei mezzi che le Fs utilizzano per dare forma all’acqua è la Grandi stazioni spa (Gs). Costituita dal gruppo nel 1998, ha lo scopo di “conseguire una diversificazione dell’offerta dei servizi di stazione: non solo treni, dunque, ma anche negozi, boutique, librerie, ristoranti e bar, centri riunione, servizi di ogni genere per trasformare in luoghi sicuri, confortevoli, adatti agli incontri e allo shopping ambienti oggi poco utilizzati dal punto di vista commerciale e della vivibilità”. Attualmente le aziende che partecipano alla gestione delle 14 maggiori stazioni italiane sono tre. La prima è Gs rail, interamente di proprietà delle Fs, che cura la logistica funzionale al traffico ferroviario. La seconda è Gs immobiliare, che si occupa della valorizzazione degli edifici e ha ovviamente tutto da guadagnare dall’allontanamento dei poveri.
I suoi azionisti sono le Fs al 60 per cento e la Eurostazioni spa (gruppi Benetton, Caltagirone e Pirelli) al 40. Infine c’è Gs retail, che amministrerà fino al 2040 la parte commerciale delle stazioni. Questa società è di proprietà di una cordata italofrancese in cui ha un ruolo chiave Maurizio Borletti, che dal 2005 al 2011 è stato presidente della Rinascente. Il gruppo Borletti costruisce centri commerciali che ambiscono o almeno ammiccano al lusso. Così, anche per le stazioni, “la chiave sarà soprattutto un’offerta di maggiore qualità, soprattutto nella ristorazione e nel food in generale […]. Stiamo cercando di andare incontro alla gente che ha bisogno di sentirsi a suo agio nelle aree delle stazioni e perciò abbiamo lanciato un piano di collaborazione con i comuni per la riqualificazione anche delle zone limitrofe”. (Maurizio Borletti, intervista)
La motivazione materiale dei gate, e perfino delle retate, è quindi da cercarsi nella trasformazione di un luogo pubblico, aperto a tutti, in un privatissimo e luccicante centro commerciale. Da cui poveri, migranti e rom devono essere espulsi in nome dell’agio dei consumatori, cioè del maggior profitto. Sono stati evocati ordigni e trolley esplosivi, poi impastati con l’ideologia del decoro, ma la sicurezza dei viaggiatori non c’entra nulla. E mentre la paura alimentata irresponsabilmente continua ad avvelenare la società, il privato già guarda avanti, alla prossima valorizzazione. Lo fa Borletti, che in un’intervista dice di voler “raddoppiare il fatturato [di Gs retail] nel giro di 5-6 anni”. Ma lo fa anche quello strano privato, interamente di proprietà del ministero dell’economia e delle finanze, che è il gruppo Fs italiane.
Più tornelli, meno ferrovieri
Tra i pretesti per imporre gli accessi controllati ai binari di Bologna c’è stato un comunicato delle maggiori sigle sindacali dei ferrovieri che chiedeva “iniziative atte a garantire la massima tutela e incolumità” dei lavoratori. Ma, come mi ha detto un ferroviere di un sindacato di base, “la nostra insicurezza è causata principalmente dalla riduzione del personale nelle stazioni, a bordo dei treni, nelle biglietterie, ai binari”. Se questo è il punto, l’idea delle Fs di dotare di gate o tornelli 620 stazioni aggraverà la situazione rendendo praticabili ulteriori tagli. Saranno infatti “gate intelligenti da cui si entrerà semplicemente con il biglietto senza esibirlo a una persona fisica”, ha spiegato l’amministratore delegato della Rfi in un’audizione al senato. E la loro estensione è ancora da finanziare, come è scritto nel contratto di programma 2016-2021 tra il ministero competente e la Rfi. Sarà lo stato quindi a pagare i varchi per stazioni trasformate in gallerie per lo shopping? La partita, dal punto di vista economico, è significativa: a Firenze le barriere sono costate più di un milione di euro.
Bologna centrale, ore 22
Torniamo a Bologna in tempo per la chiusura della sala d’attesa, che dallo scorso giugno è alle dieci di sera. Con scarsa fantasia, e sicura efficacia, l’azienda ha giustificato la chiusura anticipata con i soliti “motivi di sicurezza”. Tre guardie armate fanno sloggiare una trentina di viaggiatori, che escono brontolando. Fino alle sei di mattina, quando la sala riaprirà, devono partire ancora una quarantina di treni, ma la stazione riorganizza i propri orari attorno a quelli di bar e negozi, che chiudono alle 22. Perché la sala d’attesa dovrebbe restare ancora aperta, visto che non si può più fare shopping? La stazione, fortezza e centro commerciale, ha porte aperte solo per chi consuma.
The funambulist
Anche i concorsi di architettura sono ben altro cheneutrali, soprattutto se a sponsorizzarli sono la lobby dell’acciaio, in questocaso l'Istituto Americano di Costruzione in Acciaio (AISC) e l'Associazione Collegialedelle Scuole di Architettura (ACSA).
Come avviene di solito in questo tipo di partenariati il prodotto dellalobby è il materiale principale di costruzione. Nel caso specifico il prodotto è anche ampiamente promosso dall'ACSAin un paragrafo intitolato "Vantaggi dell'acciaio". Il concorso utilizza il bando come spazio pubblicitario, in alternativa allapubblicità classica e fa leva sull’autorevolezza e l'apparente neutralitàdell’ACSA. Queste modalità di pubblicità occulta sono note, anche se spesso volutamente ignorate, daiconcorrenti.
Come l’articolo del Funambolist (che riportiamo nel testo originale) spiega efficacemente, il concorso è assaipiù manipolativo e agghiacciante su un altro fronte. Sempre dal bando siapprende che 65,3 milioni di persone sono attualmente sfollate in tutto ilmondo e che secondo le statistiche dell'UNHCR, una persona per ogni 113 èsfrattata dalla sua comunità a causa di conflitti, con il risultato che ad oggisi registra il maggior numero di richiedenti asilo nella storia. Situazione chelascia queste persone in uno «spazio giurisdizionale grigio» che il bando moltoesplicitamente identifica fisicamente con i «centri di detenzione». E qui lachiamata del concorso agli studenti di architettura: «come si può guardare alla progettazionedi un centro di detenzione - un luogo non esistente tra l'immigrato e lacittadinanza - per umanizzare architettonicamente questo spostamento»? Ovviamente,come l’autore dell’articolo spiega, la scelta delle parole, ambigue e nontroppo forti, non è casuale.
La stessa nozione di «centri umanitaridetenzione» di per se, assurda è la colonna portante del concorso. Essa non riflette solol’atteggiamento dell’associazione e della lobby. Presentata come soluzione apolitica e tecnica, quindi legittima. esprime in realtà tutto «l'umanesimomilitarizzato occidentale». Implicito ma chiaro l'invito di Leopold Lambert, autore dell'articolo che riportiamo: architetti, urbanisti, progettisti, designers, attenti a nonfarvi strumentalizzare e usare per costruire le altrui prigioni, sarebbe già un passoverso la costruzione delle nostre stesse prigioni! (i.b.)
La locandina del concorso
WHEN THE ACSA AND THE STEEL LOBBY INVITE YOU TO DESIGN A “HUMANITARIAN DETENTION CENTER”
The Association of Collegiate Schools of Architecture (ACSA) is currently organizing a design competition for architecture students in the United States and Canada in partnership of the steel lobby represented here by the American Institute of Steel Construction (AISC). As usual, in this kind of partnerships, the lobby’s product does not solely constitute the main element that is required to be used in the designed projects, it is also ‘generously’ promoted by the ACSA in a paragraph entitled “Advantages of Steel” that ratifies the ambiguity between the neutrality they are expected to manifest in a brief not explicitly characterized as an ad space and the sponsorship of a material lobby. Although there would be a lot to write about these practices, the subject of this article is elsewhere.
"The Opportunity: challenges architecture students to create a more humanitarian design of a Detention Center by emphasizing family and community rather than isolation. Steel offers great benefits in this endeavor, as it allows for longer spans and more creative light filled spaces."
These two lines of brief are then followed by an online page describing the specifics of the competition. The first sentence is eloquent: “The Steel Competition seeks to understand the potential of an architecture of alterity by positioning a third-space between difference and the same by redefining ICE, or an Immigration and Custom Enforcement Facility to create a more Humanitarian Design of a Detention Center” (my emphasis). Language is important and the idea of creating a position that would neither be “different” or “the same” appears as a symptom of what Orwell calls “newspeak” in 1984 (1949): the encompassing of all truth discourses in one sentence to deactivate language’s signification and enforce the status quo.
When one reads further, the language of humanitarism begins to appear. We learn that 65.3 millions of people are currently displaced worldwide, and that “according to the UNHCR statistics, one person for every 113 is currently displaced from their communities because of conflict, resulting in the largest number of asylum-seekers looking for a better, safer life than ever recorded in history.” The next sentence then set the tone: “For the asylum-seeker or immigrant, the in-between grey area is where the question is being addressed: does this person or family have jurisdiction to be on another countries soil?” Besides the inaccurate use of the term “jurisdiction” here (perhaps it was decided that using the word “rights” would have mobilized an imaginary of social struggles that would have not served the brief), we understand that despite the tragic reality that the figures just described, the hospitality of displaced people in countries that appear in the brief as independent in the reasons that triggered these displacements cannot be implemented, hence the need for the existence of detention centers. The last sentence of the brief finishes to crystallize the newspeak call for projects: “How can we look at the design of a Detention Center—a nonplace that exists between immigrant and citizenship, or difference and the same—as a way to architecturally humanize displacement?”
It is important to understand that the extreme ambiguity of language here (“a nonplace […] between […] difference and the same,” “architecturally humanize displacement”) is less due to the poor writing skills of the brief’s authors and much more about the way the packaging of the information is made to erase the complicity of architects with the program itself and made them feel instead as humanitarian workers, whose role is not to question the structure in which they operate, but rather propose a punctual help to those who experience its violence. The terms of structure should however invite us to think otherwise, as this term belongs to the lexical field known of architects. However, if we do not limit the definition of architects to the narrow understanding of a diploma-sanctioned profession, but rather extend it to all actors whose technical expertise in terms of space organization is mobilized to materialize the spatial order we call a building, we can see how political programs of this kind could not be implemented (durably) without their contribution.
Architects’ general capacity for outrage is a somehow laudable one, and we’ve seen it when the American Institute of Architects (AIA) only waited a few hours after the current US President’s election to declare its will to work in concert with his administration (see past article), or when architects were consulted to build the rest (many seem to forget that a third of it already exists!) of the militarized border wall between the US and Mexico; yet, the formulation of the outrage is at least as important than the outrage itself. Too often, this formulation occupies the space Western ideology leaves on purpose to its own critique in order to gain more legitimacy, and therefore ultimately reinforces that against what it claims to be fighting. As always when it comes to the architects’ contribution to carceral facilities, the question should be less about whether or not they should accept such commissions than to examine the ways through which architecture is almost always exclusively materializing the social order in which the carceral condition is not simply a part but also an unsurpassable dimension.
But this competition does not just allow us to wonder about architects’ responsibility in the enforcement of this social order; it also inadvertently allows us to ponder on what is humanitarianism. The very notion of “humanitarian Detention Center” that constitutes the explicit program of this competition could indeed appear to many as a contradiction in itself, a detention center being, by definition, at odds with the notion of humanitarianism. I however would like to insist that not only there is no contradiction contained in the association of these terms, but that the latter even expresses the core of Western militarized humanism. Humanitarianism does not consists in a political struggle against the violence of its structures. Rather, it claims to embody an apolitical position that mitigate this violence when, in fact, it makes this violence disappear from regimes of visibility, legitimizes it, and ultimately reinforces these structures to which it is fully part of. What these considerations for architects and humanitarians only leave as tenable option, is their contribution to the dismantlement of the social order and its violence that they materialize. In this regard, solidarity with political movements that aim at abolishing all forms of carceral institutions constitutes a good start.
Internazionaleeddyburg e ora qui tradotto interamente. E' un esortazione a superare la fobia per i migranti perchè "renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi".(i.b.)
La versione in inglese, precedentemente ripresa da eddyburg la trovate qui.
Il primo ottobre 1977, in piena notte, i miei genitori e le mie due sorelle e io c’imbarcammo su un aereo della Lufthansa in partenza da Bombay. Avevamo addosso dei vestiti nuovi, pesanti e scomodi, ed eravamo stati accompagnati da tutta la nostra famiglia allargata, che si era presentata all’aeroporto con tanto di luci e ghirlande. Avevamo tutti una macchia vermiglia sulla fronte. Andavamo negli Stati Uniti. Per procurarci i biglietti più economici, il nostro agente aveva organizzato un viaggio tortuoso con sbarco a Francoforte e volo interno fino a Colonia, per poi proseguire alla volta di New York. A Francoforte, il funzionario della dogana tedesca esaminò i passaporti indiani di mio padre, delle mie sorelle e il mio e ci mise un timbro. Poi alzò in aria il passaporto di mia madre con disgusto: “Lei non è autorizzata a entrare in Germania”, disse.
Era un passaporto britannico rilasciato ai cittadini di origine indiana nati in Kenya prima dell’indipendenza dal Regno Unito, come mia madre. Ma nel 1968 il parlamentare britannico Enoch Powell, del Partito conservatore, aveva fatto il suo celebre discorso sui “fiumi di sangue”, mettendo in guardia il suo paese dai pericoli che correva accogliendo le persone con la pelle scura o nera, e il parlamento aveva approvato una legge che privava sommariamente centinaia di migliaia di detentori di passaporti britannici dell’Africa orientale del diritto di vivere nel paese che gli aveva dato la nazionalità. Il passaporto non valeva letteralmente la carta su cui era stampato. Era diventato, di fatto, un marchio di Caino.
Il funzionario tedesco decise che, a causa del suo status incerto, mia madre poteva abbandonare il marito e i tre figlioletti, prendersi una pausa e vivere in Germania da sola. E così ci toccò partire direttamente da Francoforte. Sette ore e parecchi sacchetti per il mal d’aria più tardi, sbarcammo nella sala degli arrivi internazionali dell’aeroporto John F. Kennedy. Un grazioso mobile giallo, nero e arancione di Alexander Calder volteggiava sopra le nostre teste sullo sfondo di un’immensa bandiera degli Stati Uniti e tanti palloncini colorati punteggiavano il soffitto, ricordi di vecchi saluti.
Ogni arrivo nella nuova terra veniva festeggiato, perciò i palloncini salivano fino al soffitto per fare posto agli altri, più recenti. Davano speranza ai nuovi arrivati: tra qualche anno, con un po’ di fortuna e lavorando sodo, anche noi potremo salire quassù. Dritti fino al soffitto.
Per gran parte della nostra storia come specie, da quando ci siamo evoluti da cacciatori raccoglitori a pastori, noi esseri umani non siamo stati in sintonia con il movimento radicale e continuo reso possibile dalla modernità. Per lo più siamo rimasti in un unico luogo, nei nostri villaggi. Tra il 1960 e il 2015, il numero complessivo dei migranti è triplicato raggiungendo il 3,3 per cento della popolazione mondiale. Oggi le persone che vivono in un paese diverso da quello in cui sono nate sono 250 milioni, una su 30.
Se tutti i migranti fossero una nazione indipendente rappresenterebbero il quinto paese più grande del mondo. Nel ventunesimo secolo, la maggiore sfida per i paesi più ricchi del mondo è accogliere un afflusso di migranti estremamente vario. Ora che il cambiamento climatico e i conflitti politici scacciano un numero sempre più grande di persone dai villaggi e dalle zone di guerra del mondo, gli sfollati cercano rifugio in qualunque luogo. Pensate che cinque milioni di siriani siano un problema? Cosa succederà quando il Bangladesh sarà inondato e i suoi 18 milioni di abitanti dovranno cercare una terra asciutta?
Nello stesso tempo c’è stato un aumento drammatico della disuguaglianza economica. Oggi gli otto individui più ricchi del mondo – tutti uomini – hanno più di quanto possiede metà del pianeta, vale a dire 3,6 miliardi di persone messe insieme. La concentrazione di ricchezza porta anche a una concentrazione di potere politico e a un dirottamento dello sdegno per la disuguaglianza, che viene allontanato dalle élite per essere indirizzato contro i migranti. Quando i contadini inseguono i ricchi con i forconi, per i ricchi la cosa più sicura da fare è dire: “Non date la colpa a noi, ma a loro”, e indicare gli ultimi arrivati, i più deboli.
Qual è la diferenza tra rifugiato e migrante? È una scelta terminologica strategica da fare alla frontiera quando ti chiedono chi sei. L’etimologia è il destino. Se sei solo un migrante “economico” potresti essere rispedito indietro, ma potresti anche essere temuto se t’identificano come rifugiato. Che tu stia fuggendo da qualcosa o fuggendo verso qualcosa, sei comunque in fuga.
