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Avvenire, 9 aprile 2018. F

«Mamma, non ce la faccio più. Fammi morire». Fahima ha 45 anni. Aveva un marito e quattro figli. Scappavano dalla Siria senza speranza e dalla Turchia senza futuro. Il 29 marzo lo scafista turco, salpato in piena notte da Bodrum per sfuggire ai controlli sulla rotta verso le isole greche, temendo di essere stato intercettato ha spinto al massimo finendo per ribaltarsi. L’unica superstite è Fahima. Sperava di strappare all’abisso almeno quel figlio di 4 anni. L’unico rimasto aggrappato a lei. Ma il mare è stato più forte. La guerra siriana uccide anche lontano da casa. E adesso a preoccupare le autorità turche, temporaneamente sfamate dal nuovo assegno di tre miliardi staccato da Bruxelles che ha appaltato ad Ankara la gestione dei profughi, c’è anche un altro confine lontano.

L’unico, con quello bulgaro, dal quale non si ascoltano echi di guerra. Dall’Iran, infatti, stanno partendo carovane sempre più numerose di profughi afghani, stanchi di attendere un ritorno in patria al riparo dai talebani. Spinti da diciassette anni di inutile attesa, tentano anch’essi la rotta terrestre verso l’Europa. L’allarme è suonato di nuovo pochi giorni fa lungo l’autostrada che risale il deserto anatolico. Da un groviglio di lamiere bollenti hanno estratto 17 cadaveri e 36 feriti gravi. Erano tutti stipati in un minibus con 14 posti a sedere. Mentre ricomponevano i corpi, gli uomini della Jandarma turca sapevano che il minivan carico di profughi irregolari non era che uno dei molti sfuggiti alla porosa frontiera con l’Iran.

Gli autisti sfrecciano a tutto gas alternando i tratti autostradali a vie secondarie, secondo le indicazioni di una capillare rete di staffette che informa i contrabbandieri sui movimenti della polizia. Le autorità di Teheran confermano che sono oltre 3 milioni gli afghani tracimati in terra persiana dal 2001, quando gli Usa e i loro alleati scatenarono la ritorsione dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Rientrare nelle regioni afghane ancora sotto il tallone dei talebani è fuori discussione.

In tasca non hanno più un soldo e gli unici a fargli credito sono i trafficanti. L’ultima carta da giocare. In Turchia sin dalla guerra siriana è fiorita un’economia di guerra che mette allo stesso tavolo contrabbandieri e nuovi schiavisti. Chi non ha denaro per pagare il passeur si sdebiterà lavorando sotto un padrone turco che rifonderà il trafficante.

Migranti e profughi fermati alle frontiere (Ansa)


Ottenere dati ufficiali è impossibile, ma diverse fonti locali sostengono che meno dell’1% dei siriani fuggiti in Turchia ha presentato domanda di lavoro nonostante sulla carta esista una norma che ne favorisca l’integrazione occupazionale. Succede perché «da una parte viene richiesto ai profughi un lasso di tempo minimo di sei mesi – spiegano gli attivisti di Meltin Pot – dal momento in cui viene ottenuto il documento d’identità turco a quello in cui è possibile iniziare a lavorare».
E nessun capofamiglia può permettersi di restare con le mani in mano per sei mesi, tenuto conto che la vita nei campi profughi, specie d’inverno, è al limite dell’umano. «Dall’altra perché i datori di lavoro, su cui grava l’onere di presentare la domanda per il lavoratore siriano che intendono assumere non hanno con tutta evidenza alcun interesse nel farlo». Mettere sotto contratto un fuggiasco vuol dire pagargli, in linea con la legge, almeno i minimi salariali, oltre all’assicurazione e la previdenza sociale. Inoltre la manodopera straniera non può superare la quota del 10% del totale dei dipendenti. Un limite valicabile solo dimostrando che nessun turco abbia risposto all’offerta di lavoro. I sistemi di controllo del lavoro illegale, specie nelle province lontane, sono pressoché inesistenti.

Perciò per 5 euro al giorno si possono arruolare orde di nuovi schiavi, per lavori che un turco non farebbe per meno del quadruplo. Nelle campagne, nell’edilizia, nei laboratori tessili che producono capi per mezza Europa, i migranti bisognosi sono benvenuti. Sette giorni su sette, dall’alba a sera. «Tre milioni di rifugiati stanno cercando di venire in Turchia. La maggior parte di loro sono afghani, provenienti dall’est dell’Iran» ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione Erdogan, fresca di accordo trilaterale con Mosca e Teheran sulla Siria. Con toni calcolati, gli uomini del sultano precisano: «Non stiamo dicendo che il governo iraniano li stia aiutando a trasferirsi in Turchia, ma lo sta permettendo». Cnn Türk, recentemente passata di mano per finire nel paniere mediatico dichiaratamente filogovernativo, trasmette servizi sulle carovane che giungono nella provincia orientale di Erzurum.

Intere famiglie che a piedi hanno attraversato valichi innevati e deserti rocciosi per arrivare in Turchia. La reazione dei turchi sul posto ha però sorpreso chi non conosce la generosità di un popolo che all’occorrenza sa moltiplicare i posti a tavola. Latte per i bambini, pasti caldi per gli adulti, coperte, vestiti. Una gara di solidarietà che le autorità osservano con un misto di tolleranza e agitazione. L’importante è che se ne vadano in fretta. A fare gli schiavi o a tentare la sorte più a Nord. A due anni dall’accordo, stima l’Acnur, la Turchia ospita oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani, più di ogni altro Paese al mondo.

Solo a Istanbul, ce ne sono ufficialmente 540mila. In realtà molti di più, considerato che le autorità hanno sospeso la registrazione dei profughi 'nuovi residenti', forse temendo le ripercussioni politiche di una concentrazione tale da mettere in crisi l’immagine del governo di Erdogan. In una metropoli da quasi 20 milioni di abitanti, la presenza dei siriani non passa più inosservata quando dapprima interi isolati e poi interi quartieri sono diventati delle 'Little Siria'. Negozi, caffè, bancarelle di cianfrusaglia recano cartelli in arabo tanto nelle aree storiche come Fatih, a ridosso delle moschee più visitate, quanto a Basaksehir o Esenyurt, le periferie dove la città va tracimando sulla costa europea che si getta nel Mar di Marmara. Le frontiere terrestri, dunque, tornano ad essere la maggiore fonte di preoccupazione per il governo del presidente Erdogan.

Gli incidenti si ripetono ma le notizie vengono filtrate per non suscitare allarme. Secondo funzionari del ministero dell’Interno di Ankara, quasi 7mila migranti privi di documenti sono stati fermati e arrestati nel solo mese di marzo, 600 solo negli ultimi due giorni. Tra gli stranieri irregolari detenuti nel 2017, la maggior parte proveniva dal Pakistan (circa 15.000) seguiti dagli afghani (circa 12.000). Un aumento del 60 per cento rispetto al 2016.

Nello stesso periodo, precisano però dalla polizia, sono stati catturati 100 presunti trafficanti di esseri umani. «Dopo il completamento delle procedure di espulsione per i migranti illegali nelle nostre province, i rimpatri – spiega una nota nell’Interno – accelereranno e continueranno ancora nei prossimi giorni». La maggior parte, in realtà, verrà riportata alla frontiera iraniana dove avevano già ottenuto lo status di profughi. Un ping pong tra le frontiere che sta risollevando le casse dei contrabbandieri.

domenica 8 aprile 2018

Balfour agreement la condanna a morte pronunciata da un gruppo di criminali, ciò che accade nella striscia di Gaza è ancora peggio. Con postilla
Nella Striscia di Gaza Israele mostra il peggio di sé. Questa affermazione non intende in nessun modo sminuire la ferocia, sia deliberata che accidentale, che caratterizza la sua politica verso gli altri palestinesi – in Israele e in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est. Né ridimensiona gli orrori dei suoi attacchi di rappresaglia (alias operazioni militari) in Cisgiordania prima del 1967 o le sue aggressioni a civili in Libano.

Tuttavia a Gaza Israele va oltre la sua abituale crudeltà. In particolare là spinge i soldati, i comandanti, i funzionari pubblici ed i civili a mostrare comportamenti e tratti del loro carattere che in ogni altro contesto verrebbero considerati sadici e criminali, o quanto meno non degni di una società avanzata.

C’è spazio solo per quattro riferimenti. I due massacri perpetrati dai soldati israeliani contro la popolazione di Gaza durante la guerra del Sinai del 1956 [l’aggressione di Fancia, Gran Bretagna ed Israele contro l’Egitto in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez, ndt.] sono sfuggiti alle nostre coscienze come se non fossero mai accaduti, nonostante i fatti documentati.

Secondo un rapporto del capo dell’UNRWA [agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] consegnato alle Nazioni Unite nel gennaio 1957, il 3 novembre [1956], durante la conquista di Khan Yunis (e nel corso di un’operazione volta a requisire armi e a radunare centinaia di uomini per scoprire soldati egiziani e combattenti palestinesi) i soldati israeliani uccisero 275 palestinesi – 140 rifugiati e 135 abitanti del luogo. Il 12 novembre (dopo la fine degli scontri) i soldati israeliani a Rafah uccisero 103 rifugiati, sette abitanti del luogo ed un egiziano.

I ricordi dei sopravvissuti sono stati documentati in una grafic novel dal giornalista e ricercatore Joe Sacco: corpi disseminati nelle strade, gente messa contro un muro ed uccisa, persone in fuga con le mani alzate mentre i soldati dietro di loro puntavano li tenevano sotto tiro con i fucili, teste che esplodevano. Nel 1982 il giornalista Mark Gefen, del quotidiano in ebraico ormai chiuso Al Hamishmar, ricordò il suo servizio militare nel 1956, comprese quelle teste colpite e quei corpi disseminati a Khan Yunis (Haaretz edizione in ebraico, 5 febbraio 2010).

Pochi mesi dopo l’occupazione della Striscia di Gaza nel 1967, il ricercatore indipendente Yizhar Be’er scrisse: “Abbiamo fatto passi concreti per sfoltire la popolazione di Gaza. Nel febbraio 1968 il primo ministro [israeliano] Levi Eshkol ha deciso di nominare Ada Sereni a capo del progetto di emigrazione. Il suo compito consiste nel reperire Paesi di destinazione ed incoraggiare la gente ad andarvi, senza che fosse evidente il coinvolgimento del governo israeliano.”

“Sereni è stata scelta per l’incarico per i suoi rapporti con l’Italia e la sua esperienza nell’organizzare la ha’ apala dei sopravvissuti all’Olocausto dopo la seconda guerra mondiale”, ha aggiunto, usando il termine che si riferiva all’immigrazione clandestina verso il futuro Stato di Israele durante il mandato britannico.

“In uno dei loro incontri, Eshkol ha chiesto preoccupato a Sereni: "Quanti arabi hai già mandato via?’“, scrisse Be’er. Sereni disse ad Eshkol che vi erano 40.000 famiglie di rifugiati a Gaza. “‘Se voi stanziate 1.000 sterline per ogni famiglia sarà possibile risolvere il problema. Siete d’accordo a risolvere il problema di Gaza con quattro milioni di sterline?’ chiese lei, e si rispose da sola: ‘Secondo me è un prezzo molto ragionevole’” (sito web “Parot Kedoshot”, 26 giugno 2017).

Nel 1991 Israele iniziò ad imprigionare di fatto tutti gli abitanti di Gaza. Nel settembre 2007 il governo di Ehud Olmert decise un blocco totale, che includeva limitazioni all’importazione di alimenti e materie prime e il divieto di esportazione.

I funzionari dell’ufficio del Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori [ente israeliano che governa nei territori occupati, ndt.], coadiuvati dal ministero della Sanità, calcolarono la quantità di calorie quotidiane necessarie perché i prigionieri del più grande carcere al mondo non raggiungessero la linea rossa della malnutrizione. I carcerieri – cioè i funzionari pubblici e gli ufficiali dell’esercito – consideravano le proprie azioni come un gesto umanitario.

Negli attacchi a Gaza a partire dal 2008, i criteri israeliani per uccidere in modo lecito e proporzionato in base ai principi etici ebraici divennero più chiari. Un combattente della Jihad islamica che stesse dormendo è un obiettivo ammissibile. Le famiglie dei militanti di Hamas, compresi i bambini, meritavano anch’esse di essere uccise. Lo stesso valeva per i loro vicini. E anche per chiunque facesse bollire l’acqua su un fuoco all’aperto. E per chiunque suonasse nell’orchestra della polizia.

In altri termini, gli israeliani hanno gradualmente intrapreso un processo di immunizzazione dai riferimenti storici. Perciò non meraviglia il fatto che possano sinceramente giustificare il fuoco omicida su dimostranti disarmati e che i genitori siano orgogliosi dei loro figli soldati che hanno sparato alla schiena su manifestanti in fuga.

(Traduzione di Cristiana Cavagna pubblicata originariamente su zeitun.info)


Il territorio della Palestina (che non era stata ancora colonizzata dalla Gran Bretagna ma era ancora parte dell'impero ottomano) al nuovo bellicoso stato di Israele, fu concesso grazie all'illegittimo accordo Balfour del 1917. Quel regalo di roba altrui fu il prezzo che Gran Bretagna, Francia e Germania pagarono ai magnati di Wall Street per ottenere che gli Usa partecipassero alla guerra contro la Russia. Si può affermare che da quell'episodio nacquero due eventi che insanguinano ancora il mondo: l'aggressione a parte di Israele ai palestinesi e il conflitto mondiale tra civiltà giudaico-cristiana e civiltà islamica.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Sbilanciamoci,

Quanto costano i respingimenti dei migranti? In 15 anni almeno 17 miliardi. Mentre droni e satelliti militari drenano risorse per l’innovazione civile. Lo scopo: la forza lavoro deve filtrare attraverso le frontiere in condizioni di bisogno e precarietà. E la difesa comune europea (PeSco) darà impulso ad un ulteriore riarmo bellico.

A Bruxelles, e tra i governi liberali e conservatori da Parigi a Berlino, va di moda attaccare chi parla esplicitamente di muri e esibisce la propria forza. Nel frattempo l’Europa, che è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, avvia un grande piano di investimenti nel settore bellico e finanzia la Turchia, che ha appena costruito un muro lungo il suo confine con la Siria per difendersi meglio dai profughi che contribuisce a creare. Oltre ai 3 miliardi appena consegnati dall’Europa a Erdogan al fine di esternalizzare le frontiere e rendere invisibile[1 ]la violenza necessaria a tal scopo, l’Europa finanzia anche le tecnologie e le armi di cui la Turchia ha bisogno per i suoi obiettivi di potenza regionale.

