Corriere della sera online,
A proposito di fake news: il tema più cavalcato in campagna elettorale dal centrodestra è stato quello della sicurezza, sempre abbinato a quello dell’immigrazione. Dichiarazioni come: «L’Italia è in piena emergenza sicurezza!», oppure: «C’è da aver paura, anche nelle nostre case!», non sono mai state supportate da un dato, ma buona parte degli italiani ci ha creduto. I numeri del 2017, che il Corriere presenta in anteprima, dimostrano esattamente il contrario: rispetto al 2016 gli omicidi sono diminuiti dell’11,2%, le rapine dell’8,7%, i furti del 7%.
Se questi dati, forniti dal Ministero dell’Interno e non ancora consolidati, fossero stati disponibili un mese fa, avrebbero modificato il filo narrativo della propaganda? Forse no, perché quando si mette in moto una psicosi collettiva, nulla riesce più a fermarla. Eppure tutti i partiti sanno che in Italia, la tendenza alla diminuzione dei reati con maggiore allarme sociale si è innescata ben quattro anni fa, ma hanno preferito ignorarla. I numeri sono significativi: al netto del calo della popolazione (0,34%), dal 2014 al 2017 gli omicidi sono scesi del 25,3%, i furti del 20,4% e le rapine del 23,4%. Quindi negli ultimi anni l’Italia è diventata via via più sicura, nonostante l’aumento del numero di immigrati.
Più sicure le strade, meno sicure le mura di casa
Tornando ai numeri, si scopre che a essere meno sicure non sono le strade, ma le mura di casa: delle 355 vittime di omicidi commessi nel 2017, 140 sono donne. A ucciderle è sempre un familiare e, nel 75% dei casi, il partner o l’ex. Il dato purtroppo è stabile negli anni: 155 le vittime nel 2014, 143 nel 2015, 150 nel 2016. Lo dice l’ultimo rapporto sul femminicidio pubblicato dall’Eures, l’Istituto di Ricerche economiche e sociali. Analizzando il rapporto del Viminale, relativo agli anni 2014/2016, nelle Regioni dove c’è stato un aumento di omicidi, la percentuale è quasi completamente assorbita proprio dai delitti commessi in famiglia. Il dato del Trentino per esempio è impressionante: +200%. Se si guardano i numeri, però, si scopre che si è passati da 1 omicidio nel 2014 a 3 del 2016, e i 2 morti in più non sono imputabili a un fatto di ordinaria criminalità (e quindi ad una mancanza di sicurezza), ma ad un padre impazzito che ha ucciso la moglie e il figlio. Lo stesso discorso vale per l’Abruzzo (+50%), per il Veneto (+62%), Friuli Venezia Giulia (+600%): una crescita pressoché attribuibile ai femminicidi.
Italia campionessa europea dei furti
Secondo Eurostat, nei principali Paesi europei, esclusi gli atti di terrorismo, si nota invece una tendenza all’aumento dei reati. Sia nel caso dei furti sia in quello degli omicidi volontari. La società più violenta è quella tedesca con 9,22 omicidi per milione di abitanti nel 2016, mentre l’Italia è imbattibile nei furti, con un indice di 20.163 furti per milione di abitanti. Un indice che tuttavia nel nostro Paese è in costante calo, mentre in Francia, Germania e Spagna è in aumento.
L’aumento delle licenze di porto d’armi
Insomma, le dichiarazioni allarmanti, spesso innescate da un fatto di cronaca, riprese da giornali e tv, alla fine hanno insinuato nella testa di molti italiani la percezione di vivere in un Paese poco sicuro. E come si difendono? Armandosi? La fotografia del Viminale è chiara: un aumento del 41.63% delle richieste di licenze di porto d’armi a uso sportivo negli ultimi 4 anni. Solo nel 2017 le licenze in più, rispetto al 2016, sono state 80.416. Forse non proprio tutti appassionati di tiro al piattello o di tiro a segno, mentre è sicuro che questo tipo di licenza è la più facile da ottenere. In calo del 12,01% invece la licenza per difesa personale, dove la procedura è più complessa e viene concessa solo in casi gravi e comprovati ( di solito a chi esercita professioni a rischio rapina); mentre i numeri relativi alla caccia sono stabili negli anni.
Meglio una porta blindata di un’arma in casa
Non ci sono dati significativi connessi alla reale utilità di girare armati, e all’analisi dei delitti, perché non esiste un monitoraggio nazionale. L’unico andamento collegato e parallelo è quello relativo agli omicidi commessi tra le mura di casa, a causa della presenza di un’arma. Secondo l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere di Brescia, nel 2017 ci sono stati 36 casi di omicidio, 19 tentati omicidi, 37 minacce di morte e 37 incidenti legati ad armi legalmente detenute. In conclusione: la sicurezza è un tema sul quale sarebbe bene non barare per scopi politici. Meglio placare la paura dei furti con una porta blindata e l’installazione di sistemi di allarme. Anche questo è un mercato in crescita: dal 2015 il fatturato sta aumentando di 200 milioni di euro l’anno, mentre la diciannovesima edizione della fiera sui sistemi di sicurezza che si tiene ogni anno a Milano, si è chiusa lo scorso novembre con un incremento del 35% dei visitatori e del 40% degli espositori.
Articolo tratto da Corriere della sera, qui raggiungibile con arricchimenti grafici e digitali in originale
comune.info-net
Il 16 febbraio il governo di Michel Temer ha consegnato la sicurezza di Río de Janeiro alle forze armate. Tutto sarà gestito dai militari, dai corpi di polizia fino ai pompieri e alle carceri. Il pretesto, come sempre, sono la violenza e il narcotraffico; che pure esistono e sono enormemente pericolosi per la popolazione.
Río de Janeiro è una delle città più violente del mondo. Nel 2017 sono stati contati 6.731 morti e 16 scontri a fuoco ogni giorno, ognuno con un saldo minimo di due persone uccise, quasi sempre neri. Tra le cinquanta città più violente del mondo, 19 sono brasiliane e 43 latinoamericane. Di pari passo, il Brasile è tra i dieci paesi con maggiori disuguaglianze nel mondo, alcuni di essi sono anche tra i più violenti, come Haiti, Colombia, Honduras, Panama e Messico (fonte Banca Mondiale, ndt).
Nel caso di Río de Janeiro, l’azione dei militari ha una caratteristica speciale: si focalizza nelle favelas, è diretta, dunque, contro la popolazione povera, nera e giovane. Nelle 750 favelas cittadine, vive un milione e mezzo dei sei milioni di abitanti di Río. I militari si posizionano alle uscite e fotografano ogni persona, gli chiedono i documenti e ne verificano l’identità. Non s’era mai fatto un controllo del genere in maniera tanto massiccia e specifica.
Non è la prima volta che i militari si fanno carico dell’ordine pubblico in Brasile. L’anno scorso a Río i militari sono intervenuti 11 volte, nel contesto delle missioni Garanzia della Legge e dell’Ordine (GLO), una legislazione che è stata applicata nei grandi eventi, come le visite del Papa e il Mondiale di Calcio. Dal 2008, in 14 occasioni hanno assunto funzioni di polizia. Adesso, però, si tratta di un’occupazione militare che comprende tutto lo Stato.
Molti analisti hanno sostenuto con vigore che l’intervento è destinato al fallimento, visto che i precedenti, sebbene realizzati in tempo, non sono serviti a molto. Un altro esempio sarebbe l’insuccesso delle Unità di Polizia della Pacificazione (UPP), che a suo tempo erano state vantate come la grande soluzione del problema dell’insicurezza, giacché si installavano nelle stesse favelas, come una specie di polizia del vicinato.
Gli analisti ricordano, intanto, che la guerra contro le droghe in Messico è uno strepitoso fallimento, che per ora si è chiuso con un saldo di oltre 200 mila morti e 30 mila desaparecidos, mentre il narcotraffico, ben lontano dall’esser stato sconfitto, è ancora più forte.
È necessario segnalare, tuttavia, che queste letture sono parziali, perché in realtà questi interventi conseguono un grande successo per raggiungere gli obiettivi non confessabili delle classi dominanti e dei loro governi: il controllo e lo sterminio della popolazione potenzialmente ribelle o comunque non integrabile. È questa la ragione che muove a militarizzare interi paesi in America Latina, senza toccare la disuguaglianza, che è la causa di fondo della violenza.
Quattro ragioni avallano l’impressione che siamo di fronte a interventi di straordinario successo, in Brasile, ma anche in Centroamerica, Messico e Colombia, solo per citare i casi più evidenti.
La prima è che la militarizzazione della sicurezza riesce a blindare lo Stato come garante degli interessi dell’uno per cento più ricco della popolazione, delle grandi multinazionali, degli apparati armati dello Stato e dei governi. C’è da chiedersi perché sia necessario, in questo periodo della storia, blindare quei settori. La risposta è che i due terzi della popolazione sono esposti alle intemperie, senza diritti sociali, grazie all’accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale.
Il sistema non concede nulla alle maggioranze nere (che sono il 51 per cento della popolazione in Brasile), indigene e meticce. Solo povertà e pessimi servizi sanitari, educativi e dei trasporti. Non offre loro un lavoro dignitoso né remunerazioni adeguate, le spinge alla sottoccupazione e alla cosiddetta “informalità”. A lungo termine, una popolazione che non riceve nulla o quasi nulla dal sistema, viene chiamata a ribellarsi. Per questo militarizzano, un compito che stanno compiendo con successo, per ora.
La seconda ragione è che la militarizzazione a scala macro si completa con un controllo sempre più raffinato, che fa ricorso alle nuove tecnologie per vigilare da vicino e da dentro le comunità che considera pericolose. Non può essere un caso che in tutti i paesi sono i più poveri, cioè coloro che possono destabilizzare il sistema, quelli che vengono controllati nel modo più implacabile.
Un solo un esempio. Quando sono state “donate” le làmine metalliche per le case in Chiapas, le istituzioni statali si sono preoccupate di dipingerle perché dall’alto si potessero identificare le famiglie non zapatiste. Le politiche sociali che elogiano i progressisti fanno parte di quelle forme di controllo che, nei fatti, funzionano come metodi di contro-sovversione.
La terza questione è che il doppio controllo, macro e micro, generale e particolare, sta attanagliando le società in tutto il mondo. In Europa ci sono multe o carcere per quelli che escono dal copione assegnato. In America Latina ci sono morte e desaparición per chi si ribella o, semplicemente, denuncia e si mobilita. Non si reprimono più solo quelli che si sollevano in armi, com’è stato negli anni 60 e 70 del secolo scorso, ma tutta la popolazione.
Questa mutazione delle forme di controllo, isolando e sottomettendo i potenziali ribelli, o disobbedienti, è una delle trasformazioni più notevoli che il sistema sta applicando in questo periodo di caos. Un periodo che, nel lungo periodo, potrebbe anche farla finita con il capitalismo e il dominio dell’uno per cento sul resto della popolazione.
La quarta questione sono delle domande. Che vuol dire governare quando siamo di fronte a forme di controllo che accettano solo di votar ogni quattro, cinque o sei anni? A che serve mettere tutto l’impegno politico nelle urne se fanno frodi e consolidano il loro potere con i militari nelle strade, come succede in Honduras? Non dico che non si debba votare. Mi domando: per ottenere cosa?.
Si tratta di continuare a riflettere sulle nostre strategie. Lo Stato è un’idra mostruosa al servizio dell’uno per cento. Tutto questo non cambierà neppure se prendessimo il timone del comando, perché al vertice della piramide continueranno a restare gli stessi, con tutto il potere necessario a mandarci via quando lo riterranno conveniente.
Ripreso da comune.info-net, che l'ha tradotto la Jornada. Titolo originale: Brasil tras los pasos de México Traduzione per comune.info-net: Marco Calabria.
il manifesto,
“Ba-sta razzismò, ba-sta razzismò”. I tantissimi senegalesi in corteo lo ritmano lungo tutto il percorso, restituendo senso, una volta tanto, alle parole. Si manifesta per Idy Diéne, e come hanno chiesto le associazioni dei senegalesi di Toscana “questo vuol essere un ricordo doloroso di una persona cara, ma anche una affermazione collettiva del rifiuto dell’incitamento all’odio nei confronti dei migranti e rifugiati, che ha caratterizzato in modo marcato il dibattito pubblico nell’ultimo anno”. Per certo è un fiume intergenerazionale e arcobaleno quello che invade piazza Santa Maria Novella, via dei Fossi, i lungarni Vespucci e Soderini, il ponte alla Carraia e il ponte Vespucci. Lì dove il 54enne ambulante è stato usato come un bersaglio, prima di essere ammazzato, con il colpo di grazia alla testa, da un tipografo in pensione con l’hobby delle armi.
Sfilano in (molti) più di 10mila – numero della questura – e tutti sanno bene che nessuno potrà riportare in vita Idy Diéne. Ma essere qui può aiutare a combattere il razzismo, che sia dichiarato o strisciante poco conta, ormai sdoganato da forze che con la parola d’ordine del “prima gli italiani” portano migliaia di loro ad essere “eletti dal popolo” in Parlamento e negli enti locali. “Quell’uomo l’ha studiato, l’ha studiato (l’omicidio, ndr) – quasi urla un senegalese ai microfoni di Radio Popolare – lui quel giorno ha incontrato un milione di persone e poi ha sparato a un nero. Salvini, io ti vedo tutte le volte al telegiornale, tu parli solo male degli africani, questi sono i risultati”.
Agli angoli del ponte Vespucci, attaccato sul muro, un volantino racconta l’Italia di oggi vista con gli occhi di un migrante: “Cari fratelli e sorelle italiani, se avete fame oggi; se siete senza lavoro; se siete diventati poveri, noi neri, noi africani, non siamo colpevoli; non siamo responsabili delle vostre rogne. Cercate i responsabili da Sarkozy a Berlusconi, alleati hanno bombardato la Libia e il resto dell’Africa. Se le vostre bombe cadessero in Italia cosa fareste? Dov’era la colpa del povero Diéne Idy, il fatto di essere nero. Essere nero è un reato in Italia, basta!”.
La manifestazione è stata in forse fino a venerdì, anche questo è toccato vedere dopo che la parola razzismo è stata tabù per giorni, sindaco Nardella in testa. Invece dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, erano arrivate parole sensate: “Se qualcuno spara pallottole contro qualcun altro che ha la pelle di colore diverso, avendo incontrato prima anche altre persone, è chiaro che si tratta almeno di razzismo subliminale: questo è ovviamente inaccettabile e va debellato, così come il razzismo manifesto e proclamato”.
E’ stato un corteo talmente civile che a Nardella, anche lui in marcia, è stato dedicato solo un graffiante striscione: “Je suis fioriera”. In eterno ritardo, anche il sindaco ha finalmente capito: “Ho parlato con la famiglia di Idy, ha acconsentito a far svolgere una giornata funebre con una cerimonia funebre, e questo ci consente di programmare il lutto cittadino. In questo modo noi diamo un ulteriore segnale di sensibilità e vicinanza della nostra città”.
Nel lunghissimo corteo altri rappresentanti istituzionali (Enrico Rossi), la portavoce di Potere al popolo Viola Carofalo (“non si poteva non essere qui”), intellettuali (Adriano Sofri, Wlodek Goldkorn, Tomaso Montanari), i responsabili dell’Anpi dell’intera provincia, Gigi Remaschi in testa. Con loro la Cgil, l’Usb, i Cobas, l’Arci, la rete antirazzista fiorentina con le variegate anime della sinistra che resiste. E ancora Tommaso Fattori e Giacomo Trombi con lo striscione “Stay human”: restiamo umani. Senza dimenticare la realtà, fotografata dallo striscione di uno spezzone di corteo tutto al femminile: “Chi spara alla moglie, chi spara all’immigrato, è un maschio bianco, e va fermato”.
“Forza, dobbiamo parlare, dobbiamo farci sentire – spiega una ragazza senegalese alle sue compagne di corteo – perché queste tragedie non devono più succedere, non vogliamo piangere altri morti come Samb, come Diop, come Idy”. Perché Firenze è recidiva. Anche se la sua parte migliore, oggi in corteo, la pensa come il cartello portato dal manifestante ignoto: “Mio fratello non è figlio unico”.
NENA news,
«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».
Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante.
Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.
«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non come nativi».
«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».
Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.
Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento: costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.
Israele è assunto come modello securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.
La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.
Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?
In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.
Quanto si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership?
Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli scandali corruzio
il manifesto 24 febbraio 2018. Articoli di Anna Maria Merlo e Carlo Lania. Obbiettivo dell'UE: un rafforzamento dell’Europa fortezza, a scapito sempre più dell’Europa sociale. La verità la dice Junker: lo "sviluppo" è affidato alle spese per la guerra
ALLA RICERCA DI UN BUDGET
PER L’EUROPA FORTEZZA
di Anna Maria Merlo
«Consiglio europeo informale. Lettera di Macron e Merkel a Putin sulla Siria. Discussione sul bilancio Ue del dopo-Brexit. Dissidenze sullo Spitzenkandidat»
Con una lettera comune a Vladimir Putin, per ottenere che la Russia non faccia ricorso al veto e blocchi ancora la risoluzione Onu su una tregua umanitaria di 30 giorni nella Ghouta, Emmanuel Macron e Angela Merkel hanno chiesto ai partner europei di sostenere una posizione unitaria dell’Unione sul dramma in corso in Siria.
Il vertice informale che ha riunito ieri 27 capi di stato e di governo della Ue (senza Theresa May) doveva gettare le basi per il prossimo budget dell’Unione (2021-2027) e definire la modalità dell’elezione del prossimo presidente della Commissione, che succederà a Jean-Claude Juncker dopo le elezioni europee del maggio 2019. Sul bilancio, ci sono due questioni cruciali: come far fronte ai 12 miliardi di euro l’anno che verranno a mancare a causa della Brexit e dove destinare i fondi. Su questo secondo punto, purtroppo si profila un rafforzamento dell’Europa fortezza, a scapito sempre più dell’Europa sociale. La “linea” è stata data dal presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, che ha ambizioni italiane: ha difeso un «budget politico», concentrato su sicurezza, immigrazione, famiglia e, in ultimo, occupazione.