Il rifugiato, come ha detto il sociologo Zygmunt Bauman in un’intervista del 2010 al New York Times, porta con sé lo spettro del caos e dell’illegalità che lo hanno costretto ad abbandonare la patria. Porta con sé il disordine economico e politico che fu provocato dai paesi ricchi e ordinati quando si sbarazzarono della popolazione in eccesso scaricandola sulla colonie e poi si ritirarono, lasciando dietro di sé stati poco definiti. Ma il rifugiato soffre per la mancanza di uno stato. Non può
“tornare a casa”, perché la sua casa è stata distrutta da bande di criminali o dalla desertificazione. E così, portando sulle spalle il fardello del suo stato fallito, viene a bussare alle porte dell’occidente, e se ne trova una aperta s’infila dentro, non benvenuto ma a malapena tollerato.
Magari nel suo presunto paese era un chirurgo, ma qui è pronto a svolgere qualunque compito – come pulire le padelle in un ospedale dove è più qualificato di molti dottori – ma non potrà mai sperare di essere uno di loro perché la legge protegge la categoria dei medici dalle persone come lui. Dev’essere umile e sottomesso, rinunciare a chiedere una giusta parte della ricchezza del suo nuovo paese di residenza o qualunque tipo di diritto politico. Il massimo in cui può sperare è una certa sicurezza personale e la possibilità di spedire abbastanza soldi ai familiari in modo che possano mandare il figlio maggiore a una scuola privata vicino al campo profughi in cui aspettano l’occasione di riunirsi al padre, al fratello o al marito nella loro esistenza emarginata.
Nelle nazioni ordinate respingiamo il rifugiato perché è la somma delle nostre peggiori paure, il futuro incombente del ventunesimo secolo portato in forma umana alle nostre frontiere. Dal momento che nel paese da cui proviene non era necessariamente povero – forse un anno fa, prima che tutto cambiasse, era un uomo d’affari o un ingegnere – il rifugiato è il promemoria vivente del fatto che anche a noi potrebbe succedere la stessa cosa. Tutto potrebbe cambiare radicalmente e irrevocabilmente, all’improvviso.
L’occidente non viene distrutto dai migranti, ma dalla paura dei migranti. Eppure i paesi più ricchi del mondo non riescono a decidere cosa vogliono fare: vogliono certi emigranti e altri no. Nel 2006, il governo olandese cercò di rendersi sgradevole ai potenziali migranti musulmani e africani realizzando un film. Nei Paesi Bassi, con scene di coppie gay che si baciavano e donne in topless che prendevano il sole. Il film era un sussidio didattico per un esame d’ammissione che costava 433 dollari. Era obbligatorio per i migranti che arrivavano per ricongiungersi con i loro familiari, esclusi quelli che guadagnavano più di 54mila dollari all’anno o i cittadini di paesi ricchi come gli Stati Uniti. Il film mostrava anche i quartieri fatiscenti dove gli immigrati potevano ritrovarsi a vivere. C’erano interviste con immigrati che definivano gli olandesi “freddi” e “distanti”. Il film si dilungava sugli ingorghi di traffico, i problemi per trovare lavoro e gli allagamenti periodici.
Nel 2011 la città di Gatineau, in Québec, pubblicò una “dichiarazione di valori” in cui metteva in guardia i nuovi immigrati dagli “odori forti emanati dalla cucina”, che potevano disturbare i canadesi. La dichiarazione informava anche i migranti che in Canada non si potevano corrompere i funzionari pubblici e che era meglio presentarsi puntuali agli appuntamenti. Faceva seguito a una guida pubblicata da un’altra cittadina del Quebec, Hérouxville, in cui si avvertiva che lapidare a morte qualcuno in pubblico era espressamente vietato. L’ammonizione fu tenuta in debito conto dall’unica famiglia di immigrati della cittadina, che si astenne dal lapidare le sue donne in pubblico.
In Germania, la “cultura di accoglienza” è cambiata nell’arco di una sola stagione, dal settembre di espiazione del 2015, con l’apertura delle frontiere, al “rifugiati stupratori andate a casa” dopo le molestie di Colonia del capodanno dello stesso anno. Di tutti i profughi, quello che spaventa di più è il migrante maschio senza una donna, con gli occhi che divorano famelicamente la carne nuda della donna bianca. Le parole usate dalla stampa popolare o dai politici di destra per descrivere questi afgani o marocchini sono simili alla terminologia impiegata per definire i neri negli Stati Uniti all’inizio del novecento: pervertiti affamati di sesso. Nel 1900, il senatore Benjamin Tillman del South Carolina dichiarò nell’aula del senato federale: “Non abbiamo mai creduto che un nero fosse uguale a un bianco, e non accetteremo di vedergli soddisfare la sua lussuria sulle nostre mogli e le nostre figlie senza linciarlo”.
Avanti veloce fino al 2017: “La Svezia ha accolto più giovani migranti maschi pro capite di ogni altro paese d’Europa”, ha detto a febbraio Nigel Farage, parlamentare europeo britannico. “E in Svezia c’è stato un aumento drammatico dei reati sessuali, tanto che Malmö oggi è la capitale europea degli stupri”. Questa affermazione è stata immediatamente smentita: nel 2015, l’anno in cui la Svezia ha accolto un numero record di richiedenti asilo, i reati sessuali erano diminuiti dell’11 per cento rispetto all’anno prima. È vero che esistono storie orribili di bande organizzate di stupratori con una storia di emigrazione alle spalle, ma non ci sono prove che gli immigrati complessivamente commettano stupri o furti in percentuali superiori a quelle del resto della popolazione. Le foto segnaletiche di criminali con la pelle scura, che siano marocchini o messicani, in qualche modo suscitano più paura nell’immaginario occidentale di quelle dei violentatori bianchi di casa nostra. È una paura primigenia, tribale: vengono per le nostre donne.
Mossi da questo terrore, gli elettori scelgono, in un paese dopo l’altro, leader che fanno danni a lungo termine incalcolabili: Donald Trump negli Stati Uniti, Viktor Orbán in Ungheria, Andrzej Duda e il suo partito Diritto e giustizia in Polonia. È stata la paura dei migranti che ha spinto gli elettori britannici a votare per la Brexit, il più grande autogol della storia del paese. La fobia dei migranti può essere la minaccia più grave per la democrazia. Si pensi alla Germania di Angela Merkel, con la sua economia fiorente e le sue istituzioni democratiche, e poi si guardi alla vicina Polonia, con un partito di governo che ha appena cercato di mettere sotto controllo la magistratura, o all’Ungheria, dove Orbán ha distrutto la stampa libera. Questo confronto dimostra che quando i paesi tutelano i diritti delle loro minoranze tutelano anche, come effetto collaterale, quelli delle maggioranze. È vero anche il contrario: quando non salvaguardano i diritti delle minoranze, sono in pericolo anche i diritti di tutti gli altri.
L’estate scorsa sono andato in macchina fino alla frontiera tra Ungheria e Serbia con un volontario di
un’organizzazione religiosa che fornisce aiuti ai profughi. Ero in Ungheria da una settimana. In tutto il paese c’erano manifesti blu con domande come: “Lo sapevi? Dall’inizio della crisi dell’immigrazione, in Europa più di trecento persone sono morte a causa di attacchi terroristici”, “Lo sapevi? Bruxelles vuole trasferire in Ungheria l’equivalente di un’intera città di immigrati”, “Lo sapevi? Dall’inizio della crisi dell’immigrazione, in Europa le molestie alle donne sono sensibilmente aumentate”. Il governo invitava i suoi cittadini a votare in un referendum per respingere la quota di rifugiati assegnata all’Ungheria dall’Unione europea nel 2016: 1.294 per un paese di quasi dieci milioni d’abitanti.
Dopo aver attraversato il confine con la Serbia a Röszke, abbiamo passato quattro ore a cercare di raggiungere il gruppo di tende che avevamo visto vicino alla frontiera, proprio accanto all’autostrada. Abbiamo guidato su strade sterrate nella campagna spopolata, superando frutteti di mele, pesche e prugne. Dal finestrino della macchina ho staccato da un ramo una prugna viola. Non era ancora perfettamente matura. Una donna ci ha detto quale strada prendere per “l’accampamento pachistano”. Abbiamo percorso un sentiero pieno di buche accanto all’autostrada e siamo arrivati. Era uno slum sudasiatico improvvisato, ma con tende da campeggio invece di fogli di plastica, proprio come al festival musicale di Sziget da cui ero appena arrivato. Il festival era pieno di ragazzi, fiori dell’Europa
bianca, che pagando un ingresso di 363 dollari a testa potevano godersela per un’intera settimana in una città di tende tutta per loro. Anche nell’accampamento c’erano dei ragazzi, ma più piccoli e scuri: preadolescenti e bambini in fuga con le loro famiglie. Giocavano a cricket nell’immondizia. Usare il bagno al posto di frontiera costava un euro, così le persone nella lunga fila di macchine in attesa di varcare il confine usavano i cespugli che erano le case provvisorie dei migranti, dove loro dormivano e mangiavano aspettando che le porte d’Europa si aprissero.
Abbiamo aperto il bagagliaio della macchina e distribuito bottiglie d’acqua, cioccolata, calzini e biancheria. Degli uomini si sono avvicinati e quando hanno capito che ero indiano hanno scosso la testa e si sono messi a parlarmi in urdu del loro viaggio. Uno di loro veniva dalla città pachistana di Lahore. Era lì da pochi giorni. Gli ungheresi non lo lasciavano passare anche se non voleva restare nel paese, ma andare in Germania o in Svezia. I serbi non lo lasciavano tornare in Macedonia. “È chiuso davanti ed è chiuso dietro”, mi ha detto. Si è accostata una grande auto nera da cui sono scesi due grossi poliziotti serbi vestiti di nero. “Per favore, andatavene”, ci hanno detto: non avevamo un permesso ufficiale per visitare l’accampamento. Ci hanno ricordato che gli ungheresi erano peggio dei serbi: “Hanno droni e videocamere” per monitorare l’accampamento dall’altro lato della frontiera.
Per i pochi rifugiati che riescono a superare la recinzione non c’è nessuna terra promessa. In quei mesi, qualunque migrante sorpreso a una distanza di meno di otto chilometri dalla frontiera veniva arrestato e deportato. Da allora questa disposizione è stata estesa a tutti i migranti fermati in Ungheria. Nel novembre del 2015 Orbán ha dichiarato: “Tutti i terroristi sono fondamentalmente immigrati”. Come tante altre dichiarazioni uscite dalla sua bocca, anche questa è falsa: molti responsabili di atti di terrorismo, in Europa e altrove, appartengono alla popolazione nativa del luogo, come Timothy McVeigh e Anders Behring Breivik. Otto mesi dopo, Orbán ha capovolto la dichiarazione ampliandola: tutti i migranti sono terroristi. “Ogni singolo migrante rappresenta un rischio per la sicurezza pubblica e per il terrorismo”. Un prerequisito essenziale per negare l’ingresso ai migranti è presupporre un dualismo, uno scontro di civiltà, in cui una è nettamente superiore all’altra.
A luglio, il presidente statunitense Donald Trump ha fatto un discorso in Polonia su ciò che caratterizza la civiltà occidentale: “Oggi, l’occidente deve misurarsi anche con le potenze che cercano di mettere alla prova la nostra volontà, di minare la nostra fiducia e di sfidare i nostri interessi. Il mondo non ha mai conosciuto nulla di simile alla nostra comunità di nazioni. Noi scriviamo sinfonie. Noi promuoviamo l’innovazione. Noi celebriamo i nostri antichi eroi, le nostre tradizioni e i nostri costumi senza tempo, e cerchiamo sempre di esplorare e scoprire nuove frontiere. Noi premiamo il talento. Noi aspiriamo all’eccellenza e amiamo le grandi opere d’arte che onorano dio. Noi abbiamo a cuore lo stato di diritto e proteggiamo la libertà di parola e d’espressione. Noi diamo forza alle donne in quanto pilastri della nostra società e del nostro successo. Noi mettiamo la fede e la famiglia – non il governo e la burocrazia – al centro della nostra vita. E soprattutto, noi apprezziamo la dignità di ogni vita umana, proteggiamo i diritti di ogni persona e condividiamo la speranza di ogni anima di vivere nella libertà. Ecco quello che siamo. Questi sono i legami inestimabili che ci uniscono come nazioni, come alleati e come civiltà”.
Evviva la civiltà occidentale, che ha dato al mondo il genocidio dei nativi americani, la schiavitù, l’inquisizione, l’olocausto, Hiroshima e il riscaldamento globale. Quanto è ipocrita il dibattito sull’immigrazione. I paesi ricchi si lamentano a gran voce della migrazione da quelli poveri. Ecco com’è stato truccato il gioco: prima ci hanno colonizzato, hanno rubato i nostri tesori e ci hanno impedito di costruire le nostre industrie. Dopo averci saccheggiato per secoli, se ne sono andati disegnando le mappe in modo da assicurare una conflittualità permanente tra le nostre comunità. Poi ci hanno portato nei loro paesi come lavoratori ospiti, ma ci hanno scoraggiato dal portare le nostre famiglie. Dopo aver costruito le loro economie con le nostre materie prime e la nostra manodopera, ci hanno chiesto di tornarcene a casa e si sono stupiti quando non lo abbiamo fatto. Hanno rubato i nostri minerali e corrotto i nostri governi così le loro multinazionali potevano continuare a depredare le nostre risorse; hanno insozzato l’aria sopra di noi e le acque intorno a noi, rendendo brulle le nostre fattorie e privi di vita i nostri oceani; ed erano pieni di orrore quando i più poveri tra noi sono arrivati alle loro frontiere, non per rubare ma per lavorare, per pulire la loro merda e scopare i loro uomini.
Eppure avevano bisogno di noi. Avevano bisogno di noi per aggiustare i loro computer, guarire i loro malati e insegnare ai loro bambini, perciò hanno preso i migliori e i più brillanti di noi, quelli che erano stati istruiti a caro prezzo dagli stati in difficoltà da cui provenivano e ci hanno di nuovo sedotto a lavorare per loro. Oggi ci chiedono di nuovo di non venire, per quanto disperati e affamati ci abbiano fatto diventare, perché i più ricchi tra loro hanno bisogno di un capro espiatorio. Ecco come viene truccato il gioco ora.
Nel 2015 Shashi Tharoor, l’ex sottosegretario generale dell’Onu per le comunicazioni e la pubblica informazione, fece un trascinante discorso alla Oxford Union per sostenere la causa delle riparazioni (simboliche) dovute all’India dal Regno Unito. “Quando i britannici sbarcarono sulle sue sponde, la quota dell’India nell’economia mondiale era il 23 per cento. Quando se ne andarono, era scesa a meno del 4 per cento. Perché?”, chiese. “Semplicemente perché l’India era stata governata nell’interesse del Regno Unito. La crescita del Regno Unito è stata finanziata per duecento anni
dalla spoliazione dell’India”. Il discorso di Tharoor mi ha ricordato un episodio, una volta che mio nonno era seduto in un parco alla periferia di Londra. Un anziano inglese si avvicinò a lui agitando un dito: “Perché sei qui?”, chiese l’uomo. “Perché sei nel mio paese?”. “Noi siamo i creditori”, rispose mio nonno, che era nato in India, aveva passato la sua vita lavorativa in Kenya e ora era in pensione a
Londra. “Voi vi siete presi tutta la nostra ricchezza, i nostri diamanti. Ora siamo venuti a incassare”.
“Se credi di essere un cittadino del mondo, non sei cittadino di nessun posto”, ha proclamato la prima ministra britannica Theresa May nell’ottobre 2016. Ma è solo dall’inizio del novecento che apparve la moderna e contorta superstruttura di passaporti e visti, in un pianeta dove la porosità delle frontiere era stata una realtà per un numero incalcolabile di anni. La migrazione è come il tempo atmosferico: la gente si sposta dalle zone di alta pressione a quelle di bassa pressione. Perciò continueranno ad arrivare, in barca e in bicicletta, che lo vogliate o no. Perché sono i creditori.
Perché messicani, guatemaltechi, honduregni e salvadoregni vogliono disperatamente trasferirsi a nord, ndare nelle città degli Stati Uniti per lavorare come lavapiatti e donne delle pulizie? Perché gli americani gli vendono i fucili e gli comprano la droga. Nei loro paesi i dati sugli omicidi sono quelli di una guerra civile. Perciò si spostano verso la causa della loro miseria: anche loro sono i creditori. Se non volete che si trasferiscano da voi, non comprate la droga.
Perché i siriani partono? Non per le luci di Broadway o il fascino primaverile di Unter den Linden. È perché l’occidente – e in particolare gli statunitensi e i britannici – ha invaso l’Iraq, una guerra illegale e non necessari che ha aggravato quattro anni di siccità legata al riscaldamento globale e messo in moto il processo che ha distrutto l’intera regione. Hanno mietuto ciò che l’occidente ha seminato. Se la giustizia esistesse, gli Stati Uniti sarebbero obbligati ad accogliere tutti gli arabi sfollati dalle loro case. I 648 ettari del ranch della famiglia Bush in Texas sarebbero pieni di tende per ospitare iracheni e siriani. Chi rompe paga.
