Sono indignato davanti a quest’Italia che si militarizza sempre più. Lo vedo proprio a partire dal Sud, il territorio economicamente più disastrato d’Europa, eppure sempre più militarizzato. Nel 2015 è stata inaugurata a Lago Patria (parte della città metropolitana di Napoli) una delle più importanti basi Nato d’Europa , che il 5 settembre scorso è stata trasformata nell’Hub contro il terrorismo (centro di spionaggio per il Mediterraneo e l’Africa). Sempre a Napoli, la nota caserma della Nunziatella è stata venduta dal Comune di Napoli per diventare la Scuola Europea di guerra, così vuole la ministra della Difesa Roberta Pinotti. Ad Amendola (Foggia) è arrivato lo scorso anno il primo cacciabombardiere F-35 armabile con le nuove bombe atomiche B 61-12. In Sicilia, invece, la base militare di Sigonella (Catania) diventerà nel 2018 la capitale mondiale dei droni. E sempre in Sicilia, a Niscemi (Trapani) è stato installato il quarto polo mondiale delle comunicazioni militari, il cosiddetto Muos. Mentre il Sud sprofonda a livello economico, cresce la militarizzazione del territorio. Non è per caso che così tanti giovani del Sud trovino poi rifugio nell’Esercito italiano per poter lavorare.
Ma anche a livello nazionale vedo un’analoga tendenza: sempre più spese in armi e sempre meno per l’istruzione, sanità e welfare. Basta vedere il Fondo di investimenti del governo italiano per i prossimi anni per rendersene conto. Su 46 miliardi previsti, ben 10 miliardi sono destinati al ministero della difesa : 5.3 miliardi per modernizzare le nostre armi e 2.6 per costruire il Pentagono italiano ossia un’unica struttura per i vertici di tutte le nostre forze armate , con sede aCentocelle (Roma).
Ma è ancora più impressionante l’esponenziale produzione bellica nostrana: Finmeccanica (oggi Leonardo) si piazza oggi all’ottavo posto mondiale. Lo scorso anno abbiamo esportato per 14 miliardi di euro, il doppio del 2015! Grazie alla vendita di 28 Eurofighter al Kuwait per otto miliardi di euro, merito della ministra Pinotti, ottima piazzista d’armi. E abbiamo venduto armi a tanti paesi in guerra, in barba alla legge 185 che ce lo proibisce. Continuiamo a vendere bombe, prodotte dall’azienda RMW Italia a Domusnovas(Sardegna), all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen, dov’è in atto la più grave crisi umanitaria mondiale secondo l’Onu (tutto questo nonostante le quattro mozioni del Parlamento europeo). L’Italia ha venduto armi anche al Qatar e agli Emirati Arabi con cui quei paesi armano i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Africa (noi che ci gloriamo di fare la guerra al terrorismo!). Siamo diventati talmente competitivi in questo settore che abbiamo vinto una commessa per costruire quattro corvette e due pattugliatori per un valore di 40 miliardi per il Kuwait.
Non meno preoccupante è la nostra produzione di armi leggere: restiamo al secondo posto dopo gli Usa! Per la cronaca sono queste le armi che uccidono di più. E di questo commercio, naturalmente, si sa pochissimo.
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Quest’economia di guerra sospinge il governo italiano ad appoggiare la militarizzazione della Ue. È stato inaugurato a Bruxelles il Centro di pianificazione e comando per tutte le missioni di addestramento, vero e proprio quartier generale unico. Inoltre la Commissione Europea ha lanciato un Fondo per la Difesa che a regime svilupperà 5,5 miliardi di investimento l’anno per la ricerca e lo sviluppo industriale nel settore militare. Questo fondo, lanciato il 22 giugno, rappresenta una massiccia iniezione di denaro pubblico nell’industria bellica europea. Sta per nascere anche la” PESCO-Cooperazione strutturata permanente” della Ue nel settore militare (la Shengen della Difesa). “Rafforzare l’Europa della Difesa – ha detto Federica Mogherini, Alto Rappresentante della Ue, per gli Affari esteri- rafforza anche la Nato”.
La Nato, di cui la Ue è prigioniera, è diventata un mostro che spende mille miliardi di dollari in armi all’anno. Trump chiede ora ai 28 paesi membri della Nato di destinare il 2 per cento del Pil alla Difesa. L’Italia destina oggi 1,2 per cento del Pil per la Difesa. Gentiloni e Pinotti hanno già detto di Sì al diktat di Trump. Così l’Italia arriverà a spendere100 milioni al giorno in armi. La Nato trionfa, mentre è in forse il futuro della Ue. Infatti è la Nato che ha forzato la Ue a creare la nuova frontiera all’Est contro il nuovo nemico, la Russia, con un imponente dispiegamento di forze militari in Ucraina, Polonia, Romania, Bulgaria, in Estonia, Lettonia e con la partecipazione anche dell’Italia. La Nato ha anche stanziato 17 miliardi di dollari per lo “Scudo anti-missili.” E gli Usa hanno l’intenzione di installare in Europa missili nucleari simili ai Pershing 2 e ai Cruise (come quelli di Comiso). La Russia ovviamente risponde con un altrettanto potente arsenale balistico.
Fa parte di questo piano anche l’ammodernamento delle oltre duecento bombe atomiche B-61, piazzate in Europa e sostituite con le nuove B 61-12. Il ministero della Difesa ha pubblicato in questi giorni sulla Gazzetta Ufficiale il bando di costruzione a Ghedi (Brescia) di nuove infrastrutture che ospiteranno una trentina di F-35 capaci di portare cadauno due bombe atomiche B61-12. Quindi solo a Ghedi potremo avere sessantina di B61-12 , il triplo delle attuali! Sarà così anche adAviano? Se fosse così rischiamo di avere in Italia una forza atomica pari a 300 bombe atomiche di Hiroshima. Nel silenzio più totale!
Mai come oggi, ci dicono gli esperti, siamo vicini al “baratro atomico”. Ecco perché è stato provvidenziale il Trattato dell’Onu, votato il 7 luglio, che mette al bando le armi nucleari. Eppure l’Italia non l’ha votato e non ha intenzione di votarlo. È una vergogna nazionale. Occorre essere grati a papa Francesco che ha convocato un incontro, lo scorso novembre, in Vaticano sul nucleare, proprio in questo grave momento in cui il rischio di una guerra nucleare è alto e per il suo invito a mettere al bando le armi nucleari.
Quello resta incomprensibile è l’incapacità del movimento della pace a mettersi insieme e scendere in piazza a gridare contro un’Italia e un’Unione Europea che si stanno armando sempre di più, davanti a guerre senza numero, davanti a un mondo che rischia l’olocausto nucleare. Eppure in Italia c’è una straordinaria ricchezza di gruppi, comitati, associazioni, reti che operano per la pace. Ma purtroppo ognuno fa la sua strada.
E come mai tanto silenzio da parte dei vescovi italiani? E che dire della parrocchie, delle comunità cristiane che si apprestano a celebrare la nascita del “Principe della Pace?”. “Siamo vicini al Natale – ammonisce papa Francesco – ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi… tutto truccato: il mondo continua a fare guerra!”
Oggi più che mai c’è bisogno di un movimento popolare che contesti radicalmente questa economia di guerra
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Roma, 11 dicembre 2017, Nena News – Non calano le tensioni intorno a Gerusalemme. Ieri i Territori Occupati sono stati teatro di nuove manifestazioni e scontri: almeno 157 i feriti tra Gerusalemme, Gaza e Cisgiordania, secondo la Mezzaluna Rossa. Due giovani palestinesi sono stati colpiti dal fuoco israeliano a Betlemme, sparato dalle torrette militari che costellano il muro di separazione.
Secondo testimoni, i due sono stati soccorsi da alcuni civili mentre cercavano di scappare verso il vicino campo profughi di al-Azza. Sono ricoverati in ospedale. Poco prima a Gerusalemme un palestinese di 24 anni ha accoltellato una guardia privata israeliana alla stazione degli autobus della città: il giovane è stato arrestato, la guardia è in ospedale.
(Foto: Ma’an News) |
Diversa la posizione europea espressa ieri vis-à-vis dal presidente francese Macron a Netanyahu, in visita a Parigi. All’Eliseo Macron non ha risparmiato dure critiche all’alleato: in due ore di colloquio, Parigi ha chiesto a Tel Aviv “il congelamento della colonizzazione”, ma soprattutto ha espresso “disapprovazione” per la decisione di Trump definendola “contraria al diritto internazionale e pericolosa per la pace”. Netanyahu, consapevole dell’opposizione di quella parte della comunità internazionale che ancora vede nella soluzione a due Stati l’unica via d’uscita al conflitto, pur all’angolo ha ripetuto lo stesso mantra: “Se Parigi è la capitale della Francia, Gerusalemme è la capitale di Israele”. Un discorso che viola alla radice quanto previsto dal diritto internazionale e da quella risoluzione, la partizione della Palestina storica da parte dell’Onu nel 1947, che Israele ha sempre utilizzato per legittimarsi.
Articolo tratto da "Bocche scucite". La pagina originale può essere raggiunta qui
Al di là delle condanne della Lega Araba e dei singoli paesi, nessuno ha assunto misure concrete. Macron e Mogherini strigliano Netanyahu, mentre Washington prova a spostare su Abu Mazen la responsabilità delle tensioni
Gerusalemme est durante le proteste palestinesi (Foto: Ma’an News) |
, 9 dicembre 2017. L’Occidente, ai palestinesi, elargisce solo elemosine mentre è totalmente succube dei governi israeliani fino al punto di piegarsi alla richiesta del Caudillo Bibi di criminalizzare movimenti,che chiamano pacificamente al boicottaggio contro l’illegalità e le ingiustizie che il popolo palestinese subisce ininterrottamente a miriadi, da settant’anni.
NENA news, 8 dicembre 2017. Esplode la rabbia generata dalla provocazione di Donald Trump, il quale dichiara Gerusalemme capitale di Israele annullando con una sciabolata i diritti del popolo palestinese militarmente occupato un secolo fa dalla prepotenza dell'Europa e dall'esercito di Israele
Raggiungere qui l'articolo Gerusalemme oggi è il giorno della rabbia
Nigrizia,The Guardian e Huffington raccontano del mercato degli organi umani, resi disponibili da chi non può chiedere un prezzo: li offrono gratis i poveracci, compresi i fuggitivi in cerca di rifugio
Vai all'articolo di Nigrizia, raggiungibile da qui
l'Avvenire, la Repubblica, il manifesto
L’Avvenire
UE-AFRICA. LIBIA,
Abidjan (Costa d'Avorio) venerdì 1 dicembre 2017 Individuati 3.800 profughi da rimpatriare subito. Tusk: «Servono sanzioni Onu contro i trafficanti»
Nei campi libici potrebbero essere rinchiusi tra i 400.000 e i 700.000 migranti. La stima choc – peraltro già avanzata nei mesi scorsi da altre fonti – è stata diffusa ieri dal presidente della Commissione Africana, il ciadiano Mahamat Moussa Faki, al termine del vertice Unione Africana-Ue ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Un vertice segnato in massima parte proprio dal dramma libico, e che ha portato a un’accelerazione degli sforzi già in atto per svuotare i campi libici. Moussa Faki ieri ha spiegato che l’Unione Africana ha già individuato un campo in Libia con 3.800 migranti.
