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il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)

«Ferite invisibili: l’impatto dei sei anni di guerra sulla salute dei bambini»: l’ultimo rapporto di Save the Children è impietoso. Attraverso 458 interviste a minori, genitori e operatori sociali, l’ong racconta una devastazione: la scomparsa dell’infanzia in Siria. Il 78% dei bambini dice di provare regolarmente dolore e tristezza e evidenzia gli effetti dello stress post traumatico, uno su quattro (2 milioni e mezzo) ha sviluppato disturbi seri: incubi, insonnia, pensieri suicidi, rabbia, depressione. Gli adulti denunciano, invece, l’incapacità di intervenire: metà degli intervistati dice di aver visto adolescenti usare droghe, il 59% di conoscere minori arruolati da gruppi armati.

Il fischio delle bombe, il senso di insicurezza, lo sfollamento e la perdita di fiducia negli adulti segnano il futuro del paese: «Questi bambini, questi corpi, sono in costante conflitto o fuga, il livello accumulato di stress tossico avrà indubbiamente conseguenze sul lungo termine», spiega la psicologa Marcia Brophy, che ha condotto le interviste. Uno stress tossico che accomuna tutti i siriani, dentro e fuori il paese. Dal 2011 sette milioni di persone, di cui la metà minori, hanno abbandonato la Siria in cerca di un rifugio nei paesi confinanti: la Giordania ne ospita il numero maggiore. Secondo le agenzie internazionali (tra cui Unicef e Ocha), tra i rifugiati siriani di qualsiasi età sussiste un alto tasso di disordini emozionali (54%), tra i più comuni depressione e ansia. In tutti i paesi ospitanti e in Siria, sono numerosi i casi di epilessia. Il 79% dei minori fa i conti con almeno un lutto in famiglia; il 60% è stato testimone di atti di violenza estrema.

Ai traumi da guerra va aggiunto il «trauma migratorio». Il non aver potuto preparare normalmente il proprio progetto migratorio è un notevole fattore di rischio: gli effetti sulla salute dipenderanno dalle capacità di adattamento del singolo e il superamento del trauma da caratteristiche individuali e l’ambiente circostante. La Giordania, come la Turchia, non ha una legislazione ad hoc sulla salute mentale. Ci sono dei piani programmati con il supporto delle ong internazionali, che stabiliscono però in maniera confusa le azioni da intraprendere. Secondo dati dell’International Medical Corps, ci sono 3 psichiatri, 0.1 medici di base, 12 infermieri, 0.5 psicologi, 0.75 assistenti sociali ogni 300 mila persone. Per quanto riguarda la sfera educativa, la Giordania permette ai minori siriani l’ingresso nelle scuole pubbliche, mentre in Turchia per poter frequentare la scuola un bambino siriano deve parlare la lingua turca. In nessun paese confinante è concesso ai professori siriani di insegnare: non hanno il permesso di lavoro. Le difficoltà economiche spingono molte famiglie siriane a far lavorare nel mercato nero anche i minori, spesso costretti a ritirarsi dalla scuola per aiutare la famiglia ad arrivare alla fine del mese.

Oltre l'80% dei rifugiati siriani in Giordania non vive nei campi profughi ufficiali, ma risiede nelle comunità locali. Nonostante l’atteggiamento ospitale e solidale di una buona parte dei giordani, sono in aumento casi di discriminazione verso i rifugiati: negli ultimi anni una netta stratificazione sociale sta generando cambiamenti radicali nella società. Ad Amman la trasformazione è tangibile ed evidente. Nelle periferie risiedono le famiglie di classe medio-bassa, strette nella morsa della difficoltà economica, a causa di salari troppo esigui per stare al passo dello stile vita diffusosi di recente. Il lavoro nero con l’arrivo dei rifugiati siriani è aumentato a livello esponenziale e il salario medio ha subito un andamento inverso.

Sono moltissimi i minori che lavorano, spesso in condizioni che compromettono ulteriormente il loro benessere psicofisico. La sanità è diventata un lusso che non tutti riescono a permettersi: una gastroscopia può arrivare a costare 500 euro, lo stipendio di un lavoratore medio. Più della metà dei rifugiati siriani in Giordania soffre di malattie croniche e necessita cure, ma l’accesso ai servizi pubblici è sempre più ristretto.

«». il blog di Guido Viale, 7 marzo 2017 (c.m.c.)

A che punto è la notte? Molto avanti. Sull’Europa è calata una coltre buia. Quando ci ridesteremo ci ritroveremo nelle tenebre. Si è ormai affermato un vero e proprio apartheid continentale che sconfina in pratiche di sterminio. Certo, nel corso della storia l’”uomo bianco” ha fatto di peggio: conquista delle Americhe, schiavismo, colonialismo, nazismo… Ma non è una ragione per non vedere ciò che sta ora di fronte a tutti.

Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza alcuna base giuridica, aperte violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie impegnate nel salvataggio dei profughi, eserciti mobilitati ai confini, reti, filo spinato e muri (tra cui quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani). Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.

Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’ONU come UNHCR, OIM, UNICEF e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per “disincentivare l’afflusso di nuovi profughi”: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.

Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico. Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.

Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.

Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il Governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.

Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.

Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.

«Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”».

il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)

Nei giorni scorsi un incendio e due morti hanno richiamato di nuovo l’attenzione dell’opinione pubblica sul ghetto di Rignano Garganico (vicino Foggia), un gruppo di miserabili baracche abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali e ora distrutte con le ruspe. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”.

Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro “prossimo”.

Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce.

Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di “caporali”, proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna.

Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il “New Deal”. Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della “Rural Resettlement Administration”, l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri.

Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: “Gli zingari dei campi” (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda.

È la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i “caporali”, le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento.

La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa “comunista” che Roosevelt però difese con coraggio.
Il libro Furore finisce con una pagina di commovente solidarietà; proprio quando sembra che stia finendo il lungo calvario, Rosa, la più giovane dei Joad, perde il bambino di cui era incinta e offre il latte del proprio seno ad un vecchio che sta per morire disidratato e che rinasce col latte che era destinato al bambino morto. Furore è una parabola di quanto è sotto i nostri occhi di questi tempi. Alla base delle migrazioni ci sono sempre, direttamente o indirettamente, crisi ambientali.

Oggi la siccità e le inondazioni spingono persone e popoli dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa, alla ricerca di condizioni migliori di vita per se e per i propri figli. Anche da noi, come nella California dei Joad, gli abitanti, ricchi egoisti o poveri anch’essi, li respingono o costringono a lavori spesso disumani; gli immigrati nei campi: lavorano in fabbriche inquinanti e pericolose, in cantieri edili su impalcature insicure, esposti al caporalato e alla criminalità, costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole.

”Muoiono di fame perché noi si possa mangiare”, oggi come nel 1938 quando Edith Lowry scrisse il suo celebre libro.

La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale, vogliamo dire cristiana?, della politica.

«Eppure la favela più grande d'Italia è ancora lì, nonostante progetti e idee che le varie amministrazioni locali hanno messo in campo negli anni per radere al suolo le baracche. Invano, a causa dei molti interessi, primo fra tutti quello dei caporali e della criminalità organizzata».

Il Fatto Quotidiano online, 4 marzo 2017 , con riferimenti (m.p.r.)

Cronaca

Da vent'anni raccoglie i migranti che arrivano in Puglia per raccogliere i pomodori, in estate ospita quasi 3mila persone. "Vogliono lavorare, non delinquere" dice a il Fatto Quotidiano. il questore di Foggia, secondo cui "è una città alternativa da chiudere subito". Per il ministro Orlando "è qualcosa di inaccettabile". Eppure la favela più grande d'Italia è ancora lì, nonostante progetti e idee che le varie amministrazioni locali hanno messo in campo negli anni per radere al suolo le baracche. Invano, a causa dei molti interessi, primo fra tutti quello dei caporali e della criminalità organizzata, che hanno gioco facile con la disperazione lavorativa degli schiavi stagionali. Nel frattempo all'interno è nata anche una radio, che dà voce a chi voce non ne ha mai avuta.

Una città invisibile nata attorno a un gruppo di vecchie masserie e costruzioni in lamiera, cartone e assi di legno. Il ‘Grande Ghetto’ è sorto nei campi tra San Severo, Rignano Garganico e Foggia quasi una ventina di anni fa, dopo lo sgombero di uno zuccherificio abbandonato, dove trovavano riparo molti braccianti stranieri sfruttati nei campi vicini. Mentre lo Stato si voltava dall’altra parte (ma non facevano lo stesso mafia e caporali) questo ‘non luogo‘ è diventato il più grande accampamento di migranti e lavoratori stagionali d’Italia. D’estate sono quasi tremila quelli ospitati in baracche dopo aver lavorato tutto il giorno con la schiena piegata a raccogliere pomodori. Per poche manciate di euro. Fra i tre e i quattro euro per ogni ora o per ogni cassone di raccolto riempito.

Dopo anni di silenzio e poi di piani, proclami e appelli, due giorni fa è iniziato lo sgombero da parte delle forze dell’ordine disposto dalla Direzione distrettuale antimafia di Bari. Epilogo di indagini avviate un anno fa e culminate con il sequestro probatorio con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. La revoca da parte della Dda della facoltà d’uso ha dato l’avvio alle operazioni di sgombero. Alcuni dei 350 migranti che erano nell’accampamento, si sono rifiutati di lasciarlo e giovedì mattina duecento di loro hanno protestato davanti alla prefettura di Foggia. Tra le altre cose, hanno paura di essere tagliati fuori dal mercato nero. Poi l’incendio di giovedì notte, nel quale sono morti due migranti del Mali, ha riacceso i riflettori sulla baraccopoli. In questi anni, tra le costruzioni fatiscenti c’è stato anche altro. Da Emergency all’esperienza di Radio Ghetto. Nel frattempo, però, nulla si è mosso e le responsabilità sono tante. I caporali sono solo un tassello di un problema molto più complesso.