L’attuale gestione delle frontiere interne ed esterne, rispondendo al paradigma neoliberale del migration management, necessita di un forte dispiegamento di risorse in quello che potrebbe esser definito il “business della xenofobia” fatto di droni, satelliti, videocamere, recinzioni, filo spinato e agenzie di sorveglianza. Secondo il report Money Trails, in quindici anni sono stati spesi 11,3 miliardi di euro per deportare i migranti nei paesi d’origine, circa 1 miliardo per le agenzie europee come Frontex e Eurosur, 230 milioni nella ricerca e 77 milioni per le fortificazioni. La forza lavoro deve filtrare attraverso le frontiere e, affinché chi riesce a superarle sia in condizioni di bisogno e precarietà, il loro attraversamento va reso difficile e rischioso. Nella fortezza Europa, allo stesso scopo si spendono più risorse per il respingimento che per l’accoglienza. Le migrazioni, oltre che scaturire dalle dinamiche dell’economia globalizzata, dipendono dal collasso dell’ordine internazionale, scosso da guerre, dittature, crisi climatiche e crescenti disuguaglianze.

Davanti all’insicurezza globale del neoliberismo, l’Unione Europea per affrontare questi “fattori di instabilità”, nel 2016 ha deciso di adottare una nuova politica estera, la UE Global Strategy (EUGS), al cui interno spicca il progetto di costruire una difesa comune europea. Nonostante l’analisi retrostante la strategia lasciasse spazio ad alcune positive possibilità politiche, di fatto l’Unione Europea riproduce il paradigma “realista” della difesa, costituendo un modello militaresco e nazionalista che replica i tradizionali meccanismi statali di potenza su scala più ampia.

Primo passo in tal senso è PeSCo (Permanent Structured Cooperation), l’iniziativa di cooperazione rafforzata approvata da 25 paesi membri nel dicembre 2017 all’interno del Consiglio Europeo. Coerentemente con la sostituzione della sicurezza sociale con la sicurezza poliziesca e militare, PeSCo, nei documenti di presentazione, è spacciata come la risposta alla crescente domanda di sicurezza. Oltre all’autonomizzazione della politica di difesa rispetto agli umori di Trump e dopo Brexit, tra gli obiettivi di PeSCo c’è il risparmio ottenibile con la cooperazione tra forze militari di diversi paesi e la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, valutato tra i 25 e 100 miliardi di euro. Allo stesso tempo, però, nell’ultimo anno la spesa è aumentata del 3,7%, e con PeSCo si stabilisce che ogni paese debba incrementare ulteriormente la spesa bellica, come indicato dalla NATO e da Trump. In realtà, con la scusa del risparmio, si finirà per spendere di più.

PeSCo e il Fondo Europeo per la Difesa: politica industriale, profitti e lobby
Mentre l’anemica crescita europea continua a ricordarci che l’austerity ci ha fatto perdere irrimediabilmente un decennio, dal 2020 dovrebbero esser spesi 5,5 miliardi di fondi europei e nazionali l’anno per acquisti di armi e nella ricerca bellica. Con PeSCo, i paesi dell’Unione si sono detti pronti a collaborare prevalentemente in tre ambiti: gli investimenti nella difesa, lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione all’intervento congiunto nelle operazioni militari.

A tal fine, PeSCo si è dotata due strumenti: la Revisione coordinata annuale della Difesa (CARD), che serve a monitorare e valutare l’efficienza delle spese militari nazionali, e il Fondo Europeo per la Difesa, che dovrebbe promuovere investimenti nella ricerca e nella produzione bellica. Il Fondo Europeo per la Difesa sarà dedicato alla ricerca, con il Preparatory Action on Defence Research (PADR) e alla razionalizzazione della spesa e allo sviluppo di nuove tecnologie, con il Programma Europeo di Sviluppo Industriale nel settore della Difesa (EDIDP, European Defence Industrial Development Plan).

La prima riunione dei ministri della Difesa in formato PeSCo sulla programmazione dei progetti futuri è avvenuta il 6 marzo di quest’anno[2], ma l’ultimo atto del processo verso la difesa comune è stata l’approvazione del Parlamento Europeo del Regolamento dell’EDIDP. Contro hanno votato la sinistra radicale europea e i verdi, con l’ astensione della vicepresidente della commissione competente – la ITRE, Industry, Research and Energy – Patrizia Toia dei Socialisti e Democratici europei. Ma anche se nell’Europarlamento alcune forze politiche provano a bloccare e far divergere il progetto bellico europeo, la lobby industriale militare, nella stessa istituzione, può comunque contare su un ottimo referente. Infatti, l’anno scorso, l’elezione a presidente dell’Europarlamento di Antonio Tajani, già Commissario Europeo all’Industria assai gradito al mondo imprenditoriale e militare, ha contribuito a rilanciare il progetto di difesa europeo[3]. Del resto poi le imprese non necessitano più di tanto di queste entrature, perché possono direttamente influenzare le decisioni di investimento all’interno dei Group of Personalities, consessi ove, oltre a militari, politici e ricercatori, trovano spazio varie imprese belliche europee, come Thales, Airbus e Leonardo (ex Finmeccanica) [4].

Lo stesso sistema – per lo più con le stesse aziende – funziona anche nell’industria del controllo delle frontiere e dei respingimenti dei migranti, cuore [5] del regime delle frontiere europeo. Governi, funzionari e imprese del settore – aiutati dai media – alimentano la psicosi dell’invasione individuando come priorità politica l’espulsione dei migranti e la difesa dei confini. Di fatto, in assenza di una politica industriale europea,l’industria militare e della sicurezza crea la propria domanda e si garantisce i propri flussi di finanziamento: il Fondo europeo per la Difesa sembra esser una declinazione dello stato innovatore di Mariana Mazzucato circoscritto alla sola industria bellica e della sicurezza. E, come se non bastasse, i diritti intellettuali di proprietà resteranno alle aziende coinvolte. Nonostante il finanziamento della spesa per ricerca e sviluppo ricada sulle tasche dei cittadini europei.

Anche la base normativa suggerisce la direzione del progetto PeSCo. Infatti, dato che l’articolo 41 del TUE vieta di usare fondi europei per la sicurezza e il settore militare, PeSCo si fonda, oltre che sugli articoli 42 e 46 del TUE, sull’articolo 173 TFUE sulla competitività dell’industria. Infine, mentre le attuali regole fiscali europee prevedono che gli investimenti pubblici siano conteggiati nel deficit, l’unica deroga che le istituzioni comunitarie sembrano disposte a fornire è sul piano dell’industria militare, con lo scorporo dal disavanzo della spesa pubblica (la c.d. golden rule) per la difesa.

Insomma, ciò che è assolutamente vietato per gli investimenti volti a favorire il benessere della popolazione residente in Europa, vale per rilanciare i profitti di pochi e per aumentare l’insicurezza e la violenza globale (si pensi, da ultimo, alla vendita di armi italiane all’Arabia Saudita usate per compiere stragi in Yemen).

Spesa militare, stato europeo e democrazia

“L’obiettivo è di trasformare la collaborazione politico-militare in un volano economico-industriale” scrivono Beda Romano e Carlo Marroni sul Sole 24 Ore [6]. Per quanto Macron tenti di inserire la difesa comune nel rilancio dello spirito europeista, è difficile negare che i passi verso uno stato europeo, dotato oltre che di una moneta comune di un esercito, sono indirizzati anzitutto verso il potenziamento del complesso industriale-militare e degli attuali equilibri di potere. Altrettanto difficile è che PeSCo possa effettivamente permettere di raggiungere una maggiore integrazione dell’Unione Europea.

In effetti, per come PeSCo è strutturata – secondo l’IMI (Informationsstelle Militarisierung centre), centro studi vicino al partito Die Linke – a rafforzarsi saranno i paesi che già dominano la politica dell’Unione. L’obiettivo è un altro: rilanciare la spesa militare. Spesa che, oltre a distorcere il cambiamento tecnologico, sottrae risorse alla spesa pubblica orientata sui bisogni della società e alimenta la corsa agli armamenti favorendo l’instabilità internazionale. Come è facile immaginare, questo tipo di spesa genera distruzioni, devastazioni e inquinamento – a cui bisogna poi far fronte sostenendo notevoli costi di soccorso e di ricostruzione.

Da un punto di vista economico, per Roland Kulke della Rosa Luxemburg Stiftung, l’iniziativa non è spiegabile neanche con il consueto ricorso al keynesismo militare. Infatti, il moltiplicatore della spesa militare è più basso di quello per servizi pubblici come trasporti, sanità o educazione. Inoltre, in assenza di una coerente politica estera comune, e di una riforma della governance europea che ne colmi le lacune, un esercito europeo potrebbe diventare un pericolo: “La distinzione più importante tra un esercito e una banda di ladri è che un esercito è controllato politicamente”, scrivono gli attivisti Bram Vranken (Vredesactie) e Laëtitia Sédou (European Network Against Arms Trade) [7].

È probabile che il prossimo bilancio europeo per il periodo 2021-2027 salga almeno all’1,2% del PIL dall’1% attuale (circa 1.000 miliardi). Invece di istituire un modello di sicurezza improntato alla human security, fondato su giustizia sociale e mediazione politica, e di finanziare la transizione dall’attuale, insostenibile, sistema ad un’economia più giusta [8], molte delle risorse del budget europeo andranno a nutrire il complesso militare industriale, celando il trasferimento di ricchezza pubblica con la retorica dell’integrazione europea. Contro l’attuale configurazione neoliberale europea e la sua finta alternativa nazionalista e xenofoba, la battaglia contro la militarizzazione della sicurezza e dei confini e per la riconversione della produzione di armi ad attività civili[9] diventa quindi un terreno cruciale per costruire un’Europa diversa.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire, 5 aprile 2018.

«Acquisito il rapporto choc di Guterres. Nel mirino la Guardia costiera di Tripoli. Monitorati salvataggi e condizioni nei centri. Nei mesi scorsi gli accordi con l’Italia per contenere i flussi »
E' un’indagine a vasto raggio quella che la Procura internazionale dell’Aja sta conducendo sui crimini contro l’umanità commessi in Libia.Un’inchiesta monstre che l’Ufficio del Procuratore svolge da mesi «in collaborazione con una serie di Stati, organizzazioni internazionali e regionali e altri partner nella raccolta e analisi di informazioni e prove relative a presunti crimini contro i migranti in Libia».

Fonti dell’Aja lo hanno confermato ad Avvenire. Un team di investigatori sta «analizzando» una serie di segnalazioni circostanziate. L’ultima delle quali è arrivata da Antonio Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite che nel report consegnato al Consiglio di sicurezza dell’Onu e divulgato da Avvenire nei giorni scorsi, accusa di violazioni dei diritti umani anche la Guardia costiera libica. Un Paese, la Libia, con cui l’Italia ha stretto accordi, vale la pena ricordarlo, proprio con l’obiettivo di contenere i flussi migratori. Nel dossier Guterres scrive che la missione internazionale su mandato Onu (Unsimil) ha continuato a documentare «la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/o intercettazioni in mare».

Alla domanda se le denunce del segretario generale siano state acquisite nell'indagine aperta sulla Libia, dall’Aja rispondono senza mezzi termini: «Sì». Aggiungendo che «i presunti crimini contro i migranti sono una questione seria che continua a riguardare il procuratore ». Crimini commessi da una varietà di soggetti sul campo: trafficanti, milizie, autorità locali.

La Libia non ha aderito alle convenzioni per la giurisdizione internazionale dell’Aja, ma la Corte penale può intervenire anche a carico di Paesi non membri se a richiederlo, come in questo caso, è il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che nel febbraio 2011 incaricò la magistratura dell’Aja a investigare. A novembre arrivarono i primi mandati di cattura per l’allora colonnello Gheddafi e gran parte dei suoi fedelissimi. L’indagine è guidata dal procuratore Fatou Bensouda il cui «Ufficio riceve informazioni da una varietà di fonti sulla situazione in Libia – ribadiscono dalla procura dell’Aja– comprese le relazioni del Segretario Generale sulla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil)».

L’inchiesta, ancora nella fase preliminare e dunque senza alcun mandato di cattura né indagati, procede anche nell’analisi delle effettive modalità operative delle motovedette e come i militari di Tripoli si rapportino con le forze navali dell’Unione Europea. I funzionari del Palazzo di Vetro nel loro rapporto ricevuto da Bensouda «hanno anche documentato l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale». Già nel maggio 2017 la procuratrice intervenendo al Palazzo di Vetro per aggiornare sull’andamento del dossier Libia disse che «secondo fonti credibili, gli stupri, gli omicidi e gli atti di tortura sarebbero all’ordine del giorno e sono rimasta scioccata da queste informazioni che assicurano che la Libia è diventato un mercato per la tratta di esseri umani».

All’Aja procederanno per gradi. «Come facciamo con tutte queste informazioni – spiegano dalla procura internazionale – analizzeremo i materiali, a seconda dei casi, in conformità con lo Statuto di Roma con piena indipendenza e imparzialità». Tra gli episodi documentati e citati da Guterres vi è quello avvenuto il 6 novembre 2017 in acque internazionali, quando «i membri della Guardia Costiera hanno picchiato i migranti con una corda e hanno puntato le armi da fuoco nella loro direzione durante un’operazione in mare».

Anche a terra gli uffici che afferiscono al governo riconosciuto dall’Onu non si distinguono per le buone maniere. «L’Unsmil ha visitato quattro centri di detenzione supervisionati dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale – ricorda Guterres – e ha osservato un grave sovraffollamento e condizioni igieniche spaventose ». I prigionieri «erano malnutriti e avevano limitato o nessun accesso alle cure mediche».

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile. Vi potrete trovare altre interessanti informazioni sull’inumanità del trattamento dei profughi da parte dei complici libici del Belpaese

il manifesto, 4 aprile 2018.

Come sarà l’Italia in mano a partiti razzisti? Cominciamo a chiedercelo. Combattere la solidarietà verso profughi e «stranieri» non la rafforza tra i «nativi», ma distrugge anche quella: promuove sospetto, invidia, insensibilità per le sofferenze altrui, crudeltà. E affida «pieni poteri» a chi governa: non solo per reprimere e tener lontane le persone sgradite, ma anche per giudicare sgradite tutte quelle che non obbediscono. La società che respinge e perseguita gli stranieri non può che essere autoritaria, intollerante, violenta.