«E questo – ha detto il presidente – è solo uno, in Libia ci dicono ce ne sono 42». Occorre fare in fretta, «il mio inviato speciale – ha proseguito il ciadiano – è tornato ieri da Tripoli e ha riferito di aver trovato migranti soprattutto dell’Africa occidentale. Ci sono donne e bambini, e vivono in condizioni disumane vogliono tutti tornare a casa». Simbolicamente, il re del Marocco Mohammad VI – alla prima partecipazione del suo Paese a un vertice dell’Ua – ha annunciato di aver già messo a disposizione aerei per l’evacuazione in vari Stati dell’Africa subsahariana dei 3.800 profughi.
Un segnale, ha detto il presidente dell’Unione Africana, il capo di Stato della Guinea Alpha Condé, che «l’Africa è in grado di intervenire an- ch’essa su questo fronte». Un’accelerazione, grazie a un netto coinvolgimento dell’Unione Africana, delle operazioni già lanciate dall’Organizzazione mondiale dei migranti con il sostegno Ue che ha portato nel 2017 al rimpatrio volontari di 13.000 (10.000 dalla Libia) bloccati nei campi in Nordafrica, l’obiettivo è di arrivare a 17.000 entro fine anno. L’occhio è rivolto ovviamente anche alla lotta ai trafficanti. Il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha parlato di «abuso estremamente cinico di esseri umani», chiedendo di «imporre sanzioni Onu ai trafficanti.
Non saremo efficaci, inoltre, se non faremo in modo che le persone bloccate in Libia e altrove possano tornare in modo sicuro nelle loro case». Anche la Francia ieri ha chiesto «il ricorso alle sanzioni individuali e alla giustizia penale internazionale contro chi si macchia di tratta di esseri umani e passeurs di migranti». Intanto ieri è stato chiarito una volta per tutte che la task force per accelerare lo svuotamento dei campi concordata mercoledì sera tra Ue, Ua e Onu non avrà componenti militari.
In un’intervista rilasciata mercoledì sera (prima della riunione sulla task force) a France24 e Radio France Internationale, il presidente francese Emmanuel Macron aveva parlato di una «iniziativa per lanciare azioni militari e di polizia sul terreno per smantellare queste reti», suscitando qualche perplessità, tanto che qualche diplomatico europeo ha sostenuto che Macron abbia tentato una «fuga in avanti» fermata poi dagli europei.
Fatto sta che in realtà la Francia non ha mai proposto formalmente una componente militare per la “task force”, mentre si parla di una più stretta cooperazione tra servizi di intelligence e polizie. «Per fermare il fenomeno – ha detto ancora Moussa Faki – serve una cooperazione mondiale, per bloccare le fonti finanziarie dei trafficanti e tradurli alla giustizia». E infatti di azione militare non si parla né nella dichiarazione comune sulla situazione dei migranti in Libia, né nell’accordo per la task-force per accelerare lo svuotamento dei campi.
Lo stesso Macron ieri in visita ad Accra, la capitale del Ghana, ha precisato che «in questa fase la Francia non ha piani di inviare soldati o poliziotti in Libia». Forse il malinteso è nato dal fatto che in effetti la Francia è sì in impegnata in una missione militare, non però in Libia, bensì in Mali (qui coadiuvata dalla Germania), Niger e Ciad anzitutto per combattere i nuclei terroristici islamistici attivi nel Sahel. Sullo sfondo resta la questione dei fondi. Ieri ad Abidjan Tusk ha di nuovo chiesto che gli Stati membri Ue «mantengano gli impegni economici alimentando il Fondo fiduciario per l’Africa. Sono sicuro che ce la faremo».
Si partirà evacuando 15mila persone entro febbraio. Sono i detenuti dei campi ufficiali nella zona di Tripoli. I soli dei quali c’è conoscenza certa. Per farlo serviranno 60- 80 milioni. Una prima fase del piano di per sé complessa considerando che l’Europa ha rimpatriato dalla Libia 13mila migranti da gennaio a oggi. Ora una cifra superiore andrà rimandata nel proprio paese, reintegrata (anche con un lavoro) entro tre mesi. Certo, dopo il video della Cnn sui lager libici i governi africani hanno deciso di aprire le porte alle persone di ritorno (alcuni come il Ruanda allestiranno anche campi di transito) e grazie all’expertise e ai soldi Ue l’obiettivo è raggiungibile. Il denaro arriverà dal Trust Fund Africa da 2,9 miliardi varato nei mesi scorsi ma ora Bruxelles sprona i governi a mettere più soldi: l’Italia è il primo contributore con 92 milioni, poi la Germania con 33 ma ci sono capitali che pur rifiutando di ospitare i richiedenti asilo e chiedendo che i migranti vengano bloccati in Africa non hanno praticamente messo un centesimo ( l’Ungheria di Orban: 50mila euro). Si spera in nuovi contributi entro il summit Ue di metà dicembre.
Anche perché la seconda parte del piano umanitario sarà ancora più complessa e costosa. Gli europei per ora non confermano i numeri dell’Unione africana (fino a 700mila) sui migranti detenuti in Libia. Si limitano a parlare di decine di migliaia, se non centinaia, di persone da trovare e salvare. I campi andranno cercati — anche in zone poco sicure — e svuotati uno ad uno. I migranti verranno rimpatriati, chi avrà diritto alla protezione internazionale potrà invece contare sul programma di ingresso in Europa già varato da Bruxelles per 50mila persone. Intanto si proverà a chiudere le rotte che portano alla Libia e si andrà in pressing sulle autorità locali perché chiudano i campi cambiando la legge che prevede la detenzione per tutti i migranti illegali, altrimenti si corre il rischio di trovarli di nuovo pieni dopo che sono stati svuotati.
C’è infine il piano Marhall per l’Africa: si parte con i 44 miliardi di investimenti raccolti da Bruxelles per creare un’economia africana capace di trattenere i giovani. Poi si punta, nel bilancio Ue post 2020, a trovare 30- 40 miliardi che grazie ai privati lievitino a 350-400 miliardi per rilanciare il continente nei prossimi decenni e bloccare i flussi. Questa è la scommessa. Vitale per Africa ed Europa.
«Si salvi chi può. Intervista a Federico Scoda (Oim): "Puntiamo a organizzare un volo al giorno per i rimpatri. Ma i libici devono farci entrare in tutti i centri"»
Il vertice di Abidjan si è chiuso con l’impegno preso da Unione europea, Unione africana e Onu di svuotare i centri di detenzione libici rimpatriando i migranti che vi sono tenuti prigionieri. Un compito che dovrà svolgere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che nel 2016 ha favorito il ritorno dalla Libia nei Paesi di origine di 2.775 migranti. «Quest’anno abbiamo già superato i 13.600 rimpatri e penso che arriveremo a 16-17 mila entro la fine di dicembre» afferma Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim.
I rimpatri vengono già fatti, quindi quale sarebbe la novità del piano annunciato ad Abidjan?
La novità non è nel piano, ma nella volontà politica sorta in seguito al reportage della Cnn sui migranti venduti come schiavi. Una realtà che noi avevamo già denunciato ad aprile ma l’impatto avuto da quello immagini ha provocato la reazioni di alcuni organismi, inclusa l’Unione africana. Come Oim siamo in grado oggi di trasferire circa 3-4 mila persone al mese. Se avremo altre risorse, sia dal governo libico che dai Paesi africani, riusciremo a togliere molti più migranti da una situazione come quella dei centri che non è solo inaccettabile e pericolosa , ma spesso rappresenta l’unica possibilità che queste persone hanno visto che molte di loro non possono fuggire perché non hanno i documenti né i mezzi per farlo.
Per gli eritrei e i somali cosa è previsto? Per loro, come per chiunque altro abbia un valido motivo per richiedere la protezione internazionale, il mandato è dell’Unhcr che sta cercando di realizzare un centro a Tripoli dove fare una prima valutazione delle domande di asilo per poi spostare le persone in un Paese sicuro prima di trovare un terzo Paese sicuro dove ricollocarle.
Si è parlato di una task force formata da Ue- Unione africana e Onu. Che compiti avrà? Sarà una task force politica che cercherà di aprire maggiori spazi in Libia per poter lavorare. Ma i dettagli devono ancora essere decisi.
Servono più soldi per organizzare i rimpatri? I soldi ci vorranno. Non è un’esigenza immediata ma lo sarà presto. Oggi organizziamo quattro voli a settimana ma potremmo arrivare facilmente a uno al giorno. Ma c’è qualche ostacolo con le autorità libiche che va superato e questo include anche l’accesso a tutti i centri di detenzione. Lo stesso per gli aerei. La ragione per cui oggi abbiamo solo qualche volo alla settimana è strettamente operativa e riguarda l’aeroporto di Tripoli dove avremmo bisogno di far atterrare aerei più grandi.
Di quanti migranti stiamo parlando? Glielo chiedo perché voi avete accesso ai soli centri governativi, che sono una trentina, ma poi ci sono quelli gestiti dalla milizie.
Stimiamo che nei centri gestiti dal ministero dell’Interno libico ci siano tra i 15 mila e i 18 mila migranti. Poi ci sono tutti quelli di cui non sappiamo niente perché si trovano in luoghi non monitorati come case o altri posti privati. Pensiamo che il Libia possano esserci tra 700 e gli 800 mila stranieri, forse anche di più. Va detto però che non tutti sono in situazioni di pericolo o di sofferenza e non tutti hanno intenzione di raggiungere l’Europa. Sicuramente però le persone che hanno bisogno di assistenza sono molte centinaia di migliaia.
Alla luce di questi dati l’annuncio di voler vuotare i centri non rischia di essere solo propaganda?
Non credo. Il programma non è limitato a 20-25 mila persone. Non dimentichiamoci che nel 2011 abbiamo evacuato dalla Libia quasi 250 mila persone, quasi tutte verso il Bangladesh e le Filippine.
Ma non erano prigioniere come invece succede oggi.E’ vero. Ovviamente in uno Stato fallito e senza strutture governative come è oggi la Libia la situazione è completamente diversa. Non la considero un’operazione di propaganda perché stiamo aiutando migliaia di persone migliorando le loro condizioni di vita. Il punto è che quando c’è qualcuno che soffre e ha bisogno di aiuto i numeri diventano in un certo senso irrilevanti. Se ne aiuti dieci o cento ovviamente cento è meglio, ma comunque quei dieci hanno ricevuto un’assistenza indispensabile. I numeri sono la propaganda degli europei, fissati su quanti sbarchi ci sono ogni giorno trascurando le questioni veramente importanti.
L’Unhcr parla di 50 mila rifugiati da ricollocare in Europa. E’ una cifra realistica viste le difficoltà sempre mostrate da molti Stati?In questo momento non ci sono le condizioni in Europa per farlo. I 50 mila di cui parla l’Unhcr rappresentano l’esigenza, purtroppo però nella maggioranza degli Stati prevale una posizione di chiusura e siamo ancora molto, molto lontani da quei numeri.
Sono 50 milioni i bambini coinvolti nelle migrazioni a livello mondiale, e 28 milioni sono stati sfollati a causa di conflitti. I bambini rappresentano circa il 28% delle vittime della tratta di esseri umani a livello globale, soprattutto nell'Africa subsahariana e in America centrale. Nel 2015-2016 ben 200.000 bambini non accompagnati hanno presentato domanda di asilo in circa 80 Paesi del mondo, mentre nello stesso periodo 100.000 minorenni non accompagnati sono stati arrestati al confine tra Stati Uniti e Messico.