La città fantasma

La scorsa estate, dopo una visita all’accampamento, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando l’ha definito “una città fantasma”, “qualcosa di inaccettabile”. Ecco il luogo dove si guadagnano 3,50 euro a cassone e si pagano 40 euro per dormire in una baracca tutta la stagione. Dove l’elettricità è solo quella dei generatori a benzina. Se i migranti vogliono, ad esempio, ricaricare la batteria del cellulare, pagano 50 centesimi ai bar che ne sono forniti. Nel ‘Grande ghetto’ ci sono due tipi di acqua: quella non potabile che arriva dall’Acquedotto, utilizzata tramite dei rubinetti per lavare pentole e farsi la doccia fredda, e quella delle grosse cisterne portate nella baraccopoli dalla Regione, dopo le numerose denunce di problemi gastrointestinali che continuavano a colpire i migranti. Nel periodo estivo arrivano due o tre volte al giorno e sono insufficienti per tutte le necessità, mentre d’inverno l’alternativa è quella di riscaldare i bidoni con l’acqua non potabile. Si pagano 50 centesimi per un secchio d’acqua, che in realtà è la stessa (non potabile) con cui ci si fa la doccia.

Capo free-ghetto out

Nell’aprile del 2014 l’ex governatore della Puglia Nichi Vendola presentò una delibera approvata dalla giunta sul ‘Piano di azione Rignano Garganico: capo free – ghetto out’. Ossia liberi dai caporali, fuori dal ghetto. La delibera tracciava un programma per chiudere il campo entro il 1 luglio (del 2014) e sostituirlo con cinque strutture più piccole da 250 posti diffusi sul territorio, protetti dalle infiltrazioni del caporalato tramite un accordo con la Prefettura. L’idea era quella di prevedere contributi economici per le aziende che sceglievano i propri lavoratori da liste di prenotazione, spezzando la corda in mano ai caporali. Quell’estate, però, il ghetto era ancora lì. La stagione disastrosa per la raccolta non aveva certo spinto le aziende ad accedere alle liste, ma piuttosto a ricorrere ancora una volta al lavoro nero e a rendere i caporali sempre più forti.

Roghi, morti e un piano mai finanziato

Un anno dopo, nell’agosto del 2015, si tornò a parlare dell’accampamento, dopo la denuncia del coordinatore del dipartimento Immigrazione della Flai-Cgil Puglia, Yvan Sagnet che accusò i caporali di aver occultato il corpo di un bracciante di 30 anni, originario del Mali, morto “crollando all’interno di uno dei 57 cassoni di pomodori che aveva raccolto”. Su questo episodio non ci furono mai conferme. A maggio del 2015, fu eletto governatore della Puglia Michele Emiliano che, a febbraio 2016, depositò alla Dda di Bari una denuncia per riduzione in schiavitù. Accade negli stessi giorni dell’ennesimo rogo, il più devastante. Dopo altri 4 o 5 episodi analoghi, infatti, divampò il 15 febbraio 2016: non ci furono feriti, ma 350 persone rimasero senza un riparo. Eppure il ghetto fu ricostruito in tempi record, seminando il sospetto che quella rapidità fosse dovuta all’infiltrazione mafiosa.

Cos’è accaduto da allora? A maggio 2016 è stato sottoscritto un Protocollo sperimentale contro il caporalato, mentre la Regione ha ideato un piano da 5 milioni di euro per chiudere la baraccopoli, utilizzando strutture di proprietà dell’Ente in alcuni comuni vicini. Non se n’è fatto nulla a causa del mancato finanziamento da parte del Ministero dell’Interno. Il ghetto è rimasto lì ancora una volta e, a luglio dello scorso anno, un altro cittadino del Mali è morto nel corso di una rissa scoppiata nell’accampamento invisibile. Il 2 dicembre scorso si è verificato un altro incendio che ha interessato un centinaio di baracche, anche in quel caso senza feriti. Il 9 dicembre, invece, un rogo ha ucciso un migrante di 20 anni nel cosiddetto Ghetto dei bulgari, tra Borgo Tressanti e Borgo Mezzanone non lontano da Foggia. Giovedì notte, l’ennesimo incendio nel quale sono morti altri due migranti del Mali.

A il Fatto quotidiano.it il questore di Foggia, Piernicola Silvis, parla di una “città alternativa, una favela”, dove però i migranti “si sono raccolti per lavorare nei campi e non per delinquere”. Nel frattempo le operazioni per cercare di bonificarlo sono state difficili. “Bisogna assolutamente chiuderlo - spiega Silvis - perché ad oggi si rischia la sicurezza ogni giorno”. Le soluzioni alternative al ‘Gran ghetto’ sarebbero due strutture nei pressi di San Severo, ossia Casa Sankara e l’Arena, ma c’è molta resistenza. Dopo l’incendio di giovedì sera è intervenuta la federazione regionale dell’Usb Puglia: “Queste sono le conclusioni tragiche di anni di assenza di politiche del lavoro, in modo particolare sull’agricoltura e contro il caporalato”. Il problema, dunque, non è solo quello dell’accoglienza. Secondo l’Unione sindacale di Base “aver avviato lo sgombero del campo di Rignano senza coinvolgere i lavoratori che lo abitano è stato un atto di prepotenza istituzionale che non è possibile accettare”, mentre “gravissime sono le responsabilità del prefetto di Foggia” ed “enormi i ritardi della politica”.

L’esperienza di radio ghetto

Eppure in questi anni c’è chi il Ghetto l’ha visto con altri occhi. Nell’estate del 2012, su impulso della Rete Campagne in Lotta, è nata Radio Ghetto, che ogni anno avvia le sue trasmissioni proprio dalla ‘città invisibile’ durante i mesi estivi, quelli più difficili. Le trasmissioni sono curate anche dai braccianti africani, si discute sulle condizioni di vita nella baraccopoli, ma anche di questioni legate alla situazione dei migranti. Marco, attivista di Radio Ghetto, racconta a ilfattoquotidiano.it l’altro volto del Ghetto, dove se c’è un problema ci si rivolge alle persone più anziane che, come in un villaggio africano, sono le autorità morali. “Considerando la situazione in cui queste persone sono costrette a vivere - spiega Marco - abbiamo trovato una grande capacità di organizzazione”. Ma quel luogo è molto cambiato nel corso del tempo.
“Molti dimenticano che quello, prima di tutto, è un posto di lavoratori - continua - Sono quelli che già avevano lavorato nelle campagne negli anni Novanta e che poi erano entrati nelle fabbriche. Poi c’è stata la crisi, la chiusura delle aziende e molti di loro hanno dovuto rimandare indietro le famiglie e hanno ricominciato a vivere nelle campagne”. Tra il 2013 e il 2014, la questione migratoria è esplosa, con conseguenze dirette anche sulla presenza di queste persone nella baraccopoli. “Se si va al ghetto - continua Marco - si sentono molti accenti del Nord, perché accanto al mondo dei richiedenti asilo, c’è quello dei giovani che sono al Nord per nove mesi l’anno e poi d’estate vengono a lavorare nelle campagne. Il ghetto è lo specchio della situazione che c’è in Italia e di una serie di fallimenti”.
Perché i migranti non vogliono lasciare la baraccopoli? Hanno paura di non lavorare più nel mercato nero? “Tra qualche settimana si riparte con le liste di prenotazione (spesso pilotate) - spiega Marco - e sulla campagna di raccolta del pomodoro ci sono in ballo milioni di euro. Non credo che cambierà nulla: non li assumeranno con contratti di lavoro regolari solo perché non c’è più il ghetto. Sanno dove si trovano e li recluteranno di nuovo, ma è anche vero che queste persone non possono essere ammassate in strutture. Vanno affittate loro delle case, va loro ridata la dignità”.

Riferimenti

Un anno fa, su un'altro incendio scoppiato nella baraccopoli, scriveva il nostro opinionista Giorgio Nebbia, Il furore dei popoli evocando, come soluzione, il New Deal americano, su cui aveva già scritto su eddyburg Dalla Puglia nasce (di nuovo) il New Deal italiano?. Vedi anche l'articolo di eddyburg che integra i ricordi evocati da Giorgio Nebbia con quello del grande sindacalista pugliese, Giuseppe Di Vittorio. Sul "Grande ghetto" di Rignano vedi anche gli articoli de il manifesto del 4 marzo, ripresi in eddyburg sotto il titolo La catena.

I mille modi nei quali, con inventiva tutta italiana ma volta al male, stiamo realizzando pezzo per pezzo la più micidiale e disumana barriera per respingere le moltitudini che fuggono dagli inferni che il nostro Primo mondo ha creato per loro.

Il manifesto, 4 marzo 2017

Stiamo costruendo nel Mediterraneo una barriera più feroce del muro su cui Trump ha fatto campagna elettorale. Una barriera di leggi, misure di polizia, agenzie senza base giuridica, violazioni del diritto del mare e di asilo, navi da guerra, criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie, eserciti mobilitati ai confini, filo spinato e muri.

E tra i muri quello – 270 chilometri – che il governo turco ha costruito con il denaro della commissione europea per bloccare i nuovi profughi siriani che l’Europa teme che transitino poi verso i Balcani. Ma una barriera fatta anche di accordi con i governi dei paesi di origine o di transito dei rifugiati, per trattenerli dove sono o respingerli là da dove sono partiti. Con ogni mezzo: finanziando armamenti – navi, sistemi di rilevamento, addestramento delle milizie, caserme e prigioni – e legittimando governi e pratiche feroci sia con i profughi che con i propri sudditi.

Che cosa succede oltre quella barriera, nei campi e nelle prigioni di Libia, Sudan, Niger o Turchia – violenze, stupri, omicidi, umiliazioni e sfruttamento, condizioni igieniche letali – è provato da medici, reporter, organizzazioni umanitarie, agenzie dell’Onu come Unhcr, Oim, Unice e da molti reportage fotografici. Ma la barriera maggiore è ancora costituita dai naufragi in mare e dagli abbandoni nel deserto. Tutte pratiche, più i futuri rimpatri, non solo tollerate, ma finanziate dall’Unione europea come soluzione per «disincentivare l’afflusso di nuovi profughi»: espressione anodina per dire che chi vuol sottrarsi a morte, fame, guerre o violenze di un tiranno deve rassegnarsi; mettersi in viaggio è anche peggio.

