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«Ciò che preoccupa maggiormente le amministrazioni delle Città Santuario è la perdita dei fondi a sostegno di iniziative di sviluppo economico e di contrasto della povertà».

millenniourbano,30 gennaio 2017 (c.m.c.)

Città Santuario è un nome dato ad alcune contee degli Stati Uniti che seguono determinate procedure di protezione degli immigrati privi dei documenti che consentono loro di soggiornare nella confederazione. Queste procedure, de jure o de facto, non consentono che fondi o risorse locali vengano utilizzati per l’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Le Città Santuario, la cui designazione non ha alcun significato giuridico, normalmente non consentono alla polizia o ai dipendenti comunali di acquisire informazioni sullo status dei residenti immigrati.

Mercoledì scorso, in uno dei due ordini esecutivi in materia di immigrazione, Donald Trump ha chiesto alle Città Santuario, tra le quali ci sono praticamente tutte le metropoli americane, di iniziare a collaborare con le autorità federali in merito ai dispositivi di legge sulla immigrazione per non perdere i fondi federali.

Nell’ordine il presidente fa riferimento a «danni incommensurabili al popolo americano e al tessuto stesso della nostra Repubblica» che sarebbero procurati dalle misure di mancata detenzione di individui sospetti privi di documenti. A contraddire però l’affermazione del neo presidente sulle minacce alla sicurezza nazionale, una nuova analisi pubblicata dal Center for American Progress e il National Immigration Law Center, mostra che le Città Santuario hanno tassi di crimine più bassi e un più alto livello di benessere economico.

Nel rapporto, Tom K. Wong , professore associato di scienze politiche presso l’Università della California di San Diego, ha analizzato – in un campione di 2.492 – quelle 602 contee nelle quali la polizia locale non ha accettato di attuare le politiche federali in materia di immigrazione. Queste ultime – soprattutto quelle che fanno parte di grande aree metropolitane – sono significativamente meno violente ed esposte al crimine, oltre a registrare anche migliori condizioni economiche. In media nelle contee che formano le Città Santuario i redditi medi sono più alti, la povertà è più bassa e i tassi di disoccupazione sono leggermente inferiori.

L’argomento a supporto di questi dati positivi è che le comunità sono più sicure quando le forze dell’ordine proteggono tutti i loro residenti, contribuendo ad esempio a tenere insieme le famiglie, invece di profondere i propri sforzi nell’applicazione delle leggi federali in materia di immigrazione. Se le famiglie e le comunità restano unite gli individui possono continuare a contribuire al rafforzamento delle economie locali, sembra essere la logica conclusione del ragionamento.

E’ difficile dire se le politiche di Trump potranno duramente colpire le Città Santuario, almeno in misura tale da rendere le loro politiche insostenibili. Ciò dipende da quanto le città saranno in grado di colmare con le proprie entrate alcune delle lacune create dalla perdita dei finanziamenti, e da quanta volontà politica sarà messa nel continuare ad opporsi alle leggi federali. Ciò dipende anche da quanto denaro Trump potrebbe in ultima analisi portare via alle città attraverso la necessaria ratifica da parte del Congresso del suo ordine esecutivo.

Le percentuali dei fondi federali sul budget di cinque metropoli come Los Angeles, San Francisco, Washington D.C., New York e Chicago è molto variabile: si va dal 29.4% di Washington D.C al 5,2% di San Francisco. In mezzo, in ordine decrescente ci sono Chicago (13,5%), New York (10,5%) e Los Angeles (6,25%). L’entità dell’effetto “pistola alla tempia” che potrebbe avere l’ordine esecutivo di Trump varia quindi di caso in caso, ma ciò che preoccupa maggiormente le amministrazioni delle Città Santuario è la perdita dei fondi a sostegno di iniziative di sviluppo economico e di contrasto della povertà.

Se i settori della popolazione urbana che beneficiano di questi finanziamenti vedranno nella ostinazione politica delle amministrazioni locali ad opporsi alle leggi federali la causa della perdita dei benefici finora ottenuti il risultato potrebbe essere l’innesco di una guerra tra poveri: da una parte coloro che dipendono dai finanziamenti pubblici, compresi quelli federali, e dall’altra coloro le cui condizioni di vita sono minacciate dall’odine esecutivo presidenziale.

Forse è proprio questo l’obiettivo di Trump, la cui avversione nei confronti delle grandi città che non l’hanno certo sostenuto elettoralmente è ben nota: fare in modo che la chiusura delle frontiere federali sia sostenuta dalla popolazione povera soprattutto urbana che dipende dai finanziamenti pubblici. Il ruolo dei sindaci nel fronteggiare questa sfida sarà quindi decisivo e a questo riguardo alcuni di loro, come il sindaco di Washington D.C. Muriel Bowser, hanno già annunciato che si opporranno alle politiche che «minacciano i valori in cui credono». Resta da vedere quanto Bowser e gli altri sindaci saranno in grado di tenere ferma loro posizione, data la miriade di ostacoli giuridici che Trump promette di mettere sulla strada delle amministrazioni delle città che si oppongono alle sue politiche.

N. Delgadillo, How Badly Could Trump Hurt Sanctuary Cities?, CityLab, 28 dicembre 2016.

T. Misra, Sanctuary Cities Are Safer and More Productive, CityLab, 26 gennaio 2017.

«». NYT, The opinion, 30 gennaio 2017 (m.c.g.)

We’re just over a week into the Trump-Putin regime, and it’s already getting hard to keep track of the disasters. Remember the president’s temper tantrum over his embarrassingly small inauguration crowd? It already seems like ancient history.

But I want to hold on, just for a minute, to the story that dominated the news on Thursday, before it was, er, trumped by the uproar over the refugee ban. As you may recall — or maybe you don’t, with the crazy coming so thick and fast — the White House first seemed to say that it would impose a 20 percent tariff on Mexico, but may have been talking about a tax plan, proposed by Republicans in the House, that would do no such thing; then said that it was just an idea; then dropped the subject, at least for now.

For sheer viciousness, loose talk about tariffs isn’t going to match slamming the door on refugees, on Holocaust Remembrance Day, no less. But the tariff tale nonetheless epitomizes the pattern we’re already seeing in this shambolic administration — a pattern of dysfunction, ignorance, incompetence, and betrayal of trust.

The story seems, like so much that’s happened lately, to have started with President Trump’s insecure ego: People were making fun of him because Mexico will not, as he promised during the campaign, pay for that useless wall along the border. So his spokesman, Sean Spicer, went out and declared that a border tax on Mexican products would, in fact, pay for the wall. So there!

«», New York Times, 29 gennaio 2017 (m.c.g.)

Nel 2016, durante il ritorno dal suo viaggio in Messico, riferendosi al progetto di erigere un muro sbandierato nel programma elettorale di Trump, Papa Francesco aveva definito l’allora candidato presidenziale ‘non cristiano’.
Dopo l’ordine esecutivo presidenziale emesso il 27 gennaio scorso (proprio nella giornata dedicata alla memoria delle vittime della Shoah!) che di fatto congela per 4 mesi l’arrivo negli USA di rifugiati provenienti da paesi di religione islamica e addirittura nega ogni possibilità di accoglienza ai rifugiati provenienti dalla Siria, mentre per quelli di fede cristiana si prefigura un percorso più agevole; e mentre continuano le manifestazioni di protesta nei maggiori aeroporti americani e si mobilitano gli avvocati delle associazioni per i diritti civili, anche le chiese si stanno organizzando per contrastare questa ennesima scelta iniqua.
L’editto presidenziale è oggetto di critiche perentorie da parte dell’Associazione Nazionale delle 1.200 chiese evangeliche, che hanno contestato il provvedimento definendolo “discriminatorio, fuorviante e disumano” e stanno organizzando una estesa raccolta di firme fra i fedeli. Anche la Chiesa Cattolica Romana, attraverso la United States Conference of Catholic Bishops, e la chiesa protestante hanno espresso dure critiche nei confronti di un provvedimento che toglie ogni speranza alle popolazioni in fuga da guerre e persecuzioni.
Soltanto i gruppi più estremisti e sedicenti cristiani, quelli che all’epoca di Obama avevano agitato la “teoria della cospirazione” denunciando una discriminazione dei rifugiati cristiani a favore dei musulmani da parte di ‘Obama il Musulmano’, inneggiano al provvedimento. L’articolo del NYT smentisce con i dati sull’accoglienza e le provenienze geografiche dei migranti questa ennesima campagna di odio che si aggiunge a quella contro le donne.
“Un giorno della vergogna” è stato definito dalle istituzioni religiose americane il venerdì 27 gennaio: quello dell’ennesima iniziativa inaccettabile di The Donald. (m.c.g.)

Christian Leaders Denounce Trump’s Plan to Favor Christian Refugees
Over the past decade, Christians in the United States have grown increasingly alarmed about the persecution of other Christians overseas, especially in the Middle East. With each priest kidnapped in Syria, each Christian family attacked in Iraq or each Coptic church bombed in Egypt, the clamor for action rose.

During the campaign, Donald J. Trump picked up on these fears, speaking frequently of Christians who were refused entry to the United States and beheaded by terrorists of the Islamic State: “If you’re a Christian, you have no chance,” he said in Ohio in November.

Now, President Trump has followed through on his campaign promise to rescue Christians who are suffering.

The executive order he signed on Friday gives preference to refugees who belong to a religious minority in their country, and have been persecuted for their religion.

The president detailed his intentions during an interview with the Christian Broadcasting Network on Friday, saying his administration is giving priority to Christians because they had suffered “more so” than others, “so we are going to help them.”

But if Mr. Trump had hoped for Christian leaders to break out in cheers, that is, for the most part, not what he has heard so far.

A broad array of clergy members has strongly denounced Mr. Trump’s order as discriminatory, misguided and inhumane. Outrage has also come from some of the evangelical, Roman Catholic and mainline Protestant leaders who represent the churches most active in trying to aid persecuted Christians.

By giving preference to Christians over Muslims, religious leaders have said the executive order pits one faith against another. By barring any refugees from entering the United States for nearly four months, it leaves people to suffer longer in camps, and prevents families from reuniting.

Also, many religious leaders have said that putting an indefinite freeze on refugees from Syria, and cutting the total number of refugees admitted this year by 60,000, shuts the door to those most in need.

“We believe in assisting all, regardless of their religious beliefs,” said Bishop Joe S. Vásquez, the chairman of the committee on migration for the United States Conference of Catholic Bishops.

Jen Smyers, the director of policy and advocacy for the immigration and refugee program of Church World Service, a ministry affiliated with dozens of Christian denominations, called Friday a “shameful day” in United States history.

It remains to be seen whether Mr. Trump’s executive order will find more support in the pews.

During the campaign, Mr. Trump successfully mined many voters’ concern about national security and fear of Muslims. He earned the votes of four out of every five white evangelical Christians, and a majority of white Catholics, exit polls showed.

In interviews on Sunday, churchgoers in several cities were sharply divided on the issue, including on whether Christian teachings supported giving priority to Christians.

“Love thy neighbor” was cited more than once, and by both sides: It was seen as both a commandment to embrace all peoples and to defend one’s actual neighbors from harm.

“You look at a city like Mosul, which is one of the oldest Christian populations in the world,” said Mark Tanner, 52, a worshiper at Buckhead Church, an evangelical church in Atlanta, referring to the besieged Iraqi city. “There’s a remnant there that want to stay there to be a Christian witness.”

“So yeah,” he continued. “We should reach out to everyone, but we have to be real about it and as far as who you let come into the country.”

Nmachi Abengowe, 62, a native of Nigeria who attends Oak Cliff Bible Fellowship in Dallas, cited Muslim-on-Christian violence in Africa in defending Mr. Trump’s preference for Christian refugees.

“They believe in jihad,” he said of Muslims. “They don’t have peace. Peace comes from Jesus Christ.”

That was not the view of Makeisha Robey, 39, who was at the Atlanta church. “I think that is just completely opposite what it means to be a Christian,” she said. “God’s love was not for you specifically. It’s actually for everyone, and it’s our job as Christians to kind of enforce that on this planet, to bring God’s love to everyone.”

John and Noreen Yarwood, who attended Mass at the Co-Cathedral of St. Joseph, a Catholic church in Brooklyn, said they feared that a policy of preference for Christians could in practice become a preference for certain denominations of Christianity over others.

“What does this administration mean by Christian?” Mr. Yarwood, 37, asked. He said that refugees are deserving of help and mercy “because of desperation and poverty,” not because of their religion.

“This is not grace,” he said of the president’s order. “It doesn’t follow Christian teachings.”

Christian leaders who defended Mr. Trump’s executive order were rare this weekend.

One of the few was the Rev. Franklin Graham, the son of the evangelist Billy Graham and the president of Samaritan’s Purse, an evangelical aid organization.

Mr. Graham has long denounced Islam as “evil,” and in July 2015 proposed a ban on Muslims entering the United States as a solution to domestic terrorism, months before Mr. Trump made his first call for the same.

In a statement on Saturday, Mr. Graham said of refugees, “We need to be sure their philosophies related to freedom and liberty are in line with ours.”