Il budget europeo pesa solo il 2% della spesa pubblica dei paesi Ue, nel 2017 è stato di 158 miliardi di euro. Olanda, Danimarca, Svezia, Austria non vogliono sentir parlare di un aumento dei contributi nazionali per sopperire al buco creato dalla Brexit. L’Italia con la Polonia e l’Irlanda è su posizioni opposte. Francia e Germania parlano di aprire un capitolo sui «beni pubblici europei», che potrebbe portare a un aumento dei «fondi propri» della Ue (si parla di una tassa sulla plastica o sul reddito generato dal mercato di Co2). La Commissione auspica un aumento del budget del 10%, l’Europarlamento del 20%. Per redistribuire i finanziamenti, c’è sul tavolo una nuova revisione della Pac (politica agricola) e anche l’eventualità di imporre delle «condizionalità» all’erogazione dei Fondi di coesione (rispetto dello stato di diritto, delle politiche approvate…, misure che potrebbero colpire, per esempio, paesi come la Polonia o l’Ungheria, grandi beneficiari che poi non rispettano gli impegni comuni).
L’offensiva di Macron per arrivare a liste transnazionali alle elezioni europee per il momento è fallita, respinta da un voto del Parlamento europeo all’inizio di febbraio (dopo che Strasburgo aveva approvato questa idea nel 2015), a causa di un voltafaccia del gruppo Ppe. Macron, che ha sconvolto il paesaggio politico francese, vorrebbe fare la stessa cosa in Europa. Non si sa ancora dove siederanno i futuri deputati En Marche, per questo Macron vuole evitare che venga ripetuto il meccanismo dello Spitzenkandidat, adottato nel 2014 per l’elezione di Juncker: l’automatismo tra il capo di un gruppo politico e la nomina alla testa della Commissione per il partito vincente (il Ppe, in maggioranza, impose il suo candidato Juncker alla Commissione). Non solo Macron, ma una decina di paesi sono contrari allo Spitzenkandidat, che toglie potere al Consiglio, mentre l’Europarlamento approva con entusiasmo questo sistema. Sui 73 seggi lasciati vacanti dai britannici resta la proposta dell’Europarlamento di redistribuirne 27 a 14 paesi membri per un riequilibrio demografico (anche l’Italia ci guadagna), lasciando i restanti 46 per i prossimi allargamenti.
Rimandata a più tardi la questione della fusione delle cariche di presidente della Commissione e presidente del Consiglio (oggi Juncker e Tusk), che richiede una pericolosa revisione dei Trattati, un vero a proprio vaso di Pandora che è meglio non aprire in questo periodo.
DALL’UE PIÙ DI 400 MILIONI AL SAHEL
PER LA NUOVA FORZA ANTI-TERRORISMO
di Carlo Lania
Il Sahel è ormai destinato a diventare sempre più il cortile di casa dell’Unione europea. Lo si è capito ieri a Bruxelles dove si è tenuta la Conferenza internazionale sulla sicurezza e lo sviluppo del Sahel con i leader europei e i capi di stato di Mauritania, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mali. L’Europa ha deciso di stanziare ulteriori 50 milioni di euro - dopo i 50 già investiti a giugno 2017 - da destinare al G5, la neonata forza multinazionale formata dai cinque Paesi della regione. Un contributo che sommato a finanziamenti già stanziati da donatori internazionali (tra i quali Arabia saudita ed Emirati Arabi con complessivi 130 milioni, Stati uniti con 60, Francia con 8 e Paesi Bassi con 5) porta a un totale di 414 milioni di euro il fondo su cui può contare la forza militare, destinata principalmente a operazioni di contrasto al terrorismo jihadista. Cifra che dovrebbe soddisfare il presidente nigerino, e presidente di turno del G5 Sahel, Mahamadou Issoufou, che aveva stimato in 423 milioni di euro i soldi necessari per il primo anno di attività della forza multinazionale e in 115 milioni il fabbisogno per gli anni successivi. Con l’ulteriore richiesta all’Europa di rendere stabile l’aiuto economico. «Non sappiamo quanto durerà questa lotta al terrorismo. Per questo occorre pensare a come rendere perenne questo finanziamento», ha spiegato ieri Issoufou.
Era stato il presidente francese Emmanuel Macron, alla vigilia dell’incontro di ieri, a chiedere all’Europa un ulteriore sforzo economico per sostenere il G5 Sahel. La Francia ha da tempo 4.000 soldati impegnati nella regione con la missione Barkhane, sempre più spesso nel mirino di attentati. L’ultimo, appena tre giorni fa, ha visto morire in Mali due militari e un terzo rimanere ferito per l’esplosione di una bomba artigianale. Attentato che ha rafforzato i programmi del presidente francese che vorrebbe riportare gradualmente a casa i suoi soldati per lasciare il campo ai soli africani.
«Il nostro obiettivo è di avere la forza congiunta operativa già a marzo, quindi la prossima settimana», ha detto ieri l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue Federica Mogherini. Obiettivo che può tornare utile anche in vista delle imminenti elezioni italiane, come ha sottolineato il premier Paolo Gentiloni convinto che interventi come quelli che l’Europa sta facendo in Africa possano servire anche per fermare il populismo dilagante.
Nel Sahel saranno presenti presto anche i soldati italiani, Entro giugno è infatti previsto l’arrivo in Niger dei primi 270 militari con base all’aeroporto di Niamej. Una presenza che va ad aggiungersi a quelle di Francia, Stati uniti e Germania che già si trovano sul posto, ma che non prevede – almeno per ora – scontri con le formazioni terroristiche attive nella regione, bensì solo attività di addestramento delle forze di sicurezza nigerine nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Il Sahel resta comunque una regione alla quale l’Europa guarda con particolare attenzione, come ha fatto capire sempre ieri il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ricordando come un quinto della popolazione della regione sia a rischio fame e cinque milioni di persone siano costrette a lasciare le proprie case a causa dei conflitti in corso. Senza contare che i tre quarti della popolazione dell’area ha meno di 35 anni. «Per questo sicurezza e sviluppo devono marciare insieme», ha detto Juncker. Un binomio sul quale l’Europa sembra però concentrata per ora soprattutto sulla prima parte.
Nigrizia,
«Presentato a Roma il rapporto annuale di Amnesty International. In Nord Africa maglie nere per Egitto e Libia, nella regione subsahariana situazione al limite in Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Nigeria. “Ma in Africa - spiega il presidente Antonio Marchesi - di fronte a una classe politica che in molti casi segue un’agenda sbagliata, c’è una società civile che si mobilita”»
C’è tanta Africa nel Rapporto 2017-2018 presentato da Amnesty International il 21 febbraio a Roma nell’Istituto della Enciclopedia Italiana. Il dossier analizza le sistematiche violazioni dei diritti umani in 159 paesi, ponendo quest’anno particolare attenzione su un fenomeno in particolare. Si tratta dell’odio sempre più diffuso nei confronti di minoranze e diversità, un sentimento su cui soffiano molti governanti nel tentativo di manipolare a loro favore le opinione pubbliche, servendosi anche di fake news. È una tendenza che interessa anche l’Italia e, nella fattispecie, le forze politiche di centro-destra come dimostra un’indagine realizzata da Amnesty International in cui è stata monitorata la frequenza di toni e slogan contro migranti, musulmani, rom ed LGBTI durante questa campagna elettorale.
Se l’Occidente registra degli evidenti passi indietro sul piano politico e culturale, l’Africa continua a fare i conti con i suoi annosi problemi: regimi dittatoriali che non lasciano alcuno spazio alla libertà di stampa ed espressione, paesi in guerra, presenza capillare di gruppi jihadisti, flussi migratori incontrollati, traffici di uomini, droga e armi, torture e privazioni dei basilari diritti umani.
Nord Africa: maglie nere per Egitto e Libia
Tra i paesi del Nord Africa, l’Egitto si conferma quello attraversato da più contraddizioni. Il suo presidente, Abdel Fattah Al Sisi, è considerato un alleato solido dai leader europei così come da Russia e paesi del Golfo. Eppure, da quando l’ex generale è salito al potere con un colpo di Stato nel luglio del 2013, la situazione dei diritti umani in Egitto è gradualmente peggiorata. Secondo il rapporto di Amnesty International, il Paese si conferma infatti come il “carcere” più grande per i giornalisti insieme a Turchia e Cina. Nel 2017 i giornalisti condannati a pene carcerarie sono stati 15, mentre 400 siti web sono stati oscurati per aver diffuso “informazioni false” stando a quello che dicono le autorità egiziane. Negli ultimi dodici mesi si è inoltre stretta la morsa attorno agli attivisti per la tutela dei diritti umani, alle ong, ai sindacalisti, agli LGBTI e a chiunque si sia esposto per ottenere la verità sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni.
Riferendosi alla Libia, Amnesty International parla invece di “totale assenza di legalità” e punta l’indice contro chi, come il nostro paese, sta puntando su errate strategie di contenimento dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo. “Fino a 20mila rifugiati e migranti - si legge nel rapporto - erano arbitrariamente trattenuti a tempo indeterminato in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento e totale mancanza d’igiene, esposti al rischio di tortura, lavoro forzato e uccisioni illegali, per mano delle autorità e delle milizie che gestivano queste strutture. Nel fornire assistenza alla guardia costiera libica e alle strutture di detenzione, gli Stati dell’UE, e in particolare l’Italia, si sono resi complici degli abusi”.
È convinto di questa posizione il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi. “L’Italia - spiega - dice che si deve puntare prima alla stabilizzazione in Libia, ma finora o risultati ottenuti sono stati pochissimi. Non è stato riconosciuto un ruolo significativo all’UNHCR, la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra, non è venuto meno l’automatismo della detenzione degli irregolari. Tutto questo approccio basato sull’institution building ha dei costi umani inaccettabili. Ci sono persone che rischiano ogni giorno torture, subiscono estorsioni e violenze inaudite. L’unica soluzione è aumentare in modo molto significativo l’accoglienza di circa 40mila persone molto vulnerabili che hanno urgente bisogno di assistenza ed esercitare una pressione diversa sulle autorità libiche”.
Africa subsahariana
Passando all’Africa subsahariana la situazione non cambia e, anzi, in diversi casi peggiora. “Da Lomé a Freetown, da Khartoum a Kampala, da Kinshasa a Luanda - prosegue il rapporto di Amnesty International - si sono verificati arresti di massa contro manifestanti non violenti, così come percosse, uso eccessivo della forza e, in alcuni casi, uccisioni. L’immobilità politica e i fallimenti degli organismi regionali e internazionali nell’affrontare gli annosi conflitti e le loro cause hanno rischiato di diventare la normalità e di causare ulteriori violazioni, nell’impunità”.
Nella regione sono oltre 20 i paesi in cui le autorità hanno negato alle persone il diritto di protestare pacificamente. Lo hanno fatto nei migliori dei casi imponendo divieti illegali, oppure con l’uso eccessivo della forza, con vessazioni e arresti arbitrari. È accaduto soprattutto in Angola, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Sudan, Togo, nelle regioni anglofone del Camerun, in Kenya, Sierra Leone e Uganda.
Alcuni governi hanno adottato nuove leggi con l’obiettivo di limitare le attività dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e dei loro oppositori. I casi più evidenti sono stati quelli dell’Angola, della Costa d’Avorio e della Nigeria. Sempre in Angola, così come in Kenya, Rwanda e Burundi, le ultime tornate elettorali sono servite ai governanti per regolamenti di conti interni.
Vittime di discriminazioni e abusi sono poi donne e ragazze, albini (specie in Malawi e Mozambico) ed LGBTI (Senegal, Ghana, Malawi e Nigeria). Non sono esenti da colpe nemmeno le società straniere che operano nel cuore dell’Africa. Vale per le compagnie occidentali così come per quelle turche o cinesi che non si fanno scrupoli a offrire solo un dollaro al giorno a chi rischia la vita nelle miniere di cobalto, nei cantieri dove si realizzano grandi infrastrutture, nei giacimenti di petrolio e gas.
Jihadisti e conflitti armati
A incidere enormemente sull’instabilità perenne di buona parte dell’Africa subsahariana sono la presenza ramificata di gruppi jihadisti - in primis i nigeriani di Boko Haram e i somali di al-Shabaab - e i conflitti armati in corso. Il caso più critico ad oggi è quello del Sud Sudan. Amnesty International segnala che nella regione dell’Alto Nilo “decine di migliaia di civili sono stati sfollati con la violenza, mentre le forze governative bruciavano, bombardavano e saccheggiavano sistematicamente le loro abitazioni e proseguivano i continui episodi di violenza sessuale”. In Sudan resta elevata l’emergenza umanitaria negli Stati del Darfur, del Nilo Blu e del Kordofan del Sud.
In Repubblica Centrafricana gruppi armati imperversano sino alle porte della capitale Bangui e nel Paese si segnalano anche casi di sfruttamento e di abusi sessuali da parte delle truppe di peacekeeping dell’ONU. Si contano migliaia di morti e oltre un milione di sfollati interni nella Repubblica democratica del Congo. Di questi ultimi, 35.000 si sono riversati nel vicino Angola. Gli eserciti di Camerun e Nigeria, nel rispondere alla minaccia di Boko Haram, si stanno macchiando di violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale: esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, arresti arbitrari, detenzioni in incommunicado, torture. In Niger, paese in cui l’Italia si appresta ad avviare una discussa missione militare e dove è in vigore lo stato d’emergenza nelle aree occidentali al confine con il Mali e nella regione di Diffa, è iniziato il processo di oltre 700 persone sospettate di essere affiliate al gruppo jihadista nigeriano.
Sfollati interni
Nel complesso questi elementi di instabilità hanno portato a un netto aumento di sfollati interni. È il caso della Somalia (in totale 2,1 milioni di sfollati interni), della Nigeria (almeno 1,7 milioni di persone che hanno lasciato le proprie case negli Stati nordorientali di Borno, Yobe e Adamawa, dove è più forte la presenza di Boko Haram), del Ciad (più di 408.000 rifugiati provenienti da Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Nigeria e Sudan), e dell’Eritrea (dove sono in migliaia a tentare di fuggire per non subire l’oppressione del governo o per evitare la leva obbligatoria a tempo indeterminato). Anche in questa triste classifica, il primato spetta però al Sud Sudan: dall’inizio del conflitto nel dicembre del 2013 gli sfollati sono stati più di 3,9 milioni di persone (un terzo della popolazione) con picchi nel 2017 nella regione meridionale dell’Equatoria (340.000 persone).
Speranze per il futuro
Non tutto in Africa è però offuscato da violenze. Qualcosa, seppur lentamente, si sta muovendo nella giusta direzione. Il Gambia, ad esempio, ha revocato la decisione di ritirarsi dalla giurisdizione dell’International Criminal Court, ha liberato diversi prigionieri politici e promesso l’abolizione della pena di morte. L’Alta corte del Kenya ha fermato la chiusura di Dadaab, il più grande campo profughi del mondo. In Nigeria sono stati impediti sgomberi forzati ad Abuja. In Angola la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità della legislazione che si proponeva di ostacolare il lavoro delle organizzazioni della società civile. L’Unione Africana ha avviato un ambizioso programma per “far tacere le armi” entro il 2020.
“In Africa - conclude Antonio Marchesi - di fronte a una classe politica che in molti casi segue un’agenda sbagliata, c’è una società civile che si mobilita. C’è speranza soprattutto per il futuro del Sudafrica. Con l’allontanamento del presidente Zuma, il paese può ambire a tornare ad assumere leadership africana come aveva già fatto, e bene, negli anni Novanta”. Nell’insieme, sono piccoli passi in avanti che fanno ben sperare nell’anno del 30esimo anniversario della creazione della Commissione africana sui diritti umani e dei popoli.
Questo articolo è ripreso da "Nigrizia", dove è raggiungibile qui
Avvenire,
«La Fondazione Migrantes presenta quattro proposte per superare l’attuale crisi del diritto d’asilo in Europa e lancia l'appello per un nuovo Regolamento di Dublino»
Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Ma davvero i quattro verbi-azione promossi da Papa Francesco spingono e guidano le scelte politiche dell’Europa e dell’Italia sul tema delle migrazioni? Se lo chiede la Fondazione Migrantes che a Ferrara ha presentato per il secondo anno consecutivo il suo “Rapporto Asilo 2018” lo studio dedicato al mondo dei richiedenti asilo e rifugiati. L’interrogativo al quale si cerca di rispondere fa da sfondo all’intero studio fatto di cifre, dati ed esperienze. Ma anche di proposte: una "road map" per un'Europa più accogliente.
In Italia, per la prima volta il numero delle domande d’asilo supera il numero degli arrivi
Per la prima volta in Italia, sottolinea il rapporto della Fondazione, nel 2017, le domande d’asilo hanno superato il numero degli arrivi via mare. Un anno fa il contatore degli arrivi nel nostro Paese si è fermato a 119.369 persone, il 34% in meno rispetto alle 181.436 del 2016 (erano state 153.842 nel 2015). Il primo Paese di provenienza si conferma la Nigeria, seguita da Guinea, Costa d’Avorio, Bangladesh, Mali ed Eritrea.Secondo dati del ministero dell’Interno, nel 2017 hanno chiesto protezione in Italia circa 130 mila persone. Nel 2016 i richiedenti asilo erano stati 123.600, e 83.970 nel 2015.
Sempre secondo dati del Viminale, nel 2017 sono stati esaminati circa 80 mila richiedenti asilo. È stata accordata protezione a oltre 30 mila di essi.Ma una larga maggioranza, poco sotto il 60%, si sono visti respingere la loro domanda. A fine 2017 erano in accoglienza in Italia 183.681 richiedenti asilo e rifugiati: appena il 3 per mille dei residenti.