Un vertice mondiale per proteggerli
In anticipo rispetto all`incontro previsto da 4 al 6 dicembre a Puerto Vallarta, in Messico, sulle migrazioni sicure e regolate, l'Unicef ha presentato oggi "Oltre le frontiere", un rapporto sulle migliori pratiche per la cura e la protezione dei bambini rifugiati e migranti.
Il documento contiene esempi concreti del lavoro di governi e comunità di accoglienza per sostenere e integrare i bambini "sperduti" e le loro famiglie, ma anche i rischi cui sono esposti. I minori rifugiati e migranti infatti sono particolarmente vulnerabili alla xenofobia, agli abusi, allo sfruttamento sessuale e alla mancanza di accesso ai servizi sociali. Per questo Unicef ha attivato un programma d'azione in sei punti, che costituisce la base delle politiche per proteggerli e garantirne il benessere; esso comprende azioni per evitare la detenzione dei bambini richiedenti lo status di rifugiato introducendo una serie di alternative pratiche, per mantenere unite le famiglie come migliore mezzo per proteggere i figli, per consentire ai piccoli rifugiati di studiare e avere accesso a servizi sanitari di qualità, per promuovere misure che combattano xenofobia, discriminazioni e marginalizzazione nei Paesi di transito e di destinazione.
Le "buone pratiche" nel mondo
Non è impossibile. Il rapporto presenta casi riusciti di tutto il mondo, tra cui l'attuazione di norme minime di protezione per i bambini rifugiati in Germania, sistemi transfrontalieri di protezione dell'infanzia nell'Africa occidentale e la ricerca di alternative alla detenzione di bambini migranti in Zambia (altri Paesi citati: Afghanistan, Giordania, Libano, Sud Sudan, Vietnam, Uganda e Stati Uniti). Per quanto riguarda l`Italia, si segnala come buona pratica l`adozione della legge 47/2017 sulle misure di protezione dei minori stranieri non accompagnati (Legge Zampa), che definisce un sistema nazionale organico di accoglienza.
I diritti, la protezione e il benessere dei bambini sradicati, "sperduti", dovrebbero essere al centro degli impegni delle politiche migratorie globali. "I leader e i responsabili politici che si riuniscono a Puerto Vallarta possono lavorare insieme per rendere la migrazione sicura per i bambini - ha dichiarato Ted Chaiban, direttore dei programmi dell'Unicef -. Il nostro nuovo rapporto mostra che è possibile, anche in Paesi con risorse limitate, attuare politiche, servizi e investimenti che sostengano efficacemente i bambini rifugiati nei loro Paesi d'origine, mentre attraversano le frontiere e quando raggiungono le loro destinazioni".
Le informazioni e i commenti sono ripresi dall'articolo pubblicato da l'Avvenire online. l'originale è raggiungibile cliccando qui: Sono 50 milioni i bambini «in fuga» nel mondo
Ma’an news,
Rappresentanti da 24 Paesi europei, compresi parlamentari, giuristi, giornalisti e attivisti, si sono incontrati a Bruxelles all’inizio della settimana nella prima conferenza europea sull’attività di colonizzazione di Israele, concordando una dichiarazione che accusa Israele di aver costituito un “regime di apartheid” in Cisgiordania. Secondo un comunicato stampa, il testo approvato è stato denominato la “Dichiarazione di Bruxelles” e condivide le seguenti clausole:
il manifesto, la Stampa
Adriana Pollice racconta su l’odissea della nave Acquarius della Ong Sos Mediterranèe: «I volontari dell’Aquarius, all’arrivo in porto, hanno messo sotto accusa l’Italia e il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma per come sono state gestite le operazioni in mare. Venerdì all’alba l’Aquarius ha individuato un primo gommone in pericolo in acque internazionali, a 25 miglia dalla costa, a est di Tripoli, e poi un secondo gommone ma ha ricevuto l’ordine da Roma di restare in stand-by, il coordinamento delle operazioni era stato assunto dalla marina libica. «La nostra proposta di assistenza è stata declinata dalla Guardia costiera libica – ha spiegato Nicola Stalla, coordinatore dei soccorsi di Sos Méditerranée -. Durante le quattro ore di stand-by le condizioni meteo sono peggiorate, il gommone poteva rompersi e affondare da un momento all’altro». Sophie Beau, vicepresidente dell’Ong, spiega: «I nostri team sono stati costretti a osservare impotenti operazioni che conducono a rimandare indietro persone che fuggono da campi che i sopravvissuti descrivono come un inferno. Non possiamo accettare di vedere esseri umani morire in mare né di vederli ripartire verso la Libia quando la loro imbarcazione è intercettata dalla Guardia costiera libica».
Apocalisse umanitaria
Sempre su il manifesto Nina Valoti ricorda la dimensione del problema «Nel mondo ci sono 65,6 milioni di profughi in fuga da guerre, violenza, soprusi, povertà. Vent’anni fa erano quasi la metà: 33,9 milioni. Ma paradossalmente aumentano le spese in sicurezza per le frontiere: ben 16 miliardi e 700 milioni con un trend di crescita annua stimato nell’8 per cento». Non si tratta di invenzioni giornalistiche: sono dati contenuti nel quindicesimo rapporto “Diritti globali” che spiegano benissimo il titolo scelto quest’anno: «Apocalisse umanitaria».
«Se da anni il dramma globale dei migranti ha infatti come epicentro il Mediterraneo, quest’anno sono state le politiche e gli accordi del nostro governo con la Libia a creare un elemento nuovo e ancor più preoccupante: la criminalizzazione delle organizzazioni non governative e la quasi totale negazione dell’asilo politico, definito giustamente «chimera»: solo il 5 per cento delle domande del 2016 sono state accolte a pieno titolo in Italia.
«Una apocalisse umanitaria incombente anche perché le guerre sono proliferate – spiega Sergio Segio ideatore e curatore del volume con la sua associazione SocietàINformazione – e hanno due caratteristiche inedite: la percentuale delle vittime civili aumenta sempre più fino a toccare il 95 per cento, mentre nella seconda guerra mondiale era del 50 per cento, e i conflitti tendono a non chiudersi mai come dimostrano i casi della Siria, dell’Iraq e dell’Afghanistan per non parlare di Libia e Somalia».
Come da tradizione il Rapporto, sostenuto dalla Cgil e da una galassia di associazioni, si basa «sull’idea di interdipendenza dei diritti nell’epoca della globalizzazione» e mette dunque in rapporto economia, lavoro, diritti umani e ambiente.
I capitoli sui migranti dunque si legano a quelli sulla «crescita economica elusiva» «al tempo degli algoritmi», «il disordine globale», «la dolosa obsolescenza del pianeta» più il nuovo capitolo «In comune» che racconta «reti e pratiche dal basso» per dimostrare che «cambiare è possibile» alternando storie vicine come il Baobab di Roma con altre lontane, come la Coopamare in Brasile, cooperativa di raccoglitori di immondizia.
Il tema dominante però è quello dei migranti e le sue conseguenze, prima fra tutte «l’odio sociale nella società dell’esclusione». «Il tratto caratteristico dell’ultimo periodo è certamente la crisi della cittadinanza – commenta Marco De Ponte, segretario generale di Action Aid Italia – non si discute più, tutto viene deciso in modo opaco e così accade anche per la crisi migratoria. In Italia per gestire questo fenomeno ci sono 12mila microbandi sull’accoglienza senza nemmeno un database nazionale. Noi cerchiamo invece di investire su competenze e dialogo per cambiare le cose».
«Siamo davanti ad un genocidio nell’indifferenza anche da buona parte del mondo progressista perfino davanti alla tortura – sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – . La questione si lega agli spazi di agibilità delle Ong: non è possibile che proprio dall’Italia sia partita l’idea che chi vuole salvare vite umane sia cacciato della legalità, queste visioni securitarie fanno impallidire quanto successe a noi nel 2002: l’allora ministro Castelli ci fece cacciare dalle carceri perché sosteneva avessimo legami con gli anarco-insurrezionalisti, ma a nostra difesa si mobilitò anche la destra. Ora le Ong sono praticamente sole».
«Ormai il diritto penale è usato per ridurre l’agibilità delle Ong – gli fa eco Francesco Martone, portavoce della rete «In difesa di» – per reagire dobbiamo proteggere tutti coloro che fanno sentire la loro voce nel mondo a partire dagli attivisti a rischio, specie in America latina».
«Condividiamo questa avventura che consideriamo di grande importanza anche per il futuro – ha concluso la presentazione del volume di ieri pomeriggio il padrone di casa Fausto Durante, responsabile delle politiche internazionali della Cgil – . Nel mondo del lavoro in tutto il mondo i diritti calano, noi vogliamo invece che siano in capo alle persone e che siano riconosciuti per legge: per questo in Italia abbiamo presentato la Carta universale dei diritti»
«No, non ci stanno invadendo: l’Italia resta una delledestinazioni meno ambite. Non ci rubano ricchezza: con la differenza tracontributi versati e percepiti si pagano le pensioni di 600mila italiani. Esiccome siamo un Paese sempre più anziano, per salvare il nostro welfare neservirebbero di più»
È una storia sorprendente, lontana mille miglia da troppi stereotipi. Aweis è stato chiamato a raccontare la sua vicenda anche per questo. Un incontro organizzato a Roma da alcune associazioni per riflettere sul fenomeno migratorio da una diversa prospettiva. C’è la fondazione Italianieuropei e l’associazione romana di studi e solidarietà. Si ragiona sui problemi, ma anche sui vantaggi economici e sociali portati all’Italia dai migranti. La serata ha un titolo paradossale: “E se davvero tornassero tutti a casa loro?”. «È una provocazione ed è un bene che rimanga tale» sorride Padre Giovanni La Manna, alla guida dell’associazione Elpis e già presidente del centro Astalli.
Gli immigrati ci tolgono ricchezza? Non è proprio così. Anche perché con i 5 miliardi di differenza tra i contributi versati e percepiti dai migranti regolari, l’Inps paga le pensioni di 600mila italiani. E allora perché vengono tutti nel nostro Paese? Ecco un’altra inesattezza. Il fenomeno migratorio è molto ridotto rispetto alla percezione che abbiamo. Secondo l’Unhcr, dal 2008 al 2015 sono arrivati in Europa, via mare, 875mila migranti. Sono lo 0,17 per cento della popolazione europea
Soprattutto, non c’è alcuna catastrofe demografica in vista. Il nostro è un Paese in declino. Nel 2015 il saldo negativo tra nati e morti ha portato alla scomparsa di 140mila italiani. Eppure questo dato non è stato neppure lontanamente riequilibrato dall’arrivo di immigrati (nonostante il 2015 sia stato uno degli anni in cui si sono registrati più sbarchi sulle nostre coste). Il professor Alessandro Rosina è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano. Dati alla mano, anche lui inquadra alcune verità poco conosciute sulle migrazioni. Anzitutto è necessario avere un’idea globale del fenomeno. Negli ultimi anni il trend sta rallentando, eppure la popolazione mondiale continua a crescere. Su questo pianeta non siamo mai stati così numerosi. Eravamo 1,6 miliardi di persone all’inizio del secolo scorso, agli inizi del 2000 siamo arrivati a 6,1 miliardi. A metà del nostro secolo arriveremo a 9,5 miliardi. Intanto la popolazione invecchia. Nel mondo non ci sono mai stati così tanti anziani. Né si è mai registrato un numero così alto di stranieri: ormai 250 milioni di persone vivono in un’area diversa dal proprio paese d’origine. Eppure, ecco la sorpresa, non è l’Africa il continente con maggiore mobilità internazionale, ma l’Asia. Del resto i flussi migratori, contrariamente a quanto si crede, nella maggior parte dei casi non partono dai paesi più poveri, ma da quelli con un certo grado di sviluppo economico e sociale. Senza considerare che spesso si consumano all’interno degli stessi territori.