He added that those who followed Sharia law — a set of beliefs at the core of Islam — hold notions “ultimately incompatible with the Constitution of this nation.”

Jim Jacobson, the president of Christian Freedom International, which advocates for persecuted Christians, applauded the executive order and said, “The Trump administration has given hope to persecuted Christians that their cases will finally be considered.”

Among the claims Mr. Trump made at his campaign rallies was that the Obama administration had denied refugee status to Christians, and had given preference to Muslims.

“How unfair is that? How bad is that?” he told supporters at a rally in St. Clairsville, Ohio, interlaced with boasts about his “tremendous evangelical support.”

The contention was consistent with the conspiracy theories held by some conservative Christians that Mr. Obama was secretly a Muslim, and that he was turning a blind eye to the suffering of Christians while using the reins of government to increase the Muslim population of the United States.

But the claim is simply untrue. In 2016, the United States admitted almost as many Christian refugees (37,521) as Muslim refugees (38,901), according to the Pew Research Center.

While only about one percent of the refugees from Syria resettled in the United States last year were Christian, the population of that country is 93 percent Muslim and only 5 percent Christian, according to Pew.

And leaders of several refugee resettlement organizations said during interviews that it took 18 months to three years for most refugees to go through the vetting process to get into the United States.

Many Syrian Christians got into the pipeline more recently.

“We have no evidence that would support a belief that the Obama administration was discriminating against Christian populations,” said the Rev. Scott Arbeiter, the president of World Relief, the humanitarian arm of National Association of Evangelicals.

His organization has resettled thousands of Muslim refugees, with the help of a network of 1,200 evangelical churches.

Mr. Arbeiter said that World Relief is opposed to “any measure that would discriminate against the most vulnerable people in the world based on ethnicity, country of origin, religion, gender or gender identity. Our commitment is to serve vulnerable people without regard to those factors, or any others.”

He said that World Relief had already gathered 12,000 signatures from evangelical Christians for a petition opposing Mr. Trump’s executive order.

“We’re going to call out to our network, the 1,200 churches that are actively involved,” he said, “and ask them to use their voices to change the narrative, to challenge the facts that drive the fear so high that people would accept this executive order.”

La prima missione militare Usa ai tempi di Donald D. (Devil) Trump:abbattuti un terrorista e «non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più».

Corriere della sera, 30 gennaio 2017

WASHINGTON Lo Yemen è un terreno di caccia americano. Sotto Obama lo hanno «marcato» con i missili. Tanti i terroristi e i civili uccisi. Ora c’è un nuovo sceriffo in città — Trump —, che si pone ancora meno limiti.

Un’incursione di forze speciali statunitensi a Yakla, regione centrale, in un rifugio di Al Qaeda si è chiusa con un bilancio serio. Un soldato americano morto e tre feriti. Un velivolo Osprey distrutto. Quattordici militanti eliminati, non meno di 16 civili uccisi, compresi 8 bambini. Forse sono di più. Tra loro ci sarebbe Nora, la figlia di 8 anni dell’imam Anwar Al Awlaki, ispiratore della jihad globale, riferimento per numerosi attentatori occidentali, anche lui fatto fuori nel 2011 da un drone. Numeri non definitivi.

La prima missione nel segno di The Donald e con il primo caduto sotto la sua amministrazione ha avuto le caratteristiche di una battaglia. Una task force, forse partita da una base in Eritrea o da una nave d’assalto anfibio, si è mossa a bordo di elicotteri e velivoli speciali Osprey. Al loro fianco i droni e gli Apaches. Testimoni hanno riferito di un primo bombardamento che ha centrato la casa di Abdul Raouf al Dahab, dirigente di al Qaeda. Quindi sono sbarcati i Navy Seal 6 che hanno aperto il fuoco sui sopravvissuti e hanno ingaggiato il combattimento con i mujaheddin.

Le fonti ufficiali parlano di un’ora di scontri, altre ricostruzioni parlano di due. Nel conflitto a fuoco alcuni commandos sono rimasti feriti. In loro soccorso è intervenuto un Osprey, ma che è rimasto danneggiato in un atterraggio duro. I soldati lo hanno allora distrutto con l’esplosivo. Quindi il reparto ha lasciato il campo portandosi via — come segnala il Comando centrale — materiale per l’intelligence utile per future missioni. Nello stesso comunicato si sottolinea che il blitz fa parte di una serie di mosse «aggressive» nello Yemen e su scala globale. La decisione di colpire al Dahab era stata presa ancora sotto Obama, ma il piano — per motivi tecnici — non era stato completato.

«Decisione-shoc dell’Alta Corte federale: il nuovo governo africano è autorizzato a revocare la licenza per il maxi-giacimento OPL245. L’ordinanza conferma le accuse della procura di Milano: mega-corruzione da oltre un miliardo di dollari».

l'Espresso online, 27 gennaio 2017 , con postilla (p.s.)

Ora la società italiana rischia di perdere le più grandi riserve di greggio del continente nero dopo averle pagate ben 1.092 milioni. Destinati allo Stato, ma finiti in realtà agli ex ministri corrotti.

L'Eni rischia di perdere il maxi-giacimento delle tangenti africane. La Commissione d'inchiesta sui crimini economici e finanziari della Nigeria ha ottenuto dall'Alta Corte Federale un'ordinanza che autorizza il governo ad intimare alla società italiana e alla Shell di restituire la licenza per sfruttare il giacimento OPL 245, che è da tempo al centro di indagini italiane e internazionali per una presunta corruzione da oltre un miliardo di dollari.

L'Eni e Shell si erano aggiudicate la licenza nel 2011 firmando l'accordo con l'allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan. La società italiana si è sempre difesa sostenendo di aver trattato solo con il governo e di aver versato l'intero prezzo (1.092 milioni di dollari) su un conto intestato all'esecutivo nigeriano. La procura di Milano, in collaborazione con gli inquirenti olandesi, britannici e americani, ha però scoperto che il conto del governo è stato interamente svuotato: tutti i soldi sono finiti a politici e faccendieri tra cui spicca l'ex ministro del petrolio Dan Etete, che in sostanza si era auto-assegnato il giacimento dietro lo schermo di una società offshore chiamata Malabu.

Oltre 500 milioni di dollari sono stati poi dirottati sui conti di un certo Abubakar Aliyu, un presunto fiduciario e tesoriere dell'ex presidente Jonathan e di altri ministri del suo governo. Alla fine lo stato e il popolo nigeriano non hanno intascato un soldo.

L'ordinanza firmata ieri mattina dal giudice federale John Tsoho, in sostanza, autorizza formalmente il governo nigeriano a revocare la concessione e a imporre all'Eni e alla Shell di restituire il giacimento. L'Alta Corte, nel provvedimento, precisa che l'incheista della Commissione per i crimini economici è ormai prossima alla conclusione. Anche la Procura di Milano ha ormai chiuso la sua inchiesta: tra gli indagati per corruzione internazionale spiccano l'attuale numero uno dell'Eni, Claudio Descalzi, e il suo predecessore Paolo Scaroni, primo responsabile dell'accordo. Entrambi sono stati interrogati e hanno negato qualsiasi responsabilità. Anche la Shell è stata indagata e perquisita dalla polizia olandese.

Con il via libera dell'Alta Corte, le autorità nigeriane hanno formalmente avviato la procedura che può portare alla revoca defintiva della licenza, che riguarda il più più grande giacimento scoperto in Africa, con riserve stimate per oltre 9 miliardi di barili di greggio.

Antonio Tricarico, responsabile italiano dell'organizzazione internazionale “Re:Common”, che fu la prima a denunciare il caso di corruzione alla procura di Milano, commenta così la svolta giudiziaria in Nigeria: «In quanto più grande azionista dell'Eni, il governo italiano deve intervenire al più presto e fare piena luce sul caso OPL245».

Nick Hildyard, a nome dell'altra organizzazione internazionale che ha seguito il caso, The Corner House, ha confermato la grande importanza del provvedimento giudiziario: «Ci complimentiamo con il nuovo governo nigeriano per la lotta contro la corruzione che sta conducendo».

«Questo è un evento storico», ha aggiunto Simon Taylor di Global Witness: «Generazioni di nigeriani sono stati derubati dei servizi essenziali, mentre i signori del petrolio si sono arricchiti a loro spese. Ora Shell ed Eni devono finalmente affrontare le conseguenze delle loro azioni: le aziende e i loro investitori devono capire che non possono più fare affari con i corrotti senza pagare un prezzo pesante».

postilla
Era ora che fosse cacciato, dall'Africa (si spera che vada a finire così) una delle corporation del Primo mondo che più ha concorso e concorre a provocare le devastazioni, le miserie e e le guerre che obbligano gli africani a cercare la via della fuga verso i paesi parassiti del Primo mondo. Poco male se il renzismo sarà più debole.

».

la Repubblica, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

La battaglia politica è in corso e gli esiti sono ancora incerti, ma quella dei numeri è già vinta. I profughi stanno dando una spinta notevole all’economia tedesca. La scommessa della cancelliera Angela Merkel di una politica generosa con i rifugiati - pensata soprattutto in prospettiva, come un beneficio demografico - sta dando già i suoi frutti. E, a giudicare dal bilancio per il 2016 diffuso ieri dal ministero delle Finanze, anche una seconda sfida di Merkel si sta rivelando vincente: quella su Mario Draghi.

La cancelliera ha sempre fatto scudo al presidente della Bce contro il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, che punta il dito da mesi - come tre quarti della Germania - contro i mini tassi di interesse. Ebbene, con quei rendimenti azzerati sul debito, il guardiano dei conti ha ormai una cassaforte che scoppia. E, grazie ai rendimenti negativi sui propri titoli di Stato, ha persino guadagnato soldi facendo debiti: 1,2 miliardi. Ma non ditelo al Paese dove “debito” e “colpa” sono sinonimi.

Intanto, le miriadi di centri di accoglienza e di appartamenti messi a disposizione dei richiedenti asilo, le migliaia di persone assunte nel settore pubblico per far fronte all’emergenza, le spese sostenute per adeguare i ministeri, le frontiere, le strutture pubbliche alla sfida storica del biblico esodo dal Medio Oriente, ma anche i consumi del milione e oltre di disperati fuggiti dalle guerre e dall’Isis, stanno facendo da gigantesco volano all’economia. Nel 2016 il Pil tedesco è cresciuto dell’1,9% e le entrate fiscali sono letteralmente esplose. Nonostante il governo abbia speso quasi 22 miliardi di euro per i profughi (ma 7 miliardi sono stati investiti nei Paesi di provenienza), il ritorno è stato notevole. Per il terzo anno consecutivo, i conti chiudono con un ricco sovrappiù di 6,2 miliardi di euro. Non solo grazie i richiedenti asilo, ovviamente, ma un contributo importante è arrivato da lì.

Per un Paese abituato ad associare i grandi piani congiunturali alle dittature più feroci e a diffidare profondamente di Keynes, è sempre difficile ammettere che la spesa pubblica spinga l’economia. Nella patria dell’ordoliberalismo, sono stati pochi gli economisti a leggere nei dati diffusi ieri dal ministero delle Finanze quello che c’era da leggervi (e men che meno sono stati i funzionari di Wolfgang Schaeuble ad ammetterlo nel rapporto). Tra le mosche bianche, il capoeconomista dell’autorevole istituto di ricerca DIW, Ferdinand Fichtner: «Possiamo considerare (le spese sostenute per l’arrivo dei profughi, ndr) come un gigantesco piano congiunturale.

Una gran parte dei soldi è stato trasmesso all’economia attraverso le spese per il sostentamento dei rifugiati, per i loro affitti, per gli investimenti in infrastrutture, eccetera. Mi riferisco ad oltre il 90% di quelle spese». L’altro grande rimosso di Berlino è Draghi. Le sue tanto vituperate politiche monetarie, improntate ormai da anni ad una strategia di tassi azzerati non soltanto stanno tenendo debole l’euro, come ha confermato nei giorni scorsi la Bundesbank, facendo un regalo al tradizionale campione delle esportazioni, alla “Cina d’Europa”.

Stanno anche, per stessa ammissione del sottosegretario alle Finanze, Thomas Steffen, aiutando il più austero dei guardiani dei conti a mantenere le finanze pubbliche in ordine. Il 2016, spiega Steffen, è «il terzo anno consecutivo di pareggio di bilancio », grazie ad uno «sviluppo congiunturale robusto», ma anche a «risparmi sugli interessi del debito». Timido, ma inconfutabile.

La posizione della " Officina dei Saperi" e della " Società dei Territorialisti/e". sul dramma del nostro secolo e sui modi civili di affrontarlo.

La città invisibile online, n. 56 26 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il quotidiano trattamento da “dannati della terra” riservato a bambini, donne e uomini in fuga da disastri sociali e ambientali, rende manifesta la strategia securitaria cui in Italia è stata ridotta la politica dell’accoglienza.