Ma gli ospiti che portano il peso maggiore sono quelli che hanno avuto un ruolo molto minore degli Stati Uniti nel creare il problema. Nel 2016 il Libano, con una popolazione di 6,2 milioni di abitanti, ha ospitato più di un milione e mezzo di rifugiati. L’84 per cento dei profughi si trova nel mondo in via di sviluppo. L’amministrazione Trump ha preso misure per ridurre il numero dei profughi da accogliere negli Stati Uniti da 110mila a 50mila nel 2017 e potrebbe tagliare ulteriormente il programma l’anno prossimo. Invece la Turchia, con una popolazione che è il 25 per cento di quella statunitense, ha più di tre milioni di siriani registrati all’interno delle sue frontiere.
Il sogno di ogni migrante è vedere un ribaltamento della situazione, con lunghe file di statunitensi e britannici davanti all’ambasciata del Bangladesh, del Messico o della Nigeria per implorare un permesso di soggiorno. Il mio mentore, il grande scrittore di lingua kannada U.R. Ananthamurthy, una volta fu invitato in Norvegia per fare un discorso a un festival di letteratura. Ma il governo norvegese non gli diede un visto fino all’ultimo momento, pretendendo che fornisse certificati, dichiarazioni bancarie e prove circostanziate per dimostrare che non intendeva restare nel paese. Quando finalmente arrivò a Oslo, l’ambasciatore indiano diede una festa in suo onore. “Per i norvegesi è facile ottenere un visto indiano?”, chiese Ananthamurthy all’ambasciatore. “Oh sì, facciamo in modo che sia molto semplice”. “Perché?”, obiettò lo scrittore. “Rendetelo difficile!”.
La mia famiglia ha girato tutta la Terra – dall’India al Kenya all’Inghilterra agli Stati Uniti e di nuovo in India – e si sta ancora spostando. Uno dei miei nonni lasciò le campagne del Gujarat per Calcutta ai bei tempi del novecento; l’altro mio nonno, che viveva a mezza giornata di viaggio con un carro da buoi, partì poco dopo per Nairobi. A Calcutta, il mio nonno paterno si mise a fare il gioielliere insieme al fratello maggiore; a Nairobi, il mio nonno materno cominciò la sua carriera, a 16 anni, spazzando il pavimento dell’ufficio di contabilità dello zio. Così ebbe inizio il viaggio della mia famiglia dal villaggio alla città. Era, me ne rendo conto adesso, meno di cento anni fa.
Il discorso di Enoch Powell nel 1968 prendeva di mira le persone come i miei familiari: asiatici estafricani che stavano cominciando a migrare nel paese di cui erano cittadini. Prevedeva la rovina per un Regno Unito tanto sciocco da accoglierli: “È come vedere una nazione attivamente impegnata nell’erigere la propria pira funeraria. Guardando al futuro, sono pieno di presagi. Come un antico romano, mi sembra di vedere ‘il Tevere che schiuma sangue’”.
Mezzo secolo dopo, il Tamigi non sta schiumando sangue. Di fatto è vero il contrario. Quella dei rifugiati asiatici estafricani – cristiani, indù, musulmani, parsi e sikh – è una delle comunità di qualunque colore più ricche del Regno Unito; i loro successi nell’istruzione hanno superato quelli dei nativi bianchi. Neanche l’Hudson schiuma sangue. “Negli ultimi dieci anni, la crescita della popolazione, immigrazione compresa, ha rappresentato circa la metà del tasso di crescita economica potenziale degli Stati Uniti, contro appena un sesto in Europa e niente in Giappone”, spiega sul New York Times l’analista Ruchir Sharma. “Se non fosse per la spinta che viene da bambini e immigrati, l’economia degli Stati Uniti ricorderebbe molto quella di Europa e Giappone, che consideriamo lenti
come tartarughe”.
I paesi che accolgono gli immigrati, come il Canada, se la cavano meglio di altri che non li accettano, come il Giappone. Ma che Trump, May o Orbán lo vogliano o no, gli immigrati continueranno ad arrivare, per cercare la felicità e una vita migliore per i loro figli. Alle persone che hanno votato per loro dico: non abbiate paura dei nuovi arrivati. Molti sono giovani e pagheranno le pensioni degli anziani che vivono sempre più a lungo. Porteranno con sé l’energia, perché nessuno ha più iniziativa di chi ha lasciato una casa per compiere un lungo e difficile viaggio fin qui, legalmente o meno. E se avranno le opportunità più basilari si comporteranno meglio dei giovani dei paesi in cui si trasferiscono. Creeranno posti di lavoro. Cucineranno, danzeranno e scriveranno in modi nuovi e stimolanti. Renderanno più ricchi i loro nuovi paesi, in tutti i sensi. L’armata di migranti che sta arrivando sulle vostre sponde in realtà è una lotta di salvataggio.
Internazionale articoli per comprendere adici storiche e politiche delle divisioni etniche, nonché una forte povertà da entrambe le parti rendono la crisi birmana molto complessa
EREDITA' COLONIALE di Lee Jones
Negli ultimi due mesi quasi 600mila musulmani rohingya sono scappati da una persecuzione cruenta nello stato birmano del Rakhine, rifugiandosi in Bangladesh. Gli osservatori occidentali, inorriditi, hanno avuto reazioni in gran parte moralistiche, ma alcuni hanno sottolineato i fattori economici alla base delle violenze. Hanno ragione, ma sarebbe semplicistico ridurre la crisi agli interessi legati alla terra o all’intolleranza religiosa.
Lo scontro tra buddisti e musulmani per la terra e le risorse nello stato del Rakhine non è una novità. Dal quattrocento al settecento in questa regione ci furono ripetuti conlitti tra gli imperi musulmani che si espandevano da ovest e il regno buddista di Mrauk U, nell’Arakan (Rakhine). Questi conflitti terminarono solo nel 1785, quando la regione fu conquistata dal regno di Birmania. Fu però soprattutto il colonialismo britannico (1824-1948) a gettare i semi della crisi attuale. La Birmania faceva parte dell’impero britannico e fu meta di grandi migrazioni dal subcontinente indiano.
I britannici incoraggiarono in particolare i bengalesi a migrare in Birmania per far fronte alla carenza di manodopera o per il lavoro nelle piantagioni. Nel distretto di Akyab (oggi Sittwe), per esempio, dal 1871 al 1911 la popolazione musulmana triplicò, mentre quella rakhine, buddista, aumentò di appena un quinto. Comprensibilmente, quindi, nella memoria culturale dei rakhine c’è la percezione di essere stati “travolti” dagli “immigrati musulmani”.
Più in generale, l’immigrazione verso la Birmania raggiunse il livello massimo nel 1927, con 480mila nuovi arrivi su una popolazione di 13 milioni di persone. a quel tempo gli abitanti di etnia indiana avevano ormai assunto posizioni di rilievo nell’economia del paese, non solo come braccianti nell’agricoltura ma anche come professionisti qualificati, commercianti e finanzieri. Durante la crisi economica degli anni trenta, molti contadini indebitati con gli usurai indiani fallirono e gli indiani diventarono grandi proprietari terrieri.
La risposta a questo rapido afflusso demografico fu una forma di nazionalismo economico con connotazioni razziali che resiste ancora oggi. È un fenomeno non tanto diverso dal nazionalismo xenofobo che ha accompagnato talvolta l’immigrazione di massa per motivi economici neipaesi occidentali. Scoppiarono rivolte contro gli indiani nel 1930 e 1931 e in particolare contro i musulmani nel 1926 e nel 1938. Queste ultime furono guidate dalla maggioranza etnica bamar e non interessarono il Rakhine. Solo nel 1942, dopo che il Regno Unito fu sconitto dalle forze d’invasione giapponesi, nella regione scoppiarono scontri tra le diverse comunità. Le milizie rakhine sfruttarono il conflitto per vendicarsi dei loro nemici musulmani, costringendo decine di migliaia di persone a riparare in India. Come se non bastasse, i britannici armarono le forze volontarie rohingya, ufficialmente per attaccare le forze d’occupazione giapponesi; in realtà, però, spesso i gruppi armati volontari attaccarono gli insediamenti rakhine, le pagode e i monasteri buddisti. I rohingya, inoltre, accompagnarono la riconquista britannica del Rakhine, in seguito alla quale i gruppi rakhine furono repressi con la forza.
Con la decolonizzazione, i musulmani di ritorno temettero giustamente di essere accorpati allo stato birmano postcoloniale e organizzarono una rivolta (mujahid) a favore dell’annessione del Rakhine settentrionale al Pakistan orientale, scatenando una serie di operazioni di controinsurrezione dell’esercito birmano per tutti gli anni cinquanta. Un’eredità fondamentale di questi spostamenti di popolazioni causati dal secondo conflitto mondiale e dai successivi disordini è che i musulmani che via via tornarono nel Rakhine furono bollati come “immigrati clandestini bengalesi”.
Questa storia complessa e drammatica è il motivo per cui i rohingya (termine diventato comune solo dopo l’indipendenza della Birmania) non sono tra le 135 minoranze etniche ufficialmente riconosciute e sono classificati come “bengalesi”.
Nazionalismo economico
Data l’esperienza del colonialismo britannico, non sorprende che il nazionalismo popolare birmano abbia avuto in dall’inizio un tono fortemente razzista, in particolare nei confronti dei cosiddetti kalar, gli “intrusi” dalla pelle scura provenienti dal subcontinente indiano. L’obiettivo fondamentale del governo dopo l’indipendenza fu la birmanizzazione dell’economia, dominata dagli stranieri. Memore del trauma degli anni trenta, nel 1953 il governo nazionalizzò la terra e vietò l’affitto privato agli agricoltori (divieto che in larga misura rimane ancora oggi), sradicando quel che restava della classe dei proprietari terrieri indiani.
La birmanizzazione culminò nella nazionalizzazione di 15mila imprese dopo il colpo di stato militare del 1962, che spinse tra i 125mila e i 300mila birmani di etnia indiana ad abbandonare il paese. Questi si aggiunsero ai 400mila indiani, britannici e anglobirmani già evacuati durante la decolonizzazione. Il movimento 969, nato dopo il 2011, che incoraggia i buddisti a boicottare le imprese musulmane, è solo l’ultimo rigurgito di questo nazionalismo economico xenofobo.
La colonizzazione lasciò anche profondi traumi religiosi. Dopo aver causato la perdita della sovranità indigena e l’afflusso dei musulmani, i britannici si rifiutarono di assolvere ai tradizionali doveri del potere sovrano buddista – per esempio quello di nominare gli abati – favorendo la crescita delle attività dei missionari cristiani e provocando una profonda crisi culturale tra i buddisti. La restaurazione del buddismo diventò così un elemento centrale del nazionalismo bamar, e sia la religione sia la cultura bamar diventarono elementi dominanti degli sforzi di ricostruzione postcoloniale, mentre le minoranze etniche e religiose furono sempre più marginalizzate.
Oggi molti buddisti in Birmania sono sinceramente convinti che, come nel periodo coloniale, la loro religione e la loro cultura siano minacciate da un’“onda anomala” di immigrazione musulmana. L’Indonesia, che ha avuto imperi buddisti e indù, è spesso spesso citata come esempio di quello che potrebbe succedere in Birmania se non saranno prese contromisure drastiche. In realtà questi timori non hanno alcuna base oggettiva: solo il 3 per cento della popolazione birmana è musulmana, contro circa l’89 per cento di buddisti. ma la cosa è irrilevante, perché la maggior parte della gente è condizionata da anni di propaganda del governo, cattiva istruzione e deferenza generalizzata verso i monaci buddisti, alcuni dei quali hanno fomentato l’islamofobia. Del resto, la paura di essere culturalmente travolti non è nuova, e non è legata solo alla transizione “democratica” cominciata dopo il 2010. Ci sono state rivolte antimusulmane anche durante il regime militare, nel 1997 e nel 2001, e il famigerato monaco nazionalista Ashin Wirathu, esponente del maBatha, l’associazione per la tutela della razza e della religione, è stato arrestato per istigazione alla violenza nel 2003.
Questa vicenda spiega perché oggi ci sia un difuso consenso per il maBatha, per le leggi sulla tutela della razza e della religione (che discriminano i musulmani) e per la pulizia etnica condotta dall’esercito birmano nel Rakhine. e spiega perché, politicamente, Aung San Suu Kyi ha uno spazio di manovra così limitato, anche se bisogna dire che non ha fatto quasi nulla per smontare queste pericolose leggende o per favorire l’armonia tra le diverse comunità. Anzi, L’uso del termine “bengalesi” da parte dei suoi collaboratori, i suoi commenti passati sul “potere globale musulmano” e l’epurazione dei candidati musulmani dalle liste elettorali dell’Nld nel 2015 fanno pensare aun certo pregiudizio antimusulmano.
L’espulsione originaria alla base delle continue persecuzioni dei rohingya (e più in generale degli attacchi antimusulmani) c’è un intreccio di fattori materiali e ideologici che vanno oltre la questione superficiale e a breve termine dell’appropriazione della terra. molti musulmani sono guardati con sospetto per il solo fatto di essere associati al colonialismo e alla rivolta mujahit. Dopo la ine del colonialismo, anche se il termine “rohingya” veniva usato nei circoli ufficiali, i rohingya non furono mai riconosciuti come uno dei gruppi etnici ufficiali della Birmania. All’inizio avevano il diritto di voto e alcuni di loro furono eletti in parlamento (uno diventò anche viceministro). Poi però, con l’ascesa del nazionalismo buddista bamar e le crescenti resistenze delle minoranze etniche contro l’omologazione (che portarono allo scoppio di una delle guerre civili più lunghe del nostro tempo), lo stato diventò sempre più ostile verso i musulmani.
Nel 1962 l’esercito espulse i soldati musulmani. Nel 1977 si diffuse la voce che molti “bengalesi” avevano approfittato dei blandi controlli alla frontiera per attraversare il confine dal Pakistan orientale (Bangladesh dal 1971) ed entrare nel Rakhine: il regime appoggiato dai militari reagì ordinando una serie di operazioni di “pulizia” alla vigilia del censimento nazionale e rimpatriando in Bangladesh 200mila musulmani.
Poi, sulla base della nuova legge sulla cittadinanza del 1982, i rohingya furono gradualmente privati dei loro diritti. Spesso non potevano nemmeno dimostrare di essere residenti in Birmania, anche perché i documenti ufficiali erano stati distrutti e loro erano stati costretti a rimpatriare con la forza. Dopo il 1988, quando i rohingya assunsero un ruolo di primo piano nel movimento per la democrazia sperando di recuperare i loro diritti, furono ancora una volta vittime di una violenta repressione, che nel 1992 provocò un nuovo esodo di 250mila persone verso il Bangladesh.
In tutto questo bisogna distinguere la posizione dei rakhine buddisti, che si considerano “vittime” sia del numero crescente di “immigrati clandestini bengalesi” (anche se il rapporto è ancora di due a uno a loro favore) sia del governo centrale a maggioranza bamar. Il Rakhine è il secondo stato più povero della Birmania, e il poco sviluppo che c’è stato si deve a una manciata di megaprogetti – che non creano occupazione a livello locale e i cui benefici sono monopolizzati dal regime e dagli investitori stranieri – o alla crescita di un’industria ittica con alti tassi di sfruttamento. In alcuni villaggi del Rakhine le condizioni non sono molto diverse da quelle dei campi profughi dove vivono molti rohingya. In una situazione di scarsità di risorse e di forte competizione economica, i rakhine guardano con risentimento all’attenzione che l’occidente riserva ai rohingya e percepiscono come “di parte” le donazioni e i finanziamenti stranieri. Questo spiega gli attacchi ai camion degli aiuti e le proteste contro le sedi dei donatori, considerati colpevoli di aver offeso il buddismo.
Con la transizione democratica cominciata nel 2011 i rakhine hanno colto l’occasione per organizzarsi politicamente, conquistando la maggioranza all’assemblea dello stato. Molti hanno appoggiato le brutali azioni dell’esercito e della polizia come forma di rivalsa contro i loro avversari, e hanno approfittato dei disordini per occupare i terreni coltivati dai rohingya. Alcuni, invece, sono scappati con i rohingya, a riprova della disperazione e della povertà condivise. Non è un caso che condizioni così straordinariamente difficili abbiano scatenato la violenza di entrambe le comunità. Le prime milizie rakhine antimusulmane si formarono negli anni quaranta; oggi ne sono attive tre, ognuna delle quali promuove l’“autodeterminazione” del Rakhine e rifiuta i rohingya in quanto “bengalesi”. anche i rohingya hanno più volte preso le armi, e il vero mistero è come mai l’Arakan Rohingya Salvation Srmy (Arsa) abbia impiegato tanto a formarsi di fronte a simili persecuzioni e violenze. Gli attacchi dell’Arsa ai posti di polizia e contro l’esercito birmani – l’ultimo dei quali, alla fine di agosto, ha provocato l’offensiva armata che ha provocato l’attuale esodo dei rohingya – sono atti disperati di uomini armati di catapulte e “pistole” di legno.