La storia del secolo scorso ci ha insegnato che questo è un piano inclinato da cui è sempre più difficile risalire. Ma che risultati possono raggiungere i governi impegnati a fare «piazza pulita» di profughi e migranti? Nessuno. La pressione dei profughi sull’Europa continuerà, perché continueranno a peggiorare le condizioni ambientali dei paesi da cui centinaia di migliaia di esseri umani sono costretti a fuggire a causa del saccheggio delle loro risorse e dei cambiamenti climatici che colpiscono soprattutto i loro territori. Quel degrado ambientale è anche la causa principale delle guerre che creano ulteriori «flussi» di profughi: quando le risorse disponibili si riducono, la lotta per accaparrarsele si fa più feroce.

«Aiutiamoli a casa loro» non vuol dire niente: chi mai li dovrebbe aiutare? Le multinazionali che saccheggiano le loro risorse? I tiranni e i governi corrotti che si appropriano di quel che resta? Le popolazioni locali che non hanno la forza per scrollarsi di dosso quei gioghi? Nessuno di loro, ovviamente; solo la volontà di far ritorno nel proprio paese può rendere coloro che ne sono dovuti fuggire i «catalizzatori» di una rigenerazione sociale e ambientale delle terre dove sono rimaste le loro comunità d’origine.

A condizione che profughi e migranti siano accolti bene; messi in condizione di collegarsi tra loro, di organizzarsi, di consolidare legami con cittadini e cittadine europee, di mettere a punto e far valere insieme a loro programmi di pacificazione dei rispettivi paesi e di contenimento e di inversione del loro degrado.

Niente di tutto ciò è prospettato o perseguito da chi ha ripetuto fino alla nausea «aiutiamoli a casa loro»; e meno che mai verrà fatto da chi ha fatto campagna elettorale promettendo di cacciare i «clandestini» dall’Italia. Quella politica, che abbiamo già vista all’opera con il ministro Minniti, non ha fermato gli sbarchi né li fermerà. Perché, anche se tutte le navi delle Ong solidali e delle marine europee venissero messe nell’impossibilità di operare, l’obbligo di salvare chi è in pericolo in mare resterà in capo ai mercantili in transito, come accadeva prima del programma Mare Nostrum; e il porto di sbarco non potrà che essere in Italia. In compenso ci sono stati e ci saranno sempre più morti, sia in mare che nel deserto; che resteranno per sempre sulla coscienza di chi non fa niente per cercare di garantire ai vivi una via di transito sicura verso l’Europa.

Ma soprattutto ci saranno sempre più violenze, torture, ricatti, estorsioni, schiavismo, sia in Libia che in tutti i paesi in cui si sta cercando o si cercherà di bloccare il transito dei profughi. Respingere i profughi significa renderli schiavi e schiave di bande locali o spingerli a farsi reclutare nelle loro armate; il che moltiplicherà i conflitti e renderà tutti i territori dell’Africa e del Medio Oriente infrequentabili per gli europei, sia turisti che tecnici o uomini d’affari. Il modo più sicuro per strangolare sia l’economia europea che le loro.

Ma che sarà, poi, di coloro che sono già in Italia, o in Europa, come «clandestini»? Espellerli tutti è impossibile: costerebbe troppo e chi continua a prometterlo lo sa benissimo.

D’altronde, nessun governo dei paesi di provenienza è disposto ad accoglierli e anche quelli che firmano accordi in tal senso (in cambio molto denaro) non li rispetteranno: quei rimpatriati a forza creerebbero solo problemi. Quei respingimenti li si può fare, o far fare, solo verso la Libia o verso paesi ridotti nello stesso stato: campi di prigionia e tortura a disposizione di un’Europa trasformata in fortezza.

Per questo i migranti «irregolari» resteranno qui, condannati a una clandestinità permanente, che significa costringere centinaia di migliaia di uomini e donne a delinquere, prostituirsi, farsi reclutare dalla criminalità organizzata di casa in molti ambienti politici (soprattutto quelli che più strillano contro il loro arrivo) e anche tra non pochi addetti all’ordine pubblico. È questo, e non l’arrivo di nuovi profughi, a creare quello stato di insicurezza che i nemici dell’accoglienza e della solidarietà dicono di combattere. Essere sempre più feroci con i profughi non fa che peggiorare la situazione; il che fa molto comodo a quei governi europei che già contano di usare l’Italia come discarica dei migranti che non vogliono accogliere, come noi stiamo usando la Libia.

Ma in Europa ci sono già decine di milioni di immigrati, recenti e no, molti anche già «naturalizzati», cioè cittadini e cittadine europee, che da ogni nuova manifestazione di razzismo, o anche di semplice «rifiuto» dello straniero, sono indotti a viversi sempre più come un «corpo estraneo» nella società; e a covare quello spirito di rivalsa che porta alcuni a voler vendicare in qualsiasi modo le sofferenze inflitte ai loro connazionali o correligionari.

Non è un caso che foreign fighters e terroristi vengano quasi tutti da comunità già insediate in Europa. Per fermarli non basta la polizia; non si possono controllare tutti. Bisogna prevenire; e lo si può fare solo con più rispetto sia per loro che per i loro connazionali in cerca di una vita nuova in Europa.

I partiti che hanno governato e quelli che governeranno nei prossimi anni sono chiusi a questo ascolto. Né bastano i sermoni per aprirgliele. È dalla pratica attiva della solidarietà che nasce un nuovo modo di vivere. Ed è da una rete di tutti coloro che si impegnano in questo campo che può nascere un’alternativa reale - sociale, politica e culturale - al disastro in cui ci ha trascinato la politica attuale.

Tratto da Il Manifesto, qui raggiungibile.

Internazionale, democrazia repressiva o fascismo democratico»

La storia è andata in mille pezzi, ma continuiamo a parlarne come se tutto andasse bene. Continuiamo a parlare della diffusione della democrazia in occidente, del progresso della modernità, della libertà americana, dell’ospitalità francese, della solidarietà del nord nei confronti del sud. Democrazia di merda. Modernità di merda. Libertà di merda. Ospitalità di merda.

La storia è in frantumi: l’identità nazionale, l’ordine sociale, la sicurezza, la famiglia eterosessuale e la frontiera costituiscono la realtà che l’Europa sta costruendo. Non succede da un’altra parte, non arriva da lontano, non riguarda gli altri. È quello che facciamo qui, ora, dentro le frontiere, riguarda noi.

La storia è stata distrutta e il terrore è tornato in superficie. Attorno a noi ci sono le condizioni istituzionali che permettono l’affermazione di quella che potremmo chiamare democrazia repressiva o fascismo democratico.

Dal fascismo al libero mercato

In Polonia gli ultranazionalisti sfilano a migliaia per chiedere la rifondazione di un’Europa cattolica, celebrando la giornata dell’indipendenza. In Italia l’estrema destra arriva al potere attraverso un’elezione democratica. E intanto, ovunque, il neoliberismo agisce come un bulldozer sociale, aprendo la strada e accelerando lo smantellamento istituzionale. Nei paesi che hanno superato i regimi totalitari a metà degli anni settanta – Spagna, Grecia, Portogallo – il processo è ancora più semplice, più diretto, perché questi paesi non sono passati dal fascismo alla democrazia, ma dal fascismo al libero mercato.

In Grecia, la madre e l’avvocato di Pavlos Fyssas, rapper assassinato dai neonazisti di Alba dorata, sono il bersaglio di attacchi verbali e fisici senza che né la polizia né la magistratura intervengano per proteggerli. In Spagna Jordi Sánchez, Jordi Cuixart, Quim Forn e Oriol Junqueras sono in prigione, accusati di indipendentismo secessionista e ribellione. Decine di persone sono accusate di difendere idee politiche contrarie alla corona spagnola. Il 21 febbraio l’inaugurazione di Arco, la fiera d’arte di Madrid, è stata segnata dal sequestro di numerose foto dell’artista Santiago Sierra, che aveva presentato i ritratti di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart definendoli “prigionieri politici”. Il muro che era stato riservato alle fotografie nella galleria Helga de Alvear a Madrid è rimasto vuoto.

La storia viene distrutta. Ma non smettiamo di ripetere che tutto va bene. Mentre i ritratti di Sierra vengono messi da parte, nella vostra Spagna ignorata e vicina, i dodici rapper del collettivo La Insurgencia sono stati condannati a due anni di carcere per “incitazione al terrorismo”.

Il cuore del mondo occidentale è rotto. Ma abbiamo deciso di continuare a vantarci dei nostri successi

“Sono un romantico della lotta armata, amico, te lo dico, per me è rivoluzione o niente”. “Ho il diritto alla ribellione, me ne fotto se non è legale. Questa costituzione non lo prevede. Che il tribunale mi processi e mi chiuda in carcere, come farebbe l’inquisizione, come se fossi un eretico. Resistere significa vincere, l’ho imparato dal Partito comunista spagnolo”. Sono queste le parole che secondo l’ufficio del procuratore generale meritano la condanna al carcere. Poco dopo, il rapper Valtònyc è stato condannato a due anni e sei mesi di prigione per vilipendio della corona spagnola e incitamento al terrorismo.

Il cuore del mondo occidentale è rotto. Secoli di espulsioni, epurazioni e stermini delle minoranze ebree e musulmane, delle minoranze sessuali, somatiche, operaie. Secoli di umiliazione e saccheggio, di espropriazioni e oltraggi hanno distrutto il cuore dell’occidente. Ma abbiamo deciso di continuare a pavoneggiarci e vantarci dei nostri successi. Il desiderio di consumo, la paura, la frustrazione e l’odio sono i sentimenti che guidano chi governa le popolazioni del nostro amato occidente.

Il linguaggio spezzato

Da dove viene la nostra frustrazione? Dalla nostra avidità? Cosa odiamo quando odiamo “l’altro”, se non una nostra invenzione? Suely Rolnik, psicoterapeuta e collaboratrice brasiliana di Félix Guattari, sostiene che “capitalismo coloniale” è il nome della patologia collettiva contemporanea. Il nostro inconscio è malato di capitale, malato di sfruttamento razziale e sessuale. Malato d’identità. Le catene collettive del linguaggio sono state spezzate. Ma abbiamo deciso di continuare a produrre discorsi su noi stessi come se il problema fosse la soluzione.

Il pianeta Terra è a pezzi. La biosfera sta morendo. Ma ci vuole più disciplina a scuola, il servizio militare obbligatorio dev’essere reintrodotto per gestire la coesione sociale e abbiamo bisogno di più armi. La violenza di genere e l’aggressione sessuale si regolano criminalizzando gli aggressori, costruendo nuove prigioni e allungando le condanne. E noi abbiamo deciso di continuare a produrre quella che chiamiamo ricchezza, come se tutto andasse bene. Ogni giorno apriamo nuove miniere dove fino a ieri avevamo cercato di proteggere il territorio. La ricchezza è il capitale morto. Il capitale morto è la ruggine che corrode la vita. Ci siamo rifiutati di parlare con i nostri avi morti. È il nostro ultimo millennio. Parleremo alle macchine, i nostri unici figli. Chissà come la nostra progenie meccanica racconterà la fine della nostra storia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Avvenire,

«I ragazzini arrivano a frotte al campo sul fiume Roja e spesso tentano di passare il confine. Sono i più vulnerabili, come le donne che spesso finiscono nei gironi della tratta»

Guardie e ladri a Ventimiglia. Con i gendarmi francesi che respingono minorenni stranieri soli che dovrebbero proteggere. In barba alle convenzioni internazionali e a due sentenze della magistratura transalpina che hanno condannato a gennaio e a febbraio i ' Refus d’entrée', i documenti di espulsione illegali che sbattono le porte in faccia ai ragazzini che provano a passare il confine. Questi non vogliono neppure rimanere in Francia, ma raggiungere i parenti nell’Eldorado Germania, in Scandinavia o in Gran Bretagna. E intanto in questa terra di transito parte l’allarme tratta. Sotto il ponte sulle rive del Roja, di fronte alla chiesa delle Gianchette – dove per due anni sono state accolte dalla Caritas diocesana centinaia di persone, soprattutto vulnerabili – da tre mesi arrivano in misura maggiore donne eritree predate dai passeur, i passatori, per indurle a prostituirsi in Francia.

A tre anni dall’inizio dell’emergenza migranti, la situazione resta complicata anche se i numeri sono calati. Nel campo gestito dalla Croce Rossa si oscilla da 200 a 280 ospiti, molti stabili perché dopo diversi respingimenti hanno chiesto asilo rassegnati. E nell’accampamento abusivo sul Roja dormono almeno 200 persone. Nel centro della Caritas Intemelia, diocesi di Sanremo, si contano le persone di passaggio ogni mattina quando gli 80 volontari a turno distribuiscono pasti ed effettuano visite mediche. «Il tasso di ricambio è alto – spiega il direttore della Caritas diocesana, Maurizio Marmo – segno che molta gente in transito da Ventimiglia riesce a passare. Al centro abbiamo visto in due mesi 1.054 persone. Le donne, che fino a dicembre erano pochissime, a fine febbraio erano salite a 150, il 12% circa. E un quarto dei migranti è un minore non accompagnato. Il 65% degli adulti e under 18 sono eritrei, contro il 20 % dei sudanesi ». Tre ragazzine 16enni in viaggio da sole caricano i cellulari. Due sono eritree, una libica berbera. I libici con la pelle scura sono i nuovi arrivi. Erano fedelissimi di Gheddafi non hanno futuro. Sono appena sbarcate in Sicilia, fuggite dalla comunità per arrivare a Ventimiglia. Ignorano i rischi che corrono.

«Ogni giorno incontriamo ragazzi come loro, girano in gruppo, provano a passare in Francia e vengono respinti – raccontano Chiara Romagno, responsabile dell’intervento di Oxfam Italia con Simone Alterisio,operatore della Diaconia Valdese –. Stanno soprattutto in tende sotto il ponte del Roja perché diffidano della polizia che presidia il campo di transito. Ci sono madri con figli molto piccoli. Ogni giorno distribuiamo coperte, scarpe, cappelli per affrontare il freddo della notte».