Una civile e lungimirante politica dell’accoglienza non può relegare i profughi dello sviluppo nelle inqualificabili macrostrutture: CIE (Centri di Identificazione e di Espulsione) o CPA (Centri di Prima Accoglienza). Il “popolo nuovo” ha invece bisogno di case e diritti, lavoro, uguaglianza e cittadinanza. Di ospitalità diffusa e capillare, come già messa in pratica in alcune, isolate, realtà peninsulari.

A fuggiaschi, clandestini per legge e rifugiati politici devono essere destinati alloggi dignitosi nel cuore delle città e dei centri minori. Non ricoveri provvisori nelle estreme periferie, non ghetti, non soluzioni securitarie.

Nelle città italiane abbondano edifici vuoti, privati ma più spesso pubblici, non raramente di valore monumentale, in attesa di essere venduti a faccendieri e multinazionali. Edifici che in tal modo, da bene comune, diventano oggetto di speculazione immobiliare e la cui trasformazione, il più delle volte in residenze e alberghi di lusso, contribuisce a desertificare le città e i centri storici. Città che mancano invece di luoghi di socialità, di aggregazione e di cura e che necessitano di essere ripopolati.

Per attrarre nuovi abitanti, in una nazione dal tasso di natalità assai basso, la città può rispolverare le virtù civiche dell’accoglienza attingendo a una plurisecolare tradizione ospitale. Una hospitalitas rivolta ai bisognosi di ogni provenienza e fede.

Molti edifici pubblici (alcuni nati proprio in funzione dell’accoglienza) si trovano ora in stato di abbandono e potrebbero essere riabilitati allo scopo. Caserme, ospedali, ex conventi, scuole etc., costituiscono un imponente «vuoto pubblico nazionale». Cui si aggiunge il patrimonio edilizio privato, per il quale non va sottovalutata la possibilità, specie da parte dei Comuni, di formulare protocolli speciali con i proprietari disponibili; laddove invece la proprietà è rappresentata da persone non fisiche – spesso immobiliari a scopo di lucro – che tengono fuori dal mercato sociale milioni di appartamenti, vanno ricercati gli idonei strumenti coercitivi: dalla tassazione progressiva sul vuoto inutilizzato fino alla requisizione per pubblica utilità.

Su questo monumento allo spreco sociale, economico e ambientale, gli enti potrebbero far leva per trasformare l’accoglienza in una delle componenti fondamentali delle azioni, non solo abitative, ma anche di rinascita di qualità civile e ambientale delle città.

La presenza di nuova popolazione può infatti favorire la ricostituzione del tessuto socio-culturale urbano e rurale, oggi slabbrato. Di più, i migranti possono essere gli attori principali di nuove occasioni lavorative, nella cura e nel recupero degli ambienti di vita, soprattutto nei centri abbandonati che, come già avviene in alcuni contesti meridionali, vivono una nuova stagione di sostenibilità sociale legata all’agrorurale e al turismo socioculturale.

A tale riguardo, sarebbe auspicabile affidare ai migranti interessati ruoli più “strutturali” per rivitalizzare attività utili all’economia locale, specie nelle aree interne e abbandonate dell’arco alpino e dell’«osso appenninico», che costituiscono la parte preponderante del territorio italiano. Queste aree, che il dramma dei terremoti nell’Appennino dell’Italia centrale ha evidenziato nella loro struttura di un fittissimo reticolo insediativo di piccole città, borghi, frazioni, e che costituisce un patrimonio estesissimo e unico in Europa, possono diventare, con l’aiuto dei migranti, i luoghi di una nuova civilizzazione collinare e montana, di un ripopolamento urbano e rurale agro-ecologico in grado di curare le urbanizzazioni malate delle aree metropolitane di pianura.

Iniziative di livello e responsabilità pubblica municipale, di lungo termine, conformi ai tempi della pianificazione e non a quelli dell’emergenza, potrebbero esaltare la vocazione delle città, dei piccoli centri, dei borghi e delle loro campagne come luoghi in cui si intrecciano storie e nascono nuove identità perché esse sono plurimondi di vita. Luoghi dello stare insieme, della convivenza, della solidarietà. Luoghi da cui ripartire per costruire un tessuto sociale in cui si riconoscano e crescano le generazioni future.

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg le cartelle
EsodoXXI e Accoglienza Italia

L'Imperatore feroce prosegue e completa ciò che i suoi predecessori mansueti avevano iniziato. La logica dell'impero non è cambiata molto: fu il presidente democratico Bill Clinton a iniziare nel 1994 la costruzione, Hillary Clinton e Barack Obama votarono SI.

il manifesto, 28 gennaio 2017

È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno, Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama. Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady.

È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada.

Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale.

Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Stati uniti i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni.

Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras.

Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine. Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori.

Attraversare il confine è come andare in guerra, per sfuggire agli elicotteri e ai droni, alle barriere di filo spinato, alle pattuglie armate (molte di veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan), addestrate dai militari con le tecniche usate nei teatri bellici. Emblematico il fatto che, per costruire alcuni tratti della barriera col Messico, l’amministrazione democratica Clinton usò negli anni Novanta le piattaforme metalliche delle piste da cui erano decollati gli aerei per bombardare l’Iraq nella prima guerra del Golfo, fatta dall’amministrazione repubblicana di George H.W. Bush. Utilizzando i materiali delle guerre successive, si può sicuramente completare la barriera bipartisan.
Un terrificane episodio, che nell'atto più disperato di una vita e nell'indifferenza che lo circonda riassume tutta la corale ignominia che caratterizza la "accoglienza" in questa parte del pianeta.

Il Fatto quotidiano, blog di Daniela Padoan, 26 gennaio 2017

Aveva preso un treno a Milano, si è seduto sui gradini della stazione di Venezia, poi si è alzato e si è lanciato nel Canal Grande, senza nuotare, senza afferrare i quattro salvagente che gli venivano lanciati da un vaporetto. Veniva dal Gambia, Pateh Sabally, un paese martoriato, che solo pochi giorni prima aveva visto il suo ventennale dittatore scappare svaligiando le casse dello Stato.

Lui, che era giunto per mare attraverso il Canale di Sicilia – la rotta più pericolosa del mondo, dove solo nei primi quindici giorni del 2017 sono morte annegate 240 persone – ha terminato la sua breve vita annegando nello scenario della nostra più sublime bellezza, nella stratificazione perfetta della nostra storia e cultura, domenica, in mezzo ai turisti che lo filmavano dal Ponte degli Scalzi.

La scena, ripresa da un cellulare, è stata condivisa sui social e pubblicata dal Gazzettino.it. Nel video si vede il ragazzo annegare mentre il vaporetto gli passa a pochi metri. Si sentono voci agitate, ma non disperate. Gente che grida, gente che ride, una voce dice: “Questo è scemo!”. Un’altra: “Africa!”. Nessuno si lancia a salvarlo. I soccorsi arrivano quando ormai la corrente ha trascinato il corpo dall’altra parte del canale.

Quando due anni fa era sbarcato in Sicilia, a Pozzallo, Pateh non sapeva nemmeno il giorno della sua nascita. In questi casi, nei cosiddetti hotspot imposti dall’Agenda sulla migrazione dell’Unione europea, la polizia attribuisce un’età convenzionale: il primo gennaio. Così Pateh, sul permesso umanitario ritrovato nel suo zaino, risultava essere nato il primo gennaio 1995.

Non sappiamo cosa facesse a Milano, solo che era stato trasferito lì in via temporanea, perso in un limbo che non accoglie ma imprigiona nelle reti del regolamento di Dublino e dell’attesa dei permessi di soggiorno. Era arrivato a Venezia il pomeriggio del giorno prima, chissà come aveva passato quelle 24 ore, probabilmente girovagando fino al pomeriggio di domenica. Pare gli fosse stato revocato il permesso di soggiorno per motivi umanitari.

La sua morte pubblica e muta torna in mente come una scena fantasmatica, oggi che la Commissione europea ha finalmente scoperto le carte, mostrando quel che intendeva ottenere già da tempo con l’addestramento della cosiddetta Guardia costiera libica: accordarsi con la Libia (ma quale Libia: quella di Tripoli, dove l’apertura dell’ambasciata italiana ha quasi causato un colpo di Stato? Quella dell’ultimo rapporto dell’Onu che parla di schiavitù, torture, abusi sessuali nei campi? Quella delle denunce di traffico degli organi?) per “salvare le vite dei migranti”. Con eufemismo grottesco, non fosse che tutti sembrano prenderlo sul serio, si pretende di voler salvare i migranti dai “trafficanti di uomini”, ributtandoli nella situazione dalla quale erano scampati, talvolta dopo una prigionia durata anche uno o due anni e fatta di violenza, come dimostrato dalla recente inchiesta milanese sul torturatore somalo Osman Matammud.

Pateh è un’immagine, uno specchio che ci viene messo davanti nel giorno in cui Trump ordina l’innalzamento del muro con il Messico e l’Europa si prepara, nel prossimo vertice dei capi di governo che si terrà a Malta il 3 febbraio, a distruggere la Convenzione di Ginevra e il diritto d’asilo, affidando a terzi il respingimento collettivo, senza che nessuno protesti, seguendo la direzione già tracciata dal governo Renzi durante il semestre di presidenza europea, e ora dal governo Gentiloni e dal suo ministro Minniti.

L’Europa ha dichiarato guerra ai migranti. Noi guardiamo dicendo “Africa!”. La Procura di Venezia ha aperto un’inchiesta. Ma contro chi, davvero, dovrebbe essere aperta?

Dopo il muro, il fuoco. I primi giorni da presidente non vanno certo sprecati per Donald Trump, tanto da mettere subito le cose in chiaro: non solo la barriera anti migranti da costruire al confine con il Messico ma anche l'assoluta validità dei metodi di tortura americani «perché dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco».

The Donald tira dritto e parlando nella sua prima intervista post giuramento, alla Abc news, annuncia di credere "assolutamente" nelle torture come il waterboarding. Un metodo, spiega lui, utile per combattere il terrorismo, punto che discuterà con il segretario alla Difesa, James Mattis e il direttore della CIA, Mike Pompeo. Dai due - dice il presidente - ha già avuto conferme sull'efficacia delle torture in ambito militare e le parole di Trump fanno pensare a un ritorno a torture già abbandonate da Cia e servizi segreti.

«Mi affiderò a Pompeo e Mattis ed al mio gruppo e se loro non vorranno, va bene, ma se verranno io mi impegnerò a renderlo possibile, voglio che sia fatto tutto nell'ambito di quello che è legalmente possibile» ha detto il presidente. «Ho parlato nelle ultime 24 ore con persone ai più alti livelli dell'intelligence ed ho chiesto loro: la tortura funziona? e la risposta è stata, assolutamente sì. Quando tagliano la testa dei nostri e di altri, solo perché sono cristiani in Medio Oriente, quando lo Stato Islamico fa cose di cui nessuno ha sentito dai tempi del Medioevo, cosa dovrei pensare del waterboarding? Per quanto mi riguarda, dobbiamo combattere il fuoco con il fuoco». Parole che arrivano a ridosso della possibile firma di Trump su un ordine esecutivo che servirà a ripristinare la detenzione carceraria di sospetti terroristi in strutture blindatissime e segrete e che lasciano immaginare un totale ripristino delle vecchie tecniche di tortura.

«Il presidente può firmare tutti gli ordini esecutivi che vuole ma la legge è la legge. Non possiamo riportare indietro la tortura negli Stati Uniti d'America», ha detto il senatore John McCain, in contrasto con Trump. Dello stesso parere l'ex capo Cia Leon Panetta che parla di un errore l'idea di reintrodurre certi tipi di tortura negli interrogatori e spiega come questo «violerebbe i valori Usa e la costituzione».

Dalla Gran Bretagna in nome dell'Europa si fa sentire subito Theresa May, pronta ad opporsi alla idea di torture abbozzata da Trump. La May incontrerà The Donald domani ed esporrà al presidente Usa tutto il suo dissens

Articoli di Emma Mancini, di Amnesty International Italia, di Giovanni Bianconi, Ivan Cimmarusti, da il manifesto, corriere della sera, Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2017

il manifesto
L’ULTIMO TRUCCO DI AL-SISI:
STRINGERE IL CERCHIO SU ABDALLAH
di Emma Mancini

«Caso Regeni. Spunta il video girato dal capo del sindacato ambulanti: Giulio rifiuta di dargli denaro. La vendetta come movente: lo show del Cairo scorda i depistaggi di polizia e governo»

Fuori è già buio: il volto di Giulio Regeni occupa lo schermo della microcamera nascosta addosso a Mohammed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani. È il tardo pomeriggio del 6 gennaio, luogo dell’incontro è il mercato di Ahmed Helmy al Cairo.

Per la prima volta sentiamo la voce di Giulio, lo vediamo gesticolare mentre cerca di frenare l’arroganza dell’uomo che – dicendosi poi orgoglioso di averlo fatto – lo ha denunciato alla polizia egiziana come spia. Anche stavolta, però, nel nuovo tassello dell’intricato puzzle di depistaggi egiziani c’è qualcosa che non va.

Il video, secondo gli esperti e gli investigatori italiani, è stato girato con una minicamera in dotazione alle forze di sicurezza. È appuntata sul vestito di Abdallah e riesce a riprendere per due ore, un tempo troppo lungo per un normale telefono.