La rotta del Mediterraneo e il triste record di vittime
Sulle "rotte" precarie e sempre più chiuse del Mediterraneo orientale, centrale e occidentale, nel 2017 hanno raggiunto via mare l'Europa 171.694 migranti e rifugiati. Erano stati 363.504 nel 2016 e ben 1.011.712 nel 2015. Gli arrivi sono aumentati solo nel Mediterraneo occidentale. Sul "pericolo Mare nostrum", Migrantes rileva che nelle acque del Mediterraneo, "la 'frontierà più letale del mondo", il triennio ha registrato un triste record di vittime nel 2016, 5.143, contro le 3.771 del 2015. Nel 2017 il dato è sceso a 3.119; ma rispetto al 2016 è aumentata,sia pure di poco, l'incidenza dei morti sul totale di coloro che si sono imbarcati: oggi perdono la vita nelle acque del Mare Nostrum (stime per difetto) quasi due persone ogni 100 partite, mentre nel 2016 il dato era di poco più di una su 100.
Le proposte
Il rapporto si conclude con quattro proposte inedite per superare l’attuale crisi (un vero e proprio «vicolo cieco») del diritto d’asilo in Europa: se accolte, queste proposte avrebbero positive ricadute sull’intera società del vecchio continente, oltre che, naturalmente, sui percorsi di integrazione degli stessi rifugiati: 1) un nuovo regolamento “di Dublino” finalmente aderente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati; 2) il rifiuto dei concetti di “Paese terzo sicuro” e di “Paese di primo asilo”, ad oggi solo proposti dall’UE ma in insanabile contrasto con la tradizione giuridica europea in materia di asilo; 3) l’introduzione di un regolamento UE che disciplini il “reinsediamento” dei rifugiati da Paesi terzi prevedendo per gli Stati membri obblighi chiari; 4) un’estensione della protezione sussidiaria,ancorandola alla tutela dei diritti e delle libertà fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Per un sapere che allontani la paura
Nell’Introduzione al rapporto don Giovanni De Robertis, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, e Mariacristina Molfetta, co-curatrice del Rapporto, si rivolgono ai lettori: «L’augurio è che questo testo possa contribuire a costruire un sapere fondato rispetto a chi è in fuga,a chi arriva nel nostro continente e nel nostro Paese, e che possa esserci d’aiuto a “restare umani”, ad aprire la mente e il cuore allontanando diffidenza e paura».
L'articolo è tratto da "Avvenire" ed è raggiungibile qui
Avvenire
Il dramma In base al provvedimento voluto dal governo, 38mila africani presenti nel Paese dovranno scegliere tra il ricollocamento in uno Stato terzo o il campo di detenzione di Holot, nel Negev. Scegliere tra la deportazione e la galera. È questo il dilemma di 38.000 africani, per lo più eritrei (27.494) e sudanesi (7.869), sul suolo israeliano. Domenica è scaduto il termine per i primi 200 migranti che verranno presto espulsi sulla base della nuova legge voluta dal governo di Benjamin Netanyahu.
A riaccendere le speranze c’è però una sentenza, emessa il 15 febbraio, di un giudice della Corte d’appello israeliana, secondo cui va accolta la richiesta d’asilo da parte degli eritrei che fuggono dal servizio militare. Si moltiplicano intanto le manifestazioni di protesta. Quelle dei migranti, che da settimane organizzano sit-in ad Herzliya (nord di Tel Aviv) davanti all’ambasciata del Ruanda, uno dei due Paesi individuati dal governo come destinazione per il ricollocamento degli espulsi (l’altro è l’Uganda). Ma anche quelle della società civile, che si sta mobilitando per dire «no».
Girano petizioni contro una legge che, secondo i sottoscrittori, tradisce l’anima di Israele e degli ebrei, che furono profughi perseguitati. A firmarle, intellettuali, scrittori, artisti, medici, rabbini, sopravvissuti della Shoah e gente comune. Sui social, è partita la campagna «anch’io sono contro l’espulsione dei rifugiati», e alcuni Vip hanno postato la loro foto con il cartello di adesione. Donne e minori al momento restano sospesi dal provvedimento.
Gli uomini non sposati invece hanno tempo fino al primo aprile per scegliere se tornare in Africa in aereo, oppure rimanere ingabbiati a Holot, il centro di detenzione nel deserto del Negev. Il pugno duro contro chi è entrato illegalmente nello Stato ebraico dal 2007 al 2012, attraversando il Sinai, lo ha deciso l’attuale governo, facendo fede al suo programma elettorale. Rifugiati e richiedenti asilo eritrei e sudanesi «verranno costretti ad accettare il ricollocamento nei Paesi africani o verranno arrestati», aveva detto Netanyahu prima di far passare la controversa legge. Una decisione che ha incontrato il biasimo della sinistra israeliana, delle Chiese cristiane, ma anche di alcuni sionisti e diversi rabbini, che la trovano incompatibile con la religione ebraica.
«Netanyahu pensa che le espulsioni siano una soluzione per accontentare i cittadini israeliani che risiedono della parte sud di Tel Aviv, dove vive la maggior parte dei migranti », spiega ad Avvenire Mossi Raz,parlamentare del partito di sinistra Meretz. Per facilitare le deportazioni (che il premier ha suggerito di chiamare d’ora in poi «rimozioni »), il governo ha stanziato una cifra di 2.900 euro da dare al migrante al momento della partenza. Ma secondo l’Alto commissario dei rifugiati dell’Onu (Acnur), è illegale rimpatriare i cittadini in Paesi di origine dove non vengono rispettati i diritti umani. È il caso dell’Eritrea e del Sudan, dove vigono regimi non democratici.
Quindi, per uscire dall’imbarazzo, il governo israeliano ha stipulato accordi non ufficiali con Ruanda e Uganda, Paesi che dal 2007 accettano gli eritrei e i sudanesi deportati da Israele. «Io sono andato in Ruanda – racconta Raz –: il governo di Kigali si è rifiutato di incontrarmi e di riconoscere l’accordo con Netanyahu».
Ma a Kigali Raz ha incontrato i migranti rimpatriati negli anni scorsi. «Sono degli invisibili – spiega –, non hanno diritti perché arrivano in questi Paesi senza lo status di rifugiato». Dal 2013 il ministero della Popolazione e dell’immigrazione israeliano ha visionato solo 6.500 delle 15.000 domande d’asilo presentate. Di queste ne sono state approvate soltanto 11. «È un numero ridicolo», commenta Amir Segal portavoce di Cimi (Center for international migration and integration), associazione israeliana che si occupa di difendere i diritti dei lavoratori stranieri. «Non c’è un problema di mancanza di lavoro – spiega – bensì di razzismo». In un recente comizio, la ministra della Giustizia, Ayelet Shaked, del partito di destra Casa ebraica, ha detto: «Se non fosse stato per la barriera al confine con l’Egitto, oggi assisteremmo a una lenta ma inesorabile conquista da parte degli africani». Il riferimento è alla rete metallica costruita sul Sinai, nel 2012, voluta da Netanyahu.
Da allora non si sono più verificati sconfinamenti illegali. «La vera ragione però – rivela Segal – non sta nella barriera, ma nella detenzione dei migranti che ha imposto l’Egitto». In Israele la domanda di lavoro supera l’offerta. Lo Stato ebraico preferisce però prendere lavoratori da India, Filippine e altri Paesi asiatici, che vengono impiegati nell’agricoltura, cura degli anziani, edilizia e settore alberghiero. Agli africani che entrano illegalmente, invece vuole lanciare un messaggio molto chiaro: non siete ben accetti. «Costruisci uno Stato che possa soddisfare anche gli stranieri che ci vivono », ricordano gli intellettuali israeliani. Parafrasando il padre del sionismo, Theodore Herzl.
Avvenireprogetto del tipo "aiutiamoli a casa loro",che nasconde sotto la maschera dell'aiuto benefico il ghigno consueto dello sfruttamento
La Francia denuncia la pseudo cooperazione e se ne va. Il gran rifiuto, come lo avrebbe definito Dante, è avvenuto l’8 febbraio con un’insolita e persino sorprendente scelta a fianco dei piccoli contadini africani che le multinazionali dell’agrobusiness forse non perdoneranno mai a Emmanuel Macron. Il programma da cui Parigi ha deciso di ritirarsi si chiama"Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e nutrizionale" (in sigla Nasan), un’iniziativa decisa nel corso del G8 che si tenne nel 2012 a Camp David.
Al pari del titolo, dal forte richiamo biblico, anche le finalità hanno un vago sapore messianico: in 10 anni liberare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di africani attraverso una collaborazione fra Governi africani, Governi dei Paesi ricchi e imprese private. Ma a una verifica di metà periodo, si scopre che il progetto è servito a creare dei paradisi fiscali agricoli, come li ha definiti l’organizzazione francese Action contre la Faim : occasioni di guadagno per le grandi imprese dell’agroindustria, non di liberazione dei piccoli contadini le cui condizioni sono addirittura peggiorate. In effetti il progetto nasce dalla vecchia convinzione che per risolvere fame e povertà basta aumentare la produzione. Per cui l’unica cosa da fare è facilitare gli investimenti da parte di chi i soldi ce li ha, ossia le grandi imprese nazionali e transnazionali.
Da qui la Nuova Alleanza che ai Governi locali africani chiede di mettere a disposizione terre e un contesto legislativo favorevole alle imprese, ai Governi del Nord di mettere qualche soldo per la costruzione di qualche infrastruttura a titolo di cooperazione, alle imprese private di metterci gli investimenti e guadagnarci. Le imprese che hanno aderito al progetto sono un centinaio, per investimenti complessivi dichiarati attorno ai 5 miliardi di dollari, in sei Paesi: Ghana, Etiopia, Tanzania, Costa d’Avorio, Burkina Faso e Mozambico.
Il progetto non prevede la trasparenza fra i propri princìpi, ma dalle informazioni trapelate si apprende che due multinazionali coprono da sole due quinti dell’importo: Syngenta, azienda di sementi, filiale svizzera della cinese ChemChina, con 500 milioni di investimenti e Yara, multinazionale di fertilizzanti che batte bandiera norvegese, con 1,5 miliardi di investimenti. Neanche Cargill, multinazionale agro-commerciale americana, se la cava affatto male con 525 milioni di investimenti, per poi trovare più giù in graduatoria altre famose multinazionali come Mars, Monsanto, Louis Dreyfus.
Dal che si capisce che il risultato finale della Nuova Alleanza sarà un rafforzamento dei prodotti agricoli destinati all’esportazione (cacao, caffè, olio di palma) e un ulteriore spinta ai contadini africani affinché si gettino definitivamente fra le braccia dell’agricoltura industriale basata sulle sementi selezionate, fertilizzanti e pesticidi. Insomma tutto il contrario dell’idea di sovranità alimentare che ha come obiettivo la produzione per i bisogni locali e come strategia produttiva l’autoproduzione delle sementi e l’agricoltura biologica, due modi per rispettare la natura ed impedire che i contadini finiscano nella trappola dei debiti.
Già nel 2016 il Parlamento di Strasburgo aveva chiesto alla Ue di togliere il proprio sostegno al Nasan. In particolare richiamava «il pericolo di replicare in Africa lo stesso modello di "rivoluzione verde" attuata in Asia negli anni 60, senza tenere conto dei suoi impatti sociali e ambientali». Il governo francese, che partecipava alla Nuova Alleanza come partner del Burkina Faso, non ha dato una motivazione ufficiale del suo ritiro dal Nasan, ma un funzionario governativo ha dichiarato a Le Monde che «l’approccio del progetto è troppo ideologico ed esiste un vero rischio di accaparramento di terre a detrimento dei piccoli contadini».
I quali confermano: «A noi che produciamo per il mercato locale, la Nuova Alleanza non elargisce nessun vantaggio fiscale, mentre alle imprese che producono per l’esportazione garantisce terre e ogni altro genere di facilitazione. Dov’è l’interesse per la sicurezza alimentare del nostro Paese? I piccoli contadini hanno mostrato di saper produrre, pur ricorrendo ai metodi tradizionali; assicurano il 40% del consumo interno di riso. Ciò nonostante il Nasan si prefigge di modernizzare 30mila ettari di terreni e di assegnarne 5mila ai villaggi. Il che significa far passare da un’agricoltura di tipo pluviale a un’agricoltura basata sull’irrigazione artificiale.
Ma la pioggia la dà la natura gratuitamente, l’acqua del sottosuolo, invece, sarà disponibile solo per chi ha soldi perché richiede macchinari ed energia. In conclusione i contadini più deboli si impoveriranno ulteriormente e la nostra sicurezza alimentare sarà sempre più a rischio». Preoccupazioni fatte proprie dal Governo francese considerato che l’uscita dal Nasan è stata giustificata dal fatto che «la Francia preferisce dare il proprio sostegno all’agricoltura familiare attraverso un’intensificazione dell’agro-ecologia». Parole su cui meditare, specie oggi che si parla tanto di"aiutarli a casa loro".
cittànuova.it
Siamo nel 1992 quando Norberto Bobbio, filosofo e giurista, scriveva in un “messaggio” per lungo tempo inedito: «In tutti questi anni si sono succedute sempre nuove Carte dei diritti, ma la maggior parte di questi diritti sono rimasti, letteralmente, sulla carta. A cominciare dal diritto alla pace che è strettamente legato ai due diritti fondamentali dell’uomo, il diritto alla vita e il diritto alla libertà». Così, a distanza di anni, sembra riecheggiare allora come oggi, nella sua perenne attualità, quanto scritto dai Padri costituenti nella nostra Carta costituzionale all’art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
È la ferma volontà di esprimere, anche nei confronti del mondo internazionale, la condanna e la rinuncia alla guerra, in forza di quella dichiarazione contenuta tra i Principi fondamentali della nostra Costituzione.
Guardando già allora a un futuro d’unità fra le Nazioni, anche oltre i confini dell’Europa, non si taceva dai Padri costituenti l’obiettivo di «aprire tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli».
Le leggi non mancano
Sono le tante vittime di guerre taciute o dimenticate, ma alle quali il Comitato Riconversione RWM ha inteso dar voce in nome della pace e dell’umana dignità, nonostante il parere contrario di Confindustria e delle principali sigle sindacali a difesa e sostegno della piena legittimità e del diritto all’attività produttiva della fabbrica di armi in attesa di ulteriore espansione.
A livello internazionale l’Italia, fra l’altro, ha ratificato il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Arms Trade Treaty – ATT), adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 2 aprile 2013 ed entrato in vigore il 24.12.2014. Ricordiamo che, in particolare l’art. 7, comma 7 prevede che lo Stato Parte esportatore, anche dopo la concessione dell’autorizzazione, possa venire a conoscenza di nuove informazioni rilevanti; in tal caso, lo stesso Stato sarà «incoraggiato a riesaminare» l’autorizzazione accordata.
Basta, dunque, per legittimare il commercio e l’esportazione di armamenti dall’Italia l’iniziale autorizzazione, pur prevista dalla legge 185 del ’90, se è vero che il nostro ordinamento affida proprio alle istituzioni la verifica circa il permanere delle condizioni iniziali?
Quell’autorizzazione non costituisce evidentemente un mero atto formale, ma chiede una verifica sostanziale, affinché l’attività prima consentita non incorra successivamente nei divieti espressamente previsti, che attendono il rispetto da parte di tutti, istituzioni comprese.
Le Risoluzioni europee
Non manca neanche la voce della stessa Unione Europea. Con la Risoluzione del 25 febbraio 2016sulla situazione umanitaria nello Yemen (2016/2515(RSP)) il Parlamento europeo ha chiesto espressamente «l’embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», sia per le gravi segnalazioni di violazione del diritto umanitario, sia per la conseguente considerazione «del fatto che il continuo rilascio di licenze di vendita di armi all’Arabia Saudita violerebbe […] la posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008». Analogamente, la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 15 giugno 2017(2017/2727(RSP)).
Ma ha a che fare tutto ciò con il lavoro, diritto/dovere previsto dalla Costituzione tra i principi fondamentali? Lo è anche quel lavoro produttivo di armi, oggi rivendicato e difeso a favore di una terra certo povera, ma non di bellezze naturali, come l’Iglesiente?
Eppure oggi sempre più spesso accade di sperimentare una drammatica alternativa: tra lavoro e salute (v. caso Ilva di Taranto), o lavoro e rispetto di principi/diritti altrettanto fondanti della convivenza, quali quelli enunciati nell’art. 11 Costituzione.
Gli illegalismi legali e le radici del diritto
Dobbiamo allora essere consapevoli che per operare la riconversione di una attività produttiva occorre ancor prima togliere terreno alle armi, posto che la prima cornice di ogni attività lavorativa è la garanzia di legalità. Quest’ultima deve farsi sostanziale fino ad affermarsi come cultura della legalità per cittadini e istituzioni, e superare il rischio di ricadere in quelli che sono stati definiti “illegalismi legali”.
Ma anche la legalità, nell’ effetto ultimo di ordinare le relazioni sociali, comporta che il suo contenuto non si limiti al “non nuocere”, “non offendere”, “rispettare le norme”, ma arrivi a “guardare al bene dell’altro come al proprio”.
Se i profitti si possono sommare perché non hanno volto e non esprimono identità né storia, nell’obiettivo del bene comune non si può sacrificare il bene di qualcuno, magari distante e sconosciuto, per migliorare quello di qualcun altro, perché quel qualcuno è pur sempre una persona umana.
Una scelta che chiede il coraggio di fermarsi, perché, è il messaggio di Norberto Bobbio, «dobbiamo essere sempre più convinti che il rispetto dei diritti dell’uomo e la conservazione della pace cominciano da ciascuno di noi, singoli uomini e singole donne inermi di tutto il mondo, all’interno di ciascuno di noi, dei nostri pensieri, e delle azioni, anche se piccole, che riusciamo a far seguire con coerenza ai nostri pensieri».