Come le altre Ong, l’unità identifica i casi di abuso verso i più vulnerabili fornendo assistenza legale. Tutte le organizzazioni a Ventimiglia denunciano l’illegalità dei respingimenti francesi. Un minore secondo le convenzioni internazionali e la normativa di Schengen va preso in carico dallo Stato dove si trova. Ma spesso l’aiuto è discrezionale, anche per gli adulti. «Ventimiglia è un tappo – spiega Romagno – vi arrivano persone che sono state mesi in centri di accoglienza a far nulla. O i “dublinanti”, passati da qui due anni fa e rispediti qui da tedeschi o francesi perché devono stare nel Paese di approdo. Capita che questi richiedenti asilo vengano a loro volta espulsi dall’Italia perché sono stati interrogati senza interprete e alla domanda se volevano restare qui hanno risposto di no». Quanto ai minori, una rete di legali italiani e francesi supportata dalle Ong e dalle Caritas delle due parti del confine ha monitorato in alcuni fine settimana l’operato delle polizie. Ha presentato due ricorsi in Francia e ha vinto. Cosa è cambiato?

«Nulla. I gendarmi – spiega Alessio Fasulo, coordinatore dell’unità mobile di Save the Children – aggirano la sentenza falsificando l’età e scrivendo sul provvedimento d’espulsione che sono maggiorenni. Così li consegnano alla polizia italiana che deve fare accertamenti. Nel frattempo il ragazzo ritenta per non perdere tempo e sparisce. Altri minori mal consigliati dichiarano di essere maggiorenni anche se sono visibilmente 15-16enni». E i francesi li prendono in parola. Tommy, 16 enne eritreo, maglietta nera, cappello da baseball e una faccia da bambino era riuscito a passare e ad entrare in una comunità protetta come prevede la legge in attesa di ricongiungimento con due fratelli in Germania. I gendarmi lo hanno trovato alla stazione di Nizza senza documenti, lui non parla francese né inglese e lo hanno riconsegnato agli italiani dicendo che era maggiorenne. È partito da casa quasi un anno fa, è stato in Libia dove è stato picchiato dai carcerieri, ha attraversato il mare. E ora deve beffare i francesi a guardie e ladri nonostante la legge sia dalla sua e potrebbe chiedere anche all’Italia di portarlo in Germania in 9 mesi. Ma lui ha fretta per ascoltare.

Ce ne sono tanti come lui nell’accampamento sul Roja. Le Ong vi entrano abitualmente, poi ci sono i “solidali”, gli ex no border che portano cibo da Francia e Germania. Fuori presidia la polizia che mercoledì ha sedato una rissa. Nelle tende dormono diverse famiglie con bambini piccoli. Non vogliono andare nel campo organizzato perché gli eritrei diffidano delle divise, temono di essere arrestati e ricondotti nel Mezzogiorno. Quasi tutti provengono dagli sbarchi di febbraio e marzo, quasi tutti hanno pagato un trafficante eritreo che vive il Libia di nome Absalam. «I 'passatori' qui vendono passaggi da 50 fino a 150 euro – spiega Daniela Zitarosa di Intersos, organizzazione che ha da poco pubblicato il rapporto “I minori stranieri non accompagnati lungo il confine Nord italiano” – e un trasporto in taxi o camion. Capita che incassino i soldi e li lascino a Genova o a Milano. Spesso non sanno neppure dove si trova Ventimiglia, per loro è una tappa». È il problema anche delle donne. Di là dal fiume, nascoste dagli alberi in alcune baracche di legno, dormono ragazze eritree. «Con il blocco delle coste libiche – prosegue – hanno patito di tutto nei centri di detenzione. Devono raggiungere la Francia a ogni costo e non hanno soldi. Qui restano pochissimo, a volte accettano di prostituirsi oltre confine per pagarsi il viaggio». Ma non c’è un posto, dicono le Ong, per parlare con loro e i minori e aiutarle. Forse hanno tutti troppa fretta. Loro di andarsene, Francia e Italia di disfarsi del problema.

Huffington post,

«Proseguono le violenze ancora feriti. Parole di fuoco fra Erdogan e Netanyahu. "Terrorista e occupante" ... "Non accettiamo lezioni da chi bombarda i civili»"
La tensione a Gaza resta altissima e si continua a sparare. Israele continua a mostrare i muscoli anche dinanzi alla comunità internazionale e, grazie alla sponda di Washington, esclude che verrà avviata quella indagine "indipendente e trasparente" invocata dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres e anche dal rappresentante dell'Ue per la politica estera Federica Mogherini, per accertare quanto realmente accaduto in occasione dei fatti di sangue di venerdì costati la vita ad almeno 16 palestinesi, con oltre 2 mila feriti.

Al confine fra Israele e Striscia di Gaza nelle ultime ore tre palestinesi sono rimasti feriti da proiettili veri esplosi dalle forze di sicurezza israeliane. Secondo fonti mediche, citate dall'agenzia di stampa palestinese Wafa, due giovani sono stati raggiunti da spari alla gamba negli scontri vicino alla città di Jabalia, nella zona nord della Striscia; mentre un terzo giovane è stato raggiunto da spari a est di Gaza City, vicino al quartiere di al-Zaytoon. Diverse altre persone, inoltre, avrebbero riportato sintomi di soffocamento a causa dell'inalazione di gas lacrimogeni lanciati dai soldati israeliani.

A livello diplomatico, l'Onu è in pieno stallo. "Non ci sarà alcuna commissione di inchiesta" ha assicurato il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, alla radio militare, definendo "ipocriti" gli appelli per una commissione d'inchiesta. "Devono capire che non ci sarà nulla di simile". Il Kuwait, che rappresenta in Consiglio Onu i Paesi arabi, aveva proposto la dichiarazione con la richiesta di avvio di un'indagine indipendente, ma la bozza di documento esprimeva anche "grave preoccupazione per la situazione al confine" e riaffermava "il diritto alla protesta pacifica" e il dolore del Consiglio "per la perdita di vite di palestinesi innocenti". Gli Usa hanno sollevato obiezioni bloccandola.

Si mantiene saldo l'asse Trump-Netanyahu, sempre più forte dopo il riconoscimento, a dicembre scorso, di Gerusalemme come capitale di Israele e prossima sede dell'Ambasciata americana. Un trasferimento che è previsto per il 14 maggio, giorno della dichiarazione di indipendenza di Israele e data cerchiata di rosso sui calendari per il rischio che sia l'appuntamento per nuove imponenti proteste palestinesi. Il 15 maggio è invece fissato l'inizio del Ramadan, mese sacro per i musulmani, che spesso coincide con l'inasprimento degli attacchi sul fronte palestinese. Negli Usa l'ex candidato alla Casa Bianca, Bernie Sanders, parla di "reazione eccessiva" di Israele e del "diritto di ogni popolo di poter manifestare per un futuro migliore, senza subire una reazione violenta". Da Donald Trump nessuna parola, solo un segnale forte: l'Onu non può mettere occhi (e bocca) sui fatti di Gaza.

L'Autorità nazionale palestinese ha ribadito la necessità di una protezione internazionale e ha chiesto una riunione urgente della Lega araba a livello di rappresentanti permanenti per discutere di quelli che denuncia come crimini di Israele contro i palestinesi. Lo riferisce Diab al-Louh, ambasciatore palestinese al Cairo e rappresentante permanente della Palestina presso la Lega araba, spiegando che l'incontro è stato chiesto dal presidente palestinese Abu Mazen e dal ministro degli Esteri palestinese Riyad Malki a seguito della grave violazione del diritto umanitario internazionale.

Si accendono nel frattempo i toni fra Israele e Turchia. Parole di fuoco che arrivano da Ankara e rimbalzano da Gerusalemme con ancora maggior vigore. Recep Tayyip Erdogan aveva definito "un attacco disumano" la repressione israeliana delle manifestazioni palestinesi. Dopo l'elogio pubblico del lavoro svolto dall'esercito israeliano, torna a parlare Benjamin Netanyahu, replicando al presidente turco. "L'esercito più morale del mondo non accetterà lezioni da qualcuno che per anni ha bombardato indiscriminatamente popolazioni civili" ha affermato il premier israeliano. "A quanto pare, così ad Ankara celebrano il primo aprile". Israele colpisce civili innocenti, Benyamin Netanyahu "è un terrorista e un occupante", è la replica di Erdogan. "Non serve che dica al mondo quanto sia crudele l'esercito israeliano. Possiamo capire cosa fa questo Stato terrorista guardando la situazione a Gaza e a Gerusalemme", ha detto parlando al congresso del suo partito Akp nella provincia meridionale di Adana. "Hey Netanyahu! Sei un occupante. Ed è come occupante che sei su quelle terre. Al tempo stesso, sei un terrorista".

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,


Colledel Monginevro, 1.900 metri di quota, a metà strada tra Briançon eBardonecchia. È su questa linea di frontiera che oggi batte il cuore nerod’Europa. È qui che la Francia di Emmanuel Macron ha perso il suo onore, el’Europa di Junker e di Merkel la sua anima (quel poco che ne rimaneva). In unpaio di mesi, in un crescendo di arroganza e disumanità, i gendarmi francesiche sigillano il confine hanno messo in scena uno spettacolo che per crudeltàricorda altri tempi e altri luoghi.
Èappunto a Bardonecchia che si è verificata l’irruzione di cinque agenti armatidella polizia di dogana francese nei locali destinati all’accoglienza e alsostegno ai migranti gestiti dall’associazione Rainbow4Africa, per imporre conla forza a un giovane nero con regolare permesso in transito da Parigi a Romadi sottoporsi a un umiliante esame delle urine, dopo aver spadroneggiato,minacciato e umiliato i presenti.
Davantia quello stesso locale, a febbraio, ancora loro, gli agenti di dogana francesi,avevano scaricato come fosse spazzatura il corpo di Beauty, trent’anni, incintadi sette mesi e un linfoma allo stadio terminale che le impediva il respiro.Aveva i documenti in regola, lei, ma non Destiny, il marito, così l’implacabilepattuglia l’aveva fatta scendere dal pullman che da Clavier Oulx porta allaterra promessa, quella dove lo jus soli avrebbe permesso al loro figlio dinascere europeo, e incurante delle condizioni disperate l’aveva abbandonata aterra, al gelo.
Ciavevano dovuto pensare i volontari di Reinbow4Africa a portarla di corsaall’ospedale e di lì alla clinica Sant’Anna di Torino, dove un’equipe medicaeccezionale per competenza e umanità riuscirà a salvare almeno il bambino, chenascerà di 700 grammi e si chiamerà Israel.
Semprelì, il 10 di marzo, su quella frontiera maledetta, sempre loro, i maledettiflic di dogana, avevano intercettato l’auto di Benoit Ducos, guida alpina evolontario umanitario che aveva appena salvato una donna incinta di nove mesisul sentiero innevato. E avevano provveduto a incriminarlo per un reato diumanità che (nel mondo alla rovescia di questo diritto innaturale) potrebbecostargli cinque anni. È un uomo solare Benoit Ducos, ha lo sguardo chiaro delgiusto. «Ho fatto solo una cosa naturale», ha detto. Non così coloro chel’hanno perseguito, duri, brutali, sordi a ogni richiamo a una qualche sia purgenerica idea di solidarietà: così li descrive chi li ha visti all’opera.
Èimpossibile pensare che dietro questi comportamenti reiterati non ci sia unordine dall’alto. Che dietro la vergogna del Monginevro non ci sia l’infamiadell’Eliseo, e la firma di quell’Emmanuel Macron che a parole si presenta comecampione di europeismo e di libertà, comprensivo delle ragioni dell’Italia ecritico della sua solitudine sul tema migranti, ma che nei fatti alza muri comeun Orbán qualunque. Ma è anche necessario aggiungere che al fondo di ognicatena di comando ci sta un uomo, che quell’ordine lo esegue. E che chi nellaneve dei 1.900 metri ha vessato, offeso, esposto alla malattia e alla mortealtri esseri umani, perseguitato i soccorritori e angariato i fragili, portaper intero la responsabilità della propria abiezione.
Nonsempre è così. Ci sono tempi in cui bene e male in fondo non si rivelano nellaloro netta opposizione. E ce ne sono altri – questo è uno di quelli – in cuiinvece gli opposti si polarizzano.
“Giusti”e “demoni” appaiono nella loro netta opposizione, divisi dal filo di rasoiodella scelta. Che sia la guida alpina che salva mettendo la propria professioneal servizio dell’umanità o all’opposto il procuratore della repubblica cheincrimina chi salva, in mare o sui monti. Che sia il medico che si prodiga persalvare una vita o all’opposto un agente che se ne frega e forse si compiacenell’ostacolarne il soccorso. L’antitesi è oggi squadernata davanti a noi. E aognuno è chiesto di scegliere.

È un bene che oggi in tanti, spinti persino da un qualche senso diorgoglio nazionale, si schierino con i nostri “giusti”, e chiedano di farpagare ai francesi la loro ingiustizia. Così come è necessario che le nostreautorità chiedano conto a quelle francesi delle violazioni gravi commesse.Meglio sarà se, da questa lezione, si imparerà a comportarsi da giusti quandotoccherà a noi – a ognuno di noi, nei territori o in Parlamento – testimoniarela propria appartenenza alla schiera eletta di chi la giustizia e l’umanità lesa e le




Perché è stanco signor Levy?

«Perché non vedo alcun cambiamento in vista nell’atteggiamento di Israele nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Anzi, con Trump, Israele ormai si sente protetto qualsiasi cosa voglia fare. E stanco perché l’Onu, come ha dimostrato la sua debole e vigliacca reazione al massacro perpetrato l’altro ieri dall’esercito israeliano contro i civili di Gaza, ormai è definitivamente nelle mani degli Stati Uniti, ossia della cricca razzista e integralista installatasi nella Casa Bianca al seguito di Trump e del suo genero Jared, ebreo americano, esponente della potente famiglia Kushner, da sempre finanziatrice delle colonie illegali nei Territori palestinesi».

La destra ebraica e i religiosi che formano l’attuale governo non temono una nuova Intifada?
«È un rischio che non ha problemi a correre perché l’unico obiettivo di questo governo è rimanere al potere. E per rimanerci sa che deve solleticare gli istinti più bassi e alimentare le paure più irrazionali della società israeliana sempre più oltranzista e xenofoba anche a causa del lavaggio del cervello mediatico. La paura principale è il terrorismo che viene facilmente sovrapposto ad Hamas. Che, pur avendo dimostrato di non essere in grado di minacciare davvero l’esistenza di Israele, viene additata come il demonio; ma, ciò che è più grave, è che tutti gli abitanti di Gaza vengono ormai considerati dalla maggior parte degli israeliani come terroristi a priori. Molti si scordano che a Gaza ci sono anche palestinesi di religione cristiana. Per quanto riguarda una terza intifada, non credo ci sarà. I palestinesi sono stanchi di combattere e sono troppo indeboliti dal gioco sporco delle grandi potenze e dei paesi arabi che hanno contribuito a dividerli al proprio interno, rendendoli ancora più deboli.