Ma al di qua di quella barriera, chi è riuscito a raggiungere l’Europa approdando in Italia, Grecia o Spagna, sfidando più volte la morte, sua e dei propri figli, si accorge di essere finito in un territorio quasi altrettanto ostico.

Fino a un anno fa, Grecia e Italia accoglievano e accompagnavano i profughi ai confini per aiutarli a raggiungere altri paesi dell’Unione, la loro vera meta. Oggi non possono più farlo a causa delle barriere fisiche, poliziesche e amministrative che l’Unione europea ha lasciato elevare tra i suoi paesi membri; mentre chi decide se un profugo ha diritto alla protezione della convenzione di Ginevra o no è sempre più selettivo.

Finora, a coloro che ricevono il diniego o non vengono neanche ammessi alla procedura (spesso esclusi già negli hotspot perché provenienti da paesi classificati “sicuri”) veniva ingiunto di lasciare subito il territorio italiano: senza denaro, biglietto, documenti e punti di appoggio. Ovviamente nessuno lo faceva; chi non riusciva a passare la frontiera si accalcava ai suoi bordi, a Ventimiglia, a Como, al Brennero; o cercava rifugio sotto un viadotto o in un edificio abbandonato, iniziando la vita da “clandestino” decretata per lui dallo Stato.

Oggi, dopo alcune prove di deportazioni di massa verso il Sudan o la Nigeria, il ministro Minniti ha deciso di imprigionarli tutti in centri di reclusione da istituire, in attesa dei soldi e degli accordi per “rimpatriarli” là dove non potevano più stare perché perseguitati o affamati. E’ il coronamento della barriera voluta dalla commissione europea, che intende riservare questa sorte ad almeno di un milione di profughi, bambini compresi. In sostanza, però, si scarica su Italia e Grecia il compito di mettere al sicuro gli altri paesi dell’Unione da un flusso di esseri umani che sbarcano da noi, ma per raggiungere il resto dell’Europa. Ma invece di porre al centro dei rapporti con il resto dell’Unione questa questione – su cui si decide il futuro politico del continente – il governo italiano la usa solo per lucrare qualche punto di deficit in più.

Ma ammassare i profughi nei tanti centri dove si specula sulla loro esistenza di fronte agli abitanti dei dintorni, a cui vengono esibiti come nullafacenti a spese dello Stato, umiliando sia gli uni che gli altri, o moltiplicare i “clandestini” prodotti dalle leggi dello Stato sono cose che provocano nei più un senso di rigetto, alimentato dalle forze politiche che su di esso costruiscono le proprie fortune. Invece di vedere sofferenza e disperazione in chi vive una fuga ormai senza meta, non si rifugge più né da espressioni truci né dal passare a vie di fatto. Sono reazioni emotive, ma ben radicate, alimentate soprattutto da cattiva informazione. Le informazioni vere non mancano, ma non si vuole vederle né si possono cambiano certe reazioni solo con la buona informazione. Allora, a che punto è la notte? Molto avanti. Ma non è un processo irreversibile.

Impariamo noi, e impariamo a portare anche altri, chiunque sia, a guardare negli occhi i profughi che ci stanno accanto. Gira su facebook un video che mostra le risposte violente e razziste di persone per strada quando un intervistatore bianco chiede loro “che cosa fare dei profughi”. Poi la stessa domanda viene rivolta alle stesse persone da un intervistatore di colore, che potrebbe essere un profugo e che li guarda negli occhi. Accanto all’imbarazzo per quello che hanno appena detto, cresce tra tutti lo sforzo per trovare, qui e ora, una risposta più umana. E’ quello che dobbiamo tutti cercare di fare, e trovare dei luoghi dove farlo.

Il groviglio. Denis Verdini, Tiziano Renzi, Luca Lotti, Alfredo Romeo: qualcosa brucia anche attorno a Rignano, Toscana. Articoli di Massimo Franco, Ezio Mauro, Marco Travaglio.

Corriere della sera, la Repubblica, il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2017

Il Fatto Quotidiano
COMPAGNI DI MERENDE
di Marco Travaglio

L’altroieri, mentre i carabinieri arrestavano Alfredo Romeo a Napoli e perquisivano Carlo Russo a Scandicci, si spegneva a 86 anni, in un ospizio vicino a Firenze, Fernando Pucci, l’ultimo dei “compagni di merende” balzati agli onori delle cronache giudiziarie negli infiniti processi per i delitti del mostro di Firenze. Per anni il suo nome fu associato a quelli degli altri compari: Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Nessuna parentela con lo scandalo Consip, per carità: sia perché in quei processi si parlava di omicidi, in questa inchiesta invece al massimo di corruzioni, traffici di influenze, soffiate e favoreggiamenti; sia perché allora il Pucci e il Lotti erano testimoni d’accusa che collaboravano con la giustizia, mentre ora il Renzi e il Lotti (il ministro Luca, solo omonimo) sono indagati e negano pure l’evidenza. Ma la suggestione dei compagni di merende, cioè di quel mondo di furbi provincialotti di paese che si vedono al bar tabacchi e custodiscono segreti inconfessabili, viene naturale alla lettura delle carte dell’inchiesta Consip. Torna alla mente quel che disse della sua Firenze un cittadino doc come Dante Alighieri a Jacopo Rusticucci nel girone dei sodomiti, al canto XVI dell’Inferno: “La gente nova e i sùbiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”. È più o meno quel che accadde quattro anni fa, quando dal contado toscano marciò e poi marcì su Roma quello che la stampa del servo encomio nobilitò come Giglio Magico e che oggi la stessa stampa convertita al codardo oltraggio sbeffeggia come Giglio Tragico o Giglio Marcio.

Stiamo parlando del Renzi da Rignano e poi da Pontassieve, del Lotti da Empoli, della Boschi da Laterina (Arezzo), del Bonifazi della Gavinana e di tutta l’allegra brigata, ben presto seguita alla luce del sole dal Verdini da Fivizzano (Lunigiana) e nell’ombra da babbo Renzi (sempre da Rignano), da babbo Boschi (sempre da Laterina), da Carlo Russo da Scandicci e da tutto il cucuzzaro. Un mondo chiuso, a parte, di gente nova irresistibilmente attratta da sùbiti guadagni. O, per dirla con Rino Formica, impareggiabile coniatore di definizioni immortali (“la politica è sangue e merda”, “intorno a Craxi vedo solo nani e ballerine”): “Renzi non ha cultura politica. È il provinciale che va in città, quello che entra nel negozio di lusso e tocca la merce, l’annusa”. Chissà se il babbo trafficava per sé o per altri (“il sangue – spiega Formica a Repubblica – oggi è sofferenza altrui, mentre la merda, il lavoro sporco, lo devono fare gli altri”).

E chissà se il figlio era come i cornuti, l’ultimo a sapere ciò che parenti e amici sapevano benissimo. In attesa di scoprirlo, non c’è miglior definizione di quella di Formica per una combriccola di parvenu troppo rapidamente assurti a statisti, riformatori, financo padri costituenti. Tutti accomunati da un’attrazione fatale per i furbastri, gli spregiudicati, talvolta anche i pregiudicati. Come dimenticare la prima comparsata del giovin Matteo a Canale5, alla Ruota della Fortuna? E poi la visita clandestina alla villa di Arcore da sindaco di Firenze, subito svelata dal padrone di casa per far capire chi dei due era quello furbo? E la missione romana di babbo Boschi che, volendo salvare Banca Etruria, si affida al re dei faccendieri d’antan Flavio Carboni, condannato definitivamente per bancarotta fraudolenta?

Uno legge le carte dell’inchiesta Consip, tra presunti pranzi “in bettola”, presuntissime tangenti cash col “metodo della mattonella” (come Totò e Peppino alle prese con la malafemmina), probabili “bistecchine” mangiate chissà dove con Romeo, i pizzini di quest’ultimo stracciati e ricomposti in discarica, le incursioni nel bosco di Rignano per confidarsi con gli amici del bar che ormai aveva troppi orecchi, le Srl di mamma Lalla, e tutto torna. Non sul piano giudiziario, per cui occorrerà attendere i classici 10-15 anni di processi. Né su quello della responsabilità etico-politica, concetto ormai caduto in desuetudine almeno quanto il conflitto d’interessi (infatti si continua a ripetere che le colpe dei padri non ricadono sui figli, come se fosse normale che il padre del capo del governo faccia affari con imprenditori che fanno affari con il governo). Ma sul piano antropologico ed estetico, che spiega la politica degli ultimi anni meglio di qualunque saggio o editoriale.

Per chi voleva vedere e capire, non c’era mica bisogno dell’ultima indagine. Di avvisaglie erano piene le cronache, soprattutto del Fatto, e qualche libro (chi ha letto i due dedicati al clan Renzi dal nostro Davide Vecchi lo sa bene) degli ultimi tre anni, anche se le meglio penne del bigoncio giravano alla larga, almeno finché il referendum del 4 dicembre non consegnò al Paese il certificato di morte almeno provvisoria del padrone pro tempore dItalia. Bastava unire i puntini, e già il disegno veniva fuori chiaro e lampante. Ricordate le decine di Rolex anche d’oro massiccio donati da sovrano dell’Arabia Saudita al premier Matteo e alla sua corte venuta a Riyadh a omaggiarlo? La legge, trattandosi di regali superiori ai 300 euro, imponeva di depositarli in un magazzino di Palazzo Chigi a disposizione dello Stato, invece sono spariti tutti, tranne uno: quello dell’irreprensibile interprete arabo. Chissà mai chi se li è fregati.

Ricordate gli scontrini nascosti dall’ex sindaco di Firenze passato nel frattempo a miglior carriera e dal suo successore, il sindaco al Plasmon Dario Nardella, sulle sue spese non proprio tutte “istituzionali” rimborsate dal Comune ai tempi di Palazzo Vecchio, proprio mentre il suo partito scacciava per molto meno il sindaco di Roma Ignazio Marino davanti a un notaio? Tra le poche ricevute emerse dalle indagini della Corte dei conti, il Fatto scoprì quelle di un viaggio Firenze-Roma del Renzi e del Lotti di nove anni fa: i due figli papà democristiani, l’uno sindaco di Firenze l’altro capo di gabinetto, ogni volta che erano chiamati nella Capitale da imprescindibili impegni politici nazionali, sceglievano di soggiornare all’Hotel Raphael di largo Febo, che Craxi aveva eletto a sua residenza capitolina, che ospitava i vertici con politici, faccendieri e portamazzette, che nel ’93 fece da sfondo al celebre lancio di sputi e monetine, e da cui un anno dopo – perduta l’immunità parlamentare – Bettino partì per l’ultimo viaggio dall’Italia ad Hammamet.