Insomma, anche se le semplici motivazioni economiche non vanno sottovalutate, il quadro politico ed economico dietro l’attuale crisi è molto più complesso. Come per altri conflitti etnici nel paese, le tensioni sono il riflesso della crisi da cui è nato lo stato birmano. La Birmania è stata fondata senza un vero consenso dei vari gruppi etnici sulla natura dello stato o sull’organizzazione del potere e la divisione delle risorse. Gli sciovinisti bamar buddisti, impreparati a fare le concessioni necessarie per assicurarsi la partecipazione degli altri gruppi alla costruzione dello stato, hanno cercato di imporre la loro visione con la forza, aprendo la strada a una serie di scontri nelle zone di confine. I rohingya sono quelli che hanno sofferto di più, perché si sono visti negare anche lo status di minoranza. Mentre lo stato bamar cerca di accorpare con la forza i gruppi etnici riconosciuti all’interno dell’Unione birmana, fa di tutto per espellere con la forza i rohingya.
Il campo profughi di Balukali, Cox’s Bazar, 2 ottobre 2017
Fonte: Internazionale 1128
LA FINE DELLA FAVOLA BIRMANA di Thant Myint-U Finalcial Time
Oggi la situazione in Birmania è preoccupante, come non accadeva dai giorni più bui della dittatura militare. L’attenzione di tutto il mondo si è giustamente concentrata sulla crisi dei rohingya e sulle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga, uno dei più grandi esodi di profughi dalla seconda guerra mondiale.
Il peggio potrebbe non essere finito. I bisogni essenziali sono tutt’altro che soddisfatti e non si è ancora cominciato a parlare seriamente di un possibile ritorno dei profughi né di un’inchiesta sulle violazioni dei diritti umani. C’è la possibilità che i paesi occidentali rispondano con sanzioni mirate. anche se non sono state imposte sanzioni formali, l’interesse degli investitori stranieri e il numero di turisti subiranno di sicuro un crollo. Questo in un momento in cui la fiducia degli investitori locali è debole e il settore bancario instabile.
Presto milioni di persone tra le più povere dell’Asia potrebbero dover affrontare un futuro drammatico. Il minimo peggioramento economico minaccerà direttamente il processo di pace in Birmania, già molto fragile. Nel paese sono attivi una ventina di “gruppi etnici armati”, il più grande dei quali conta più di 20mila uomini, e centinaia di milizie locali. Negli ultimi anni in più occasioni ci sono stati scontri violenti e lungo i confini con la Thailandia e la Cina vivono quasi 500mila sfollati.
La crescita economica da sola non sarà sufficiente a portare la pace, ma senza la spinta di un’economia inclusiva e in rapida crescita il processo di pace esaurirà il suo slancio. L’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), responsabile degli attacchi che lo scorso agosto hanno scatenato l’ultima ondata di violenze, potrebbe potrebbe colpire ancora. In uno scenario ancora peggiore, i gruppi jihadisti internazionali potrebbero prendere di mira le città della Birmania centrale, dove altri due milioni di musulmani non rohingya vivono in pace, almeno per il momento, con i loro vicini buddisti, indù e cristiani. Il terrorismo importato dall’estero potrebbe innescare nuove violenze tra le diverse comunità, con conseguenze devastanti.
Molti in occidente hanno visto per decenni la Birmania quasi esclusivamente attraverso le lenti di una lotta tra il movimento per la democrazia, guidato da Aung San Suu Kyi, e una giunta militare senza volto. Pochi si sono sforzati di comprendere la profondità e le complessità delle sfide del paese o hanno cercato di trovare una soluzione pragmatica. I fallimenti nella gestione del potere hanno avuto un costo politico minimo. Nel paese circola il mito della Birmania come una nazione ricca che ha sbagliato, di un’epoca d’oro non troppo lontana rovinata da dittatori militari. Il corollario di tutto questo è che un unico cambiamento, per esempio la nascita di un governo democratico, basti a sprigionare il potenziale del paese e a restituirgli il posto che gli spetta tra i più ricchi della regione. Non c’è traccia di un vero programma di modernizzazione. Si tende a sorvolare sugli effetti di vent’anni di sanzioni, trent’anni di isolamento volontario, cinquant’anni di governo autoritario, settant’anni di guerre interne e più di un secolo di colonialismo. Ovunque si vedono le conseguenze di decenni in cui la spesa pubblica per la sanità e l’istruzione è stata cancellata. Le tendenze xenofobe sono radicate in tutti gli schieramenti politici. Le istituzioni statali sono fragilissime e in molte parti del paese quasi assenti. Di sicuro alcune cose sono migliorate negli ultimi anni: la vita politica oggi è più libera rispetto a qualsiasi momento negli ultimi cinquant’anni e si sta almeno tentando di compiere una transizione dalla dittatura militare a un governo quasi democratico. Nessuno vuole tornare all’isolamento. ma l’insieme delle side che oggi il paese ha di fronte è così imponente che è difficile capire come questa tendenza positiva possa sopravvivere.
Senza lungimiranza
Non si tratta solo del processo di pace, dell’economia e della crisi dei rohingya. Migrazioni, urbanizzazione, cambiamento climatico e la rivoluzione delle telecomunicazioni stanno ridefinendo la società birmana. I rapporti con la Cina sono in una fase critica, con la possibilità che enormi progetti infrastrutturali ridisegnino la geografia del paese. al contempo quasi nessuno si sofferma sul quadro a lungo termine.
Pensiamo allo stato del Rakhine settentrionale, che oggi è teatro di violenze e domani potrebbe essere il luogo dove torneranno i profughi: cosa sarà tra dieci o quindici anni? Una fermata lungo la nuova autostrada tra Cina e India? O sarà sommerso a causa del cambiamento climatico?
Perfino un governo esperto e aiutato da tecnocrati preparati avrebbe difficoltà a gestire ciò che la Birmania sta affrontando, per non parlare dei possibili progetti per il futuro. Il mondo fa bene a dare
priorità alla crisi in corso. ma è altrettanto importante liberare il campo una volta per tutte dalla favola birmana e capire che lavorare in questo paese significa avere a che fare con uno stato quasi fallito. Bisogna raddoppiare gli sforzi per valorizzare le risorse del paese, soprattutto attraverso investimenti nella sanità e nell’istruzione; e, cosa forse più importante, contribuire a trasmettere un’idea di futuro nuova e positiva. Altrimenti la crisi di oggi sarà solo la prima di una lunga serie.
IL GRANDE ESODO di Francis Wade
Due anni fa, in un villaggio pochi chilometri a nord di Sittwe, nello stato birmano del Rakhine, ho conosciuto un ragazzo di 25 anni che mi ha parlato della sua amicizia, ormai finita, con un coetaneo rohingya. Nel giugno del 2012 il suo villaggio e altri vicini nel Rakhine erano stati usati come base da bande di estremisti buddisti che, armati di bastoni, machete e taniche di benzina, avevano devastato un quartiere a maggioranza musulmana nel centro di Sittwe.
Il ragazzo non era nel villaggio durante l’attacco. sapeva però che molti suoi vicini erano saliti sugli autobus diretti a Sittwe, dove i buddisti avevano preso d’assalto le case dei musulmani, costringendo migliaia di rohingya a rifugiarsi nei campi profughi. Il ragazzo simpatizzava con gli aggressori. Il suo amico rohingya aveva smesso da tempo di venire al villaggio, e lui non aveva alcuna voglia di riallacciare i rapporti. Gli ho chiesto perché. “Il suo sangue è diverso”, mi ha detto. L’amico vendeva riso al mercato locale e qualche volta restava a dormire a casa sua. “Non credo sia una cattiva persona, ma la sua etnia è cattiva. È il suo gruppo che è cattivo”.
Quelli del 2012 sono stati i primi focolai di violenza tra buddisti e musulmani in Birmania mentre il paese attraversava la fase di transizione dal regime militare, e si sono conclusi con la quasi totale segregazione delle due comunità in gran parte della zona occidentale del paese. Diversi mesi dopo, sempre nel 2012, sono andato a intervistare i rohingya nei campi profughi. Ma né io né la maggior parte dei giornalisti arrivati sul posto ci siamo preoccupati di parlare con l’“altra parte”, i buddisti rakhine che si erano resi responsabili di molte violenze ma che a loro volta, anche se in misura minore, avevano subìto aggressioni dai rohingya. all’epoca nessuno sapeva esattamente quali forze, interne ed esterne, avessero spinto i buddisti a commettere quelle atrocità.
Mentalità collettiva
Ho pensato al ragazzo del villaggio quando, alla fine di agosto, in Birmania è cominciata un’ondata di violenze molto più sanguinosa. a nord di Sittwe, in un piccolo lembo di terra, sono stati incendiati più di duecento villaggi. In meno di due mesi quasi 600mila rohingya sono scappati in Bangladesh per sfuggire alla campagna di terrore dell’esercito birmano in risposta agli attacchi di un gruppo di ribelli rohin magya contro alcune postazioni della polizia.
Le testimonianze dei profughi, che parlano di esecuzioni sommarie dei civili e di donne stuprate dai soldati birmani, sono sconvolgenti, ma altrettanto sconvolgente è l’atteggiamento cinico e sarcastico di una fetta ampia e trasversale della società birmana di fronte alle violenze. Questo clima si avverte non solo nel Rakhine, dove i contrasti tra la maggioranza rakhine e i rohingya hanno radici profonde, ma in tutto il paese; e non solo tra la gente comune, ma anche nei palazzi del potere. “Guardate quelle donne”, ha detto recentemente un funzionario del Rakhine quando gli hanno chiesto dei presunti stupri di massa. “Chi mai le violenterebbe?”.
Il sostegno popolare alla campagna dell’esercito ha portato alla luce un violento pregiudizio contro i rohingya. La forza e la quasi universalità di questo sentimento stride con la lettura semplicistica degli osservatori occidentali, secondo i quali le tensioni etniche e religiose in Birmania esistono da molto tempo ma sono state oscurate tanto dalla dittatura militare quanto da una visione binaria della situazione politica del paese: da una parte la società, virtuosamente unita contro i militari, dall’altra il regime.
Mentre cercano di capire da dove nasce questa ostilità collettiva nei confronti dei rohingya, in grado di unire una maggioranza composta da comunità con interessi contrastanti ma che a quanto pare concordano sulla necessità di una campagna di pulizia etnica, ho ripensato alla conversazione con quel ragazzo. sapeva benissimo che il suo amico rohingya non era mai stato coinvolto personalmente in attacchi contro i rakhine. Il problema era che i rohingya sono visti come un tutt’uno, con l’individuo sempre al servizio del gruppo. Quest’incapacità di separare il singolo dalla massa è stata la causa di innumerevoli violenze in tutto il mondo, ed è stata la colonna portante della propaganda contro i rohingya fin dagli attentati dello scorso agosto. sui social network circolano vignette
di bambini rohingya armati di machete segno che ai rohingya viene attribuita una malvagità innata che non lascia spazio a distinzioni tra giovani e anziani, violenti e non violenti. al ragazzo non importava che il suo amico, individualmente, non avesse fatto niente di male. “È il suo gruppo che è cattivo”.
Paura della democrazia
Queste convinzioni sono state in parte alimentate da altri fatti accaduti nel frattempo in Birmania. Ridurre il tutto ad antichi contrasti che oggi trovano una nuova valvola di sfogo vuol dire sottovalutare i processi messi in moto dalla polarizzazione
delle varie comunità dopo le violenze del 2012 e dalla transizione politica. Oltre che alle tensioni locali nel Rakhine e alla difesa della supremazia etnica e religiosa da parte dell’esercito, il sostegno dell’opinione pubblica all’ultima ondata di violenze contro i rohingya è legato ai timori, reali e immaginari, di ciò che la democratizzazione potrebbe portare con sé.
La ritirata delle due comunità in enclavi separate dopo il 2012 ha creato da entrambe le parti un senso condiviso di chi fosse l’“altro” e delle sue presunte intenzioni. L’effetto più profondo è stato quello di ricontestualizzare il significato delle precedenti esplosioni di violenza. In questo clima ogni disputa tra vicini, anche la più banale (per esempio sulla terra, storicamente motivo di forti tensioni in questa parte del paese), è percepita come l’avvisaglia di un disegno di invasione e conquista da parte della comunità musulmana. I rohingya sono bollati come immigrati clandestini bangladesi, mentre i buddisti rakhine si considerano gli eredi legittimi della pianura costiera. Qualsiasi rivendicazione di
diritti, politici o economici da parte dei rohingya – per non parlare delle manifestazioni di violenza – è vista come il tentativo di annacquare l’identità etnica del Rakhine e, più in generale, il buddismo.
Questo forse spiega il curioso paradosso della Birmania: più la democrazia avanza, più aumenta la violenza. a quasi sette anni dalla cessione definitiva del potere da parte dei militari e dopo diciotto mesi di governo pseudo-civile, una campagna di pulizia etnica è stata appoggiata dall’opinione pubblica. Il fenomeno non è circoscritto al Rakhine, ma coinvolge anche comunità che hanno avuto scarsissimi contatti – o addirittura nessuno – con la popolazione rohingya.
L’antropologo Arjun Appadurai ha spiegato il ruolo che “copioni più ampi”, una volta diventati parte dell’interpretazione locale di un conflitto, possono giocare sulla percezione di quel conflitto. magari in passato il risentimento che ha provocato le violenze era limitato al Rakhine, ma agli occhi di molte persone i recenti attentati dei ribelli rohingya hanno svelato un complotto islamista che parte da fuori dei confini birmani e minaccia di penetrare nel paese. La principale linea di frattura nella società della Birmania occidentale è storicamente di natura comunitaria, ma il modo in cui lo stato e i social network hanno insistito sulla dimensione religiosa del conflitto ha avuto un’influenza fondamentale sulla piega che i fatti hanno preso, ben al di là del Rakhine.
Oggi, in Birmania, per molte persone la democratizzazione è evidentemente un pericolo. Del resto è quello che hanno sempre sostenuto i militari, che in cinquant’anni al potere hanno schiacciato a tal punto le libertà dei cittadini da far sembrare i diritti una risorsa limitata. In una nazione etnicamente spaccata, dove alcuni gruppi erano più privilegiati di altri ma a tutti era negata una voce politica, la strategia dei militari ha inevitabilmente fatto nascere il timore che dare potere a una comunità significasse toglierlo alle altre.
È molto probabile che dietro agli ultimi avvenimenti in Birmania ci sia una forte spinta ideologica e sciovinista, con i nazionalisti che usano il loro ritrovato potere per provare a forgiare una società più omogenea e libera dalla “contaminazione” etnica. e tra i fattori in gioco c’è sicuramente il tentativo di comunità diseredate come i rakhine di ritagliarsi un ruolo nel nuovo panorama politico prima che qualcun altro glielo porti via.
Una nuova sintonia
Queste paure sono state abilmente sfruttate dai militari e, più recentemente, dai leader nazionalisti in lotta per il potere nella nuova Birmania. e spiegano in parte perchéla campagna militare contro i rohingya non ha perso legittimità neanche tra chi condivide gli ideali democratici: le operazioni nel Rakhine sono viste da molti come un mezzo per difendere una democrazia giovane. ma il fatto che la persecuzione di un’intera popolazione possa essere considerata moralmente giustificabile non si spiega solo con l’ansia delle tensioni politiche.
C’è evidentemente la convinzione che i rohingya siano portatori di una corruzione innata che va sradicata a tutti i costi. Durante la transizione democratica del paese la percezione della portata di questa minaccia è cambiata, e oggi l’ostilità nei confronti dei rohingya non è più circoscritta alle città e ai villaggi della parte occidentale del paese. È dai tempi del regime militare che le varie componenti della società birmana non sembravano così in sintonia, a prescindere dalle differenze geografiche. Oggi, però, sono unite da un obiettivo profondamente diverso.
barbara-spinelli.it
Barbara Spinelli è intervenuta nel corso della sessione plenaria del Parlamento europeo nella “Discussione su tematiche di attualità – Lotta contro l’immigrazione illegale e il traffico di esseri umani nel Mediterraneo”, richiesta dal Gruppo ENF e presentata da Matteo Salvini. L’onorevole Spinelli ha preso la parola in qualità di relatore ombra per il gruppo GUE/NGL della Direttiva sulla Blue Card e sulla Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria e sul contenuto della protezione riconosciuta. Presenti al dibattito Matti Maasikas, Vice-Ministro estone per gli Affari europei, e Valdis Dombrovskis, Vice-Presidente per l’Euro e il Dialogo Sociale, Stabilità Finanziaria, Servizi Finanziari e dell’Unione dei Mercati dei Capitali.
Di seguito l’intervento:
Vorrei rivolgere a Commissione e Consiglio tre domande, sulla battaglia per bloccare l’arrivo di migranti forzati in Europa.
La prima riguarda la lotta prioritaria agli smuggler, concordata con Libia, Niger e Ciad. Cominciamo a conoscerne l’esito: impauriti dalle autorità nigerine, gli smuggler mollano i migranti nel deserto o li conducono su strade dove manca l’acqua. Risultato: i morti nel deserto aumentano esponenzialmente. Secondo Richard Danziger, responsabile dell’OIM in Africa centro-occidentale, sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30.000 tra il 2014 e oggi. Non tutti i fuggitivi arrivano al Mediterraneo.