È questo forse il coraggio degli ultimi e il richiamo ai potenti.
La Stampa, 12 febbraio 2018.Esodo, un libro che non si può non leggere. (i.b.)
Stiamo in guardia! Verità nuove si annunciano in questa parte del mondo corrosa dalla miseria con la lentezza di una malattia. Non facciamo i gradassi con le nostre armate luccicanti e il drenaggio dei migranti «a casa loro». Arrivo in Niger, Paese chiave del passaggio della Migrazione, per raccontare il luogo dove l’Italia sta per mandare 470 soldati. Ho provato, semplicemente, a rovesciare il punto di vista sulla «tragedia statistica» dell’Africa e guardare dal punto di vista degli africani. Op! tutto quello che da noi appare certo, il flusso che si ferma, i governi locali che, era ora! collaborano, il denaro europeo che assicura rimpatri «dignitosi», spariscono. I soldati americani, francesi, italiani così indispensabili alla lotta ai lanzichenecchi islamisti diventano invasori che si ritagliano, arroganti, coloniali fette di sovranità. Tutto è il contrario, dunque, e diventa una grande finzione.
Intanto specchiandosi nella tragedia della migrazione i giovani del Sahel hanno preso coscienza delle loro ingiustizie e non le accettano più. I migranti come miccia, come lievito di rivoluzione, i ragazzi, quando scenderanno in piazza, avranno con sé ogni diritto. Nulla del nostro blaterare sulla sicurezza e le necessità della geopolitica li interesserà, non leggeranno i nostri articoli, non ascolteranno i nostri discorsi di bottegai dell’umanesimo. Le nostre idee, ahimè!, le saluteranno sputandoci sopra.
Discussione di fantasmi
Il dibattito infervorato su come fermare i migranti e rispedirli a casa, visto da questa parte, è una discussione di fantasmi, le ambizioni di bloccare la migrazione, drenandola nel Sahel, sono comiche. Tra qualche mese, forse, saremo qui a raccontare folle in tumulto che danno l’assalto ai Palazzi di cleptocrazie nauseabonde su cui abbiamo puntato carte truccate. Ricordate il 2011? I ragazzi di Tunisi, di Tripoli, di Hama? Una Primavera del Sahel che ci lascerà, un’altra volta, senza parole, umiliati dalla nostra cecità. Gli uomini, i giovani che vivono qui non sono logori, sono sfiniti. Prima di questo viaggio pensavo che il problema fosse che abbiamo cessato di dare. Ai poveri, ai migranti. Torno convinto che non sappiamo più dare. Ed è peggio.
Niamey, la capitale: una distesa di tuguri vivi e decomposti, folle di sciancati, di senzatutto vagabondano come polvere che non vale nulla. Ti immergi dentro, sempre, anche dopo anni di viaggi qui, con occidentale sgomento. In verticale, come una bestemmia, si alzano i palazzi lussuosi di innumerevoli banche e delle sedi del governo. I binari di una ferrovia nuova di zecca, costata miliardi di franchi Cfa, fanno da spartitraffico. Nel viaggio di prova il treno si è rovesciato. Hanno riprovato: un altro disastro. L’hanno costruita male. Mi sussurrano un nome potente in Africa e non solo: «Bolloré», come se fosse una formula di cattivo augurio.
A un semaforo un mendicante cieco guidato da un ragazzo, pacato, mi incalza con i suoi occhi opachi: dammi qualcosa «Non ho monete locali, solo centesimi di euro: valgono troppo poco nessuna banca te li cambierebbe». «Dammeli, dammeli, c’è Cobrà che li cambia». Si perché per Cobrà , il serpente, nulla è troppo piccolo. Cambia, guadagnandoci la metà, a medicanti e facchini degli alberghi i centesimi occidentali, fa mucchio e poi va in banca dove lo accolgono come un finanziere. La infinita ingegnosità della miseria. La piazza delle manifestazioni: è un «tabà», un luogo in cui i giovani si incontrano, tessono sogni, discutono. Un ragazzo mi mostra i grandi ritratti dipinti sui muri dei presidenti dei cinque Paesi del Sahel. Sono riuniti a Niamey per «rendere sicura la regione». Sembrano già identikit di ricercati su cui si sfogherà la rabbia della gente. Un ragazzo mi dice: la sicurezza è un bel concetto. Importante. ma se non hai da mangiare che ti importa della sicurezza?».
I 43 ministri
Il governo, che non ha più soldi nemmeno per gli stipendi, ha imposto tasse ai più poveri del mondo: lo Stato è povero, pagate voi! Ci sono quarantatré ministri in Niger. Ognuno di loro ripaga armate di parenti e portaborse con incarichi, missioni, commende. Attingendo ai fondi dello Stato, ai contratti con l’estero, ai soldi dati per fermare i migranti. Non lo sapete? Suvvia.
Prestiamo attenzione ai rumori sempre più forti. A Niamey si scende in piazza da settimane, il potere risponde con arresti di leader e giornalisti che raccontano. In Ciad ci sono già i primi morti. Ho incontrato gente diversa, non è più rassegnata, non ha più quella apparenza di colpevoli che hanno le vittime. I presidenti-padroni, i nostri soci, indifferenti, vengono in Europa a raccogliere sorrisi riconoscenti. È gente che non ha nulla da proporre ai propri popoli, vuol solo rubare, il male eterno dell’Africa che traffica con noi, complici consapevoli.
Intanto su, ad Agadez e nelle città del deserto, migliaia di migranti sopravvivono, attendono che torni il tempo buono del viaggio, i passeur lucidano i veicoli e predispongono nuove piste sicure da percorrere con i gps, lanciati a cento all’ora verso la Libia. Aggireranno i controlli: di gendarmi che hanno bisogno delle loro mance per sostituire stipendi da fame e in continuo ritardo.
È chiaro che noi occidentali siamo qui a combattere per i nostri soli interessi. Questa parte del mondo perde le proprie povere viscere. Bisognerebbe ricucire, e presto: non c’è un secondo da perdere. Costoro sono condannati. Ma noi spediamo inutili soldati e paghiamo i grandi ladri vestiti di eleganti boubou.
Saliamo ad Agadez, per l’ennesima volta: con fatica, senza speranze, sapendo che Agadez è una ricapitolazione di quanto accadrà ed è accaduto.
Ah, il vecchio aereo dei palestinesi! È sempre lì, il vecchio Fokker ad elica con la sua scomodità e la sua austerità, simbolo appropriato della preparazione alle dure gioie del raccontare luoghi come questi. Tutto vi assume una sobrietà accogliente mentre sorvola il Sahel. Il grande bricco con cui servono il tè, i racconti dell’equipaggio: vengono da Gaza e da Hebron.
Una volta Agadez mi piaceva: le fragili, eterne architetture di sabbia che annunciano il deserto, c’era un calore di partenza, di viaggio e di orizzonte libero. Adesso ci vedo solo una città di miseria e di agonia; è rimasta la luce che regna indisturbata. Il resto è solo povertà, stratificata, dura come una crosta che copre uomini e cose. Il miracolo degli alberi è macchiato da sudice sagome che ondeggiano al vento. Credevo fossero grossi corvi appollaiati. Invece sono lembi di sacchetti di plastica neri.
Un uomo con una ascia preistorica fa a pezzi un tronco abbattuto: altri secoli di vita miracolosa che andranno in cenere. Tra gonfi mucchi di immondizia e rigagnoli puzzolenti tre vecchi dalla barba bianca: immobili. Nulla si muove. Nulla è urgente. Tutto è crudele.
Agadez viveva di turismo: è finito nel 2006 con la rivolta dei tuareg. Poi è venuto l’oro, scoperto nelle montagne intorno. Il governo ha vietato ai cercatori privati di avvicinarsi e vende le concessioni alle grandi compagnie straniere. Le imprese dell’uranio hanno appena licenziato 700 persone. Erano rimasti i migranti, l’oro nero come li chiamavano: trecentomila almeno nel 2016. A luglio, dopo gli accordi con l’Europa, è diventata un’attività illegale e si è pressoché fermata. Si calcola che Agadez abbia perso 65 milioni di euro. Ecco. Non è rimasto niente. Attorno alla città, sulle montagne, si moltiplicano i gruppi armati. Non sono jihadisti, ma banditi che assalgono viaggiatori e camion. Diventeranno, al momento giusto, reclute della guerra santa.
Nascosto nel turbante
Le delegazioni europee che vengono qui, giulive, per controllare come funziona bene il controllo, dovrebbero farsi accompagnare nel quartiere di Obitara. Dove ci sono i «ghetti», li chiamano così. Durante la stagione delle piogge diventa palude, non c’è la corrente elettrica e nemmeno l’acqua. In grandi cortili circondati da muri di fango secco tengono i migranti. Scoprirebbero che ce ne sono almeno quaranta di questi luoghi infernali, e zeppi di gente. I passeur si fanno dare i soldi dalle famiglie, le ragazze quasi tutte nigeriane si prostituiscono per pagare.
Ci vado di notte, mi nascondo dietro un turbante da tuareg. Una discesa tra le ombre da cui spiritualmente non si torna più indietro come chi scendeva nell’Ade. Attraverso la città senza illuminazione in moto. Piccoli fuochi accendono il buio, bruciano le immondizie. Le luci dei telefonini illuminano i volti di ragazzi riuniti, a mazzi, agli angoli delle strade. Dopo il tramonto Agadez diventa un villaggio, solo le voci dei cani nella notte chiara. Nei cortili dei ghetti mi muovo inciampando. Puzza di escrementi, di cibo guasto, di umori umani. Aleggia dalle stanze un rumore indefinito fatto di rauchi ronfi, di gemiti oscuri, del raschiare di latta, quasi un battere arterioso. Entro e cala il silenzio. Volti duri, assonnati, reclinati cui il buio conferisce un’aria spettrale. Tacciono enigmaticamente. Ho paura di vedere questi visi serrarsi, facendosi lisci come muri. Questa è la gente che abbiamo fatto sparire ma senza annullarla, come il prestigiatore con una carta del mazzo: è lì, attende, ci inchioda alle nostre responsabilità.
Sidi il passeur ha deciso: «Giovedì ricomincio, vado a Dirkou, a nord ci sono migliaia di migranti in attesa, riallaccio i miei contatti, in Libia, in Senegal, in Gambia. Non posso più aspettare. Si riparte». Aveva smesso quando hanno arrestato i primi passeur e sequestrato i veicoli. Mi fa vedere il formulario con cui aveva chiesto i fondi di riconversione promessi dalla Unione europea: 2000 euro per avviare un commercio, un’attività agricola, allevare bestiame. Lui ne guadagnava con i migranti settemila la settimana. Alla voce professione è scritto: passeur di migranti. Hanno fatto la domanda in mille. Non è arrivato finora un centesimo. E i soldi? Si sono fermati a Niamey. Forse sono serviti a pagare gli stipendi arretrati ai funzionari. «Anche i poliziotti hanno bisogno di soldi, li pago perché mi avvertano quando è prevista una retata, così nascondo i miei migranti e tutto fila liscio. Ma con i viaggi il denaro tornerà a girare. I soldati francesi a Madamà, il posto di frontiera sul confine libico? Ci sono passato decine di volte, avevo i pick up carichi, mi guardavano e non dicevano niente… Forse eran lì per altro. Adesso ci vanno gli italiani? Tutto è cambiato? Fratello, voi buttate via soldi, dammi retta. Chi ci passa più a Madamà? C’è una pista magnifica tra due montagne che aggira la città, i libici aspettano lì adesso. I prezzi con tutto questo bordello sono alle stelle, si guadagnerà bene».
Ieri notte ad Agadez c’è stata una retata, hanno catturato molti migranti. Il guineiano è contento perché adesso avrà molto lavoro, guadagnerà bene. Era un migrante. Ha due volte attraversato l’oceano in piroga dalla Mauritania alla Spagna. Un sopravvissuto. Adesso lavora all’Oim, l’organizzazione internazionale per le migrazioni che ha un campo ad Agadez. Non nel senso che ne è un dipendente: nel senso che la utilizza. Compra dai migranti in attesa di rimpatrio molte cose. «Sapete, hanno con sé cose interessanti da comprare a poco prezzo, incredibile dopo il viaggio che hanno fatto fino qui: orologi telefonini. Guarda questi sandali, belli no? Cuoio magnifico, li ho comprati da un migrante. Hanno bisogno di soldi per ritentare, hanno fatto debiti per partire che dovrebbero pagare se tornano a casa. Non lo sapete? Possono farlo solo se arrivano in Europa, da voi, a costo di crepare. Io li faccio uscire dal campo, diciamo che dentro ho dei contatti, le famiglie mi mandano i soldi. Escono, si nascondono, possono ritentare».
Riparto. L’aereo palestinese è in ritardo, cinque ore. Un soldato nigerino, l’elmetto in testa mitra scarponi da deserto, tutto nuovo, corre a perdifiato verso la pista lanciando urla terribili. Un gruppo di caprette ha adocchiato una lisca di erba vicino alla pista. Ridiventato pastore il soldato le fa fuggire. Sta atterrando un nero, lucente trasporto americano.
Americani in assetto da guerra si dispongono a raggiera, i fucili puntati in tutte le direzioni. Un grande bulldozer infila i denti di ferro nella pancia dell’aereo ed estrae una piccola cassa di legno. Caricano la cassa su un camion aperto che potrebbe portare un carro armato. Si forma un convoglio di autoblinde che sfuma nella calura del deserto verso la base. L’aereo che non ha nemmeno spento i motori riparte nella luce… lente, immense nubi di polvere scivolano sulla città.
Tratto da Informazione Corretta che l'ha a sua volta ripreso dalla Stampa del 12/02/2018, pag.1-3.
Nigrizia, 9 febbratio 2018. Un chiaro messaggio di 20 associazioni del mondo cattolico ai partiti che si presentano alle elezioni del 4 marzo. Non sarà difficile rispondere: difficile sarà mantenere le promesse
Gli enti cattolici impegnati a vario titolo nell’ambito delle migrazioni sentono la necessità di aprire uno spazio di confronto in cui dare voce alle esigenze di convivenza civile e di giustizia sociale che individuano come prioritarie, per il bene di tanti uomini e donne di cui si impegnano a promuovere i diritti e la dignità.
Nell’orizzonte di un welfare che metta sempre più al centro una visione di comunità civile inclusiva e solidale, le migrazioni pongono questioni cruciali e non rimandabili e che riguardano tutti indipendentemente dalla provenienza.
I diversi schieramenti politici che si presentano al prossimo appuntamento elettorale sono chiamati ad esprimersi su come intendono affrontare tali questioni. La crisi dei migranti che attraversa oggi l’Europa mette chiaramente in luce una crisi profonda dei valori comuni su cui l’Unione si dice fondata.
La questione delle migrazioni sembra essere diventata un banco di prova importante delle politiche europee e nazionali. In tale contesto il fenomeno migratorio è cruciale per il futuro dell’Italia e occupa spazi sempre più rilevanti all’interno del dibattito pubblico e, lo sarà ancor di più in vista delle prossime scadenze elettorali. Per questo, riteniamo fondamentale creare occasioni di confronto schiette e costruttive, grazie alle quali gli schieramenti politici che si candidano a governare il Paese possano prendere impegni chiari e precisi nei confronti dell’opinione pubblica.
In quest’ottica, il presupposto è quello di uscire dalla logica emergenziale per ripensare il fenomeno migratorio con progettualità. In questo quadro abbiamo comunque la certezza che nel Paese, quando si parla di immigrazione, esista un ampio bisogno di riflessione, azione e cambiamento che anima tanti cittadini. La campagna Ero straniero - L’umanità che fa bene, lanciata in aprile per cambiare la legge Bossi-Fini e conclusasi a ottobre con oltre 90 mila firme raccolte, lo ha confermato: esiste una forte domanda di informazione, di senso e di risposte concrete. A formularla è un numero crescente di cittadini che ha capito quanto sia cruciale per tutti affrontare il tema in maniera diversa.
Sulla base delle nostre esperienze sul campo, ispirandoci ai costanti appelli di Papa Francesco ad Accogliere, Proteggere, Promuovere, Integrare i migranti e i rifugiati, e richiamando i 20 punti proposti dal Dicastero per la promozione dello sviluppo umano integrale del Vaticano per la stesura del Global Compact - l’accordo sui migranti e sui rifugiati che verrà adottato dalle Nazioni Unite nel 2018 -, abbiamo elaborato sette proposte per altrettanti ambiti nei quali è cruciale intervenire al più presto. Sono sette sfide che, citando proprio questo importante documento, vanno affrontate non solo per contribuire alla “protezione della dignità, dei diritti, e della libertà di tutti i soggetti di mobilità umana”, ma anche per “costruire una casa comune, inclusiva e sostenibile per tutti”.
Agenda sulle migrazioni, 7 punti specifici:
1.Riforma della legge sulla cittadinanzaDa troppi anni il nostro Paese non adegua la sua legislazione sull’acquisizione della cittadinanza al mutato contesto sociale e troppi cittadini di fatto non sono riconosciuti tali dall’ordinamento. Varare un provvedimento che sani queste contraddizioni non è più rimandabile.
2. Nuove modalità di ingresso in ItaliaServe un nuovo quadro giuridico per accogliere quanti arrivano nel nostro Paese senza costringerli a chiedere asilo. A fronte di flussi migratori che gli esperti definiscono sempre più come misti, creare una divisione politica tra richiedenti asilo e “migranti economici” è difficile, anacronistico e inefficace. Bisogna andare oltre. Chiediamo una rapida riattivazione dei canali ordinari di ingresso che ormai da anni sono pressoché completamente chiusi, con l’inevitabile conseguenza di favorire gli ingressi e la permanenza irregolari. Per entrare in Italia secondo la legge servono modalità più flessibili e decisamente più efficienti, a cominciare da un immediato ritorno del decreto flussi, per arrivare fino a proposte più ampie e organiche di modifica del testo unico sull’immigrazione: permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione, attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari e reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta).
3. Regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”Gli stranieri irregolari, seguendo i modelli di Spagna e Germania, dovrebbero avere la possibilità di essere regolarizzati su base individuale, qualora dimostrino di avere un lavoro, di avere legami familiari comprovati oppure di non avere più relazioni col paese d’origine. Si tratterebbe di un permesso di soggiorno per comprovata integrazione, rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso attesa occupazione”. Infine, il permesso di soggiorno per richiesta asilo si potrebbe trasformare in permesso di soggiorno per comprovata integrazione anche nel caso del richiedente asilo diniegato in via definitiva che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.
4.Abrogazione del reato di clandestinità
Il reato di immigrazione clandestina, che è ingiusto, inefficace e controproducente, è ancora in vigore: va cancellato al più presto, abrogando l’articolo 10-bis del decreto legislativo 26 luglio 1998, n. 286.
5. Ampliamento della rete SPRARLo squilibrio a favore dei Cas, i Centri di Accoglienza Straordinaria, è ancora troppo forte e a risentirne è la qualità dell’accoglienza. L’obiettivo deve essere riunificare nello SPRAR l’intero sistema, che deve tornare sotto un effettivo controllo pubblico, che deve prevedere l’inserimento dell’accoglienza tra le ordinarie funzioni amministrative degli enti locali e che deve aumentare in maniera sostanziale e rapida il numero di posti totali.
6. Valorizzazione e diffusione delle buone praticheSiamo ormai da tempo sommersi da casi di cattiva accoglienza. Esistono, sono purtroppo numerosi e non bisogna mai smettere di denunciarli con forza e rapidità, senza il minimo timore. C’è però anche un’altra faccia dell’accoglienza dei migranti, meno esposta e ben più positiva. Va raccontata il più possibile, proprio attraverso un osservatorio capace di individuare e diffondere le buone pratiche, affinché vengano il più possibile replicate.
7. Effettiva partecipazione alla vita democraticaSi prevede l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.
Acli, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo (ASCS Onlus),Associazione Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica, Centro Astalli, Centro Missionario Francescano Onlus (Ordine dei Frati Minori Conventuali), CNCA, Missionari Comboniani, Comunità Sant'Egidio, Conferenza Istituti Missionari Italiani, Federazione Salesiani per il Sociale, Fondazione Casa della carità, Fondazione Somaschi, GiOC - Gioventù Operaia Cristiana, Istituto Sturzo, Movimento dei Focolari Italia, Paxchristi, Vides Italia.
Il testo è ripreso dalla rivista online Nigrizia, ed è raggiungibile su questa pagina
Avvenire,
«Sarebbero solo tre i sopravvissuti, fa sapere l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dell'ennesima tragedia del mare che si è consumata venerdì notte davanti alle coste della Libia»
Sarebbero almeno 90 i migranti morti nella notte tra giovedì e venerdì al largo delle coste della Libia. A dare la notizia dell'ennesimo naufragio, l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni. La barca su cui i migranti stavano viaggiando, in legno, si è ribaltata. Solo tre i sopravvissuti. A bordo, riferisce l'agenzia delle Nazioni unite, ci sarebbero stati soprattutto cittadini pachistani.
Dieci corpi senza vita, conferma la portavoce dell'agenzia, Olivia Headon, sono stati ritrovati sulla spiaggia. Si tratta di due libici e otto cittadini pachistani. Dei tre sopravvissuti, due hanno nuotato fino a raggiungere la spiaggia, dove sono stati trovati stremati e sotto-choc. il terzo è stato salvato da un peschereccio che si trovava nell'area del naufragio.
"Secondo i dati in nostro possesso - aggiunge Olivia Headon - solo 29 libici sono stati salvati o intercettati in mare nel corso del 2017. Ma stimiamo che la cifra reale sia molto più alta". Sempre nello stesso anno, sono stati in tutto 3.138 i pachistani che hanno raggiunto le coste dell'Italia, confermandosi come 13esima nazionalità nella lista generale, per cittadinanza, dei migranti salvati e sbarcati. Quest'anno però, la geografia degli arrivi sta cambiando. Il Pakistan rappresenta infatti già la terza nazionalità per numero di arrivi. Dal primo gennaio, sono infatti già 240 i cittadini pachistani sbarcati in Italia. Nello stesso periodo, di un anno fa, erano solo 9.
Con quest'ultima tragedia del mare, l'agenzia delle nazioni unite aggiorna anche il contatore degli arrivi, in questo primo mese dell'anno. Sono complessivamente 6.624 i migranti e rifugiati entrati in Europa via mare fino al 28 gennaio. L'Italia rappresenta circa il 64% del totale degli arrivi, seguita da Spagna (19%) e Grecia (16%).
"Ogni vita persa in mare è una vita di troppo persa" ha detto una portavoce della Commissione europea, Catherine Ray, commentando il naufragio al largo della Libia. "Abbiamo visto i diversi rapporti e il comunicato dell'Organizzazione Internazionale delle migrazioni", ha aggiunto la portavoce. "Ogni vita persa in mare è una vita di troppo persa. È per questa ragione che continuiamo le nostre azioni lungo tutta la rotta del Mediterraneo centrale per fare delle operazioni di salvataggio e ricerca in mare e lottare i trafficanti e le reti che mettono questa gente in pericolo", ha detto Ray. "Continueremo le nostre azioni laddove le nostre imbarcazioni possono operare", ha concluso la portavoce.
Non sono i trafficanti i principali responsabili dello sterminio. Essi sono solo l'ultimo anello della catena criminale i cui primi anelli sono costituiti dal susseguirsi dei colonialismi che hanno consentito al Primo mondo di costruire il proprio benessere a spese degli altri, condannati agli inferni da cui tentano di fuggire
milex.org
Il Rapporto MIL€X 2018 - presentato oggi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati alla presenza di Daniel Högsta, coordinatore della campagna ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) insignita del Premio Nobel per la Pace 2017 - mostra un’ulteriore incremento della spesa militare italiana: 25 miliardi di euro nel 2018 (1,4% del PIL), un aumento del 4% rispetto al 2017 che rafforza la tendenza di crescita avviata dal governo Renzi (+8,6 % rispetto al 2015) e che riprende la dinamica incrementale delle ultime tre legislature (+25,8% dal 2006) precedente la crisi del 2008.
Cresce nel 2018 il bilancio del Ministero della Difesa (21 miliardi, +3,4% in un anno, +8,2% dal 2015) e i contributi del Ministero dello Sviluppo Economico all’acquisto di nuovi armamenti (3,5 miliardi di cui 427 milioni di costo mutui, +5% in un anno, +30% nell’ultima legislatura, +115% nelle ultime tre legislature) per i quali nel 2018 verranno spesi 5,7 miliardi (+7% nell’ultimo anno e +88% nelle ultime tre legislature). Tra i programmi di riarmo nazionale in corso (tutti elencati nel Rapporto MIL€X) i più ingenti sono le nuove navi da guerra della Marina (tra cui la nuova portaerei Thaon di Revel), i nuovi carri armati ed elicotteri da attacco dell’Esercito, e i nuovi aerei da guerra Typhoon e F-35.
Agli F-35 il Rapporto MIL€X dedica un approfondimento che analizza costi effettivi (50 miliardi con i costi operativi), reali ricadute industriali ed occupazionali, difetti strutturali (che rischiano di mettere fuori servizio gli F-35 finora acquistati dall’Italia per 150 milioni l’uno) e funzione strategica di questo sistema d’arma prettamente offensivo e intrinsecamente contrario all’articolo 11 della Costituzione Italiana e al Trattato di non Proliferazione Nucleare.
Un altro approfondimento del Rapporto riguarda proprio i costi della “servitù nucleare” legata alle spese di stoccaggio e sorveglianza delle testate atomiche tattiche americane B-61 nelle basi italiane (23 milioni solo per l’aggiornamento delle apparecchiature di sorveglianza esterna e dei caveau contenti le venti B-61 all’interno degli undici hangar nucleari della base bresciana) e alle spese di stazionamento del personale militare USAaddetto e di mantenimento in prontezza di aerei e piloti italiani dedicati al “nuclear strike” (lo stesso acquisto del bombardiere nucleare F-35 da parte italiana, secondo il Pentagono, rappresenta “un fondamentale contributo al missione nucleare” americana).
Il commento di Daniel Högsta: “Questi dati dimostrano come la presenza di armi nucleari abbia impatto negativo per i paesi che le ospitano non solo dal punto di vista politico, ma anche della spesa pubblica. L’opinione pubblica dovrebbe rendersene conto! Sono invece già positivi gli impatti del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato all’ONU a luglio 2017: diversi enti finanziari internazionali hanno iniziato a disinvestire dalla produzione di armi nucleari. Anche gli Stati dovrebbero fare lo stesso”.
Tra gli ulteriori focus del Rapporto MIL€X 2018: le spese italiane di supporto alle 59 basi USA in Italia (520 milioni l’anno) e di contribuzione ai bilanci NATO (192 milioni l’anno), i costi nascosti (Mission Need Urgent Requirements) delle “infinite” missioni militari all’estero (con approfondimenti sui costi di 16 anni di presenza in Afghanistan e 14 anni in Iraq), il costo della base militare italiana a Gibuti intitolata all’eroe di guerra fascista Comandante Diavolo (43 milioni l’anno), il “tesoretto” armato da 13 miliardi nascosto nel Fondo Investimenti voluto dal Governo Renzi (destinato anche ai nuovi droni armati della Piaggio Aerospace*), lo “scivolo d’oro” dimenticato per gli alti ufficiali (condannato dalla Corte dei Conti) e l’onerosa situazione dei 200 cappellani militari ancora a carico dello Stato (15 milioni l’anno tra stipendi e pensioni).
NB per un mero errore materiale in una prima stesura di questo articolo (fino alle 17.30 di giovedì 1 febbraio) si faceva riferimento alla “Piaggio” come azienda produttrice di droni, mentre è invece “Piaggio Aerospace” ad essere coinvolta in tale produzione e a ricevere finanziamenti pubblici a riguardo (come correttamente evidenziato nel testo del Rapporto Mil€x 2018). Ce ne scusiamo con gli interessati.
Gerusalemme, 1 febbraio 2018, Nena News – Critiche internazionali e condanne dei centri per i diritti umani non fermano il governo Netanyahu deciso ad espellere entro la fine di marzo circa 35mila eritrei e sudanesi richiedenti asilo, entrati negli anni passati in Israele. All’inizio di marzo dovrebbero entrare in azione, così riferiscono i media locali, 70 “ispettori speciali dell’immigrazione”, civili pagati dall’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione con 30mila shekel (circa 8mila euro) per due mesi di lavoro e incaricati di individuare gli stranieri illegali e chi li aiuta. In sostanza dovranno dare la caccia agli africani clandestini a Tel Aviv e in altre città e provare a scoprire se qualche cittadino israeliano li aiuta o offre loro un’occupazione.
Altri 40 ispettori, sempre secondo la stampa, saranno assunti con l’incarico di accertare la «sincerità» degli africani. «Stiamo cercando di saperne su questa assurda offerta di lavoro ma le autorità non si sbottonano. Tanti provvedimenti sono decisi in segreto ed emergono solo quando li vediamo applicati sul terreno», ci diceva ieri T. A., un’attivista dei diritti dei richiedenti asilo.
L’assunzione degli ispettori/cacciatori di africani illegali in Israele arriva poche settimane dopo l’annuncio della politica scelta dal governo Netanyahu per costringere eritrei e sudanesi a lasciare il Paese. Gli africani hanno la possibilità di partire volontariamente e di far ritorno nel loro Paese d’origine oppure di andare in Ruanda (e, pare, anche in Uganda) con in tasca 3500 dollari, in caso contrario saranno arrestati e incarcerati a tempo indeterminato.Gran parte degli “alieni”, così sono chiamati in Israele, sono scappati da Paesi in guerra e per sottrarsi ad abusi, torture e violenze. Invece per i dirigenti politici israeliani, con in testa il primo ministro, sono solo degli “infiltrati” alla ricerca di opportunità economiche e costituiscono una minaccia per il tessuto sociale e l’identità ebraica di Israele. Dal 2009 solo 10 eritrei e un sudanese sono stati riconosciuti come rifugiati dalle autorità israeliane. Ad altri 200 sudanesi del Darfur è stato riconosciuto lo status umanitario.
A nulla è valso l’appello lanciato a gennaio dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) affinché Israele ponga fine alle sue politiche di ricollocamento forzato di eritrei e sudanesi. L’agenzia dell’Onu aveva anche denunciato che almeno 80 persone “ricollocate” in Africa hanno poi tentato di raggiungere la Libia subendo lungo il tragitto abusi, torture ed estorsioni e hanno rischiato la vita attraversando il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Coloro che erano partiti da Israele, ha riferito ancora l’Unhcr, una volta giunti a destinazione hanno trovato una situazione ben diversa da quella che si aspettavano, con un’assistenza che raramente è andata oltre un posto dove dormire per la prima notte. Alcuni hanno riferito che diverse persone che viaggiavano con loro sono morte nel tragitto verso la Libia, dove in molti sono stati vittima di estorsioni, detenzione, abusi e violenze.
Ong, associazioni e attivisti israeliani stanno tentando di scuotere l’opinione pubblica largamente schierata con la politica del governo. Ma a ben poco è servito l’appello contro le espulsioni degli scrittori Amos Oz, David Grossman e A.B. Yehoshua, di esponenti religiosi e di un gruppo di sopravvissuti alla Shoah che si sono detti pronti a nascondere i profughi nelle proprie case, pur di sottrarli alla polizia e al provvedimento di espulsione. Nei giorni scorsi a margine del vertice economico a Davos, Netanyahu ha incontrato il presidente del Ruanda Paul Kagame che ha detto di avere una politica di porte aperte per chi desidera rientrare in Africa ma non ha confermato di aver sottoscritto un accordo con Israele. Per gli attivisti israeliani invece l’intesa segreta tra Ruanda e Israele esiste e per questo hanno intensificato le pressioni su Kagame affinchè cessi di ricevere nel suo Paese gli eritrei e sudanesi espulsi. Pressioni che non hanno gli effetti desiderati, a maggior ragione ora che il leader ruandese si fa forte dello status internazionale che ha conseguito dopo la nomina a presidente dell’Unione Africana.
Articolo ripreso da NENAnews". Qui è raggiungibile la pagina originaria
Internazionale
Addis Abeba, Etiopia, dicembre 2013. È mezzanotte passata. L’aereo in arrivo dall’Arabia Saudita trasporta alcuni lavoratori che sono stati espulsi in fretta e furia. Erano partiti dall’Etiopia per svolgere lavori di ogni tipo in questa monarchia resa ricchissima dal petrolio. I lavoratori migranti etiopi scendono dall’aereo. Hanno dei sacchetti di plastica con dentro i loro oggetti. Non sembra che il duro lavoro in Arabia Saudita li abbia arricchiti. Alcuni sono scalzi. L’aria è rigida. Devono avere freddo con le loro camicie e i loro pantaloni, con i piedi nudi sulla dura terra.
Qual era stato il motivo della loro espulsione? Le autorità saudite avevano dichiarato che si trattava di migranti entrati nel paese senza documenti. Avevano attraversato il pericoloso golfo di Aden su imbarcazioni di fortuna. L’Arabia Saudita accoglie questi migranti, anche quelli senza documenti, soprattutto perché offrono il loro lavoro a prezzi molto bassi, e in condizioni molto dure. A intervalli regolari, il governo di Riyadh se la prende con questi lavoratori irregolari arrestandoli in pubblico, rinchiudendoli in campi d’espulsione e poi rispedendoli nel paese d’origine.
Tra il giugno e il dicembre 2017 le autorità saudite hanno detenuto 250mila cittadini stranieri e rispedito a casa 96mila etiopi. Quando il governo saudita vuole essere particolarmente crudele, trasporta gli etiopi sul confine tra l’Arabia Saudita e lo Yemen e li lascia dalla parte yemenita. Lo Yemen, che è ancora bersagliato quasi quotidianamente dai bombardamenti sauditi, non è il luogo migliore per accogliere degli etiopi disperati.
Le autorità che permettono a migranti senza documenti di entrare nel paese per poi umiliarli con questo genere di pubbliche espulsioni, di fatto ricattano i lavoratori consentendo ai trafficanti di esseri umani e ai datori di lavoro di mantenere i salari ai livelli più bassi possibile. Non c’è nessuno con cui lamentarsi.
Gli etiopi continuano ad andare in Arabia Saudita a causa della grave crisi del loro paese. Tra i sei e i nove milioni di etiopi hanno avuto bisogno di aiuti alimentari di qualche tipo nel 2017, visto che gravi siccità e povertà hanno contribuito a creare una situazione di quasi carestia. Nell’Etiopia sudorientale, da dove provengono molti dei migranti, la siccità ha decimato le mandrie di bestiame e ridotto la produzione agricola. Si tratta della stessa area nella quale l’Etiopia accoglie 894mila profughi provenienti da Eritrea, Somalia, Sud Sudan e Sudan. Questi rifugiati arrivano qui spinti dalla fame e dalle guerre. Solo nel 2017 sono arrivati in Etiopia 106mila profughi, la maggior parte dal Sud Sudan (sono 420mila i cittadini di questo paese oggi in Etiopia). Un paese che accoglie quasi un milione di profughi, a sua volta in grave crisi, ne spedisce forse un milione nella penisola araba (nella sola Arabia Saudita sono mezzo milione). Questo movimento circolare di profughi è uno degli elementi che definisce oggi il nostro pianeta.
Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine delle persone scalze. I lavoratori etiopi affermano di essere quotidianamente maltrattati in Arabia Saudita, che si tratti di violenza sessuale sulle donne che lavorano come domestiche, di violenze fisiche su ogni tipo di lavoratori e di molestie della polizia. La cosa è diventata normale. È così che vivono ormai.