Una scelta curiosa, per una giovane marmotta democristiana che si era laureata in Legge con tesi su Giorgio La Pira e, divenuta sindaco, aveva respinto come “diseducativa” la proposta dei nostalgici del craxismo di dedicare una piazza di Firenze all’”esule” Bettino e infine da premier aveva rivendicato l’eredità di Berlinguer dall’appropriazione di Casaleggio. Ma forse il Raphael era semplicemente una scelta simbolica dello spirito-guida che segretamente si era scelto come modello politico. Tant’è che quasi tutti i reduci del craxismo arrembante, da Ferrara a Minoli, da Sacconi a La Ganga, senza dimenticare le truppe di complemento come Napolitano e Amato, avevano eletto “Renxi” a loro nuovo beniamino. E lui era ripartito proprio da Craxi, senza peraltro averne la stoffa: la “grande riforma” della Costituzione con Verdini, il decisionismo, il rampantismo, l’antiparlamentarismo, l’harem di imprenditori-prenditori e manager-magnager di fiducia, lo stuolo di leccapiedi, il culto della personalità, la Leopolda al posto della piramide di Panseca, le leggi pro-Mediaset e anti-giudici, il garantismo peloso (ma solo per gli amici) e la scomunica a Mani Pulite “barbarie giustizialista”.

E ora, inevitabile nemesi storica, a dannarlo arriva il Fattore S, come soldi. O A, come affari, sia pure non per linea diretta, ma ereditaria. Qualche webete già profetizza un imminente trasloco nella villa di Hammamet o nell’ospizio di Cesano Boscone, ma sarebbe troppo. Siccome, diceva Marx, le tragedie della storia tendono a ripetersi in forma di farsa, per questi compagni di merende pare eccessivo anche il bar sport di Rignano.

La Repubblica
IL GROVIGLIO
DEI FEDELISSIMI
di Ezio Mauro

TUTTI i nodi non sciolti negli anni del comando stanno soffocando Matteo Renzi oggi, nei mesi della sconfitta, e ciò che più conta rischiano di trascinare a fondo con lui l’intera parabola del Pd, tra scissioni, tesseramenti gonfiati, avvisi di garanzia. Sono nodi politici e giudiziari, riassumibili in un unico concetto: il groviglio del potere cresciuto intorno all’ex presidente del Consiglio, che lo ha coltivato o tollerato nell’illusione di proteggersi, fino a restarne imprigionato.

È infatti la concezione del potere del leader che merita fin d’ora un giudizio, mentre giustamente si attende che le ipotesi d’accusa dei magistrati inquirenti vengano accertate, e intanto gli indagati hanno il diritto di essere considerati giudiziariamente innocenti fino a prova contraria. Dunque l’inchiesta dirà se Tiziano Renzi approfittava del ruolo pubblico del figlio per influenzare nomine e appalti, se il ministro Lotti ha avvisato i vertici Consip dell’indagine in corso e addirittura delle “cimici” negli uffici, in modo che venissero rimosse.

Se Romeo teneva a libro paga il padre del premier, come credono i carabinieri che hanno materialmente ricostruito dalla spazzatura dell’imprenditore un appunto stracciato dove una “T.” figura accanto all’indicazione: 30 mila per mese.

Ma nell’attesa è inevitabile chiedere conto a Renzi di ciò che è già evidente, e soprattutto è sufficiente: il meccanismo di controllo e influenza che ha creato intorno a sé, nominando uomini di provata fedeltà personale nei centri più sensibili del potere pubblico, lasciando germogliare filoni di interesse privato che intersecano quei punti decisionali, mescolando come nei peggiori anni della nostra vita lobby, Stato e famiglia, perché da noi la degenerazione del potere pubblico passa spesso per scorciatoie affettive e tentazioni domestiche.

Ogni leader ha naturalmente il diritto di scegliersi gli uomini di fiducia, e può certo farlo rivolgendosi ai più vicini. Ma quando ha una responsabilità generale, perché non risponde soltanto di sé ma del governo del Paese e del destino di un partito, ha anche il dovere di scegliere le persone più brave d’Italia, non le più fedeli di Rignano. C’è certamente in Renzi una confusione tra Paese e paese. Ma c’è qualcosa di più, che si spiega in termini politici, non geografici o sociologici.

È l’eterna sindrome minoritaria di leader che non riescono a liberarsene nemmeno quando conquistano la maggioranza, senza capire che la vera supremazia sta nell’egemonia e non nelle tessere, nella nuova cultura che si installa e non nelle correnti che si contano, alleandosi oggi per separarsi domani. Potremmo dunque dire, paradossalmente per un leader egocentrico, che il vero limite di Renzi è di ambizione: pensare eternamente a proteggersi dai colpi e a colpire invece che a convincere e conquistare. Con un progetto capace di presentare una nuova sinistra come leva del cambiamento di un Paese in crisi, in un discorso di verità, tenendo insieme le eccellenze e le sofferenze italiane, in un nuovo disegno di società. Un disegno in cui si riconoscano tutte le anime della sinistra italiana, nella legittima e libera interpretazione che il leader del momento è chiamato a dare, facendosi però carico di una vicenda comune, di storie personali, di una tradizione che parla a un terzo del Paese.

Tutto questo non c’è stato. Più che come un leader, Renzi è calato sul Pd come un raider, che oggi viene accusato politicamente di insider trading, lasciando che rivoli di interesse pubblico zampillassero verso congreghe familiste o amicali, con al centro il potere, il denaro, gli appalti. L’ex premier deve dire al Paese — e al suo partito che sta per scegliersi il segretario con le primarie — se sapeva, se sospettava, se immaginava: e se no, deve dire cos’ha pensato quando ha scoperto che l’uomo da lui messo alla guida della centrale degli appalti pubblici toglie le “cimici” perché un ministro e il vertice dei carabinieri lo avvertono, quando lo stesso capo della Consip rivela che proprio da Tiziano Renzi dipendeva il suo destino professionale, fino alla revoca della nomina.

L’unica cosa che Renzi non può fare è stare zitto o rovesciare il tavolo attaccando la magistratura come lo incitano i berlusconiani, memori di una pratica abituale a destra. Ma la comunità politica a cui Renzi si rivolge e dalla quale deriva la sua legittimità ha sensibilità differenti, e pretese diverse. E infatti ieri Renzi ha incominciato a sciogliere il nodo famigliare dicendo che se suo padre è colpevole deve pagare due volte.

Resta il nodo politico, intatto. E qui, infine, c’è una risposta che Renzi deve dare a se stesso. Dove lo ha portato quel sistema fondato sugli amici degli amici, asfittico e famelico? La presidenza del Consiglio non meritava qualche ambizione in più di una gestione toscana degli appalti? Domande inevitabili, perché non si può predicare l’innovazione e poi rinchiudersi nella cerchia ristretta di un Consiglio comunale in gita premio a Roma, con visita fugace alle istituzioni. Mentre bisognerebbe sapersi accontentare della sovranità legittima appena conquistata, senza cercare una quota ulteriore e ambigua di sovranità impropria.

Tutto questo Repubblica lo ha chiesto pubblicamente all’ex presidente del Consiglio in un’intervista all’inizio dell’anno: perché scegliere i fedelissimi fiorentini per guidare la macchina governativa, dalla Manzione a Lotti, fino a Carrai incredibilmente proposto per la guida delle cyber security invece di qualche ufficiale dei carabinieri laureato al Mit dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e non al premier? Perché un capo della Rai scelto nel bouquet della Leopolda? Perché governare con Verdini, e usare il Pd come un taxi per arrivare a Palazzo Chigi? Perché questa attrazione fatale per gli imprenditori e per le banche? Perché non pretendere che quando si ha l’onore di guidare la sinistra e la responsabilità di presiedere il governo i propri familiari si astengano da affari che riguardano il potere pubblico?

Le questioni erano tutte sul tavolo, tre mesi fa. Renzi ha perso tempo, e il tempo non è neutrale. Non ci sarà nessun nuovo inizio se non si parte da qui, dalla denuncia di un sistema di potere malato, e da un sovvertimento radicale di uomini, di metodi, di mentalità. Dopo gli amici, è arrivato il tempo di parlare ai cittadini.

Corriere della sera
I TIMORI
DEL TUTTI CONTRO TUTTI
di Massimo Franco

Non più un Pd che considera quello di Paolo Gentiloni un «governo amico». Semmai, il premier costretto in qualche modo a tenersi a distanza dal suo partito, per i lampi di instabilità che sprigiona.

L a ricaduta immediata di quanto sta succedendo con le inchieste giudiziarie sulla Consip sembra questa. E il presidente del Consiglio l’ha capito così bene che ieri l’ha raccomandato a tutti i membri dell’esecutivo. Non è scontato che lo smarcamento riesca: dipenderà molto da come e a chi si allargheranno le indagini della magistratura, che coinvolgono il padre dell’ex premier, Tiziano Renzi, interrogato ieri, e il ministro dello Sport, Luca Lotti.

Ma Gentiloni è costretto a ritagliarsi margini di autonomia dal Pd, per non essere risucchiato nella sua crisi. Solo rispondendo al Paese, e non ai dem, può evitare di diventare il capro espiatorio delle tensioni interne. Perché già si intravede la seconda conseguenza di questa vicenda imbarazzante e opaca: trasformare il prossimo congresso del Pd in una sorta di ring dove si celebrerà il rito del «tutti contro tutti». Con la politica tenuta in un angolo, e le accuse di affarismo, disonestà, giustizialismo bene in vista; e destinate a dominare un dibattito avvelenato dall’eco delle inchieste.

