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«». il blog di GuidoViale,

Si può essere sovranisti in campo economico (no all’euro e all’Unione europea, sì a svalutazioni competitive e protezionismo, ecc.) senza essere anche razzisti in campo politico?

Il razzismo di oggi si manifesta innanzitutto nell’atteggiamento e nelle misure da adottare nei confronti dei profughi: il principale problema politico, oltre che sociale e culturale, che l’Europa, e con essa l’Italia, si trova di fronte; quello che ne mette in crisi la coesione sia tra gli Stati membri che all’interno di ogni paese; e che continuerà a sussistere nei prossimi decenni, perché nasce da processi epocali.

Non è casuale che nei numerosi interventi a favore dell’uscita dall’euro o dall’Unione europea, il tema dei profughi non venga mai toccato; oppure vi si accenni di sfuggita, alla fine del ragionamento, senza rendersi conto che invece è il perno intorno a cui ruota e si qualifica ogni prospettiva politica di cambiamento radicale. Il presupposto tacito di questo approccio è che le questioni dell’euro, dell’austerity, della sovranità monetaria possano essere affrontate isolandole dal contesto sociale e geopolitico in cui sono nate e si sono sviluppate, come se il campo economico fosse dotato di leggi proprie, quelle del mercato, che si insegnano all’università, e che “valgono” sempre: sia in presenza di politiche cosiddette liberiste che di politiche interventiste. Di qui la tesi che esistano due sovranismi: uno di destra e uno di sinistra; e che si distinguano tra loro non tanto per le diverse misure economiche che propongono, ma solo per le opzioni in campo sociale e politico.

Ma la questione dei profughi è una questione europea, che può essere affrontata solo a livello europeo. Sbarcano, se non annegano nel Mediterraneo, in Italia – come sbarcavano e torneranno a sbarcare in Grecia, non appena Erdogan avrà perso interesse ai buoni rapporti con l’Unione – perché sono i loro punti di approdo; ma la loro meta è l’Europa, dove Italia e Grecia sono e restano i paesi meno appetibili: quelli che fino a un anno fa, per la maggior parte di loro, erano solo paesi di transito; poi le frontiere interne dell’Unione, quelle che il trattato di Schengen dovrebbe tenere aperte, si sono chiuse e quell’umanità dolente ha cominciato ad accumularsi nel nostro paese. Accumularsi è il termine giusto, perché le autorità italiane la trattano come “cose”: da stoccare in qualche modo in attesa di potersene liberare. In Grecia, per ora, non ne arrivano quasi più; ma anche lì ne sono rimasti “intrappolati” più di 60mila.

Che fare? L’Europa ha la possibilità e l’interesse ad accoglierli tutti: perde, per calo demografico, tre milioni di abitanti all’anno e ha – e avrà sempre più – bisogno di rimpiazzarli per motivi sia economici che sociali e culturali; per non diventare un continente di vecchi, in declino economico, ripiegato su se stesso, culturalmente sclerotizzato, geo-politicamente isolato. Perché la trasformazione del continente in fortezza è bidirezionale. Respingere profughi e migranti, posto che sia possibile, significa ributtarli tra le braccia dei governi, delle bande armate, del degrado sociale e ambientale da cui sono fuggiti; trasformarli in ostaggi o reclute delle forze in campo. Ma significa anche rendere tutti quei paesi off limits per gli europei: chi potrà più andare di persona a fare investimenti, o cooperazione, o turismo, o “scambi culturali” nelle regioni controllate da uno Stato Islamico?

Poi ci sono più di 40 milioni di cittadini europei o di immigrati residenti in Europa che appartengono a comunità religiose o linguistiche in qualche modo legate ai paesi da cui provengono quei profughi. Trattarli come cose da respingere al mittente significa rinfocolare in quelle comunità sentimenti di estraneità e reazioni di ripulsa e di vendetta di cui le stragi che hanno insanguinato il continente sono solo le prime avvisaglie. Continuare su questa strada significa rendere la convivenza in Europa sempre più difficile, alimentando paure e reazioni difensive che sconfineranno sempre più in aperto razzismo.

Per questo la lotta per l’accoglienza e l’inclusione dei profughi che arrivano o cercano di arrivare in Europa va condotta a livello europeo, unendo tutte le forze che si stanno mobilitando contro i respingimenti – e che non sono poche, anche se non hanno voce sui media – in una prospettiva che è al tempo stesso culturale, sociale, politica ed economica: perché esige un cambio di passo nelle politiche economiche al solo livello, quello europeo, in grado di rendere efficace, in termini di occupazione, di redditi e di welfare, la lotta contro l’austerità.

E’ l’austerità, infatti – quella che ha creato 25 milioni di disoccupati tra i cittadini europei – ad aver reso l’arrivo dei profughi un problema, mentre prima della crisi un numero molto maggiore di cosiddetti “migranti economici” veniva non solo accolto e inserito nella società, ma anche richiesto e apprezzato dai datori di lavoro.

L’alternativa a questo irrinunciabile cambio di passo è respingere, o cercare di respingere, o far credere – per meschine ragioni elettorali – di poter respingere; cioè lavorare per estendere a tutti i paesi del Medioriente e dell’Africa centrosettentrionale da cui provengono i profughi diretti in Europa accordi analoghi a quello con la Turchia. Un disegno feroce che equivale a condannare a morte, o a violenze e soprusi di ogni genere, o all’inedia o, nella migliore delle ipotesi, a riprendere da capo la strada da cui sono stati riportati indietro, tutti i profughi che si sarà riusciti a respingere o a “rimpatriare”.

Se non è razzismo questo, che cosa è mai il razzismo? Ma è anche un disegno, come già si intravvede, troppo complesso e impegnativo, oltre che cinico e criminale, per andare in porto: quei paesi non sono la Turchia; in molti ci sono persino Governi che non governano. Senza contare che anche l’accordo con la Turchia è molto precario. Da un momento all’altro Erdogan potrebbe rovesciare in Europa i “suoi” tre milioni di profughi in un colpo solo…

In ogni caso, una volta fuori dall’euro e dall’Unione europea per tutte le forze che lottano per un mondo diverso sarà impossibile anche solo battersi per una politica comune di accoglienza in Europa. Le frontiere al Brennero, a Ventimiglia, a Como, già oggi chiuse, non si apriranno più e sull’Italia, lasciata sostanzialmente sola, verrà scaricato, ben più di quanto già non succeda ora, tutto il peso e l’orrore delle attività operative e delle responsabilità politiche dei respingimenti. E’ questo che vogliamo?

Il cuore e il cervello dei governanti italiani continuano a rimpicciolirsi. Ciò che resta del secondo viene impiegato per per irrigidire le barriere e rendere schiavi chi riesce a superarle. Articoli di Leo Loncari e Alessandro Dal Lago.

il manifesto, 11 febbraio 2017


RIMPATRI, LAVORO E MENO DIRITTI
PER I RICHIEDENTI ASILO
di Leo Lancari

«I buttafuori. Il governo vara un decreto con le nuovemisure sull’immigrazione. Tolto un grado di giudizio nell’esame delle domandedi protezione»
Un taglio netto ai diritti di quanti chiedono asilo inItalia, accelerazione dei rimpatri per i quali sono stati raddoppiati i fondi eriapertura dei fallimentari Centri di identificazione ed espulsione, che peròda oggi si chiameranno Centri permanenti per i rimpatri per i quali sono statianche aumentati i tempi massimi di detenzione, passati dagli attuali 90 giorniprevisti per i Cie a 135.
Con un decreto legge il governo vara il pacchetto sull’immigrazionemesso a punto dal ministro degli Interni Marco Minniti e presentato nei giorniscorsi in parlamento. «L’obiettivo strategico non è chiudere le nostre porte matrasformare sempre più i flussi migratori da fenomeno irregolare a fenomeno regolare,in cui non si mette a rischio la vita ma si arriva in modo sicuro nei nostripaesi e in maniera controllata», ha detto il premier Paolo Gentilonipresentando il provvedimento. Dimenticando, però, di spiegare quali sarebberole vie sicure per arrivare in Europa visto che, dall’accordo con la Turchia aquello con la Libia (in bilico prima ancora di cominciare), gli sforzi europeisembrano concentrati soprattutto nel fermare le partenze dei barconi carichi didisperati.

TEMPI RAPIDI PER L’ASILO. Salvo modifiche in futuro ilprofugo che si vedrà respingere la richiesta di asilo per un ripensamento potràcontare solo sulla Cassazione. Per «ridurre i tempi» dell’esame delle domande,il governo ha infatti pensato bene di sopprimere un grado di giudizio. «C’è un’emergenzae non ci possiamo permettere che i tempi del processo ci sfuggano di manodeterminando effetti su forze dell’ordine e Comuni», ha spiegato il ministrodella Giustizia Andrea Orlando. Sempre per velocizzare i tempi è previstal’assunzione di 250 specialisti da utilizzare nelle commissioni di esame (10,2milioni l’anno la spesa prevista) e verranno istituite in 14 tribunali ordinarialtrettante sezioni specializzate con giudici dedicati a questa attività. «E’utile intervenire con urgenza sull’impatto del fenomeno migratorio sullagiurisdizione – ha proseguito Orlando – perché i tempi del riconoscimento dellostatus di profughi stanno crescendo: da 167 a 268 giorni». Una lentezza dovutaanche alla complessità dei casi da esaminare (e che per questo richiederebberomaggiori garanzie) , come ammette lo stesso Guardasigilli. «Comprendere se c’èun presupposto dell’asilo o meno è più complicato rispetto ai tempi in cui iluoghi di provenienza dei migranti erano meno».

CENTRI PER I RIMPATRI Vanno a sostituire i vecchi Cie e cene sarà uno in ogni regione per un totale di 1.600 posti. I tempi di detenzionepassano dagli attuali 90 a 135 giorni e nei Cpr potrà essere internato, fino atre mesi, anche chi, rintracciato sul territorio si rifiuta di farsi rilevarele impronte digitali. Il governo ha anche stanziato 19,5 milioni di euro in piùper i respingimenti, mentre i garanti per i detenuti avranno libero accesso neiCpr per effettuare dei controlli.

LAVORI SOCIALMENTE UTILI I richiedenti asilo potranno essereimpiegati in «lavori di utilità sociale a favore della collettività». E’previsto che, grazie all’utilizzo di fondi europei, i Comuni possano dar vitainsieme alle organizzazioni del terzo settore a progetti che prevedanol’impiego volontario dei richiedenti asilo (per i quali è prevista unacopertura assicurativa).

BARCONI Il decreto prevede infine che al termine delleoperazioni di soccorso dei migranti il comandante dell’unità milita intervenutapossa procedere all’affondamento del barcone sul quale viaggiavano i migrantiper poi trasmettere nelle 48 ore successive il verbale dell’operazione alpubblico ministero competente.

L’affondamento dell’imbarcazione è possibile «nei casieccezionali in cui tale misura risulti indispensabile per fronteggiare unpericolo concreto» e per la sicurezza della navigazione.
Giudizio favorevole al decreto è stato espresso dalresponsabile Immigrazione dell’Anci e sindaco di Prato Matteo Biffoni. «Sonopreviste una serie di misure sulle quali come Anci avevamo insistito negliscorsi mesi, e che adesso guadagnano concretezza», ha spiegato. Un giudiziodiametralmente opposto a quello espresso dal presidente del Centro Astalli,padre Camillo Ripamonti, per il quale «si è molto concentrati sul velocizzareespulsioni e rimpatri di chi soggiorna illegalmente ma non si affronta il temaprincipale: le quote di ingresso dei lavoratori migranti non vengono attivateormai da diversi anni. Non esistono – conclude padre Ripamonti – vie legali perarrivare a chiedere asilo in sicurezza».

MENO DIRITTI AI MIGRANTI
PER TACITARE LE DESTRE
di Alessandro Dal Lago
«Governo. Questo decreto non è che il tentativo di renderemeno visibili i Cie per tacitare la cordata Grillo-Salvini-Meloni e ingraziarsil’Europa: vi facciamo vedere come siamo efficienti e severi con i clandestini»
Il decreto sull’immigrazione varato ieri dal Consiglio deiministri (insieme all’altro, immancabile, sulla sicurezza urbana) segue leiniziative del ministro Minniti in tema di blocco degli sbarchi (accordi conLibia, Niger ecc.). E come queste, è destinato al fallimento. Ovviamente, sullapelle di migranti e profughi.
Il decreto, in sostanza, prevede due tipi di misure: lo«snellimento» delle procedure di riconoscimento del diritto d’asilo e la«razionalizzazione» dei Cie, che da oggi vengono denominati Cpr, Centripermanenti per il rimpatrio. La tendenza tipicamente governativa di cercare dirisolvere i problemi cambiando nomi e sigle è soddisfatta ancora una volta.

Un tempo c’erano i Cpt (Centri di permanenza temporanea), unossimoro grandioso, come se le prigioni fossero chiamate, che so, centri dilibertà internata. Poi sono arrivati i Cie (Centri di identificazione edespulsione), che però fanno troppo repressione indiscriminata.

E ora, in modo più sensibile ai diritti umani verbali, siparla di «rimpatrio», come se profughi e migranti non vedessero l’ora ditornare a casa, sotto le bombe.
Ma iniziamo dall’asilo. Come ha chiarito il ministroOrlando, il rifiuto dell’accoglienza come profughi «non è reclamabile», se nonin Cassazione. Quindi niente appello. Il che significa semplicemente che unprofugo proveniente dalla Nigeria può vedersi respinta la domanda, andarsene inun Cpr, starci un bel po’, essere espulso in Libia, preso in carico da qualchebanda armata al servizio del governo Serraji, e poi sparire in un prigionelibica (dove sono documentate violenze di ogni tipo, dagli stupri e agliomicidi). È da qui che farà ricorso in Cassazione?

Quanto ai Cpr, si prevedono centri in ogni regione per complessivi1.600 posti. Ora, qui c’è qualcosa che non torna proprio. Secondo dati delMinistero degli interni, su 41.000 irregolari rintracciati nel 2016, 22.000 nonsono stati espulsi o allontanati alle frontiere. Per non parlare di chi non èstato rintracciato (perché finito nel lavoro nero, nelle campagne ecc.).

E per tutta questa gente dovrebbero bastare 1.600 posti? Masi tratterà di permanenze brevi, obietta Minniti, che ama, anche lui, gliossimori. Ma se la massima permanenza prevista è di 90 giorni, chi garantisceche in poco tempo i Cpr non si gonfino, rendendo le condizioni di vita degliinternati ancora più tragiche di quanto non siano nei Cie? Non lo garantisceproprio nessuno, neppure il misterioso «garante dei migranti», di cui non siconoscono poteri e giurisdizione.

E poi c’è quella norma che prevede la possibilità per icomuni di impiegare i migranti «su base volontaria» per lavori «socialmenteutili», per rendere l’attesa (di che cosa?) meno snervante. Come dire, lavoragratis che ti passa la noia. Dietro questa norma, io vedo - chissà perché - il contributodel ministro Poletti. In sostanza, migranti e richiedenti asilo diventano deivoucher umani che i comuni possono spendere per pulire le strade, cancellare igraffiti dai muri e così via. Risparmiando così risorse umane e materiali.
Un piccolo contributo degli stranieri alla diminuzione dellaspesa pubblica del generoso paese che li accoglie. Ma resta il fatto che laservitù è servitù, anche quando è volontaria.

Questo decreto non è che il tentativo di rendere menovisibili i Cie per tacitare la cordata Grillo-Salvini-Meloni e ingraziarsil’Europa. Visto che gli altri paesi non ricollocano i migranti che arrivano danoi, vi facciamo vedere come siamo efficienti e severi con i clandestini. Così,magari, ci condonate un altro decimale del deficit.
«Nel 2016 la Francia ha rispedito 30 mila migranti in Italia. Nove su 10 di quelli controllati. Senza interpreti né domande di asilo. Con minorenni caricati da soli sui treni e igiene inesistente. Il rapporto Amnesty».

Lettera 43 online, 9 febbraio 2017 (c.m.c.)

Ventimiglia «controlli alla frontiera del diritto». Il titolo del rapporto pubblicato da Amnesty International France non poteva essere più esplicito: secondo l'organizzazione umanitaria decine di migliaia di respingimenti dalla Francia di richiedenti asilo sono avvenuti e continuano ad avvenire in maniera «illegale e contraria agli accordi internazionali, in violazione dei diritti umani».

Ninte possibilità di ricorso. Ai rifugiati, secondo il documento, non verrebbe messo a disposizione un interprete e il foglio di espulsione consegnato dalla polizia francese conterrebbe soltanto l'ordine di allontanamento e sarebbe privo delle due pagine (obbligatorie per la legge francese) nelle quali la persona viene informata dei propri diritti, in particolare quello di presentare ricorso contro l'espulsione. Anche i minorenni, secondo Amnesty, vengono maltrattati: il rapporto indica casi di ragazzini non accompagnati, fermati dalla polizia e caricati da soli sui treni per l'Italia.

Il rapporto è frutto di due fonti: l'analisi dei dati del 2016, forniti dalla prefettura delle Alpi marittime francesi, e che parlano di 35 mila persone controllate, e la missione di un gruppo di osservatori di Amnesty che, tra il 19 e il 26 gennaio 2017, sono andati alla frontiera di Ventimiglia, dal lato francese. Sul suo sito, Amnesty spiega che i suoi uomini hanno stilato un «resoconto preciso delle violazioni che la Francia commette verso i rifugiati che attraversano la frontiera franco-italiana».

Respingimenti senza formalità. Secondo il documento «le autorità non applicano le garanzie né rispettano i diritti delle persone che controllano alla frontiera». E l'accusa si fa più pesante quando l'organizzazione osserva che «nella gran parte dei casi i respingimenti in Italia sono organizzati senza formalità, in condizioni che lasciano pensare che tutto potrebbe essere organizzato in modo tale che le persone non possano esercitare i propri diritti».

Obiettivo di tutto ciò, secondo gli osservatori, sembra essere quello di rispedire i rifugiati in Italia: nel 2016 ne sono stati respinti quasi 30 mila.Il rapporto cita una serie di testimonianze raccolte direttamente sul campo dagli osservatori e spiega che «nemmeno i minori non accompagnati sono oggetto dell'attenzione richiesta dalla legislazione francese per la protezione dell'infanzia». Quindi riporta il racconto di una giovane eritrea, Bilal: «Se vieni fermato dalla polizia a Mentone o un po' prima, se sei un minorenne la polizia ti rimette direttamente sul treno» che conduce in Italia, dove il ragazzino si ritroverà da solo.

Cammino a piedi per 10 chilometri. Invece «se sei maggiorenne o ti considerano tale, ti portano alla stazione di Mentone, ti circondano di poliziotti e ti consegnano alla polizia italiana che si trova proprio di fronte». E da lì «comincia un cammino a piedi di 10 chilometri», con gli agenti francesi «silenziosi, che non ti informano nemmeno dei tuoi diritti».

Amnesty parla di «violazioni dei diritti umani», perché ai richiedenti asilo non viene nemmeno permesso di compilare la domanda alla quale avrebbero diritto, mentre le attese dell'espulsione avvengono in condizioni di gravissime carenze igieniche, senza accessi a luoghi per dormire né servizi. E di questa situazione «Francia e Italia sono corresponsabili». Il rapporto sostiene che la durezza dei controlli francesi ha spinto negli ultimi mesi i rifugiati, in gran parte africani, a cercare nuovi punti di passaggio della frontiera, con un «conseguente aumento dei rischi».

Chiesta l'apertura di un'indagine. La prefettura delle Alpi marittime riferisce di aver controllato nel 2016 circa 35 mila persone, il 40% in più rispetto all'anno precedente. E aggiunge che nove persone su 10 controllate sono state respinte in Italia. E dato l'esito della missione degli osservatori, Amnesty considera come sia lecito pensare che la gran parte delle espulsioni sia avvenuta nella violazione di garanzie e diritti dell'uomo previsti dalle leggi francesi e dagli accordi internazionali. Contro queste prassi, Amnesty chiede la mobilitazione dei cittadini e l'apertura di inchieste da parte della magistratura.

Ancora un'argomentata critica all'infame accordo tra l'Italia (testa di lancia dell'Unione europea nella guerra contro i più poveri della Terra) con la Libia dei negrieri e dei tiranni.

LasciateCIEntrare online, 7 febbraio 2017.

"LasciateCIEntrare" condanna fermamente la politica di accordi e partenariati con i Paesi terzi portata avanti dall’Europa e dal Governo italiano in totale sfregio ai valori fondanti e fondamentali UE, al diritto di asilo sancito dalle leggi internazionali e al dovere di accoglienza previsto dalla nostra Costituzione.