La seconda domanda concerne le coste libiche, dove regna ormai una guerra tra bande: come distinguere lo smuggler dalle milizie e dalle guardie costiere, che l’Unione o l’Italia formano e pagano? Secondo l’Alto Commissariato Onu, gli abusi nei centri di detenzione sono “spaventosi” (“shocking”).
La terza domanda riguarda le garanzie sull’assistenza UNHCR in Libia. Secondo l’Alto commissario per i rifugiati a Tripoli, è un’assistenza “più che precaria: la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra. Non ha neanche un memorandum con l’UNHCR”.
Di quest’Africa trasformata in nostra prigione, di questi morti, l’Unione è responsabile. Penso che un giorno pagheremo le colpe di cui ci stiamo macchiando.
All’onorevole Matteo Salvini vorrei dire una cosa che sa: nell’UE avete oggi ben più sostegno di quel che dite di avere.
il manifesto, 25 ottobre 2017 «1
«Pubblichiamo il discorso pronunciato il 24 ottobre 2017 nell’aula del Senato da Mario Tronti per ricordare il centenario della Rivoluzione d’Ottobre».
Presidente, colleghe e colleghi, vi chiedo un momento di attenzione. In mezzo ai lavori convulsi di questi giorni, una pausa di riflessione può far bene. Volevo ricordare un evento, di cui ricorre quest’anno il centenario. Il 24 di ottobre, secondo il calendario giuliano, o il 7 novembre, secondo il calendario gregoriano, del 1917, esplodeva nel mondo la rivoluzione in Russia.
Mi sono interrogato sull’opportunità di proporre qui, nel Senato della Repubblica, il ricordo di questa data. Sono consapevole che questo arrivi a turbare la sensibilità di alcuni, e di alcune, che legittimamente possono nutrire, nei confronti di quell’evento, una ostilità assoluta. Ma siamo a cento anni da quella data e possiamo parlarne, come io intendo parlarne, con passione e nello stesso tempo con disincanto.
Non so se è verità o leggenda, quella volta che chiesero a Chou En-Lai, anni cinquanta del Novecento, che giudizio si sentisse di dare sulla rivoluzione francese del 1789. E la risposta fu: troppo presto per parlarne. Di quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, secondo il reportage che ne fece il giornalista americano John Reed, ne trattano oggi molti giornali, molte riviste, molti libri. Del resto, per mettere un pizzico di ironia in avvenimenti che hanno dalla loro parte non poco di vicende tragiche, si potrebbe dire che anche questa, come facciamo spesso in quest’aula, è la commemorazione di un defunto.
Qui, a Palazzo Madama, come a Montecitorio, soprattutto nella prima Legislatura, seguita alla Costituente, presero posto alcuni protagonisti che avevano vissuto quella storia in prima persona. Questo mio ricordo vuole essere anche un omaggio a questi padri. Il 1917 è conseguenza del 1914. Senza la grande guerra non ci sarebbe stata la grande rivoluzione. E la cosa da ricordare subito è che la prima rivendicazione, che forse più di altre produsse il successo della rivoluzione, fu la rivendicazione della pace: la pace ad ogni costo, si disse, anche a costo di perdere la guerra.
Quando Lenin, contro tutti, firmò il trattato di Brest Litovsk, accettò tutte le più pesanti condizioni, pur di riportare a casa i soldati. Lenin era l’autore di quella che a mio parere è stata la più audace di tutte le parole d’ordine sovversive, quando disse: soldati operai e contadini russi non sparate sui soldati e contadini tedeschi, ma voltate i fucili e sparate sui generali zaristi.
C’era quella idea, che era stata per primo di Marx. dell’internazionalismo proletario, “proletari di tutti i paesi unitevi”: un’idea niente affatto di parte, che affonda invece le sue lunghe radici nell’umanesimo moderno. Già nei moti rivoluzionari del 1905 i soldati si erano rifiutatati di sparare sulla folla, e avevano sparato sui loro ufficiali.
1905 e 1917 sono le due tappe della rivoluzione in Russia. La lucida strategia, che sarà dei bolscevichi contro i menscevichi, era che i comunisti dovevano mettersi alla testa della rivoluzione democratica per portarla alle sue naturali conseguenze, che stavano nella rivoluzione socialista. Se democrazia è infatti ilkratosin mano aldemos, il potere in mano al popolo, quale strumento più democratico dei soviet, dei consigli degli operai e dei contadini?
Ma, attenzione, i soviet dovevano farsi Stato, dovevano assumere l’interesse generale. E il fatto che invece di farsi Stato si sono fatti partito, chissà che non sia stato questo il vero punto di catastrofe dell’intero progetto.
Ma comunque quella democrazia diretta non ha niente a che vedere con l’attuale democrazia immediata. Questa non solo non si fa istituzione, ma è anti-istituzionale e dunque antipolitica e allora è conservatrice, se non addirittura reazionaria.
La rivoluzione partì su tre parole d’ordine: la pace, il pane, la terra. Parole semplici, che toccarono il cuore dell’antico popolo russo. Tre cose che erano state sottratte a quel popolo. La rivoluzione gliele restituì. Per questo “l’assalto al cielo”, che avevano già tentato invano gli eroici comunardi di Parigi, vinse a Pietroburgo con l’assalto al Palazzo d’Inverno.
Colleghi, conosco bene il seguito della storia. Una rivoluzione, che era nata dalla guerra, si trovò in guerra con il resto del mondo, accerchiata e combattuta. Non intendo, per questo, nascondere, tanto meno giustificare, le deviazioni, gli errori, la violenza, i veri e propri crimini commessi.
Qui, c’è il grande problema del perché la rivoluzione, cioè il progetto di trasformazione in grande del corso delle cose, sfocia storicamente nel terrore. E il problema non riguarda solo i proletari. I borghesi non hanno agito diversamente nella loro presa del potere. La rivoluzione inglese di metà Seicento, la rivoluzione francese di fine Settecento, ambedue hanno fatto cadere nel capestro la testa del re. E la rivoluzione americana, per produrre la più stabile democrazia del mondo, è dovuta passare per una terribile guerra civile.
Rivoluzione e guerra, rivoluzione e terrore, sono dunque inseparabili? Dobbiamo dunque per questo rinunciare al tentativo di un rivolgimento totale? Occorre rassegnarsi alla pratica di cosiddette riforme graduali, che però mai riescono a minimamente mettere in discussione il rapporto, che poi è un rapporto di forza, tra il sotto e il sopra, tra il basso e l’alto della società? Questo è il problema che ci pone ancora oggi, dopo un secolo, quell’ottobre del ’17.
Ecco perché vorrei, se possibile, isolare il valore liberatorio di quell’atto rivoluzionario dai fallimenti epocali e anche dalle costrizioni antilibertarie, che lo hanno seguito nella sua realizzazione. Ricordo una data e condanno una sua negazione. Quell’atto trova la sua fondazione nel mirabile inizio di secolo. Il primo decennio del Novecento vede l’irrompere, anch’esso sovversivo, della trasvalutazione di tutte le forme: in campo artistico, con le avanguardie, arti figurative, poesia, narrativa, musica; in campo scientifico, con la fine della meccanica newtoniana e l’avanzare del principio di indeterminazione; nel pensiero filosofico con la messa in questione della ragione illuministica. Come potevano le forme della politica, organizzazioni e istituzioni, non essere travolte da questoSturm und Drang, da questo impeto e assalto? Come la grande Vienna è il cuore di questo sommovimento culturale, così Pietroburgo diventa il cuore di un sommovimento politico.
Il secolo ne sarà interamente segnato.L’anima e le formeè lo splendido titolo di un libro del giovane Lukács, che esce nel 1911. Era l’anima dell’Europa ed era, come dirà anni dopo Husserl, la crisi delle scienze europee, a ribaltare tutte le forme ottocentesche. Lo spirito anticipa sempre la storia.
La rivoluzione del ’17 in Russia sta in mezzo a questo totale fermento. Atto di liberazione, che metterà in moto masse enormi di popolo e provocherà scelte di vita di piccole e grandi personalità. Ad esso si richiamavano molti dei ribelli antifascisti, mentre subivano il carcere e l’esilio, molti dei combattenti nella guerra di Spagna contro i franchisti, molti dei partigiani che salirono in montagna contro i nazisti. Se leggete le lettere dei condannati a morte della Resistenza, in Italia e in Europa, troverete spesso l’ultimo grido di saluto per quell’evento.
Mi rendo conto di parlarne con fin troppa partecipazione, e perfino enfasi Ma vedete, colleghi, io mi considero figlio di quella storia. E francamente vi dico che non sarei nemmeno qui se non fossi partito da lì. Qui, a fare politica per gli stessi fini con altri mezzi, senza ripetere nulla di quel tempo lontano, passato attraverso tante trasformazioni, rimanendo identico.
Vi assicuro, un esercizio addirittura spericolato, ma entusiasmante. Se entusiasmo può esserci ancora concesso in questi tristi tempi. Vi chiedo ancora scusa.
Come molti sanno, nell’ultimo decennio Riace, questo piccolo paese della costa jonica calabrese che conta solo milleduecento abitanti, è diventato famoso nel mondo e ha rivalutato l’immagine della Calabria: non più e solo terra di ‘ndrangheta, ma il luogo principe dell’accoglienza dello straniero. Finalmente una immagine positiva di questa regione di cui potersi vantare andando fuori per le strade del mondo. Quando nell’autunno del 2009 si celebravano a Berlino i vent’anni dalla caduta del muro, il grande regista Winnie Wenders di fronte a dieci nobel per la pace disse: «La vera civiltà, la nostra speranza come Europa io l’ho incontrata a Riace, un piccolo paese della Calabria». E quest’anno quando abbiamo letto la notizia che la famosa rivista Fortune aveva inserito il sindaco di Riace, Domenico Lucano, tra le cinquanta personalità più autorevoli della terra, in tanti abbiamo provato un sentimento di gioia ed orgoglio legittimo.
È in questo scenario che, come un fulmine in una limpida giornata autunnale, va letto il titolo a caratteri cubitali apparso sulla stampa locale e nazionale: il sindaco dell’accoglienza modello dei migranti accusato di truffa aggravata, concussione e abuso d’ufficio. Naturalmente la stampa di destra che odia gli immigrati ha scritto anche di peggio, ed era scontato. Quello che invece non è più accettabile è il modo con cui viene usato un avviso di garanzia, che significa solo che una persona è indagata, non condannata, non processata, e quindi ha diritto che la sua privacy venga rispettata.
Negli ultimi decenni l’avviso di garanzia si è trasformato in una pre-condanna, soprattutto se si tratta di persona famosa, che però quando viene prosciolta gli si concede qualche rigo illeggibile in una pagina interna al giornale. Perché la notizia, vendibile, è la presunta colpevolezza non l’innocenza della persona indagata. Ora, non si tratta di scommettere sull’onestà di Domenico Lucano, su cui molti ci metteremmo la faccia, ma si tratta di mettere a nudo un modo di fare informazione: non è possibile che un avviso di garanzia diventi pubblico, finché il PM non finisce l’istruttoria e la manda al Gip (Giudice per le indagini preliminari) questa informazione non deve diventare di dominio pubblico, e chi lo fa deve essere sanzionato. La macchina del fango, lo sappiamo, funziona così: lo butti sulla persona che vuoi colpire e qualcosa resta, anche dopo la “doccia” (il proscioglimento).
Ho conosciuto Domenico Lucano nel novembre del 1998 mentre a Badolato ero impegnato con il Cric (una ong calabrese molto attiva in quegli anni) nel primo progetto di accoglienza dei migranti che si è realizzato in Italia, che puntava all’integrazione economica, sociale e culturale. Domenico ed i suoi amici dell’associazione “Riace città futura” volevano replicare nel loro paese quanto fatto a Badolato e chiedevano un sostegno per partire. Il loro entusiasmo, la loro onestà e grande idealità ha fatto sì che mentre Badolato si spegneva Riace raccoglieva la solidarietà di tanti gruppi/associazioni del mondo pacifista, del commercio equo e solidale, della finanza etica e di una straordinaria comunità anarchica, l’ultima rimasta in Europa: Longo maï. Una comunità, nata in Provenza e diffusasi in altre zone della Francia e in diversi paesi europei, che si mobilitò per sostenere l’esperienza di Riace attraverso una forma di turismo solidale con cui svizzeri, francesi e tedeschi vennero a fare le vacanze in questo piccolo Comune calabrese allora sconosciuto al mondo. Un sostegno, anche economico, venne da Cornelius Koch, una straordinaria figura di prete cattolico che in Svizzera chiamavano l’Abate dei profughi che venne più volte a Riace insieme ad Hannes, uno dei fondatori della comunità di Longo maï (Vedi: Un chrétien subversif. Cornelius Koch, l’abbé des réfugiés, Editions d’en bas, Losanna, 2013).
Tutto questo per dire che la solidarietà, che la popolazione di Riace ha dimostrato di saper dare agli immigrati, innesca meccanismi di ulteriore solidarietà, legami sociali e reti conviviali, che si allargano a macchia d’olio ed in modo spesso imprevedibile. Ne è una ulteriore prova quello che è successo venerdì scorso: nell’anfiteatro costruito dove c’era una discarica (grazie anche all’impegno dell’ex assessore Tripodi, come ha voluto ricordare il sindaco), più di mille persone provenienti da tutta la Calabria e da varie parti d’Italia, dal Piemonte fino alla Sicilia, erano lì fino a notte fonda per essere vicini a Domenico Lucano, senza che alcun partito, sindacato o altro soggetto avesse organizzato questa manifestazione. Perché anche questo insegna questa storia: quello che le persone trovano a Riace è una grande dose di umanità, a partire da Domenico Lucano che riesce a parlare al cuore della gente senza cadere nel populismo e nella demagogia. Quello che molti di noi cerchiamo e di cui abbiamo bisogno è di Restare Umani, come scrisse prima di venire barbaramente ucciso Vittorio Arrigoni, un martire della pace, che cercava di unire le fazioni palestinesi in lotta.
Infine, la terza cosa che merita una riflessione seria sull’esperienza di Riace riguarda l’uso di quello che Lucano chiama “bonus” e che vengono usati per pagare i negozianti di Riace da parte dei migranti ospiti. Di che si tratta? Di una sorta di moneta locale che ha esattamente la stessa funzione dei “buoni pasto” che dipendenti pubblici e privati (grande aziende) usano per fare la spesa. Il vantaggio per l’economia di Riace è evidente: i migranti possono spendere questi “bonus” solo all’interno del paese e nei negozi convenzionati con l’amministrazione comunale. Questo fa sì che aumenti il legame tra i rifugiati e la popolazione locale e, inoltre, offre a loro la possibilità di fare acquisti di beni alimentari (e non solo) in base ai loro bisogni, cultura e tradizioni. Ed ancora: grazie a questo sistema l’amministrazione Lucano è riuscita a far risparmiare al progetto Sprar decine di migliaia di euro che sarebbero serviti per pagare gli interessi alle banche per avere gli anticipi di cassa con cui acquistare i beni per i migranti ospitati a Riace, mediamente duecento persone. Un sistema virtuoso che è stato accettato dalla Prefettura per sette anni e che improvvisamente quest’anno è stato messo in discussione. Un sistema che è stato ripreso e replicato anche in altri Comuni e che forse anche per questo diventava pericoloso perché dava un’autonomia agli enti locali che da diversi anni viene sempre più ridotta, grazie anche ai tagli nei trasferimenti dallo Stato ai Comuni che dal 2011 ha fatto registrare un taglio di ben 11 miliardi di euro.
Questa straordinaria storia di Riace non può finire nel macero per ragioni burocratiche o di bassa cucina. Bisogna che tutte le autorità e i rappresentanti delle Istituzioni (a partire dalla Giunta regionale) comprendano che in questo momento stare a guardare significa solo essere complici dello smantellamento di un modello di accoglienza apprezzato da tutte le persone che non hanno perso la loro umanità, che ancora credono che è possibile costruire un mondo migliore, senza muri e fili spinati, un mondo in cui la diversità – di culture, etnie, religioni – sia un valore e non un terrore.
Avvenire, 7.La Polizia è salita a bordo della Vos Hestia, impegnata nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale. L'ong: «Noi estranei». E sospende le operazioni di soccorso in mare». Chissà perché e impediscono la partenza sempre e solo le navi sospettate del "reato" di soccorso i n mare w su accoglienza, Ogni barriere è buona per respingere chi chiede aiuto
La Polizia ha eseguito una serie di perquisizioni a bordo di nave Vos Hestia, l'imbarcazione di Save the Children impegnata nelle operazioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo centrale, che attualmente si trova nel porto di Catania. A bordo della nave, nei mesi scorsi, ha operato anche un agente sotto copertura. La perquisizione, eseguita dagli uomini del Servizio centrale operativo, è stata disposta dalla procura di Trapani che ha da tempo aperto un fascicolo sull'operato delle Ong.