La tentazione di rinviare tutto, primarie e congresso, si è affacciata nelle ultime ore ma per adesso è stata ricacciata indietro. Da Renzi, perché significherebbe ammettere difficoltà vistose, che tra qualche mese potrebbero aumentare e gli precluderebbero la strada verso la conferma alla leadership. E dai suoi concorrenti, perché i colpi che arrivano alla nomenklatura renziana dal tesseramento gonfiato e dal caso Consip si aggiungono alle convulsioni della scissione; e danno a Michele Emiliano e Andrea Orlando, governatore della Puglia e ministro della Giustizia, la speranza di contrastare una rielezione finora quasi scontata.

Forse, però, è la terza ricaduta che dovrebbe preoccupare di più i vertici del Pd. Riguarda la sconnessione evidente tra la realtà autoreferenziale raccontata da loro, e il fastidio che si capta nell’opinione pubblica. Renzi vede una situazione surreale e attacca «i processi fatti dai giornali». Ma surreale è un po’ tutto. Lo è il modo impietoso col quale alcuni avversari interni adesso lo attaccano: una virulenza assente prima della sua sconfitta referendaria. Lo è la iattanza dell’ex premier, che si difende con le unghie ma come se si trattasse di una manovra nata dal nulla. Lo è il silenzio dei suoi alleati, che si limitano a stare a guardare.

Rischiano di essere le premesse di un cannibalismo tra le tribù congressuali del Pd che, se non viene fermato in tempo, farà stappare ettolitri di champagne a Beppe Grillo. Un sistema in affanno ripropone la solita domanda di fondo: e cioè come mai, per l’ennesima volta, la politica si sia dovuta affidare alla supplenza della magistratura per capire che stava succedendo. E perché un partito che guida l’Italia da oltre tre anni in nome di un rinnovamento catartico, e inneggia al primato della politica, ha finito per umiliarla: se non altro perché non ha prodotto anticorpi in grado di arginare la commistione con l’affarismo.

La fauna umana e gli intrecci economici che emergono parlano di un ambiente intossicato da lobby di provincia fameliche e maldestre. Colpisce soprattutto questo, nello scandalo Consip: la caratura mediocre dei personaggi, il livello basso dei loro intrecci. Non c’è nessuna grandezza, nel declino della nomenklatura. Il ridimensionamento non avviene per un passaggio epocale della politica. Sfilano personaggi di un’Italietta che si crede furba e risponde a cliché al limite della caricatura. Solo che in una fase come questa può fare danni seri. E consegnare l’Italia a un populismo che ingrassa proprio grazie a una politica presuntuosa quanto permeabile all’infiltrazione di poteri esterni.

Con lo “sviluppo” li cacciamo dalle loro terre. Respingiamo quelli che, stremati, approdano alle nostre frontiere. Quei pochi che arrivano, li sfruttiamo come schiavi. Poi, per un sospetto d’infiltrazioni della criminalità, li lasciamo bruciare nelle loro case di cartone.

il manifesto, 4 marzo 2017

FOGGIA,
BRUCIA IL GHETTO DI RIGNANO
MORTI DUE MIGRANTI
di Alessandro Tricarico

«Puglia. Le vittime sono due ragazzi del Mali sorpresi nel sonno dalle fiamme. Nel campo era in corso lo sgombero deciso dalla Dda

Alla fine è successo. Il Ghetto di Rignano è stato sgomberato dalle ruspe ma due ragazzi originari del Mali sono morti dopo che un incendio, scoppiato nella notte, ha raso al suolo gran parte del campo. Ieri mattina colonne di fumo nero facevano da sfondo a dozzine di migranti che si allontanavano con le poche cose messe assieme negli anni: un materasso, una bombola del gas o un bidone per fitofarmaci pieno di acqua potabile. Sembra Calais ma siamo Foggia, nel granaio di Italia.

Il 1 marzo inizia lo sgombero della baraccopoli, disposto dalla Dda di Bari nell’ambito di indagini avviate nel marzo del 2016 e culminate con il sequestro con facoltà d’uso della baraccopoli per presunte infiltrazioni della criminalità. Nonostante le ruspe siano sul posto e la zona sia stata sottoposta a sequestro, il giorno seguente una delegazione di abitanti del ghetto si dirige verso Foggia per incontrare il prefetto. La manifestazione sfila per la città con cartelli che recitano «Vivere Ghetto». Chiedono di poter restare nelle proprie baracche, così da non perdere quei contatti lavorativi maturati negli anni: un privilegio che vale meno di 3 euro l’ora.

La notte tra il 2 e il 3 marzo un incendio distrugge parte del campo, quasi 5.000 mq di case di cartone carbonizzate. Al loro interno dormono alcuni migranti che, miracolosamente, riescono a fuggire, tranne due ragazzi. Si chiamavano Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, avevano 33 e 36 anni e venivano entrambi dal Mali. Una delle due vittime, Konate, è stato trovato disteso su una brandina, carbonizzato. L’altro è stato trovato vicino l’uscita della baracca.

Non è la prima volta che le case di cartone del Ghetto vanno a fuoco. Questo, ad esempio, è il terzo incendio di grosse dimensioni che avviene solo nell’ultimo anno. Mai nessuno però era ancora morto durante questi episodi.

La procura di Foggia ha escluso la matrice dolosa, anche se per alcuni le cose non sono andate esattamente così: «L’incendio del ghetto di Rignano è doloso perché molti lavoratori non hanno gradito lo sgombero. E’ un gesto di protesta paradossale, da condannare perché nessuno ha il diritto di uccidere; ma resta un tragico gesto di protesta», dice Yvan Sagnet.

Secondo un vigile del fuoco che si trovava sul posto al momento dell’incendio «l’incendio è stato troppo violento e improvviso, e quindi non si esclude che possa essere stato appiccato da qualcuno».

Dopo aver riconosciuto i corpi dei propri compagni, gli ultimi abitanti del Ghetto hanno improvvisato un corteo funebre per scortare i feretri dei due ragazzi. «Non si può morire così, come i cani in gabbia» urla Mamadou alla stampa «noi chiediamo solo di lavorare in pace. Dove andremo ora?».

I carri funebri sfilano affianco a cumuli di immondizia bruciata che delimitano le porte del Ghetto. I migranti li lasciano andare soli nel loro viaggio verso l’obitorio e decidono di tornare indietro per potersi organizzare.

Dopo qualche ora accade l’impensabile: un altro incendio di grandi dimensioni distrugge e mortifica le ultime baracche rimaste in piedi. Si odono delle esplosioni, una macchina di un caporale va in fiamme e diverse bombole del gas esplodono pericolosamente tra le baracche. L’aria è irrespirabile. Il ghetto inizia a svuotarsi silenziosamente. Molte persone si dirigono attraversano gli uliveti, simbolo della puglia, con i materassi arrotolati sulla testa. Gli autobus sono pronti ad accoglierli per poterli portare in alcune strutture messe a disposizione della regione e dal comune di San Severo, che saranno attrezzate per accogliere temporaneamente 320 migranti.

Il presidente della Regione Michele Emiliano si dice soddisfatto della «chiusura di questo luogo dove per vent’anni si è calpestata la dignità umana», aggiungendo che «la tragica morte dei due cittadini maliani conferma la necessità di procedere senza indugio alla chiusura del campo, ma lascia un profondo sconforto perché se avessero accettato, come tanti hanno fatto, l’alternativa abitativa adesso sarebbero ancora vivi».

La giornata sta per finire, le fiamme hanno ormai lasciato spazio alla cenere ed al fumo. Il rumore delle ruspe copre ogni suono. Molti migranti non sanno dove andare, nessuno a quanto pare si è preoccupato di spiegare loro cosa stia succedendo: «non mi importa – dice un ragazzo - qualunque posto sarà meglio di questo».

«SGOMBERARE NON SERVE,
PER LORO IL GHETTO SIGNIFICA LAVORO»
QUALUNQUE POSTO SARÀ MEGLIO DI QUESTO
di Gianmario Leone

«Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina».

A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno.

Da fine febbraio è iniziato lo sgombero del «Gran Ghetto» di Rignano Garganico disposto dalla Dda di Bari, per presunte infiltrazioni nella gestione del luogo da parte della criminalità organizzata. Molti però si sono opposti, mentre la Regione fatica ancora a risolvere il problema di un alloggio dignitoso.

Forse qualcuno sarebbe dovuto andare a parlare con quelle persone. Non si può pensare di sgomberarle dall’oggi al domani, senza preavviso, dall’unico luogo che conoscono. Perché per loro il ghetto vuol dire lavoro e quindi sopravvivenza: solo restando lì sono certi che i caporali, durante la stagione del raccolto, li andranno a cercare per farli lavorare. E’ questo il motivo per cui oramai sono diventati stanziali nei ghetti, dove vivono tutto l’anno, anche in periodi in cui non c’è lavoro. Senza un’alternativa reale nei servizi e nel collocamento lavorativo, sgomberare non servirà a nulla.

Un lavoro che in realtà vuol dire sfruttamento, schiavitù in condizioni disumane. Come giudica la legge sul caporalato?
Le Regioni in materia di lavoro non possono legiferare, quindi è necessario l’intervento dello Stato. Quella legge è sicuramente un primo passo verso la legalità, ma non può restare l’unico. Piuttosto, credo sia giusto sottolineare la pressione che arriva dalle associazioni degli imprenditori agricoli contro quella legge, prima ancora che arrivino le denunce dei braccianti. Sto realizzando con grande difficoltà una nuova inchiesta su questo fronte. I braccianti sono terrorizzati ed è difficilissimo farli parlare, c’è un clima di grande tensione.

Ancora una volta, quindi, omertà. Condizionata dal sistema padronale che vuol conservare lo status quo.
Assolutamente sì. Non regge nemmeno l’alibi della crisi economica: il pil in agricoltura nell’ultimo anno è cresciuto del 6%. Il problema è che non c’è stata un’adeguata ridistribuzione della ricchezza. Che resta in mano a pochi grandi gruppi commerciali, fattore che porta le associazioni datoriali a lamentarsi: stiamo tornando al latifondo dove il ruolo del caporale è fondamentale. Le stime del Global Slavery Index ci vedono al 2° posto in Europa per riduzione in condizioni di schiavitù dei braccianti.