Eppure, a settembre il procurato generale del Cairo Sadek riferì alla Procura di Roma che la polizia indagò per soli tre giorni su Giulio (su segnalazione di Abdallah) a partire dal 7 gennaio. I conti non tornano.

In un articolo dell’8 dicembre il manifesto riportava i dubbi mossi da una fonte della Procura di Roma: gli inquirenti avevano visionato il video e già ritenevano possibile il coinvolgimento della polizia.

In secondo luogo il video, più che mettere in cattiva luce o generare sospetti sul giovane ricercatore italiano, svela lo spirito di corruzione che muove il capo del sindacato: è Abdallah che insiste per avere denaro per sé e la famiglia, è Giulio che lo respinge fermamente.

«Non posso usare soldi per nessuno motivo, sono un accademico – dice Giulio – Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca. E mi interessa che voi come venditori ambulanti fruiate del denaro in modo ufficiale».

Regeni continua: per poter avere fondi dalla britannica Antipode Foundation, serve un progetto chiaro, «idee e informazioni prima del mese di marzo» sul sindacato e sulle sue «necessità». Informazioni per un progetto di sviluppo e non per intelligence straniere.

Per questo l’uscita del video proprio in questo momento, a due giorni dal sesto anniversario di piazza Tahrir e ad uno dalla scomparsa di Giulio, il giorno dopo il via libera egiziano agli investigatori italiani a visionare (dopo un anno di dinieghi) le immagini delle telecamere di sorveglianza nella zona di Dokki al Cairo, sembra voler stringere il cerchio.

Non tanto sulla polizia, quanto su Abdallah, che viene dipinto come l’istigatore delle indagini, per mera vendetta o perché a caccia di credibilità all’interno dei servizi segreti. Riportava ieri Agenzia Nova sulla base di fonti citate dal sito Veto Gate – che le immagini sarebbero state rese pubbliche su ordine specifico dello stesso Sadek.

Non a caso domenica l’agenzia di Stato egiziana Mena, dando notizia della consegna dei video delle telecamere di sorveglianza, ripeteva che dopo tre giorni di indagini la polizia si disinteressò a Regeni perché non rappresentava una minaccia. Dimenticando di citare, però, l’ultima chiamata di Abdallah a Giulio, il 22 gennaio, prontamente girata alla Sicurezza Nazionale.

È ovvio che il regime del presidente-golpista al-Sisi stia tentando ancora una volta di allontanare da sé le responsabilità politiche dell’omicidio di Regeni, mandando in prima linea Abdallah e qualche poliziotto mela marcia che lo avrebbe aiutato nella vendetta.

Ma alcuni pezzi del puzzle non possono essere cancellati, a partire dai primi depistaggi fino alla strage di 5 egiziani incolpati della morte di Giulio e al teatrino del ritrovamento dei suoi documenti in casa della famiglia di uno di loro. Ma soprattutto i segni inconfutabili delle torture sul suo corpo.

il manifesto
VERITA' PER GIULIO,
DOMANI IL GIORNO DELLA MOBILITAZIONE
di Amnesty International Italia

Mercoledì 25 gennaio sarà trascorso un anno esatto dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo. Nonostante siano passati 365 giorni, la verità è ancora lontana. Per continuare a chiedere «Verità per Giulio Regeni» Amnesty International Italia ha organizzato una giornata di solidarietà e mobilitazione.

L’appuntamento principale è all’Università La Sapienza di Roma: la manifestazione negli spazi esterni alle spalle del Rettorato (o in caso di maltempo nell’aula T1 della facoltà di Giurisprudenza, piazzale Aldo Moro 5) si aprirà alle 12,30 con il saluto del Rettore, prof. Eugenio Gaudio.

Interverranno Stefano Catucci, del Senato Accademico Sapienza; Antonio Marchesi, presidente Amnesty Italia; Patrizio Gonnella, presidente Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili; Giuseppe Giulietti, presidente Federazione nazionale della stampa italiana; Carlo Bonini, giornalista de La Repubblica.

Nel corso della manifestazione lo scrittore Erri de Luca e gli attori Arianna Mattioli e Andrea Paolotti leggeranno estratti dei diari di viaggio di Giulio Regeni. Interverranno, in collegamento telefonico, i suoi genitori. I partecipanti mostreranno cartelli col volto di Giulio Regeni e numeri da 1 a 365, l’anno trascorso in assenza della verità.
Le adesioni:

A buon diritto, ARCI, Articolo21, Antigone, Associazione Amici di Roberto Morrione, Associazione Italiana Turismo Responsabile, AOI – Associazione delle Organizzazioni Italiane di Cooperazione e Solidarietà Internazionale, Associazione Stefano Cucchi Onlus, Associazione Studentesca «Sapienza in Movimento», CGIL – Area delle politiche europee e internazionali, Cild, Cittadinanzattiva, Conversazioni sul futuro, Coordinamento della Rete della Pace, Cospe, CPS, Focsiv, FNSI – Federazione nazionale della stampa italiana, Iran Human Rights Italia, il manifesto, Italians for Darfur, la Repubblica, Legambiente, LINK-Coordinamento Universitario”, Nexus Emilia Romagna, #NOBAVAGLIO pressing, Radio Popolare, Rai Radio 3, Un ponte per…

La sera a Roma (a San Lorenzo in Lucina, da confermare), Brescia, Bergamo, Rovigo, Pesaro, Pescara, Bologna e Trento verranno accese delle fiaccole alle 19.41, l’ora in cui Giulio uscì per l’ultima volta dalla sua abitazione.

corriere della sera
SPUNTA UN VIDEO SEGRETO DI REGENILA PROVA DEL DEPISTAGGIO EGIZIANO
di Giovanni Bianconi

«Giulio appare come una persona specchiata che aveva solo scopi di ricerca».


Roma. Il video girato di nascosto dall’ex capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti, Mohamed Abdallah, durante un colloquio con Giulio Regeni, diventa un’altra prova delle bugie della polizia egiziana e dei depistaggi messi in atto per occultare la verità su quanto accadde un anno fa al Cairo. È la dimostrazione che le comunicazioni delle forze di sicurezza alla magistratura egiziana, trasmesse dal procuratore generale della Repubblica araba Nabel Sadek al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e al sostituto Sergio Colaiocco, erano false.

Avevano detto che Abdallah, che prima s’era mostrato amico di Giulio e poi l’ha tradito dopo aver capito di non poter mettere le mani sui soldi che il ragazzo voleva chiedere per finanziare la sua ricerca e il sindacato, aveva denunciato Regeni il 7 gennaio 2016; che gli accertamenti della National Security durarono solo tre giorni, e già il 10 gennaio era cessato ogni interesse per l’italiano che si occupava dei problemi degli ambulanti. Questa seconda affermazione s’era già dimostrata non vera, visto che dai tabulati telefonici emergevano contatti tra Abdallah e gli agenti egiziani fino al 22 gennaio. Ora cade anche la prima, perché il filmato del colloquio risale al 6 gennaio, e Abdallah l’ha realizzato con un’apparecchiatura sofisticata fornitagli dagli stessi poliziotti; l’ha detto lui, e si capisce dalla qualità delle immagini e dall’inconsapevolezza di Giulio di essere ripreso mentre parla. Niente a che vedere con l’utilizzazione di un telefonino di cui ha parlato la polizia del Cairo.

Dunque l’attenzione degli investigatori egiziani per il ricercatore dell’università di Cambridge cominciò almeno due giorni prima di quanto ammesso finora, e proseguì fino alla vigilia del sequestro di Regeni, scomparso dopo essere uscito di casa per andare a un appuntamento e rapito non davanti all’abitazione, bensì due fermate di metropolitana più avanti. Era il 25 gennaio di un anno fa, giorno delle manifestazioni per celebrare la rivolta di piazza Tahir, anniversario citato nel colloquio tra Giulio e Abdallah. Il sindacalista chiedeva soldi prima di quel giorno, ma lui — che stava cercando di ottenere un finanziamento di 10.000 sterline dalla britannica Antipode Foundation — gli aveva fatto capire che non sarebbe stato possibile.

La magistratura egiziana ha già individuato, e comunicato ai pubblici ministeri romani, i nomi di sette appartenenti alla Polizia municipale (due) e alla National Security (cinque) che hanno avuto a che fare con gli accertamenti su Regeni e con l’invenzione della falsa pista dei criminali comuni, uccisi e indicati come responsabili del sequestro e dell’omicidio di Giulio.

Può essere che il video diffuso ieri in Egitto sia stato reso pubblico con l’intento di sviare l’attenzione dalle indagini avviate su queste persone (alcune già interrogate), e dimostrare che Regeni fosse una spia al servizio di chissà chi, o comunque una persona ambigua. Invece emerge una realtà ben diversa.

Giulio appare per quello che era, una persona specchiata che non aveva altri scopi se non quelli di proseguire la sua ricerca. È ciò che dice esplicitamente al sindacalista: «Sono un ricercatore e mi interessa procedere nella mia ricerca-progetto. Il mio interesse è questo. E mi interessa che voi fruiate del denaro in modo ufficiale, come previsto dal progetto e dai britannici». Ma Abdallah voleva quei soldi per sé, cercava «una scappatoia per poterli usare a fini personali», e Giulio scrisse sul computer che era una «miseria umana». Poi cominciò l’indagine della polizia.


Il Sole 24 Ore
REGENI,L'ULTIMO VIDEO PRIMA DELLA MORTE
di Ivan Cimmarusti


«Omicidio al Cairo. Nel filmato il ricercatore respinge la richiesta di denaro da parte del capo degli ambulantiRegeni, l’ultimo video prima della morte»

Ripreso con una microcamera dal sindacalista che lo denunciò ai servizi egiziani
Venduto ai servizi segreti egiziani per ciò che in realtà non era: una spia britannica. Il capo del sindacato indipendente Mohamed Abdallah controllava Giulio Regeni per conto della National Security e lo riprendeva con telecamere abilmente nascoste tra i vestiti per incastrarlo. Il particolare è stato rivelato dallo stesso sindacalista in un verbale d’interrogatorio alla Procura generale cairota.

Questo c’è dietro il video diffuso ieri dalla televisione di Stato egiziana, in cui si vede Abdallah che chiede con insistenza le 10mila sterline che il ricercatore di Udine attendeva dalla fondazione inglese Antipode, che stava finanziando uno suo studio sui sindacati egiziani. Giulio non ci sta: quei soldi hanno uno scopo didattico. Quella fermezza di Abdallah nel volersi impossessare del denaro, però, nasconderebbe una precisa strategia del servizio segreto civile cairota, che aveva schedato Giulio come una spia straniera. Ma andiamo con ordine. Il video, della durata di circa due ore, è finito già da tempo sulla scrivania del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del sostituto Sergio Colaiocco. Sono i particolari a fare la differenza: la registrazione è fatta con un apparato di evidente qualità, ben posizionato e nascosto tra i vestiti del sindacalista. Attivato tempo prima dell’incontro, segno che Abdallah non era nelle condizioni di controllarlo direttamente.

L’incontro avviene pochi giorni prima del 25 gennaio 2016, data della scomparsa di Giulio e anniversario della rivoluzione egiziana del 2011. Nello spezzone andato in onda si sente la voce di Abdallah dire «mia moglie ha il cancro e deve subire un’operazione e io devo cercare denaro, non importa dove». Regeni gli replica: «Il denaro non è mio. Non posso usare i soldi per nessun motivo perché sono un accademico e sulle relazioni all’istituto britannico non posso scrivere che voglio utilizzare questo denaro a titolo personale. Impossibile, se succede è un gran problema per me».

Aggiunge che «i soldi non arrivano attraverso “Giulio” ma attraverso la Gran Bretagna e il Centro egiziano che lo dà agli ambulanti». Alle insistenze di Abdallah, Regeni ribatte comunque che «ci saranno molti progetti ai quali parteciperanno tutti i paesi del mondo» e che quindi «bisogna cercare di avere idee e ottenere informazioni prima del mese di marzo» su «quali sono i bisogni del sindacato», anche a livello di «soldi». Anche se quest’ultima parola non è chiara, si conferma che Regeni stava proponendo un finanziamento di 10mila sterline a favore delle iniziative del sindacato, nuovo, ufficioso e inviso alle autorità.

Un incontro che, sostanzialmente, ha segnato la condanna a morte del povero studioso italiano. I rapporti di Abdallah con il servizio segreto civile sono continui e serrati. Dagli uffici della National security, infatti, partono telefonate verso l’utenza del sindacalista l’8, l’11 e il 14 gennaio. Altre telefonate, invece, le fa lo stesso Abdallah verso funzionari del servizio segreto egiziano.

Comunicazioni in cui si sarebbe parlato proprio di Regeni e di quel denaro di provenienza britannica che voleva devolvere al sindacato indipendente. Il 25 gennaio successivo è la principale ricorrenza in Egitto: l’anniversario della rivoluzione del 2011. Regeni è sotto controllo, anche se una indagine «formale» delle autorità egiziane era stata già chiusa.