VOAAfrique.com, 23 novembre 2017. «Il Rwanda pronto ad accogliere 30mila migranti africani venduti come schiavi in Libia».
La France a qualifié mercredi de "crimes contre l'Humanité" les ventes de migrants africains comme esclaves en Libye et demandé une réunion "expresse" du Conseil de sécurité des Nations unies sur ce sujet. Cette pratique "relève de la traite des êtres humains, c'est un crime contre l'Humanité", a déclaré le président français Emmanuel Macron à l'issue d'une rencontre avec son homologue guinéen Alpha Condé.
The SubmarineTerraferma e Nuovomondo
Negli ultimi anni il cinema italiano ha provato a raccontare, nel bene o nel male, i processi migratori in atto all’interno del nostro continente - opere come Fuocoammare, L’ordine delle coseIo sto con la sposa hanno indagato la ciclicità di tali processi e il loro effetto sulla società.
Mentre l’Italia osserva meccanicamente in televisione le stesse immagini di sbarchi e soccorsi, il cinema infatti si sforza si squarciare il velo del racconto mediatico, cercando storie universali che trasmettano i valori necessari per superare un rifiuto sociale e umano che attanaglia la nostra società.
Uno dei registi italiani che ha approfondito con maggior lucidità il tema del movimento è stato Emanuele Crialese, regista romano di origini siciliane. Oggi più che mai i temi affrontati dai suoi film risultano essenziali per una riflessione sociale e culturale sul nostro passato, ma soprattutto sul nostro futuro. Partendo dalle sue pellicole abbiamo discusso con il regista di quanto le sue esperienze abbiano influenzato il suo linguaggio e di quanto il documentare si stia sostituendo al raccontare.
L’intervista è stata condotta durante il mese di luglio di quest’anno.
Comincerei da due elementi molto presenti nei tuoi film: la terra e il mare. Entrambi vengono rappresentati come simboli di speranza e allo stesso tempo immobilità, penso alla Sicilia di Nuovo Mondo e al mare che la circonda in Terraferma. Sono due simboli forti che tu racconti con altrettanta forza. Come può il cinema far risuonare questi concetti nello spettatore?
È una domanda per la quale non ho una sola risposta perché forse non c’è una sola risposta. Partiamo dal presupposto che non a tutti arrivano i messaggi che possono arrivare a te, è una questione di sensibilità. Il cinema è un linguaggio, che viene compreso da alcuni ma non da tutti, si tratta di immagini, di personaggi, di storie, e in quest’ottica deve risuonare qualcosa in te per poterlo interpretare. Ma non è che chi non vede non capisce, semplicemente la sua sensibilità sarà interessata a farsi trasportare da altre storie.
Com’è maturato dunque il tuo linguaggio e la tua sensibilità, da dove deriva l’importanza di guardare al passato per riuscire a comprendere il presente espressa nei tuoi film? Le tue origini siciliane hanno contribuito alla costruzione delle tue storie?
Quello che ha aiutato di più è stata la condizione di clandestino dopo gli studi fatti in America, senza permesso di soggiorno e visto mi sono sentito in una condizione di alieno, come lì vengono chiamati quelli nella mia situazione. Probabilmente il fatto di essere stato per tanto tempo fuori dal mio paese, mi ha fatto guardare l’Italia e la Sicilia da una prospettiva completamente diversa. Anche per questo mi sento a disagio a parlare di migrazione, perché non abbiamo mai smesso di migrare dall’inizio della nostra storia come civiltà. lo facciamo fisicamente e mentalmente, è un movimento che porta con sé conoscenza e sviluppo, è inutile negarlo, senza movimento non c’è vita. Questo è il paradosso più grande che sono andato a scardinare: l’uomo ha bisogno di muoversi, chi non parte mai non capisce fino in fondo cosa vuol dire essere quelli che si è. Quando non ci si mette mai in discussione e si danno per scontate le proprie origini e il proprio stato sociale non si riesce veramente a riflettere sulla propria condizione.
Dall’altra però i tuoi film descrivono anche un senso di appartenenza molto radicato.
È come pensare al passato: è nel momento in cui ci ricordiamo di quello che abbiamo vissuto che ne capiamo il valore. In qualche modo quindi capiamo il valore del posto a cui siamo legati, coi suoi pregi e difetti, solo quando ne scopriamo un altro.
A proposito di presente e passato, pensi che i tuoi film abbiano assunto nuovi valori in questi ultimi anni oppure sono opere che valgono sempre così come la continua ricerca dell’uomo per il movimento?
Io spero che valgano sempre, ma non sono io a poterlo dire, sarà il tempo a decidere. Non mi sono soffermato troppo sulla durata nel futuro di queste storie, proprio perché si legano a riflessioni momentanee e personali.
Mettendo da parte per un attimo il piano personale, dall’esterno hai notato un cambio di prospettive sui tuoi film, o meglio le tue storie incidono di più nel contesto di oggi?
Sicuramente incide più adesso perché c’è stato un risveglio, quindi nei ricorsi storici ci si accorge di qualcosa che diventa la voce dell’attualità ma che in realtà non sono altro che aspetti sempre esistiti. Giravo Nuovo Mondo quindici anni fa, Terraferma cinque, adesso è due anni che si parla davvero molto di immigrazione, ma è un interesse a scoppio ritardato, non un’emergenza. L’emergenza non è di due anni fa e nemmeno di dieci, la vogliamo chiamare emergenza, chiamiamola così, ma è una cosa che abbiamo sempre fatto e con cui abbiamo sempre dovuto avere a che fare: il senso di appartenenza, dove posso far valere i miei diritti, in quale terra, dove sono cittadino, di quale paese. Queste sono domande che ci poniamo ciclicamente, in maniera più prepotente in alcuni momenti storici, ma non abbiamo mai smesso di muoverci.
È chiaro che ci sono uomini per natura stanziali, la dimensione del viaggio non gli appartiene, sono uomini che crescono una verticalità piantata nella terra e difendono la loro territorialità. Poi ci sono coloro che per indole sono spinti a cercare nuovi territori. Io mi sento appartenere a questa seconda categoria, non per scelta, ma perché questo è quello che la vita mi ha insegnato. Io sono un nomade e per questo sono molto sensibile rispetto al destino di coloro che vogliono andare altrove.
In questi giorni a Milano c’è proprio una mostra a cura di Massimiliano Gioniche racconta questo aspetto dell’umanità in movimento e della sua, spesso drammatica, ciclicità.
C’è appunto una differenza che va marcata: noi oggi trattiamo queste persone molto peggio di come facevano i nostri nonni e le generazioni prima di loro. Oggi chiudiamo i confini, ma siamo stati i primi ad aver avuto bisogno della loro apertura in passato.
Tornando alla prima domanda, oggi il mare sembra essere uno spazio con cui nessuno vuole avere a che fare, mentre la terra ha sempre più barriere.
Il mare, insieme alla sabbia e alle camere a gas, ha il potere di far sparire la memoria dei corpi. Quando riportiamo a galla, per usare un termine della psicoanalisi, le cose che abbiamo rimosso nel nostro inconscio allora arrivano i dolori, che non vanno però ostacolati, anzi elaborati e integrati, cosa che noi non siamo in grado di fare come società. Individualmente ognuno di noi può invece avere un atteggiamento diverso, ma come società dobbiamo risolvere questo nostro conflitto interno.
Ho notato che negli ultimi tempi la tendenza è quella di utilizzare una forma documentaristica per descrivere queste storie, quando invece secondo me la finzione narrativa aiuterebbe di più il processo di avvicinamento dello spettatore a questo tipo di temi. Tu come vedi il documentare rispetto al raccontare?
Qua siamo in un terreno molto farraginoso, in cui mantengo una posizione un po’ fondamentalista. Adesso c’è molta confusione intorno alla parola documentario, il documentario è un documento prezioso perché rappresentativo di una realtà che non si può mettere in scena, ma che va raccontata per quella che è, cercando di rimanere più fedeli possibili al tempo e all’individuo. In questo contesto non ci si può assolutamente esimere dal raccontare la verità, non si possono manipolare i fatti che si raccontano, oggi invece c’è una tendenza dei documentaristi a mettere in scena, quindi a drammatizzare, ciò che è già altamente drammatico. Questo atteggiamento finisce per mettere in una posizione scomoda lo spettatore, che alla fine non sa a cosa credere.
La rappresentazione è un modo per evocare una realtà molto personale usando il racconto metaforico e il gioco delle maschere, il documentario invece con la scusa del vero maschera ancora di più la realtà. Una cosa è mettere in scena quello che vedo, un’altra è inserirmi in quello che vedo e raccontare una verità parziale accompagnata da una storia che aggiungo io. Allora si usava un altro termine per definire questo tipo di produzioni, il mockumentary, in cui si dichiara da subito l’unione tra verità e messa in scena.
Sempre di più siamo messi di fronte a storie che raccontano la partenza perché sembra quasi impossibile percepire il ritorno, secondo te arriverà il momento per il cinema di raccontare il ritorno?
Bisogna capire di che ritorno stiamo parlando. È attraverso le immagini che uno ritorna a se stesso, si rielabora ciò che si vede e lo fa proprio, questo è già un ritorno alle proprie origini. Non tanto come individui ma come genere umano. Si ritorna quando si smette di negare i corsi e ricorsi storici, quando le latenze diventano presenze.
In questo contesto di eterno ritorno però i tuoi ultimi film partono comunque dall’elemento del viaggio, cosa racconteresti dopo?
Esattamente quello che hai citato tu, in questo momento sto ragionando sul tema del ritorno. Mi domando se sia qualcosa che possiamo rappresentare sapendo che lo stiamo rappresentando. Vorrebbe dire la fine di un percorso che non ha mai fine, in realtà una fine molto precisa ce l’ha, non sapremo quando né dove, ma ci sarà. Io sento che nel momento in cui c’è comunicazione tra una massa di persone che vedono e assistono a qualcosa che parla di loro, anche indirettamente, lì si compie la magia del ritorno, che non sarà mai consapevole, ma sempre metafisico e indefinito.
Avvenire
«Immediato il trasferimento dei richiedenti asilo che da mesi dormono per terra nella galleria Bombi di Gorizia». L’annuncio questa volta non arriva dal sindaco del capoluogo isontino, il forzitaliota Rodolfo Ziberna, nelle ultime settimane protagonista di un braccio di ferro con i volontari che tutte le sere portano in galleria cene calde e coperte, ma dall’assessore regionale alla Solidarietà del Friuli Venezia Giulia, Gianni Torrenti, di ritorno dal Viminale: «Nell’incontro di Roma è stato programmato un percorso di immediato trasferimento di queste persone che occupano la Galleria e vivono quindi in stato di degrado – ha dichiarato –. Ma si vuole anche capire quali siano le ragioni di tanti nuovi arrivi a Gorizia in queste settimane da parte di persone straniere che non provengono dal confine orientale, ma che erano soggiornanti in Europa da anni» (un’inedita 'rotta goriziana', insomma).