Il nocciolo della questione, come più volte ha denunciato Yvan Sagnet nel corso degli anni, resta la grande distribuzione e gli accordi commerciali che reggono il gioco.
E’ lì che bisogna intervenire. I grandi gruppi decidono il costo del prodotto che a sua volta, per effetto domino, incide sugli agricoltori ovvero i produttori ed infine sui lavoratori sfruttati dai caporali che sono da sempre l’anello di congiunzione tra domanda e offerta di lavoro. La vera battaglia ora si è spostata sui semi. Perché chi li possiede controllerà tutta la filiera.

la Repubblica "Economia&finanza, 3 marzo 2017 (p.s.)

Lugano - LafargeHolcim, il gruppo con sede in Svizzera numero uno nella produzione mondiale di cemento, si candida a costruire il muro di Trump ma, intanto, fa mea colpa per i suoi rapporti con l'Isis, in Siria. «Abbiamo concluso degli accordi inaccettabili con dei gruppi armati, nel 2013 e nel 2014», hanno ammesso nel quartier generale elvetico di Jona i vertici del colosso cementiero. Il cui maggiore azionista, vale la pena ricordarlo, é l'imprenditore Stephan Schmidheiny, condannato a 18 anni, in Italia, per i morti dell'amianto di Eternit.

Ma cosa ha combinato di tanto grave, in Siria, LafargeHolcim, per cospargersi pubblicamente il capo di cenere? Stando a un'inchiesta di Le Monde, sostanzialmente confermata da una iniziativa giudiziaria del Governo francese nel gennaio scorso, per salvare lo stabilimento che il gruppo svizzero possedeva a Jalabiya, nel nord del Paese, aveva negoziato dei diritti di transito con l'esercito dello Stato Islamico, che controllava quella porzione di territorio siriano. Un comportamento spregiudicato in quanto facendo funzionare lo stabilimento di Jalabiya, LafargeHolcim aveva violato un embargo internazionale.

«La nostra indagine interna - fa sapere adesso il gigante del cemento - ha stabilito che ci sono state transazioni con gruppi armati, alcuni dei quali oggetto di sanzioni». Il tutto per mantenere in esercizio un impianto che, ha ammesso lo stesso gruppo elvetico, rappresentava meno dell1% della sua cifra d'affari. Ma, come si dice, business is business. Ed é un affare, che si prospetta ben piú redditizio, la costruzione del muro ai confini con il Messico, voluto da Donald Trump.

LafargeHolcim intende mettere le mani su quell'opera, come ha annunciato il suo CEO, Eric Olsen. «Siamo il numero uno del cemento negli Stati Uniti», ha sottolineato, in una conferenza stampa. E poco importa se il muro di Trump, prima ancora della sua realizzazione, sta suscitando indignazione in mezzo mondo. In ballo ci sono 1000 miliardi di dollari e «per noi si tratta di una grande opportunitá», ha sottolineato Olsen.

L'impiego di due attrezzi ha caratterizzato il progetto renziano. Il primo, rendere dominanti l'ideologia e la prassi del neoliberismo (banche si, democrazia no, lavoro no). Il secondo, costruire un sistema di potere basato sul ricatto, la corruzione, l'impadronimento di fondi pubblici, la feudalizzazione delle istituzioni istituzionali. Il referendum del 4 dicembre ha incrinato il primo attrezzo, la magistratura sta smantellando il secondo.

il manifesto, 3 marzo 2017

Sul sistema degli appalti pubblici, l’amministratore delegato di Consip dice ai magistrati che «l’imprenditore Carlo Russo mi ha chiesto di intervenire su un appalto da 2,7 miliardi di euro per conto del babbo di Matteo e di Verdini». La rivelazione arriva a mezzo stampa attraverso le colonne de l’Espresso, è clamorosa e c’è poco da ricamare.

Del resto l’amministratore delegato di Consip, Marroni, dipendente dal ministro del Tesoro (Padoan gli ha appena confermato la fiducia) non si vede perché dovrebbe inventare le pressioni di un imprenditore toscano. Pressioni e richieste, possiamo immaginare, all’ordine del giorno. Meno normale che avvengano per conto di Renzi padre e dell’amico Verdini, proprio ieri condannato a 9 anni per bancarotta e frode.

Naturalmente non è il caso di imbastire processi a mezzo stampa. Anche perché è appena successo che il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, accusato di intendersela con la camorra, sia stato scagionato dall’infamante accusa.

Quello che, invece, è politicamente importante, purtroppo è anche desolante e preoccupante. Si tratta di problema strutturale, la corruzione, che riguarda la destra e la sinistra. In Italia, come denunciava Berlinguer in una famosa intervista a Eugenio Scalfari nel 1976, la tangente origina «dall’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi». Un sistema di potere, di soldi e di partiti allora forti oggi morenti, che lasciano il campo a clan familiari.

In questo caso famiglie molto attive in Toscana con storiacce di banche fallite, di consulenze richieste a personaggi come Flavio Carboni, di grandi sintonie politiche con Verdini. E via elencando, compresi naturalmente i finanziatori della new-age renziana con elargizioni arrivate da chi è oggi in una cella di Regina Coeli, come l’imprenditore Alfredo Romeo. Un mondo salito alla ribalta del governo del paese.

Il Renzi padre smentisce tutto, il Renzi figlio va in tv a dire che ha fiducia nei magistrati, il ministro Lotti respinge al mittente i sospetti di coinvolgimento. Accusa e difesa si fronteggiano, ma in attesa di una sentenza, il Pd e l’ex presidente del consiglio sono travolti da una bufera politico-giudiziaria che coincide con l’avvio parecchio travagliato di un congresso e con la sfida delle primarie più “giudiziarie” della storia.

C’è un candidato, Renzi, che ha gravi problemi in famiglia. C’è il candidato Orlando che è anche ministro della giustizia. E c’è il candidato Emiliano che sarà sentito, lui magistrato, come testimone nell’inchiesta. E quando si gira lo sguardo al tesseramento del Pd campano lo spettacolo non è confortante.

Si lascia intravedere l’ipotesi di un ingorgo corruttivo che i magistrati tentano di dipanare mentre la politica annaspa. I legami potere-imprese, la ricca fauna di lobbisti e millantantori che fa da sfondo a un ristretto numero di contendenti i quali ambiscono a spartirsi tutta la torta del denaro pubblico, come raccontano alti funzionari infedeli che vuotano il sacco per sfuggire alla galera.

Ce n’è in abbondanza per dire che l’anomalia italiana fa sembrare lo scandalo Fillon che illumina le presidenziali francesi, una commediola di provincia.

Nel clima del nuovo corso Usa, nell’inerzia attonita dell’Europa e dei paesi arabi, prosegue la rapina delle terre del popolo palestinese. Dimenticando che chi semina vento raccoglie tempesta..

Reset, 27 febbraio 2017
Israele è uno dei pochi Paesi ad avere ottime aspettative sulla nuova amministrazione USA. È vero che per ora il nuovo Presidente non ha ancora annunciato in che modo intenda rivedere l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel 2015, né come reimporre le sanzioni, ma certamente l’attuale amministrazione Trump si annuncia come la più vicina e più simpatetica al governo Netanyahu dal 2009.

Tuttavia, il rinnovato slancio USA all’alleanza strategica con Tel Aviv non è l’unica ragione dell’euforia israeliana: in una regione attraversata da molteplici crisi e sconvolta da insanabili guerre civili, Israele è un Paese che non solo economicamente cresce per il 13° anno consecutivo (dati OECD 2016), ma sembra riuscito nell’intento di relegare il conflitto israelo-palestinese sullo sfondo ad un ruolo di serie B nello scenario internazionale. La coscienza di quella parte dell’opinione pubblica araba ed occidentale tradizionalmente attenta alle violazioni israeliane e sensibile al progressivo deterioramento dei diritti dei Palestinesi, sembra oggi attonita e distratta da conflitti più impellenti che causano un numero maggiore di morti e, soprattutto, di rifugiati.

È indubbio che riflettori da sempre puntati sul conflitto israelo-palestinese si siano spenti e che il governo israeliano ne approfitti per varare alcune leggi che in altri tempi sarebbero diventate facilmente oggetto di critiche virulente da parte delle organizzazioni internazionali e boicottaggio da parte delle opinioni pubbliche.

La prima delle leggi controverse recentemente passate dalla Knesset quasi in sordina è stata “la legge sulla regolarizzazione degli insediamenti” del 6 febbraio scorso, in cui all’unanimità il Comitato legislativo del Parlamento ha stabilito che sia possibile per l’amministrazione civile israeliana requisire terre private palestinesi per costruire insediamenti o legalizzarne quelli già esistenti in funzione retroattiva, infrangendo così una pericolosa “linea rossa” ovvero quella della tutela almeno delle proprietà private palestinesi.

D’ora in poi nella cosiddetta area C, corrispondente a circa il 60% della Cisgiordania, il governo israeliano, tramite il suo braccio esecutivo nei Territori occupati della Cisgiordania (l’amministrazione civile) potrà espropriare qualsiasi porzione di terra al solo scopo dichiarato di facilitare e intensificare la creazione di insediamenti israeliani. Mentre prima era possibile espropriare solo a scopi pubblici (costruzione di strade e servizi collettivi, ragioni di sicurezza) adesso gli interessi privati di gruppi di coloni vengono legalmente equiparati alla ragion di Stato. Altre postille della legge prevedono che tutti gli avamposti finora costruiti illegalmente vengano “sanati” ovvero automaticamente convertiti in insediamenti legali destinatari di fondi pubblici governativi, spianando la strada alla trasformazione di tutta l’area C in una nuova regione israeliana suscettibile di annessione (che in ebraico ha già un nome,“Yeudah e Shomron”, ovvero “Giudea e Samaria”). La legge è stata votata ed approvata per ben tre volte alla Knesset da una maggioranza di partiti di governo composta da Israel Beitenu (Israele casa nostra), Ha Bayit ha Yehoudi (La Casa ebraica), Likud (“Consolidamento”) e Kulanu (“Noi tutti”), convincendo quest’ultimo, un partito di centro-destra che si era originariamente dichiarato contrario, barattando il voto favorevole del partito centrista con la promessa di una maggiore attenzione del governo alle crescenti disparità sociali.