Ma i responsabili di Hamas manipolano la popolazione che governano nella Striscia e usano i civili come carne da macello. Non ultima la bimba di 7 anni mandata nella zona cuscinetto lungo il confine tra Gaza e Israele, come ha denunciato proprio il suo giornale, per provocare i soldati israeliani.
«Ciò che di sbagliato e criminale fa Hamas va ovviamente riportato, come tutte le altre notizie di interesse pubblico. Resta il fatto che l’esercito israeliano non ha scusanti per il massacro, da scrivere a caratteri maiuscoli, che ha perpetrato lungo la zona di sicurezza voluta da Israele per umiliare e provocare la gente che ha, anzi aveva, i campi con cui si sostenta proprio in quella fascia di territorio».

Questa volta le Forze di Sicurezza Israeliane (IDF) non si sono fatte scrupolo di reprimere nel modo più violento la manifestazione voluta da Hamas per ricordare il ‘diritto al ritorno’ promesso loro già nel 1948 dall’Onu?
«Da anni Israele e le nostre forze di sicurezza violano apertamente i diritti dei palestinesi, ribadisco vittime innocenti della più lunga occupazione della storia contemporanea, nell’indifferenza o falsi strali della comunità internazionale. Israele si è sempre fatto beffa delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Purtroppo non c’è nulla di nuovo sotto il sole».

Israele ha commesso un crimine di guerra a Gaza questa volta?
«Lo ha fatto anche prima, e più volte. Ma non lo definirei un crimine di guerra , semplicemente perché a Gaza non vi è guerra, c’è solo sopruso e ingiustizia. L’esercito israeliano è uno dei più forti e potenti al mondo e continua a spacciarsi per quello anche più etico quando invece, nella realtà, fa il tiro al piccione contro persone imprigionate da decenni e private di tutto proprio dallo stesso Stato israeliano. L’esercito più potente ed etico che ammazza dei disperati perché gli tirano addosso delle pietre. Vergognoso».

Crede che sia finita qui?
«No, purtroppo. Da qui al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, ci saranno probabilmente, altri massacri ad armi impari. Se non scoppierà la Terza Intifada penso che tutto finirà come sempre. Ossia con l’assoluzione di Israele da parte di un mondo cinico e indifferente».

Sull'argomento vedi il recente articolo Palestina e Israele 101 anni dopo

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Non tutti ricordano come e perché lo stato d’Israele nacque, proprio su quelle terre, sulle quali oggi i palestinesi soccombono, uccisi o feriti dalle armi di Israele. La vicenda è interessante in relazione sia al presente immediato (ciò che accade nella striscia di Gaza), sia in relazione alla guerre diffusa e ormai globale tra mondo giudaico-cristiano e mondo musulmano. I giovani non sanno (nelle scuole questa storia non è mai stata raccontata), gli adulti e i vecchi, se mai l’hanno saputa, l’hanno dimenticata. Del resto i media, nella loro sistematica banalizzazione e semplificazione dei fatti, fanno d’ogni erba un fascio e presentano il conflitto israelo-palestinese come una rissa da cortile.

Ricordiamo dunque i fatti, riprendendoli da un articolo del giornalista israeliano Gideon Levy, collaboratore del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, che abbiamo a suo tempo pubblicato su eddyburg (Il peccato originario dello stato israeliano).

La nascita di Israele avvenne, di diritto e di fatto, il 2 novembre 1917, quando la Gran Bretagna, sottoscrivendo il “Balfour agreement [1]” s’impegnò a facilitare la nascita di uno stato per il popolo ebraico in Palestina. La Palestina apparteneva allora all’impero ottomano, solo più tardi divenne colonia dell’impero britannico; ma con l’impegno a realizzare l’accordo Balfour, la Gran Bretagna avrebbe ottenuto, come ottenne, l’appoggio della potente lobby ebrea dell’America del Nord per la partecipazione degli USA alla prima guerra mondiale.

Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono in Palestina. Da subito - osserva Gideon Levy - si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato. Non fu un caso che un piccolo gruppo di ebrei sefarditi che abitavano in Palestina si oppose a Balfour e difese l’uguaglianza con gli arabi. E non fu un caso che furono messi a tacere.

La dichiarazione Balfour permise alla minoranza ebrea di controllare il paese, ignorando i diritti nazionali di un altro popolo. Cinquant’anni dopo la pubblicazione del documento, Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza. Le invase con lo stesso piglio colonialista. E ancora oggi prosegue la sua occupazione, trascurando i diritti degli altri abitanti.

Se si guarda alle vicende della politica quando è diventata storia si scoprono le ragioni delle tragedie che affliggono oggi l’umanità, Si riesce a comprendere la tragedia delle migrazioni di oggi se si è compreso che lo sfruttamento dell’Africa compiuto dal colonialismo europeo fu un errore, del quale oggi paghiamo il prezzo. Così, l’immissione forzosa di un aggressivo corpo estraneo nei territori dei palestinesi è stato la causa (o la più importante delle cause) che ha scatenato il conflitto, tra il mondo giudaico-cristiano e il mondo musulmano.

[1] Questo è il testo originale della lettera con cui il ministro degli esteri dell’UK Balfour comunica al governo USA l’accordo raggiunto

«Foreign Office
November 2nd, 1917
Dear Lord Rothschild,
I have much pleasure in conveying to you, on behalf of His Majesty's Government, the following declaration of sympathy with Jewish Zionist aspirations which has been submitted to, and approved by, the Cabinet.
"His Majesty's Government view with favour the establishment in Palestine of a national home for the Jewish people, and will use their best endeavours to facilitate the achievement of this object, it being clearly understood that nothing shall be done which may prejudice the civil and religious rights of existing non-Jewish communities in Palestine, or the rights and political status enjoyed by Jews in any other country."
I should be grateful if you would bring this declaration to the knowledge of the Zionist Federation.
Yours sincerely,
Arthur James Balfour»

ENA news, 30 marzo 2018. Continua lo lotta pacifica del popolo palestinese contro l'occupazionw arbitraria della loro terra da parte del nuovo stato, (israele) inventato dall'Eropa per scrollarsi di dosso la responsabilità del nazismo.

Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e, anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica” scrive la cooperante italiana Meri Calvelli»

Gaza, 30 marzo 2018, Nena News – Piove questa mattina in Palestina, è la giornata della terra e centinaia di migliaia di palestinesi si preparano alla marcia del 42° anniversario, che segna uno dei tanti capitoli neri verso questo popolo; il 30 marzo del 1976, la polizia israeliana represse proteste di cittadini palestinesi contro la confisca di terre in Galilea destinate alla costruzione di insediamenti ebraici. Nove manifestanti vennero uccisi e centinaia furono feriti e arrestati. Da allora, ogni anno è commemorata tale data come “Giornata della Terra palestinese”.

Qui a Gaza la sicurezza locale, ha chiesto di non muoverci, di non andare alle frontiere, di evitare ogni situazione di eventuali caos. Siamo a Gaza per un progetto di Scambio e Formazione, che svolgiamo 2 volte l’anno, sul territorio di Gaza; un territorio sotto assedio, chiuso sigillato come un carcere di massima sicurezza senza fine pena per 2 milioni di persone. Il progetto incontrerà decine e decine di giovani ragazzi e ragazze di bambini e adulti, che per non morire di depressione si attivano ogni giorno creando i diversivi di divertimento e attività’ che nessuno gli concede; si attivano per creare le basi di una resilienza quotidiana necessaria ad affrontare una vita che non presenta nessun futuro da molto tempo; una aspettativa di vita che prevede forse per loro solo la morte in diretta di decine di persone che ogni giorno tentano di fuggire da questa gabbia, o che comunque costretti a morire perché impossibilitati ad uscire anche se sono malati.

Una vita fatta di mancanza di luce, di acqua, e anche se trovano il cibo sufficiente per mangiare ogni giorno, non trovano la bellezza di poter pensare che potrebbero andare a lavorare o a fare il giro del mondo. Solo pochi ce la fanno, se aiutati adeguatamente ad uscire di qui. Oggi la marcia, nel suo ennesimo anniversario vorrebbe ribadire la necessità di uscire e di ritornare anche solo a vedere, quella che era la loro terra di Palestina, magari a visitare i propri vecchi cari dall’altra parte dei territori occupati, magari di poter incontrare amici diversi e lontani che la gabbia di Gaza ha escluso.

La marcia, che è stata organizzata pacificamente da molte centinaia di migliaia di palestinesi, incontrerà sul campo barriere, droni, spari e gas. Non si prevedono buoni propositi dall’altra parte, i tanti cecchini piazzati lungo tutto il confino, terranno d’occhio uno ad uno i tanti che si riverseranno verso le barriere, con l’ordine di sparare su ognuno di loro. Le ragazze con le quali avremo i workshop nei prossimi giorni ci hanno detto che parteciperanno alla manifestazione, in modo pacifico con le mani alzate, senza sassi e senza fuochi, ma che saranno pronte ad andare verso un confine aperto anche a costo di morire. Non sappiamo che cosa succederà in questa giornata, non sappiamo se rivedremo le nostre ragazze per fare i workshop e anche se sta spuntando l’alba, la giornata si annuncia drammatica.

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Avvenire,
«La denuncia della onlus Rainbow4Africa: i cinque gendarmi della dogana hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test della urine. «Grave ingerenza»©

Cinque agenti delle dogane francesi hanno fatto irruzione armati nella sala della stazione di Bardonecchia, al confine tra Italia e Francia, e hanno costretto un migrante sospettato di essere uno spacciatore a sottoporsi al test delle urine. A denunciare lo sconfinamento è la Rainbow4Africa, onulus che assiste i migranti che tentano di varcare la frontiera delle Alpi per raggiungere la Francia
Sull'operazione, che ha provocato una violenta polemica politica, la Farnesina ha chiesto spiegazioni al governo francese e ha convocato l'ambasciatore di Parigi a Roma, Christian Masset. "Attendiamo a breve risposte chiare, prima di intraprendere qualsiasi eventuale azione", dicono al ministero degli Esteri.
Intanto è arrivata una prima reazione dalla Francia. "Al fine di evitare qualsiasi incidente in futuro, le autorità francesi sono a disposizione di quelle italiane per chiarire il quadro giuridico e operativo nel quale i doganieri francesi possono intervenire sul territorio italiano in virtù di un accordo (sugli uffici di controlli transfrontalieri) del 1990 in condizioni di rispetto della legge e delle persone". Lo rende noto un comunicato del ministro francese dei conti pubblici, Gérald Darmanin, cui fanno capo i doganieri, sulla vicenda di Bardonecchia.

Rainbow4Africa: grave ingerenza

È stata una "grave ingerenza nell'operato delle Ong e delle istituzioni italiane", si legge in una nota diffusa a tarda sera, in cui Rainbow4Africa ha ricordato che "un presidio sanitario è un luogo neutro, rispettato anche nei luoghi di guerra".

I fatti: poco dopo le 19 di venerdì, i douaniers sono entrati nella saletta gestita dal Comune di Bardonecchia dove dall'inizio dell'inverno operano i volontari della Ong torinese e hanno prelevato un migrante giunto da un treno appena arrivato in stazione. Poi hanno intimato ai volontari di fargli usare il bagno per costringerlo a sottoporsi alle analisi delle urine. I volontari presenti hanno provato a chiedere spiegazioni, ma inutilmente.

Di "atto di forza" ha parlato il sindaco di Bardonecchia, Francesco Avato, che si è detto "arrabbiato e amareggiato": "Non contesto che gli agenti francesi possano svolgere attività di controllo in territorio italiano in base al diritto internazionale ma non in un luogo deputato alla mediazione culturale, questo denota un po' di confusione". Per il primo cittadino si tratta di "istituzioni che hanno bisogno di mettersi in mostra" mentre la collaborazione tra le amministrazioni locali sui due lati del confine "è ottima".

Sulla porta della sala, teatro del blitz, vicino alla stazione di Bardonecchia c'è un cartello firmato dallo stesso sindaco che spiega come gli unici autorizzati ad entrare siano i volontari e il personale della struttura.

Bardonecchia sulla rotta dei migranti

Da alcuni mesi Bardonecchia, località sciistica della Valle di Susa, si trova al centro della rotta dei migranti che, abbandonata la via di Ventimiglia, tentano di raggiungere la Francia nonostante la neve e il gelo. Nella sala della stazione di Bardonecchia, oltre ai volontari operano i mediatori culturali e gli avvocati di Asgi, associazione studi giuridici immigrazione. "Riteniamo questi atti delle ignobili provocazioni", ha detto il presidente di Rainbow4Africa, Paolo Narcisi, "abbiamo fiducia nell'operato delle istituzioni e della giustizia italiana, che sono state investite della responsabilità di attuare i passi necessari verso la Francia. Il nostro unico interesse rimane assicurare rispetto dei diritti umani dei migranti".

Per l'avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi, "quanto accaduto è una gravissima violazione non solo di quel sistema dei diritti umani che dovrebbe contraddistinguere l'Europa, ma anche una violazione dei principi basilari della dignità umana, intollerabile nei confronti di persone venute per richiedere protezione. Si valuterà pertanto ogni possibile azione per contrastare simili comportamenti".

Di «episodio allucinante» parla anche l'avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi. «Ci sono degli accordi tra le polizie di frontiera - ricorda il legale - che prevedono la possibilità di controlli. Questi, però, devono avvenire anche con la presenza degli agenti del Paese in cui avviene l'operazione. Un conto è un controllo, un conto una vera e propria irruzione - continua Trucco -. A quanto risulta le modalità sono state brutali, in un luogo in cui le persone ottengono accoglienza e assistenza. Il ragazzo bloccato è stato costretto a sottoporsi all'esame delle urine, un esame che deve per forza avere alle spalle un'ipotesi di reato. A quanto si apprende, in questo caso l'ipotesi di reato sarebbe inesistente. La persona è stata rilasciata».

La protesta politica

Intanto sulla vicenda monta anche la protesta della politica. Per Giuseppe Civati (Possibile) il blitz è stato «un'arrogante intimidazione», mentre Augusta Montaruli, deputata di Fratelli d'Italia, parla di «comportamento gravissimo» da parte degli agenti di frontiera francesi. E l'ex-presidente del Consiglio, Enrico Letta, rilancia su Twitter: «Irruzione polizia francese a Bardonecchia ennesimo errore su questione migranti. Poi in Europa si stupiscono dell'esito elettorale in Italia!».