Ragioni che il neosindaco Ziberna, che aveva basato la sua campagna elettorale proprio sullo 'Stop all’immigrazione incontrollata', spiegava da una parte con la presenza a Gorizia dell’unica Commissione prefettizia per l’esame delle richieste di asilo di tutta la regione, ma anche con «il business di vere 'agenzie' che dall’Europa portano qui i richiedenti cui gli altri Paesi hanno negato lo status di rifugiati perché non ne hanno diritto ». E puntava il dito anche contro i volontari, gli unici che intanto, nei ritardi della politica e nei rigori delle notti all’addiaccio, hanno evitato il peggio: «Finché si sa che a Gorizia ogni giorno c’è chi dà da mangiare a tutti fuori dalle regole dell’accoglienza strutturata, è chiaro che verranno sempre di più qui». In realtà il Comune non dà ricovero a nessuno, il cento per cento delle strutture che a Gorizia danno un tetto ai 350 profughi e richiedenti asilo (con convenzione prefettizia) sono della Chiesa o ad essa collegate, ed è la Caritas diocesana da anni ad assicurare ogni giorno i pasti ai poveri della città, italiani o stranieri che siano. Un impegno che, sottolinea l’arcivescovo Carlo Redaelli, «ha sopperito alle mancanze delle pubbliche istituzioni, Comune e Prefettura. Bisogna saper distinguere tra accoglienza, tema complesso e annoso, ed emergenza: mentre la politica nazionale e internazionale cerca le soluzioni, non possiamo lasciare che le persone muoiano. Qui la notte siamo già a meno due...». Se dunque, come annunciato da Torrenti, la galleria Bombi sta per essere definitivamente sgomberata «siamo i primi ad esserne soddisfatti – conclude l’arcivescovo –, perché quel dormitorio a prova di bora non era certo una soluzione dignitosa: in questo caso le istituzioni pare abbiano preso le decisioni giuste anche se tardive, vedremo nel futuro se continueranno ad occuparsi di queste persone, dato che dopo i primi sgomberi già questa notte c’erano trenta persone».
La Chiesa non abbassa l’attenzione: se tornerà l’emergenza «noi ci saremo, con le nostre strutture e con misure aggiuntive», come la grande tenda riscaldata di Medici senza Frontiere, pronta da installare su suolo della diocesi. Emergenza che però il sindaco Ziberna esclude: «La scorsa settimana i cento richiedenti asilo in galleria sono già stati trasferiti con i pullman in strutture attrezzate. Le poche decine che restano lo saranno a breve, pare già venerdì mattina (domani, ndr): prima verranno accompagnati in questura a fare i documenti, poi alle adempienze sanitarie, infine nei centri di accoglienza qui in zona, dove occuperanno altrettanti posti appena lasciati liberi da altri migranti trasferiti in altre regioni d’Italia secondo il piano nazionale dell’accoglienza ». La mattina stessa la galleria, dove in questi mesi solo i volontari (tra loro anche medici del Cuamm) hanno provato a garantire il minimo accettabile di pulizia e decoro, «verrà igienizzata e chiusa da entrambi i lati, per essere riaperta al traffico automobilistico tra 3 o 4 mesi, dopo i lavori di ripristino».
Annapaola Porzio, Commissario del governo del Friuli Venezia Giulia nonché prefetto di Trieste, conferma: «Alla ben nota situazione della galleria Bombi si è data una concreta risposta disponendo il trasferimento dei richiedenti asilo. L’ultimo, avvenuto venerdì scorso, ha interessato cento migranti – ha scritto ieri in una lettera a Ziberna e al neo prefetto di Gorizia –. Malgrado ciò questa mattina nella galleria si sono registrate nuovamente numerose presenze: sull’arrivo continuo e consistente di richiedenti asilo a Gorizia sono in corso approfondimenti, anche in collaborazione con le forze di polizia». Inoltre, come da tempo chiedeva Ziberna, la Commissione per il riconoscimento della protezione internazionale verrà trasferita da Gorizia a Trieste, quando non si sa, ma nel frattempo aprirà una sezione a Udine per snellire le attese dei migranti. Questo, assicura il prefetto, è il «percorso tracciato per ricondurre la situazione alla normalità». «Gorizia sta rispondendo da tempo all’accoglienza di un numero eccessivo di migranti», sottolinea infatti Torrenti, «è necessario ripristinare numeri accettabili». Per l’assessore regionale «è indispensabile la presenza di un centro di prima accoglienza, e a tal proposito c’è quello di San Giuseppe, che non deve essere una struttura permanente ma piuttosto un decoroso primo ricovero nei casi di necessità come quella creatasi nella galleria Bombi». Manco a dirlo, anche il San Giuseppe è una struttura della diocesi.
Internazionalel'ex base militare di Conetta, trasformata in un centro di accoglienza, pessimo anche per il suo genere, dove cattiva gestione e speculazione imperano.
Dopo tre giorni di cammino lungo l’argine del fiume Brenta e una lunga trattativa con la questura e la prefettura, ce l’hanno fatta. La prefettura ha deciso di trasferirli in altri centri della regione: 180 rimarranno nella provincia di Venezia, gli altri saranno spostati in strutture di accoglienza nelle diverse province del Veneto. Per ognuno di loro è un’altra scommessa, una specie di lotteria, non sanno cosa li aspetta, ma sembrano soddisfatti di non essere tornati indietro, nella base militare da dove erano andati via tre giorni prima, caricandosi le valigie sulle spalle.
“Si tratta d’integrare questi ragazzi, sono persone forti che vogliono lavorare, non si può chiuderli in un ghetto come quello di Cona”, commenta Lino mentre si asciuga le lacrime che spuntano sotto gli occhiali. Ha lavorato per 42 anni al petrolchimico, ha cominciato quando ne aveva 14, ora ne ha più di sessanta e da quando è in pensione fa volontariato in una delle parrocchie di Mira. Per Lino la questione è molto semplice: i richiedenti asilo che ha incontrato in canonica hanno l’età dei suoi figli e non possono essere confinati in strutture fatiscenti, lontane da tutti i servizi.
“Lui, Benjamin, ha l’età del mio figliolo più piccolo che studia all’università. In lui vedo mio figlio”, dice, mentre indica un ragazzo alto e sorridente che indossa una felpa rossa col cappuccio. Con semplicità spiega che l’integrazione dovrebbe essere un’opportunità di lavoro anche per la popolazione locale: “Ci sarebbe bisogno di insegnanti d’italiano, di operatori sociali, di mediatori” e invece “stiamo con i forconi”.
Usa parole forti l’ex operaio per definire il centro di accoglienza che ospita metà dei richiedenti asilo presenti in tutta la regione, costretti a dormire in tensostrutture senza riscaldamento in mezzo alla campagna della bassa padovana. “Non si possono tenere ragazzi giovani, che hanno vent’anni, in un lager”, dice. “A Mira ci sono dei centri d’accoglienza, ma non ci sono stati problemi, perché sono piccole strutture dentro la città e i migranti si sono integrati bene”, continua Lino, che critica duramente il modello d’accoglienza più diffuso in Veneto, quello dei grandi centri in cui sono concentrati migliaia di richiedenti asilo.
“Se ogni comune del Veneto desse ospitalità a un piccolo gruppo di migranti, non ci sarebbe problema e invece ognuno vuole curare il suo orticello. Ma che futuro stiamo dando ai nostri figli se gli insegniamo a non accettare l’altro?”, chiede l’uomo, mentre si sistema la coppola di tweed sulla testa per ripararsi dall’umidità pungente di metà novembre. Intanto un gruppo di ragazzi è seduto sulla panchina davanti alla canonica, altri giocano a ping pong. Stanno aspettando che arrivino i pullman della prefettura per trasferirli nei nuovi centri a Verona e a Treviso.
“Siamo stati fermati dalla polizia appena usciti dal campo, poi abbiamo ripreso a camminare il giorno successivo. Abbiamo dormito nella parrocchia di Codevigo. Poi abbiamo marciato fino a quando la polizia ci ha fermato di nuovo a Campolongo e ha portato i rappresentanti del gruppo in questura. Ma noi non avevamo intenzione di tornare indietro”, dice. Per il ragazzo, oltre alle condizioni precarie del campo, uno dei problemi dell’ex base militare è la lontananza dalla città e dalle attività produttive.
“Ci volevano quaranta minuti per arrivare alla prima fermata dell’autobus da Conetta e poi almeno un’ora di autobus per andare a Padova, che è l’unica città in cui avremmo potuto trovare lavoro”, spiega Ahmad in un inglese fluente che ha imparato a scuola in Costa d’Avorio, dove si è diplomato in ragioneria. È d’accordo con lui anche Daniel Eruenga, nigeriano originario di Benin City, che dice schietto: “Non siamo venuti in Europa per dormire tutto il giorno in un campo, vogliamo lavorare, contribuire all’economia, vogliamo pagare le tasse in questo paese”.
Eruenga stava spesso male a Conetta: “Siamo sani, ma a forza di stare al freddo, ci ammaliamo, e quando ci sentivamo male non ci davano medicine e non ci portavano all’ospedale. Ci davano una pasticca di paracetamolo per qualsiasi tipo di problema”. Gbenge, un altro richiedente asilo della Costa d’Avorio, ricorda Sandrine Bakayoko, la ragazza morta all’inizio dell’anno: “Era una splendida persona, era così giovane e bella, la sua morte non me la posso spiegare”. Dieci mesi dopo quella morte nell’ex base militare di Cona non è cambiato niente.
Bakayoko era arrivata in un porto siciliano nel settembre del 2016, poi con il marito Mohamed era stata trasferita in uno dei centri per migranti più grandi del Veneto. Era in attesa che la sua richiesta d’asilo fosse esaminata. È morta da sola mentre era nel bagno.
A dare l’allarme è stato il marito, che l’ha trovata in fin di vita. Secondo il referto dell’autopsia si è trattato di una tromboembolia polmonare bilaterale fulminante. La morte della ragazza ha scatenato una protesta dei richiedenti asilo ospitati nel centro, che hanno accusato i gestori di aver chiamato i soccorsi in ritardo. Secondo i testimoni, infatti, la ragazza si è sentita male intorno alle 7, ma i soccorsi sono arrivati diverse ore dopo.
In una nota, però, l’ospedale di Piove di Sacco ha detto che i mezzi di soccorso sono partiti subito dopo aver ricevuto la chiamata. Gli operatori del centro, spaventati dalle proteste, si sono barricati in un container e negli uffici amministrativi della struttura. La protesta è durata ore, venticinque operatori sono rimasti chiusi in un container fino alle due di notte, quando la situazione è tornata tranquilla.
A Conetta c’erano già state delle proteste in passato da parte dei migranti che si lamentavano del freddo, delle camerate sovraffollate, della mancanza di docce, dei servizi igienici inadeguati, della scarsità dei pasti, e del fatto che era impossibile frequentare corsi di italiano e raggiungere i posti di lavoro. Una delegazione della campagna LasciateCIEentrare aveva visitato il centro nel giugno del 2016 e lo aveva descritto come una “tendopoli nel nulla”. Al coro delle proteste si è aggiunta anche quella del sindaco di Cona, Alberto Panfilo, eletto nel 2014 con una lista civica di centrodestra: “La realtà è che questa gente è costretta a vivere dentro una tenda. Quando la tenda si riempie, la comunità che ha in gestione l’accoglienza ne pianta un’altra. E tutto questo avviene nell’oblio più completo”.