Fatto ancora più grave, attraverso la legge, di per sé sintomatica di un solido sentire della maggioranza favorevole al superamento dello status quo vigente in materia di insediamenti (secondo l’ultimo sondaggio Peace Index del giugno del 2016 il 55% sarebbe tendenzialmente favorevole all’estendere la sovranità israeliana agli insediamenti in Cisgiordania), si delinea un difficile rapporto tra due poteri forti dello Stato: il governo e la Corte Suprema.

Il primo agisce secondo il principio della “democrazia della maggioranza”, pensando di essere l’unico legittimo rappresentante del popolo e dunque di essere investito dell’autorità suprema di governare in piena autonomia dalle norme vigenti, erigendosi a “corte d’appello” superiore alla stessa magistratura, mentre la seconda vede sistematicamente nullificate le sue sentenze -si veda il caso dello smantellamento, decretato appunto dalla Corte, dell’avamposto illegale di Amona etc.- e contestata la sua autorità da parte tanto del governo che del Parlamento, ovvero i due poteri che assieme ad essa costituiscono le più alte istituzioni dello Stato. Una situazione critica che si riflette nelle parole di una delle deputate di estrema destra che più si sono battute per la promulgazione di questa legge di “regolarizzazione degli insediamenti”, Shuli Mualem Refaeli del partito La Casa Ebraica: “La questione della Giudea e della Samaria non costituisce affatto un problema legale, ma se la Corte rigetterà la legge, al Parlamento rimarranno solo due opzioni: l’annessione diretta di tutta l’area C o una nuova legge per limitare i poteri della Corte” (Hezki Baruch, Arutz Sheva, 7 febbraio 2017).

Il ruolo della Corte Suprema è contestato da molti anni, in primis dalle forze che appartengono all’attuale coalizione di governo, ma anche da altri gruppi schierati alla loro ulteriore destra. Nonostante essa abbia storicamente evitato di esprimersi su controverse decisioni governative come l’introduzione delle leggi d’emergenza o l’esproprio di terreni da parte dell’esercito a fini di sicurezza, essa è percepita come un “bastione” delle forze liberali nel Paese soprattutto a seguito dell’attivismo che l’ha caratterizzata negli anni immediatamente precedenti e successivi ad Oslo (anni ’90) in cui la Corte ha spinto il Parlamento a promulgare due nuove leggi fondamentali sulla difesa dei diritti umani sotto il lungo mandato del Giudice supremo Aharon Barak (1995-2006). In particolare, poiché Israele manca di una costituzione, la Corte Suprema ha teso a supplire con il proprio attivismo all’assenza di una legislazione capillare in materia protezione dei diritti umani. A differenza degli anni Novanta, però, in cui la Corte godeva di un’ampia legittimità democratica e di un consenso trasversale, dal 2003 la sua buona reputazione si è attenuata per le sentenze sull’illegalità del percorso della Barriera difensiva (o Muro di separazione, che per alcune porzioni illegalmente è stato costruito su terra privata palestinese, il cui esproprio oggi è stato retroattivamente legalizzato), sull’illegalità delle demolizioni di abitazioni palestinesi e per l’accoglienza di alcune petizioni individuali avanzate da Palestinesi dei Territori.

Dal 2000, il Governo cerca dunque di mettere un freno all’attivismo della Corte -che nel frattempo si è molto smorzato- sostenendo che le sue decisioni mettano a repentaglio la sicurezza e la capacità di sopravvivenza dello Stato. Da allora, i disegni di legge avanzati dal Parlamento a questo scopo si sono succeduti: dalla proposta dei deputati di Israel beitenu (“Israele Casa nostra”) Eliezer Cohen e del Mafdal Igal Bibi di affiancare alla Corte Suprema una Corte Costituzionale maggiormente influenzata dal governo, a quella del Ministro della giustizia del Governo Olmert Daniel Friedman di limitare il diritto di petizioni individuali, per arrivare a quella del Ministro della giustizia del precedente governo Netanyahu, Ya’acov Neeman, di rivedere il processo di nomina dei giudici alla Corte Suprema in modo da procedere con assegnazioni più compiacenti al governo (Yossi Verter, Ha’aretz, 6 gennaio 2012). Quest’ultima proposta è stata coronata proprio in questi giorni (23 febbraio 2017) dal successo riportato dal terzo governo Netanyahu, ed in particolare dal suo attuale Ministro della giustizia Ayelet Shaked (la Casa ebraica), con la nomina di quattro nuovi giudici conservatori o “falchi”.

Tuttavia, la crisi -nel senso greco di trasformazione dalla quale emerge un nuovo equilibrio- è molto più estesa del “braccio-di-ferro” in corso tra le istituzioni dello Stato, ma si avvicina ad una resa dei conti totale, in cui una parte maggioritaria del Paese afferma di non voler più vivere secondo le regole che hanno plasmato la vita politica israeliana fino ad oggi.

Tale “resa dei conti” si radica in un consolidato sentimento popolare che ritiene che Israele stia entrando in una fase di maturità in cui abbia finalmente la possibilità di assecondare le sue vere aspirazioni nazionali rimaste ancora incompiute. Tale posizione, riassuntiva del sentire di una buona parte dell’opinione pubblica politicamente rappresentata dall’ampio arco di forze di destra al potere quasi ininterrottamente dal 1996, ritiene che l’attuale accomodamento -o coabitazione di comodo- con l’Autorità nazionale palestinese si avvii alla fine, per essere sostituita dall’estensione della sovranità israeliana a quei territori che le sono da sempre appartenuti, Giudea e Samaria, garantendo diritti di residenza -e non di cittadinanza- ai Palestinesi ivi residenti in attesa di futuri equilibri demografici più favorevoli agli ebrei all’interno di un Grande Israele.

Come viene ben sintetizzato dal giornalista di Israel Hayom, quotidiano vicino al premier, Dror Eydar (Allgemeine Zeitung, 23 febbraio 2017): “In futuro… vi saranno milioni di ebrei in più in Israele grazie all’immigrazione ed al saldo positivo della crescita naturale della popolazione e dunque… sarà possibile anche concedere diritti di cittadinanza a quei Palestinesi che vi aspirassero”. La speranza rimane sempre che siano in pochi a farne richiesta, così come avvenne dopo l’annessione di Gerusalemme est nel 1967, in cui centinaia di migliaia di palestinesi decisero di non optare per la cittadinanza israeliana, puntando ancora sull’eventuale costituzione di uno stato palestinese. Uno Stato che oggi -Israeliani e Palestinesi ne sono sempre più convinti, sebbene da prospettive diverse- non vedrà mai la luce.

Il motivo, secondo il Preside della Facoltà di lettere della Ben Gurion University, David Newman, è molto semplice: non può essere istituito uno Stato sovrano in presenza di 125 colonie e circa 100 avamposti illegali israeliani che spezzettano la porzione di territorio assegnata all’autonomia palestinese. Ancora, i coloni sono decisamente troppi per essere evacuati e qualunque linea di confine si intendesse tracciare, tra gli 80.000 e i 100.000 di loro si troverebbero dalla parte sbagliata del confine, e si tratterebbe dei coloni più ideologici, quelli che non accetterebbero alcuna compensazione economica in cambio di un loro eventuale trasferimento (David Newman, Bicom, 17 febbraio 2016). In più, anche qualora fosse territorialmente possibile, Israele non garantirebbe la piena sovranità ad un futuro Stato palestinese in materie sensibili come sicurezza, politica estera e difesa.

Dominique Vidal, celebre firma di Le Monde Diplomatique ed esperto del conflitto israelo-palestinese, riassume così il paradosso a cui sono giunti i Palestinesi, forse loro malgrado: nel momento in cui la Palestina sembra affermarsi senza ostacoli sul piano diplomatico e ottenere il riconoscimento di 138 Paesi e l’endorsement dell’ONU e la membership nella Corte Penale Internazionale, si rivela tanto vulnerabile da rischiare di sparire dalle carte geografiche (Radio France International, débat, 11 febbraio 2017). La sorte dei Palestinesi, più che mai, appare demandata all’arbitrio israeliano, contro il quale la comunità internazionale può poco, sul quale non esercita alcuna pressione e al quale si limita a reagire in ordine sparso e con poca convinzione.

La mobilizzazione internazionale non è mai stata così debole come in questo momento e il governo israeliano ne approfitta per rimodellare fino in fondo l’ampio territorio -ormai sempre più corrispondente al Grande Israele auspicato dai sionisti-revisionisti di Jabotinsky, seppure con qualche Palestinese di troppo- del quale ormai dispone impunemente: ventilando l’indizione di un referendum esclusivamente ebraico circa la possibilità di annessione di una buona porzione di Cisgiordania (l’area C), affermando che l’istituzione di ulteriori colonie non arreca alcun pregiudizio ai diritti dei residenti palestinesi e negando il visto a rappresentanti di ONG come Human Rights Watch per il loro ruolo nella denuncia di quel complesso rapporto che lega imprese private israeliane, americane ed europee al grande business delle colonie (HRW report, “Separate and Unequal”, 2010), che costa annualmente 3.4 miliardi di dollari alla già schiacciata economia palestinese. Il tutto in attesa che la nuova amministrazione Trump sciolga ogni riservatezza e si dichiari ufficialmente a favore dell’accantonamento della soluzione dei due Stati, alla quale solo una parte minoritaria -ideologica o conservatrice, ottusa o ostinata, del tutto indifferente o cieca di fronte alle reali condizioni prevalenti sul terreno, dell’opinione pubblica occidentale e della sua stolta diplomazia-, crede ancora come possibile esito del conflitto.

il manifesto, 1 marzo 2017, con postilla

Due buchi neri dove scompaiono i bambini migranti: prima in Libia, meta obbligata della fuga dall’Africa; dopo in Europa tra prostituzione e lavoro nero. È il calvario attraverso cui passano, da invisibili, decine di migliaia di minori diretti in territorio europeo.