Con il Memorandum con il Governo libico, infatti, l’Italia si impegna a fornire strumenti e sostegno, sia economico che militare, ad un paese che di fatto non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’ asilo e di rispetto dei diritti umani, continuando a sottoporre le persone in fuga e intrappolate in Libia a trattamenti disumani e degradanti. Attualmente, sono centinaia di migliaia di migranti e rifugiati (oltre 300.000 secondo OIM) che si trovano in Libia, gran parte detenuti in centri che non rispettano gli standard stabiliti dal diritto internazionale e costretti a vivere in condizioni inumane, alla mercé di violenze e abusi di ogni sorta per mano delle forze dell’ordine, delle milizie, dei trafficanti e delle reti criminali. Campi che la stessa Commissione Europea definisce “inaccettabili e lontani dagli standard di rispetto dei diritti umani”, e che l’ambasciata tedesca ha definito “peggiori dei campi di concentramento”, denunciando esecuzioni, torture e stupri al loro interno.

Gabriella Guido (LasciateCIEntrare): “L’Europa delega la gestione del diritto di asilo ad un Paese che, di fatto, non lo riconosce. La Libia, infatti, non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951.” E precisa: “L’assenza di un sistema di asilo in Libia impedisce alle persone in cerca di protezione internazionale di vedere la propria richiesta esaminata secondo procedure eque conformi al diritto internazionale dei rifugiati. Un memorandum illegale, quanto vergognoso, concluso peraltro con un “referente” politico non riconosciuto e che ancora di fatto non governa l’intero Paese. Le immagini dei migranti fermati dalla flotta libica e riportati indietro, tra i quali donne e neonati, sono le immagini per le quali un giorno l’UE verrà condannata per crimini contro l’umanità.”

La CEDU - Corte europea dei Diritti Umani - si è già pronunciata nel 2012 sui respingimenti in mare effettuati dal nostro paese verso la Libia di migranti condannando l’Italia per la violazione del divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti, l’impossibilità di ricorso, il divieto di espulsioni collettive e la violazione del principio di non-refoulement.

Questo accordo non è che l’ennesima dimostrazione della volontà dei leader europei di voltare le spalle ai rifugiati.

Ma questo punto ci chiediamo: esiste davvero differenza tra i muri di Trump e le navi militari europee? Nei giorni scorsi alla Valletta è andata in scena l’ennesima farsa dell’Europa e dei suoi leader politici che criticano a gran voce i provvedimenti USA ma si preparano a fare di peggio.
L’Italia revochi immediatamente il memorandum e fermi i rimpatri: impedire alle persone di lasciare Paesi non sicuri o costringerle a ritornarvi, equivale a sancire la loro vita e la loro morte.

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg. i numerosi articli di Alex Zanotelli, Guido Viale, Filippo Miraglia, Luigi Manconi, Carlo Lania, Ilaria Boniburini, Alberto D'Argenio, Leo Loncari, nelle cartelle 2017 Accoglienza Italia e 2015. EsodoXXI

«Le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista

». il blog di GuidoViale, 6 febbraio 2017 (c.m.c.)

Trump è già tra noi. L’accordo che il Governo italiano ha siglato con la Libia per trattenere là, schiavizzati, rapinati, massacrati e stuprate, profughe e profughi che vorrebbero raggiungere l’Italia è sicuramente peggio del muro che Trump ha promesso di costruire a spese del Messico. Non solo. L’elezione e le prime mosse di Trump hanno anche accelerato lo smottamento di una parte consistente della cosiddetta sinistra verso il “sovranismo”: uscire dall’euro, uscire dall’Unione Europea, battere moneta nazionale, svalutare per recuperare competitività, innalzare barriere doganali, richiamare in “patria” le produzioni delocalizzate, rilanciare così la “crescita”.

Sono misure popolari, si dice, antiliberiste, con le quali Trump ha intercettato, e le destre europee stanno intercettando, il voto della classe operaia. Sfugge innanzitutto a molti la contraddittorietà di queste misure: soprattutto per un’economia fragile e marginale come quella italiana. A rimetterci, come sempre, sarebbero i salari e l’occupazione nazionali. Ma sullo sfondo di quelle ricette aleggia, sottaciuto, il clou delle politiche delle destre a cui si vorrebbe contenderne l’esclusiva di quelle misure: scoraggiare, frenare, fermare l’arrivo di profughi e migranti; fare o lasciar credere che disoccupazione, precarietà, perdita di reddito e di sicurezza sono provocate non dal dominio della grande finanza e dei suoi interessi, ma dall’arrivo di profughi e migranti; ristabilire le dinamiche di un tempo (make America great again) bloccando quei flussi.

Perché – lo insegnano sia Trump che il nazionalismo che avanza in Europa – le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista. Prospettata per il nostro paese, poi, l’idea di “chiudere le frontiere” è un’idiozia grottesca.

Ai profughi e ai migranti le frontiere tra l’Italia e il resto d’Europa, come quelle della Grecia, sono già state chiuse, mentre quelle tra Italia e i paesi di provenienza dei profughi (8.000 chilometri di costa) sono e resteranno aperte, perché lì i muri di Trump e Orban non si possono costruire. L’idea di mobilitare una force de frappe italiana o europea per creare in mare una barriera armata anti-profughi (la missione Sofia) invece di mettere al centro delle politiche europee l’abolizione della convenzione di Dublino – che obbliga i profughi a restare nel paese di sbarco e questo a provvedere alla loro sistemazione o al loro “rimpatrio” – è pari solo alla pretesa di estendere l’infame quanto precario accordo con la Turchia, che ha temporaneamente bloccato l’afflusso di profughi in Grecia, ai paesi della sponda sud del Mediterraneo; o addirittura a quelli, più a sud ancora, di origine o transito di quei flussi. Cioè a governi che non ci sono o non governano, o che lucrano sul traffico dei profughi ben più di quanto li possa compensare un contributo economico dell’Italia o dell’Europa (la paga dei carcerieri); e senza mettere nel conto la violenza a cui sottopongono le loro vittime.

I Governi dell’Unione Europea stanno adottando nei fatti le ricette propugnate dalle destre xenofobe e razziste; anche perché il sovranismo di queste è perfettamente compatibile, per lo meno sul breve periodo, con il quadro economico perseguito dai primi. Gli obiettivi di fondo sono gli stessi: crescita del PIL e dei profitti (l’occupazione, come l’intendenza, “seguirà”…), riduzione di tasse e spesa pubblica, privatizzazioni un po’ di tutto. Grande industria e finanza non hanno reagito negativamente all’elezione di Trump: perché, se la globalizzazione “neoliberista” mostra la corda, gli interessi del capitale possono facilmente conciliarsi anche con un bel po’ di sovranismo.

Le politiche di tipo keynesiano propugnate dai (pochi) avversari tanto dell’austerità “neoliberista” che del sovranismo nazionalista – spesa pubblica spinta, grandi lavori, rincorsa prezzi-salari, ecc. – non funzionano più: sono venute meno le forze che le sostenevano: la grande industria fordista e la classe operaia di fabbrica. Quelle politiche Obama in parte ha cercato di applicarle; ma occupazione (vera) e redditi non ne hanno beneficiato gran che; il senso di precarietà è aumentato; il protagonismo sociale che lo aveva portato alla presidenza è stato soffocato; le guerre hanno continuato a dominare il campo e ad assorbire risorse. Un cocktail che ha lasciato come eredità la vittoria di Trump.

L’alternativa non è più spesa pubblica (questa la spinge anche Trump), ma la conversione ecologica; che non è una green economy in cerca di profitto e di incentivi statali, ma promozione di decentramento, di una cultura diffusa, di iniziative di base e di partecipazione per cambiare in forme condivise uso delle risorse, stili di vita, prodotti e modo di produrli. Cose che nessuno dei governi e delle forze politiche in campo sa, può o vuole promuovere; e che per una lunga fase potranno svilupparsi solo dal basso, attraverso mille conflitti e a “macchie di leopardo”. Partendo da quello che già oggi c’è. Che è molto; ma disperso nei mille rivoli di iniziative scollegate e di riflessioni isolate, perché nessuno ha ancora trovato la strada per farne i mattoni di un nuovo blocco sociale e di una cultura e di un sentire diffusi, prima ancora che di un programma articolato o di un nuovo partito.

Così la giustizia sociale non viene collegata (papa Francesco a parte) a quella ambientale, né la lotta contro le diseguaglianze alla difesa della natura; il programma della decrescita viene prospettato – e a volte eroicamente praticato – senza porsi il problema della conversione ecologica (di cose e produzioni che comunque dovranno continuare a funzionare per molti anni a venire) e questa non è stata capace di confrontarsi in forme organizzate con i tanti punti di crisi occupazionale e ambientale in atto. Un’incapacità che la accomuna finora al territorialismo, unica alternativa praticabile tanto a un protezionismo becero che a un “liberismo” eslege.

L’accoglienza – vero baluardo europeista e internazionalista contro il montante razzismo – non sa farsi programma di inclusione sociale e di valorizzazione dell’umanità e della ricchezza culturale delle tante comunità di profughi e migranti presenti in Europa; mentre la lotta per la pace e contro il terrorismo non riesce a far leva su quelle comunità per prospettare soluzioni di pace e di rigenerazione economica, sociale e ambientale nei loro paesi di origine. E si potrebbe continuare.

Nella (strato)sfera politica si fa continuo riferimento a movimenti, lotte, riflessioni e mobilitazioni; ma non si riuscirà a cumularne e moltiplicarne le forze senza imboccare con umiltà un cammino che cerchi di svilupparne le potenzialità politiche a partire dalle specificità in cui ciascuna di esse è impegnata. Cosa difficilissima, resa ancora più ardua da una sacrosanta diffidenza nei confronti della monotona vacuità che circonda il mondo politico che ad esse pretende di fare riferimento.

« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’attivismo della presidenza Trump non dà tregua ai cittadini che lo criticano, agli opinionisti che lo analizzano e, ora in maniera esplicita, a uno dei poteri dello Stato: i giudici che impugnano le direttive bonapartiste della Casa Bianca contro la libertà di ingresso nel Paese di una specifica categoria di persone, identificate ex ante e senza alcuna evidenza come potenzialmente terroriste. È dal 2001 che gli Stati Uniti non subiscono attentati organizzati da gruppi terroristici stranieri, eppure Trump adotta politiche da stato permanente di emergenza che fanno quasi impallidire quelle del suo predecessore repubblicano George W. Bush.

In seguito al provvedimento noto come “ Muslim Ban” che chiude le frontiere alle persone provenienti da sette Paesi musulmani, sono stati sospesi migliaia di visti per gli Stati Uniti, creando caos per le compagnie aeree e le dogane. Pochi giorni fa il giudice federale di Seattle, James Robart, ha bloccato il decreto di Trump, e il Dipartimento di Stato ha annunciato l’annullamento della revoca provvisoria dei visti. Davvero un punto di svolta il conflitto tra potere centrale e giudici degli Stati, poiché dai tempi di Ronald Reagan i repubblicani parteggiavano per le politiche decentrate degli Stati contro il governo centrale — Trump rovescia questa tradizione.E dagli Stati parte la lotta contro il suo decisionismo.

Il ricorso della Casa Bianca contro la decisione del giudice Robart non ha sortito effetto: la Corte di Appello del Nono Circuito ha deciso di non dar corso alla richiesta di Trump in attesa di ricevere la documentazione per la decisione finale. Per ora quindi il potere giudiziario ha prevalso sul potere del presidente e la previsione è che se ne occuperà infine la Corte Suprema.

La reazione di Trump alla resistenza istituzionale ha provocato un terremoto: ha offeso i giudici che lo ostacolano chiamandoli «sedicenti giudici»; ha infranto la regola aurea del rispetto delle istituzioni. Lottare nell’arena politica senza trascinare nella lotta le istituzioni: questo è il patto costituzionale che tiene insieme gli Stati Uniti e che ha fatto scuola nel mondo politico moderno.

La cronaca di questi giorni è un vero e proprio libro di testo nel quale le categorie politiche prendono corpo: Trump sfida la “democrazia madisoniana” nel nome della “democrazia populista”. Molti analisti scrivono senza remore che questo presidente plebiscitario fa riemergere lo “spirito tirannico” per neutralizzare il quale la Costituzione degli Stati Uniti è stata concepita nel 1787.

Dall’altra parte, l’argomento populista è che il leader eletto debba mettere in atto le sue promesse che sono la volontà del popolo; questa è la ragione per la quale il potere populista non ama coalizioni né alleanze, che sono un freno, e vince più facilmente nei sistemi presidenziali che in quelli parlamentari; e questa è anche la ragione per la quale la volontà populista è insofferente verso la divisione dei poteri. Ciò a cui assistiamo è l’inasprirsi del conflitto tra i poteri dello Stato in risposta al conflitto aperto tra due principi che, dal tempo della fondazione degli Stati Uniti, coesistono: la presidential leadership e la institutional leadership.

In questa battaglia si materializza la lotta classica tra il principio costituzionale o anti-tirannico e il principio dell’Uomo forte al governo. Dunque, da un lato, la “democrazia madisoniana” idealizzata da chi considera illiberale ogni tentativo di semplificare e concentrare il potere, non importa se quadagnato con il consenso elettorale; dall’altro la presidential leadership, idealizzata da chi considera anti-democratico il controllo istituzionale della volontà popolare impersonata dal presidente.

Con la fine dei regimi totalitari, il plebiscitarismo è apparso a molti un relitto del passato. Sull’onda del successo di opinione di Obama, alcuni studiosi come Eric A. Posner e Adrian Vermeule hanno provato a riabilitare la democrazia plebiscitaria sostenendo che «l’occhio del pubblico» riesce a limitare il potere politico meglio (e più democraticamente) del meccanismo istituzionale. Ma Trump costringe gli indulgenti del populismo a moderare la loro astratta certezza che la leadership che si alimenta del plebiscito dell’audience sia davvero sicura per la libertà e i diritti.L’attrazione per l’Uomo forte, sulla quale in Europa e in Italia opinionisti e media indugiano con troppa leggerezza, è preoccupante e si può facilmente caricare di significati nazionalisti e illiberali.

«Draghi ha difeso la funzione della moneta unica ed è pronto a aumentare il programma di acquisti di titoli. Ma pensare di battere i nazionalismi rilanciando le virtù del liberoscambismo, del quale approfitta solo il neomercantilismo tedesco, appare del pari suicida».

il manifesto, 7 febbraio 2017

Che la Ue possa implodere e con essa la sua moneta era ed è una consapevolezza che si sta facendo strada persino nei templi del pensiero mainstream e tra le elites europee. Specialmente dopo la Brexit e il possibile asse Trump-May. Il guaio è che il morto rischia di afferrare il vivo. Così le terapie che vengono avanzate appaiono peggiori della malattia, mancando una diagnosi corretta. Non solo si vuole un ennesimo giro di vite nei confronti della Grecia ed entrano nel mirino dei contabili di Bruxelles il Portogallo e l’Italia. Ma in vista dell’incontro, che si profila non solo celebrativo, del 25 marzo, in occasione del 60° dei trattati di Roma, tiene banco la trovata dell’Europa a due velocità. L’ha rilanciata Merkel, trovando il plauso di Gentiloni, ma soprattutto il placet entusiasta di Prodi. Il quale ha scoperto che l’America di Trump si comporta come un «cugino dispettoso» nei confronti dell’Europa e che quindi bisogna reagire.

Solo che lo si vuole fare nella direzione sbagliata. I nazionalismi e i populismi dall’alto, d’oltreoceano o europei, Trump come Le Pen, vengono agitati sia per motivi interni ai singoli paesi che vanno incontro a elezioni, fra cui la Germania, sia per allargare il metodo Schaeuble, proposto a suo tempo alla Grecia, nei confronti di un arco di paesi più ampio. Ne risulterebbe un’Europa a due velocità, o due gironi, nella quale il nucleo forte sarebbe naturalmente a dominanza tedesca, magari con un ministro delle finanze unico, in grado di tenere ancor meglio sotto controllo i bilanci altrui in un quadro istituzionale del tutto a-democratico. Attorno si distribuirebbe una corona di paesi più deboli, con l’onere di fare da filtro e da assorbimento dei processi migratori. Il tema centrale al vertice di Malta.

Si può e si deve osservare che già questa è la tendenza reale. Ce lo dicono i dati economici con la potenza germanica incurante delle regole: il suo surplus non dovrebbe superare il 6%, mentre veleggia di più di due punti e mezzo al di sopra. Ce lo ricorda il fatto che proprio quest’anno il famigerato fiscal compact dovrebbe entrare nel diritto europeo di primo livello, come i trattati istitutivi dell’Unione. Ma la codificazione di questa realtà costituirebbe una potente accelerazione verso l’implosione e la disgregazione dell’Europa. Anche perché è ben poco chiaro quali siano le effettive condizioni che dovrebbero regolare i due diversi livelli di integrazione sotto il profilo economico e delle sorti debito pubblico dei singoli paesi.

Diversi i toni usati da Draghi che ieri ha ammonito chi vuole andarsene di regolare prima i propri conti con la Bce, cosa devastante per chi ha i debiti pubblici più elevati. Poi ha orgogliosamente difeso la funzione della moneta unica, attribuendole addirittura ruoli taumaturgici nei confronti della crisi economica, per ribadire che la Bce è pronta ad aumentare “in termini di mole e durata” il programma di acquisti di titoli, cioè il quantitative easing. Ma pensare di battere i nazionalismi rilanciando le virtù del liberoscambismo, del quale approfitta solo il neomercantilismo tedesco, appare del pari suicida.

Non è questa la risposta, come però non lo è neppure l’illusione, coltivata anche a sinistra, che il ritorno alle sovranità nazionali e alle monete di un tempo aiuti la lotta alle diseguaglianze e per un diverso sviluppo. Spaccare in due l’Europa non è l’uovo di Colombo ma la china che porta alla negazione di ogni progetto europeo. La indispensabile lotta contro il liberismo dei trattati, quelli originari e quelli che hanno costruito la governance europea in questi ultimi anni di crisi, non può che coinvolgere e svolgersi nell’Europa nel suo complesso, con un ruolo crescente proprio dei paesi che si vorrebbero collocare nel secondo girone, come già la crescita di movimenti politici e sociali, alcuni assurti a esperienze di governo, hanno dimostrato di sapere fare. Un’Europa dimidiata sarebbe un interlocutore ancora meno credibile, in uno scenario internazionale ove le spinte belliche con Trump sono destinate a moltiplicarsi e ad aggravarsi.

C

«I legislatori degli Stati conservatori ipotizzano norme per imbrigliare la libertà di manifestare. Le critiche delle associazioni per i diritti civili».

la Repubblica online, 5 febbraio 2017 (p.s)


NewYork - Pugno di ferro contro le proteste: nell'America di Trump sempre più scossa dalle continue manifestazioni contro le azioni decise del presidente, almeno otto Stati americani stanno considerando misure straordinarie per punire coloro che partecipano a cortei non autorizzati o provocano disagi alle normali attività pubbliche. Occupazioni, blocchi stradali, concentramenti spontanei: se dunque le proposte di legge passeranno, mettere in atto queste forme di contestazione potrebbe diventare un rischio ben più elevato di quel che è oggi.

Il pensiero dei legislatori, d'altronde, non va solo alle recenti proteste anti Trump. Il riferimento fatto nelle proposte è legato anche ad altri eventi recenti: come l'occupazione a Standing Rock dei terreni Sioux dove dovrebbe passare la Dakota Access pipeline, gli incidenti accaduti a Ferguson dopo la morte per mano della polizia del giovane Michael Brown e quelli di Baltimora dopo l'uccisione di un altro afroamericano, Freddie Gray.

Gli esempi sono vari e fantasiosi: lo scorso novembre, subito dopo le elezioni, il repubblicano Doug Ericksen dello stato di Washington ha depositato una proposta per creare una nuova forma di reato, quello di "terrorismo economico": 5 anni di carcere a chiunque venga riconosciuto colpevole di "aver causato danni economici". Vetrine infrante dunque, ma anche blocchi stradali o ferroviari, e comunque tutto quello che fa perdere soldi a qualcuno.