L’integrazione impossibile
Le condizioni preoccupanti del centro erano state oggetto di un’interrogazione del parlamentare di Sinistra italiana Giovanni Paglia nel novembre del 2016, rivolta all’allora ministro dell’interno Angelino Alfano. Nell’interrogazione Paglia descriveva “condizioni di soggiorno difficilmente compatibili con la parola accoglienza” e avvertiva che la situazione sarebbe potuta “degenerare in qualsiasi momento”. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione nel gennaio del 2017 aveva denunciato, inoltre, la presenza di almeno trenta minorenni nella struttura e ha portato il caso di tre di loro davanti alla Corte europea dei diritti umani (Cedu).
Le denunce, tuttavia, sono state ignorate e il centro di Conetta ha continuato a funzionare a pieno regime. Quando è morta Sandrine Bakayoko il centro ospitava circa 1.300 persone, quasi 800 in più delle 542 che avrebbe potuto accogliere. Nell’estate del 2017 sono stati censiti nel centro 1.400 profughi. Una delle ragioni del sovraffollamento di centri come questo è che i comuni del Veneto non danno disponibilità all’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo: meno del 50 per cento dei comuni della provincia di Venezia ha aderito al Sistema nazionale per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), quindi spesso i migranti sono mandati dai prefetti in centri d’accoglienza straordinari (Cas): hotel ed ex caserme riconvertite.
Il prefetto di Venezia Carlo Boffi, responsabile del centro di Cona, visitando i richiedenti asilo dopo la protesta il 15 novembre ha fatto appello ai sindaci della zona: “Rinnovo ancora l’appello a tutti i sindaci della città metropolitana di collaborare a individuare nuove piccole strutture per l’accoglienza di queste persone. Più si spalmano sul territorio e meno problemi ci sono”.
I grandi centri, infatti, non sono adatti a ospitare centinaia di persone per lunghi periodi di tempo e sono molto lontani dai centri abitati. La cooperativa che gestiva l’ex base di Conetta, la Ecofficina-Edeco di Padova, è una realtà importante dell’assistenza ai profughi in Veneto, è entrata nel settore nel 2011 e da allora gestisce tre strutture di accoglienza: Bagnoli a Padova, Cona a Venezia, Oderzo a Treviso. La cooperativa, però, è al centro di tre indagini delle procure di Rovigo e di Padova. Le accuse sono truffa, falso e maltrattamenti.
La procura di Padova sta indagando su un buco in bilancio da 30 milioni di euro nelle casse di Ecofficina-Edeco per un presunto scambio di denaro tra la cooperativa e la società Padova Tre, che si occupa della raccolta dei rifiuti. Le altre due indagini riguardano: una denuncia per maltrattamenti e soprusi e la falsificazione di alcuni documenti per aggiudicarsi una gara di appalto.
Come ha mostrato l’inchiesta Mafia capitale, il sistema d’accoglienza italiano che prevede un doppio binario (uno ordinario e uno straordinario), rischia di alimentare fenomeni di cattiva gestione, perché non ci sono protocolli efficaci di monitoraggio dei centri quando si agisce con la procedura di emergenza. Molti specialisti, come Gianfranco Schiavone dell’Asgi, hanno sottolineato che l’unica possibile alternativa ai grandi centri è il ricollocamento diffuso dei profughi sul territorio nazionale con il coinvolgimento dei comuni nell’assistenza e l’applicazione degli standard e dei controlli previsti dal sistema centrale di accoglienza. Nel 2016 appena il 19 per cento dei richiedenti asilo accolti in Italia era ospitato da un centro Sprar. Se tutti gli ottomila comuni italiani partecipassero all’assistenza dei profughi, ogni centro dovrebbe ospitare al massimo una ventina di persone e il sistema sarebbe più sostenibile.
Di nuovo in marcia
“Moraglia giuda, l’euro il tuo dio”, c’è scritto sullo striscione di Forza Nuova affisso sulle pareti del patriarcato di Venezia per contestare la richiesta di accoglienza fatta dai vertici della curia veneziana, che il 17 novembre ha aperto la strada al ricollocamento dei profughi su tutto il territorio regionale. Secondo Federico Fornasari del Coordinamento nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb), il modello di accoglienza del Veneto alimenta il razzismo e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. “Le forze di estrema destra e la Lega nord giocano molto su questo clima di diffidenza e paura che si crea quando ci sono situazioni come quelle di Cona”, afferma Fornasari.
Intanto il 20 novembre altri cinquanta richiedenti asilo sono usciti dall’ex base militare di Conetta, pronti a mettersi in marcia verso Venezia come hanno fatto gli altri duecento qualche giorno prima. “Sono stati bloccati di nuovo dalla polizia, ma ormai è chiaro che anche chi è rimasto nel centro non vuole tornare indietro e fare finta di niente”, spiega il rappresentante sindacale, che ha seguito la marcia fin dall’inizio e ha condotto la mediazione tra i profughi e le autorità locali.
“Ormai sono due anni che seguiamo la situazione a Cona chiedendo dei miglioramenti sostanziali nel campo. Nulla di tutto questo è mai avvenuto, quindi alla fine abbiamo preso atto che quel campo non si può cambiare e oltre alle condizioni materiali c’è una questione che riguarda la qualità della vita e dell’integrazione di queste persone. Un campo come quello di Cona è in contrasto con la normativa europea sull’accoglienza. L’integrazione può avvenire solo in una condizione in cui i diritti sono riconosciuti sia ai migranti sia agli abitanti del posto”, conclude Fornasari.
“Il centro di Cona non lo possiamo considerare un centro d’accoglienza”, aggiunge Barbara Barbieri di Melting Pot Europa. “Le condizioni di vita sono terrificanti e sono anni che lo denunciamo. Lo sforzo della prefettura di spostare piccoli gruppi non è stato sufficiente”. Il centro deve essere chiuso.
Il 23 novembre i parlamentari Giulio Marcon, Davide Zoggia e Michele Mognato visiteranno la base, chiedendo al prefetto di superare questo modello d’accoglienza il prima possibile. Intanto a Cona i richiedenti asilo hanno ripreso la marcia: poche cose caricate sulle biciclette, valigie sulla testa, coperte avvolte intorno alle spalle per ripararsi dal freddo umido della bassa. Prima tappa Piove di Sacco. “Nel campo di Cona si muore”, hanno scritto i migranti su un pezzo di cartone.
NENA news
Secondo La più grande prigione al mondo, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.
La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito) – ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.
Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.
Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.
La novità contenuta in La più grande prigione al mondo è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”
La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, La pulizia etnica della Palestina, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.
E in un certo senso La più grande prigione al mondo completa una trilogia, che comprende anche I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.
Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.
Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker Palestinian refugees:Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.
Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.
Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”
Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.
Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007. [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.
Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.
E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.
Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza - con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”
Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.
(traduzione di Amedeo Rossi – Zeitun.info)
LIBYE - Un millier de personnes ont manifesté ce samedi 18 novembre à Paris contre des cas d'esclavage en Libye dénoncés cette semaine dans un documentaire choc de la chaîne américaine CNN, selon la préfecture de police de Paris.
Dans le documentaire, on voit notamment, sur une image de mauvaise qualité prise par un téléphone portable, deux jeunes hommes. Le son est celui d'une voix mettant aux enchères "des garçons grands et forts pour le travail de ferme. 400... 700..." avant que la journaliste n'explique: "ces hommes sont vendus pour 1200 dinars libyens, soit 400 dollars chacun"
Les manifestants ont répondu à l'appel de plusieurs associations, et notamment d'un Collectif Contre l'Esclavage et les Camps de Concentration en Libye (CECCL), créé en réaction à la diffusion du reportage de CNN, selon un photographe de l'AFP. Le 16 novembre, l'ex-délégué interministériel Claudy Siar avait appelé à un rassemblementdevant l'ambassade de Libye à Paris ce samedi. Son appel a été partagé plus 4000 fois depuis.
Brandissant des pancartes "non à l'esclavage en Libye", ils étaient rassemblés vers 1dans l'ouest de Paris, avenue Foch, non loin de la place de l'Étoile où étaient positionnées des forces de l'ordre, a constaté un photographe de l'AFP. Les manifestants ont alors indiqué vouloir se rendre vers le consulat de Libye. C'est à ce moment, que le rassemblement qui avait débuté dans le calme, aurait dégénéré. Un drapeau de la Libye a notamment été brûlé.
La préfecture de police a dénoncé dans un communiqué le caractère illégal du rassemblement, dont les organisateurs devront, selon elle, être identifiés afin "que des procédures soient engagées aux fins de poursuites adaptées". "Sans qu'aucune déclaration n'ait été faite, plusieurs associations ont organisé une manifestation et un cortège depuis l'ambassade de Libye jusqu'en direction du second site diplomatique de ce pays", dans l'ouest de Paris, a-t-elle indiqué dans ce communiqué, tout en précisant qu'"aucune dégradation n'a été commise".
Le président en exercice de l'Union africaine (UA), le Guinéen Alpha Condé, et le gouvernement sénégalais notamment ont fait part cette semaine de leur indignation face à la vente des migrants-esclaves, tout comme le président nigérien Mahamadou Issoufou, qui a demandé à ce que le sujet soit mis à l'ordre du jour du sommet Union africaine-Union européenne des 29 et 30 novembre à Abidjan.
il Fatto Quotidiano,
«COSÌ ABBIAMO AIUTATO
I MIGRANTI IN MARCIA»
di Gian Guido Vecchi
«Venezia, il patriarca Moraglia: evitata l’emergenza umanitaria. Già ricollocate 150 persone»
Che effetto le ha fatto vedere questi esseri umani in marcia?
«Era un’immagine quasi biblica. Procedevano lungo l’argine, i volti provati. Non esprimevano rabbia. Piuttosto, avevano l’aspetto di persone che domandano essenzialmente dignità, il riconoscimento della loro condizione umana. Un popolo in marcia che chiede di essere considerato per ciò che ci accomuna e unisce come esseri umani».
Francesco Moraglia, patriarca di Venezia, l’altra notte ha salvato una situazione che stava diventando disperata. Più di duecento migranti in cammino da giorni, via dal cosiddetto «centro di accoglienza» ricavato nell’ex base missilistica di Conetta, nella campagna veneziana, una frazione di 190 anime dove sopravvivono ammassati milletrecento «richiedenti asilo» o forse di più, nessuno sa il numero reale. Una marcia verso Venezia per i diritti e la dignità che rischiava di finire male. Il freddo, la fame, nessun posto dove stare. Ieri pomeriggio la prefettura ha infine annunciato una soluzione, 151 sono partiti in pullman per altri alloggi «sparsi nel territorio regionale», per altri 90 «si sta lavorando». Ma la sera prima, lungo il Brenta, c’è stato un momento in cui non si sapeva che fare. Finché in prefettura è arrivata la telefonata del patriarca.
Che cosa è successo, eccellenza?
«Nel pomeriggio ho sentito che la situazione cominciava a diventare preoccupante. Si annunciavano ore di tensione e qui, di notte, inizia a fare molto freddo. Ho sentito i parroci della zona di Mira uno ad uno, ho chiesto loro se potevano individuare degli spazi dove accogliere queste persone, almeno in questa fase di emergenza. Tutti mi hanno dato la piena disponibilità. Così ho mandato il mio vicario sul posto, si è mossa la Caritas e la “macchina” diocesana. E ho chiamato il prefetto: cosa possiamo fare per evitare che la situazione esploda e diventi un’emergenza umanitaria e sociale?».
Come si è riusciti a risolvere la faccenda in poche ore?