La dura realtà
All’inizio dell’anno sono andato a Dhaka, in Bangladesh, e ho visitato la Drik Gallery III, dove ho potuto vedere la mostra fotografica di Shahidul Alam dedicata ai migranti che dal Bangladesh raggiungono la Malesia. Le foto mostrano la speranza negli occhi dei migranti e il grande senso di delusione quando la vita si rivela, per molti di loro, diversa da quella che gli era stata promessa. Le fotografie di Alam sono scintillanti e la sua personale compassione fa emergere i sentimenti con grande sincerità dagli uomini e dalle donne che fotografa.
Alam mi ha dato il suo libro, The best years of my life (I migliori anni della mia vita), che raccoglie le foto che ho visto nella galleria, accompagnate da un suo testo commovente. Il libro racconta il viaggio di migranti del Bangladesh che, alla ricerca di un sogno, raggiungono i campi e le fabbriche della Malesia, dove lavorano per salari bassi e sono ingannati dai trafficanti, dai funzionari e dagli altri migranti. La speranza di guadagnare abbastanza da aiutare le loro famiglie rimaste a casa spinge i migranti a sacrifici indescrivibili. Sahanaz Parben ha un figlio di undici anni che la chiama zia: a malapena la conosce. I figli di Babu Biswas lo hanno visto, brevemente, tre volte in dieci anni. “Stanno bene”, dice l’uomo.
Lo status legale di questi migranti è spesso poco chiaro. Ed è proprio il loro fragile status che li obbliga ad accettare paghe misere. Ma il denaro dei migranti “illegali” non è illegale. In Bangladesh è il benvenuto. Sono circa nove milioni (secondo la Banca mondiale) gli emigrati del Bangladesh che spediscono a casa 15 miliardi di dollari. Su una media di cinque anni, si tratta del 10 per cento del prodotto interno lordo (pil) del Bangladesh.
Non è una percentuale alta come quella della Liberia, dove circa un quarto del pil proviene dalle rimesse dei lavoratori migranti. Queste economie crollerebbero senza le piccole somme di denaro che milioni di lavoratori spediscono e che costituiscono buona parte della valuta estera che arriva in questi paesi.
Vale la pena notare che gli investimenti esteri (ide) che arrivano in Bangladesh rappresentano appena lo 0,9 per cento del suo pil. Le rimesse dei lavoratori hanno un peso decisamente più importante sull’economia rispetto agli ide provenienti da banche e aziende straniere. Eppure, come rileva Alam, il governo del Bangladesh tratta con disprezzo i migranti.
L’alto commissario Mohammed Hafiz sembra una persona abbastanza per bene. Ma ha sostanzialmente rinunciato a fare il suo dovere. “Che posso fare?”, dice. Hanno ragione gli attivisti. Parimala Narayanasamy, del Coordinamento d’azione e ricerca sugli aiuti e la mobilità (Caram), spiega ad Alam che “i governi dei paesi di provenienza dovrebbero dire pubblicamente e chiaramente che se ci sono paesi che hanno bisogno di lavoratori, sono i paesi d’origine dei lavoratori stessi a dover fissare termini e condizioni”. Ma è esattamente quello che non viene fatto, né da parte del governo del Bangladesh né da parte dell’Etiopia, i quali invece trattano i banchieri e i dirigenti d’azienda stranieri come eroi, e da criminali i loro concittadini che spediscono quantità di denaro molto più consistenti.
All’aeroporto internazionale Shahjalal di Dhaka, ricarico il mio telefono. Due uomini vengono da me e mi chiedono di usare il mio caricatore. Sono diretti nel golfo Arabo. Non ho il caricatore giusto per il loro telefono. Una donna viene da me, mi porge la sua carta d’imbarco e mi chiede a che ora è previsto il suo volo per Abu Dhabi. Al suo arrivo l’accoglierà il suo datore di lavoro. Cerca il biglietto nella sua borsa, dove sono contenuti pochissimi oggetti. Uno dei due uomini le chiede se ha un caricatore. Lei non ce l’ha. Si sorridono a vicenda. Hanno moltissimo un comune. Troveranno un modo di aiutarsi a vicenda. È così che fanno questi lavoratori. Si aiutano a vicenda e aiutano le loro famiglie. E tutti li considerano una seccatura.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Abbiamo ripreso questo articolo dall', che l'ha a sua volta preso e tradotto da Alternet.
tiscali.it
Guerre che non finiscono mai e che forse mai vinceremo. E’ questa l’impressione che si ha guardando agli attentati in Afghanistan e in Libia, oppure all’operazione Ramoscello d’Ulivo della Turchia contro i curdi siriani. Eppure la novità della globalizzazione è proprio questa: vincere le guerre non serve. Sulle nevi di Davos, al Forum economico mondiale dove sta per arrivare The Donald, lo sanno bene ma fanno finta di parlare di altro. Per coprire veri o presunti fallimenti basta fare la dichiarazione opportuna: James Mattis, il capo del Pentagono, è stato chiaro, la guerra al terrorismo non è più una priorità, i veri nemici sono Russia e Cina. Basta cambiare obiettivo, come si cambia un vestito, e tornare al classico della guerra fredda, o riscaldata.
L’Iraq nel caos dopo il 2003
Il sospetto che vincere la guerra non fosse più un obiettivo ci aveva già colti a Baghdad nel 2003, quando il Paese sprofondò in un marasma dal quale non è più uscito. L’Iraq era stato in guerra otto anni con l’Iran (1980-88), Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait nel ’90 e poi era stato sconfitto nel ’91 da una coalizione a guida americana. Dodici anni di sanzioni poi il dittatore è caduto ed è cominciato un decennio di terrorismo. Infine, nel 2014, è arrivato anche il Califfato. Ma dopo la sconfitta dell’Isis, a Baghdad gli attentati continuano. Questo non impedirà di dare il via in Kuwait a un’affollata conferenza sulla ricostruzione dell’Iraq: business is business, soprattutto quando è alimentato dal petrolio.
In questi anni non si è mai visto niente di più ipocrita e di meno umanitario delle guerre “umanitarie”, di guerre per “esportare la democrazia” e “salvare popoli” che sono stati poi abbandonati a un destino che neppure loro hanno potuto decidere.
Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso degli Usa
Chi oggi ragionevolmente può prevedere la pacificazione dell’Afghanistan, il conflitto più lungo e costoso mai intrapreso dagli Stati Uniti? Dopo avere proclamato che avrebbe ridotto la presenza militare a Kabul, anche il presidente americano Donald Trump ha deciso di aumentare le truppe Usa, da 8mila a oltre 14 mila uomini. Ma è una guerra che si può vincere? Sembra di no perché nel 2007-2008 c’erano tra truppe americane e Nato oltre 150mila uomini e oggi almeno un terzo del territorio afghano è controllato dai talebani o dai gruppi jihadisti. “Prima regola della politica: mai fare la guerra in Afghanistan”, disse il premier britannico Anthony Eden negli anni Trenta. Ma soprattutto mai fare la guerra in Afghanistan senza avere degli alleati tra i vicini dell’Afghanistan. Gli Usa si oppongono all’Iran, considerato un regime da cambiare e Trump ha anche litigato con il Pakistan congelando gli aiuti americani. Il vero motivo dell’acredine di Washington è che i pakistani sono alleati di Pechino e ospitano 13mila soldati cinesi. Il Pakistan considera l’Afghanistan parte della sua profondità strategica, difficilmente sarà pacificato senza la sua collaborazione.
Dopo Gheddafi la Libia è divisa in due
Un altro esempio di guerre che con finiscono mai è la Libia. Nel 2011 i francesi gli inglesi e gli americani bombardarono il Colonnello Gheddafi. Erano già caduti il tunisino Ben Alì e l’egiziano Mubarak, questo era il loro tentativo di dirigere da fuori le primavere arabe prendendo il controllo delle risorse energetiche e della geopolitica della regione. Già allora si capiva che la rivolta di Bengasi avrebbe spaccato il Paese, una creatura coloniale italiana: Tripolitania da una parte, Cirenaica dall’altra. Mentre i confini della Libia sprofondavano di mille chilometri, aprendo la via a un enorme flusso di profughi e alla destabilizzazione jihadista di Al Qaida e poi dell’Isis. Dopo la disgregazione dell’Iraq ne cominciava un’altra. Come se questo non bastasse la Francia, l’Egitto e la Russia hanno sostenuto in questi anni il generale Khalifa Haftar con l’idea di mettere un uomo forte a capo del Paese. Ma neppure Haftar, dopo avere annunciato qualche la liberazione “definitiva” di Bengasi da salafiti e jihadisti, controlla completamente la Cirenaica.
La Siria è la guerra più devastante di tutte
Non è più tempo di dittatori “forti” alla Saddam, che poi magari sfuggono al controllo, ma di autocrati a mezzo servizio che possono essere manovrati. Assad è un esempio. Dopo aver pensato di abbatterlo, si è capito che è meglio lasciarlo al suo posto, dimezzato, a fare il “lavoro sporco”. La Siria è la guerra più devastante di tutte. La peggiore perché studiata a tavolino per sfruttare la rivolta popolare non soltanto per cambiare un regime ma l’intero assetto geopolitico del Medio Oriente. Un’operazione fallita in Iraq nel 2003 per l’alleanza tra il governo sciita di Baghdad e l’Iran.
E’ stato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, con il pieno appoggio di Francia e Gran Bretagna, a dare il via libera alla Turchia per aprire “l’autostrada del Jihad” e far affluire migliaia di combattenti in Siria. Nasceva una sorta di Afghanistan a un passo dall’Europa. Il 6 luglio del 2011 l’ambasciatore Usa Ford passeggiava con i ribelli di Hama, era il segnale che il conflitto poteva cominciare con il sostegno logistico della Turchia e quello finanziario dell’Arabia Saudita e del Qatar. Assad si sera rifiutato di rompere l’alleanza con l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di americani, sauditi e israeliani, un ostacolo alle mire egemoniche di Erdogan sugli arabi. L’intervento della Russia nel 2015 ha cambiato il destino della guerra e la Turchia ha dovuto piegarsi a Mosca e Teheran.
La Turchia contro i curdi siriani
Ora Erdogan prova a incenerire i curdi siriani, ritenuti alleati del Pkk che da quasi 40 anni conduce la guerriglia nel Kurdistan turco. Questa volta si ha l’impressione che gli Usa lasceranno ai turchi la possibilità di creare una “fascia di sicurezza” dentro al territorio siriano. Dopo avere usato i curdi contro l’Isis, gli americani metteranno le loro basi nel Nord della Siria.
Lo ha confermato il segretario di Stato Rex Tillerson. Pur essendosi allontanata dall’Alleanza, la Turchia resta un Paese della Nato, con basi e missili puntati contro Mosca e Teheran, e giustificherà la permanenza in Siria degli americani che stanno facendo un cinico doppio gioco tra i curdi e i turchi. In cambio della fascia di sicurezza turca, la Russia e il governo di Damasco avranno mano libera per recuperare il controllo di Idlib. Israele è soddisfatto perché con queste presenze militari straniere (comprese quelle delle milizie filo-sciite e di quelle sunnite) si legittima ancora di più l’occupazione israeliana del Golan in corso dal 1967. Al vertice asiatico di novembre a Da Nang (casualmente in Vietnam) Stati Uniti e Russia avevano pubblicato un comunicato congiunto a favore “ della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria”. Il che tradotto significava: “Siamo noi a fare le fette di torta per tutti in Siria”. Ovviamente non si tratta di soluzioni stabili ma in Medio Oriente a volte ciò che è precario rischia di diventare definitivo perché nessuno restituisce quello che si è preso.
I costi delle guerre
Le guerre che non finiscono mai costano. Quindi l’Occidente e la Russia dovranno vendere armi ai loro alleati e clienti per recuperare i bilanci della Difesa. Più difficile spiegare all’opinione pubblica che queste guerre hanno portato il terrorismo in Europa e centinaia di migliaia di profughi che continueranno ad affluire dalle aeree di conflitto, scendendo a patti con autocrati come Erdogan perché non riapra il rubinetto dei rifugiati. Anche qui però la politica aiuta: basta dire come il generale Mattis che il terrorismo non è più il principale obiettivo ma quello di contenere Mosca e Pechino.
Credere davvero a queste acrobazie però non è facile. Lo dice anche chi ci governa. Il viceministro degli Esteri Mario Giro, in un libro appena uscito, “La Globalizzazione difficile (edito da Mondadori Università), scrive testualmente: “Il fatto di non riuscire a chiudere le guerre, a risolverle, non rappresenta più uno scandalo dell’impotenza umana e della rassegnazione politica ma viene considerato un dato normale, prevedibile quasi biologico”. In questo contesto la pace, aggiunge, sembra davvero una cosa da ingenui. Non serve vincere le guerre ma farle, soprattutto un pò lontano da casa.
Internazionale e R.it, g
Internazionale 18 gennaio 2018
AHED TEMIMI E IL FALLIMENTO
DELLA SOLUZIONE ADUE STATI
di Bernard Guetta, France Inter
È una sorta di cambio generazionale. Il 14 gennaio l’intero apparato dirigente palestinese ha constatato la totale impasse di quello che non possiamo più chiamare processo di pace e ha minacciato di sospendere il riconoscimento di Israele fino a quando lo stato ebraico non riconoscerà uno stato palestinese all’interno delle frontiere del 1967.
Mahmoud Abbas, presidente dell’autorità palestinese, ha definito “lo schiaffo del secolo” la decisione di Donald Trump di trasferire l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, che la Casa Bianca considera ormai come la capitale di Israele e non più come una città da dividere, un giorno, in due capitali di due stati diversi. In questa riunione di uomini anziani, ormai consapevoli di aver fatto il loro tempo senza ottenere risultati, si percepiva una rabbia fredda.
La determinazione di Ahed
Poi però, nella giornata del 17 gennaio, è arrivata la decisione di un tribunale militare israeliano di
rifiutare la libertà condizionata a una palestinese di 16 anni, Ahed Tamimi, che sarà processata alla fine del mese per aver partecipato a “scontri violenti”. Questa adolescente è diventata un’icona palestinese e una celebrità mondiale da quando ha schiaffeggiato un soldato che voleva impedirle di partecipare alla manifestazione settimanale del suo villaggio contro l’occupazione israeliana.
Nel 2012, quando Ahed aveva 12 anni, era già diventata famosa agitando il pugno verso un altro soldato minacciando di “rompergli la testa”. Un anno fa aveva morso un altro militare per impedirgli di interrogare suo fratello. Ora è arrivato lo schiaffo, filmato dalla madre e diventato virale sui social media.
Nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace Definita da Haaretz, quotidiano di riferimento israeliano, la “Giovanna d’Arco palestinese”, Ahed rappresenta per la giustizia militare un problema irrisolvibile, perché la sua liberazione le avrebbe permesso di presentarsi come un’eroina al processo mentre la sua detenzione la rende una martire, una ragazzina vittima dei soprusi di un’esercito potente.
I giudici militari hanno scelto di confermare la detenzione di Ahed considerandola il rischio minore. In ogni caso è evidente che questa adolescente, nata in una famiglia che ha scelto la non violenza, incarna una nuova generazione palestinese che non crede più al processo di pace e nemmeno alla soluzione dei due stati, decisa a battersi solo per il riconoscimento dei propri diritti e della propria dignità.
Il fallimento del negoziato ha insegnato a questa generazione che oggi essa non vive nella virtualità della Palestina, ma nella realtà di uno stato di Israele che comprende la Cisgiordania, uno stato unico a cui chiedere diritti civili, più difficili da rifiutare rispetto a un insieme di frontiere, uno stato e una capitale.
PER AHED TAMIMI, L'ADOLESCENTE
CHE HA SCHIAFFEGGIATO UN SOLDATO
«È la quarta volta che la sua detenzione viene prolungata. Era diventata famosa con un video virale in cui colpiva un soldato. L’avvocato: violati i diritti dell’infanzia»
(AsiaNews/Agenzie) – La corte militare israeliana di Ofer - 140 km circa a nord di Gerusalemme - ha prolungato per la quarta volta la detenzione di Ahed Tamimi, adolescente palestinese di 16 anni protagonista di un video virale in cui schiaffeggia un soldato israeliano, si apprende da AsiaNews. All’udienza di ieri, oltre alla famiglia della ragazza erano presenti personalità diplomatiche straniere e attivisti per i diritti umani. Il suo caso verrà esaminato di nuovo domani dopo “ulteriori indagini”.
Il video risale al 15 dicembre. Saputo che il cugino di 15 anni era stato ferito da un colpo alla testa ravvicinato durante una protesta, Tamimi si era scagliata contro i soldati israeliani entrati nel suo villaggio vicino Ramallah, che non hanno reagito. La giovane è stata poi arrestata nella notte del 19 dicembre. Gaby Lasky, avvocato della giovane militante, accusa le autorità israeliane di violare la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, secondo cui il carcere per un minore deve essere “un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”.
Su di lei pendono anche altri reati. Su Tamimi pendono una decina di capi d’accusa anche per fatti passati, fra incitamento, assalto e lancio di pietre, per le quali le autorità non l'avevano mai perseguita. Il procuratore militare chiamerà 18 testimoni, per lo più soldati. Il processo potrebbe durare diversi mesi. Le corti militari israeliane negano ai minori palestinesi il rilascio su cauzione nel 70% dei casi. Un rapporto Unicef del 2013 riporta che quasi tutti i bambini e ragazzi si dichiarano colpevoli per ridurre la detenzione preliminare.
AVAAZ
SCHEDA INFORMATIVA
gennaio 2018
Minori detenuti da Israele Quanti minori sono stati arrestati? Negli ultimi 50 anni, circa 45mila minori palestinesi sono stati detenuti dalle forze armate (fonte: MCW). Dal 2000, si stima che 12mila minori palestinesi siano stati arrestati dalle forze israeliane nella Cisgiordania occupata e detenuti nel sistema carcerario militare di Israele. Molti di loro non hanno più di 12 anni. In altri casi, le forze armate hanno arrestato minori di appena 6 o 7 anni. Ogni anno, Israele manda a processo tra i 500 e i 700 minori palestinesi nei tribunali militari, mentre altre centinaia sono arrestati e successivamente rilasciati senza processo.