Cosa dice il diritto internazionale

"Il diritto internazionale riconosce ogni Paese sovrano sul suo territorio, ma ammette che un altro Paese possa agire su tale territorio previa autorizzazione - spiega Edoardo Greppi, docente di Diritto internazionale all'Università di Torino - cosa che in questo caso non è avvenuto. Cosa strana, aggiungo io, giacché le polizie di frontiera hanno rapporti praticamente quotidiani. Ora bisogna capire perché questo è avvenuto, inoltre per un'indagine ad personam minima che non ha portato a nulla. È giusto che l'Italia si esprima su questa vicenda, ma con toni non bellicosi come ho sentito in queste ore, anche per non pregiudicare i rapporti con la Francia in un momento in cui il presidente Macron si è detto più volte, pubblicamente, disponibile a rivedere le norme e i dettati europei su questa materia riconoscendo all'Italia una primarietà legata alla sua stessa natura geografica".

il Fatto quotidiano, 31 aprile 2018. Italia bugiarda. Non è la Libia il criminale che rigetta i profughi nelle grinfie dei loro torturatori o nelle fiamme degli inferni da cui fuggono, ma il nostro governo e l'EU

«Il caso Open Arms - Il nostro governo si comporta con i libici come con un protettorato, ma rifiuta di assumersi le proprie responsabilità»

È ora di fare chiarezza sulla politica italiana e dell’Unione europea concernente i rifugiati provenienti dalla Libia. I fatti, innanzitutto.

La zona libica di ricerca e soccorsi in mare (zona Sar) è un’invenzione di comodo: dal dicembre scorso non esiste più. Lo ha confermato l’Organizzazione Marittima Internazionale (Omi), e lo ha ammesso tra le righe il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, rispondendo il 26 marzo a una mia domanda nella Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo: “Non considero come acquisita la zona Sar della Libia. Ci fu una dichiarazione unilaterale nell’estate 2017 che creò una certa situazione che non riesco per la verità a qualificare”. La risposta è volutamente evasiva e il motivo delle ambiguità europee è evidente: la zona Sar lungo le coste libiche fu proclamata per ridurre drasticamente le attività delle navi Ong e per scaricare sulla Libia (governo provvisorio e milizie) la responsabilità giuridica connessa al rimpatrio e alla detenzione sempre più cruenta dei migranti in fuga verso l’Europa. Sotto forma di finzione tale responsabilità libica deve continuare a esistere, e infatti la Commissione si è guardata dal far proprie le ammissioni del direttore di Frontex.

Quel che invece appare sicuro è il ruolo italiano – e dell’Unione – nella gestione dell’area chiamata tuttora, abusivamente, zona Sar della Libia. Se ne è avuta certezza definitiva in occasione del sequestro della nave dell’Ong spagnola ProActiva Open Arms. Nel decreto di convalida della confisca, il giudice per le indagini preliminari di Catania ha detto come stanno le cose in maniera difficilmente equivocabile: “La circostanza che la Libia non abbia definitivamente dichiarato la sua zona Sar non implica automaticamente che le loro navi non possano partecipare ai soccorsi, soprattutto nel momento in cui il coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici” (il corsivo è mio). L’affermazione è cruciale, perché per la prima volta si dice che è l’Italia a coordinare le cosiddette guardie costiere libiche (il più delle volte miliziani ed ex trafficanti non controllabili). Le indagini giudiziarie sulle attività di ProActiva OpenArms diventano a questo punto non tanto secondarie quanto pretestuose. La vera questione riguarda l’attività del governo italiano e le intese tra quest’ultimo e il governo di Accordo Nazionale nonché le milizie libiche, intese appoggiate dall’Unione europea.

Ne consegue che l’Italia ha una responsabilità diretta nella decisione di respingere migranti e richiedenti asilo verso la Libia o altri paesi africani, e di esporli a grave rischio umanitario. Come sostiene Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Sembra fuori discussione il fatto che le azioni poste in atto dall’Italia, intervenendo con propri mezzi, uomini e risorse, anche se al di fuori del territorio nazionale, costituiscano esercizio della propria giurisdizione con tutte le conseguenze che ne conseguono, in primis il fatto che l’Italia risponde alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo”. Si ripetono così i respingimenti che già una volta, nel caso Hirsi del 2012, spinsero la Corte europea per i diritti umani a condannare l’Italia di Berlusconi: per i respingimenti collettivi operati nel 2009 e per aver esposto i rimpatriati forzati al “rischio serio di trattamenti inumani e degradanti”. Vero è che le autorità italiane si limitano oggi a “gestire” le guardie costiere libiche anziché intervenire di persona, ma il coordinamento fa capo a loro.

La via scelta dalle autorità italiane e da quelle dell’Unione è quella di perseguire gli operatori umanitari che si assumono l’onere di portare le persone soccorse in mare non nei luoghi “più vicini” bensì in luoghi sicuri (place of safety), come prescritto dalla Convenzione Sar del 1979. È una scelta – quella italiana – fatta in violazione del diritto internazionale, come affermato da 29 accademici europei in un appello che chiede al Consiglio di sicurezza dell’Onu di occuparsi del caso Italia-Libia.

Una denuncia simile era già venuta il 1 marzo dal relatore speciale Onu sulla tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, Nils Melzer: “Gli Stati devono smettere di fondare le proprie politiche migratorie sulla deterrenza, la criminalizzazione e la discriminazione. Devono consentire ai migranti di chiedere protezione internazionale e di presentare appello giudiziario o amministrativo contro ogni decisione concernente la loro detenzione o deportazione”.

Il ruolo dell’Italia sta divenendo sempre più oscuro, anche alla luce del caso, denunciato lo scorso 27 marzo dal Libya Observer, secondo cui le autorità libiche avrebbero delegato un cittadino italiano appartenente alla Missione di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia (Eubam Libia) a rappresentare ufficialmente la Libia in una conferenza internazionale. Questo in violazione della sovranità e dell’indipendenza della Libia, secondo la denuncia presentata dal delegato libico presso l’Organizzazione mondiale delle dogane Yousef Ibrahim al ministero degli Esteri di Tripoli, al direttore generale delle dogane e all’incaricato d’affari libico a Bruxelles.

Il governo italiano si sta comportando come se la Libia fosse un suo governatorato (la storia si ripete, e non è una farsa), ma senza assumersi responsabilità rispetto alla legge internazionale e allo specifico divieto del refoulement e dei trattamenti inumani.

la RepubblicaRignano, e che sta finalmente scomparendo dal teatrino della politica italiana

Il Pd rimane alla finestra a guardare, senza far nulla. La classica posizione dei depressi. C’è da capirlo. Una sconfitta così devastante, che ha portato il partito al minimo storico, annichilisce. Sette punti percentuali e 170 deputati in meno rispetto al risultato del 2013, giudicato allora dai renziani una sconfitta nonostante il Pd in coalizione con Sel godesse della maggioranza assoluta alla Camera, sono i dati duri e inoppugnabili della catastrofe. Nonostante tutto questo, Matteo Renzi, il leader che ha condotto il partito al disastro, continua a spadroneggiare. Le sue dimissioni sono una delle più sonore fake news degli ultimi tempi. Riunisce i suoi in qualche caminetto discreto e indica le azioni che solerti luogotenenti rendono operative. Invece di assumere un atteggiamento di decoroso e doveroso distacco, l’artefice della peggior Waterloo della sinistra italiana continua a voler dettar legge.

Può farlo perché sappiamo con quale cura abbia confezionato liste di fedelissimi alle elezioni, assicurandosi un adeguato manipolo di yes- man in Parlamento. Grazie al controllo di gran parte dei gruppi parlamentari, come si è visto con la scelta dei capigruppo, continua a dare la linea. Che è quella dell’immobilismo: rimanere a guardare le iniziative degli altri attori politici nell’attesa di un loro passo falso. Questa strategia avrebbe una sua logica se fosse chiaro cosa il Pd (o meglio, Renzi) si propone di fare dopo. Godere degli insuccessi altrui può lenire qualche taglio dell’anima ma politicamente è del tutto sterile.

Invece di discutere sul significato del risultato elettorale e sulle prospettive future, il Pd si ripiega in un immobilismo cadaverico, seguendo, in questo, la parola d’ordine lanciata da Renzi all’indomani delle elezioni. In effetti, solo se il Pd rimane imbalsamato in un rifiuto pregiudiziale ad ogni relazione politica con gli altri partiti, quasi una autoghettizzazione, l’ex segretario può mantenere il suo potere di interdizione.

Perché questo sembra l’obiettivo primario di Renzi: mantenere la propria presa sul partito, costi quello che costi. Se Renzi ricordasse quanto disse nella direzione che sancì la scissione dei bersaniani ( febbraio 2017), e cioè che si era « chiuso un ciclo alla guida del Pd, perché abbiamo preso un Pd che aveva il 25% e nell’unica consultazione politica lo abbiamo portato al 40,8%» dovrebbe umilmente prendere atto che portare il Pd al 18% implica una uscita di scena.

Allo stesso tempo, però, la minoranza, a parte il tonitruante Emiliano che ogni tanto lancia i suoi fulmini, si limita a qualche flebile lamento. Non è in grado di alzare la voce intimando a chi ha perso di passare la mano senza brigare e tramare. Fino a che il Partito Democratico non risolve la contraddizione di una leadership effettiva benché dimissionaria e, soprattutto, sfiduciata dai 2 milioni e mezzo di elettori mancati all’appello, non riuscirà né a ripensare sé stesso, né a progettare una strategia.

Forse, l’unica certezza è che lo sfondamento al centro con politiche pro-market, da tanti evocato per giustificare la politica renziana, sia fallito quanto la riproposizione di ricette socialdemocratiche pre- globalizzazione avanzate dagli scissionisti. Per ragionare a testa fredda sul futuro bisogna chiudere un altro ciclo, quello renziano.

bocchescucite.org, 25 marzo 2018. Un grido di dolore. Un'invettiva che non si può non condividere. Un gesto d'amore che dovrebbe suscitare un moto di rabbia e un coro di ribellione che non coinvolgesse solo gli Happy Few

Sono indignato per quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi verso i migranti, nell’indifferenza generale. Stiamo assistendo a gesti e a situazioni inaccettabili sia a livello giuridico, etico ed umano.

E’ bestiale che Destinity, donna nigeriana incinta, sia stata respinta dalla gendarmeria francese. Lasciata alla stazione di Bardonecchia, nella notte, nonostante il pancione di sei mesi e nonostante non riuscisse quasi a respirare perché affetta da linfoma. E’ morta in ospedale dopo aver partorito il bimbo: un raggio di luce di appena 700 grammi!

E’ inammissibile che la Procura di Ragusa abbia messo sotto sequestro la nave spagnola Open Arms per aver soccorso dei migranti in acque internazionali, rifiutandosi di consegnarli ai libici che li avrebbero riportati nell’inferno della Libia.

E’ disumano vedere arrivare a Pozzallo sempre sulla nave Open Arms Resen, un eritreo di 22 anni che pesava 35 kg, ridotto alla fame in Libia, morto poche ore dopo in ospedale. Il sindaco che lo ha accolto fra le sue braccia, inorridito ha detto :”Erano tutti pelle e ossa, sembravano usciti dai campi di concentramento nazisti”.

E’ criminale quello che sta avvenendo in Libia, dove sono rimasti quasi un milione di rifugiati che sono sottoposti - secondo il il Rapporto del segretario generale dell’ONU , A. Guterres- a “detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, a lavori forzati e uccisioni illegali.” E nel Rapporto si condanna anche ”la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia Costiera libica nei salvataggi e intercettazioni in mare.”

E’ scellerato, in questo contesto, l’accordo fatto dal governo italiano con l’uomo forte di Tripoli, El- Serraj (non c’è nessun governo in Libia!) per bloccare l’arrivo dei migranti in Europa.

E’ illegale l’invio dei soldati italiani in Niger deciso dal Parlamento italiano, senza che il governo del Niger ne sapesse nulla e che ora protesta.

E’ immorale anche l’accordo della UE con la Turchia di Erdogan con la promessa di sei miliardi di euro, per bloccare soprattutto l’arrivo in Europa dei rifugiati siriani, mentre assistiamo a sempre nuovi naufragi anche nell’Egeo: l’ultimo ha visto la morte di sette bambini!

E’ disumanizzante la condizione dei migranti nei campi profughi delle isole della Grecia. “Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto l’arcivescovo Hyeronymous di Grecia a Lesbos- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza la “bancarotta dell’umanità.”

E’ vergognoso che una guida alpina sia stata denunciata dalle autorità francesi e rischi cinque anni di carcere per aver aiutato una donna nigeriana in preda alle doglie insieme al marito e agli altri due figli, trovati a 1.800 m , nella neve.

Ed è incredibile che un’Europa che ha fatto una guerra per abbattere il nazi-fascismo stia ora generando nel suo seno tanti partiti xenofobi, razzisti o fascisti.

“Europa , cosa ti è successo?”, ha chiesto ai leader della UE Papa Francesco. E’ questo anche il mio grido di dolore.

Purtroppo non naufragano solo i migranti nel Mediterraneo, sta naufragando anche l’Europa come “patria dei diritti”.

Ho paura che, in un prossimo futuro, i popoli del Sud del mondo diranno di noi quello che noi diciamo dei nazisti.

Per questo mi meraviglio del silenzio dei nostri vescovi che mi ferisce come cristiano, ma soprattutto come missionario che ha sentito sulla sua pelle cosa significa vivere dodici anni da baraccato con i baraccati di Korogocho a Nairobi (Kenya).

Ma mi ferisce ancora di più il quasi silenzio degli Istituti missionari e delle Curie degli Ordini religiosi che operano in Africa.

Per me è in ballo il Vangelo di quel povero Gesù di Nazareth:”Ero affamato, assetato, forestiero…” E’ quel Gesù crocifisso, torturato e sfigurato che noi cristiani veneriamo in questi giorni nelle nostre chiese, ma che ci rifiutiamo di riconoscere nella carne martoriata dei nostri fratelli e sorelle migranti. E’ questa la carne viva di Cristo oggi.