«Grazie alle nostre strutture diocesane e ai volontari, non soltanto ma soprattutto giovani: scout, associazioni. Alla fine abbiamo ospitato 212 persone: 55 a San Nicolò di Mira, 45 a Gambarare, 45 a Borbiago, 47 a San Pietro di Oriago e altri 20 a Mira Porte. Si sono recuperate le coperte, serviti i pasti. Dalla Protezione civile sono arrivati i bagni chimici. Abbiamo chiamato anche un medico. La notte è stata serena, hanno potuto mangiare e riposare».
Li avete accolti in vari luoghi. Com’è possibile che a Cona siamo ammassate più di mille persone?
«L’impegno delle istituzioni è indiscutibile, ma è chiaro che situazioni simili esasperano gli animi. Proprio pochi giorni fa, in vista della giornata mondiale dei poveri voluta da papa Francesco, avevo scritto una lettera alla Chiesa di Venezia che parlava di questi problemi: c’è bisogno che ognuno faccia la sua parte, non eliminando o accantonando difficoltà e problemi ormai “strutturali” per il nostro vivere, ma aiutando concretamente a risolverli».
E quindi?
«Nessuno - istituzioni, enti locali, politica, società civile, realtà ecclesiali - deve sottrarsi al senso profondo del proprio impegno e delle proprie responsabilità».
Bisogna trovare soluzioni diverse?
«Sì. In queste ore si è affrontata l’emergenza. Ma bisogna stare attenti a gestire i rapporti con il territorio. La nostra è una terra generosa che conosce i disagi e le speranze di chi migra. Possiamo vincere la sfida dell’accoglienza: creare una società inclusiva, capace d’incontrare gli altri anche davanti a diritti che configgono».
Che cosa intende?
«Intendo mettere in chiaro che i nostri diritti esistono come esistono quelli degli altri. C’è qualcuno che guarda ai migranti con aria di chiedere: perché venite da noi?».
Cosa direbbe a chi dice «tornate a casa vostra»?
«Che se queste persone hanno lasciato casa loro, lo hanno fatto con dolore e sofferenza, perché non c’erano le condizioni per vivere. Chi dice così dà una risposta che non corrisponde ad una realtà percorribile. Sono passati 50 anni dalla Populorum progressio di Paolo VI, dobbiamo anche domandarci come abbiamo trattato questi popoli».
E qual è la via percorribile?
CODEVIGO ( PADOVA). Solo la disperazione, la mancanza di ogni speranza, può spingere duecento uomini carichi di masserizie a dirigersi a piedi, nel freddo e nella nebbia del Veneto a novembre, lungo l’argine del Brenta sperando di arrivare a Venezia. Cinquanta chilometri a piedi per parlare con il prefetto per convincerlo a chiudere il centro di accoglienza dell’ex base Nato di Cona e trovare un’altra sistemazione per le 1.300 persone che vi sono ospitate.
Camminano con la pancia vuota, nel pomeriggio alcun abitanti di Piove di Sacco portano pacchi di biscotti e latte. La polizia in assetto antisommossa blocca la loro marcia con sei blindati dall’ora di pranzo fino al tramonto lungo l’argine del Brenta-Cunetta tra Bojon e Campolongo Maggiore.
Alle 15 arriva il prefetto di Venezia Carlo Boffi ma la mediazione non va a buon fine. «No Cona. No Cona», intonano nel corteo. Con il buio arrivano due pullman a prendere i manifestanti per portarli a Mira, a dormire nelle chiese di Gambarare e di Oriago e Mira, messe a disposizione del Patriarca di Venezia. Di lì lungo la riviera del Brenta tenteranno di arrivare fino a piazzale Roma attraverso il Ponte della Libertà.
I VOLTI
The Funambulist
In calce a questo articolo, ripreso dalla rivista "The Funambulist", riportiamo anche l'articolo orginale "Eight Ways to Build a Border Wall", con le immagini dei prototipi, comparso sul New York Time l'8 novembre 2017. (i.b)
Dettagli degli otto prototipi dei muri. Fonte: New York Times |
The article unapologetically associates veneer drone footage to comparative shots of the prototypes with titles such as “Concrete or No Concrete,” “Opaque or Transparent,” or “Tube or No Tube?” that we would more eagerly associate with a kitchen-customizing multiple-choice form on a home improvement website, than with a serious examination of the political instrumentalization of architecture’s violence. In presenting a wall project it opposed during the 2016 presidential campaign in the sensational form of a commercial brochure with which US citizens are invited to shop, the NYT brings a tremendous legitimacy to this political project. Rather than examining the very ideological and societal axioms of such a project or insisting on the shattering fact that 10,000 people died attempting to cross this border (killed by heat stroke, dehydration, or by US militias), this article instead analyzes exclusively the “how” of the Wall in the usual adjustment to the new status quo.
Back then, the NYT had proposed to thirteen architects to take part in a “reflection” on the design of this wall reported under the name “A Fence With More Beauty, Fewer Barbs” (in 2008, I had already written about it in an article entitled admittedly-not-so-subtly “How Far Can the Bullshit Go?”). Some architecture offices had declined the offer because “they felt it was purely a political issue,” but others, such as renowned Californian architect, Eric Owen Moss, had answered the call and proceeded to propose an architectural design for this “more beautiful” wall. In his report of the challenge in the NYT (June 18, 2006), William L. Hamilton had written the following: “Eric Owen Moss, an architect in Los Angeles, was more specific with his border as beacon of light. In his design, a strolling, landscaped arcade of lighted glass columns would invite a social exchange in the evening, much like the “paseo,” popular in Hispanic culture. ‘Make something between cultures, which leads to a third,’ Mr. Moss said. ‘Celebrate the amalgamation of the two’.”
It is easy to critique Moss’ position, his romanticist and essentialist rhetoric, and his office’s grotesque design. Similarly, the title of the challenge itself (whether it was introduced to architects under this name or not) has the capacity to mobilize a wide outrage for its radical candidness — in March 2016, during the US presidential campaign, a proposal for a design competition, entitled more soberly “Build the Border Wall?” and its relay in the mainstream architecture platform Archdaily, had triggered (legitimately) infuriated reactions from a certain amount of architects. Of course, beauty has the potential to normalize violent architectures and, in this regard, one can think of the (true or fictitious) story graffiti-artist Banksy told about his experience of painting on the Israeli Apartheid Wall: when an old Palestinian man allegedly told him that he was making the Wall beautiful, Banksy thanked him, to what the old man replied: “We don’t want it to be beautiful, we hate this wall. Go home.” Yet, we should not emphasize the importance of beauty’s normalizing capacities; after all, the architectures of the Israeli apartheid are unanimously recognized as ugly, but such a qualification never compromised their existence.
We nevertheless ought to focus on the other projects sent as a response to the NYT design challenge to realize that the most problematic characteristics of such a call are less to be found in the transformation of the wall from ugly to beautiful, than in its transformation from inert to productive. In his report, Hamilton had written, “Four of the five who submitted designs proposed making the boundary a point of innovative integration, not traditional division — something that could be seen, from both sides, as a horizon of opportunity, not as a barrier.” From James Corner’s “solar energy-collecting strip that would produce what he described as a ‘productive, sustainable enterprise zone’ that attracted industry from the north and created employment for the south” to Calvin Tsao’s “enterprise zone […] as a series of small, developing cities,” we can see how the productivity and usefulness are regarded as mitigating the violence of the border when, in fact, they make it more durable by creating new dependencies on its existence. They also reproduce the North/South exploitative relationships at a local scale involving a border porosity for some (as well as goods and capitals) while making it impermeable for others as Alex Rivera potently illustrates in his 2008 film Sleep Dealer about the maquiladoras of a near future.
After having written my not-so-subtle article in 2008, I remember subsequently debating about this question with US architect and professor Ronald Rael, who, back then, was already engaged in the research work that has been recently published in the form of a book entitled Borderwall as Architecture: A Manifesto for the U.S.-Mexico Boundary (University of California Press, 2017). Although Rael’s approach to the wall is drastically more complex and critical than the capitalist and technocratic “solutions” offered by the architects cited above, part of his design hypotheses regarding the Wall are also attempting to make it more productive, as well as to “institutionalize through models and drawings, events that are already occurring on the wall”. In an interview given for another NYT article, he aptly expresses the contradiction in which he finds himself: “[Rael] makes the argument that we should view the nearly 700 miles of wall as an opportunity for economic and social development along the border — while at the same time encouraging its conceptual and physical dismantling” (Allison Arieff for the New York Times, March 10, 2017). This contradiction is the same than the one analyzed by Eyal Weizman in “The Best of All Possible Walls” (The Least of All Possible Evils, Verso, 2011) when he describes the legal action of some Palestinian lawyers and activists in the Israeli High Court of Justice in Jerusalem arguing for alternative routes for the Israeli Apartheid Wall during its construction in 2004. Weizman’s entire book is dedicated to what he calls “humanitarian violence” in its subtitle: “Humanitarian Violence from Arendt to Gaza.” We can try to define this violence as the consequence of actions undertaken in an effort to mitigate a given violence but, in their compromising negotiation with that it claims to be fighting against, ends up bringing a greater legitimacy and inertia to it than if these actions had not been initiated in the first place.
The NYT’s editorial line could not be more at odds with this concept and, as such, provides one of its most illustrative examples. It is however important to observe that the fundamental difference between the NYT’s positioning and that of the Palestinian lawyers and activists that Weizman describes in their legal attempts to slightly divert the Apartheid Wall’s route in order to locally save the access of farmers to their fields and the junction of houses with the rest of Palestinian towns, is to be found in the fact that Palestinians are the first concerned by the Wall and, as such, have a legitimacy to recognize the inertia of the status quo and negotiate with it even if it brings more weight to it. On the contrary, the NYT represents the interests of a significant part of the US establishment that can afford to live with the political program of the current president when they do not benefit from it one way or another. Its negotiation with this political reality can therefore not act as the catalyst for reform that it would like to embody; on the contrary, it rather produces the profound and durable legitimization of it.
They all stand neatly in a row: eight large panels on a barren dirt patch just a few hundred yards from the San Diego border with Mexico. Unveiled in late October, these are the prototypes for the border wall President Trump has vowed to erect on the southern border. Later this year, the federal government will test the panels for strength and effectiveness.
Gli otto prototipi dei muri. Fonte: The New York Times |
These prototypes make clear that a border wall is not simple: It can vary considerably in material, shape and cost. And while it is far from clear that Congress will pay for a wall or that any of these designs will be built at wider scale, they are real-life renderings of a promise that fueled much of Mr. Trump’s campaign.
Six contractors have made bids on the wall, and the specific details of their plans are not public. But they allowed us to visit the prototypes, and we asked border security experts and engineers what they saw in each design and what challenges each wall may face.
Every expert agreed on one thing: Finding a design that would work for the entire length of the border would be extremely hard, if not impossible. And many caution that such a wall may never happen.
Some “other than concrete” prototypes incorporate steel, which can be relatively easy to cut with a torch, while pure concrete is not. A hollow steel pipe whose walls are half an inch thick could easily be cut in less than an hour, according to Michael D. Engelhardt, professor of structural engineering at the University of Texas at Austin.
Steel is also malleable. Mr. Engelhardt said that a small hydraulic arm (similar to the “Jaws of Life” used to pry open a crumpled car) could easily be used to make an opening in such a wall: “The equipment is small (could likely fit in a backpack), inexpensive, widely available and can generate many tons of force.”
“Steel can rust really quickly,” said Curtis Patterson, a structural engineer based in San Diego who visited the prototypes with a team of Times journalists. He pointed to several rust spots that had already appeared on one of the prototypes, less than a month after construction.