In Minnesota, invece, s'ipotizza di far pagare le spese dell'intervento della polizia a chi viene arrestato durante una manifestazione non autorizzata. Mentre in Indiana, lo stato iper-conservatore da cui proviene il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, si vogliono inasprire le condanne per chi blocca autostrade ed aeroporti - come accaduto anche di recente dopo il bando anti musulmani di Trump. Sì, perché nello Stato dell'Indiana oggi quel tipo di protesta prevede solo una multa di 35 dollari, non molto salata dunque. Così ora si pensa a punizioni esemplari, con condanne di almeno 5 anni di carcere. Non solo: l'ipotesi è anche quella di proteggere per legge un eventuale guidatore che "senza averne l'intenzione" investirà un manifestante perché "esasperato".

Naturalmente le associazioni dei diritti civili inorridiscono: "Sarebbe un passo indietro di oltre 50 anni" ha detto al Washington Post Cody Hall, uno degli animatori della protesta degli indiani contro l'oleodotto a Standing Rock: "La libertà di parola è una conquista inalienabile".

Per ora, nessuna delle leggi è ancora stata votata e il margine che vengano bocciate perché incostituzionali è molto alto. Ma le proposte, tutte avanzate da Repubblicani, sono certamente il segno delle tensioni sempre più esasperate che stanno dividendo l'America.

Il missionario camboniano, costretto dai suoi superiori ecclesiastici ad abbandonare l'Africa, ed attualmente esiliato a Napoli, riprende nei confronti dell'attuale governo e dell'episcopato italiani la pesante denuncia dell'inumanità del Migration compact, già espressa nei conronti del Governo Renzi. Lettera del 4 febbraio 2017

“Siamo stati capaci di chiudere la rotta balcanica,- ha detto il Presidente della Commissione Europea, Tusk - possiamo ora chiudere la rotta libica.” Parole pesanti come pietre pronunciate in occasione del Memorandum firmato a Roma il 2 febbraio dal nostro Presidente del Consiglio Gentiloni con il leader libico Fayez al Serraj, per bloccare le partenze dei migranti attraverso il canale di Sicilia.
E’ la vittoria del cosidetto Migration Compact (Patto per l’Immigrazione), portato avanti con tenacia dal governo Renzi e sostenuto dall’allora Ministro degli Esteri ,Gentiloni. “Lo stesso impegno profuso dall’Europa per la riduzione dei flussi migratori sulla rotta balcanica, -aveva affermato lo scorso anno davanti alla Commissione Trilaterale Gentiloni,- va ora usato sulla rotta del Mediterraneo Centrale per chi arriva dalla Libia.” Gentiloni, ora che è presidente del Consiglio, lo sta realizzando. Trovo incredibile che si venga ad osannare l’accordo UE con la Turchia per il blocco dei migranti. Ci è costato sei miliardi di euro, regalati a un despota come Erdogan ed è stato pagato duramente da siriani, iracheni, afghani in fuga da situazioni di guerra. “I 28 paesi della UE hanno scritto con al Turchia - ha affermato C. Hein del Consiglio Italiano per i Rifugiati - una delle pagine più vergognose della storia comunitaria. E’ un mercanteggiamento sulla pelle dei poveri.”

Visto il successo(!!) di quel Patto, il governo italiano lo vuole replicare con i paesi africani per bloccare la rotta libica, da dove sono arrivati in Italia lo scorso anno 160.000 migranti. Ecco perché il governo italiano, a nome della UE, ha fatto di tutto per arrivare a un accordo con la Libia, un paese oggi frantumato in tanti pezzi, dopo quella guerra assurda che abbiamo fatto contro Gheddafi (2011). Il governo italiano e la UE hanno riconosciuto Fayez al Serraj come il legale rappresentante del paese, una decisione molto contestata dall’altro uomo forte libico, il generale Haftar. Per rafforzare questa decisione l’Italia ha aperto la propria ambasciata a Tripoli.

Il Piano della Commissione Europea prevede di creare in Libia una ‘linea di protezione’(una specie di blocco navale) il più vicino possibile alle zone d’imbarco per scoraggiare le partenze dei profughi. Il vertice dei capi di Stato della UE a Malta (3 febbraio) ha approvato questo accordo fra l’Italia e la Libia. Ma questo è solo un primo e fragile tassello del Migration Compact , definito da G. Ajassa su la Repubblica “necessario, anzi urgente!” La UE vuole arrivare ad accordi con i vari stati da cui partono i migranti. Per ora la UE ha scelto cinque paesi.chiave: Niger, Mali, Senegal, Etiopia e Nigeria, promettendo tanti soldi per lo sviluppo. Lo scorso novembre una delegazione, guidata dall’allora Ministro degli Esteri, Gentiloni ha visitato il Niger , Mali e Senegal. Si è soprattutto focalizzata l’attenzione su un paese- chiave per le migrazioni: il Niger. E’ significativo che la prossima primavera l’Italia aprirà un’ambasciata nella capitale del Niger, Niamey. “I ‘buoni’ sono la Ue, l’Italia, il Migration Compact, che si spacciano per i salvatori umanitari- scrive il missionario Mauro Armanino che opera a Niamey- i ‘brutti’ sono migranti irregolari… Noi preferiamo stare con i ‘brutti’, coloro che ritengono che migrare è un diritto!”

Che ipocrita quest’Europa che offre soldi all’Africa a"svilupparsi" per impedire i flussi migratori, mentre la strozza economicamente! La UE sta forzando ora i paesi africani a firmare gli Accordi di Partenariato Economico (EPA) che li obbliga a togliere i dazi doganali, permettendo così alla UE di svendere sui mercati sub-sahariani i suoi prodotti agricoli, affamando così l’Africa. Senza parlare del land-grabbing, perpetrato anche da tante nazioni europee nonché dalla macchina infernale del debito con cui strangoliamo questi popoli. Per cui la fuga di milioni di esseri umani. Ad accoglierli ora ci sarà il blocco nei vari paesi e poi quello navale. E se riusciranno ad arrivare in Europa, troveranno muri, filo spinato,campi profughi e lager. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, vuole infatti rilanciare i famigerati Centri di Identificazione e di Espulsione (CIE) in tutte le regioni d’Italia, che sono veri e propri lager.

”Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi- ha detto Papa Francesco ai rappresentanti dei Movimenti popolari lo scorso novembre- è in grado di riconoscere immediatamente, nella sua interezza, la "bancarotta dell’umanità"! Cosa succede al mondo di oggi che,’ quando avviene la bancarotta di una banca, immediatamente appaiono somme scandalose per salvarle, ma quando avviene questa ‘bancarotta dell’umanità’, non c’è quasi una millesima parte per salvare quei fratelli che soffrono tanto! E così il Mediterraneo è diventato un cimitero e non solo il Mediterraneo…molto cimiteri vicino ai muri, muri macchiati di sangue innocente.”

Davanti a queste parole così chiare e dure, mi sconcerta il silenzio della Conferenza Episcopale Italiana. Ma altrettanto mi sorprende il silenzio degli Istituti missionari: finora non c’è stata una presa di posizione unitaria e dura su quanto sta avvenendo, che ci toccano direttamente come missionari.

Non possiamo più tacere: è in ballo la vita, la vita di milioni di migranti, che per noi sono, con le parole di Papa Francesco.”la carne di Cristo.”

Riferimenti
Vedi il precedente articolo di Alex Zanotelli sul Migration compact del maggio 2016 No Migration compact su eddyburg i numerosi articoli sul Migration compact e di Alex Zanotelli li trovi digitando le parole sul "cerca".

L'Imperatore è palesemente matto, non è un tiranno qualunque. «Procuratore di Seattle sospende il divieto. È il caos: ripristinati i visti per i cittadini di sette Paesi “Anche un presidente è soggetto alla legge”. La replica: “Atto ridicolo”. E annuncia contromosse».

la Repubblica, 5 febbraio 2017

NEW YORK.-L’America riapre. Non sono più sigillate le frontiere con i sette Paesi “proibiti”. Donald Trump incassa la prima seria sconfitta a due settimane dall’insediamento. È un giudice federale di Seattle, di nomina repubblicana, ad annullare il suo ordine esecutivo sigilla-confini: da venerdì sera e con effetto su tutto il territorio nazionale. Il presidente ha una reazione violenta, sabato mattina twitta un primo attacco al magistrato che lo ha bloccato: «L’opinione di questo cosiddetto giudice, che impedisce alla nostra nazione di far rispettare la legge, è ridicola e sarà rovesciata!». Seguono altri tweet che trasudano indignazione: «Quando un Paese non è più in grado di decidere chi può entrare per ragioni di sicurezza – guai grossi! Morte e distruzione». L’attacco personale al giudice che ha sospeso il suo decreto è inusuale per un presidente degli Stati Uniti; ma non per Trump: già in campagna elettorale lui accusò un magistrato che indagava sulla truffa della Trump University di essere «prevenuto perché di origini messicane». Il capo dell’opposizione democratica al Senato, Chuck Schumer, condanna Trump per «il disprezzo verso un magistrato indipendente, la prova di una mancanza di rispetto verso la nostra Costituzione».

Le conseguenze della sentenza di Seattle sono immediate. Il Dipartimento della Homeland Security – che ha la polizia di frontiera alle sue dipendenze – si è dovuto piegare subito e ha confermato il ritorno allo status quo precedente. I cittadini dei sette Paesi che erano stati messi al bando (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen) sono riammessi negli Stati Uniti purché muniti del visto. Cessano i problemi anche per quei cittadini di altre nazionalità, europei inclusi, che la settimana scorsa erano stati bloccati perché avevano visitato uno dei sette paesi della lista nera. Le compagnie aeree, a cominciare da quelle del Medio Oriente come Etihad e Qatar Airways hanno ripreso ad accettare viaggiatori diretti negli Stati Uniti dai sette Paesi.

L’attenzione si concentra sul “cosiddetto giudice” che ha bloccato Trump, e contro il quale è annunciato un contro-ricorso da parte del governo. Si chiama James Robart, 69 anni, dal 2004 presiede la corte federale distrettuale di Seattle nello Stato di Washington. Fu nominato da George W. Bush e quindi è “in quota ai repubblicani”: il sistema giudiziario americano è una complessa sovrapposizione fra magistrati di carriera, cariche elettive, e funzioni di nomina governativa che come tali hanno almeno all’origine una coloritura politica. Robart ha fama di essere un moderato e questo si riflette in parte nella sua sentenza di venerdì, dove c’è un richiamo alle prerogative del federalismo care alla destra repubblicana. Il giudice di Seattle si è mosso in conseguenza di una denuncia degli Stati di Washington e del Minnesota che hanno accusato il decreto Trump di danneggiarli nei loro diritti e nel loro interesse economico, chiudendo le frontiere a un’immigrazione essenziale per le aziende. Dando ragione a quei due Stati, il giudice ha costruito un’argomentazione che può mettere in difficoltà i repubblicani fino alla Corte suprema, dove potrebbe sfociare il contenzioso sull’ordine esecutivo. Nell’immediato la Casa Bianca spinge per avere una contro-sentenza in tempi brevi.

È difficile fare previsioni su chi vincerà, ma intanto il decisionismo su cui Trump ha costruito la propria immagine, si è arenato. L’ordine esecutivo che proibiva gli ingressi da 7 Paesi ha avuto un’esecuzione confusa e pasticciata dall’inizio, fino allo stop completo con la sentenza di Seattle. L’immagine del presidente- imprenditore che demolisce in pochi giorni l’America di Barack Obama, ne capovolge tutte le riforme alla velocità della luce, si scontra con una realtà più complicata da governare. Il sistema politico della più antica liberaldemocrazia occidentale almeno per ora non si lascia comandare come i candidati di un reality-tv. Improvvisazione e dilettantismo cominciano a pesare su Trump, che ha voluto accelerare il passo senza neppure avere attorno a sé una vera squadra: molti dei suoi ministri compreso quello della Giustizia non hanno ancora superato la conferma al Senato. In quanto alla magistratura è un corpo ramificato e con tradizioni di indipendenza, non basta blindare la Corte suprema per avere risolto una volta per tutte l’ostacolo dei contropoteri.

Una vergogna tutta italiana. Il nostro governo ha convinto i governi dell'ex Europa ad avviare un programma di respingimento continentale incoraggiando i carnefici, gli schiavisti, i governanti corrotti i saccheggiatori di tutto il mondo, a unirsi in un grande sforzo per ricacciare all'inferno i dannati dallo "sviluppo" che volessero evaderne.

il manifesto, 4 febbraio 2017
«Il muro di Malta. Via al piano italiano per fermare le carrette in partenza dalla Libia. Soldi e mezzi al leader libico, che però non controlla il paese»

A questo punto c’è solo da sperare che la stretta sui migranti voluta dall’Europa per impedire loro di partire dalla Libia, non finisca per soffocarli. Il rischio non solo esiste, ma è anche probabile se non addirittura scontato.

Il primo passo perché questa accada è stato fatto ieri nel vertice dei capi di Stato e di governo che si è tenuto a Malta. I 28 leader europei hanno sostenuto il piano messo a punto dall’Italia Roma e che prevede di affidare alla Guardia costiera libica il compito di riportare indietro i barconi carichi di disperati, mentre le navi della missione europea controlleranno dal limite delle acque internazionali. Sono inoltre previsti aiuti economici sia alle comunità locali costiere, che alle tribù che popolano il sud del paese e che l’Unione europea spera di coinvolgere nel contrastare i migranti provenienti dal Corno d’Africa attraverso Ciad e Sudan.

Tribù nomadi che, ha ricordato ieri il premier maltese Jospeh Muscat, oggi guadagnerebbero fino a «sei milioni a settimana» aiutando le organizzazioni criminali che trafficano in migranti e con le quali, sempre secondo Muscat, sarebbero già stati avviati dei contatti. In che modo questa gente potrà fermare i migranti, sembra essere per tutti un problema secondario. E questo anche se la Ue si impegna a migliorare le condizioni di vita dei centri nei quali migliaia di migranti vengono tenuti prigionieri, anche con l’aiuto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Ma mentre l’Oim già la prossima settimana potrebbe essere a Tripoli per effettuare i primi sopralluoghi, qualche resistenza ci sarebbe da parte dell’Unhcr. Non ha caso ieri l’organismo dell’Onu ha sottolineato i rischi di un piano che si limita a parlare genericamente di migranti senza considerare la posizione dei rifugiati.

Per finire ci sono poi i capitoli relativi alla fornitura di mezzi (sono previste otto motovedette per la futura guardia costiera insieme a droni per il controllo delle frontiere, equipaggiamenti, infrastrutture e training di addestramento) e al finanziamento del piano. E qui si rilevano altri problemi. In attesa che il parlamento europeo decida sui fondi da stanziare per i migration compact (fino a 40 miliardi di euro) per ora di fatto ci sono solo 200 milioni di euro. Pochi, come non ha mancato di far notare il premier libico Fayez al Serraj parlando nei giorni scorsi sia con il premier italiano Paolo Gentiloni che con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk.

Proprio Gentiloni ieri a Malta non tratteneva la soddisfazione per i consensi ricevuti dai partner europei al piano italiano. In realtà quella di Roma e Bruxelles è una scommessa dagli esiti molti incerti. Intanto perché tutto si basa sulla tenuta di Serraj, nella speranza che il riconoscimenti che gli arrivano da interlocutori internazionali possano aiutarlo a rafforzarsi. Ammesso e non concesso che questo avvenga si tratta sempre di un premier che controlla un’area ristrettissima del paese. E anche la nuova Guardia costiera libica, che da ottobre viene addestrata dalla missione europea Sophia, potrà controllare solo poche miglia delle coste libiche.

C’è poi il problema non trascurabile della sorte dei migranti. Che fine fanno quelli riportati indietro dalla Marina libica? Serraj può garantire l’accesso alle organizzazioni internazionali solo in una minoranza dei 24 centri di detenzione presenti nel paese, quelli che si trovano in Tripolitania, regione solo in parte controllata dal governo di accordo nazionale che presiede. Tutti gli altri, compresi le centinaia di magazzini e hangar dove i trafficanti tengono prigionieri in condizioni disumane uomini, donne e bambini, sono e restano fuori controllo. Senza contare che, proprio in vista di un’attuazione del piano europeo, le bande criminali stanno già organizzando nuove rotte, compreso un passaggio a est della Libia nella parte controllata dal generale Haftar amico dell’Egitto e della Russia. Mettendo così di fatto il traffico di migranti nelle sue mani. E rendendo così l’Europa più ricattabile di quanto non lo sia oggi.

Nel vertice di La Valletta i 28 si sono trovati d’accordo nell’intensificare i rimpatri dei migranti irregolari (ma accordi in tal senso esistono solo con quattro paesi), sorvolando però sui ricollocamenti europei ancora al palo. Una «rigidità», come l’ha definita lo stesso Gentiloni, sulle quali l’Europa non sembra intenzionata a cedere. All’ultimo minuto, invece si è riusciti a cancellare dal documento finale del vertice ogni riferimento alla riforma di Dublino. La formula utilizzata inizialmente non piaceva all’Italia che è riuscita a farla togliere grazie all’aiuto del premier greco Tsipras. La proposta che gira da tempo in Europa continua a penalizzare i paesi di primo sbarco contrariamente a quanto vorrebbero Italia, Grecia e la stessa Malta. Ma su questo l’unanimità dimostrata dai leader nel fermare i disperati in Libia, si subito persa.

Barriere sempre più aggressive per impedire alle popolazioni il cui sfruttamento ha alimentato il nostro benessere di uscire dal loro inferno. Articoli di A.M. Merlo, F. Miraglia, A. Sciotto.

il manifesto, 3 febbraio 2017


UE, COME BLOCCARE IMIGRANTI
DALLA LIBIA?
di Anna Maria Merlo

«Vertice a Malta. Alla vigilia del summit sulla crisi dei migranti per «chiudere la rotta del Mediterraneo centrale», il leader libico Serraj incontra Tusk e Gentiloni. Che avverte Roma e Bruxelles - «Siamo un paese sovrano» - e detta le sue condizioni. La Ue cerca di conciliare l'impossibile: i valori universali e il blocco degli sbarchi. Difesa comune e risposta a Trump in agenda»

PARIGI- Inizia con una seduta di lavoro sulle migrazioni nel Mediterraneo centrale – cioè dalla Libia verso l’Italia – il vertice informale dell’Unione europea, oggi a Malta. Tutti i 28 saranno attorno al tavolo, mentre la Gran Bretagna, dopo il pranzo dedicato alla situazione internazionale, sarà esclusa dalla discussione del pomeriggio, a 27, sul seguito da dare dopo l’incontro di Bratislava, lo scorso settembre, in vista del vertice di Roma del 25 marzo, per i 60 anni della costruzione europea. Conciliare l’impossibile: una riflessione sui “valori”, che vanno sottolineati e anche rilanciati in questo periodo di crisi e di sfide accresciute con Trump, mentre in pratica c’è la ricerca del modo più efficace per impedire ai migranti di imbarcarsi verso l’Europa, facendo ricorso con Frontex ad attività operative civili e militari.

Ieri, il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk, ha affermato che “il flusso di migranti dalla Libia verso l’Europa non è sostenibile”. Bisogna agire e il “modello” è l’azione tra Turchia e Grecia, anche se tra i paesi membri c’è chi non nasconde che la situazione umanitaria in Grecia resta preoccupante per i migranti: “l’Europa ha dimostrato di essere in grado di chiudere le rotte di immigrazione illegale, come ha fatto nel Mediterraneo orientale”, ha pero’ affermato Tusk a Bruxelles, dove ha ricordato di aver “discusso di questo esempio” con il governo italiano, perché “è ora di chiudere la rotta tra Libia e Italia”. Per Tusk, “il piano è a nostra portata, abbiamo solo bisogno di una piena determinazione per realizzarlo”.

Dopo un incontro con il libico Fayez al Sarraj a Bruxelles, ha promesso per oggi a Malta “misure operative”. Nelle principali capitali sono pero’ molto più prudenti. Quando la Germania ha deciso di concludere un accordo con la Turchia, Erdogan non aveva ancora portato l’affondo definitivo contro la democrazia anche se ieri Merkel ha visto il sultano turco diventato dittatore senza troppi stati d’animo. Per la Libia non c’è nessun fragile paravento di rispettabilità, una cooperazione diretta con il Consiglio presidenziale di Fayez al-Sarraj è complicata, anche se ha il sostegno dell’occidente, la Libia resta un paese non sicuro, c’è il conflitto con l’esercito del generale ribelle Khalifa Haftar (sostenuto da Egitto, Emirati, Russia) e l’Onu si allarma per il trattamento inumano dei migranti sul posto.