Quel giorno deve incontrare il docente italiano al Cairo Gennaro Gervasio, per andare a una cena di compleanno del professore Kashek Hassamein, noto per la sua opposizione al governo di Al Sisi. A quell’appuntamento Giulio non arriverà mai.

Il suo corpo sarà ritrovato il 3 febbraio successivo sull’autostrada che collega il Cairo con Alessandra d’Egitto. L’esame autoptico della salma ha confermato le violenze inflitte al ricercatore, barbarie che portavano la firma «di un professionista della tortura», come era spiegato nella perizia depositata ai magistrati della Procura di Roma. Ora non resta che attendere gli esiti delle consulenze sulle videocamere di sorveglianza della metro del Cairo, dove con tutta probabilità potrebbero essere immortalate le immagini dei carnefici di Giulio.

Ancora, e di nuovo, via i poveri dal centro cittadino, in nome del "decoro", e della sfrenata tendenza a illudersi che il mondo sia come lo descrive la propaganda commerciale.

la Nuova Venezia, 20 gennaio 2017, con postilla

Riaprirà lunedì con una nuova procedura di accesso e di rilascio delle tessere la mensa di Ca’ Letizia gestita dalla San Vincenzo in via Querini. Da giovedì scorso a domani, domenica, niente pasti per i senza dimora nella struttura, la principale di Mestre che aiuta chi vive in povertà estrema. La causa, ribadisce il direttore Stefano Bozzi, è il comportamento di alcuni ospiti che hanno atteggiamenti talvolta violenti, acuiti dall’alcool consumato in strada.

«Ci dispiace molto per coloro e sono tanti che non c’entrano nulla con questi episodi e si comportano bene e che vengono pure loro disturbati da queste situazioni. Tanto che quando ho annunciato la chiusura, sono stati alquanto comprensivi», ci spiega Bozzi. «Per questo da lunedì con la riapertura saremo impegnati in una riformulazione delle procedure di accesso e di rilascio delle tessere. Certi comportamenti, dovuti all’alcool che non si consuma all’interno della mensa e che non può neanche essere portato dall’esterno», continua a spiegare il responsabile di Ca’ Letizia che si augura che da lunedì arrivi un ulteriore aiuto del Comune, magari attraverso una maggiore presenza in strada e di fronte alla struttura delle pattuglie della polizia locale, per tenere fuori le persone moleste.

Perché l’obiettivo è proprio questo. «Abbiamo bisogno di far rispettare le regole ma non pensiamo sia possibile esporre i volontari a minacce, sputi e spintoni. Per questo ci auguriamo un aiuto e una maggiore presenza della polizia locale», conclude il responsabile di Ca’ Letizia che ritiene questo un modo utile anche per affrontare i problemi di decoro posti da mesi dal comitato dei residenti di via Querini che sono arrivati a chiedere lo spostamento della mensa e chiedono da settimane un tavolo di confronto con amministrazione comunale, mensa di Ca’ Letizia per garantire la sicurezza di chi vive a due passi dalla struttura di assistenza e deve convivere con bivacchi e atteggiamenti poco rispettosi.
«A fronte dei fatti recenti e della recente frequentazione di un'utenza pericolosa, il comitato di via Querini rinnova la richiesta di istituire urgentemente un tavolo partecipato di discussione, al quale partecipino tutti i soggetti coinvolti, che dovrebbero unire le proprie forze, competenze e possibilità per risolvere definitivamente la questione della mensa di Ca’ Letizia, spostandola in un luogo più adeguato a sostenere il peso di questo aspetto della carità che non è più preziosa e condivisibile solidarietà, ma concreta pericolosità per gli abitanti del quartiere», fanno sapere. (m.ch.)

È utile ricordare che le mense dei poveri sono un servizio reso a persone “difficili” perché la loro situazione è difficile. La mensa dei poveri non è un self service per dipendenti comunali, e per definizione è un servizio sociale che deve dar da mangiare a persone con le difficoltà più svariate, dall’ubriaco al tossico, allo schizzato. Ahimè spesso i poveri, proprio perché sono poveri, non sono persone sempre gentile con sorriso sulle labbra, che accettano mestamente tutto quello che gli viene ordinato.

Nel caso specifico l’episodio della mensa dei poveri Ca’ Letizia di Mestre fa il paio con quello avvenuto un mese fa per un’altra mensa per i diseredati, gestita anch’essa da organizzazioni di volontariato legate alla diocesi. Anche in quel caso gruppi di cittadinanza (c)attiva, aizzati da qualche componente della giunta Brugnaro, avevano chiesto l’allontanamento dei poveri dal centro della città. Il sindaco trumpista aveva colto la palla al balzo per farsi un po’ di propaganda presso la componente più insofferente della popolazione impegnandosi a realizzare una “cittadella dei poveri” in periferia,
A lui, e ai cittadini protestatari aveva risposto per le rime il patriarca di Venezia, Miraglia, respingendo con pacata indignazione la proposta e invitando tutti a «prendere atto che nella società ci sono ricchezza, povertà, bambini, nonni, adulti, sani e malati. E bisogna cercare, nel rispetto, di offrire servizi migliori a tutti rimanendo attenti all’uomo concreto, alle sue s
tagioni e sofferenze» (vedi in eddyburg l’articolo "Il sindaco Brugnaro vuole la cittadella della povertà").
Osserviamo infine che episodi simili si ripetono sempre più spesso, per effetto della facilità con la quale l’ideologia dei respingimenti tende a prevalere su quella dell’accoglienza, grazie agli sforzi congiunti dall’arco di forze che va dai Salvini ai Minniti, passando attraverso i fautori di destra e di centrosinistra del migration compact

«controradio online,

La proposta dei sindaci della Città metropolitana ai 90 somali che occupavano il capannone-rifugio a Sesto Fiorentino dove dieci giorni fa in un incendio è morto il loro connazionale Alì Muse Mohamud, 44 anni, resta la stessa prospettata subito dopo il rogo: sì all’ospitalità, «suddivisi in gruppi nei vari comuni, per tre mesi. L’idea che devono stare tutti insieme in una struttura è una proposta irricevibile».

Lo ha detto il sindaco della Città metropolitana Dario Nardella al termine di un tavolo tecnico convocato dal prefetto Alessio Giuffrida, dopo l’occupazione da parte dei somali stessi di un edificio di proprietà dei Gesuiti in via Spaventa a Firenze.

«La differenza della proposta, rispetto a quella presentata pochi giorni fa, sta nel fatto che questa arriva da un tavolo al quale tutti i comuni erano presenti, con il supporto del prefetto che ringrazio – ha proseguito Nardella -. Tutti sono disponibili ad ospitare alcuni di loro, ma occorre rispettare le regole e tutto deve avvenire in piena legalità: nessuno può pensare di occupare perchè noi non facciamo disparità e sarebbe ingiusto, per tutti gli italiani e gli altri migranti che aspettano una casa ma non per questo occupano, un trattamento diverso. Ci aspettiamo da loro il rispetto delle regole».

Un riferimento esplicito al fatto che dopo il rogo il gruppo rifiutò la proposta di una suddivisione chiedendo una soluzione definitiva comune per tutti. Al rifiuto degli enti locali i somali, in gran parte richiedenti asilo o già da tempo in Italia con lo status di profughi, insieme al Movimento di lotta per la casa ha occupato tre giorni fa l’edificio dei Gesuiti.

Il sindaco Nardella ha quindi spiegato che entro martedì tutti i Comuni presenteranno la loro proposta. «E’ importante – ha detto – anche il fatto che questa volta ci sia un impegno concreto della Regione Toscana che si è dichiarata disponibile a dare un contributo economico ai Comuni e ha messo a disposizione tre moduli, tre casette, per un totale di 20 posti».

A proposito dell’eventuale sgombero dell’edificio di via Spaventa, sia Nardella sia il prefetto hanno ricordato che deve esserci una denuncia da parte della proprietà, cioè della Compagnia di Gesù: lo stabile è in vendita ormai da tempo. Per il momento i gesuiti sembrano voler tentare la via del dialogo con gli occupanti anche se per il sindaco della Città metropolitana la proposta di una suddivisione dei 90 ospiti in tutti i comuni dell’area dovrebbe essere una risposta che favorisce pure i gesuiti.

«Nessun comune potrebbe ospitarli tutti insieme e, tanto meno, farlo all’infinito. Qual è la situazione dell’emergenza casa – ha concluso il primo cittadino – credo sia abbastanza evidente a tutti».

postilla
Forse quei sindaci pensano di essere accoglienti e "umanitari", ma sembra – da quanto si comprende – che sfugga loro la comprensione di un aspetto decisivo per affrontare con decenza e civiltà problemi di questo genere. In quel capannone si è formata una comunità di molte decine di persone, fuggite dagli inferni che non da loro sono stati creati; persone che hanno trovato approdo precario in una regione sconosciuta. La loro unica forza è negli elementi della loro identtà di somali costretti alla fuga, nello stare insieme, in nome e in ragione delle loro comuni origini e destini. Con questa comunità occorre trattare, magari suddividendoli in nuclei ma concordando con loro le soluzioni possibili. Insomma, bisogna trattarli come persone, non biglie. E persone dotate di legami, più o meno profonde, con altre dello stesso insieme.

Il razzismo dei "non siamo razzisti". «La rivolta dei genitori forza la decisione dell’Asd Pegolotte. La motivazione è per ragioni di igiene e sanità pubblica».

la Nuova Venezia, 20 gennaio 2017

CONETTA. «Per ovvie ragioni di igiene e sanità pubblica, è stato sospeso l’accesso a questo impianto sportivo a tutte le persone accolte nel campo base di Cona che sono in attesa di essere sottoposte ai previsti controlli sanitari e vaccinazioni».

L’avviso è stato affisso lunedì per decisione della società Asd Pegolotte, ai muri degli spogliatoi dello stadio “don Mario Zanin” su richiesta dei genitori dei bambini, i quali hanno minacciato la società di ritirare i loro figli se i profughi avessero usato gli impianti, per paura di contagi.

L’Asd sostiene di non aver avuto scelta. Due notti prima un ragazzo bengalese di 19 anni, ospitato a Conetta, era finito in ospedale per sospetta meningite. Una diagnosi che, nelle ore successive, era stata precisata come encefalite virale non contagiosa. La disposizione è ineccepibile ma l’effetto è andato oltre il contenuto letterale.

Adesso due giovani profughi, tesserati con il Pegolotte, non possono più giocare nella squadra e un’altra squadra, il Campo Cona (interamente formata da profughi), una ventina, che milita in un campionato amatoriale, non può più giocare in quello stadio che, prima, era quello “di casa”. Nessuno di questi giocatori è malato. Sono tutti in regola con le vaccinazioni.

Si interrompe così un’esperienza di integrazione che dura quasi da un anno e mezzo, da poco dopo, cioè, l’arrivo dei primi profughi al campo di Conetta. In quei giorni, chi visitava, incuriosito, la ex base militare, poteva vedere spesso i giovani profughi giocare a pallone negli spazi verdi attorno alla caserma.

Ma qualcuno di loro faceva di più: andava a vedere gli allenamenti delle squadre locali, fino a Codevigo, in bicicletta, andata e ritorno, con qualsiasi condizione atmosferica. A notarli è stato un padovano, Gino Mez, con la passione del calcio che, una serata di pioggia, li ha caricati in macchina e riaccompagnati al campo.

Da lì è nato un rapporto e un lavorio di contatti, che ha permesso a sei giovani profughi di tesserarsi con il Pegolotte e ad altri 25 di dare vita alla squadra amatoriale. Percorsi diversi giunti alla stessa meta: praticare uno sport e farlo, da pari a pari, con i giovani italiani, compagni o avversari.

I trasferimenti in altri campi hanno ridotto gli organici: da 25 a 21 per il Campo Cona e da 6 a 3 per gli altri, uno dei quali è in infortunio, per un piede rotto, e non finirà il campionato. Gli altri due, invece, hanno giocato fino a domenica, in campo con i ragazzi italiani del Pegolotte. Ma da lunedì è tutto finito.

Nell'accoglienza degli sfrattati dello sviluppo gli egoismi e le paure fomentate dai neonazisti sembrano dominare in Italia. Ma non mancano le luci. Vogliamo dar evidenza a entrambi, nella cartella di Accoglienza Italia

Naturalmente il Veneto è all'avanguardia nell'applicazione delle decisioni dell'onnipotente Minniti, quella procedura neonazista che vede il passaggio dai campi di concentramento (CIE) al lavoro coatto.

La Nuova Venezia, 18 gennaio 2017

Venezia. Sono dieci i comuni del Veneziano che da quando sono arrivati i profughi nella nostro provincia, hanno firmato un protocollo con la Prefettura per impegnare queste persone in lavori socialmente utili. Si tratta di impegno su base volontaria e che sta dando dei buoni frutti sia rispetto all’impatto con le comunità che li ospitano, sia nel rendere meno oziosa la permanenza dei richiedenti asilo. I comuni che hanno un programma di inserimento con la disponibilità dei migranti sono: Annone Veneto, Salzano, Mira, Mirano, Fiesso, Dolo, San Donà di Piave, Cona, Cavallino e Stra.