Napoli, 24 marzo 2018

L

e non vi è bastata la donna morta con il suo tumore addosso mentre veniva trattenuta sul confine perché scavallarlo fino ad arrivare al primo ospedale sarebbe stato contro le regole; se non vi basta la guardia alpina colpevole di avere salvato una famiglia surgelata, con bambini piccoli e la madre in gravidanza, pescata sulle alpi; se non vi basta la nave della ONG Proactiva open arms tenuta sotto sequestro come se fosse il ferrarino di qualche boss di ‘ndrangheta mentre quella porzione di Mediterraneo in cui la ONG operava rimane sguarnita, a disposizione dei rastrellamenti degli schiavisti libici travestiti da guardia costiera; se non vi basta l’Europa che dispiega tutta la propria forza giudiziaria per Carles Puigdemont mentre chissà come se la godono i responsabili della Thyssenkrupp a cui il mandato d’arresto europeo ha fatto poco più del solletico nonostante la tragedia accaduta in Italia in cui sono morti sette operai ma pare che non interessi poi troppo a nessuno.

Se non vi basta tutto questo allora sappiate che una delle tante (brutte) facce di questa Europa, che si sta già preparando per richiamare l’Italia poiché qui si andrebbe in pensione troppo bene e troppo presto, ha la forma del muro di cemento, alto tre metri e lungo più di ottocento chilometri, che la Turchia del presidente Tayyp Erdogan ha piazzato sul proprio confine per tappare gli esuli che provano a scappare dalla Siria. Sappiate che sono stati regalati dall’Unione europea anche i mezzi militari Cobra II che sparano contro chi tenta di avvicinarsi (anche se è un provare a mettersi in salvo) e che contravvengono tutti i faldoni di diritto umanitario di cui l’Europa si fregia e intanto se ne frega.

È il lato oscuro ma prevedibile di un’Europa che ancora una volta si dimostra inflessibile con i disperati (che siano pensionati greci, lavoratori anziani italiani o profughi siriani) mentre continua a perdonarsi una certa mollezza con il dispotico turco così come con le multinazionali. È l’Europa “dei popoli” sempre più Europa “dei pochi” che riduce tutto a un freddo conto economico come un commercialista che vorrebbe mettere a bilancio la paura, l’amore, l’esser soli e il tentativo di sopravvivere. È l’Europa contro cui tutti promettono di alzare la voce e invece continua indisturbata a interpretare i grumi peggiori.
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Avvenire

Il Rapporto globale sulle crisi alimentari, diffuso ieri, ci sbatte in faccia un’amara realtà: la fame nel mondo continua ad essere una piaga irrisolta e, anzi, sta aumentando in maniera preoccupante. Al punto che ben 124 milioni di persone (l’equivalente di due Italie!) vivono in una situazione che necessita di «un’azione umanitaria urgente». Stiamo parlando di un fenomeno di portata globale, che dovrebbe essere – come fu negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso – almeno oggetto di mobilitazione nella società civile e nella Chiesa, per diventare priorità nell’azione politica. Oggi, invece, sulla fame nel mondo grava un silenzio mediatico pressoché assordante. Come scriveva nel lontano 1952 Josué de Castro, l’autore di Geopolitica della fame, «gli individui si vergognano così tanto di sapere che un gran numero dei loro simili muore a causa della mancanza di cibo che coprono questo scandalo col silenzio totale».

I dati sono così eloquenti nella loro drammaticità che dovrebbero scuoterci, non foss’altro a motivo del fatto che è evidente come un peggioramento delle condizioni di vita nei Paesi più poveri alimenti ulteriormente il flusso migratorio.

Se, infatti, sino a qualche anno fa – anche sull’onda dell’impegno per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio – la curva dei denutriti nel mondo andava lentamente calando, negli ultimi tempi si è assistito ad una pericolosa inversione: erano 80 milioni le persone nella trappola della fame del 2015, oggi sono un terzo in più. Solo nel 2017 sono aumentate del 15% rispetto all’anno precedente. Se le cose non cambiano, la situazione peggiorerà ulteriormente. Specie per l’Africa, il continente che, da questo punto di vista, appare più vulnerabile.

Colpa dell’aumento della popolazione? No, non è la demografia il cuore del problema, con buona pace dei neo-malthusiani. Serve un surplus di tecnologia? Male non farebbe, per aumentare la redditività dei raccolti. Ma, ancora una volta, non è questa la chiave decisiva. I dati dicono (e non da oggi) che i fattori decisivi, quando si parla di fame, sono le guerre e i cambiamenti climatici.

In entrambi i casi, siamo in presenza di emergenze figlie di comportamenti umani da cambiare radicalmente e non il risultato di fatalità da accettare passivamente. Sì, perché ormai sappiamo che anche i cambiamenti climatici sono in buona misura frutto di un’altra guerra, quella alla natura e ai suoi equilibri, all’ecosistema in cui l’uomo è inserito. Una guerra che sta prendendo una deriva che sa di follia.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha così commentato il Rapporto: «Sta a noi ora agire per rispondere ai bisogni di chi affronta ogni giorno la maledizione della fame e per affrontarne le cause alla radice». Già: servono interventi seri e organici, non (soltanto) sacchi di viveri da inviare quando in tv compaiono immagini strappalacrime di africani scheletriti.

Anche papa Francesco, qualche mese fa, in un messaggio alla Fao, aveva chiesto interventi radicali, partendo dal mutamento profondo degli stili di vita e delle politiche perché «fame e malnutrizione non sono fenomeni strutturali di alcune aree, ma sono la condizione di un generale sottosviluppo causato dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi».

Ebbene, il monito vale per tutti: per i Paesi (occidentali ma non solo: è la Cina il primo inquinatore al mondo) che, sull’onda del consumismo, bruciano risorse ambientali come se un certo modello di mal-sviluppo fosse reversibile e privo di conseguenze.

Vale per chi, con le armi, fa affari d’oro sulla pelle dei poveri: aziende e governi del Nord del mondo (europei, Italia inclusa), ma anche – come ha denunciato di recente la rivista “Africa” – molti Paesi africani che hanno iniziato a produrre le proprie armi. autonomamente, con «aziende che sono cresciute fino a diventare veri colossi» dell’industria della guerra.

S

I media hanno largamente ripreso e discusso la notizia di una la nave e una Ong spagnola, che anche eddyburg aveva ripreso, la Proactiva Open Arms, che ha raccolto dei profughi nelle acque del mediterraneo, per lo più fuggitivi dai lager libici, lasciandoli sbarcare sulle coste della Sicilia. Ricordiamo il fatto: la nave di una Ong (organizzazione non governativa) spagnola, la “ProActiva Open Arms”, ha raccolto 218 migranti che tentavano di sfuggire dall’inferno di fame, miseria e terrore che aveva reso impossibile vivere nelle terre dei loro avi. La nave spagnola si era rifiutata di consegnare i profughi alla guardia costiera libica, per l’ottima ragione che – come è noto ormai a tutto il mondo – il governo dell’antica colonia italiana usa rinchiudere i profughi in campi di concentramento trattandolo molto peggio di come nei paesi schiavistici i padroni trattano le donne e gli uomini di cui sono venuti in possesso.

La nave spagnola, che aveva compiuto l’opera (che è difficile non definire caritatevole), ormeggiata nel porto siciliano di Pozzallo (Ragusa), è stata sequestrata dalla Procura della Repubblica di Catania. L’Ansa informa che l'approdo in Italia è al centro dell'inchiesta «per la mancata consegna alle motovedette libiche intervenute sul luogo del soccorso o a Malta e che il fermo della nave è stato eseguito su indagini della squadra mobile di Ragusa e del Servizio centrale operativo».

Ma la nave è solo un oggetto: non soffre troppo dall’essere sequestrata. Non è così per le persone che hanno concorso nelle operazioni di salvataggio. Essi sono oggetto di accuse molto gravi secondo gli incivili codici italiani: “associazione per delinquere finalizzata all'immigrazione clandestina”, “violazione della legge e di accordi internazionali”. I profughi salvati (molti dei quali fuggivano proprio dai lager libici dove le autorità italiane avrebbero voluto rispedirli) hanno raccontato poi ai soccorritori delle "torture che avevano subito in Libia e di come i trafficanti hanno estorto le loro famiglie a pagare in cambio della loro liberazione".

I Kapò italiani non sono soddisfatti di ciò che è accaduto. Il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, ormai famoso armigero della vasta truppa di quanti vogliono cancellare, nei fatti, il diritto delle persone a muoversi sulla terra, minaccia ricorsi e ritorsioni. Vedremo il loro esito Nel conflitto tra legalità e giustizia, di questi tempi, i net, i power, i precari, gli affamati, raramente vedono trionfare la giustizia.

Qualche giornale, nel raccontare questa storia sostiene che a essere tolleranti e ad aiutare i profughi si premiano i trafficanti che li taglieggiano. Giusta osservazione. Infatti c’è chi sostiene (a partire da Barbara Spinelli per finire con noi di eddyburg), che occorrerebbe che l’Europa, o i suoi stati, realizzassero dei corridoi protetti che rendessero umanamente sopportabile un esodo che non è contrastabile se non con una politica di lunga durata, esattamente opposta a quelle che l’esodo del XXI secolo ha provocato. Non ci è capitato di leggere analoghe valutazioni sulla stampa italiana. Ci dispiace.

Avvenire,

Secondo la Fao, dal 1990 al 2017 gli affamati nel mondo sono scesi da un miliardo a 815 milioni. Ma nello stesso periodo in Africa sono cresciuti da 182 a 243 milioni. Eppure, l’Africa è il continente con la maggior concentrazione di terre coltivabili. Di solito gli analisti attribuiscono la fame in Africa alla crescita della popolazione, alle calamità naturali, ai conflitti armati. Ma dimenticano la responsabilità della politica internazionale che ha trasformato l’Africa in un continente dipendente dalle importazioni di cibo, e pertanto sottomesso alle bizzarrie del mercato internazionale che nell’ultimo decennio ha registrato una tendenza al rialzo nel prezzo dei cereali.
Negli anni 80 del Novecento, la crisi dei debiti sovrani forzò molti Paesi africani ad adottare i programmi di aggiustamento strutturale imposti dalle istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale) che in ambito agricolo chiedevano di privilegiare la produzione di caffè, cacao, olio di palma e altri prodotti per l’esportazione, piuttosto che la produzione di alimenti a uso interno. La tesi del Fondo monetario era che il cibo importato sarebbe costato meno di quello prodotto internamente, per cui i governi dovevano smettere di investire in agricoltura e soprattutto di assistere i contadini.
Detto fatto le importazioni alimentari crebbero del 3,4% all’anno, in gran parte cereali. In quegli stessi anni, in Africa gli investimenti pubblici in agricoltura erano paragonabili a quelli dell’America Latina, ma poi c’è stata la divaricazione: mentre in America Latina, fra il 1980 e il 2007, sono cresciuti due volte e mezzo, in Africa sono rimasti pressoché piatti. Quanto all’Asia sono stati da tre a otto volte più alti che in Africa.
Il che ha reso l’agricoltura africana non solo più debole, ma anche più vulnerabile difronte alle sfide dei cambiamenti climatici che si fanno sempre più minacciosi. In altre parole l’Africa è stata ridotta al pari di Haiti dove la produzione agricola è stata letteralmente distrutta dal cibo importato dall’Europa e Stati Uniti che, quando serve, possono truccare i prezzi grazie ai contributi alle esportazioni messi a disposizione dai rispettivi governi.
Lo affermò anche Bill Clinton, già presidente degli Stati Uniti, dopo il terremoto del 2010. I sostenitori delle politiche di aggiustamento strutturale hanno sempre buttato acqua sul fuoco sostenendo che i contraccolpi provocati dalle maggiori importazioni e dal taglio degli investimenti pubblici sarebbero stati compensati dagli investimenti privati. Ma il neoliberismo, che veniva presentato come il salvatore dell’umanità, in realtà si è rivelato un incubo con effetti sociali drammatici. Nonostante il boom delle estrazioni minerarie avvenuto fra il 2002 e il 2014, metà della popolazione africana vive ancora in povertà, il 35% addirittura in condizione di povertà assoluta, ossia incapace di soddisfare perfino i bisogni fondamentali.
Il Rapporto della Banca Mondiale, Poverty in a rising Africa, mostra che fra il 1990 e il 2012 il numero di africani in povertà estrema è aumentato di 100 milioni fino a raggiungere la cifra odierna di 389 milioni. Per ammissione generale i poveri del mondo saranno sempre più concentrati in Africa. Ciò nonostante vasti tratti di terra arabile rimangano inutilizzati a causa dello scarso impegno pubblico in agricoltura. Ma la soluzione offerta dalle istituzioni finanziarie internazionali è l’apertura agli investimenti da parte delle multinazionali dell’agroindustria.
La Banca Mondiale segnala un interesse crescente per le terre agricole africane da parte delle imprese straniere, soprattutto dopo l’impennata dei prezzi dei cereali avvenuta fra il 2007 e il 2008. Nel 2009 in tutto il mondo sono stati firmati accordi per la concessione di 56 milioni di ettari dei terra, un’enormità rispetto agli anni precedenti quando le richieste difficilmente superavano i 4 milioni all’anno. Il 70% dei contratti firmati riguarda l’Africa dove il latifondo straniero cresce ovunque. Valga come esempio il caso Feronia, un’impresa con base in Canada, ma posseduta da istituzioni finanziarie afferenti a vari governi europei, che nella Repubblica democratica del Congo possiede oltre 100mila ettari di piantagioni di palma da olio. O il caso Agro EcoEnergy, un’impresa svedese che in Tanzania possiede 20mila ettari per la coltivazione di canna da zucchero destinata alla produzione di bioetanolo.
I difensori del latifondo sostengono che gli investimenti stranieri hanno impatti locali positivi come la creazione di posti di lavoro e la costruzione di infrastrutture.Ma la riduzione di terre a disposizione delle popolazioni locali provoca ovunque conflitti e disuguaglianze crescenti. Difficilmente le comunità locali sono consultate prima di procedere alla concessione delle terre, mentre succede spesso che siano espropriate senza indennizzo e deportate con la forza altrove. Etiopia docet. Di sicuro non sarà il land grabbing a salvare l’Africa dalla povertà e dalla fame, ma la direzione indicata dal lavoro svolto da tante Ong che cercano di accrescere la produttività dei piccoli contadini attraverso un paziente lavoro di educazione e di promozione sociale. Del resto i poveri lo sanno: i soli su cui possono contare sono loro stessi, per cui sapere, solidarietà e vincoli comunitari sono le strade per uscire tutti insieme dalla miseria.

il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2018.