La dichiarazione di oggi a Malta cercherà cosi’ di conciliare l’impossibile: ricordare i “valori” (rispetto del diritto internazionale, umanitario ecc.) e proporre alcune misure, che saranno soprattutto un ampliamento di quelle già in parte in atto (formazione di guardiacoste, equipaggiamento, sostegno ai comitati locali sulla strada dei migranti, aiuto alle organizzazioni internazionali che operano sul posto). La Ue si interessa anche alle frontiere della Libia, da cui entrano i candidati all’emigrazione in Europa: da mesi si è intensificata la cooperazione con il Niger, da cui passa l’80% dei flussi (500 milioni di euro in cooperazione), verrà evocata la collaborazione con Tunisia e Egitto, l’aiuto allo sviluppo per Mali, Nigeria, Senegal, Sudan, con l’obiettivo di “scoraggiare” le partenze. Nella dichiarazione finale c’è un riferimento a un “migliore ritorno” dei migranti espulsi o caldamente invitati ad andarsene (alcuni paesi versano somme in denaro). Il problema è che molti paesi, Tunisia compresa, mettono ostacoli alla riammissione dei loro cittadini.

I 27 cercheranno un fronte unito di fronte alla Brexit, anche se c’è l’intenzione di evitare che questa questione assorba tutte le energie. Malta è una tappa intermedia, verso il Consiglio del 9 marzo (e poi a giugno), dove dovranno essere prese decisioni sulla difesa comune: le “tappe” per uno stato maggiore permanente, il funzionamento della rivista annuale di difesa, un aumento dei finanziamenti, dei programmi di ricerca comuni, un processo che dovrebbe venire concluso entro il 2020 e che dovrebbe essere potenziato, vista la sfida di Trump, sia per l’integrità e l’esistenza stessa della Ue, che per la Nato. Francia e Germania sperano di convincere i reticenti, il gruppo di Visegrad e i Baltici, finora aggrappati alla Nato ma che si sentono traditi da Trump. Francia e Germania vorrebbero anche convincere sulla difesa del libero scambio e degli obiettivi della Cop21 per far fronte al disordine climatico. Ai paesi del sud in crisi, la Commissione offrirà un Libro bianco, pronto per metà marzo, dove verrà promesso per la zona euro “stabilità, convergenza e crescita”.



CANALI D’INGRESSO LEGALI
PER SALVARE I MIGRANTI
di Filippo Miraglia

Il razzismo di stato del neo presidente degli Usa dimostra che i principi della democrazia moderna non sono dati una volta per tutte. Avere un sistema democratico dotato di strumenti di controllo, pesi e contrappesi, non è di per sé sufficiente a impedire che si affermino nuove forme di fascismo. Il turbo capitalismo finanziario non solo mina i principi delle costituzioni democratiche, a partire dal principio di uguaglianza, ma punta ad affermare modelli che sono l’esatto contrario della democrazia.

In un sistema democratico ciò che conta è che chiunque vinca le elezioni garantisca i diritti di tutti, in primo luogo quelli delle minoranze. I giudici da soli non possono rimediare ai guasti della politica, come si vede nel caso dei provvedimenti firmati da Trump, contro i quali si è per fortuna levata una grande protesta popolare.

Intanto cresce la rabbia di chi ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita, rabbia che viene strumentalmente indirizzata verso l’immigrazione e il mondo islamico, vittime di continue campagne razziste e oggi principali capri espiatori nel dibattito pubblico. In Europa e in Italia ci sono state reazioni anche molto critiche alle decisioni del presidente americano, mentre la destra xenofoba si augurava che simili misure venissero adottate anche da noi.

Le istituzioni europee e i governi, al di là delle parole di sdegno, in realtà stanno da tempo muovendosi nella stessa direzione. L’accordo con la Turchia è servito a impedire ai rifugiati siriani e iracheni (due dei Paesi colpiti dal provvedimento di Trump) di arrivare in Europa. Venerdì prossimo, a La Valletta, capi di Stato e di governo dell’Ue s’incontreranno per discutere di flussi migratori nel mediterraneo centrale.

L’obiettivo, dopo aver chiuso la rotta balcanica, è quello di chiudere anche la rotta che passa dalla Libia, stanziando 200 milioni di euro per formare ed equipaggiare la guardia costiera libica e per favorire i ritorni volontari dei migranti verso i Paesi d’origine. Un finanziamento che viene ipocritamente presentato all’interno di un quadro di cooperazione internazionale.

La verità è che, come per l’accordo con la Turchia, si vogliono esternalizzare le nostre frontiere, chiedendo all’instabile governo libico di fermare l’immigrazione per conto dell’Ue. E presentando questa operazione come una forma di aiuto ai Paesi d’origine o transito dei migranti.

In questo quadro, il Fondo italiano per l’Africa, così come in generale gli aiuti allo sviluppo, rischiano di diventare lo strumento per finanziare accordi con governi o regimi che si impegnino ad attuare politiche aggressive di controllo delle frontiere e contenimento dei flussi. Questa sarà probabilmente la linea che verrà confermata dal prossimo vertice a La Valletta, un favore ai regimi dittatoriali e ai trafficanti di esseri umani.

I fondi per la cooperazione dovrebbero invece essere condizionati al rispetto dei diritti umani, introducendo per legge una clausola in tal senso. Non si vuole prendere atto che l’emigrazione rappresenta, con le rimesse e con le relazioni che s’innescano, il principale fattore di sviluppo delle comunità locali nei Paesi di provenienza. Bisogna scegliere se promuovere quella legale o favorire quella irregolare, come è stato finora.

E importante che il governo italiano usi il Fondo Africa per far fronte alle cause che determinano i fenomeni migratori, sostenendo attivamente le comunità locali, incentivando le loro economie, producendo occupazione, difendendo i diritti umani.

Va valorizzato il ruolo delle Ong (Organizzazioni non governative) come soggetti attuatori delle azioni di solidarietà, aiuto umanitario e di sviluppo comunitario che il Fondo metterà in campo. Deve essere garantito l’accesso alla procedura d’asilo a chiunque ne faccia richiesta, così come prevedono la legge e la Costituzione. È infine necessario che il Parlamento vigili attentamente sui contenuti del decreto d’implementazione del Fondo per l’Africa e in particolare sugli aspetti che riguardano i diritti e le libertà delle persone.

Si impedisca all’Ue di criminalizzare le organizzazioni umanitarie che operano al largo della Libia per mettere in salvo le persone in cerca di protezione e si cancelli qualsiasi forma di guerra ai migranti praticata impiegando le nostre forze armate o quelle di altri Paesi. Solo realizzando canali d’ingresso sicuri e legali si può salvaguardare la vita delle persone, combattere scafisti e trafficanti, fermare la tragica conta delle morti nel Mediterraneo.

«BASTA MURI, UN FONDO UEPER I MIGRANTI».
IL PATTO DELLA UIL A LAMPEDUSA
di Antonio Sciotto


«L'iniziativa. Accordo con sette sindacati dei paesi mediterranei, presenti anche i rappresentanti di quattro religioni. Barbagallo: «I lavoratori possono fare da pacificatori e sostenere lo sviluppo». La sindaca Nicolini: La nostra isola simbolo di accoglienza è un orgoglio»

Stop ai muri e alle barricate, l’Italia, l’Europa, i paesi mediterranei devono allearsi per un’accoglienza intelligente e solidale dei migranti. Il messaggio arriva da Lampedusa, dove ieri si è tenuto «Per un mare di pace e di lavoro», iniziativa della Uil con i sindacati di Israele e della Palestina, Tunisia (con Hassine Abbassi, premio Nobel 2015 per la Pace), Algeria, Marocco, Egitto, Libia (con Nermin Sharif, la prima donna leader di un paese del Nord Africa). Con loro anche i rappresentanti di quattro religioni. Gli otto sindacati hanno firmato l’Accordo di Lampedusa, che oltre ai principi contiene anche iniziative concrete.

L’Accordo di Lampedusa chiede alla Ces (confederazione europea dei sindacati) di «proporre all’Unione europea l’istituzione di un Fondo in cui tutti i Paesi membri facciano confluire risorse derivanti da forme di solidarietà fiscale – sul modello dell’8 per mille – da destinare alla realizzazione di progetti idonei a creare lavoro in quelle zone prostrate dall’indigenza, dalla povertà e dalla guerra. La Ue dovrà farsi carico del coordinamento e della gestione di tale attività di sostegno alla crescita».

La Uil, dal canto suo, ha preso un ulteriore impegno, da realizzare nei diversi paesi grazie alla collaborazione dei sindacati ospiti: istituirà uffici o punti di Patronato, con l’obiettivo di limitare i casi di immigrazione offrendo assistenza e tutela alle persone coinvolte. Verrebbero poi realizzati, in loco, «corsi di formazione per l’apprendimento di specifiche mansioni o di rudimenti e tecniche di auto-imprenditorialità che i lavoratori formati potrebbero mettere a frutto, quando le condizioni lo consentissero, nei Paesi di origine o, secondo indirizzi preventivamente individuati, in Paesi dell’Unione europea».

«Per un mare di pace e di lavoro» verrà replicato ogni anno in uno dei paesi firmatari, possibilmente lo stesso 2 febbraio, ma c’è l’obiettivo di allargare la sua rete anche ad altri paesi del Mediterraneo come Spagna, Grecia e Turchia, e agli altri sindacati italiani.

«Non si possono sperperare risorse per la costruzione di muri e barriere – ha spiegato il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo – Bisogna puntare al contrario sulla cooperazione, la partecipazione e l’inclusione. Solo così cominceremo ad aprire una nuova strada per la pace, la coesione e il lavoro nel mondo. La Uil ha lanciato un progetto di cooperazione con quegli stessi paesi da cui i migranti sono costretti a fuggire per i conflitti, la povertà e la fame. Il sindacato può e deve assumersi le proprie responsabilità, svolgendo il ruolo di pacificazione e di sviluppo economico».

Se si riuscirà a creare il Fondo europeo sollecitato dal sindacato, esso si andrà ad aggiungere ad altre importanti iniziative per i migranti finanziate proprio dall’8 per mille: come i già collaudati Corridoi umanitari messi in campo dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche e la Chiesa valdese.

L’Accordo di Lampedusa è stato salutato con favore dalla sindaca dell’isola, Giusi Nicolini: «Siamo persone normali, cittadini, pescatori, gente che vive di turismo – ha detto – Un’isola da cui anche gli abitanti volevano scappare. Ma oggi c’è il nostro orgoglio: l’orgoglio che come sindaco ho della mia isola e della mia gente. Lampedusa oggi è un ponte, è un esempio – ha concluso – e può dare un esempio diverso. È stata lasciata sola in Europa, e sola nel suo contesto nazionale, dove ogni giorno vediamo l’esempio di altre città che invece fanno barricate. Di accoglienza non si muore».

il manifesto, 2 febbraio 2017
Mezzi, tecnologie e addestramento delle forze di sicurezza di Libia, Niger e Tunisia in cambio dell’impegno da parte dei tre paesi africani a fermare le partenze dei migranti. La logica del «do ut des», avviata con l’accordo firmato un anno fa tra Unione europea e Turchia, comincia a estendersi concretamente anche in Africa. L’iniziativa, però, questa volta è del governo italiano che pur di riuscire a mettere un argine agli sbarchi di migranti sulle nostre coste ha creato un nuovo Fondo per l’Africa nel quale per ora sono stati stanziati 200 milioni di euro, soldi che vanno a sommarsi ai 430 milioni già previsti per la Cooperazione.

Ad annunciare l’iniziativa è sotto ieri Angelino Alfano «Noi diamo una mano nel finanziare sviluppo e attività di controllo, ma in cambio chiediamo una mano per diminuire le partenze» ha spiegato il ministro degli Esteri annunciando l’intenzione di arrivare in futuro ad accordi simili anche con Nigeria, Senegal, Egitto ed Etiopia.

Per il governo Gentiloni è sempre più urgente riuscire chiudere la rotta del Mediterraneo centrale attraversata dai migranti. Per questo i tre paesi africani destinatari dei finanziamenti risultano fondamentali. Dalla Tunisia partono molti dei barconi diretti in Sicilia, mentre il Niger è uno snodo centrale per chiunque tenti di imbarcarsi dalla Libia. Chiudere le frontiere di questi Stati significa creare un grosso ostacolo ai migranti. Come poi i governi locali adempiranno allo scopo è qualcosa che non sembra interessare Roma. «Loro dovranno dirci di cosa hanno bisogno e noi lo finanzieremo, gli daremo una mano nel controllo delle frontiere», ha aggiunto Alfano.

Certo, sulla carta il rispetto di diritti umani di quanti fuggono da dittature o miseria continua a essere fondamentale ma difficilmente eventuali controlli, sempre ammesso che ci saranno, metteranno in luce violazioni che già oggi sono all’ordine del giorno.

L’iniziativa della Farnesina arriva quando mancano ormai poche ore al vertice dei capi di stato e di governo che si terrà domani a Malta e durante il quale verranno decise le strategie europee per fermare il flusso di migranti. «Non c’è una soluzione tutta italiana al problema dei flussi migratori irregolari, occorre fare squadra con l’Unione europea, le agenzie specializzate dell’Onu e le Ong», ha proseguito Alfano.

Per Bruxelles come per Roma l’obiettivo è lo stesso: coinvolgere – sempre in cambio di soldi e attrezzature – il governo libico di Fayez al Serraj nel contrasto all’immigrazione. Nelle scorse settimane il ministro degli Interni Marco Minniti si è recato in Libia per parlare con Serraj annunciando subito dopo di aver raggiunto un accordo che ora l’Unione europea vorrebbe replicare. Peccato, però, che da Tripoli non sia finora arrivata nessuna conferma dell’esistenza di una simile intesa e che solo due giorni fa la stessa Marina libica si è detta contraria a operazioni nelle proprie acque territoriali per fermare e portare indietro i barconi dopo la loro partenza. «Noi non siamo i gendarmi dell’Europa nel Mediterraneo», ha detto un portavoce, il generale Ayoub Omar Qassem.

Serraj, da ieri a Bruxelles, incontrerà oggi la rappresentante della politica estera della Ue Federica Mogherini per chiarire la fattibilità del piano europeo. E’ possibile che il leader libico si limiti a chiedere maggiori finanziamenti, visto che per ora l’Ue ha stanziato 200 milioni di euro. Oppure, ed è più probabile, sul tavolo c’è la fragilità del governo Serraj e di conseguenza l’impossibilità – al di là di inutili proclami – di garantire la fattibilità del piano di contrasto dei migranti. Così come, al di là delle rassicurazioni, è impossibile garantire il rispetto dei diritti umani dei migranti in un paese dove pestaggi, stupri e violenze sono all’ordine del giorno.

«I populismi si possono sconfiggere avanzando un’idea degli spazi urbani e metropolitani fortemente segnata dalla capacità di cooperare attraverso la costruzione di linguaggi ed immaginari condivisi». EuroNomade, 31gennaio 2017 (c.m.c.)

«Esattamente come la distruzione delle macchine industriali non poteva condurre alla distruzione della soppressione del dominio capitalistico, così la distruzione o il tentativo di sfuggire alle macchine securitarie per rifugiarsi in un’illusoria “esteriorità” non permette di sfuggire al regno astratto della sicurezza. È dunque sul terreno delle lotte politiche contro l’oppressione securitaria – il controllo attuato sulla base delle sembianze fisiche, la sorveglianza al lavoro, ecc. – e attraverso la presa in considerazione della sua iscrizione nei rapporti di classe, genere e razza che potrà svilupparsi una resistenza globale contro la sicurezza». (Paul Guillibert, Memphis Krickeberg)

Seppur poco affezionato al contributo dato dalle statistiche ufficiali e radicalmente orientato ad approcci di tipo qualitativo mi sembra doveroso partire da un elemento quantitativo che emerge dall’ultimo rapporto di Frontex sui flussi migratori che interessano l’Europa1. Pur presentandosi come un dato consistente non è quello degli sbarchi sulle coste italiane durante il 2016 (181.436) a colpire principalmente l’attenzione.

Il primo elemento che spicca maggiormente e si presenta più funzionale per avere uno sguardo più adeguato e approfondito sulla situazione attuale riguarda la nuova inversione di tendenza del numero di approdi in Grecia, diminuiti addirittura del 79% grazie agli accordi con la Turchia, il forte calo degli arrivi attraverso la rotta Balcanica grazie al durissimo inasprimento e alla chiusura delle frontiere a fronte di un tendenziale consolidamento del numero di sbarchi avvenuti attraverso il mediterraneo.
La seconda rilevazione interessante riguarda la distribuzione dei richiedenti Asilo in Italia nelle varie forme dell’accoglienza. Nel 2016 su un totale di 176.554 migranti presenti in questo sistema 137.218 ( il 77,7%) sono ospitati nelle strutture temporanee in un regime totalmente emergenziale, 23.822 ( 13,5%) nel sistema SPRAR, 14.694 (8.3%) nei Centri di prima accoglienza ed 820 (0.4%) negli Hot Spot.

L’Europa si trova in una posizione di sostanziale marginalità strategica rispetto a una situazione geopolitica che con un forte acuirsi di guerre e situazioni di alta conflittualità sociale e militare sta interessando l’Africa centro-settentrionale ed il Medioriente. Questa ormai conclamata perdita di centralità si accompagna ad una tendenziale assenza di una progettualità politica strutturata a livello delle istituzioni europee nella governance dei movimenti migratori che interessano i confini esterni e quelli interni del vecchio continente.

Le ragioni di questo trend possono essere individuate nella pochezza politica dei pochi leader europeisti rimasti, nelle frammentazioni prodotte dalla comparsa e dal radicamento dei populismi antieuropeisti o guardando alle caratteristiche del capitale finanziario che sembra sempre meno vincolato alla presenza di piani organici e coerenti (nazionali o sovrannazionali) di governo, disciplinamento e controllo mirato degli individui.

Se una politica migratoria coerente e condivisa dagli Stati membri e dalle varie istituzioni transnazionali è difficilmente individuabile la gestione di questi fenomeni sembra delegata a soluzioni, anche molto radicali, contingenti ed estemporanee come l’accordo con la Turchia che viene costantemente richiamata per la sistematica negazione dei diritti umani, ma risulta utile, come dimostra il dato richiamato prima sul crollo degli arrivi in Grecia, per bloccare i flussi, soprattutto dalla Siria.

Nello stesso modo dobbiamo leggere l’inasprimento di controlli frontalieri in zone specifiche attraverso massicci presidi militari e polizieschi attivati di volta in volta dai singoli stati che, come abbiamo visto prima, ha portato al crollo dei passaggi sulla rotta balcanica e più in generale attraverso il fronte orientale. Il caso ungherese si presenta come sintomatico di questa frammentazione politica.
Se da una parte alcuni leader invocano nuove politiche migratorie comunitarie (ad esempio con la proposta delle quote di “ricollocamento” o con la costituzione di una polizia europea specializzata nel controllare i confini ed effettuare i respingimenti dei migranti irregolari in un mix di accoglienza e repressione) il presidente ungherese Orban siglilla unilateralmente i suoi confini attraverso l’innalzamento di reti e l’utilizzo dei militari e decide, come ha annunciato negli ultimi giorni, di derogare al diritto internazionale mettendo in stato di detenzione i pochi richiedenti asilo che raggiungono l’Ungheria.

Per quanto riguarda invece la rotta meridionale un primo tentativo di filtrare gli imbarchi dalla Libia avviene attraverso il rafforzamento dei campi libici dove notizie di violenze, torture e stupri sono all’ordine del giorno, mentre il rafforzamento degli Hotspot rappresenta una soluzione per il contenimento e la ricollocazione disciplinata di chi riesce a raggiungere le coste italiane.

La governance europea rappresenta oggi un mosaico di equilibri e strategie abbozzate in modo controverso e spesso contraddittorio dove razzismi del tutto istituzionalizzati, separatismi, ordoliberismi appena farciti da logori welfarismi, populismi di varia natura e radicali antieuropeismi convivono come separati in una casa che di certo ha abbandonato un’idea forte di politica di progresso e di modernità. La direzione intrapresa per arginare una potenza soggettiva immensa che di fatto ridisegna le sembianze del territorio europeo è quella di de-localizzare in Turchia e in Libia i confini stessi dell’Europa, sigillare con brutalità il perimetro esterno orientale (con un conseguente utilizzo sempre più sporadico della logica dell’inclusione differenziale) e costituire infiniti confini interni.