La perquisizione sulla nave Vos Hestia «è relativa alla ricerca di materiali per reati che, allo stato attuale, non riguardano Save the Children», si legge in una nota dell'ong. La documentazione oggetto della ricerca «come si evince dallo stesso decreto di perquisizione» è «relativa a presunte condotte illecite commesse da terze persone».
«Non siamo indagati: fare subito chiarezza»
L'ong rende anche noto di aver sospeso le operazioni di soccorso in mare «come già pianificato data la riduzione dei flussi», e ribadisce di aver «sempre agito nel rispetto della legge durante la propria missione di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo» e
conferma «ancora una volta che l'Organizzazione non è indagata».
«Tutte le operazioni sono state condotte in strettissimo coordinamento con la guardia costiera italiana e nella massima collaborazione con le autorità. La nostra missione è sempre stata guidata unicamente dall'imperativo umanitario di salvare vite», prosegue l'ong, che conclude: «Confidiamo che la magistratura, nella quale l'Organizzazione ha piena fiducia, faccia immediata chiarezza sull'intera vicenda».
Sospese le operazioni in mare
«Oltre a ribadire la nostra totale estraneità alle indagini, Save the Children annuncia la sospensione della propria attività di ricerca e salvataggio in mare, come già pianificato, e del resto attuato anche lo scorso anno. La decisione arriva dopo aver valutato attentamente la riduzione del flusso di migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo centrale per raggiungere l'Europa e le mutate condizioni di sicurezza ed efficacia delle operazioni di ricerca e soccorso in mare nell'area», dichiara Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia. «Per troppo tempo abbiamo supplito all'inesistenza o inadeguatezza di politiche europee di ricerca e soccorso, nonché di accoglienza dei migranti, cercando di portare un contributo concreto e volto al salvataggio delle vite
di bambini e adulti», conclude Neri.
il manifesto
C’è il ragazzo che indossa una maschera con la faccia del ministro degli Interni Marco Minniti versione vampiro, con i canini ben appuntiti che spuntano dalla bocca. E poi, poco più avanti, ci sono decine di ragazzi e ragazze che portano stretto alla vita o sulle spalle il telo termico color oro con cui i soccorritori coprono i migranti salvati dal mare. «Questo telo è un segno di solidarietà nei confronti di tutti gli uomini e le donne che rischiano la morte per fuggire», spiega una ragazza.
Non sono i quasi centomila che solo cinque mesi fa, a maggio, hanno riempito le strade di Milano in una grande manifestazione per l’accoglienza dei migranti, ma di questi tempi i circa ventimila (secondo gli organizzatori) che ieri hanno attraversato Roma per manifestare contro il razzismo rappresentano pur sempre un risultato di tutto rispetto. Come sa bene Filippo Miraglia, vicepresidente nazionale dell’Arci, che infatti non nasconde la sua soddisfazione. «Considerato il momento che stiamo attraversando il risultato è molto buono», dice quando il corteo è già arrivato a piazza Vittorio, tappa finale della giornata. «L’iniziativa di oggi fa ben sperare per l’avvio di una stagione di mobilitazioni di cui abbiamo bisogno per dare maggiore spazio a chi non ha voce perché considerato ininfluente dal punto di vista elettorale», commenta Miraglia.
Contro il razzismo, per la giustizia e l’uguaglianza», c’è scritto sullo striscione che dà il via al corteo. Alla manifestazione indetta dall’Arci hanno aderito un centinaio di associazioni e organizzazioni, insieme al vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, ad Andrea Camilleri, Moni Ovadia e don Luigi Ciotti: «L’immigrazione non è un reato perché non è reato la speranza», ha spiegato ancora ieri il fondatore di Libera e del Gruppo Abele. «Oggi ci troviamo invece a fare i conti con un sistema che garantisce il privilegio di pochi e toglie la speranza a tutti gli altri».
Il razzismo non è l’unico tema del corteo. Negli slogan, sugli striscioni e dagli altoparlanti montati sui camion si lanciano parole d’ordine anche sul diritto alla casa e a favore dello ius soli, la legge che permetterebbe a oltre ottocento mila ragazzi, figli di immigrati, di diventare cittadini italiani. Ma soprattutto contro gli accordi stretti dall’Italia con la Libia e che se finora hanno ridotto drasticamente gli arrivi lungo le coste del paese – come vantava ancora ieri il ministro Minniti – non sono certo serviti a rendere più umane le condizioni di vita dei migranti che si trovano ancora nel paese nordafricano, prigionieri delle milizie e rinchiusi in centri dove subiscono violenze di ogni genere. «Si parla sempre di immigrati, ma mai delle cause che la genera, che sono le politiche dell’occidente che hanno prodotto fame», dice Essane Niagne, nata in Italia ma originaria della Costa d’Avorio.
Dalla Campania sono arrivati sette pullman. Su uno di questi hanno viaggiato i giocatori della Rlc Lions Ska di Caserta, squadra che gioca in terza divisione «Rfc» sta per «Ritieniti fortemente coinvolto», e il messaggio è chiaro. Il 70% dei giocatori è composto da ragazzi immigrati, il 60% dei quali sono richiedenti asilo. Il calcio per loro è un ottimo modo per integrarsi, ma spesso può significare anche sbattere la faccia contro l’ignoranza della gente. «A una partita ci hanno gridato negri di merda», ricorda Makan, che viene dal Mali e nonostante tutto riesce ancora a sorridere. «Purtroppo sono episodi che capitano sempre più spesso. Quest’anno non c’è stata una partita senza insulti», conferma Marco Prato, cofondatore, nel 2011, della squadra.
Un razzismo che non appartiene solo alle curve degli stadi. A piazza Vittorio, da sopra il cassone di un camion trasformato in palco per l’occasione, una ragazza spiega cosa significa sentirsi italiani senza esserlo per colpa dell’ostruzionismo che blocca la riforma della cittadinanza. «Non siamo immigrati eppure non siamo nemmeno cittadini italiani. Vogliamo solo essere riconosciuti per la nostra identità».
il manifesto
Oggi a Roma si svolgerà la manifestazione nazionale contro il razzismo promossa da Arci, A buon diritto, Medu, Amnesty, Acli. All’appello «Migrare non è reato», sottoscritto da decine di associazioni, laiche e cattoliche, personalità della cultura, tra i primi firmatari, insieme al vescovo emerito di Caserta Raffaele Nogaro, lo scrittore Andrea Camilleri, c’è anche don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera.
Don Luigi, nell’appello che ha firmato per la manifestazione di oggi, si rifiuta la differenza tra migranti economici e rifugiati. Eppure proprio questa distinzione è oggi alla base delle politiche europee sull’immigrazione.
«È una distinzione pretestuosa, infondata. È noto lo stretto rapporto fra le guerre e gli interessi economici. Tante guerre sono state dichiarate per il possesso del petrolio, sempre più se ne dichiareranno – se non cambiano le cose – per quello dell’acqua o di altri beni necessari alla vita. Per non parlare di come i conflitti hanno fatto da volano per la produzione e il commercio delle armi.
«Ma oggi c’è un fatto nuovo. Questo sistema economico è diventato esso stesso uno strumento di guerra contro il più incolpevole e indifeso dei popoli: i poveri. È tempo di riconoscere l’intrinseca violenza di un sistema che produce enormi distanze sociali, dividendo il mondo tra pochi ricchi sempre più ricchi e tanti poveri sempre più poveri. A quanto sembra, però, uno dei pochi che ha il coraggio di denunciarlo con forza è papa Francesco, che non ha esitato a definire «di rapina» questa economia, e «ingiusto alla radice» il sistema che la include. Sono parole su cui i potenti del mondo dovrebbero riflettere, alla luce delle quali la distinzione fra rifugiati e migranti economici appare per quello che è: un esercizio retorico e ipocrita».
Cosa pensa degli accordi siglati dall’Italia con la Libia per fermare i migranti?
«Che ricalcano la logica di quelli siglati dall’Unione Europea con la Turchia per fermare l’immigrazione dei profughi siriani. Anche in questo caso un misto di cinismo e di ipocrisia, perché è noto a tutti che in quei Paesi il rispetto dei diritti umani non esiste, e che la repressione e la violenza sono strumenti usuali per reprimere ogni voce di dissenso e di libertà. Questi accordi sono allora una vergogna politica e una macchia d’infamia per l’Europa, la cui civiltà è prosperata anche grazie alla tutela delle minoranze e al rapporto con le altre culture».
In estate abbiamo assistito a una campagna di criminalizzazione verso chi si adopera a favore dei migranti. Penso a quanto accaduto con le Ong impegnate nelle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, ma non solo. L’intolleranza non colpisce più solo che è «diverso», ma anche chi lo aiuta. Perché secondo lei?
«Duole dirlo: per un basso calcolo politico. Si mira a guadagnare consenso dipingendo l’immigrato come un usurpatore e un invasore, e dunque criminalizzando chi si impegna per accoglierlo, dargli lavoro e dignità e, prima ancora, impedire che muoia in mano a scafisti e bande criminali. Questo non esclude di stilare protocolli per meglio coordinare le operazioni di soccorso, ma nel rispetto dei rispettivi ruoli e senza dimenticare che la stragrande maggioranza delle Ong che operano in mare o nei contesti urbani, merita riconoscenza, anche perché colma i vuoti della politica, che sull’immigrazione ha spesso voltato la testa o agito a seconda di come tirava il vento. Non si può spiegare altrimenti perché l’operazione Mare Nostrum, varata dopo i 366 morti di Lampedusa dell’ottobre 2013, dimostratasi efficace sia in termini di vite salvate che di migliore gestione del fenomeno, sia stata accantonata. I dati dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati parlano di 15mila morti in mare nell’ultimo decennio: un olocausto. È questo a dover scuotere le coscienze, non l’impegno delle Ong».
A proposito di Ong. Recenti prese di posizione dei vescovi italiani farebbero pensare a un cambiamento della posizione della Chiesa verso il fenomeno migranti. È davvero così?
«Sul tema ci possono essere diverse sfumature, ma resta inderogabile, per una Chiesa fedele al Vangelo, il principio dell’accoglienza e della cura delle persone, a partire da quelle fragili, escluse, perseguitate. E poi a garantire sulla posizione della Chiesa è la voce di papa Francesco, che nella Evangelii Gaudium ha scritto parole che non lasciano spazio a equivoci: «I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti».
Cosa direbbe a una persona per convincerla a manifestare?
«Che i migranti sono per tre ragioni la nostra speranza. La prima umana: la loro presenza è un invito a uscire da noi stessi, dai nostri egoismi e dalle nostre paure. La seconda culturale: la cultura vive finché non si chiude in se stessa, nei suoi pregiudizi e nei suoi idoli. La terza economica: la logica del mercato ci ha messo in ginocchio, solo quella del bene comune ci permetterà di rialzarci. La speranza oggi ha il volto degli esclusi. Sono loro i messaggeri di un mondo di pace, dignità e benessere.
Il manifesto, 19 ottobre 2017 nell’intervista di Chiara Cruciati la fortedenuncia di Jeff Halper, l’attivista israeliano che da una vita combatte per idiritti della Palestina; nella cronaca di Michele Giorgio i recenti atti direpressione dei soldati di Israele controi palestinesi.
HALPER: «GUERRE CONTRO I POPOLI: IL MODELLO È ISRAELE»Chiara Cruciati intervista Jeff Halper
«Il capitalismo globale reprime i popoli usando il concetto di pacificazione. Ma l’Occidente non ha molta esperienza in questo tipo di conflitti. E Israele gli fornisce armi e high tech», spiega lo storico attivista israeliano Jeff Halper
Guerre contro-insurrezionali, anti-terrorismo,guerre non convenzionali, limitate, guerre a bassa intensità. Nell’ultimodecennio il mondo ha assistito alla trasformazione del concetto di conflittomilitare: da guerre tra Stati e eserciti a guerre contro i popoli. Repressione,stato di polizia, frontiere chiuse al passaggio di esseri umani ne sono laplastica rappresentazione.
I sistemi usati oggi in Europa per impedirel’ingresso dei rifugiati lungo le rotte terrestri sono spesso made in Israel.
«Muri, sistemi di sorveglianza, barriere high techche individuano i movimenti umani: è tutto israeliano. Israele vende in Europale tecnologie di confine sviluppate sui palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.Questa è la Palestina globalizzata. Israele sa che i palestinesi nonrappresentano alcuna minaccia ma forniscono un conflitto di basso livello chegli permette di sviluppare armi e sistemi di sicurezza e sorveglianza daesportare sul mercato globale. Israele è all’avanguardia perché ha un popolointero da usare come cavia da laboratorio».
Il libro introduce i concetti di «conflittosecuritario» e «industria globale della pacificazione». Perché il modelloisraeliano è diventato globale?
«L’occupazione israeliana va posta oggi all’internodel sistema capitalista globale che, entrato in crisi, è divenuto maggiormentecoercitivo. Cambia anche la guerra: dalle guerre tra Stati, convenzionali, si èpassati oggi a guerre contro i popoli, repressive di istanze popolari e a bassaintensità. Il capitalismo globale reprime i popoli utilizzando il concetto dipacificazione, ovvero una forma di repressione popolare che rende la baseincapace di reagire e riorganizzarsi.
«E, a parte il caso del Vietnam per gli Stati uniti,il nord globale – il centro del sistema capitalista mondiale – non ha moltaesperienza in questo tipo di conflitti. Ed è qui che Israele si inserisce: hale armi, le tattiche, il sistema di sicurezza e sorveglianza, il sistema dicontrollo della popolazione a cui oggi anelano le classi dirigenti di tutto ilmondo. E questo dà a Israele un potere nuovo, sul mercato militare ma anche sulpiano politico».
Un know how militare che si traduce in cartamonetapolitica e diplomatica?
La sua incredibile influenza è proporzionale albisogno che di Israele ha il capitalismo globale. La chiamo la «politica dellasicurezza» che intreccia l’economia israeliana (fondata sulla commistione traindustria bellica e high tech) a influenza politica internazionale.
Alcuni esempi. L’avvicinamento alla Cina: Israele èil secondo o il terzo esportatore di armi a Pechino, tradizionalmente vicinaalle istanze palestinesi. O la normalizzazione con l’Arabia saudita che sulpiano ideologico dovrebbe essere una nemica ma con cui condivide obiettivi(l’Iran) e bisogni (la repressione interna)».
Durante le proteste di Black Lives Matter negliUsa, gli attivisti palestinesi inviavano consigli su come resistere allecariche della polizia. Se il sistema securitario si globalizza, se ilcapitalismo si globalizza, è possibile che si globalizzi anche la resistenza?
«Il problema è l’assenza della sinistra. Ilcapitalismo è globalizzato, la cooperazione è globalizzata, gli Stati sonoglobalizzati e lo sono anche terrorismo e reti criminali. Solo la sinistra nonriesce a globalizzarsi. Il movimento delle donne non parla agli attivistipro-palestinesi, il movimento per il clima non parla a quello per i dirittidegli afroamericani e così via. I movimenti di base tendono a restare isolati,limitati, a concentrarsi su temi specifici senza fare i dovuti collegamenti conaltre questioni.
«La ragione sta nell’incapacità della sinistra divedere il quadro completo. Le nuove generazioni sono nate e cresciute sotto ilmodello globale del neoliberalismo, un sistema che ha annullato i movimentiglobali e distrutto la collettività, imponendo l’individualismo e la riduzionedei cittadini a consumatori. La sinistra dovrebbe dotarsi di un’agenda globaleche leghi le diverse questioni».
Il neoliberismo vive anche istigando la guerra tragli ultimi.
«Leopinioni pubbliche si sono assuefatte alla violenza di questo modellosecuritario. Il cittadino medio pensa a come proteggersi da soggetti cheapparentemente mettono in pericolo il suo lavoro, la sua casa, i suoi interessi,affibbiando le responsabilità del neoliberismo ai soggetti da questo esclusi.Anche qui Israele è modello ad una visione distorta, al non-impatto del modellorepressivo sulla società».
RAID NELLE SEDI DEIMEDIA PALESTINESI, ALTRE 2600 CASE PER I COLONI
di Michele Giorgio
«Cisgiordania. Pugno di ferro di Israele nei Territori occupati dopo l'annuncio del governo Netanyahu che non negozierà con un governo palestinese con all'interno il movimento islamista Hamas».
Arresti notturni in Cisgiordania, migliaia di nuove case per coloni, demolizioni di abitazioni a Gerusalemme Est e raid dell’esercito nelle sedi di organi d’informazione palestinesi. Tutto nel giro di poche ore. Notizie che certo non rappresentano una novità nei Territori palestinesi che Israele occupa del 1967. Tuttavia questa escalation potrebbe essere collegata alla decisione del governo Netanyahu di far uso del pugno di ferro contro la riconciliazione tra il movimento islamista Hamas e il partito Fatah.
L’altro giorno è passata nell’esecutivo israeliano la linea del ministro ultranazionalista Naftali Bennett che aveva chiesto di dare una risposta forte all’accordo al Cairo tra le due principali forze politiche palestinesi divise per dieci anni da uno scontro devastante. Il premier Netanyahu che, secondo gli analisti aveva inizialmente scelto una posizione più prudente, ha deciso che il suo governo non negozierà con quello palestinese se al suo interno ci sarà anche Hamas del quale è tornato a chiedere il disarmo.