Tutti gli immigrati lavorano volontariamente. Nessun obbligo come invece chiedono i sindaci del Veneto da due anni, cioè da quando sono iniziati gli arrivi anche da noi. Il Ministro Marco Minniti nel suo piano che sarà presentato oggi alla Commissione Affari Costituzionali, spinge perché tutti i migranti distribuiti sul territorio siano impegnati in lavori socialmente utili. Per il momento non c’è ancora una norma che renda obbligatorio l’impegno dei migranti in questi lavori.
Un modello preso ad esempio è quello del comune di San Donà. Una gestione della presenza di migranti che non si occupano più solo di manutenzione del verde e dell’igiene pubblica, ma anche di riparazioni e manutenzioni. Altri 5 ragazzi, dal 6 ottobre, sono stati inseriti nel programma di volontariato svolto dai migranti insieme al Comune. E hanno rimesso a nuovo alcune panchine e altri elementi di arredo urbano. «Dopo gli episodi positivi di volontariato nello sfalcio erba e nella pulizia urbana da parte dei ragazzi africani ospitati a San Donà nell’ambito del progetto Mare Nostrum», spiega l’assessore all’ecologia Luca Marusso, «la collaborazione tra l’amministrazione e i migranti si stabilizza anche con altre forme di impiego. Ringrazio il personale del Comune, per un impegno nell’integrazione di questi ragazzi, che va ben oltre i normali compiti di ufficio».
I cinque ragazzi sono di età compresa tra 19 e 28 anni e provengono da stati sottoposti a dittature e segnati da tensioni che non di rado degenerano in guerre civili, quali il Gambia e la Guinea Bissau. Hanno partecipato, insieme ad altri 15 migranti, al corso per la sicurezza dei lavoratori, lo scorso luglio, dedicato ai rischi specifici del lavoro manuale e che abilitava all’uso di piccoli macchinari. Per questo possono essere impiegati nella manutenzione di elementi di arredo urbano.
«La proposta, rivolta soprattutto alle associazioni di volontariato, è di affiancare i migranti in attività in cui non siano concorrenziali con lavoratori locali» chiarisce il sindaco Andrea Cereser, «dall’integrazione della pulizia delle strade al diserbo manuale, dalla cancellazione delle scritte sui muri alla cura del verde pubblico alle piccole manutenzioni dell’arredo urbano». Il lungo percorso che ha fatto San Donà di Piave, un modello positivo nella gestione dell’emergenza immigrazione in sinergia con la Cooperativa Villaggio globale, è passato attraverso l’impiego dei migranti prima alla mensa solidale e alla Croce Rossa.

Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli raccolti sotto il titolo "Campi di concentramento e lavoro obbligatorio. Per il governo il futuro ha un odore antico" e la relativa postilla

«È possibile contenere e rendere reversibile l'esodo. aggredendone le cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e dalla rapina delle risorse locali, miseria».

il blog di GuidoViale, 15 gennaio 2017 (c.m.c.)

Fermare il flusso dei profughi che vogliono raggiungere l’Europa dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma questo significa aggredirne le cause: guerre, deterioramento ambientale provocato dai cambiamenti climatici e dalla rapina delle risorse locali, miseria e sfruttamento delle popolazioni.

Ci vogliono molte più risorse di quelle che l’Unione europea è disposta a sborsare per indurre gli Stati di origine o di transito dei profughi a trattenerli o a riprenderseli. Ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita. Ma che vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali che li devastano: le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.

Ma c’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Non certo le popolazioni rimaste là: se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando.

Le forze che possono promuovere iniziative del genere sono le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto coloro che sono fuggiti da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo.

Tutti comunque conoscono i loro territori e le loro comunità di origine molto meglio di qualsiasi cooperante europeo. Adeguatamente supportate, non manca certo loro la capacità di individuare le soluzioni per ristabilire la pace, riqualificare il territorio, ricostituire le comunità dei loro paesi. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà.

Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti nel tessuto sociale e valorizzati per il contributo che possono dare alla soluzione dei problemi che li hanno spinti a emigrare o a fuggire è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.

Ma non è tutto. L’Europa dovrà confrontarsi in forme sempre più acute con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento.

Bistrattare profughi al loro arrivo o trattare chi è già insediato tra noi come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità di profughi e migranti già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan) se non vengono soddisfatte le loro pretese, ogni volta più pesanti e umilianti per tutta l’Europa.

Considerazioni che valgono per tutti i paesi con cui il Governo italiano ha siglato o vuole siglare accordi del genere. Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…

Autorità, politici e media non spiegano che cosa significa riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile. Intanto costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.

Ma che succede nei paesi dove si vorrebbe rispedire gli esseri umani da fermare sul bagnasciuga dell’Africa o del Medioriente? Saperlo non è difficile e chi finge di ignorarlo se ne rende corresponsabile. Succede che i morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo.

E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.

«Possiamo subire passivamente l’irreversibile aumento di entropia - quella che Ignacio Ramonet definì come «la geopolitica del caos» - e rassegnarci quindi all’inazione sine die?».

il manifesto, 18 gennaio 2017

L’orrore che ha caratterizzato le cronache internazionali a ridosso del passaggio d’anno, l’abisso di barbarie che sembra aprirsi intorno a noi, il degrado di secoli di conquiste nel solco della civilizzazione, sembrano far vacillare il principio di azione e reazione, caposaldo della fisica newtoniana ma anche eccellente descrittore delle dinamiche sociali e politiche.

Cos’altro deve accadere nel mondo perché si levi una mobilitazione di massa che sappia affermare – con la massima chiarezza possibile – che gli atti di terrore, le stragi, la paura, non avranno la meglio su una società libera, democratica e secolarizzata? E che con la stessa fermezza dica – nel contempo e una volta per tutte – che non è con la negazione dei diritti umani, con la proliferazione degli armamenti, con la costruzione di muri, che si possono costruire le condizioni di convivenza, dignità, rispetto reciproco tra popoli e Stati?

In questo senso la sponda sud del Mediterraneo, il Medio e Vicino Oriente hanno dimostrato una notevole reattività della società civile, ben superiore al Vecchio Continente, nonostante le oggettive difficoltà, come in Turchia – dove le libertà personali e i diritti civili sono oltremodo compromessi – o in Siria – dove la principale preoccupazione delle persone sarebbe quella di sopravvivere; di contro in Germania – neanche dopo il sanguinoso attacco terroristico a Berlino – si è levata una qualsivoglia forma di protagonismo dei cittadini.

Non sono mancate diverse e contraddittorie congetture sull’assopimento della società civile in questo inizio di secolo, disponiamo di strumenti di conoscenza e di analisi sopraffini, abbiamo sviluppato una straordinaria ricchezza di iniziative sulle policy e nell’interlocuzione con le istituzioni, ma quello che sembra mancare è la capacità di coinvolgimento popolare, ampio e di massa, senza cui la stessa autorevolezza di rappresentanza della società civile organizzata è destinata a barcollare.

Le forme di conflitto, la guerra asimmetrica, l’irruzione del terrorismo a tutto campo, rendono la realtà che ci circonda – e la sua descrizione – molto più complessa che nel passato: la semplificazione schematica – che non pochi risultati ha portato all’ampliamento del fronte di mobilitazione negli scorsi decenni – in buoni e cattivi, o aggressori e aggrediti, oggi è mutevole e cambia di volta in volta, a seconda dei luoghi o delle circostanze. Possiamo però subire passivamente l’irreversibile aumento di entropia – quella che Ignacio Ramonet definì come «la geopolitica del caos» – e rassegnarci quindi all’inazione ?

C’è un lavoro immane da fare sulle fondamenta culturali di una nuova cittadinanza europea e globale: la strada percorsa durante il «secolo breve» per la definizione e codifica del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo è un patrimonio che ha formato le coscienze di intere generazioni, che hanno poi tradotto nella passione civile e nell’impegno politico quel dibattito e quella tensione a loro contemporanei. Alcune cose sono andate per il verso giusto, altre si sono arenate producendo sogni infranti e disillusioni, che rischiano oggi di essere l’elemento prevalente nella cultura condivisa delle giovani generazioni, che quella esperienza non hanno vissuto.

E’ necessario ripartire proprio da qui, da una paziente e meticolosa opera di pedagogia dei diritti, di narrazione delle conquiste raggiunte, che sappia convincere e appassionare anche coloro che – per motivi anagrafici – a questo processo non hanno avuto modo di prendere parte, che àncori e ispiri l’azione concreta a principi universali. Possiamo e dobbiamo tenere insieme vocazioni e aspirazioni differenti del nostro vasto mondo, proseguendo sulla via dell’expertise e dei think tank, luoghi più ristretti dove condividere e confrontarsi su analisi, progetti e buone pratiche, ma non perdere di vista l’obbiettivo di essere soggetti includenti, popolari e di massa, missione alla quale siamo geneticamente vocati e che costituisce l’anima più propriamente politica del nostro agire come soggetti costituiti per rappresentare sogni e bisogni della società.

«Serbia.Ottomila richiedenti asilo bloccati, 1500 vivono alle porte della Capitale senza bagni né riscaldamenti in un deposito dei bus».

il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2017 (p.d.)

Il viso strisciato di nero sbuca da un sarcofago di coperte. Gli addominali si flettono, un ragazzo non ancora ventenne sputa con tutta la forza che riesce a raccogliere. La saliva è bruna, mista a fuliggine. Due colpi di tosse e, dopo il tonfo sordo del corpo che si accascia a terra, torna il silenzio. Il freddo non dà tre gua, per tutta la settimana scorsa il termometro è oscillato tra i due e i meno 20 gradi centigradi. La neve diventa ghiaccio che calpestato si trasforma in acqua sporca, scarpe e vestiti si inzuppano. L’umidità corrode i tessuti e attacca la pelle, ogni taglio diventa una piaga. L’unica soluzione è il fuoco. Non si possono contare i roghi all’interno dei quattro capannoni della stazione ferroviaria abbandonata. I fuochi accesi al chiuso vengono alimentati da plastica e vecchie traversine ferroviarie incatramate.
L’invito (scaduto) della Merkel

Sono almeno 1500 i ragazzi bloccati in questi fabbricati sulla riva dello Sprea. Afghani e pachistani, migranti che decine di mesi fa hanno sentito nei racconti degli amici già partiti, dell’apertura europea ai profughi. Probabilmente si sono messi in viaggio quando l’invito della cancelliera Angela Merkel non era già più valido.
“Riaprono i confini?”, chiedono come una litania ai giornalisti e volontari, l’unico contatto con il mondo esterno. Ed è difficile spiegare che l’accoglienza è finita, che era solo per i siriani e per un tempo limitato, già terminato. “Le frontiere si chiudono per un mese, un anno, non per sempre”, risponde Imad, 17 anni, afghano con un berretto verde militare calcato sulla fronte. Aspetta da mesi, a ogni sua parola un fumetto di vapore esce dalla bocca. In quattro sono seduti sulle strutture metalliche di alcune sedie. Le parti in legno sono ormai brace.
Mentre vivono la distanza da casa, pensano alla meta. Quella che li ha fatti partire, la ricca Baviera, è ormai inarrivabile, quindi ne scelgono un'altra. “Sono qui da quattro mesi – racconta Kaleem Khan – sono in marcia da oltre un anno. Volevo andare in Germania, ma adesso anche loro fanno i rimpatri. Meglio l’Italia, da voi danno i documenti agli afghani”. Kaleem ha 23 anni e prima di partire per il sogno europeo non si era mai allontanato da casa per più di una giornata di cammino. La sua famiglia è in Pashtunistan, nella zona occidentale del Pakistan, regione della minoranza pashtun. Con ogni probabilità, per ottenere il visto umanitario, dirà alle autorità italiane di essere afghano. La lingua è la stessa e i suoi tratti somatici, occhi affilati e gote alte, non tradiscono la nazionalità del suo passaporto. Il confine tracciato, a tavolino a fine 800, dalla linea Durand non ha cancellato la sua identità culturale afghana, ne ha limitato il potere dei talebani nel suo villaggio.
In coda per una ciotola di zuppa calda

Una volta al giorno, i sogni di questi giovani si mettono in coda. Anche con la neve, un gruppo di volontari porta una zuppa calda, ce n’è sempre per tutti. Gli attivisti si sono conosciuti a Idomeni, il campo dove decine di migliaia di persone si sono ammassate dopo la chiusura della rotta balcanica. Come durante la scorsa primavera al confine greco-macedone, gli unici europei sempre a disposizione sono una manciata di studenti con piercing e capelli colorati. E a forza di aiutare e parlare, questi coetanei iniziano a condividere anche prospettive e analisi politiche. Lo scorso fine settimana sono apparse, su diversi muri del deposito, frasi scritte con la bomboletta in un inglese incerto. “Rifugiati non terroristi” e “Aiutateci” e “Abbiamo bisogno di scarpe”.
In Serbia al momento sono bloccati quasi 8000 richiedenti asilo. Ai 1500 che vivono senza bagno né riscaldamento nel deposito dietro la stazione dei bus, si devono aggiungere diverse centinaia di accampati per strada o in occupazioni abitative. Mentre nei campi ufficiali, sparsi in tutto il Paese, sono ospitati in 6000. Krnjaca, alle porte della Capitale, ha una storia ventennale. Qui sono stati accolti i profughi croati e bosniaci degli anni Novanta, ora ci vivono 1154 persone. “La metà sono afghani – racconta Ivan Miskovic, responsabile governativo del campo – tutte famiglie e soggetti vulnerabili”. Le casette che compongono il centro racchiudono una serie di stanze di pochi metri quadrati.
Lo scultore diventato barbiere