Si tratta di confinamenti strutturati culturalmente attraverso una generale “razzializzazione” dei fenomeni di instabilità e conflittualità sociale e materialmente attraverso l’impermeabilizzazione delle zone di frontiera come Ventimiglia, Calais e Idomeni e l’attivazione di nuove perimetrazioni interne rappresentate da campi di internamento e segregazione per migranti irregolari e richiedenti asilo, fenomeni, gli ultimi, sempre più diffusi in alcuni paesi dell’Europa meridionale come la Grecia, l’Italia e la Spagna.
Il confine tende a perdere la caratteristica di fortificazione immobile e rigida. Per quanto sia tracciato su un territorio e produca dinamiche ben situate di violenta segregazione si presenta, in quanto dispositivo, come estremamente flessibile e malleabile. Sono confini mobili dunque addetti a governare un fenomeno sociale imprevedibile e ingovernabile con rigidità, confini che compaiono e scompaiono, che si riposizionano con velocità dentro e fuori dallo spazio europeo e ne segmentano di continuo gli spazi interni.

I movimenti migratori di cui parliamo qui non sono entità astratte o trascendentali, ma materialmente animate da centinaia di migliaia di soggetti che rappresentano certamente un potenziale bacino di forza lavoro a bassissimo costo oltre a prefigurarsi come esercito di riserva per minare ulteriormente la capacità di negoziazione dei lavoratori, ma allo stesso tempo minacciano gli interessi produttivi e finanziari di una frastagliata elite capitalistica europea che dovrà fare i conti con nuove possibili rivendicazioni legate proprio al tema del reddito e del lavoro e dell’universalizzazione del welfare.

Il moltiplicarsi di muri, recinti, presidi militari, Hotspot, canali forzati di transito e centri straordinari per l’accoglienza è animato, come hanno ben sottolineato a diversi livelli Martina Tazzioli e Francesco Ferri2, dalla finalità di contenimento e dispersione della reale e potenziale carica conflittuale della soggettività migrante che si presenta sempre più come una forza costituente transnazionale.

La situazione italiana ci può indicare il senso di questo tipo di approccio al fenomeno delle nuove migrazioni.

Il Ministro degli interni Marco Minniti ci ha messo poco per mettere a punto il primo provvedimento coerente con la sua “sinistra” carriera. Parliamo della riattivazione e della moltiplicazione dei CIE nell’ottica di rendere più efficaci le procedure di identificazione ed espulsione dei migranti irregolari. Il quadro pubblico-mediatico è ormai quello in cui gli ultimi attentati terroristici in Germania e Turchia ed episodi come la drammatica morte di Sandrine Bakayoko nell’hub di Cona, con la relativa rivolta di centinaia di ospiti della struttura, vengono naturalmente collegati tra loro e presentati come segnali della forte minaccia rappresentata dai processi migratori che interessano l’Europa. Era forse dai tempi delle “war on terror” seguita all’attacco delle Torri Gemelle che i dispositivi di controllo non attingevano così diffusamente alla qualifica di “potenziale terrorista” per stigmatizzare e tenere sotto pressione la popolazione migrante.

Le parole del procuratore aggiunto della procura di Venezia Carlo Nordio che, interpellato sulla morte di Sandrine in quanto titolare dell’inchiesta che porta avanti le indagini, parla di possibili strutture criminali organizzate nei campi di accoglienza e di possibili infiltrazioni terroristiche ci trasmettono un’idea chiara della situazione. Le sue sono allusioni assolutamente generali ed estemporanee, ma capaci di produrre senso comune, e vengono presentate sulla stampa in totale assenza di dettagli investigativi e specifiche ipotesi di reato. Quello che più ci interessa è il modo particolarmente diretto con cui il procuratore stesso ci illumina sull’operazione in atto quando interrogato da un giornalista di Repubblica sulle ragioni di tali riferimenti a crimine e terrorismo risponde in questo modo:

«Alcuni sembrano molto pacifici e interessati a vivere nella legalità accettando le regole dell’accoglienza, altri appaiono più violenti e fomentatori. I primi sono collaborativi, i secondi no. Dobbiamo capire perché».

Raramente la retorica che contrappone l’immigrato buono da quello pericoloso è stata così ben descritta da un importante attore istituzionale che ricordiamo ha sempre gravitato nell’area del centro-sinistra italiano. La logica di criminalizzazione che sembra imporsi in questa fase vede dunque la separazione tra chi subisce in silenzio le angherie tipiche dell’attuale sistema di accoglienza ed è dunque meritevole di essere lasciata lì dov’è rischiando ogni giorno di ammalarsi o morire e chi si lamenta o si ribella allo stato di cose etichettato come criminale e potenziale terrorista.

Per trovare una conferma di questa tendenza torniamo a Minniti il quale dichiara alla stampa che i nuovi CIE che verranno attivati non coinvolgeranno tutti gli irregolari ma soltanto quelli considerati “socialmente pericolosi” e ci tiene ad aggiungere, a conferma della forte esigenza in Italia di manodopera ricattabile e dunque a basso costo, che di certo non ci verranno portate le badanti irregolari. Viene di nuovo esplicitato che questo nuovo sicuritarismo risponde direttamente all’esigenza di effettuare una selezione stigmatizzante attraverso la criminalizzazione di chi non si rassegna alle inaccettabili condizioni nelle varie tappe dell’accoglienza e la tolleranza caritatevole verso chi accetta in silenzio e passivamente violenze, umiliazioni e privazioni sistematiche della libertà.

La proposta (sempre contenuta nel “pacchetto Minniti” che ricordiamo mette emblematicamente insieme politiche migratorie e sicurezza urbana) di rendere obbligatori per tutti i richiedenti asilo lo svolgimento di lavori di pubblica utilità svolge proprio la funzione di alimentare ulteriormente l’idea che il migrante deve meritarsi l’accoglienza (sarebbe forse più preciso chiamarla carità o benevolenza) accettando passivamente la lunga serie di violenze e “disciplinamenti” che vengono messi in campo dagli Hotspot fino alle risposte delle Commissioni territoriali.

Quello che si va pericolosamente delineando in Italia sembra dunque assumere le sembianze di un nuovo frame sicuritario estremamente grezzo connotato da orientamenti dichiaratamente essenzialisti xenofobi e razzisti che tende a imporre un ordine discorsivo e delle politiche di controllo finalizzate a contenere e neutralizzare e prevenire, attraverso l’illusoria logica della deterrenza, le diffuse resistenze dei migranti: rifiuto di lasciare le impronte digitali negli hotspot, proteste e ribellioni alle condizioni nei campi di accoglienza, indisponibilità a rinunciare alla loro autodeterminazione negata dai regolamenti di Dublino e quella a sottostare a forme di lavoro schiavistico e ipersfruttato.

Gli uomini e le donne che, nelle varie tappe successive al loro approdo in Europa, si battono auto-organizzandosi per la loro libertà di movimento e per i loro diritti, seppur in forme frammentate, segmentate e non immediatamente riconducibili a claim caratterizzati politicamente, alludono oggi direttamente a un’idea di Europa che vede le soluzioni sovraniste e populiste, che esse giungano da destra o da sinistra poco importa, semplicemente anacronistiche, materialmente superate da irrefrenabili processi materiali i corso.

Non ci scordiamo certamente il carattere forzato di questi movimenti legato alle condizioni di estrema deprivazione e ingiustizia che caratterizzano i luoghi di partenza per non parlare dei bombardamenti e delle guerre in corso a variabile intensità, guerre sempre più asimmetriche e a geografia mobile.

Detto questo, proprio per evitare approcci caritatevoli (e a tratti neocoloniali) e di farci tentare da populismi in salsa sinistroide, dobbiamo necessariamente concentrarci su quello che queste donne e questi uomini esprimono strappando ogni giorni porzioni di libertà e nuovi diritti nella direzione di divenire a tutti gli effetti attori innovativi di un’Europa multietnica e moltitudinaria. Non sono utopie o concettualizzazioni ottimistiche, sono fenomeni che si stanno già sviluppando e diffondendo ridefinendo interi tessuti urbani di gran parte dell’Europa. Pensare di costringere le lotte migranti dentro la categoria soffocante di popolo e all’interno degli spazi della sovranità si presenta come un operazione che trascende pericolosamente la materialità dei processi che innervano i nostri territori.

Un esempio ancora più territorialmente situato, la gestione dell’accoglienza nel territorio Veneto ed in particolar modo a Padova e Provincia, aggiunge ulteriori elementi di analisi e di comprensione della situazione in corso. Anche qui partiamo da un dato numerico. Secondo il “Rapporto sulla protezione internazionale 2016”3 al mese di ottobre del 2016 in Veneto su 14.754 richiedenti asilo presenti su territorio 11.426 trovavano posto nei vari CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) e soltanto 500 nel sistema SPRAR, con un’incidenza di quest’ultimo del 4.3%.

Secondo rilevamenti non ufficiali almeno la metà di loro sono ospitati negli Hub di Cona (Venezia), di Bagnoli (Padova), Oderzo (Treviso), spazi militari dismessi dove vengono letteralmente ammassate centinaia di persone “invisibilizzate”, se non in casi drammatici come la morte di Sandrine, che vivono l’attesa del giudizio sulla loro domanda di Asilo in condizioni socio-sanitarie molto gravi.

I richiedenti asilo incontrati nel corso di una inchiesta in corso sulle forme dell’accoglienza nel territorio padovano, spesso protagonisti di forme autorganizzate di protesta con cortei e blocchi stradali nelle aree circostanti i campi che li ospitano dove ricordiamo rimangono anche per un anno intero, denunciano la qualità scadente del cibo causa di diffusi problemi gastro-intestinali, la pressoché assenza di servizio medico e di medicinali ( l’unica soluzione esistente è la distribuzione massiccia di paracetamolo!), la mancanza totale di fornitura di vestiti (alcuni ragazzi a diversi mesi di distanza dall’approdo hanno addosso ancora i vestiti e le scarpe con cui hanno affrontato il viaggio verso l’Europa) e l’insufficienza di servizi igienici ( in diverse occasioni abbiamo visto fossati scavati all’aperto che fungevano da vespasiani).

A questo si aggiunge l’assenza di corsi di italiano e di programmi orientati a creare un rapporto virtuoso tra loro ed il tessuto sociale del territorio. Questa modalità totalmente emergenziale che caratterizza l’accoglienza in questi territori può essere spiegata considerando l’intreccio di almeno tre elementi. Innanzitutto è frutto dell’inesistenza di progetti nazionali incentrati sui soggetti stessi, sulla tutela e sull’implementazione dei loro diritti e della loro volontà di scelta.

Negli ultimi due anni il Governo si è limitato a potenziare gli Hotspot per garantire le regole di Dublino (ricordiamo che i piani di “ricollocamento” stabiliti recentemente dalla Commissione Europea sono tuttora del tutto disattesi nella pratica) e a collocare gran parte di queste persone in strutture emergenziali attraverso bandi di assegnazione privi di meccanismo di controllo: questi bandi hanno evidentemente agevolato quel “business umanitario” le cui caratteristiche cominciano finalmente a venire a galla ed interessare anche il dibattito pubblico mainstream anche per le sue connessioni con le note faccende di “Mafia Capitale”.

Eccoci al secondo elemento. Sono alcuni settori del capitalismo veneto, fortemente segnato da corruzione e familismo clientelare, a sostenere finanziariamente questo tipo di gestione emergenziale dell’accoglienza4. Parliamo di veri monopoli (vedi la Cooperativa Ecofficina oggi rinominata Edeco) che nonostante diverse inchieste giudiziarie in corso continuano a gestire grandi centri come quello di Conetta e di Bagnoli e dunque a essere al centro di dinamiche di speculazione che riguardano introiti e giri di capitali di grande volume. Basti ricordare che il fatturato di Ecofficina-Edeco negli ultimi 4 anni, e dunque da quando si è prettamente occupata di accoglienza, è passato da 114 mila euro e circa 10 milioni di euro.

Infine troviamo un fatto di una certa rilevanza dal punto di vista politico, ma anche tecnico-burocratico, e cioè l’indisponibilità di gran parte delle amministrazioni comunali venete a prevalenza leghiste a fare la loro parte ad esempio mettendo a disposizione risorse per attivare forme di accoglienza diffusa o partecipando ai bandi SPRAR, soluzioni che potrebbero senz’altro rappresentare una svolta importante.

Questo incrocio di interessi economici e orientamenti politici ha come conseguenza materiale il collocamento di migliaia di Richiedenti Asilo in una posizione di estremo disagio e marginalità a cui si aggiunge una infame ricattabilità a cui sono sottoposti nell’attesa della riposta della Commissione Territoriale che giudica le loro domande di Asilo. Molti avvocati e operatori di piccole strutture ci riportano la tendenza sempre maggiore di queste Commissioni a giudicare non tanto in base a un già discutibile metro di misura legato alla storia migratoria del soggetto, ma al suo comportamento più o meno “adeguato” successivo all’approdo in Italia. Ecco di nuovo, nel vivo delle procedure territoriali, il dispositivo di selezione tra migranti buoni e cattivi orientato violentemente a colpire chi protesta e si batte per strapparsi porzioni di libertà.

C’è però un’altra dimensione, più simbolica, ma di certo non priva di effetti anche violentemente materiali, toccata fortemente dalle attuale approccio al fenomeno delle migrazioni e cioè quella dei populismi che sempre più vanno radicandosi in Italia e altrove. La recente tendenza che vede in campo sempre più strutturalmente queste soluzioni emergenziali di irretimento di migliaia di perone e una forte “accelerazione del processo di risemantizzazione del corpo migrante”5, presenza una base ideale per la cristallizzazione della rabbia e delle insicurezze degli autoctoni intorno alla presenza migranti e ai loro comportamenti.

Che questo avvenga attraverso i filtri e discorsi, in verità sempre meno edulcorati, della “sinistra” di governo che (come nella precedente stagione sicuritaria del 2008/2009, dei vari Amato, Cofferati, Domenici, Zanonato ecc..) si affanna a dimostrare che la “sicurezza dei cittadini” è sua naturale prerogativa e terreno di intervento o con i canali tradizionalmente razzisti delle destre cambia poco. Il risultato è comunque di nutrire pericolosamente le passioni tristi del populismo e dei suoi poco raccomandabili surrogati.

Non è facile individuare il modo migliore per accompagnare, mettersi al servizio ed implementare la conflittualità, la “politicità” e la forza costituente di questi processi in corso nei nostri territori. Sicuramente bisogna partire intervenendo direttamente nei contesti locali e nel farlo la condizione principale è quella di trovare ogni soluzione per interagire e relazionarsi con continuità con i migranti stessi. È la loro voce diretta e la valorizzazione della molteplicità di necessità e desideri in campo, opportunamente amplificate attraverso reti territoriali che la sappiano fare irrompere nel dibattito pubblico, a dover veicolare la potenzialità politica delle nuove rivendicazioni soggettive che già attraversano i territori in cui viviamo.

La costruzione di reti cittadine allargate che abbiano la forza di chiedere la chiusura immediata dei grandi concentramenti in cui vivono i richiedenti asilo si presenta ormai come una battaglia politica improrogabile. In termini pratici e concreti quello di chiedere l’allargamento dei progetti SPRAR attraverso il coinvolgimento delle amministrazioni comunali e, nella prospettiva di una sua cancellazione, di rivoluzionare l’accoglienza temporanea con un utilizzo esclusivo di strutture qualificate di piccole e medie dimensioni (dove la preparazione degli operatori e la presenza di programmi di “inclusione” spazzino via la logica assistenziale e caritatevole) sono obiettivi minimi che parlano direttamente delle condizioni materiali di vita dei migranti, ma contemporaneamente si presentano come condizione necessaria per cercare di neutralizzare l’offensiva razzista e xenofoba.

In questo senso le sperimentazioni “neo-municipaliste” in corso in alcuni territori, e quelle in divenire, dovranno necessariamente misurarsi con questi nodi ed avere la capacità di imporre in tutte le discussioni cittadine il tema della libertà e dei nuovi diritti dei migranti e la progettazione di nuovi percorsi di una cittadinanza attiva. I populismi si possono sconfiggere non assumendo i loro angusti frame di riferimento, ma avanzando un’idea degli spazi urbani e metropolitani fortemente segnata dalla capacità di soggettività diverse di cooperare e costruire forme di lotta e innovazione sociale comuni attraverso la costruzione di linguaggi ed immaginari condivisi.

Sarebbe infine necessario non scordarci della nostra attitudine, per nulla utopica, a elaborare rivendicazioni universalitistiche e “ricompositive” situando proprio dentro questi processi alcune battaglie come quelle per un permesso di soggiorno europeo per tutti i migranti che approdano o che già vivono sul territorio a prescindere dagli status normativi in cui sono costretti e quelle orientate alla conquista di un reddito minimo d’esistenza e di nuove forme di welfare universale.

La straordinaria mobilitazione di decine di migliaia di persone nelle metropoli e negli aeroporti contro l’executive order di Trump diventa per tutti noi un punto di riferimento importante non solo per la sua naturale vocazione anti-sovranista e anti-populista, ma anche alla luce della sua composizione moltitudinaria che vede ad esempio movimenti antirazzisti come Black Live Matters intrecciare in questi giorni le loro lotte insieme a quelle femministe per la libertà e l’autodeterminazione messe in scena il 21 gennaio con la women’s march on Washington.

1 http://frontex.europa.eu/assets/Publications/Risk_Analysis/Annula_Risk_Analysis_2016.pdf

2 http://www.euronomade.info/?p=8566; http://www.euronomade.info/?p=8521

3 http://centroastalli.it/wp-content/uploads/2016/11/Rapporto_protezione_internazionale_2016_SINTESI.pdf

4 http://ilmanifesto.info/ecofficina-lanima-nera-del-modello-veneto-fra-capannoni-dismessi-e-simulacri-industriali/; http://ilmanifesto.info/le-mani-sul-business-dei-profughi-ma-il-sistema-di-borile-c-non-e-inossidabile/; http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/01/03/venezia-tutte-le-ombre-su-chi-gestisce-il-centro-di-cona-indagini-per-truffa-parentopoli-e-la-cacciatada-confcooperative/3293882/

5 http://www.euronomade.info/?p=8638

la Repubblica online, 1 febbraio 2017 (p.s)

«Abbiamo firmato con le associazioni del tavolo islamico italiano un importantissimo documento, cruciale, che riguarda il presente e il futuro dell'italia attraverso il dialogo interreligioso». Così il ministro dell'Interno Marco Minniti, al Viminale, presenta il 'Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente e ai valori e principi dell'ordinamento statale', redatto con la collaborazione del consiglio per i rapporti con l'islam italiano e recepito dal ministero dell'Interno.

Minniti è soddisfatto, il documento è stato sottoscritto dalle principali associazioni e organizzazioni islamiche in italia, rappresentative di circa il 70 per cento dei musulmani che attualmente vivono in italia. «È un atto che considero straordinario - dice il ministro -, un importante passaggio utile per la vita del nostro Paese».

Tra i punti salienti del patto, come sottolinea Minniti in conferenza stampa, c'è la «formazione di imam e guide religiose» che prelude a un albo degli imam. Inoltre, le associazioni islamiche si impegnano a «rendere pubblici nomi e recapiti di imam, guide religiose e personalità in grado di svolgere efficacemente un ruolo di mediazione tra la loro comunità e la realtà sociale e civile circostante; ad "adoperarsi concretamente affinchè il sermone del venerdì sia svolto o tradotto in italiano»; ad «assicurare in massima trasparenza nella gestione e documentazione dei finanziamenti». Il documento di fatto consente di superare anche antiche contrapposizioni tra alcune associazioni islamiche.

Condividi «Il patto - sottolinea - si muove nell'alveo della nostra Costituzione, che sono i nostri valori. I valori che tutti quanti insieme ci impegniamo a difendere e a ripudiare qualsiasi forma di violenza e di terrorismo». «La prima parte del Patto - prosegue Minniti - richiama i valori della Costituzione italiana, che sono i valori dei firmatari, valori che tutti insieme ci impegniamo a difendere. Il cuore del documento - ha aggiunto - è il giusto equilibrio tra diritti e doveri».

Il segretario generale del centro Islamico culturale d'Italia (la grande moschea di Roma), Abdellah Redouane, tra i firmatari, esprime apprezzamento per lo "spirito" che ha portato alla firma: «Il centro continuerà a dare il suo contributo nel favorire una crescita e responsabile dell'islam in Italia».

Il Patto contiene dieci impegni da parte delle associazioni islamiche chiamate a far parte del Tavolo di confronto presso il ministro dell'Interno ed altrettanti da parte del ministero. Si sottolinea, rileva il ministro, «che la libertà di culto è una delle libertà inalienabili e che lo Stato non dà regole alle religioni, ma può fare intese. È l'incontro di libere volontà, non la supremazia di una volontà». Il titolare del Viminale definisce poi «un grave errore l'equazione tra immigrazione e terrorismo, ma è un errore anche dire che non c'è rapporto tra mancata integrazione e terrorismo. L'attentato di Charlie Hebdo ha dimostrato che livelli di integrazione non adeguati formano un brodo cultura per i terroristi».