«Il silenzio dei governi sull’avanzata della Turchia rivela l’imbarazzo: nessuno vuole disturbare troppo Erdogan, temendo che un Paese membro della Nato finisca tra le braccia di Putin. E degli eroici curdi anti-Isis non importa più a nessuno»

Da Parigi a Venezia, da Brema a Creta, nel silenzio imbarazzato dei governi (tranne quello francese), si moltiplicano i presidî di solidarietà verso la città curda di Afrin, nel nordovest della Siria, che salvo colpi di coda della guerriglia, pare aver capitolato ieri mattina dopo settimane di attacchi e bombardamenti delle truppe turche, determinate ad assumere il controllo di tutta la fascia di confine. I morti (molti civili e bambini) sono centinaia, nel weekend è stato colpito l’ospedale, l’acqua e i medicinali non arrivavano da giorni, gli sfollati nell’ordine dei 150mila; si paventa il rischio di pulizia etnica, per alterare la maggioranza curda della regione.

Nell’accordo russo-turco-iraniano di Astana (marzo 2017) era previsto che la Turchia installasse 12 posti di osservazione nella regione di Idlib, l’unica ancora saldamente nelle mani dei ribelli anti-Assad, l’ex fronte Al-Nusra, ora Hayat Tahrir al-Sham, insomma jihadisti sunniti. Ma è l’enclave di Afrin, a Nord di Idlib lungo la frontiera, a detenere per i Turchi il più alto valore strategico: rappresenta dal 2012 l’avamposto occidentale della regione sotto controllo curdo che si estende da Kobane a Raqqa fino ai confini dell’Iraq: tutte zone a suo tempo difese o riconquistate con grandi sforzi dai combattenti dell’esercito curdo (YPG) contro l’Isis. La Turchia ha interesse a demolire questa continuità territoriale per scongiurare la creazione di uno stato curdo e per avere voce in capitolo se mai partiranno i colloqui per una nuova Siria: per questo, dal 20 gennaio scorso viola militarmente i confini del Paese confinante, e sfida gli Stati Uniti che da anni appoggiano i Curdi nel nord della Siria. Se i turchi, non paghi di Afrin, volessero ora avanzare verso est fino a Manbij (dove stavano già per entrare un anno fa, fermati dalla diplomazia), potrebbero cozzare contro duemila marines; ma forse in realtà i marines – se questa è stata davvero la garanzia strappata da Erdogan all’ormai ex segretario di Stato Rex Tillerson il 20 febbraio ad Ankara – saranno spostati a est oltre l’Eufrate. A Manbij, l’antica Bambyke, mille volte punto di frontiera e di frizione tra Romani e Parti, tra Bizantini e Sasanidi, tra Crociati e Arabi, l’Occidente pare votato alla sconfitta.

La Russia, storico alleato di Assad, ha interesse a indebolire i ribelli contro il regime (alleati di Erdogan), ma non a proteggere i curdi: potrebbe aver deciso di lasciare Afrin ai Turchi in cambio di un loro disimpegno nella più vitale regione di Idlib. Assad medesimo, che ha la testa alla sanguinosa macelleria di Ghouta, ha spedito ad Afrin ben poche truppe, dando la causa per persa.

Perché l’operazione turca contro Afrin, nota col nome paradossale di “Ramoscello d’ulivo”, è importante? Perché al tappeto stanno finendo per ora: la causa curda, ovvero non solo centinaia di combattenti e civili vittime dell’attacco di Erdogan contro i villaggi e le postazioni di quella che egli ritiene una fazione terroristica, ma anche la pratica quasi utopica del governo partecipato, federale ed egualitario del limitrofo Rojava curdo (da noi pare si sia persa la memoria di quando l’Occidente tutto tifava per Kobane e le sue donne combattenti contro l’Isis); quel che rimaneva della libertà di espressione in Turchia (lo stato di guerra ha autorizzato il fermo di decine di manifestanti, giornalisti e blogger); i rapporti Turchia-Usa, due Paesi della Nato che dal 2013 – tra la svolta autoritaria di Gezi Park e i sospetti di collusione con l’Isis – si sono ripetutamente scontrati; i minimi standard umanitari (molte fonti denunciano l’uso di gas tossici e bombardamenti su convogli umanitari o di sfollati); la minima stabilità nella regione (vittima dell’ambiguità dei Russi, che supportano Assad ma hanno stretto un’alleanza con il suo arcinemico Erdogan; e vittima soprattutto della mancanza di strategia degli Americani, che saltabeccano da una crisi all’altra senza essere in grado di assumere un ruolo attivo, nel terrore di lasciare un alleato Nato come la Turchia nelle braccia di Putin).

Al tappeto finisce anche il passato di questo fazzoletto di terra: ieri ad Afrin è stata abbattuta dai Turchi la statua di Kawa il fabbro, che nel 612 a.C., secondo la leggenda, liberò i Medi, che i Curdi riconoscono come progenitori, assassinando il sanguinario re assiro Dehak. Nel 2016 i bombardamenti russi contro i ribelli anti-Assad avevano semidistrutto la chiesa di San Simeone lo Stilita (V secolo d.C., a 15 km da Afrin), dove si conservava la colonna su cui il venerato asceta passò 30 anni di meditazione e di preghiera. E nel gennaio 2018, proprio alla periferia di Afrin le bombe turche hanno inflitto danni ferali (oltre il 60%) all’antico tempio neo-ittita di Ain Dara, ricco di sfingi e leoni di basalto, e probabilmente dedicato alla dea Ishtar: si pensa siano della dea le 4 enormi e misteriose impronte di piedi umani scavate nel pavimento in pietra del portico, in direzione della soglia di una cella ormai del tutto demolita. Nell’interminabile mattatoio siriano sembra che nemmeno gli dèi abbiano più un posto dove andare.

Avvenire,

La regione è l'estremo baluardo dell'opposizione al regime, è l'ultimo fronte ancora aperto, oltre ad Afrin, da dove sono fuggite 30mila persone

Sette anni dopo l’inizio della tragica guerra civile (qui il bilancio), tutta la Siria – in un completo ribaltamento storico – si fronteggia nella Ghouta orientale. L’antica oasi a est della capitale, sotto assedio delle forze governative dal 2013 ed estremo baluardo dell’opposizione al regime, è l’ultimo fronte ancora aperto ad eccezione da quello turco-curdo di Afrine della
indomabile provincia di Idlib, divenuto rifugio di tutte le diverse opposizioni ad Assad.

Oggi dalla Ghouta orientale sono fuggiti almeno 20mila i civili. L’esodo è avvenuto attraverso un corridoio umanitario dalla città di Hamuriya, al centro della Ghouta. È il più grande spostamento di persone da quando il 18 febbraio scorso le truppe governative hanno lanciato il loro assalto finale all’enclave ribelle provocando circa 1.200 morti.

Nell’«oasi» di Damasco si scontrano per procura tutte le potenze regionali, Turchia compresa. I servizi di intelligence di Ankara, ha infatti dichiarato un portavoce del presidente turco Erdogan, sono al lavoro per rimuovere dalla Ghouta i miliziani jihadisti di al-Nusra e di altre formazioni, stimati tra «300 e 1.000 unità».

Se la Turchia rivendica una presenza nella battaglia nella zona ribelle a est di Damasco, oggi il portavoce di Erdogan ha pure dichiarato che «più del 70%» della regione di Afrin è stata «messa in sicurezza» con l’operazione “Ramoscello d’ulivo” delle Forze Armate turche e dei ribelli siriani alleati. Ankara auspica che «molto presto» il centro della città di Afrin – capoluogo dell’omonima enclave curdo-siriana – sia «liberato» dalla presenza dei «terroristi»: così il governo turco definisce le milizie curde dell’Ypg.
Nelle ultime 24 ore, riferisce sempre l’Osservatorio siriano, sono oltre 30mila i civili sono scappati dalla città di Afrin per sfuggire ai bombardamenti sulla città. L’operazione di Ankara ha sinora «neutralizzato» (uciso, ferito o arrestato) 3.524 «terroristi». Ma Recep Tayyip Erdogan, ha dichiarato che l’operazione attualmente condotta ad Afrin sarà poi estesa ad altre città chiave controllate dai curdi procedendo verso la frontiera con l’Iraq.

la Nuova Venezia,

Leaty, posso farti una domanda?». Leaticia: «Certo, dimmi tutto». M.: «Ma cosa vuol dire negher?». Leaticia: «Perché me lo chiedi?». M.: «Perché oggi all'intervallo A. e G. mi hanno detto negher». Leaticia: «E tu cos'hai risposto?». M.: «Ehhh niente perché non so cosa vuol dire». Leaticia: «Ok... Allora, negher vuol dire negro». M.: «Ohhh!!!». Leaticia: «Eh sì, ti hanno detto che sei negro. Doveva essere un insulto. Magari credono di essere migliori di te perché loro sono bianchi. Ma tu non ci devi credere, perché non è vero. La prossima volta che te lo dicono, tu rispondi che sei fiero di essere negro. Capito?». M: «Sì».

Questa è una conversazione che ho avuto con il mio fratellino di otto anni al ritorno da scuola. Risiediamo a Bergamo con i nostri genitori, ma studio come fuori sede a Venezia e ci sentiamo spesso al telefono. In otto anni della sua vita, non ho mai pensato che avrei dovuto un giorno spiegargli il razzismo. Sono stata molto ingenua perché, dall'alto dei miei vent'anni, di episodi di razzismo ne ho vissuti. I primi si sono verificati quando avevo all'incirca dodici anni. Ma ero già grande e sapevo difendermi con le sole parole. Ma a otto anni, come si rielabora il razzismo? E io, da sorella maggiore, come lo semplifico il razzismo per un bambino ingenuo? Ancora non lo so. Ma devo trovare un modo di rendere mio fratello immune al razzismo. Proprio come sua sorella.
Sì, perché io mi ritengo immune al razzismo: non sono razzista e i razzisti non mi fanno paura, non mi fanno arrabbiare, non li detesto. E oltretutto, ho sviluppato una sottile arma per combattere il razzismo a modo mio. Io rispondo con l'ironia, anzi, il sarcasmo. Faccio fiumi di battute auto-razziste alle quali in generale la gente rimane di stucco. Non sa se ridere o meno. Perché verrebbe da ridere, ma ridere sarebbe politicamente scorretto. Quando la gente comincia a conoscermi, si abitua alle mie battute e comincia a ridere. Quando la gente ride e soprattutto quando la gente riesce a fare battute razziste, ritengo che il mio lavoro abbia avuto successo, semplicemente perché portando in superficie l'ignoranza e ridendone, la si demistifica.
Io sono immune al razzismo: questo mi sono sempre detta. E sono sempre stata fiera di aver sconfitto il razzismo. Imperdonabile ingenuità! Nei giorni scorsi nei bagni della biblioteca in cui lavoro come collaboratrice sono state trovate delle scritte fasciste e razziste. "W il duce, onore a Luca Traini. Uccidiamoli tutti sti negri".Wow. Un momento di profondo respiro. Rileggo la frase di nuovo. Per un bianco, o comunque un non negro, credo che questa affermazione possa suscitare ribrezzo, tristezza, rabbia. In verità non so cosa possa provare un bianco, e non so perché debba essere diverso da quello che può provare una negra quale sono io. Da negra, non mi sento offesa. Sono profondamente confusa che queste scritte si ritrovino in un luogo così culturale, e confusa soprattutto perché probabilmente l'autore è un mio coetaneo.
La biblioteca delle Zattere è anche chiamata Cultural Flow Zone: un ambiente giovane e vivace, dove, tra una pausa e l'altra dallo studio, si può spostarsi di sala e vedere una mostra, assistere alla presentazione di un libro o partecipare ad un cineforum. Devo dire che è un ambiente lavorativo umanamente parlando molto stimolante e si può proprio sentire la cultura fluire. Incontro persone diverse tra loro: dagli universitari ai liceali, dal personale tecnico ai docenti, dagli attori e cantanti ai corrieri. Questo ambiente non mi sembra un ambiente razzista, anzitutto perché altrimenti non avrei superato un colloquio in cui concorrevo con molti altri ragazzi bianchi. Tuttavia, è stato un colpo per me vedere queste scritte. Ho tentato a più riprese di immaginare la scena di un ragazzo che come molti altri mi chiede di fare una tessera giornaliera, e lo immagino come il probabile autore delle scritte. E voglio parlargli, capire perché mi voglia uccidere, visto che sono negra.
Sono impaurita, non perché io abbia paura di essere uccisa, ma mi spaventano le ragioni per cui verrei uccisa. Come puoi pensare di uccidere qualcuno solo per il colore della sua pelle? Cosa ti può distorcere così tanto da volere uccidere qualcuno perché non è bianco? Ho le vertigini solo a pensarci. Cosa otterresti dalla mia morte? Io vorrei solo capire. Vienimi a parlare. Voglio essere guardata dritto negli occhi e voglio sentire cosa ti affligge. Perché mi odi? Come mi uccideresti? Come ti sentiresti dopo la mia morte? Saresti felice? Voglio capire i tuoi sentimenti. Vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e mostrare un po' di umanità.
Io non ti odio, non perché io sia gentile. È perché sono profondamente triste per te, provo pietà perché non so come tu sia giunto a questo punto. Mi dispiace per i fallimenti che ci sono stati nella tua educazione. Mi dispiace che qualcuno sia riuscito a manipolarti a tal punto e a convincerti di queste cose. Ti hanno avvelenato la mente e il cuore con questo odio insensato e questo suprematismo bianco. Ti hanno rubato la tua libertà intellettuale e questo non è giusto. Mi sono sempre ritenuta immune al razzismo, convinta che fosse una bassa manifestazione di odio dovuto alla mediocrità intellettuale. Ho sempre attribuito il razzismo ai bigotti. Dovrei sentirmi rassicurata e felice che tutti i miei amici e conoscenti non siano bigotti. Ma a me non basta. A me interessi tu, caro fascista, caro razzista.
Credo che tu viva in una grande farsa, un equivoco impensabile. Il valore più grande della tua umanità è l'universalità, perché di umanità ve n'è una sola. Non mi puoi uccidere solo perché sono negra. È una argomentazione inconsistente. Tu non sei fatto per l'ignoranza o l'oscurantismo, semplicemente perché sei umano e sarebbe un tradimento alla tua umanità. Un alto tradimento, imperdonabile a te stesso. Non devi uccidere me, devi uccidere quel mostro oscuro che si nutre delle tue paure e della tua ignoranza, ma anche della tua ingenuità. Ti auguro di sconfiggere questi mostri.
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