«Le decisioni del gabinetto israeliano sono una scusa per arrivare a un punto morto» denunciano i palestinesi. Il «no» di Netanyahu al negoziato con il futuro governo di unità nazionale avrebbe lo scopo, aggiungono, di aprire la strada al “piano di pace” dell’Amministrazione Trump che, secondo le indiscrezioni, propone la soluzione della questione palestinese nel quadro di una trattativa tra Paesi arabi e Israele.
Sono 1.323 i nuovi alloggi che saranno costruiti per i coloni israeliani nella Cisgiordania occupata, dove ieri un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano ma è stato bloccato e ferito. Un numero che porta, in appena tre giorni, a 2.646 il totale delle nuove unità abitative negli insediamenti coloniali, rivela l’organizzazione pacifista Peace Now. A questi appartamenti si aggiungono i 31 approvati lunedi, per la prima volta dal 2002, per i coloni nella città di Hebron. Una colata di cemento che non turba il leader dell’opposizione laburista Avi Gabbai che a inizio settimana aveva escluso l’evacuazione anche di una sola colonia nel quadro di un accordo di pace. Poi ha fatto una parziale retromarcia.
Invece vengono demolite subito le case palestinesi “illegali” nei territori sotto occupazione. Tra martedì e ieri le ruspe del comune israeliano di Gerusalemme hanno trasformato in un cumulo di macerie un edificio nel quartiere di Beit Hanina e due abitazioni a Silwan. «Ai palestinesi vengono rilasciati pochi permessi edilizi mentre dal 1967 i governi di Israele sono stati coinvolti nella costruzione a Gerusalemme Est di 55mila case per israeliani contro le 600 per i palestinesi», ricorda Daniel Seidemann di “Terrestrial Jerusalem”. L’Onu riferisce che dall’inizio dell’anno sono stati demoliti a Gerusalemme 116 edifici palestinesi.
Sarebbero parte, secondo il portavoce militare israeliano, di una operazione dell’Esercito contro «l’istigazione alla violenza e al terrorismo» i raid compiuti martedì notte negli uffici di otto redazioni giornalistiche palestinesi a Betlemme, Nablus, Ramallah e Hebron, città che ufficialmente sono sotto la piena autorità, anche di sicurezza, dell’Anp di Abu Mazen. I soldati hanno sequestrato computer, documenti, filmati, registrazioni audio negli studi di Pal Media, Ram Sat, Trans Media, Al Quds, Al Aqsa, Palestine Alyoum e di altre due emittenti.
«È stata una brutale aggressione. L’occupazione israeliana vuole prevenire la copertura mediatica delle atrocità che compie», ha protestato il portavoce dell’Anp, Yousif Mahmoud. Immediata la replica dell’Esercito: «Le forze di sicurezza continueranno a lavorare contro l’incitamento al terrorismo». Da Londra la Commissione di sostegno ai giornalisti (Journalist Support Committee) ha condannato i raid, sottolineando che sono 33 i reporter palestinesi nelle prigioni israeliane, gli ultimi due, arrestati ieri, sono i fratelli Amer e Ibrahim al Jaabari di Trans Media. Nelle stesse ore sono stati arrestati altri 16 palestinesi.
il manifesto,
Sarà una giornata per dire no al razzismo, ma anche agli accordi che Italia e Europa stanno siglando con alcuni Paesi africani per imprigionare i migranti sull’altra sponda del Mediterraneo. E contro le leggi Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza che non solo non fanno alcuna distinzione tra chi delinque e chi invece arriva nel nostro Paese in cerca di lavoro, ma aboliscono anche il secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo.
Sarà una giornata come a Roma non si vedono da anni. L’appuntamento è per sabato prossimo e sono attese migliaia di persone da tutta Italia. Solo l’Arci – tra le sigle che hanno promosso l’iniziativa insieme a Libera, A Buon diritto, Amnesty International Medu e altre – ha organizzato 22 pullman, altri sette sono attesi dalla Campania e poi da Lecce, Bari, Milano, Genova, Bologna. «Abbiamo bisogno di giovani, ragazze e ragazzi italiani e nuovi cittadini per costruire il futuro di questo Paese» si legge in una lettera-appello firmata da monsignor Raffaele Nogaro, don Luigi Ciotti, Andrea Camilleri, Enrico Ianniello, Moni Ovadia. Toni Servillo, Giuseppe Massafra, Luciana Castellina e Carlo Petrini. Per chi deciderà di aderire alle 14,30 da piazza della Repubblica partirà un corteo che attraverserà via Cavour e via Merulana per concludersi in piazza Vittorio.«Un mondo laico e religioso vasto – spiega una nota dell’Arci – che da sempre è schierato in difesa del diritto di migrare e che agisce in prima persona, anche disobbedendo a decisioni italiane ed europee che sono in aperto contrasto tanto con la nostra Costituzione che con i fondamentali principi internazionali».
Da anni assistiamo a un escalation di comportamenti sempre più aggressivi nei confronti di migranti, rom e qualunque forma di diversità. Dalle ruspe leghiste per spianare i campi rom si è arrivati in poco tempo a siglare accordi con milizie libiche alle quali è stato affidato il compito di impedire ai barconi carichi di disperati di prendere il mare. Il modo in cui questo avviene è, come raccontano innumerovoli testimonianze, tenendo prigionieri uomini, donne e bambini in centri all’interno dei quali le violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno. Da una settimana l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sta lavorando a Sabrata, in passato uno dei principali punti di partenza dei barconi diretti in Italia, per assistere circa 14 mila migranti che le milizie libiche tenevano prigionieri all’interno di hangar, magazzini, case e fattorie, riuscendo in questo modo a far diminuire notevolmente il numero di sbarchi nel nostro Paese. La maggior parte dei migranti tratti in salvo sono traumatizzati e agli operatori dell’Unhcr hanno raccontato di aver subito violenze sessuali, di essere stati costretti a lavori forzati o a prostituirsi. «La strada degli accordi con i regimi dei paesi dall’altra sponda del Mediterraneo – scrivono tra gli altri monsignor Nogaro e Andrea Camilleri – non solo implica aiuti economici e governi opachi dalla democrazia malconcia, ma il prezzo dell’alleanza con le milizie libiche vuol dire costruire un inferno dove i migranti sono torturati, stuprati o mandati a morire di sete nel deserto, come ha denunciato l’Onu».
Una strada che l’Europa, Italia in testa, sembra decisa a percorrere sempre più e la recenti successi elettorali ottenuti in Germania e Austria da forze xenofobe e populiste non faranno altro che rafforzare ulteriormente questa scelta. Utilizzando anche l’ipocrita distinzione tra rifugiati e migranti economici, «etichette – proseguono i firmatari della lettera-appello – con le quali si classificano gli sventurati che attraversano l’Africa e il Medio Oriente sperando nell’accoglienza dell’Italia e dell’Europa. I rifugiati, come i cosiddetti migranti economici, tentano tutti di sfuggire alla morte».
Al corteo parteciperanno anche numerose realtà e centri sociali dietro uno striscione che ricorderà come «Nessuna persona è illegale». Tra gli altri ci saranno i romani di Baobab, Action, Esc, Communia, ma è è prevista anche la partecipazione di realtà milanesi, bolognesi e da Genova. «Vogliamo essere in piazza – è scritto nell’appello dei centri sociali – perché riteniamo urgente rispondere al clima di odio razziale e di guerra ai poveri che sta imperversando nelle nostre città e che viene alimentato ad arte dal razzismo istituzionale e dallo sciacallaggio d formazioni esplicitamente neofasciste. Vogliamo essere in piazza insieme agli uomini e alle donne migranti che continuano a mostraci grande coraggio e determinazione nel disegnare le proprie rotte e costruire il proprio futuro».
Il rappresentante Alto commissariato Onu per i rifugiati a Tripoli racconta il caos di Sabratha. «Compiute 730 visite nei centri ufficiali di detenzione e ottenuta la libertà per 1.400» «I violenti scontri tra milizie della zona di Sabratha hanno provocato prima di tutto un altissimo numero di sfollati interni, cittadini libici che stanno affrontando nuovamente situazioni di precarietà e disagio. E poi sono state scoperte diverse prigioni clandestine dove erano rinchiusi migliaia di rifugiati e migranti, almeno 10 mila persone per stare a una stima prudenziale, che si trovavano in attesa di poter attraversare il Mediterraneo e che oggi stiamo assistendo». Roberto Mignone è il rappresentante dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Risponde, considerato il ruolo e il contesto, calibrando il tono e le parole. L’agenzia guidata da Filippo Grandi ha scelto per il non facile ritorno a Tripoli un funzionario con una lunga esperienza negli interventi di risposta rapida in situazioni d’emergenza. Solo nel 2016, da Principal emergency response coordinator dell’Acnur, Mignone è intervenuto durante emergenze e catastrofi in Burundi, Senegal, Ecuador, Honduras, Guatemala, El Salvador, Panama, Venezuela, Sud Sudan e Iraq.
Qual è la situazione a Sabratha? «Da una settimana lo staff dell’Agenzia Onu per i Rifugiati è al lavoro per far fronte agli urgenti bisogni umanitari nella città e nelle zone limitrofe. Non facciamo differenze, perciò le Nazioni Unite stanno assistendo tutte le persone che necessitano di aiuti, e tra queste vi sono decine di migliaia di libici sfollati interni, anch’essi vittime troppe volte dimenticate di questa crisi. Al termine degli scontri, 3.000 famiglie libiche sono state costrette ad abbandonare le proprie case e più di 10.000 tra rifugiati e migranti sono in difficoltà e hanno bisogno urgente di assistenza. Ci sono 2.000 famiglie che hanno fatto ritorno nelle loro abitazioni, ma necessitano comunque di assistenza. Più di 500 sono le case danneggiate o distrutte dai colpi di mortaio e dai bombardamenti. Le autorità locali parlano anche di un certo numero di scuole danneggiate e stiamo lavorando per riaprirle».
Migranti e rifugiati si sono trovati nel mezzo delle periodiche battaglie. Con quale risultato? «I combattimenti hanno permesso di scoprire un imprecisato numero di prigioni clandestine, sotto il diretto controllo delle milizie e dei trafficanti di uomini. E da queste migliaia di persone sono scappate. Migranti e rifugiati sono stati trasferiti nell’hangar che si trova nella zona di Dahman, dove questo sito sta iniziando a essere utilizzato come punto di raccolta e ospita al momento 4.500 persone». Quali sono le vostre priorità in Libia? «Innanzitutto lavorare sull’identificazione dei casi più vulnerabili, persone che rischiano di essere trasferite nei centri di detenzione. L’Acnur ha già fatto presente alle autorità la necessità che i rifugiati al momento detenuti vengano rilasciati immediatamente e trasferiti in un posto sicuro dove possiamo fornire loro assistenza. Intanto lavoriamo a stretto contatto con le autorità di Sabratha, Sorman e Zuara, per individuare e avviare progetti di risposta rapida, compresa la riapertura delle scuole per gli sfollati interni».
Riuscite ad avere libertà di movimento all’interno del Paese? «A giugno un convoglio delle Nazioni Unite è stato attaccato a colpi di mitra e bazooka e solo per un caso non è stata una strage di funzionari internazionali. Nonostante questo, il personale internazionale dell’Acnur viaggia ogni settimana in Libia per missioni di rotazione. Io stesso sto aspettando dalle Nazioni Unite (che valutano i rischi per la sicurezza e autorizzano o vietano gli spostamenti, ndr) il via libera per raggiungere Sabratha».
L’Acnur riesce ad accedere nei centri di raccolta dei migranti? Che tipo di lavoro riuscite a compiere? «Ad oggi abbiamo compiuto 730 visite nei centri di detenzione ufficiale, dove interveniamo per offrire cure mediche, assistenza materiale, e per identificare i casi su cui possiamo intervenire per ottenerne il rilascio (1.400 le persone liberate nel 2016, ndr) e la concessione dello status di rifugiato, ma si tratta di procedure complicate perché bisogna sempre concordare tutto in anticipo con le autorità libiche».
Cosa chiedete in particolare alle autorità di Tripoli? «Fino ad ora abbiamo registrato 43.133 persone come rifugiati o richiedenti asilo. Di questi l’85% era in Libia da tempo. Ma non dimentichiamo che ci troviamo ad agire in un contesto precario. La Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra sullo stato dei rifugiati del 1951, e Tripoli non ha neanche un memorandum con l’Acnur. Quello che ci permettono di fare è registrare e identificare i migranti, su cui discutiamo caso per caso per riconoscere la protezione internazionale».
Cosa dovrebbero fare la comunità internazionale e Paesi come l’Italia, che sono in stretto contatto con il governo riconosciuto, per facilitare il vostro lavoro? «Un esempio: stiamo cercando di negoziare con le autorità anche sul numero di nazionalità meritevoli di protezione, in modo da poterle ampliare poiché la Libia ammette solo un ristretto gruppo di provenienze. Ma qui abbiamo casi di profughi da Yemen, Sud Sudan, Congo. Ci sono poi anche profughi siriani, arrivati quando nel loro Paese era scoppiata la guerra. Per il momento Tripoli non ne riconosce lo status, ma confidiamo di ottenere risultati in tempi brevi. E crediamo che queste istanze siano ben note a quanti nel mondo si relazionano e possono insistere con Tripoli».
il Fatto Quotidiano
Piove a gocce grosse come biglie. In pochi minuti il sole si oscura e con la stessa velocità la strada si trasforma in una palude. Le capanne flettono sotto il peso dell’acqua, i viottoli che scendono per le collinette diventano ruscelli. Un mese fa questo era un bosco, oggi è il campo profughi di Balukhali, dove vivono oltre 100 mila rifugiati. Ma i numeri dell’esodo rohingya sono ancora più imponenti. Da fine agosto una violenta azione dell’esercito birmano ha messo in fuga verso il Bangladesh oltre mezzo milione di persone, tutte bloccate in una manciata di chilometri quadrati all’estremo sud del Paese. In un quarto d’ora torna il sole e illumina il fango lasciato dall’acquazzone. Il termometro schizza sopra i 35 gradi, che con l’umidità sembrano 45.
“Sono rimasto solo – Rohaman, sedici anni, non perde il sorriso nemmeno mentre racconta il massacro della sua famiglia – l’esercito è arrivato e ha iniziato a sparare, era notte. I miei genitori e mia sorella dormivano, sono bruciati con la casa”. Rohaman quella sera era da suo zio. Quando ha visto il fuoco è scappato nella foresta. “Mi sono nascosto lì per 12 giorni – continua il ragazzo – senza mangiare, senza dormire”. Ha altri otto fratelli, anche loro sono scappati: “Saranno in un altro campo o forse ancora in Myanmar”. Racconta che di Buthi Dung, il suo piccolo villaggio, non è rimasto più nulla: “Tutto è stato bruciato, le trecento persone che ci vivevano o sono fuggite o sono morte”.
La storia di Rohaman è piena di dettagli, di colpi di macete, di arti amputati, di stupri, ma soprattutto di paura. Tutto questo però non è verificabile. Il Myanmar non permette ai giornalisti e agli osservatori internazionali di visitare il Rakine, la regione interessata dagli scontri. Le immagini satellitari, analizzate da Human Right Watch, hanno registrato il rogo di oltre 65 villaggi nelle ultime sei settimane. Per chi scappa si tratta della mano incendiaria dell’esercito birmano. Per i generali, invece, sono gli stessi rohingya a dar fuoco alle proprie case per poi fuggire in Bangladesh. Ma la versione della giunta militare, che guida il Myanmar da quasi 30 anni, non convince gli osservatori internazionali: “Le operazioni della Birmania contro i rohingya, sembrano applicare i principi della pulizia etnica”, ha detto a metà settembre Zeid Ràad el Hussein, l’Alto Commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.
Le accuse della comunità internazionale fanno ancora più rumore, perché offuscano l’aura di Aung San Suu Kyi, icona mondiale della nonviolenza. Nel 1990, poco dopo che la giunta militare s’impadronì del potere, Suu Kyi si presentò alle elezioni e le vinse. L’esercito la fece incarcerare. L’anno successivo la signora di Rangoon fu insignita del Nobel per la Pace. Da lì in poi, fino al 2010, visse agli arresti domiciliari. Oggi, dopo aver vinto le elezioni del 2015, sarebbe dovuta essere il primo ministro, ma i militari le hanno assegnato un ruolo creato ad hoc: consigliere di Stato. Per tre settimane dall’inizio della crisi, Suu Kyi ha mantenuto il silenzio sulle violenze perpetrate contro la minoranza rohingya. Il 18 settembre ha, finalmente, detto la sua: difendendo le forze di sicurezza che starebbero prendendo tutte le misure necessarie per non colpire i “civili innocenti” e per evitare “danni collaterali”. Strano che dopo anni di arresti domiciliari l’eroina birmana si schieri con i suoi (ex) aguzzini.