But some envision the mixed-material walls as having more technological capabilities. They might be called smart walls: walls that incorporate radar, acoustics and other types of surveillance embedded in the infrastructure. One of the contractors bidding on the wall is ELTA North America, an Israeli defense contractor that specializes in radar and communication equipment.
“My sense is they will select multiple awards for these types of infrastructure,” said Jayson Ahern, a former acting commissioner of Customs and Border Protection who was involved in the construction of a border fence during the George W. Bush administration. “Some will be for technology, some for when they just need a wall.”
Michael Evangelista-Ysasaga, the chief executive of Penna Group, which has contracted with the government before but whose prototype bid was rejected, said: “A see-through border wall allows them to know when they are facing threats on the other side, which Border Patrol has long preferred on their wish list. They didn’t want a solid wall. Going through was never the real threat. The real threat is going over or under.”
The only wall that actually has a brick facade is the prototype from Texas Sterling Construction. But in keeping with the guidelines, the pattern appears only on the U.S.-facing side. What Mexico gets to see is a bare concrete wall lined with barbed wire.
It turns out that barbed wire presents its own problems. Mr. Evangelista-Ysasaga said that his company often uses razor wire in prisons and that animals routinely get stuck. For humans, hair and clothing could get tangled in it. Having such wire along the border would be “really inhumane,” he said. “You’re going to read about a whole family dead on a Sunday morning. It’s going to be a human rights nightmare in the international world.”
Many of the contractors added a rounded tube at the top of their prototypes; they believe it will make it far less likely that anyone could reach the top. “It makes it impossible to straddle or use to get a rope ladder across because there is nothing to hook onto,” Deputy Chief Patrol Agent Roy D. Villareal said.
The prototype is also supposed to prevent tunneling at least six feet underground. Both rudimentary and sophisticated tunnels, primarily used to bring drugs into the United States, have been a persistent problem in the San Diego area. Border Patrol officials would not provide any details about what the barriers looked like below the surface, saying only that many went “well beyond” the six-foot minimum.
And Then There’s the Bill
Nearly every expert we spoke to said the cost of a wall could be insurmountable: Congress has not authorized any funding, and Mexican officials have insisted their country will not pay. Cost estimates have varied widely, but an internal report from the Department of Homeland Security pegged it at $21.6 billion.
“It’s not like buying 100 cars, where you have a fixed price,” Mr. Ahern said. “There’s an awful lot of wild cards that people won’t actually know about until they get into the field. Clearly that was our experience before.
“A wall is not a single solution. It is one element of border security.”
There may be no future for any of these walls. And because they sit in a remote industrial section near the border, they are unlikely to become roadside attractions. If nothing else, they stand, for now, as emblems of the administration’s ambitions.
Il fatto quotidiano
Sono in marcia da tre giorni per protestare contro le condizioni di vita nel centro d’accoglienza di Cona (Venezia) e per non abbandonare la manifestazione hanno passato la notte nella chiesa parrocchiale di Codevigo (Padova). Il corteo in questo momento è fermo sull’argine del Brenta, nel Comune di Campolongo Maggiore, bloccato dalle forze dell’ordine: “Dicono le istituzioni che stanno lavorando per trovare una soluzione e non vogliono farci passare, ma nessuno vuole tornare a Cona”, spiegano i manifestanti. Una protesta silenziosa, colpita anche da una tragedia. Nella tarda serata del 15 novembre, un ivoriano di 35 anni che stava raggiungendo i compagni in bicicletta è morto dopo essere stato travolto da un’auto: un connazionale è rimasto invece ferito.
Il gruppo è diretto a Venezia dove intende incontrare il prefetto. Ieri pomeriggio è stato fermato nella zona di Codevigo. Il sindaco Annunzio Belan, d’accordo con la prefettura di Venezia, aveva cercato nella notte di convincere gli aderenti alla protesta, per la quasi totalità uomini, a salire all’interno di due autobus per evitare di dormire all’aperto, ma i migranti si sono rifiutati perché, hanno spiegato, la loro protesta avrebbe perso visibilità. Il vescovo ha quindi autorizzato l’apertura della chiesa e il gruppo è entrato all’interno dell’edificio religioso.
Mercoledì sera a Codevigo c’erano il parroco, don Michele Fanton, il direttore di Caritas Padova don Luca Facco e padre Lorenzo Snider, delegato dal vescovo per l’assistenza spirituale nelle basi di Cona e Bagnoli. “Abbiamo valutato la situazione in diretto collegamento con il vescovo, mons. Claudio Cipolla e con il parroco – spiega don Facco – per comprendere il perché di questa marcia. Ci siamo anche relazionati con le autorità del territorio, le forze dell’ordine e con il prefetto vicario. Sapendo che i ragazzi erano di passaggio e interagendo direttamente ed esclusivamente con loro, abbiamo aperto la chiesa per dare un ricovero caldo e sicuro per la notte”. Ma c’è stata una breve trattativa. “Prima di aprire le porte è stato concordato il comportamento e lo stile da tenere, di ordine e rispetto del luogo. La chiesa è rimasta riscaldata tutta la notte e sono stati aperti i servizi igienici del centro parrocchiale. Abbiamo anche pregato insieme per il ragazzo che era morto durante il tragitto ed è stato un momento molto intenso. I ragazzi si sono comportati con ordine e decoro e al risveglio hannosistemato e ripulito con estrema cura la chiesa”. Prima che ripartissero, la Caritas parrocchiale ha rifocillato i giovani con tè caldo. Ma quale è il giudizio della chiesa padovana di fronte allo scempio della base di Cona? “Da parte nostra – risponde don Facco – abbiamo sempre promosso l’accoglienza diffusa nel territorio, che è meno impattante e favorisce percorsi di integrazione. Comprendiamo la fatica e le ragioni del disagio di vivere in una hub, che dovrebbe essere di sosta temporanea e invece vede, purtroppo, tempi troppo lunghi. Le loro ragioni vanno comprese ma non strumentalizzate. Si devono trovare soluzioni di accoglienza sempre più qualificata, favorendo la microaccoglienza”.
I richiedenti asilo hanno lasciato l’ex base militare di Cona per protestare contro le cattive condizioni all’interno del centro di accoglienza. Il centro era già stato teatro di una rivolta scoppiata nel gennaio scorso in seguito alla morte della giovane Sandrine Bakayoko. In quell’occasione aveva fatto discutere anche per la vicinanza politica dei suoi gestori con il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano: un fenomeno molto diffuso tra centri d’accoglienza di tutta Italia. A gestire quello di Cona è la coop Ecofficina Edeco, presieduta da Gaetano Battocchio mentre l’amministratore delegato è Sara Felpati, moglie di Simone Borile, ex consigliere provinciale del Pdl – oggi vicino ovviamente a Ncd – ed ex vicepresidente di Padova Tre, la società che si occupa di rifiuti dal quale era nata la stessa coop nel 2011.
La stampa locale ha da tempo ribattezzato Ecofficina come la coop nasce la coop “pigliatutto dell’accoglienza“, come l’ha ribattezzata la stampa locale. La società, infatti, gestisce tre centri d’accoglienza e in soli quattro anni ha visto esplodere il proprio fatturato: dai 114 mila euro del 2011 ai 10 milioni del 2015. Nel frattempo sono arrivate le inchieste giudiziarie – ben tre – per truffa, falso e maltrattamenti, e la fatwa di Confcooperative, che nel settembre del 2015 ha sospeso Ecofficina. Il motivo? “Fanno troppo business” ha spiegato Ugo Campagnaro, il presidente delle coop bianche.
Qui il link alla pagina, dove potete leggere tutti i commenti. Qui qualche esempio:
"Caricateli su un barcone e riportasteli in Libia, li staranno sicuramente meglio, e non avranno modo di lamentarsi" (gerry d)
"Rispediamoli seduta stante il Libia. Li si che ci sono dei resort a loro misura. Mangiare e dormire, wifi e qualche soldino in saccoccia, il tutto a spese di pantalone, evidentemente non sono sufficienti per questi choosy aspiranti afro-qualcosa con cellulare e cuffiette!" (Temolo56)
"Sediziosi e ribelli. Che devono ricevere il trattamento consono a sediziosi e ribelli e pure mantenuti. Mi vergognp per il prefetto e il questore che si genuflettono e si umiliano a sedersi attorno ad un tavolo a trattare con questi malviventi" (Lapasoa3 )
Corriere della Sera,
Bruxelles. L’organizzazione delle Nazioni Unite mette sotto accusa l’Unione Europea e l’Italia, che hanno frenato gli arrivi di immigrati in Europa finanziando le autorità della Libia per bloccarli o riaccettarli sul suo territorio. La dura denuncia dell’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Raad Al Hussein, sui «terrificanti» campi di detenzione per migranti in Libia è stata ulteriormente drammatizzata da un video-choc diffuso dalla tv Usa Cnn su migranti venduti all’asta come schiavi in Libia. Al punto che la Commissione europea ha chiesto la chiusura di queste prigioni e il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani ha annunciato per oggi la costituzione di una delegazione di eurodeputati da inviare in Libia per verificare le violazioni dei diritti umani.
«Orrori inimmaginabili» hanno sconvolto gli osservatori Onu quando hanno visitato a Tripoli quattro centri di detenzione per migranti gestiti dal Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno libico. «La sofferenza dei migranti detenuti in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità», ha protestato Al Hussein in un comunicato, dove ha definito «disumana» la politica della Ue e dell’Italia di finanziare le autorità libiche, perché «rischia di condannare molti migranti a una prigionia arbitraria e senza limiti di tempo, esporli alla tortura, allo stupro, costringerli al lavoro, allo sfruttamento e al ricatto». L’invito è a «non essere testimoni silenti della schiavitù moderna, di stupri e altre violenze sessuali, di uccisioni fuorilegge per evitare che persone disperate e traumatizzate raggiungano le coste dell’Europa».
La Commissione europea ha replicato ammettendo che «i centri di detenzione in Libia debbono essere chiusi» perché «la situazione è inaccettabile». Ha aggiunto che «l’Ue sta proseguendo gli sforzi per sostenere la creazione di un processo standard da parte delle autorità libiche attraverso il quale i migranti, soccorsi dalla guardia costiera libica, siano sbarcati e portati in centri di accoglienza che corrispondano agli standard umanitari internazionali». Il commissario Ue per l’Immigrazione, il greco Dimitris Avramopoulos, ha condiviso «la necessità di migliorare urgentemente» le condizioni dei migranti in Libia e ha detto che «proteggere vite ed assicurare un trattamento umano e dignitoso a tutti lungo le rotte migratorie resta la nostra priorità condivisa, dell’Ue e dei suoi Stati membri, in particolare dell’Italia». Il governo italiano si è difeso tramite la Farnesina sostenendo che «sono mesi che chiediamo a tutti i player coinvolti di moltiplicare l’impegno e gli sforzi in Libia per assicurare condizioni accettabili e dignitose alle persone presenti nei centri di accoglienza».
Tajani ha definito «assolutamente inaccettabile» quanto accade in Libia. «L’azione forte contro l’immigrazione illegale non può essere confusa con la violazione dei diritti umani - ha spiegato -. Tutto ciò che si deve compiere deve essere fatto nel rispetto dei diritti delle persone». I missionari comboniani, in base alla loro lunga esperienza assistenziale in Africa, hanno denunciato che la comunità internazionale «dimentica troppo facilmente che spesso le oligarchie locali africane sono al soldo di potentati stranieri (cinesi, americani, europei)» e che «gli sbarchi sono il drammatico risultato di politiche di sfruttamento umano e ambientale del continente».