Ogni mese sono detenuti da Israele in media tra i 200 e i 300 minori. Fonti: No Way to Treat a Child, Military Court Watch, Save the Children, Addameer
Come vengono trattati i minori arrestati? Dalle interviste ai minori che sono stati detenuti, dal materiale video e dalle testimonianze degli avvocati emerge che le forze di sicurezza israeliane usano forza e violenza non necessarie durante l’arresto e la detenzione dei minori, che sono a volte picchiati e spesso tenuti in condizioni non sicure e pericolose. Fonte: HRW.
Arresti violenti: Molti minori sono arrestati in piena notte, svegliati nelle loro case da irruzioni di soldati pesantemente armati. Molti sono svegliati dai soldati che picchiano sulla porta d’ingresso, lanciano granate stordenti e ordinano urlando alla famiglia di uscire dalla casa. Bambini e ragazzi raccontano di essere terrorizzati dalle irruzioni dei soldati, che spesso distruggono mobili e finestre, lanciano accuse e minacce verbali e costringono i familiari a uscire di casa svestiti mentre i minori imputati sono portati via con la forza. Vengono date spiegazioni vaghe come “viene con noi, ve lo riporteremo dopo” o viene detto semplicemente che il minore è “ricercato”. Solo in pochi casi viene comunicato dove, perché o per quanto tempo il minore sarà detenuto. Fonte: UNICEF
[Il soldato che ha fatto irruzione in casa nostra] ha detto a mio padre: “Consegnacelo o gli spariamo” Y.H., detenuto all’età di 17 anni
Fonte: Save the Children
Altri minori sono stati arrestati mentre giocavano o appena usciti da scuola, davanti a tutti i loro amici. A volte vengono presi a calci, picchiati o soffocati durante l'operazione. Le manette di plastica sono regolarmente strette al punto da provocare lesioni e ferite ai polsi. Quasi tutti sono bendati e legati durante il trasferimento, e la maggior parte riporta di aver subito violenza fisica durante l’arresto (fonte: DCI).
Human Rights Watch, ad esempio, riporta nei dettagli la storia di Rashid S., 11 anni, che ha detto che la polizia di frontiera israeliana gli ha lanciato contro una granata stordente (un esplosivo non letale che produce un bagliore accecante e un rumore assordante, e provoca la perdita dell’equilibrio) e l’abbia quasi strangolato durante l’arresto.
Interrogatori traumatici e illegittimi: Le forze di sicurezza israeliane sottopongono regolarmente i minori a interrogatori violenti che durano intere settimane, senza la presenza dei genitori. Usano intimidazioni, minacce e violenze fisiche, con il chiaro intento di costringere il minore a confessare. I minori sono tenuti legati durante l’interrogatorio, spesso alla sedia su cui sono seduti. Questa pratica può continuare per ore, causando dolore a mani, schiena, gambe e sfinimento. I minori sono stati minacciati di morte, isolamento e violenze fisiche e sessuali, contro di loro o i loro familiari.
Negli interrogatori vengono spesso accusati di una lunga lista di crimini. La maggior parte confessa, cedendo alla pressione, alla fine dell’interrogatorio. Vengono quindi stampati dei moduli e bambini e ragazzi devono firmarli, nonostante spesso non ne comprendano il contenuto. Nella maggior parte dei casi, i moduli sono in ebraico, lingua che la stragrande maggioranza dei minori palestinesi non comprende. Inoltre sono anche trasportati al di fuori dei territori occupati, in prigioni in Israele, in violazione dell’Articolo 76 della Convenzione di Ginevra, rendendo più difficili le visite dei genitori. Fonte: UNICEF
Isolamento: Alcuni minori sono tenuti in isolamento, sia prima dell’udienza che dopo la sentenza, per un periodo che varia da due giorni a un mese. L’isolamento è uno strumento ulteriore per mettere il minore sotto pressione e costringerlo a cedere e a confessare crimini che spesso non ha commesso. I minori si sentono costretti a farlo per evitare di essere lasciati soli in isolamento. Alcuni riportano di come arrivano a dubitare di ciò che hanno fatto o non hanno fatto davvero, e riportano traumi psicologici come conseguenza. Fonte: UNICEF
Il 25 gennaio 2016 il nome di Giulio Regeni si aggiungeva a quelli dei tanti egiziani e delle tante egiziane vittime di sparizione forzata. Pochi giorni dopo, il 3 febbraio, il nome del ricercatore italiano si aggiungeva al lungo elenco delle persone torturate a morte in Egitto.
Sono trascorsi due anni da quel 25 gennaio e ancora le autorità egiziane si ostinano a non rivelare i nomi di chi ha ordinato, di chi ha eseguito, di chi ha coperto e ancora copre il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Per questo motivo, oggi in decine di città italiane si accenderanno migliaia di candele alle 19.41, l’ora del 25 gennaio di due anni fa in cui Giulio venne visto per l’ultima volta.
«In questo secondo anniversario di lutto e di domande che la famiglia Regeni fa da 24 mesi senza ottenere risposte, è fondamentale non consegnare Giulio alla memoria, rinunciando a chiedere la verità» – dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. «Noi proseguiamo a coltivare una speranza: che quell’insistere giorno dopo giorno a chiedere la verità, quelle iniziative che quotidianamente si svolgono in Italia e non solo producano il risultato che attendiamo: l’accertamento delle responsabilità per la sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio. Quella verità la deve fornire il governo egiziano e deve chiederla con forza quello italiano».
Al contrario il governo italiano con un colpo di spugna ha ripreso le relazioni diplomatiche e inviato al Cairo l’ambasciatore Cantini, in nome dei buoni affari e delle strette relazioni ecoomiche avviate in questi ultimi anni con l’Egitto, in particolare nel settore energetico. La famiglia Regeni, chi crede nella giustizia, chi non si arrende alla “ragion di stato”, continuano a reclamare quella verità che Roma e il Cairo hanno deciso di occultare.
Articolo tratto da NENAnews online, pagina raggiungibile qui
il manifest
Accogliere è una parola che viene dal latino: ad-cum-ligare, legare insieme. Ma più che cercare il suo significato nel passato, dobbiamo costruirne uno nuovo, adatto ai tempi in cui viviamo, ai problemi con cui ci confrontiamo, alle persone che oggi sono al centro dello scontro politico e sociale: i profughi.
Innanzitutto accogliere non ha niente a che fare con le “rilocalizzazioni” pretese e non realizzate dalla Commissione europea che trattano i profughi come “pezzi” (una parola che richiama ricordi atroci) da smistare. E con ciò, a prescindere dalla “selezione” (altro termine dai rimandi atroci) con cui l’Unione europea pretende di accettarne alcuni e di scartare gli altri, attacca loro l’etichetta di “ingombri, problemi. Questo produce insofferenza, rancore e razzismo e spinge i Governi a inseguire le parole d’ordine delle destre. Al di là delle false professioni di spirito umanitario, con i migranti Commissione europea è più feroce di Trump.
Inserita in questa cornice, anche la migliore “accoglienza” riservata a persone trattate come ingombri umilia sia loro che noi: sono esseri (umani?) di cui occorre sbarazzarsi al più presto.
L’ospitalità, che un tempo era sacra, ci può indicare un’altra strada: l’ospite, lo “straniero”, veniva trattato come un membro della famiglia (come il naufrago Ulisse nell’isola dei Feaci); poi veniva preparato e attrezzato per continuare il suo viaggio.
E qual è la meta del viaggio dei profughi del nostro tempo? Le mete possibili sono due: o la piena cittadinanza nel paese che li ospita; ed è certamente un percorso complesso. Oppure il ritorno nel paese da cui sono fuggiti, o sono stati cacciati, e in cui per ora non possono ritornare: un percorso ancora più arduo.
Ma che cosa può invertire l’effetto di una rilocalizzazione così disumanizzante? Il fatto che l’ospite porti con sé un dono, una “dote” più grande dei tanti problemi che pure può generare.
Perché questo succeda, l’ospite deve essere messo in grado di valorizzare, e di fare in modo che vengano apprezzate, la cultura, l’energia, l’esperienza, ma anche il dolore di cui è portatore: perché la comprensione del dolore, sia nostro che altrui, aiuta tutti ad affrontare meglio le circostanze della vita.
Ma deve anche portare con sé lavoro, reddito, diritti, salute. E non certo perché crea un po’ di lavoro per quei pochi che oggi vengono impiegati nella gestione dell’”accoglienza”; questo è un falso “beneficio” che costringe all’inattività e confina nell’inutilità l’ospite e che spesso induce nell’ospitante speculazione e sfruttamento delle altrui disgrazie.
La dote che l’ospite, lo straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di potenziamento dei servizi, di promozione dell’agricoltura biologica: un piano capace di garantire lavoro e sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e umilianti, o senza casa.
Gli Stati membri dell’UE che accoglieranno i profughi avranno accesso ai fondi e ai progetti del piano; e quanti più profughi accoglieranno, tanto più potranno salvaguardare il proprio territorio, riconvertire la propria economia, creare posti di lavoro sicuri e un’abitazione decente anche per i propri disoccupati, per i propri lavoratori precari, per i propri cittadini emarginati. Così i profughi saranno i benvenuti, perché quanti più saranno, maggiori saranno le occasioni di risolvere i problemi sociali della popolazione. E i progetti dovranno avere un raggio di azione locale, in modo che la popolazione possa percepire il rapporto diretto tra arrivo dei migranti e aumento delle opportunità. Mentre i paesi che non vorranno accoglierli non avranno accesso a quei fondi.
Ma chi paga? Certo, c’è da ridurre, e poi azzerare, la spesa militare; da combattere l’evasione e l’elusione fiscali; da mettere la parola fine alle Grandi opere devastanti; da arginare la corruzione. Ma non basta. A finanziare questo piano di riconversione ecologica deve essere la BCE.
La BCE ha “tirato fuori dal cappello” più di 1000 miliardi di euro all’anno per salvare le banche e promuovere (forse; ma forse no) una ripresa stentata, precaria e in molti casi dannosa; comunque insignificante per l’occupazione. Per alcuni economisti quei soldi avrebbe potuto distribuirli a lavoratori e cittadini svantaggiati con quello schema paradossale di sostegno alla domanda detto helicopter money: gettare soldi a piene mani da un elicottero. Si sarebbero ottenuti sicuramente, dicono, risultati migliori.
Ma c’è una via di mezzo e più sensata tra questi due modi cretini di sostenere l’economia; ed è quello di finanziare, con altrettanto denaro (almeno 1000 miliardi all’anno) un piano europeo di riconversione ecologica vincolato all’accoglienza dei profughi, legandola indissolubilmente alla salvaguardia dell’ambiente.
Poi c’è da prendere seriamente in considerazione la seconda possibile meta del viaggio dei profughi: il ritorno. Non con i rimpatri forzati che equivalgono a riconsegnarli, incatenati, ai dittatori, o alle bande armate, o alle guerre, o ai suoli abbandonati, perché ormai sterili, da cui erano fuggiti. Bensì aiutandoli a farsi portatori di pace, di riconciliazione, di democrazia, di risanamento sociale e ambientale delle loro terre. Per farlo devono potersi organizzare durante la loro permanenza in Europa, aver voce in capitolo nelle trattative di pace del loro paese, nella politica estera del paese ospitante, nella destinazione dei fondi (immensi) che oggi vengono spesi per “esternalizzare” le frontiere e fare la guerra ai migranti lungo le loro rotte. E niente come la partecipazione a pieno titolo alla vita associata nei paesi “ospitanti” e la partecipazione, come lavoratori, ai progetti di conversione ecologica di questi paesi può preparare quelli di loro che lo vorranno, e saranno sicuramente molti, a un ritorno, da pionieri, nei paesi da cui sono fuggiti. Così si gettano le basi di una grande comunità euro-afro-mediterranea, dove la libera circolazione delle persone sia non solo un diritto, ma anche una reale possibilità.
Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Impraticabile per chi non vede alternative ai diktat dell’Unione europea e della BCE. Ma irrinunciabile per chi si candida a un ruolo di vera opposizione. Non dobbiamo scrivere l’elenco delle cose che faremmo “se fossimo al Governo”. Perché al Governo non ci andremo. Per ora. Il nostro compito è avvalorare e diffondere la prospettiva di una inversione radicale delle priorità, sostenerla, renderla concreta con gli esempi, individuare e affrontare gli ostacoli che si parano di fronte. Un programma di opposizione deve indicare la strada per arrivare: non al Governo, ma a governarci.
Internazionale
Un fischio, poi il rumore dei freni: da uno degli ultimi treni in arrivo da Oulx scende Mohammed Traoré, 17 anni, guineano. Si guarda intorno, non c’è molta gente sulla banchina, i lampioni spargono un velo di luce nell’aria densa di umidità, il freddo entra nella giacca grigia che il ragazzo ha dimenticato di abbottonare.
Il grande cartello blu con la scritta bianca indica il nome della stazione: Bardonecchia. La cittadina piemontese a 1.312 metri d’altitudine gli è stata indicata da alcuni amici in una chat su Whatsapp. Da qui parte la rotta alpina, un sentiero che arriva in Francia dopo sei ore di cammino attraverso il valico del colle della Scala. Traoré annuisce: è arrivato.
Con le prime luci del giorno proverà ad attraversare le Alpi, nonostante la neve. È il suo secondo tentativo di superare il confine: il giorno precedente ha già provato in treno, ma alla stazione di Modane è stato fermato dalla gendarmeria francese, tenuto qualche ora in un commissariato e poi accompagnato sul treno per l’Italia insieme ad altri cinque ragazzi.
Pericolo
Alle nove di sera ci sono undici gradi sottozero. Traoré non ha mai visto la neve in vita sua ed è proprio come se l’era immaginata: una distesa bianca sulla strada che scricchiola sotto i piedi. Il ragazzo, arrivato in Italia dalla Libia a luglio del 2017, ha le gambe sottili e muscolose, e saltella sulle scale del sottopassaggio della piccola stazione ferroviaria per cacciare i brividi. “Pericolo”, c’è scritto in inglese, francese, arabo e tigrino su un cartello nella bacheca della stazione, in cui si spiega che attraversare le Alpi nel pieno dell’inverno può costare la vita.
A quest’ora la sala d’attesa è chiusa, a causa di un’ordinanza del sindaco e delle ferrovie dello stato del 1 febbraio 2017. I migranti arrivati qui per tentare di attraversare le Alpi aspettano che i volontari dell’associazione Rainbow for Africa aprano il piccolo locale accanto alla stazione: due stanze e un bagno nell’ex dogana, rimessi a posto dal Soccorso alpino.
Il rifugio notturno non si può aprire prima delle 23, sempre per volere dell’amministrazione locale. Il sindaco teme che offrire servizi strutturati ai migranti possa rappresentare un fattore di attrazione, un pull factor. La stessa accusa era stata rivolta alle organizzazioni non governative (ong) che fanno operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale durante l’estate scorsa. E nel 2017 è stata usata in molte città italiane – da Roma a Ventimiglia – per criminalizzare chi offre pasti caldi, coperte e assistenza ai migranti in transito che dormono per strada.
Nonostante tutto a Bardonecchia ogni sera, quando chiude la sala d’attesa della stazione, una decina di richiedenti asilo si rifugia nel sottopassaggio, aspettando di entrare nel ricovero notturno. Ad assisterli arrivano a turno dalla val di Susa e da Torino i volontari che si sono riuniti nella rete Briser les frontières, “sbriciolare le frontiere”. Portano bevande calde, pasti, vestiti, scarponi, giacche a vento, guanti. “Il nostro compito principale è informare le persone dei rischi a cui vanno incontro”, spiega Daniele Brait, attivista di Bussoleno. “Se uno guarda una cartina sembra che la distanza tra l’Italia e la Francia sia molto piccola, mentre in realtà in questa stagione andare in montagna senza equipaggiamento potrebbe significare non arrivare mai”.
Molti volontari sono anche attivisti No Tav e spiegano che la battaglia contro l’alta velocità ha molto in comune con quella per la libertà di movimento delle persone. “I No Tav vogliono evitare che le montagne siano devastate per far passare un treno merci, in un sistema che permette alle merci di passare liberamente e lo impedisce alle persone”, afferma Brait.
Dal Mediterraneo alle Alpi
I volontari distribuiscono un piatto di lenticchie, del tè e alcuni indumenti. Mohammed Traoré prende una sciarpa e due cappelli. “Aquarius”, esclama quando mi vede. È come se fosse una parola magica. È il nome della nave di Sos Méditerranée e Msf che lo ha soccorso al largo della Libia e su cui ci siamo incontrati. Mi abbraccia. Ricorda il buio della notte quando era sul gommone, la paura di morire e la stanchezza che spossa dopo ore di navigazione sotto al sole. Mentre guardiamo le foto sul cellulare, ricorda i corpi stesi senza forze sul ponte della nave francese. Ricorda la gioia di aver visto le luci di “Pojallò”, del porto di Pozzallo, dal ponte dell’Aquarius per una notte intera prima dell’attracco, di aver pensato di essere finalmente arrivato in Europa.
“Io credevo che l’Italia fosse l’Europa, non pensavo che ci sarebbero stati tanti problemi né che ogni paese europeo fosse così diverso”. Dopo lo sbarco, Traoré è stato trasferito in un centro d’accoglienza a Cesena. Ma la risposta alla richiesta d’asilo non è arrivata. “Non ha funzionato, è stato il destino”, dice con una certa dolcezza. Per questo è scappato ed è finito a dormire per strada, quindi ha deciso di attraversare la frontiera.