Un armadio e due, tre, quattro letti a castello, fino a riempire ogni spazio. Tutto bianco, pulito, asettico. Anche i vialetti tra le baracche sono candidi, il sole rimbalza sulle lastre di ghiaccio che ricoprono tutto. Accecato dalla luce un bimbo piega la testa a favore dell’uomo che gli sta tagliando i capelli. Il barbiere, afghano come il suo giovane cliente, è in realtà uno scultore. Con lui ci sono la moglie e due ragazzi di 17 e 17 anni. “Siamo stati minacciati a lungo – racconta Shafiullah, il figlio maggiore – mio padre è un artista, ma secondo alcuni non rispetta i precetti religiosi islamici. Scolpisce figure umane”. Sono in questo campo da oltre cinque mesi e aspettano di poter andare in Ungheria, legalmente. “Il nostro numero è il 423, oggi hanno fatto passare il 404 e il 405. È quasi finita”.
Per un approccio dignitoso al tema dell'accoglienza - per una società che voglia essere coerente con le sue migliori tradizioni - servono certamente volontà politica e disposizione popolare,

ma anche proposte concrete. Per Firenze ci sono già. La Città invisibile newsletter, 15 gennaio 2017

L’assessore al welfare, Sara Funaro, invita la città ad offrire sacchi a pelo per far fronte all’ “emergenza profughi” tornata alla cronaca con la morte di Alì Moussa. Rifugiato politico, somalo, Moussa è vittima dell’incendio del capannone industriale nel quale da due anni vivevano cento “migranti”, di vecchia e nuova data. Reietti e clandestini per legge, cui il Comune di Firenze, inabile, non aveva fornito alloggio dopo l’ultimo sgombero.

La politica dell’accoglienza da parte delle istituzioni non può, non deve limitarsi alla risibile invocazione di opere di misericordia presso i singoli. Deve e può, invece, offrire casa e diritti, uguaglianza e cittadinanza, ai superstiti dell’incendio e ai molti altri – stranieri ed italiani – presenti sul territorio in analoghe, precarie condizioni abitative.

Nell’età del neolicapitalismo agguerrito, non si pretende certo che gli amministratori requisiscano gli appartamenti sfitti, come fece nel post-alluvione il (da loro) tanto invocato – perlopiù a sproposito – sindaco La Pira. Si pretende invece, che offrano ai migranti un rifugio che renda agli «umili» (P. Toschi, Il Ponte, 1945) dignità e pieni diritti di cittadinanza.

Si pretende il colpo d’ala. Che il Comune di Firenze, o la Città metropolitana, offra una casa al “popolo nuovo”, nel cuore delle città. Non ci accontenteremo delle periferie e delle «casette mobili prefabbricate» proposte dalla Regione Toscana (cfr. la Repubblica-Firenze, 14 gennaio 2017).

E case nel cuore della città non ne mancano. È sufficiente aprire il catalogo di Nardella – sindaco del capoluogo e della sua area metropolitana – e pescare, tra quelli presentati alle fiere della speculazione immobiliare, uno dei tanti edifici vuoti in attesa dell’agognata valorizzazione (economica). Centinaia di migliaia di metri cubi.

Alle istituzioni locali si richiede lungimiranza. Che comprendano cioè che il centro città ha bisogno di essere ripopolato e non messo in vendita in nome del lusso e della speculazione fondiaria. Per far ciò la città deve rispolverare le virtù civiche dell’accoglienza di indigenti e viandanti, non affidarsi solo a quella mercificata di lusso.

Firenze e le altre città toscane possono attingere a un’ammirevole tradizione ospitale, di hospitalitas rivolta ai bisognosi di ogni provenienza e fede. Molti edifici nati in funzione dell’accoglienza si trovano ora in stato di abbandono. Così le caserme, vuote o in vendita, naturalmente attrezzate (e già pronte) per l’accoglienza provvisoria, pur di altra ascendenza: caserma Baldissera; ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq); Accademia di Sanità militare in via Tripoli; Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio; Caserma Cavalli in piazza del Cestello; Dogana in via Valfonda.

Tra gli edifici centrali cui potrebbe esser fatto ricorso, spicca l’ex convento di San Paolino (poi Monte di Pietà, in via Palazzuolo), inutilizzato da anni, pronto ora per essere trasformato in hotel di lusso da parte di un colosso alberghiero. In un quartiere che avrebbe invece bisogno di luoghi di socialità, di aggregazione e di cura.

All’interno di un progetto urbano di lungo termine, che sia conforme ai tempi della pianificazione e non a quelli dell’emergenza, il complesso di Sant’Orsola (di proprietà della Città metropolitana) potrebbe risultare invece – per posizione, per volumi, per lo stato dei lavori di consolidamento già effettuati, per natura proprietaria – un’ubicazione preferenziale per l’ospitalità di rifugiati, richiedenti asilo, senza tetto e profughi, che si lasciano alle spalle guerre e paura.

In quei settori del centro cittadino nei quali risulta evidente una situazione di disagio sociale e abitativo – ciò che torbidi o inani amministratori chiamano “degrado” –, la trasformazione di un edificio monumentale e la sua restituzione alla cittadinanza rappresenterebbe un’operazione esemplare di emersione del dolore che affligge, nella città vecchia, il popolo nuovo.

I voltafaccia dei governanti e (molto peggio) la disumana realtà delle loro decisioni. Articoli di Silvia d'Onghia e Fiorenza Sarzanini.

Corriere della Sera il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2017, con postilla


Il Fatto Quotidiano
QUELLI CHE…
I CIE ERANO CAMPI DI CONCENTRAMENTO
di Silvia d'Onghia

«Il ministro dell’Interno, Minniti, ha annunciato nuovi Centri di identificazione ed espulsione. Fu lui stesso, da responsabile Sicurezza del Pd nel 2009, a chiederne la chiusura. E non era il solo»

I centri di identificazione degli immigrati assomigliano «a dei campi di concentramento, tanto è vero che il Parlamento ha negato che la permanenza possa essere aumentata a sei mesi». Peccato che il governo, ponendo la fiducia, abbia prolungato la permanenza nei Cie fino a sei mesi”. Parola di Marco Minniti, quando ancora non era ministro dell’Interno. Era il Marco Minniti responsabile sicurezza del Pd, il 19 maggio 2009: al governo c’era Silvio Berlusconi. Forse è la stessa persona? Chissà. Certo di acqua ne è passata sotto i ponti in quasi otto anni: si è andati a votare nell’ormai lontano 2013, i governi sono cambiati, l’immigrazione è tornata a essere un’emergenza dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum e, soprattutto, dopo le stragi terroristiche che hanno colpito l’Europa.

E allora si vede che il remoto ricordo dei Cie come “campi di concentramento”, in cui i migranti si cucivano le bocche o davano fuoco alle strutture per protesta, è svanito nel nulla (il nostro è un Paese dalla memoria corta) o è stato ammorbidito dalle rassicuranti parole del nuovo Minniti: “Non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi”, ha detto il neo ministro dell’Interno lo scorso 5 gennaio, poco dopo aver tirato fuori il coniglio dal cilindro.

Memoria corta, dicevamo. Del resto non tutti ricordano che i Centri di identificazione ed espulsione furono istituiti dalla legge 40 del 6 marzo 1998, passata alla storia come Turco-Napolitano. L’allora ministra per la Solidarietà sociale e l’allora collega agli Interni previdero per la prima volta di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in appositi Centri definiti “di permanenza temporanea e assistenza”, poi trasformati nel 2011 in Centri di identificazione ed espulsione. Il Testo Unico sull’immigrazione ha subìto negli anni alcune modifiche: prima con la Bossi-Fini (2002) e poi con il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi, che nel 2008 ha introdotto il reato di immigrazione clandestina. Nel 2014 il Parlamento ha delegato al governo la riforma del sistema sanzionatorio dei reati (l’irregolarità del soggiorno non dovrebbe avere più rilievo penale), ma ad oggi, nonostante vi siano almeno sei proposte di legge ferme, nonostante la Corte Europea abbia stabilito che gli ingressi irregolari di migranti non possano essere sanzionati con il carcere e nonostante il richiamo – lo scorso anno – del presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio (“un reato inutile e dannoso”), nessuno ha fatto nulla.

L’articolo 14 del Testo Unico del ’98 prevede che “quando non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera” (e su questo giornale abbiamo visto le difficoltà della polizia a farlo), il questore “disponga che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario” presso un Cie. Il “tempo necessario”, inizialmente di 30 giorni (Turco-Napolitano), è diventato di 60 con la Bossi-Fini, di 180 con il “pacchetto sicurezza” del 2008 e addirittura di 18 mesi nel 2011; è tornato di 90 giorni nel 2014, ma un decreto legislativo del 2015, in attuazione di una direttiva europea, ha previsto in alcune circostanze il trattenimento fino a un anno per il richiedente asilo che “costituisce un pericolo per l’ordine e la sicurezza” e per il quale sussiste “rischio di fuga”. Attualmente sono sei i Cie funzionanti (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Crotone, Roma e Torino), anche se il sito del Viminale, fermo a luglio 2015, ne elenca soltanto cinque. Diventeranno molti di più, piccoli e in ogni Regione, se il nuovo Minniti andrà avanti per la sua strada. Giovedì prossimo il ministro incontrerà i governatori per illustrare le proprie intenzioni: “Proporrò strutture piccole, che non c’entrano nulla con quelle del passato, con governance trasparente e un potere esterno rispetto alle condizioni di vita all’interno”.

E dire che, all’epoca, Minniti non era il solo del suo schieramento a pensare che i Centri dovessero essere chiusi. Nel giugno 2011, mentre Roberto Maroni faceva approvare – tre giorni dopo Pontida – il decreto legge che innalzava a 18 mesi la permanenza nei Cie, l’attuale sottosegretario piddino Sandro Gozi solennemente commentava: “Il ministro Maroni ha voluto solo mostrare il pugno duro, ma è propaganda con le gambe corte, buona solo per Pontida e conferma che il governo affronta il fenomeno dell’immigrazione solo con politiche repressive”. Si vede che adesso che è al governo anche lui, le politiche repressive hanno le gambe più lunghe. Nel 2012, il Forum Immigrazione del Partito Democratico affrontava le “linee programmatiche a breve e media scadenza: dalla abrogazione del reato di clandestinità al superamento dei Cie. Occorre superare il diritto speciale dello straniero e tornare a un sistema di espulsione che sia coerente con la nostra Costituzione”.

E solo tre anni e pochi giorni fa, il 18 dicembre 2013, il vice ministro dell’Interno, Filippo Bubbico (incarico del premier Letta, poi confermato da Renzi e Gentiloni), a proposito del Centro di Lampedusa tuonava: “Bisogna riformare il prima possibile quelle norme, bisogna chiudere il Cie”. La notte dei governi, evidentemente, porta consiglio.

Corriere della Sera

«CHI CHIEDE ASILO DOVRÀ LAVORARE»
di Fiorenza Sarzanini

«Nuove regole per gli immigrati: chi arriva in Italia e chiede asilo dovrà svolgere lavori socialmente utili in attesa di ottenere risposta all’istanza. È una delle norme che sarà illustrata mercoledì al Parlamento dal ministro dell’Interno, Marco Minniti. Per quanto riguarda i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) saranno strutture da massimo cento posti. Record di sbarchi dall’inizio dell’anno»

ROMA Chi arriva in Italia e chiede asilo dovrà svolgere lavori socialmente utili in attesa di ottenere risposta all’istanza. È una delle novità più importanti del pacchetto di nuove misure in materia di immigrazione che sarà illustrato mercoledì al Parlamento dal ministro dell’Interno Marco Minniti, al ritorno dalla sua missione in Germania proprio per discutere di una linea comune in sede europea.

Si tratta di un insieme di regole che hanno l’obiettivo di marcare il «doppio binario» tra profughi e irregolari e si affiancheranno a due proposte legislative sulle quali spetterà alle Camere pronunciarsi. In attesa di chiudere nuovi accordi bilaterali con gli Stati africani che in cambio di aiuti sono disposti ad accettare i rimpatri, ritenuti una delle priorità dal governo.

60 sbarchi al giorno

L’appuntamento è fissato davanti alla commissione Affari costituzionali nell’ambito di un progetto che coinvolge anche le Regioni e i Comuni. Un percorso condiviso che — come ha sottolineato il titolare del Viminale — «servirà a garantire accoglienza a chi ha titolo, essendo inflessibili con chi non ha i requisiti per rimanere nel nostro Paese».