All’ingresso del campo di Balukhali su un cartellone nero si legge “Basta omicidi. Aung San Suu Kyi riconsegna il Nobel”. Se violenze e ferite possono essere nascoste, bastano pochi passi tra i rohingya rifugiatisi in Bangladesh per vedere i segni della malnutrizione. Da ogni tenda spuntano bambini nudi da braccia, gambe scheletriche e con il ventre gonfio. In piedi davanti all’ingresso della capanna di bambù c’è una donna con un bimbo di poche settimane tra le braccia. “Siamo scappati quando lui aveva 20 giorni – spiega Nurtaz Bagan, 25anni e cinque figli – non avevo latte da dargli. Prima di arrivare qui non mangiavo da giorni”. L’esercito di Dhaka registra tutti i rohingya che entrano nel Paese e li invia verso i campi profughi, a pochi chilometri dal confine. Non è il governo a prendersi cura di loro, ma le ong. Lunghe file dall’alba al tramonto segnano il ritmo dei pasti. Dei recinti di bambù racchiudono centinaia di bambini che aspettano nel fango. Chi di loro ha un piatto lo usa per ripararsi dal sole. Dai pentoloni escono mestolate di riso e salsa piccante. Non ce n’è per tutti. Si corre, si litiga, qualcuno scoppia a piangere, molti resteranno a digiuno anche oggi.
Un mormorio ritmico e ripetitivo arriva dalla cima di una collinetta. Uomini in galabeya bianca e barba lunga appoggiano la fronte a terra. La moschea è il luogo più pulito di tutto il campo. Il trentenne Ayoub Khan sorregge il padre anziano mentre si infila le ciabatte dopo aver terminato il rito della preghiera. “Non meritava di lasciare la sua casa prima di morire – dice mentre prende sottobraccio il genitore e lo accompagna verso la tenda – ci danno la caccia perché siamo rohingya, perché siamo musulmani”. Ayoub divide la capanna con tutta la famiglia allargata, meno di 20 metri quadrati dove dormono e mangiano 13 persone. “Sono laureato, ma non mi hanno mai fatto lavorare. In Birmania noi rohingya non possiamo avere impieghi qualificati. Ci odiano e ci perseguitano”.
In Myanmar la maggioranza della popolazione è buddista. I rohingya sono confinati nel nord del Paese, alla frontiera con il Bangladesh. Nei secoli quell’area passa di mano diverse volte. Si crea così una minoranza musulmana con lingua e cultura diversa dal resto dello Stato. Durante la Seconda guerra mondiale i britannici armano i rohingya, i giapponesi fanno lo stesso con i buddisti. I massacri si susseguono per anni. Non basta la fine del conflitto mondiale: le armi continuano ad arrivare dal Regno Unito, questa volta per fermare l’avanzata dell’Unione Sovietica. Nel 1948 la Birmania diventa indipendente. Subito la maggioranza burma e buddista inizia una discriminazione sistematica contro la minoranza musulmana. Media e società civile etichettano i rohingya come migranti illegali bangladesi. La repressione genera una resistenza violenta che negli ultimi anni si riunisce nell’Arsa, un gruppo di matrice islamica che lotta per la liberazione dell’Arkan, antico regno dei rohingya. Per ogni attacco dell’Arsa l’esercito birmano colpisce i villaggi musulmani. I civili scappano. Il copione si ripete, fino a degenerare ad agosto nella più grande crisi umanitaria dei nostri giorni.
Nessuno è in grado di dare dati ufficiali né su quanti siano i rohingya entrati in Bangladesh né su quanti ce ne siano nei campi. Lungo le strade che attraversano gli insediamenti gli uomini camminano schiacciati dal peso dei lunghi bambù che trasportano. “Dieci pali lunghi quattro metri – dice un ragazzo con gli alberi in equilibrio sulla spalla – due teloni di plastica e qualche cordino. Basta questo per costruirmi casa”. Tra il fango e la pioggia i profughi stanno costruendo una città con canne di bambù. Le tagliano, legano e intrecciano, trasformandole in tetti, muri e recinti. Tutto destinato a durare meno della stagione monsonica.
Non c’è un piano di sviluppo, non ci sono bagni né acqua corrente. Mancano le scuole e le strutture sanitarie, ma si contano già decine di moschee. Le fogne non sono altro che dei canali di scolo che scaricano in mezzo alle colline, proprio accanto ai primi embrioni di negozi. L’odore acre di feci mischiate ad acqua lasciata al sole, è un campanello d’allarme importante. La organizzazione mondiale della Salute ha già annunciato un piano di vaccinazioni obbligatorie contro il colera.
I campi si snodano per una lingua d’asfalto lunga quasi dieci chilometri, alle due estremità i posti di controllo dell’esercito di Dhaka. I rohingya possono entrare, ma non uscire. Siamo nel distretto di Cox’s Bazar, la riviera romagnola del Bangladesh, 120 chilometri di spiaggia con sabbia bianca, la perla del turismo nazionale. Il mezzo milione di rifugiati ha visto quel mare solo una volta, quando lo ha attraversato scappando dalla Birmania.
Shamlapur è un villaggio di pescatori, il Myanmar dista meno di un’ora di navigazione. Sul bagnasciuga sono adagiate diverse barche lunghe una decina di metri, hanno poppa e prua affusolate verso l’alto. “Ci sono stati molti naufragi – racconta Saad Bin Hossain, regista di Dhaka che sta documentando la fuga dei rohingya – lunedì scorso l’ultimo. Sono arrivati a riva 12 cadaveri, dieci erano bambini”. L’acqua è scura, carica della terra che i monsoni gettano in mare. “Si può attraversare il confine anche a piedi – continua Saad – ma è più pericoloso. Ho visto il corpo di un ragazzo imputridire nella no man’s land, ha pestato una mina anti-uomo, con lo zoom della telecamera lo potevo vedere in faccia, i suoi resti sono ancora lì”.
la Repubblica
Leggende della musica come Joan Baez, la voce della protesta degli anni 70, Robert Plant, Emmylou Harris, Brandi Carlile e Steve Earle - insieme ad altri musicisti - stanno donando il loro tempo e talento per Lampedusa, riconoscendo l'immane sforzo che la piccola isola siciliana sta compiendo da vent'anni per i profughi. Lampedusa: Concerts for refugees è un tour di otto concerti da Seattle a Dallas, passando per lo storico teatro Wiltern di Los Angeles. Abbiamo parlato al telefono con Joan Baez (la Bob Dylan femminile) prima che salisse sul bus con il resto della compagnia e proseguire verso l'Arizona e il Texas per le altre tappe di questa importante iniziativa, organizzata dalla compagnia gesuita Jesuit Refugee Service in partnership con l'alto commissariato dell'Onu per i profughi (Unhcr). Il tour è finalizzato a raccogliere fondi e sensibilizzare l'opinione pubblica sulla crisi dei rifugiati nel mondo.
"Ci sono 65.3 milioni di persone nel mondo costrette a lasciare la propria terra per violenza, persecuzioni e calamità naturali," spiega Rob Robinson, direttore di Jrsusa e organizzatore dell'evento. Più di 21 milioni sono rifugiati. Metà dei profughi hanno meno di 18 anni, e meno del 50 percento dei giovani hanno accesso all'educazione. È per questo che proprio l'educazione è al centro del nostro impegno in questi concerti. Nel novembre del 2015 il Jrs ha lanciato la Global Education Initiative per l'educazione dei giovani profughi". "E Lampedusa è un emblema di questo problema globale" aggiunge la sempre combattiva Baez. "È un simbolo, e le immagini che si associano a quel simbolo sono molto forti, oggi come nel passato".
Joan, come è iniziato il suo coinvolgimento con questa serie di concerti per Lampedusa?
Emmylou Harris era stata la prima a entrare in contatto col gruppo di gesuiti che avevano l'appoggio della Uhncr, con cui avevo lavorato fin dagli anni 70. Il Jesuit Refugee Service è un'organizzazione umanitaria che da 36 anni opera in oltre 45 Paesi nel mondo. Sono molto seri e impegnati, e mi fido di loro ciecamente. Emmylou è una donna di forti convinzioni, è una specie di calamita cui non puoi sottrarti quando si mette in testa una cosa e decide di coinvolgerti. Mi ha fatto capire la forza del progetto. Insieme sul palcoscenico cerchiamo di far capire l'importanza di questa causa. Soprattutto quella di dare educazione ai profughi.
Quindi crede che la musica possa scuotere le coscienze?
Di sicuro la musica riesce a smuovere lo spirito, ovvero riesce a creare forme di empatia talora inconsapevoli. Ed è già qualcosa. Dà alla gente una sensazione di speranza, anche quando sembra che ce ne sia poca. La musica vera anela sempre a un mondo migliore. Io sono cresciuta con quel tipo di musica. Si può fare politica con la musica. Io ci credo.
Il problema dei profughi le è sempre stato a cuore.
Oggi più che mai. E con le cose che stanno succedendo a Washington - e non è Trump, lui è solo lo strillone - con questo sentore di regressione conservativa e isolazionista, credo che mai come adesso dobbiamo cantare ad alta voce. La destra estrema è in crescita qui negli Usa, come in altri Paesi dell'occidente. Trump non ha fatto altro che sdoganare la destra americana. Allora dobbiamo darci da fare - noi persone di coscienza - più che mai. E dobbiamo incoraggiare le persone al potere a comportarsi in maniera decente, civile, avere compassione e empatia, tutte quelle cose che stanno sparendo dai nostri vocabolari. Una mia amica ha una t-shirt con la scritta: Make America Mexico Again, che trovo strepitosa. Non dovremmo dare tanta importanza alle celebrazioni individuali o di gruppo, che sono sempre divisive.
Ha visitato campi profughi? È mai stata a Lampedusa?
No, a Lampedusa non sono mai stata, ma adoro l'Italia e la Sicilia. Sono anni che non visito campi profughi dopo le mie esperienze in Cambogia e Vietnam. Lo vorrei fare appeno finisco questa serie di concerti e altri impegni pressanti. E vorrei andare a Lampedusa, certo. Questi concerti sono in onore di quell'isola, che è diventata una stazione di passaggio di tante persone in fuga da situazioni atroci. Lampedusa è il simbolo globale dell'accoglienza, del nuovo umanesimo.
Lei è anche impegnata a dipingere, sua nuova passione.
Ho iniziato a dipingere seriamente circa sei anni fa, e faccio soprattutto ritratti. Il volto umano e ciò che racconta rimane il mio soggetto favorito. Esprimi tutta una vita sul volto e un bravo artista riesce a coglierla e raccontarla. Sto pensando a una mostra e forse a un libro, un giorno.
Per il problema dei profughi, quale sarebbe la canzone di battaglia più appropriata?
Ce n'è qualcuna nuova, come Deportees o The Immigrant Song, che cantiamo in questa tournée. Ma se mi chiede se ci sia oggi una canzone come Blowing in the wind, no, non c'è.
il Fatto Quotidiano,
Non ci sta Mimmo Lucano a passare come uno dei tanti politici malandrini e truffatori che speculano sui bisogni dei rifugiati. Riace è il paese dell’accoglienza e lui non è un Buzzi qualsiasi. Il suo borgo, che dall’alto di colline bianche di calcare guarda allo Jonio, non è Mafia Capitale. Venerdì in centinaia hanno affollato le piazze del suo paese per portargli solidarietà. “Non posso accettare che per colpa mia si mortifichi un ideale”, ha detto con le lacrime agli occhi.
Le accuse che rischiano di stritolarlo sono pesanti, “truffa aggravata allo Stato e alla Ue, concussione, abuso d’ufficio”. La morte del modello Riace. Quello che ha portato la rivista Fortune ad inserire Lucano tra le cinquanta personalità più influenti del mondo, e che fece dire a Wim Wenders che “la vera utopia non è il crollo del Muro, ma quello che sono riusciti a fare a Riace”. E allora Mimmo ’o curdu (come lo chiamano) vuole essere interrogato e subito. Martedì sarà davanti ai pm di Locri. Ma prima vuole che si passi al setaccio la sua vita. Proprietà, conti correnti, beni della sua ex moglie e dei suoi tre figli e quelli del padre, maestro elementare in pensione. Noi lo abbiamo fatto. Lucano ha una piccola casa al borgo, una Giulietta comprata a rate, e due conti alle poste, con un unico versamento fisso, poco più di mille euro, la sua indennità da sindaco. Solo a giugno di quest’anno una impennata, un bonifico di 10mila euro accreditato dalla associazione umanitaria tedesca Friends of Dresden Deutschland.
Erano il frutto di un premio, soldi suoi, quindi, che in buona parte (9500 euro prelevati ad agosto) ha destinato “ad attività di accoglienza”. Un altro premio in denaro, scrive nella lettera inviata al procuratore di Locri, ha voluto che fosse destinato ai terremotati di Amatrice. Ma la battaglia di Lucano è difficile, perché il conflitto che ha innescato è di livello altissimo. È lo scontro tra legalità formale e giustizia sostanziale, emergenza e regole burocratiche, umanità e protocolli, freddi burocrati e uomini in carne e ossa.
Leggere le varie relazioni fatte, nell’ordine dal Servizio centrale di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati e dalla Prefettura di Reggio Calabria, è fare un viaggio in un labirinto di articoli di legge, commi, capitolati d’appalto. Un insieme di regole formali, che così come sono non funzionano. Se si vuole assicurare una vita dignitosa e l’integrazione dei profughi, vanno cambiate radicalmente, sostiene Lucano. Destinato sempre a scontrarsi con un “tuttavia”, avverbio onnipresente nelle conclusioni degli ispettori. Relazione del dicembre 2016 della prefettura di Reggio, frutto di una ispezione richiesta dallo stesso sindaco Lucano dopo quella del Servizio centrale di protezione del 20-21 luglio. Premessa.
“Il modello Riace assicura la necessaria accoglienza e assistenza nel pieno rispetto dei diritti fondamentali e della dignità degli stranieri”. Rapporti con gli abitanti: “Pacifica convivenza. Clima di armonizzazione e serena integrazione”. Lavoro degli immigrati e laboratori artigiani: “Virtuosa riqualificazione ambientale grazie a progetti sostenibili”. Tutto bene? No, perché a questo punto irrompe il mortale “Tuttavia”… “Tuttavia gli aspetti positivi non giustificano di per sé previsioni derogatorie alla normativa vigente”.
Gli ispettori venuti da Reggio, e che vogliono smontare “l’idilliaco alone” che aleggia su Riace, contestano le concessioni con gli enti esistenti (le coop sorte in paese), le strutture di ricezione (le case date ai migranti, il cui costo mensile, 300 euro, è giudicato alto), l’assunzione dei 70 operatori, la carenza di personale specializzato. Un numero consistente di profughi viene ancora ospitato nonostante la scadenza dei termini previsti dalla legge.
Poi la bomba: a Riace si batte moneta, come fosse uno Stato autonomo. Si tratta di buoni di carta che vengono dati agli ospiti per fare la spesa. Sono parte dei 35 euro destinati per ogni migrante e hanno impresso l’immagine del Che, di Berlinguer e Pasolini. I pochi commercianti di Riace li accettano in attesa di essere pagati con i soldi veri, quelli del ministero che arrivano sempre con mesi di ritardo. Quei “buoni”, si legge in un’altra relazione del Servizio centrale sono “succedanei della moneta”, acquistate i ticket, oppure ricorrete a prestiti bancari in attesa dei soldi del Viminale.
Risposta di Lucano: “Non voglio sottrarre risorse ai progetti per pagare interessi bancari”. Le controdeduzioni di Mimmo Lucano alle relazioni, sono durissime. Le ispezioni sono state “eseguite in modo approssimativo e parziale”, non sono stati sentiti gli immigrati, né le gente di Riace. “Avete controllato solo carte e documenti. Vi siete limitati alla burocrazia”. Sugli affidamenti diretti. Ad ogni sbarco, “ministero e prefettura mi chiamavano per ospitare altre persone, se c’è stata mancanza di iter trasparenti, questa può essere una responsabilità condivisa con gli organi superiori”.
Si sono utilizzate le cooperative del posto “perché avevamo bisogno di coinvolgere la popolazione locale. Non vogliamo aprire le porte alle holding dell’accoglienza che controllano il mercato, spesso illegale, della gestione di mega centri e di Cara su scala nazionale”. Noi non abbiamo “costruito ghetti”, ma “accoglienza diffusa”, da qui la ristrutturazione e l’uso delle case abbandonate del borgo. Infine la risposta sugli immigrati trattenuti oltre i tempi previsti dalla normativa. “Per evitare le critiche degli ispettori dovremmo abbandonarli?”, scrive Lucano. “ Se dopo sei mesi ci ritroviamo in strada decine di immigrati, qual è l’utilità del progetto e della relativa spesa? Questo epilogo tutela l’ordine pubblico e la legalità, oppure favorisce criminalità e disordine?”.
Gli esseri umani “non hanno scadenza”, dice Mimmo ’o curdu, “e l’accoglienza non è un valore ad orologeria”. Burocrazia e realtà. A Riace 150 rifugiati sono usciti dai progetti di assistenza e vivono stabilmente in paese, “definitivamente inseriti nel contesto sociale ed economico”. È l’utopia della normalità.
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