Alcuni amici, già arrivati a Tolosa, gli hanno suggerito il percorso. “Non ha senso per me rimanere in Italia anche se non è facile prendere la strada della montagna in pieno inverno”, dice in un francese lento e scandito. “Attraversare il deserto e il mar Mediterraneo è stato difficile, ma attraversare le montagne con tutta questa neve lo sarà ancora di più. Rischieremo di nuovo la vita, ma non abbiamo scelta”. Traoré non ha aspettative: “Potrò parlare il francese, che è la mia lingua. Tutto qui. Nessuna illusione”.
A partire dalla fine di novembre, nonostante la neve e il freddo, il Soccorso alpino di Bardonecchia ha registrato il passaggio di migliaia di migranti dal valico del colle della Scala. “Abbiamo ricevuto molte chiamate, soprattutto di notte, e abbiamo trovato persone smarrite nei sentieri, alcune senza scarpe, tutte intirizzite e mal equipaggiate”, spiega Alberto Rabino, vicecapostazione del Soccorso alpino di Bardonecchia. Il 20 dicembre il Soccorso alpino è intervenuto in aiuto di sei migranti che erano rimasti bloccati nella neve: “Gli portiamo coperte termiche, indumenti caldi, ma una volta che si sono ripresi chiedono di continuare il percorso pur sapendo che dall’altra parte li aspetta la gendarmeria francese”.
I respinti
La notte Mohammed Traoré la passa steso a terra avvolto in un sacco a pelo rosso nel rifugio notturno del Soccorso alpino di Bardonecchia insieme ad altri – Adam, Aboubakr, Souleiman – con cui ha deciso di partire. Sono quasi tutti originari dell’Africa francofona, soprattutto della Guinea e della Costa d’Avorio. Carlino Dall’Orto, un medico di Vicenza di 69 anni, volontario di Rainbow for Africa, tenta inutilmente di convincerli che mettersi in cammino potrebbe essere pericoloso. “Arrivano a Bardonecchia con abiti non idonei al freddo e alla montagna, ma sono molto determinati”. Dall’Orto ha viaggiato per molti anni in diversi paesi dell’Africa e si rivolge ai ragazzi della stazione con un atteggiamento paterno cercando di convincerli a non partire.
Il pomeriggio spesso arriva un pulmino bianco della gendarmeria francese, racconta Dall’Orto, si ferma davanti alla stazione e scarica i migranti irregolari fermati alla frontiera. A essere rimandati indietro dalla Francia non sono solo quelli che attraversano il valico alpino senza documenti, ma anche alcuni immigrati che risiedono in Italia e in Francia da molti anni e che non hanno tutti i documenti in regola dal punto di vista amministrativo. “C’è stato un ragazzo albanese giorni fa che aveva un problema con un visto e lo hanno riportato indietro”, dice Dall’Orto. Li costringono a scendere dal pullman o dal treno e li riportano a Bardonecchia o a Oulx alle ore più disparate del giorno e della notte.
“Negli ultimi quindici giorni di dicembre dalla stazione di Bardonecchia sono passati circa cento migranti”, spiga Emanuel Garavello, operatore della diaconia valdese, che insieme ad altri colleghi ha aperto nelle ultime settimane una specie di sportello legale mobile. Il dato preoccupante, spiega Garavello, “è che molti fuggono dall’accoglienza molto prima di aver ricevuto una risposta alla domanda d’asilo. Decidono di lasciare i centri senza sapere che perderanno il diritto di starci e senza conoscere le opportunità di cui potrebbero beneficiare”. Da Bardonecchia, inoltre, passano tantissimi minorenni che non conoscono affatto i loro diritti e la loro situazione giuridica in Italia.
La diaconia valdese, insieme all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), ha deciso di monitorare la situazione dei minori che transitano dalle Alpi e denunciare le violazioni quotidiane compiute dalla polizia francese, che li respinge alla frontiera nonostante abbia l’obbligo, soprattutto nel caso dei minori, di garantire loro protezione. “La polizia francese non fa alcuna distinzione tra adulti o minori, violando le norme internazionali”, spiega Elena Rozzi, avvocata dell’Asgi. “C’è stato un caso eclatante qualche mese fa: un ragazzino di 13 anni è stato abbandonato dalla polizia in piena notte, sotto la neve, subito dopo la frontiera. Per fortuna è stato trovato da una persona che passava in macchina”, racconta Rozzi.
La traversata
Mohammed Traoré apre gli occhi alle sette, nella stanza c’è un calore denso di corpi, un odore forte di aria consumata. Salta fuori dal sacco a pelo e comincia a vestirsi con cura: tre paia di pantaloni uno sopra all’altro, buste di plastica intorno ai piedi per evitare che la neve arrivi sulla pelle. Non ha scarponi, solo scarpe da ginnastica di pelle grigia. I volontari gli hanno regalato una giacca a vento. Con Adam, un ragazzo originario della Costa d’Avorio che vive in Italia da molti anni, riempie uno zainetto di biscotti e di bottigliette d’acqua.
Poi fa colazione con gli altri, alcuni non se la sentono di partire subito, alla fine il gruppo accoglie un paio di ragazzi che sono appena arrivati alla stazione: prendono viale della Vittoria e poi la strada provinciale 216 che sale per quattro chilometri verso il pian del Colle, la località da cui parte il sentiero per la Francia. In fila indiana marciano sul bordo della strada tra gruppi di turisti con gli sci in mano che vanno verso gli impianti di risalita. Con andatura spedita passano davanti al villaggio olimpico costruito per i giochi invernali del 2006, poi attraversano le baite graziose della frazione di Les Arnauds. Ci vuole circa un’ora per raggiungere Melezet e poi il pian del Colle, dove parte una pista da sci di fondo che conduce al bivio per il Col de l’échelle, il colle della Scala, a 1.762 metri.
Soffia un vento gelido, molto umido, ma è una bella giornata senza nuvole. I ragazzi si riposano dopo la prima ora di cammino alla base del sentiero, mangiano qualche biscotto, poi riprendono la camminata, piegati sulla salita, un passo avanti all’altro. Di fatto hanno già attraversato la frontiera, sono in territorio francese, ma in questo versante della montagna la polizia francese non si spinge. Si lasciano sulla destra una costruzione imponente e una diga, dopo qualche centinaia di metri c’è il primo bivio, la tentazione è di proseguire sulla pista da sci battuta, ma il sentiero da percorrere è quello fuori pista che svolta a sinistra.
C’è un’indicazione per Briançon e Névache, qualcuno con il pennarello ci ha scritto sopra “Fight the borders, No Tav”. Comincia la parte più difficile della traversata: la neve è alta, in alcuni punti arriva a un metro. I piedi affondano e a un certo punto ci si ritrova immersi fino alle ginocchia. Sono tre ore lunghissime, i ragazzi sono concentrati, rimangono in silenzio mentre marciano sui tornanti. Aboubakr vuole scattare una foto ma gli altri gli dicono di muoversi. D’estate si sale in auto sulla strada asfaltata, mentre d’inverno la neve avvolge il paesaggio e nasconde tutto sotto due metri di neve. Il rischio è che dopo una nevicata si stacchino delle valanghe dalla cima, hanno detto quelli del Soccorso alpino.
Quando mancano pochi metri al valico, Mohammed Traoré affonda nella neve. È preso dal panico, s’immobilizza, pensa che non ce la farà, che perderà l’uso dei piedi. Non li sente più per il freddo. I compagni si fermano, lo aiutano a rialzarsi, manca poco, gli dicono. Lo vedono sui navigatori dei cellulari che la destinazione è a pochi metri, c’è ancora da attraversare un paio di tunnel scavati nella roccia e poi comincerà la discesa nella valle della Clarée. Traoré si rialza, prova a concentrarsi su domani, sul futuro. “Pensavo che non ce l’avrei fatta”, dirà il giorno dopo, una volta arrivato. In effetti, come avevano detto i compagni, dopo i due tunnel è cominciata la discesa.
Appena il tempo di riprendere fiato che arriva il timore d’incontrare la polizia. Adam è il più grande e anche il più lucido, ricorda agli altri ragazzi che si fermeranno al primo rifugio e aspetteranno che scenda il buio. Sono passate le 14, ma anche 14 chilometri e più di 500 metri di dislivello in mezzo alla neve. I passi s’incrociano per la stanchezza, ma i muscoli continuano ad andare. Mohammed Traoré ha una strana sensazione di calore. Nella prima casetta sulla strada ci sono dei ragazzi della valle, dei solidali, bénévoles si definiscono. Li invitano a entrare e a mangiare qualcosa. Sono abituati a incontri come questo. Scaldano il sugo su una macchina del gas. C’è un odore di pomodoro e umidità nel rifugio. I ragazzi aspetteranno che scenda il buio, più di due ore dopo, per riprendere la strada verso Névache.
Briançon come Lampedusa
Nevica quando Traoré e i suoi cinque compagni di viaggio arrivano a Briançon a bordo di una monovolume guidata da una coppia di turisti francesi. Sono stati intercettati sulla strada dai due, che hanno deciso di dargli un passaggio nonostante il rischio di essere incriminati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Briançon dista venti chilometri da Névache, trenta minuti in macchina, e sono numerosi i valligiani che, oltre ad aprire le case ai migranti in transito, hanno cominciato a offrire passaggi fino alla città dove, da luglio del 2017, è stato aperto un centro di accoglienza nella vecchia caserma abbandonata del soccorso alpino.
C’è un metro e mezzo di neve sul viale che porta all’ingresso, una decorazione di Natale è ancora appesa sulla porta di legno, sulla parete esterna un murale mostra una mano colorata che stringe in un pugno del filo spinato. È Adam il primo a entrare, poi gli altri. Una grande cucina si apre alla loro vista, intorno a un tavolo, alcuni ragazzi stanno mangiando un’insalata di avocado e pomodori, accompagnata da zuppa di fagioli e riso. Le pareti sono piene di bigliettini scritti dagli ospiti. “L’Italia e la Francia sono due cuori con uno stesso polmone: l’Italia mi salvato dal mare, la Francia mi dà la speranza di vivere”, ha scritto Mamadouba, un ragazzo della Guinea. Su un altro foglio sono riportati alcuni articoli della costituzione francese.
la Stampa
È spuntato fuori alla fine l’europeismo di Emmanuel Macron: tanto atteso, così sperato. Basta con i piccoli e furbi colpi mediatici e le iniziative personali, dove giocava tutto sul rapporto personale con il Putin o il Trump di turno. No, ieri il presidente francese ha convocato e gestito, con un piglio rassicurante, un minivertice europeo sul problema dell’immigrazione, sotto lo sguardo compiacente di Angela Merkel. Ed è riuscito a imporre una delle sue idee, la creazione di hotspot, centri di accoglienza in Ciad e nel Niger, due Paesi africani sulla rotta dei migranti, così da distinguere prima di un viaggio disumano attraverso il deserto fra i rifugiati in fuga dalla guerra (che possono essere accolti in Europa) e gli immigrati economici. Che, invece, diventeranno clandestini e basta.
All’Eliseo, intorno a Macron, si sono riuniti, oltre alla Merkel, il premier spagnolo Mariano Rajoy e il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni (e Macron, in conferenza stampa, si è rivolto a più riprese a lui con un sorriso, ricordando anche l’accordo per uno sviluppo economico concluso dall’Italia con 14 Comuni libici, sulla strada dei migranti, come esempio di questa nuova cooperazione alla sorgente del problema). E poi, oltre alla rappresentante della Ue per gli Affari esteri Federica Mogherini, erano presenti alcuni dei protagonisti di questa nuova politica (costruttiva) anti-migranti: il presidente del Consiglio presidenziale di Tripoli Fayez al-Sarraj e i presidenti di Ciad e Niger, rispettivamente Idriss Deby e Mahamadou Issoufou. Lo statista del Niger ha ricordato come da lui alcuni «hotspot», sotto l’egida dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), esistano già.
Ecco, Macron ha annunciato un accordo tra tutti i partecipanti per l’apertura di più centri fra Niger e Ciad «in zone sicure e ancora sotto la supervisione dell’Unhcr». Sarà l’Alto commissariato a valutare chi potrà continuare. Ha aggiunto che ci sarà anche «un’azione in loco in materia di cooperazione e di giustizia» e «talvolta pure una presenza militare per evitare il gonfiarsi dei flussi verso la Libia». Già nelle settimane scorse il presidente francese aveva messo sul tavolo questa possibilità con l’idea di realizzarla anche in Libia. In seguito, però, Macron aveva accantonato quest’ultima possibilità, per questioni di sicurezza, anche Ciad e Niger avevano nicchiato e non poco. Ieri è riuscito a far passare la pillola, quando insieme alla Merkel e agli altri partner ha promesso un potenziamento della cooperazione allo sviluppo nei due Paesi. Già nelle prossime settimane si inizierà a lavorare concretamente sulle proposte di Parigi, con una task force ad hoc. Si farà un primo punto su quanto realizzato in un vertice in Spagna a fine ottobre nello stesso formato di quello di ieri.
La cancelliera, nella conferenza stampa finale, ha ricordato come sia «indispensabile la distinzione fra chi può accedere allo status di rifugiato e i migranti economici». Sono stati proprio i tedeschi a insistere affinché il seguente passaggio fosse inserito nella dichiarazione finale: «I migranti illegali, che non possono pretendere alcuna forma di protezione internazionale, devono essere ricondotti nei loro Paesi d’origine, nella sicurezza, l’ordine e la dignità, di preferenza su base volontaria». Le elezioni presidenziali si avvicinano in Germania. E per la Merkel era importante mostrare un certo «pugno duro», accanto a un Macron consenziente. È stata comunque la cancelliera a mettere il dito su una piaga, assente dalle discussioni ieri a Parigi: il «sistema Dublino», per cui la domanda d’asilo deve essere presentata nel primo Paese europeo d’arrivo (penalizza Stati come l’Italia, in prima linea). «Questo sistema non funziona, perché in Europa non c’è una reale solidarietà, dobbiamo trovare un’altra soluzione», ha detto la Merkel. Macron sorrideva, senza commentare. La Francia è uno dei maggiori oppositori a rimetterci mano.
Avvenire,o, in cambio di un po' di petrolio
«Il piano dell'Italia, svelato dall'agenzia Reuters: 44 milioni per affidare il centro di coordinamento e soccorso a Tripoli. Summit di Bruxelles, Gentiloni: riforma Dublino ancora lontana»
Avanti tutta per fermare i flussi del Mediterraneo. Malgrado le critiche e le denunce, con tanto di filmati, di Amnesty e di diverse Ong sui salvataggi della guardia costiera libica, Roma ha deciso di affidare a Tripoli il coordinamento dei soccorsi in mare. Il piano, secondo quanto rivela l’agenzia Reuters, prevede entro tre anni di affidare alla Guardia costiera libica la responsabilità di intercettare e soccorrere i migranti in un braccio di mare che comprende circa il 10% del Mediterraneo. L’Italia destinerà circa 44 milioni di euro per espandere la capacità libica, equipaggiando la guardia costiera e consentendole di creare in proprio un centro di coordinamento dei salvataggi e una vasta zona marittima di Search and rescue (ricerca e soccorso, ndr.)
A sei anni dalla caduta di Muammar Gheddafi e con oltre 600mila personeche hanno attraversato il Mediterraneo negli ultimi quattro anni, la Libia continua ad essere divisa tra due governi rivali e con territori (incluse spiagge e porti) in mano a gruppi armati. L’intento dell’Italia e dell’Europa è quello di fermare le imbarcazioni dei migranti. Ma le Ong puntano il dito sulla modalità. Le forze libiche, sostengono le organizzazioni non governative, non sono in grado di gestire in sicurezza i salvataggi e citano, al riguardo, quanto avvenuto a inizio novembre con la morte di una cinquantina di migranti, annegati durante un’operazione di soccorso.
Ad oggi, l’Italia ha fornito alla Libia quattro motovedette e addestrato circa 250 uomini. Anche se in mare, sostengono le Ong, sono oltre 2mila gli uomini chiamati a intercettare e a soccorrere le imbarcazioni dei migranti che prendono il largo dalle coste libiche.
Intanto la strategia italiana, in linea con le grandi priorità della cosiddetta "dimensione esterna" della politica migratoria (quella cioè al di fuori dei confini europei) va avanti con il totale appoggio e sostegno dell’Ue. Lo ha confermato anche ieri il Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, al termine del summit di Bruxelles. «L’iniziativa italiana di quest’anno è stata apprezzata in modo molto rilevante, ed è importante che lo sia dai leader dei Governi dei più diversi orientamenti e famiglie politiche, c’è un riconoscimento unanime dei passi fatti per la lotta contro i trafficanti di esseri umani».
Ma se da una parte ci sono le imbarcazioni in mare da fermare, dall’altra si guarda anche ai campi di detenzione in Libia. Quei centri di dolore e sofferenza per migliaia di persone intrappolate, finite nell’inferno libico dopo essere fuggite dal proprio paese in cerca di una vita migliore. Centri che tutti vogliono "svuotare". Anche Bruxelles. I numeri dei rimpatri volontari assistiti di migranti dalla Libia sono «oltre dieci volte quelli dell’anno scorso», ha confermato Gentiloni. «Proseguendo questa azione – ha aggiunto – nel corso di alcuni mesi i campi gestiti ufficialmente inLibia potranno essere quasi completamente svuotati».
Rimangono però le criticità sul ricollocamento dei migranti da Italia e Grecia e il Regolamento di Dublino. Lo scoglio, cioè sulla cosiddetta "dimensione interna", nei confini dei Paesi europei. Il nodo resta sempre quello del blocco dei Paesi Visegrad (Polonia-Repubblica Ceca-Slovacchia-Ungheria). «Su questo – ammette Gentiloni – non siamo riusciti a superare le resistenze che restano dei Paesi che rifiutano la decisione di obbligatorietà delle quote». Sulla redistribuzione dei migranti, insomma, le distanze restano. «Non siamo a un’intesa e neppure alla vigilia di un’intesa sulla riforma del regolamento di Dublino» ha concluso il premier italiano. La strada da percorrere resta ancora lunga.