Anche tenendo conto dei numeri: nei primi dodici giorni del 2017 sono sbarcate 729 persone, il triplo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con una media di 60 al giorno. A ciò si aggiunge l’emergenza per i minori non accompagnati. Secondo Telefono azzurro lo scorso anno sono scomparsi in Italia oltre 5.000 ragazzi e bambini.

I venti Cie

I nuovi Cie saranno strutture da massimo cento posti, stabili demaniali lontani dai centri delle città, preferibilmente vicini agli aeroporti.

All’interno lavoreranno i poliziotti per effettuare la procedura di identificazione ed espulsione in modo da poter poi pianificare i rimpatri. La vigilanza esterna potrebbe essere affidata ai soldati che finora hanno svolto compiti di sorveglianza per il dispositivo antiterrorismo.

All’interno sarà sempre presente un «garante» che possa verificare il rispetto dei diritti degli stranieri. A Roma, Torino, Crotone e Caltanissetta si è deciso di utilizzare i centri già operativi, altrove si stanno individuando gli edifici adeguati. Dovrebbero rimanere escluse la Valle d’Aosta e il Molise, anche tenendo conto delle difficoltà per effettuare i trasferimenti.

Il lavoro

Due mesi dopo la presentazione della richiesta di asilo, ai migranti viene rilasciato un documento in cui vengono indicati come «sedicenti» rispetto alle generalità che hanno fornito al momento dell’arrivo.

Basterà quel foglio per inserirli nel circuito dei lavori socialmente utili che diventerà uno dei requisiti di privilegio per ottenere lo status di rifugiato. Proprio come già accade per il corso di italiano obbligatorio per chi vuole ottenere la cittadinanza.

Si faranno convenzioni anche con le aziende per stage che potranno essere frequentati da chi ha diplomi o specializzazioni, proprio come avviene in Germania, nell’ottica di inserire gli stranieri nel sistema di accoglienza avendo la loro disponibilità a volersi davvero integrare.

Le nuove norme

Sono due le norme per le quali si chiederà al Parlamento di valutare modifiche sostanziali. La prima riguarda la possibilità di presentare appello contro il provvedimento che nega l’asilo, sia pur prevedendo alcune eccezioni. Si tratta di una misura che mira a snellire le procedure, evitando inutili lungaggini che impediscono di far tornare nel proprio Paese chi non ha titolo per rimanere.

Una linea che riguarda anche il reato di immigrazione clandestina, di cui da tempo i magistrati chiedono l’abolizione proprio perché impedisce di rendere effettive la maggior parte delle espulsioni. Chi viene denunciato e poi processato per questo illecito può infatti chiedere e ottenere di rimanere in Italia fino alla sentenza definitiva. Con il risultato di non poter effettuare il rimpatrio, anche se lo Stato di nascita concede il nulla osta.

postilla

Non scandalizzano i voltafaccia dei governanti. Scandalizza invece che si persista a non considerare persone umane i soggetti della cui vita si dispone. Le norme "innovative" del governo renziano servono a: (1) utilizzare quelli che riescono a varcare i cancelli della Fortezza Italia come forza lavoro, obbligandoli di fatto ad accettare qualsiasi lavoro purchessia; (2) a rendere più semplici le procedure da utilizzare per rispedirli negli inferni da cui sono fuggiti. Non meraviglia che come strumento intermedio si adoperi quello dei CIE, cioè dei campi di concentramento. Popolo di santi, poeti, eroi e ...aguzzini.

Anche oggi, una testimonianza dell'epidemia velenosa che serpeggia nel popolo italiano. Dicono che ospitare bambini cacciati dalle loro terre può minacciare il business turistico e la sicurezza pubblica,«visti i recenti fatti di cronaca che leggiamo tutti i giorni» (?!).

L'Avvenire, 15 dicembre 2017

È bastata la sola ipotesi del possibile arrivo di 32 profughi minorenni per mandare in allarme la piccola frazione di Ponte Sasso, nel Comune di Fano, in provincia di Pesaro Urbino. I giovanissimi migranti dovrebbero essere ospitati in una porzione di prossima ristrutturazione dell’ex colonia marina Mater Purissima, di proprietà dell’Arcidiocesi di Urbino.

Il bando del ministero dell’Interno per l’accoglienza attraverso i progetti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) non è stato ancora formalmente aggiudicato al Comune di Fano e alla cooperativa Labirinto ma alcuni residenti, insieme alle associazioni di categoria e ad un comitato civico, hanno avviato da giorni una serie di iniziative pubbliche di protesta. In una lettera, indirizzata ai mezzi di informazione, i firmatari parlano di minaccia «alla sicurezza pubblica ed economica visti i recenti fatti di cronaca che leggiamo tutti i giorni». Per alcuni esercenti del posto inoltre la presenza di questi minori potrebbe compromettere la prossima stagione turistica mentre, su facebook, è particolarmente attivo il gruppo pubblico 'Se sei di Ponte Sasso', dove si possono leggere una marea di commenti dai toni spesso molto pesanti.

Eppure gli abitanti di Ponte Sasso non ci stanno a passare per razzisti ed hanno appeso davanti alla colonia un maxi striscione con la scritta «Salviamo la nostra infanzia». Quella struttura infatti – a detta dei manifestanti – fa parte della storia della piccola comunità locale che teme che ai 32 minori si possano aggiungere altri migranti. In merito alla vicenda è intervenuto anche l’arcivescovo di Urbino-Urbania-S. Angelo in Vado che, sulla stampa locale, ha invitato a riflettere sul dovere di accoglienza verso ragazzini che non hanno più accanto i genitori. E sulla stessa linea è anche il settimanale Il Nuovo Amico delle diocesi di Pesaro, Fano e Urbino. «Domenica 15 gennaio – scrive la testata cattolica – cade la 103esima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che quest’anno è dedicata proprio ai migranti minori. Il Papa nel suo messaggio sollecita tutti a prendersi cura dei fanciulli che sono tre volte indifesi perché minori, perché stranieri e perché inermi, quando, per varie ragioni, sono forzati a vivere lontani dalla loro terra d’origine e separati dagli affetti familiari. Davvero – conclude l’editoriale – sono un pericolo 32 bambini e adolescenti rimasti soli al mondo?».

Ma nel frattempo la protesta va avanti sostenuta anche da alcune forze politiche di minoranza, mentre i residenti di Ponte Sasso hanno chiesto un incontro ufficiale con il sindaco di Fano e con la cooperativa Labirinto.
legge Sarkozy” e nascondono in casa uomini, donne e bambini diretti verso il nord Europa dando cibo, vestiti e una speranza. Nella valle degli angeli che accolgono i profughi “Noi qui li aiutiamo e rischiamo il carcere”». la Repubblica, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
Teresa è una giovane maestra di origine italiana. La sua prima volta è stata la primavera scorsa. «Ero in auto coi miei bambini. Ho incrociato la géndarmerie, poco dopo ho intravisto tre ragazzini nascosti dietro un albero. Terrorizzati». Ha accostato, aperto la portiera. «Presto, salite. Vi porto a casa». Li ha ospitati una settimana. «Mi chiamavano mamma, avevano 16 anni». Un mese più tardi i tre erano mille chilometri più lontano. Calais. «Un giorno mi hanno scritto su Facebook. Da Liverpool. Avevano raggiunto i parenti, ce l’avevano fatta». Da allora, Teresa ha accolto non meno di venti migranti. In questi giorni a casa ne nasconde due, fratello e sorella, eritrei, anche loro minorenni, entrati in Francia dopo essere sbarcati in Italia da qualche settimana. Poi c’è Thibaut, contadino. Lui ha cominciato un anno fa: «Anche io li ho trovati sulla strada, subito dopo il confine. Pioveva fitto. Avevano freddo, morivano di fame.
Lo sapevo che era un reato, che avrei dovuto segnalarli alla polizia: ma voi non avreste fatto lo stesso?». Gibì, pensionato, è stato arrestato venerdì scorso con altri 3 compaesani: rischiano 5 anni di galera e 35.000 euro di multa secondo la “legge Sarkozy”, che punisce chi agevola l’ingresso o la circolazione di immigrati irregolari. «Ne stavamo accompagnando un gruppo verso una stazione ferroviaria più sicura, ormai non potevano più restare lì dove li avevamo messi ». Josianne, allevatrice, racconta che è normale: «Qui nella valle è sempre successo: un secolo fa ospitavamo i migranti italiani che andavano a lavorare a Nizza, a Marsiglia. Una mia bisnonna ne sposò uno. Nel dopoguerra siamo stati noi, da sfollati, ad essere accolti a Torino. Partigiani dell’umanità. E la storia continua».
La storia della Val Roia, risalendo il fiume che sfocia a Ventimiglia nei pressi della frontiera. Sei piccoli Comuni francesi abbarbicati sulle montagne (Tenda, Briga, Saorge, Fontan, Sospel, Breil-sur-Roya) per meno di seimila abitanti in tutto, un’enclave aspra e solidale come questa terra. Che dal 2015, da quando sono ripresi i controlli alle frontiere, infischiandosene della legge e della possibile galera ospita nelle proprie case migliaia di persone.
Migranti. Uomini, donne, soprattutto minori che in attesa di chiarire la loro posizione non dovrebbero lasciare il Paese europeo dove sono stati identificati – l’Italia -, invece varcano comunque il confine in cerca di un’altra vita. Per evitare gli stretti controlli lungo i varchi a ridosso del mare, percorrono a piedi la Statale 20 parallela al fiume o se ne vanno per i binari del treno che viaggia verso Cuneo. E dopo cinque ore di cammino ecco la Francia, i boschi rocciosi delle Alpi Marittime, però non lontano dal Colle di Tenda e nuovamente dal territorio italiano, dove a volte nel loro disperato peregrinare finiscono per errore, sfortuna, destino. «Vado a Parigi ». «Londra». «Stoccolma».
I ragazzi li incontri a tutte le ore percorrendo la statale: si confessano con una ingenuità disarmante, un’insopprimibile luce di ottimismo nello sguardo. Per i gendarmi è un gioco prenderli, riportarli in Liguria. Ma il giorno dopo ec- co che tornano a camminare verso nord, cocciuti. Fino a quando non passa qualcuno come Teresa, Thibaut, Gibé, Josianne. Qualcuno che li nasconde, li cura, li sfama, dà loro vestiti e nuova speranza. Per un paio di settimane al massimo. In qualche modo, quelli della valle riescono poi a farli salire su di un treno diretto verso la capitale. «E dopo, si vedrà».
Cedric Herrou, che vive a Breil, è diventato il simbolo della valle. L’altra settimana il tribunale di Nizza lo ha condannato a 8 mesi con i benefici di legge. Per “trasporto di migranti” che aveva anche ospitato nella sua cascina. «Continuerò a farlo. Cioè, a fare il mio mestiere: l’agricoltore, quello che dà da mangiare alla gente. Senza preoccuparsi del colore della pelle o dei documenti».
Nello stesso giorno è stato assolto un professore universitario di Nizza, Pierre- Alain Mannoni, che a sua volta aveva dato un passaggio dal Roia oltre la frontiera a tre giovani eritree: «Il giudice ha citato la convenzione dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che era un mio dovere aiutare delle persone in pericolo ». Però la Procura ha presentato appello. Qualche ora più tardi, a Sospel, la polizia ha fermato 3 auto con a bordo 9 migranti (ma una è riuscita a passare): Gibì e Dan, più due amici, sono stati fermati. Gli stranieri che erano con loro, rispediti in Italia. «Siamo stati rilasciati dopo 24 ore. E nel frattempo alcuni dei ragazzi erano già di nuovo dalle nostre parti».
In questa regione, Provenza- Costa Azzurra - si vota l’ultradestra. Ma non nella Val Roia e meno che mai a Saorge, la “rossa”. Le notizie degli arresti – e qualche delazione, dicono, perché c’è sempre una pecora “nera” – non hanno spaventato nessuno, anzi. “Roya Citoyen”, associazione che distribuisce alimenti e vestiti ai rifugiati – assicurando ogni giorno 200 pasti a chi è rimasto a Ventimiglia – ha cominciato a ricevere aiuti da tutta la Francia. E altri ancora aprono la porta di casa.
«A volte accade che in famiglia non si sia tutti d’accordo. Allora, quando il marito in quel momento non c’è, ecco che la moglie ospita qualcuno, o viceversa. Tanto, il coniuge che torna non ha mai il coraggio di mandarli via», spiega Elisabetta. Che non ha paura a parlare, o a farsi fotografare. «Non mi interessa la politica, non faccio parte di movimenti. Come gli altri, non ho una soluzione per quello che accadrà domani. Ma so che devo fare qualcosa per questi ragazzi. Ora. E non credo proprio di violare la legge, anzi. L’umanità non è un delitto».

Nelle comunità migranti nel nostro continente le potenzialità per la rinascita di Africa e Medio Orientee per rendere concreta una strategia di pace nel mondo. Respingimenti e xenofobia alimentano invece il terrorismo». il manifesto, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)

Fermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento.

Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità.

L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.

C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo.

La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata.

L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi.

Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange.

E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore…

Riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo.

I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.

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