Minniti quindi mette in guardia dagli imam fai da te, definiti "un grande pericolo" e illustra gli altri punti del documento: il contrasto al radicalismo religioso, l'impegno a garantire che i luoghi di preghiera siano accessibili a visitatori non musulmani e che il sermone del venerdì sia «svolto o tradotto in italiano", la massima trasparenza sui finanziamenti ricevuti per la costruzione e le gestione di moschee e luoghi di culto. "Non sono - conclude il ministro - standard che uno decide e gli altri devono accettare, sono condivisi e ho visto una straordinaria volontà dei firmatari di impegnarsi nella realizzazione di questo percorso. Sarà promossa una serie di incontri con le comunità musulmane, si organizzerà un tour per i giovani musulmani di seconda generazione e faremo una grande assemblea».

Infine il ministro ringrazia i docenti musulmani «per il lavoro straordinario svolto, per aver permesso con la loro professionalità e la loro apertura culturale di raggiungere un obiettivo non semplice. In altri momenti non tutte le associazioni avrebbero firmato un documento simile, oggi lo hanno fatto. Qualcuna magari convincendosi all'ultimo momento: quando ho fatto notare che nella nostra religione c'è piu festa in cielo per la pecorella smarrita, mi hanno fatto notare che lo stesso vale anche per la loro. Tanto che potremmo anche chiamarlo il patto della pecorella smarrita...».

Se per "radicalizzazione" si intende il ricorso sistematico alla violenza una società appena decente non dovrebbe rispondere alla "radicalizzazione" propria a quella altrui.

huffingtonpost online, 1 febbraio 2017 (p.s.)

In un saggio del 1963, "Radicalism and the organization of radical movements", il sociologo cecoslovacco Egon Bittner definiva il radicalismo come reazione di rigetto rispetto al "normale e tradizionale" orizzonte assiologico vigente in un dato gruppo sociale e in un determinato momento storico. Essere radicali significa, per lo studioso, interiorizzare una serie di modi di agire, pensare e sentire che si pongono in antitesi con lo spirito del proprio tempo.

Questa prospettiva mette in luce l'essenziale: la radicalizzazione non è un processo socio-cognitivo che riguarda solamente terroristi irriducibili e sanguinari quanto, al contrario, costituisce una dinamica ricorrente nella vita quotidiana di ogni attore sociale. Percorrere contromano un senso unico, per intenderci, significa essere, a proprio modo, radicali.

Quando Bittner scriveva, erano anni nei quali il mondo degli intellettuali stava ancora cercando di razionalizzare il misterioso geroglifico che aveva condotto l'umanità occidentale nel baratro di due disastrosi conflitti che, erodendo le fondamenta della ragione, avevano provocato uno stato di barbarie e distruzione. È quantomeno sorprendente, tuttavia, che la lezione di Bittner sia stata quasi completamente ignorata nel dibattito attuale sulla radicalizzazione.

In particolar modo, nonostante tale dibattito abbia consentito di far luce su ogni singolo aspetto del percorso socio-psicologico che conduce un individuo "normale" verso la violenza politica e religiosa, ci si è completamente dimenticati che le stesse identiche dinamiche incidono sulla radicalizzazione, eguale e contraria, della quota parte di società che combatte la radicalizzazione. In parole più semplici, non è stato compreso che le dinamiche che regolano la radicalizzazione della violenza islamica sono in realtà le stesse che determinano quella che definisco "radicalizzazione dell'Occidente" nei confronti dell'Islam.

Per spiegare tale concetto occorre, tuttavia, fare un piccolo passo indietro, definendo cioè quali sono le macro-componenti della radicalizzazione, cioè di quel processo socio-cognitivo che porta un individuo "normale" ad acquisire una mentalità radicale che potrebbe condurlo verso la crescente volontà di sovvertire l'ordine esistente. Gli studiosi dividono la radicalizzazione in due sotto-processi che prendono il nome di radicalizzazione cognitiva (l'acquisizione mentale di una ideologia radicale) e comportamentale (la progressiva disponibilità all'azione violenta).

La violenza verbale, fisica, virtuale e terroristica, trova sempre la sua genesi nella selva psico-cognitiva del pensiero individuale. Spiegare la radicalizzazione significa, quindi, dipanare la matassa della mente dell'individuo che si radicalizza, tenendo a mente l'ironica provocazione di Joseph Margolin secondo cui "il terrorista" - e, dunque, ogni uomo - «è prima di tutto un uomo». Proprio da lì occorre partire.

La frustrazione come causa profonda della radicalizzazione

Per spiegare la dinamica della radicalizzazione del «noi contro di loro», cioè la reazione di rigetto del mondo Occidentale nei confronti dell'Islam, parto dal concetto di frustrazione e dai suoi effetti sulla vita delle persone. Nel 1954, lo psicologo statunitense Maslow Abraham propose una gerarchizzazione piramidale dei bisogni umani, suddividendoli in 5 macro-categorie: fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione.

La relazione tra bisogni e soddisfazione, secondo Maslow, è di inversa proporzionalità. Più precisamente, considerati i bisogni fisiologici come la base della piramide e quelli legati all'autorealizzazione il vertice, la probabilità di soddisfare i secondi sarà di gran lunga inferiore rispetto ai primi. Questo comporta, inevitabilmente, una frustrazione crescente nell'uomo: al crescere dei bisogni, diminuiscono le possibilità di soddisfarli.

Questo è particolarmente evidente nelle moderne civiltà occidentali, dove il progresso ha generato crescente benessere materiale, consentendo a miliardi di persone di riempire la base della piramide di Maslow. Tuttavia, il progresso materiale non offre particolari risposte per quanto riguarda i bisogni di livello superiore, e cioè quelli legati, per così dire, alla dimensione spirituale della vita degli umani. Soddisfare lo spirito significa sentirsi appagati mentalmente, essere in pace con sé stessi, col mondo circostante, significa costruire un solido architrave attorno a cui erigere le "pareti" della propria esistenza terrena. L'ascensione della piramide è paragonabile all'arrampicata di uno scalatore: lenta, stancante e, talvolta, impossibile da terminare.

Date queste premesse e nonostante la realizzazione dei bisogni spirituali sia un percorso che ha come durata la vita stessa dell'uomo, in determinate circostanze e in date congiunture storiche segnate da crisi globali, sfiducia nel progresso umano e ultra-individualismo nelle relazioni, tale frustrazione assume delle caratteristiche ben precise, passando da essere la causa di un problema allo strumento per combatterlo. Gli individui soggetti alla frustrazione crescente della propria autorealizzazione cominciano improvvisamente a temere, non solo di essere giunti al termine del cammino di avvicinamento a essa, ma anche di dover difendere la propria posizione raggiunta dal rischio di perdere terreno, aggrediti da minacce esterne.

L'ideologizzazione della frustrazione

Qualora rimanga un fenomeno relegato alla mera vita privata di un individuo, la frustrazione non coincide con la radicalizzazione. Come sostiene il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar in un suo studio illuminante sulla radicalizzazione islamica nelle carceri francesi, la frustrazione è un parametro insufficiente per innescare la radicalizzazione. L'individuo frustrato, infatti, potrebbe reagire alle sue inquietudini chiudendosi in sé stesso, senza cercare in alcun modo la via del riscatto. La frustrazione - fattore determinante per la radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam - necessita di un solvente, di un catalizzatore che ne faciliti la trasformazione. La source del passaggio dalla frustrazione alla sua dimensione applicativa è costituita dall'ideologia, in un processo che Khosrokhavar definisce «ideologizzazione della frustrazione».

Nonostante la civiltà contemporanea si definisca post-ideologica, ritengo che le nuove organizzazioni politiche anti-sistemiche e populiste rappresentino il condensato più evidente di come l'ideologizzazione dei gruppi sociali sia un fattore preponderante e tutt'altro che scomparso.

Un'ideologia trasversale, che non ha più i connotati dei vecchi impianti del Novecento, ma che, comunque, ha il potenziale sufficiente per innescare una nuova forma di conflitto sociale che, come scrissi a margine dell'elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, «non ha più il suo fine nella conquista dei diritti, ma nella difesa di privilegi» e, addirittura, nell'introduzione di nuovi privilegi in opposizione frontale rispetto a chi, al contrario, vuole solamente garantire diritti.

Il successo dei movimenti anti-sistema, che trascendono i confini, deriva dal fatto che «sono tutte manifestazioni dello stesso fenomeno, che affonda le sue radici in una paura ormai radicata nell'inconscio di una maggioranza perlopiù silenziosa, ma che trova espressione politica in una narrativa rassicurante», estremamente "autoreferenziale" e capace di generare "una sorta di psicosi collettiva".

Qual è l'origine di tale paura? La frustrazione individuale per l'impossibilità di progredire nella marcia di soddisfazione dei propri bisogni, provoca la necessità di trovare appiglio nel mondo reale per lenire, almeno parzialmente, la propria angoscia esistenziale.

Questo processo virale, che si autoalimenta grazie anche ai mezzi di comunicazione, all'incessante creazione di "bufale" e, soprattutto, al fatto che ci siano persone che le prendono per vere, porta come logica conseguenza al settarismo e alla necessità di difendersi dal pericoloso assedio di agenti esogeni che minacciano direttamente i nervi scoperti della propria persona. Gli agenti patogeni, percepiti come origine della frustrazione, sono spesso identificati nell'"altro", nel "diverso", in chi si discosta dal proprio gruppo sociale di riferimento (per esempio, musulmani e migranti). Attraverso una narrativa riduttiva e semplicistica, viene a costituirsi un nuovo e potentissimo serbatoio ideologico.

L'operazionalizzazione della frustrazione

Chiunque ritenga ancora che l'ideologizzazione della frustrazione non sia, in realtà, un esempio di ideologia, non mette a fuoco l'essenziale. L'ideologia costituisce, da sempre, un complesso sistema di norme condivise da un dato gruppo sociale e che, in quanto tali, hanno un potente valore coattivo per i membri del gruppo. Per misurare la presenza di una narrativa condivisa, di un insieme di valori interiorizzati negli aderenti a tali movimenti, basti prendere come esempio il contenuto tematico ricorrente, verificabile nelle interazioni tra gli utenti delle varie piattaforme social, mentre esprimono la propria posizione su determinate tematiche.

Facendo questo esercizio, si potrà verificare con estrema facilità come funziona, da un punto di vista pratico, la frustrazione, nel momento in cui essa diventa ratio e guida per l'azione. Parole come "perbenismo", "buonismo", "ripulire", "povertà", "carestia", "miseria", "invasione", "questa gente/noi", ricorrono con un'insistenza maniacale, anche in frasi totalmente decontestualizzate. Detto in altri termini, fanno parte di un alfabeto parallelo costruito ad hoc dai membri di tali movimenti. In breve: la parola "ripulire", per esempio, ha raggiunto un tale livello di significatività da essere immediatamente visualizzabile e di grande efficacia.

Nel momento in cui si passa dalla fase della frustrazione alla fase della cyber-lotta per procura, avviene, definitivamente, quella che potrebbe essere denominata "operazionalizzazione della frustrazione", che sancisce il passaggio dalla radicalizzazione cognitiva alla radicalizzazione comportamentale. Si potrebbe obiettare che la radicalizzazione di un movimento anti-sistemico è differente da quella verso il terrorismo, in quanto mentre il primo produce morte e brutalità, il secondo genera, al massimo, odio virtuale.

Chi scrive, al contrario, ritiene che, i fattori che guidano la radicalizzazione cognitiva finalizzata al terrorismo e quelli che operazionalizzano la frustrazione siano gli stessi. Sottolineare una forte soluzione di continuità tra i due fenomeni significa ignorare completamente un concetto fondamentale: le manifestazioni di violenza verbale online, pur non producendo morte, sono atti gravissimi di violenza che potrebbero generare conseguenze irreversibili nelle vittime.

L'operazionalizzazione della frustrazione è un processo multifasico, i cui tratti ricorrenti sono i seguenti: frustrazione, individuazione della causa della stessa, ricetta per curarne gli effetti. Tutto comincia con la descrizione, ovvero la narrazione della frustrazione: "questa gente vuole rubarci il lavoro e imporci di aderire alla loro religione, svilendo i valori fondanti dei nostri antenati".

Poi si passa all'individuazione delle cause della frustrazione: «L'invasione islamica porterà allo stermino di noi cattolici ed ebrei, e se non fermiamo - noi italiani in primis - questa invasione, i nostri futuri figli non avranno neanche un lavoro, una casa, e una famiglia. Se è questo quello che volete buonisti, allora andate a vivere con loro: noi stiamo sia con Trump che con Israele. Israele fa bene a massacrare tutti i musulmani, e Trump fa bene a non fare entrare gli islamici nel suo paese, è ora che impariamo sia da Trump che da Israele».

Infine, si propone la ricetta per curarne gli effetti: «Siamo proprio ben messi, che schifo! Ripulire l'Italia da questa gente che porterà solo miseria e carestia per noi italiani senza contare tutte le malattie che non avevamo più ritorneranno e per causa loro sarà la fine della nostra specie».

I virgolettati appena riportati sono commenti di utenti di movimenti politici anti-sistema, su differenti piattaforme social. Si tratta di un esempio pertinente, utile per capire il funzionamento della radicalizzazione dell'Occidente. Si parte da una narrativa che, denunciando uno stato di pesante frustrazione legato alle condizioni materiali e spirituali del vivere presente, rintraccia nei gangli della società degli elementi patogeni di imperfezione e di impurità, che devono essere estirpati per evitare la «fine della nostra specie». Curioso notare, a questo proposito, che associare il linguaggio della parassitologia a gruppi sociali rivali è stato un tratto storicamente ricorrente in ogni gruppo radicale.

Le emozioni non costituiscono l'azione ma la predispongono
Nonostante i condizionamenti che si impongono agli attori sociali in virtù della coattività del contesto normativo in cui essi sono socializzati, si ritiene che la source delle azioni di un individuo sia da rintracciare nella dimensione psicologica ed emotiva insita nell'essere umano. In parole semplici, tanto in una storia d'amore, quanto nell'attività di un terrorista, di un criminale e di un assassino, agisce una interiorità emotiva capace di condizionarne i comportamenti.

È erroneo, dunque, sottovalutare il ruolo delle emozioni nel definire il cammino di ogni persona. Anche se è fuor di dubbio che le emozioni non costituiscono l'azione, esse hanno, tuttavia, la capacità di predisporla. Questo in virtù della cosiddetta "dimensione motivazionale" delle emozioni, e cioè del loro essere la cinghia di trasmissione in grado di trasferire i contenuti dello spirito alle azioni del corpo.

La radicalizzazione dell'Occidente nei confronti dell'Islam nasce, dunque, nelle innervazioni profonde della psiche collettiva di una certa parte di civiltà occidentale che, non trovando risposte alla necessità di soddisfare bisogni spirituali personali, trova nel "diverso" - musulmani e immigrati in primis - una facile e congeniale valvola di sfogo. Le prime mosse anti-immigrazione della Presidenza Trump costituiscono una estrinsecazione sinistra di tale radicalizzazione.

Tutto ciò produrrà, inevitabilmente, effetti negativi per ciò che concerne la lotta alla radicalizzazione jihadista vera e propria. Come sottolineano gli approcci più recenti nel campo del contrasto al terrorismo, una delle procedure-chiave per combattere la radicalizzazione violenta dell'Islam, consiste nel prevenire la dimensione cognitiva che guida l'intero processo. È imperativo categorico, dunque, che l'Occidente non risponda alla radicalizzazione con la radicalizzazione. Questo, oltre a essere oltraggioso nei confronti di una tradizione di difesa dei diritti tipicamente occidentale, ha pure effetti velleitari - se non addirittura peggiorativi - nella prevenzione della violenza. Nell'informare questo percorso, infine, gli intellettuali hanno una responsabilità imprescindibile.

Postilla
Noi per "radicale" intendiamo qualcosa di diverso: andare alla radice delle cose. Vedi su eddyburg
Moderati e radicali secondo Bevilacqua

la Repubblica online, 1 febbraio 2017 (p.s)
Telegramma urgente a tutte le questure: «Rintracciare cittadini nigeriani in posizione irregolare sul territorio nazionale». L'obiettivo è riempire entro febbraio un volo charter per la Nigeria. Per questo, vengono riservati 95 posti nei Cie di Roma, Torino, Brindisi, Caltanissetta. Scatta la stretta sugli irregolari. Il Viminale prova a far ripartire la macchina delle espulsioni: precedenza assoluta ai nigeriani.

Un passo indietro: il complesso meccanismo di contrasto all'immigrazione irregolare, fatto di Cie, accordi bilaterali ed espulsioni è in stallo da tempo. Un sistema imponente che dà miseri frutti: nel 2016 i rimpatri effettivi sono stati meno di 6mila. L'obiettivo è ora raddoppiarli. Per questo, il Viminale annuncia più Cie e nuovi accordi di riammissione con i Paesi d'origine. Su questa linea, si muove l'ultimo telegramma del ministero.

Il telegramma spedito alle questure italiane dalla Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere

Condividi Il 26 gennaio 2017 la Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere spedisce a tutte le questure italiane un telegramma. Oggetto: «Audizioni e charter Nigeria. Attività di contrasto all'immigrazione clandestina». L'obiettivo è rintracciare nigeriani irregolari per provvedere al loro rapido rimpatrio forzato.

«Al fine di procedere, d'intesa con l'ambasciata della Repubblica federale della Nigeria, alle audizioni a fini identificativi di sedicenti cittadini nigeriani rintracciati in posizione irregolare sul territorio nazionale per il loro successivo rimpatrio, questa direzione ha riservato a decorrere dal 26 gennaio al 18 febbraio 2017 50 posti per donne nel Cie di Roma, 25 per uomini a Torino, 10 a Brindisi, 10 a Caltanissetta». Posti che andranno resi disponibili urgentemente anche tramite dimissioni di altri trattenuti. Le questure «sono invitate a effettuare mirati servizi finalizzati al rintraccio di cittadini nigeriani in posizione illegale sul territorio nazionale».

Per Filippo Miraglia, vicepresidente dell'Arci, «si tratta di un'azione di espulsione collettiva, vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità, quindi discriminatoria, a prescindere dalle condizioni delle singole persone».

Una interessante riflessione critica di un eminente psichiatra sulla strumentalizzazione politica dell’emergenza migranti e sulla necessità di costruire nuove strategie di accoglienza capaci di coniugare conflitto e mediazione

. Souk online, 14 novembre 2016. (m.c.g.)

Troppi morti innocenti nel mare Mediterraneo, troppe vite innocenti respinte, aggredite, umiliate e, infine, "vendute" a una dittatura (tuttavia "alleata") perché non invadano l'Europa delle democrazie. Troppi morti innocenti trucidati in nome di dio. Troppi morti innocenti trucidati in nome della democrazia che vende armi al supermercato. Troppe donne uccise per il solo fatto di essere donne.

L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati stima che nel 2015, 65.3 milioni di persone erano dislocate dai loro paesi di origine, quasi 6 milioni di piú che l'anno precedente. Di questi 65.3 milioni, 3.2 milioni (ossia meno del 5%) attendono di essere accolti in paesi ad alto reddito. L'Alto Commissario Filippo Grandi scrive: "Un impressionante numero di rifugiati muore ogni anno in mare e quando si trovano in terraferma queste persone che sfuggono la guerra vengono bloccate da confini chiusi. Chiudere le frontiere non risolve il problema". (UNHCR, 2016).

Sembra davvero che il "Male" si radicalizzi a misura in cui la "Speranza" cristiana e la "Utopia" laica si affievoliscono e si perdono schiacciate dalla evidenza e dalla razionalità (presunte evidenza e razionalità) del pragmatismo senza visione della politica e dalla chiusura individualistica in nome della nuova "religione" miope del "well being", della "mindfulness" e di tutte le forme serie e meno serie, solide e meno solide di perseguimento del benessere individuale.

Vi è certamente una emergenza grave e pressante ma non è quella mediatizzata ogni giorno della "invasione" dei rifugiati, dei profughi e dei migranti (evitiamo aggettivi che classifichino i migranti ora come "politici" e dunque da compatire ora come "economici" e dunque da temere). Ció che deve fare riflettere è che una entità politica (l'Unione Europea) di 500 milioni di abitanti definisca emergenza l'arrivo di una popolazione che rappresenta meno dell' 1% della propria popolazione: si è deciso di chiamare emergenza la propria intolleranza, il proprio egoismo e soprattutto la propria cecità di fronte alla drammatica crisi demografica europea che beneficierebbe di una iniezione di immigrazione massiccia. Malgrado dunque la pressione mediatica, non è il caso di parlare di "emergenza migranti" per i paesi europei. Semmai i migranti stessi sono esposti a una emergenza che è quella di dovere fuggire e trovare paesi che li accolgano.

La vera emergenza occidentale, grave e pressante e da contrastare è quella della rinuncia alla Utopia quando, invece, contro la radicalità del male dovremmo dare vita e forza alla radicalità del bene, della utopia del bene, della speranza del bene, dell'operare per il bene. Con la troppo entusiasticamente celebrata "morte delle ideologie" (che hanno giustificato pensieri unici e totalitari ma che hanno anche prodotto sogni e speranze e visioni di società) siamo rimasti senza sogni e speranze ma non ci siano disfatti dei pensieri unici e totalitari che non sono piú sorretti da weltanshaung del bene (anche se subito tradite, è vero) ma piuttosto da deliri mortiferi (Palingenesi Islamiche che si scontrano con Identità Nazionali Xenofobe)

A partire dagli anni di piombo ci hanno inculcato (e troppo volentieri abbiamo accettato) che fra utopia e realtà c'è da fare un grande compromesso, che dobbiamo mediare fra i sogni del buono, del vero e del bello e la pratica quotidiana della realtà, pena l'infantilismo politico e individuale. Questo sembra ragionevole e certamente lo è. Tuttavia, dobiamo discutere e decidere quale sia la "misura" accettabile della mediazione; quale sia la quota di verità a cui rinunciare, quale sia la quota di bene da ritenere procrastinabile e quale quella di male da ritenere accettabile: questa è la questione politica e privata che ci si pone sempre piú pressante.

Negoziazione e Mediazione hanno fornito prove brillanti in un passato recente e basti pensare alla Commissione del perdono istituita in Sud Africa alla fine dell'apartheid. Ma anche prove disastrose e basti pensare ai fallimenti ripetuti e irreversibili del dialogo Palestinese-Israeliano. Gli operatori di pace, riconciliazione e perdono ritengono che la mediazione sia la unica strada possibile e umana affinché realtà e speranza si incontrino a mezza strada ma, e ancora una volta va ripetuto, c'è da decidere chi stabilisce quale sia la mezza strada e questo vale sia quando sono gruppi, popoli e nazioni a parlarsi sia quando la questione si presenta in forme individuali e talvolta intime: quale è la "mia misura" accettabile di mediazione?

Dunque, è necessario creare Laboratori di Mediazione per potere definire nuove forme piú efficaci di Mediazione? Oppure, a fronte della radicalità del male dobbiamo forse rinunciare all'ottimismo della mediazione e ri-pensare il Conflitto come unica risposta? Non vi è dubbio tuttavia che il Conflitto nelle sue forme tradizionali è fallito: gli anni di piombo hanno mostrato che il conflitto armato poteva solamente generare morte e banalizzare la morte. Ma anche nelle sue forme tradizionali non violente (lo sciopero, la manifestazione di piazza) il Conflitto non si declina piú con sufficiente efficacia e, non a caso, viene rapidamente reso inefficace dalla violenza degli ambigui "black bloc" che servono interessi spesso estranei alle buone ragioni del conflitto. Dunque laboratori di ricerca di nuove forme di Mediazione o di nuove forme di Conflitto?

C'è da chiedersi se il ripensamento non debba essere radicale e la ricerca debba volgersi al medesimo tempo verso nuove forme di conflitto e verso nuove forme di mediazione. Infatti, non c'è conflitto efficace che non abbia

in sè i germi della mediazione e non c'è mediazione autentica che non abbia in sè l'ipotesi della ripresa del conflitto: se non fosse cosí il conflitto sarebbe cieco e distruttivo e la mediazione troppo pragmatica e arrendevole. Il Conflitto efficace si nutre di speranza, di utopie, di weltanshaung, di ipotesi di società e solo se cosí nutrito avrà la capacità di confliggere, di resistere e anche di mediare.

Se riflettere e cercare queste nuove forme di conflitto-mediazione è la vera urgenza che ci attraversa in questi tempi di violenza e di perdità di umanità, questa ricerca ci deve attrezzare fino da ora a leggere e agire la pseudo-urgenza dei migranti. La pseudo urgenza dei migranti va decostruita, destrutturata, negata, deistituzionalizzata

Innanzitutto si deve chiarire una volta per tutte che la emergenza cui sono esposti i migranti esiste ed è reale e drammatica mentre la emergenza rappresentata dall'arrivo dei migranti e che colpirebbe i paesi di accoglienza non esiste.

Infatti, secondo la definizione dell'Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) una emergenza per rifugiati è quella situazione in cui la vita e il benessere dei rifugiati è minacciata se non si prendono misure immediate e eccezionali (UNHCR 2007). Dunque non vi è alcun dubbio che i rifugiati e i migranti in generale sono esposti a una emergenza.

Ma che dire della emergenza cui si dicono esposti i paesi di accoglienza (o presunta accoglienza)? Una emergenza è un evento totalmente inaspettato, relativamente raro, di durata relativamente definita: il massicccio arrivo di migranti da paesi in guerra ove i piú basilari diritti sono assenti e le condizioni di vita materiale sono al di sotto di ogni soglia di tollerabilità non era inaspettato ma anzi era prevedibile; il fenomento della migrazione verso l'Europa è da tempo frequente, inarrestabile e destinato a durare.

Dunque, di tutto si puó parlare fuorchè una emergenza per i paesi che dovrebbero accogliere i migranti. Se una emergenza si definisce come un incidente che pone una minaccia immediata alla vita, la salute, la proprietà o l'ambiente , i paesi europei non possono dirsi esposti a queste minacce e dunque non possono definire emergenza quella rappresentata dai migranti (loro sí esposti a una emergenza che minaccia le loro vite e il loro benessere).

Ma allora cui prodest definire emergenza ció che emergenza non è?

I "benefici" di un regime di emergenza sono numerosi anche se ambigui, cinici, ingiusti.

Inanzitutto una emergenza in quanto eccezionale e inaspettata esime i governi nazionali e locali dall'assumere la questione dei migranti cone "sistemica" e come tale da gestire come fenomeno "normale" che richiede politiche, interventi sistemici, di largo respiro, di durata indeterminata e assimilabili agli interventi per tutti i cittadini vunerabili. Si tratta di una differenza non da poco: si tratta infatti di abbandonare la cultura del "materasso e della tazza di brodo" e assumere la cultura dell'intervento strutturale che garantisca diritti, salute, abitazione e educazione.

Il regime di emergenza facilita la creazione di stati di allarme, panico, disinformazione, isteria collettiva ("invasioni di migranti", "minaccia per i posti di lavoro nazionali", "pericoli di epidemie", "rischio di violenze sulle donne", "rischio terrorismo", "attentati alla identità etnica, religiosa e culturale nazionale"). Queste paranoie sociali sono alimentate dalle crescenti formazioni xenofobe che fondano la propria propaganda efficace sulla disinformazione sistematica e sulla intolleranza (in Italia la Lega, in Francia il Front National, nel Regno Unito il movimento di Farage, in Austria, Ungheria, Polonia i movimenti neofascisti xenofobi). Questi movimenti di "chiamata all'odio" fondano il loro successo sul regime di emergenza.

La disinformazione sistematica sulle conseguenze della emergenza migranti occulta "altre" verità e "altre" informazioni vere e scomode: la disoccupazione nazionale non è causata dai migranti ma dal crollo degli investimenti nazionali, dalle delocalizzazioni industriali e dal restringimento del mercato del lavoro; le grande maggioranza delle violenze sulle donne è perpetrata in famiglie nazionali da coniugi "nazionali"; il terrorismo non si serve dei migranti ma di cittadini di non recente immigrazione; gli unici veri rischi epidemici non dipendono dai migranti ma sono legati alla propaganda criminale contro le vaccinazioni ecc...

Infine, il regime di emergenza favorisce il business della emergenza; convenzioni e rette per capita rappresentano un giro di affari importante che alimenta molte organizzazioni non governamentali con e senza fini di lucro. Inoltre vi è un effetto economico indiretto legato alla formazione che rappresenta un altro business significativo anche se non viene mai sottoposto a verifiche e valutazioni di efficacia: formare per formare senza mai sapere quali effetti virtuosi abbia potuto avere la formazione.

Dunque, è urgente decostruire il paradigma della emergenza, smascherarne le ambiguità e reticenze. E' urgente "dire la verità". Ancora, l'Alto Commisario scrive: "La battaglia dell' Europa per gestire i poco piú di un milione di migranti e rifugiati arrivati attraverso il Mediterraneo ha dominato l'attenzione di tutti i media nel 2015 ma in realtà la maggiorparte dei rifugiati di tutto il mondo stanno altrove. In totale l'86% dei rifugiati sotto il mandato del UNHCR nel 2015 si trovavano in paesi a medio e basso reddito....la Turchia è stato il paese di maggiore accoglienza con 2,5 milioni di rifugiati; il Libano ha accolto il maggiore numero di rifugiati in proprozione alla propria popolazione nazionale: 183 rifugiati ogni 1000 abitanti..." (UNHCR, 2016).

E' necessario attrezzarsi con i saperi e le pratiche del conflitto e della mediazione. Essere capaci di andare allo scontro diretto, duro e aggressivo per denunciare la sistematica disinformazione, per mostrare i dati statistici reali e non quelli mediatico-emozionali, per denunciare gli abusi e le violazioni delle leggi nazionali e internazionali, per pretendere giustizia, salute, educazione, integrazione. Andare allo scontro duro ma anche essere pronti alla mediazione tecnica insieme a tutti quei giuristi, medici, economisti di buona volontà disponibili a costituire un esercito tanto determinato nel conflitto quanto astuto nella mediazione.

Scrive Virginio Colmegna nell'articolo intitolato "Indignarsi" e pubblicato su questo stesso numero di Souq: "Per questo mi chiedo: come contribuire a liberare l'umanità, la terra da questa morsa? Non si può realizzare questo solo raccontando un altro mondo, un'altra ideologia spesso retorica, ma è ancor più urgente e possibile stare dentro alle esperienze concrete di lotte,di condivisione per l'uguaglianza e inclusione. Va vissuta sul campo questa speranza straordinaria di cambiamento di novità, di utopia. Certamente è un cammino lungo e faticoso che forse riuscirà solo a passare da condizione di minore giustizia a condizione di maggiore giustizia, a uno sforzo di inclusione maggiore.E' questa l’unica ma esigente possibilità e responsabilità: stare nel mezzo di iniziative locali,di comunità territoriali,di laboratori operosi che testimoniano che si può e si deve non rassegnarsi."

Qui è detto tutto di questa sfida a coniugare conflitto e mediazione, scontro e ricerca di soluzioni.

In questa prospettiva dello "stare nel mezzo", per ancora citare Colmegna, Souq sta nel mezzo e il 6 marzo 2017 organizza una giornata a Milano in Università Statale per riflettere su questi temi invitando i protagonisti delle esperienze coraggiose e radicali della accoglienza ma anche le voci autorevoli delle istituzioni locali, nazionali e internazionali: l'alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) Filippo Grandi ha accettato di tenere in quella occasione una Conferenza Magistrale.

Bibliografia

- UNHCR Handbook for Emergencies. United Nations High Commissioner for Refugees, Geneva, Third Edition February, 2007.
- UNHCR Press Release 20 June 2016. United Nations High Commissioner for Refugees, Geneva Decostruire il paradigma della "emergenza migranti"

Riferimenti
L’autore, Benedetto Saraceno - psichiatra che si è formato a Trieste con Franco Basaglia e Franco Rotelli e che è stato per 12 anni il Direttore del Programma di Salute Mentale della Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra – è Direttore scientifico della rivista online Souk Quaderni pubblicata dal ‘Centro Studi sulla sofferenza urbana’ che è parte integrante delle attività della Casa della Carità presieduta da Don Virginio Colmegna. Il centro studi promuove e presenta reti e connessioni con le grandi città del mondo che vivono situazioni simili, contesti analoghi di urbanizzazione e quindi di marginalizzazione e di nuove povertà. (m.c.g.)

Una delle tante inadempienze del governo italiano in materia di accoglienza. Il testo integrale dell'intervento di Barbara Spinelli, eletta nella lista "L'Altra Europa con Tsipras". barbara-spinelli.it, 30 gennaio 2017


«Fra i problemi più drammatici associati all’esodo dei migranti sono le vittime di tratta e la carenza di adeguate strutture di accoglienza e protezione per i minori non accompagnati, in gran parte destinati a finire nelle mani delle reti criminali internazionali. In Europa, secondo l’Europol e l’Alto Commissariato per i Rifugiati (UNHCR), nel gennaio 2016 erano 10.000 i minori scomparsi; di questi, più di 6.000 in Italia, dove l’incuria delle istituzioni è sovrana e dove le procedure di identificazione, spesso crudeli e inaccettabili, spingono alla fuga. Un gruppo di esperti del Consiglio d’Europa ha denunciato le gravi carenze dell’accoglienza nel nostro paese. Secondo la parlamentare europea si tratta di “un successo nato dalla collaborazione tra società civile e istituzioni europee”» (m. c. g.)

Accolgo positivamente – ha dichiarato l’eurodeputata del gruppo GUE/NGL – il rapporto del gruppo di esperti anti-tratta incaricato dal Consiglio d’Europa di monitorare l’attuazione della Convenzione sulla lotta contro la tratta degli esseri umani nel nostro Paese. Benché l’Italia abbia ratificato la Convenzione, permangono gravi lacune e violazioni verificate dal GRETA durante una visita effettuata a settembre dello scorso anno negli hotspot e nei centri di accoglienza.

Il procedimento d’urgenza avviato nel 2016 sull’Italia ha messo in luce preoccupanti falle nell’accoglienza, nella detenzione e nel rimpatrio delle vittime di tratta e una grave situazione di incuria nei riguardi dei minori non accompagnati. Oltre che alle denunce delle Ong che con competenza e determinazione si occupano di vittime di tratta e minori non accompagnati, la visita ha fatto seguito a una mia lettera inviata a Frontex, al Ministero dell’Interno italiano e per conoscenza all’Ombudsman il 14 ottobre 2015, e a un’interrogazione scritta alla Commissione europea del 10 novembre 2015, in cui criticavo il rimpatrio forzato di venti donne nigeriane dal CIE romano di Ponte Galeria, e a un’interrogazione

scritta alla Commissione europea del 13 maggio 2015 in cui denunciavo l’uso del manganello elettrico nel CPA di Pozzallo per il rilascio forzato delle impronte, anche di minori.

Entrambe le denunce sono state possibili grazie a una stretta collaborazione con attivisti e associazioni della società civile, tra cui BeFree, Terre des Hommes, Campagna Lasciatecientrare e Clinica legale dell’Università Roma3.

Unendomi alla richiesta del Consiglio d’Europa affinché il governo italiano metta al più presto in atto le misure necessarie per proteggere adeguatamente i migranti e i rifugiati in balia dei trafficanti di esseri umani e agisca con determinazione per combattere il fenomeno della tratta in Italia, auspico che la collaborazione tra rappresentanti della società civile e istituzioni – che ha prodotto questo importante risultato – venga sostenuta e incoraggiata nelle democrazie dell’Unione come un elemento chiave per la tutela dei diritti, anziché subire crescenti e preoccupanti limitazioni.

la Repubblica, 1° febbraio 2017, con postilla

TRAVOLTI dall’azione, rischiamo di non vedere la teoria che la guida e il pensiero che la organizza. È l’equivoco politico che circonda i primi passi della presidenza Trump, tutta prassi, decisione, comando, shock, cambiamento. Si potrebbe dire che dalla svolta annunciata nel discorso d’insediamento («non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra, ma da Washington al popolo»), al muro di confine col Messico, alla restrizione degli ingressi in Usa da sette Paesi musulmani, ce n’è abbastanza per spiegare la ribellione americana che scende in strada e il rifiuto di una politica che stravolge le radici e la natura stessa del Paese: che ha la frontiera nei suoi miti di conquista e l’assimilazione nella sua storia di costruzione perenne di una sola nazione, unendo le colonie originarie, le ondate migratorie successive, le lingue, le disperazioni e le speranze in un’unica entità, ricca delle sue diversità e della capacità di tenerle insieme.

Tuttavia si rischia di non capire ciò che accadrà, ciò che può accadere, se si guarda soltanto alla parte visibile del fenomeno Trump, e non si comprende che il presidente americano non è un fenomeno da baraccone.

È precisamente il capofila di una nuova cultura - per quanto il termine possa sembrare sproporzionato - che va studiata con attenzione, perché qui si fonda non soltanto la nuova politica americana, ma addirittura un tentativo di nuovo ordine mondiale. Di questo si tratta: chiamiamola pure contro-cultura, perché nasce nella rabbia e nell’opposizione, senza modelli positivi e senza antecedenti significativi, come frutto dello spaesamento democratico che il riflusso della crisi lascia sul territorio devastato della nostra parte di mondo, la parte dello sviluppo, del progresso, dell’innovazione, del potere tecnologico, delle libertà politiche e individuali. È quanto noi credevamo. Poi arriva questo Sessantotto alla rovescia che butta per aria la gerarchia dei valori, grida che le élite si sono confiscate sviluppo e progresso a loro uso e consumo, mentre le libertà politiche senza una vera rappresentanza valgono meno di nulla, anzi sono un inganno, e le libertà civili vengono dopo la forza, la sicurezza, la ricchezza.

Ricordiamoci la data, e il passaggio storico: perché è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi - il comunismo e il nazismo - e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall’incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica.

È esattamente tutto questo - una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi - che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo che ha appena riunito a Coblenza la nuova Internazionale della destra, coi cinque partiti populisti di Frauke Petry in Germania, di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Geert Wilders in Olanda, di Harald Vilimsky in Austria, cui si deve sommare l’Europa di mezzo guidata da Orbán, che teorizza il ritorno orgoglioso a un continente fatto di nazioni, con il “fallimento del liberalismo” come leit-motiv da cui nasce la tentazione di demolire la separazione dei poteri. Se si aggiungono le tentazioni protezionistiche della Brexit inglese, l’ambiguità mimetica del Movimento 5 Stelle in Italia — che nel giro di 24 ore può far capriole da Farage ai liberali e ritorno — si capisce che il contagio è profondo ed egemone, tanto da suonare l’ultima campana d’allarme, a cui nessuno di noi era preparato: il pensiero politico liberale sta diventando minoranza.

Tutto questo ha delle spiegazioni pratiche concrete. Tra tutte, lo scollamento tra libertà e sicurezza dal lato dei cittadini, tra sicurezza e governo dal lato delle istituzioni. Le tre emergenze concentriche di cui soffrono i nostri Paesi - ondata migratoria senza precedenti, terrorismo islamista che ci trasforma in bersagli rituali sul nostro territorio, crisi economico-finanziaria che lascia dietro di sé una crisi drammatica del lavoro - hanno un risultato comune nel riflesso congiunto di insicurezza per il cittadino, che si sente esposto come mai in precedenza, davanti a eventi fuori controllo e senza governo. Abituato a pretendere tutela, protezione, rispetto dei diritti e sicurezza dallo Stato nazionale in cui vive, dai parlamenti che vota, dai governi che concorre a nominare, quel cittadino capisce improvvisamente che le emergenze sfondano la sovranità nazionale, la sopravanzano e la svuotano, vanificandola. Ma se un governo nazionale non garantisce sicurezza, non serve a nulla, diventa un’entità burocratica. Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l’impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com’è avvenuto altre volte in passato, dovunque. La novità è che oggi nessuno è interessato a comprare la sua libertà, che deperisce da sola, e in ogni caso lo Stato non è più in grado di garantire nulla in cambio: mentre il nuovo potere sovranazionale che vive nei flussi finanziari e nei flussi d’informazione fa il fixing altrove.

Con la cittadinanza, salta la soggettività politica: io non sono più niente, soprattutto in un’epoca in cui i partiti si riducono a semplici comitati elettorali e non trasformano i miei problemi in un problema comune. Anzi: quelle che erano grandi questioni collettive stanno diventando preoccupazioni individuali, insormontabili. Così salta la rappresentanza, deperisce la politica. Quel cittadino non si sente soltanto in minoranza, come spesso è accaduto in precedenza. Si considera escluso. Il meccanismo democratico non funziona per lui. Le istituzioni non lo tutelano. La politica lo ignora, salvo usarlo come numero primo e anonimo nei sondaggi. La Costituzione vale solo per i garantiti. La democrazia si ferma prima di arrivare a lui, perché la materialità della democrazia è fatta di lavoro, dignità, crescita, esercizio di diritti e doveri che nascono da un sistema aperto e partecipato, dall’inclusione. Alla fine, anche la libertà è condizionata.

Nel 2017 arriva qualcuno, con una tribuna universale com’è l’America, che chiama tutto questo “popolo”, evoca il “forgotten man”, lo contrappone all’establishment, racconta la favola del golpe permanente che ha confiscato la democrazia per trarne un vantaggio privato, derubando i cittadini. Eccita la contrapposizione («loro festeggiavano, il popolo pativa»), evoca lo spirito di minoranza («le loro vittorie non sono state le vostre»), configura un’usurpazione («un piccolo gruppo ha incassato tutti i benefici, il popolo pagava i costi»), denuncia l’esclusione («Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro Paese»), fino alla promessa finale: da oggi un movimento «di portata storica» scuoterà il mondo, «portando il popolo a ritornare sovrano ».

Un discorso identitario — l’identità degli arrabbiati che devono rimanere tali — , quasi un’impostura di classe, che si basa su finte promesse frutto di una semplificazione del mondo che reintroduce sotto forme moderne l’ideologia: una falsa credenza che si sovrappone alla verità e la deforma in un racconto di comodo, utile a raccogliere adesioni sentimentali e istintive, cancellando bugie, falsificazioni e contraddizioni evidenti, come quella del miliardario campione degli esclusi. Tutto questo rompendo la corazza del politicamente corretto e dei suoi eccessi ma rovesciandolo nel suo contrario, liberando la scorrettezza come forma di libertà, la menzogna come arma legittima, l’ignoranza come garanzia di innocenza.

Questa rottura, come dice Karl Rove, il consigliere di George W. Bush, ha bisogno di stravolgere lo stesso partito repubblicano, annullare persino l’eredità reaganiana dei Baker, Shultz, Weinberger, fare tabula rasa addirittura del pensiero conservatore così come lo abbiamo conosciuto, e del compromesso di un linguaggio comune istituzionale, di un vocabolario costituzionale condiviso. Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all’isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest’avventura. E l’Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere. Qualcuno in Europa - magari a sinistra, se la sinistra alzasse gli occhi sul mondo - dovrebbe dire che tutto questo non è a disposizione di Trump.

postilla
È un po' irritante sentir parlare di Occidente (e quindi come alternative di Oriente) come di due poli della frattura geopolitica, e adoperare il primo termine come somma di tutti i "valori positivi". Più proprio sarebbe parlare dell'area Nordatlantica, identificando in tal modo le regioni europea e nordamericano-canadese, la cui economia (capitalistica) e politica (anticomunista) hanno costituito il polo vincente fin verso la fine del Secondo millennio. È quello il mondo che si sta disfacendo, non un altro. Rispetto a quel mondo il diavolo Trump ci porta indietro, e non avanti. Su questo punto Enzo Mauro ha certamente tutte le ragioni.
C'è un altro punto però. Mauro non sembra comprendere il dramma, e forse la tragedia, del nostro secolo che
quel mondo che Trump ha spazzato via, nel concludere la sua dissoluzione, ha compiuto un errore capitale, che statisti del secolo scorso probabilmente non avrebbero compiuto (pensiamo a Franklin Delano Roosvelt, ma anche a Winston Churchill). L'errore è stato non comprendere che l'unico candidato capace di incanalare una parte consistente della rabbia provocata dal mondo impersonato da Obama e Clinton era rappresentato un uomo (e una proposta politica), di sinistra. Il nome (Bernie Sanders) c'era, fu scartato, e vinse Trump. È da una riflessione su questo che bisogna partire se si vuole evitare che, con Trump, si passi dal dramma alla tragedia. Rendendosi conto che una sinistra che voglia affrontare i problemi di oggi certamente non può riferirsi ai "valori dell'Occidente", come lo vedono Hillary Clinton, Barack Obama, ed Enzo Mauro. (e.s.)

È stato un fatto eccezionale (tanto da meritare l'attenzione mediatica) nonostante la sproporzione tra la dimensione del risultato e quella del problema, E pensare che basterebbe rinunciare alle spese gigantesche per gli armamenti per arrivare a soluzioni adeguate.

L'Espresso online, 31 gennaio 2017 (p.s.)

Non c’è solo l’Italia delle barricate. C’è anche un’Italia di persone che si autotassano per ospitare una famiglia di profughi. Succede a Coriano, un comune di poco più di 10mila anime in provincia di Rimini, dove cento famiglie hanno deciso di versare quindici euro al mese, per un anno, per ospitare una coppia di siriani con tre bambini. Sono atterrati ieri a Fiumicino, facevano parte dei quaranta profughi arrivati con il corridoio umanitario, e ieri sera sono arrivati a Coriano. La loro nuova casa è in fase di preparazione, questione di qualche giorno. L’accoglienza che hanno ricevuto è quella riservata agli ospiti più desiderati.

Hanno potuto trascorrere forse la prima notte serena dopo tre anni di incubi. L’uomo ha passato un anno in un carcere del regime siriano, dove è stato torturato e seviziato, dopo che gli sono state uccise la moglie e la sorella. E’ riuscito a liberarsi pagando una cauzione da tremila euro e a raggiungere quindi il campo profughi al confine con il Libano, dove ha conosciuto la nuova compagna. Qui sono stati avviati i primi contatti con la Comunità Papa Giovanni XXIII che si è impegnata per portarli fuori da quell’inferno. In particolare a farsi avanti è stata una coppia, Massimiliano Zannoni e Gilda Pratelli, dopo il ritorno dal campo profughi libanese. Hanno raccontato quanto visto ai concittadini convincendoli quindi in questa insolita gara di solidarietà. Partendo da sindaco e parroco. Servivano almeno 18mila euro per garantire il viaggio e il nuovo alloggio: quindici euro a famiglia.

«All’inizio non è stato per nulla facile, non ci seguiva praticamente nessuno», racconta Massimiliano Zannoni. «Più le persone si rendevano conto dell’importanza dell’obiettivo e della concretezza di questo sostegno più si facevano avanti. Siamo quindi riusciti a mettere insieme un centinaio di famiglie praticamente contattandole una a una. E’ stata un’operazione fatta da cittadini con i cittadini».

A chi li critica perché “con quei soldi si poteva aiutare una famiglia italiana”, Zannoni risponde deciso: «Io aiuto chi mi trovo davanti, a prescindere da chi sia, che religione segua o a quale nazione appartenga. Inoltre chiedo a queste persone che si lamentano che cosa fanno loro per i bisognosi, italiani o stranieri che siano?». Accogliere ieri quella famiglia è stata già una enorme ricompensa a tutti gli sforzi fatti. «Non trovo le parole per descrivere quel momento. Per loro è cominciata una nuova vita che non speravano più di poter vivere. Ed è anche per noi è stata una forte emozione».

«E’ nato tutto dai racconti di alcuni ragazzi che, nell’ambito dell’operazione Colomba, avevano visitato negli anni scorsi alcuni campi profughi in Libano», spiegano dalla Comunità Papa Giovanni. «Massimiliano e Gilda hanno voluto fare la propria parte in modo diretto per aiutare queste persone che sono tra l’altro quelle più povere perché non possono permettersi nemmeno quei viaggi della speranza che spesso conducono alla morte in mare. Ovviamente questa famiglia non sarà solo ospitata ma lavoreremo per una sua piena integrazione nella città».

«Proteste contro la decisione di chiudere le frontiere Più di 1,4 milioni di persone firma un Gran Bretagna una petizione contro la visita di Donald Trump».

il manifesto, 31 gennaio 2017

Al quarto giorno dalla decisione di Donald Trump di mettere al bando rifugiati e cittadini di sette paesi musulmani l’Unione europea finalmente decide di reagire. Lo fa per rispondere alle accuse del presidente americano, che ha descritto quello europeo come un continente precipitato nel «caos» per non aver saputo difendere le proprie frontiere, ma anche per ribadire quei valori che sono stati la base fondativa dell’Unione.

L’Europa «non discrimina le persone sulla base della nazionalità, dell’etnia o della religione», commenta da Bruxelles la portavoce della Commissione europea, mentre da New York si fa sentire anche l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad al Husseini. Il bando è «illegale e meschino» dice, e «la discriminazione basata sulla nazionalità contraria ai diritti umani». Si unisce infine al coro di proteste anche l’Unione africana che definisce quella di Trump come «una della più gravi sfide nei confronti del continente africano».

Bruxelles è a dir poco preoccupata dal nuovo corso statunitense.

Dal giorno del suo insediamento Trump non ha certo fatto mistero di quanta poca considerazione abbia per l’Unione europea tanto da aver apprezzato pubblicamente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione.

«Per l’Europa Trump è una minaccia peggiore della Brexit», ha commentato ieri l’ex premier belga Guy Verhostad, presidente del gruppo Alde (liberali) al parlamento di Strasburgo. Pericoloso anche perché dal bando non sarebbero esclusi neanche i cittadini europei con doppia nazionalità.

«La situazione non è chiara», ha proseguito la portavoce della Commissione Ue. «Ci arrivano imput contrastanti e i nostri legali stanno lavorando. Ci accerteremo che non ci siano discriminazioni nei confronti dei nostri cittadini».

A quanto pare, però, ci sarebbe poco da capire.

Un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ieri ha informato di un tweet dell’ambasciata americana a Berlino in cui si chiede ai cittadini con doppia nazionalità di «non chiedere visti per gli Stati uniti». La misura riguarda decine di migliaia di cittadini tedeschi, come ha subito informato il governo secondo il quale ad essere colpiti dalla restrizione sarebbero 80 mila tedeschi di origine iraniana, oltre 30 mila di origine irachena e circa 25 mila provenienti dalla Siria. A questi vanno aggiunti poi mille sudanesi, 500 libici e 300 yemeniti. Numeri calcolati per difetto, visto che risalgono ai censimenti regionali del 2011.

L’indignazione per la porta sbattuta in faccia a rifugiati e musulmani da Trump cresce ovunque, ma non sembra coinvolge allo stesso modo anche tutti i governi. Così mentre in Gran Bretagna più di 1,4 milioni di persone firmano in due giorni una petizione in cui si chiede al parlamento di bloccare o almeno rinviare la visita di Stato già in programma del presidente Usa, Dowing Street preferisce smorzare i toni. «Noi non siamo d’accordo con queste restrizioni, non è il modo con cui agiremmo», dice un portavoce del governo escludendo però l’ipotesi di una marcia indietro sull’invito. Esclusione basata sia dall’assicurazione che avrebbe ricevuto Theresa May che i cittadini britannici con doppia nazionalità non saranno fermati alla frontiera Usa a meno che non volino in America direttamente da uno dei paesi indicati nella lista nera. Ma anche perché la stessa May sta bene attenta a garantirsi un alleato sicuro e di peso in vista della Brexit. E, d’altro canto, non può non colpire il silenzio dei paesi dell’est Europa di fonte alle misure adottate dal presidente americano.

Per quanto riguarda la Russia, poi, ieri un portavoce del presidente Putin (che il 2 febbraio sarà in visita a Budapest) ha liquidato le polemiche attorno al bando con un secco «ritengo che non sia un affare nostro».

«Alla domanda "chi è il vero romano", il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: "uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso"».

la Repubblica, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)

Come si sa i quattro nonni dell’attuale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non erano nati in America, ma in Europa. Di conseguenza il fatto che fra i primi provvedimenti presi da un presidente nipote di immigrati ci sia proprio un blocco dell’immigrazione suona paradossale. Tanto più se questo avviene in un paese come gli Stati Uniti nel quale, come in questi giorni sempre più spesso si ripete, tutti gli abitanti sono in definitiva degli immigrati o discendenti di immigrati. I bostoniani, che vantano come antenati i protestanti inglesi guidati da John Winthrop, di per sé non sono diversi dai latinos appena approdati alle periferie di Los Angeles: vengono comunque tutti “da fuori”.

Chi è dunque il “vero” americano, quello dell’America first, che ha il diritto di vivere sicuro dentro i “suoi” confini? Difficile rispondere a questa domanda. Forse qualcuno potrebbe sostenere che i “veri” americani sono in realtà solo i nativi che i coloni europei sterminarono o chiusero nelle riserve. Se non fosse, però, che anche loro sono giunti là dove ora si trovano venendo ugualmente “da fuori”.

Apache e Navaho, per esempio, ossia le popolazioni che vivono nel sud ovest degli Stati Uniti, provengono in realtà dall’Alaska; e dopo un viaggio di qualche migliaio di chilometri si sono stanziati nei territori attuali più o meno nel periodo in cui Colombo sbarcava nel “nuovo” continente. Tutto questo per dire che la risposta alla domanda «chi è il vero x?» — quando a x si sostituisce un sostantivo come “americano”, “italiano”, “francese” … — può ricevere solo risposte di tipo cinico o opportunistico se si è in campagna elettorale; oppure risposte di tipo più meditatamente giuridico se il discorso riguarda non il problema dell’etnia, della cultura o della religione, ma quello della cittadinanza. Esiste però una terza possibilità: che a questa domanda si dia una risposta di tipo mitologico.

È quanto fecero gli ateniesi nel quinto secolo a. c., dando vita a quel mito che porta il nome di “autoctonia”: secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati direttamente generati dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa mitica razza vantava naturalmente anche i propri antenati: si trattava di re che avevano per metà corpo di serpente, cioè l’animale più ctonio, più terrestre che si conosca. I cittadini ateniesi del V secolo, insomma, si presentavano come i “veri” ateniesi per il semplice motivo che quella terra non era stata mai abitata da nessuno fino al momento in cui essa stessa, la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.

L’autoctonia ateniese era ovviamente una favola, non solo perché la terra non ha mai partorito nessuno, ma perché anche gli abitanti dell’Attica erano venuti “da fuori” in tempi più o meno recenti. Questo mito però venne abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora, soprattutto discorsi pubblici e immagini che circolavano dipinte sui vasi; e l’immagine degli ateniesi, che in quegli anni combattevano contro gli spartani, ne uscì rafforzata, dentro e fuori le mura della città.

Atteggiandosi a “nati dalla terra”, infatti, essi potevano accreditarsi come uomini di cui non era possibile mettere in discussione la eugéneia, la “buona nascita”, visto che non si erano mai mischiati con altri popoli; una stirpe che amava come nessun’altra la propria patria (come si potrebbe non amare la propria “madre”?) e che soprattutto aveva raggiunto la civiltà da sola e prima di tutti gli altri. Attraverso il mito dell’autoctonia gli ateniesi erano dunque riusciti a dare una risposta alla difficile domanda «chi è il vero x?». Nello stesso tempo, però, essi avevano risolto una volta per tutte anche il problema degli immigrati e della loro posizione nella città.

Vero ateniese, infatti, poteva essere considerato solo il figlio di genitori entrambi ateniesi, ossia chi per via di sangue discendesse da quella stessa terra su cui abitava. Di conseguenza costui era anche l’unico a poter usufruire della qualifica di cittadino e l’unico che aveva il diritto di sedere in assemblea: luogo magico della democrazia ateniese. Tutti gli altri, gli stranieri che pur vivevano o lavoravano in città, ne erano esclusi. Né avrebbero mai potuto aspirare a diventare cittadini di Atene — non erano mica “autoctoni”.

Mito per mito, però, ce n’è un altro che ha ugualmente cercato di rispondere alla domanda «chi è il vero x?»: ma che preferiamo di molto a quello escogitato dagli ateniesi. Ci viene da Roma. Si narrava infatti che Romolo, al momento di fondare la Città, non solo avesse raccolto a questo scopo uomini provenienti da ogni regione; ma che ciascuno di costoro avesse portato con sé una zolla della terra da cui proveniva. Scavata dunque la fossa di fondazione, destinata a costituire il centro della futura città, ciascuno di questi uomini vi gettò dentro la propria zolla di terra, mischiandola con tutte le altre. Secondo il mito romano, dunque, la città di Roma era sorta su una terra non solo “mista” di molte altre terre, ma creata dagli stessi futuri abitanti della città. Al contrario di Atene, insomma, a Roma non era stata la terra a partorire gli uomini, ma gli uomini a fabbricare la propria terra.

Alla domanda «chi è il vero romano», dunque, il mito della fondazione di Roma forniva la risposta seguente: uno straniero, cresciuto in una terra lontana, che ne ha portato con sé una zolla per mescolarla con quelle degli altri, così come con gli altri si è mescolato lui stesso. Penso che questo mito meriterebbe di essere diffuso e fatto conoscere con tutti i mezzi mediatici che oggi abbiamo a disposizione: soprattutto là dove assieme ai fili spinati si moltiplicano gli appelli alle radici e il discorso pubblico si articola ossessivamente attorno al pronome “noi”. Questo mito ci aiuterebbe perlomeno a pensare a siriani, iracheni, sudanesi o libici in fila di fronte al blocco degli immigration points: ciascuno con una zolla di terra nella valigia.

il manifesto, 31 gennaio 2017 (p.d.)
L’inizio della presidenza Trump si può considerare come l’ultima ed estrema affermazione di una destra ultranazionalista e xenofoba che da alcuni anni sta montando nei maggiori paesi europei. Pur tra le differenze, che non si possono trascurare, v’è un elemento comune e fortemente caratterizzante di queste espressioni politiche: la decisa avversione all’immigrazione.

E’ stato questo il fattore decisivo per la vittoria di Donald Trump nelle elezioni americane, come per il successo di Farage nel referendum per la Brexit. E’ questo il lievito più forte del crescente consenso di Marine Le Pen in Francia, di Geert Wilders in Olanda e di altri nazionalisti e xenofobi in vari paesi europei. Il fatto, poi, che governi di centro-sinistra o persino socialisti inseguano le destre sul loro stesso terreno sperando di arginare i loro guadagni elettorali non fa che rafforzare questi orientamenti in settori sempre più larghi dell’opinione pubblica.

Purtroppo stiamo assistendo al dilagare di una vera e propria patologia che affligge la società tardo capitalista aggravata notevolmente con le politiche neoliberiste. Una malattia che colpisce due volte le sue vittime. La prima quando subiscono un peggioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. La seconda quando vengono ingannate sulle cause della crisi ed il malcontento viene strumentalizzato da chi ne è diretto responsabile. In altri termini, ciò cui stiamo assistendo è il riproporsi di una dinamica non nuova e perversa.

Quando non s’intravvedono sbocchi possibili per un futuro migliore, i ceti più deboli ed esposti sul piano inclinato del peggioramento vedono nella status di chi è più vicino e più in basso la minaccia di una condizione in cui è possibile scivolare. E’ in queste situazioni che monta l’avversione verso tutto ciò che è esterno, avvertito come pericoloso. Un sentimento sul quale è facile far leva per le destre come per tutti i ceti dirigenti incapaci di autentica azione di governo e orientamento politico, ma solo di amministrazione dell’esistente al servizio degli interessi dominanti.

In queste condizioni il disorientamento politico di popolazioni che non intravedono alternative ci ha condotti ad una soglia critica oltre la quale s’apre una biforcazione. Da un lato è possibile ed anzi probabile che cresca il consenso verso chi alimenta false paure e fa leva su istinti di autodifesa. La prospettiva è quella di una chiusura crescente in false identità di nazione, razza, “civiltà”. L’esperienza storica c’insegna che una società chiusa non ha futuro ed è destinata alla fine per entropia. L’alternativa è andare controcorrente e lottare vigorosamente per un’organizzazione sociale aperta alle trasformazioni.

Il banco di prova per le forze di sinistra e per tutti coloro che intendono battersi per un radicale mutamento del modo di funzionare del sistema è rappresentato proprio dalla nuova ondata migratoria. La consapevolezza che questa, come le altre due grandi migrazioni precedenti, tra fine Ottocento e primo Novecento e nel secondo dopoguerra, non è arrestabile ed è destinata ad incidere profondamente sugli equilibri demografici, sui rapporti sociali, gli assetti politici e i modelli di cultura dei paesi euro-atlantici deve costituire il punto di partenza di un approccio affatto diverso al fenomeno.

Pensare ai modi migliori per governarlo e svilupparne tutte le potenzialità significa apprestarsi ad un mutamento storico. Significa cominciare a far valere una verità elementare. E cioè che la rivendicazione di diritti fondamentali di uguaglianza e libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore non può riguardare solo alcune popolazioni. Quei diritti valgono per tutto il popolo-mondo o mancano del fondamento della loro universalità.

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