L’ultimo rapporto Unucef, basato su interviste a 82 donne e 40 bambini, dà numeri scioccanti: 23.846 bambini sono arrivati in Italia lo scorso anno, il 90% non accompagnati; tre quarti ha subito violenze mentre si trovava in Libia, la metà abusi sessuali ripetuti; un terzo denuncia abusi da parte di «uomini in uniforme»; 23mila sono attualmente nel paese nordafricano in centri di detenzione, con 28mila donne; 8mila quelli che in Italia sono rimasti intrappolati nelle maglie della criminalità; 700 morti in mare. Numeri enormi ma sicuramente sottostimati: potrebbero essere tre volte tanto.

E, una volta arrivati a destinazione, inizia un altro calvario: senza una protezione reale e continuativa, il rischio di finire nelle mani di altri trafficanti di uomini è altissimo. Prostituzione, piccola criminalità, spaccio, lavoro minorile. E l’utopia di una vita migliore che evapora.

In Europa arrivano soli per tanti motivi, spiega la direttrice regionale di Unicef, Afshan Khan: perché sono orfani di guerra o di Ebola, perché hanno visto morire i genitori nella traversata del Mediterraneo o del deserto, perché mandati ad aprire la strada all’arrivo della famiglia.

«Il mediterraneo centrale dal Nord Africa all’Europa è una delle tratte più letali e pericolose per bambini e donne – aggiunge Khan – È per lo più controllata da trafficanti, contrabbandieri». E da un giro d’affari di milioni di euro che spesso finanzia i gruppi jihadisti.

Dall'Africa centrale, la prima tappa è la Libia, un non-Stato devastato dall’intervento Nato del 2011 e che oggi perpetua il modello di “gestione” dei migranti già attivo sotto Gheddafi e l’accordo bilaterale con l’Italia di Berlusconi: i bambini finiscono in uno dei 34 centri di detenzione per migranti identificati dall’agenzia Onu, dieci in più dei 24 governativi ufficiali, quasi tutti nel nord del paese.

Ma è impossibile calcolare il vero numero di prigioni – specifica l’Unicef – gestite da milizie armate e non dal governo di unità di al-Sarraj che ha il controllo solo di una parte della Tripolitania.

Restano lì per mesi, anni, abusati e a volte costretti a prostituirsi o a lavorare, prima di riuscire a raggiungere la costa: «Sono qui da nove mesi. Ci trattano come galline. Ci picchiano, non ci danno abbastanza acqua e cibo – la testimonianze di Jon, 14 anni, fuggito da solo dalla Nigeria e da Boko Haram e ancora detenuto in Libia – Tanta gente muore lì, per le malattie o il freddo».

Nei giorni scorsi sul Guardian sono comparse le storie di ragazze nigeriane costrette a prostituirsi per pagare il resto del viaggio, i mille km che dividono il confine sud della Libia dalla costa. Molte di loro non riescono a pagare l’intero viaggio subito, ma contraggono debiti. È il sistema del pay as you go, paghi mentre vai: migliaia di dollari di debiti “coperti” con il proprio corpo, ad ogni checkpoint attraversato.

Quei centri di detenzione, dopo gli accordi siglati dal governo italiano e da quello di Tripoli e applaudito dall’Unione Europea, in molti casi non sono un incubo del passato: con la guardia costiera libica investita del ruolo di cane da guardia (pattugliare la costa, bloccare i migranti, riportarli in Libia, deportarli in Africa), la probabilità di tornarci è elevata.

Al contrario, è inesistente la possibilità per organismi internazionali di visitare i centri non ufficiali, in mano a signori della guerra, tribù armate, milizie. Off limits anche la metà dei centri del governo di Tripoli. E in quelli visionati mancano cibo, coperte, medicine, i migranti sono costretti in celle di due metri2 in cui vengono ammassate fino a 20 persone.

«I contrabbandieri stanno vincendo – spiega la vice direttrice di Unicef, Justin Forsyth – Questo accade quando non ci sono alternative legali e sicure per chiedere asilo in Europa». Non solo Italia: se è difficile fare stime realistiche, ci si può rifare ai dati Europol del 2015 che parlavano di 10mila bambini migranti scomparsi, a quelli di Roma che calcolava 6.500 minori non rintracciabili nei primi 10 mesi del 2016 e a quelli di Berlino che ha perso le tracce di 9mila bambini.

Dove finiscono? Nelle mani di altri mercanti di uomini.

Non è vero che "stanno vincendo" i mercanti e sfruttatori di schiavi bambini. Hanno già vinto, vinto l'esatto giorno (sarebbe interessante rintracciarne la data ,e i responsabili) quando ci si è rifiutati di realizzare percorsi sicuri per gli esuli perchè sfrattati dalle guerre, dalla miseria, dalla caereatia e dagli altri guasti procurati da uno sviluppo fondato sullo sfruttamento della natura e dell'uomo
«Il premier israeliano lo avrebbe ribadito durante un colloquio con la ministra degli esteri australiana Bishop. Intanto torna la tensione a Gaza. L'aviazione israeliana colpisce obiettivi di Hamas dopo il lancio di un razzo».Nell'icona bomba israeliana a Gaza.

il manifesto, 28 febbraio 2017

È uno Stato a sovranità limitata – una sorta di Portorico del Medio Oriente? – quello che Benyamin Netanyahu ha in mente per i palestinesi, in ciò resterà della Cisgiordania dopo le prossime ondate espansive degli insediamenti israeliani. Secondo Radio Israele è, più o meno, questo che il premier israeliano ha spiegato alla ministra degli esteri australiana Julie Bishop che gli aveva chiesto cosa intendesse quando parla di sostegno a uno “Stato palestinese”. Netanyahu, in visita ufficiale per quattro in Australia, ha aggiunto che l’insistenza di Israele a mantenere il controllo di sicurezza di tutta l’area deriva dai “fallimenti” delle forze internazionali chiamate ai confini del Paese. E non è passata inosservata la mancanza di riferimenti alla soluzione dei Due Stati nella dichiarazione rilasciata dal primo ministro al termine dell’incontro con il suo omologo australiano Malcom Turnbull.

Netanyahu parla sempre più spesso di uno Stato palestinese “minus”, senza sovranità reale. Il via libera di Donald Trump a soluzioni “alternative” ai Due Stati ha galvanizzato il premier israeliano, spingendolo a fare una retromarcia parziale rispetto al riconoscimento che fece nel 2009 del diritto dei palestinesi all’indipendenza. In questo modo non deve rimangiarsi – come gli chiede la destra religiosa, “Casa ebraica” – quanto affermò otto anni fa e allo stesso tempo può teorizzare uno Stato-non Stato arabo tra Israele e la Valle del Giordano, ottenendo qualche iniziale ma importante consenso sulla scena internazionale. Netanyahu perciò torna alla sua teoria, resa esplicita in un editoriale apparso una ventina di anni fa sulla stampa americana – una sorta di orazione funebre degli Accordi di Oslo che lui stesso aveva contribuito ad affossare durante i suoi primi tre anni da premier (1996-99) -, sull’impossibilità per alcuni popoli di conquistare la piena autodeterminazione se ciò mette in pericolo la sicurezza di un altro popolo. Unico cruccio per il premier, almeno a dar credito a quanto riferiva ieri sera il giornale Haaretz, l’assenza, per il momento, di un accordo con Trump sulle colonie.

Le indiscrezioni della radio israeliana sul contenuto del colloquio tra Netanyahu e la ministra australiana Bishop sono giunte mentre a Ginevra il presidente palestinese Abu Mazen si rivolgeva ai rappresentanti dei Paesi nel Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani per denunciare quello che ha descritto come il tentativo di Israele di imporre un sistema di apartheid. Ha quindi lanciato un appello per la difesa del principio dei Due Stati e a stabilire un regime di protezione internazionale che garantisca la fine della «violazione dei diritti fondamentali» del popolo palestinese. Dopo aver denunciato il terrorismo, Abu Mazen ha ribadito la «piena disponibilità a lavorare in un spirito positivo», anche con l’AmministrazioneTrump. Disponibilità destinata a cadere nel vuoto secondo le previsioni degli analisti palestinesi e di quei settori del partito Fatah e dell’Autorità nazionale palestinese che non condividono la linea “soft” scelta da Abu Mazen nei confronti della nuova Amministrazione Usa che si mostra apertamente schierata dalla parte di Tel Aviv e disinteressata ad un accordo israelo-palestinese fondato sulle legalità internazionale.

Spirano di nuovo i venti di guerra lungo le linee tra Israele e Gaza. Ieri al lancio di un razzo da parte di un gruppo salafita verso Israele – dove è caduto senza fare danni – le forze armate dello Stato ebraico hanno reagito colpendo nell’arco di due ore cinque presunti obiettivi di Hamas e del Jihad Islami a Gaza. Almeno quattro i feriti palestinesi. In serata Hamas e Israele si sono accusati reciprocamente di essere responsabili della escalation. A Gaza c’è un nuovo leader di Hamas. Si tratta di Yahya Sinwar, un esponente dell’ala militare, Ezzedin al-Qassam. Con ogni probabilità Israele ieri ha cercato di sottoporlo a un primo banco di prova per valutarne le reazioni. La risposta del movimento islamico però non è stata diversa da quella assunta in passato in circostanze simili: condanna degli attacchi israeliana senza però rispondere militarmente. Da parte sua il ministro israeliano della difesa, Avigdor Lieberman ha spiegato che Israele non ha intenzione di avviare campagne militari a Gaza. Ma – ha aggiunto – «non saremo nemmeno disposti ad accettare lanci sporadici di razzi».

C'è qualche luogo in Italia dove i fragili e i diversi sono accolti perchè sono una ricchezza. Residui di un passato migliore o germi di un futuro meno disumano? dipende anche da noi.

il manifesto, 25 febbraio 2017

«Come fate a vivere senza documenti? Se vi chiappano i carabinieri, vi rimbarcano in Africa». Con ingenuo stupore Benito, uno dei reporter, uno degli ospiti della "comunità XXIV luglio handicappati e non» che si sono improvvisati giornalisti e hanno girato con un pulmino nelle comunità d’accoglienza dei migranti, fa domande, chiede agli anziani dei paesi, riflette coi compagni e si confronta con questi ragazzi stranieri venuti dal mare.

«Siete del Bangladesh? E addò sta il Bangladesh?», «Fate il Ratatan? No, si chiama Ramadan, un mese di digiuno per osservanza religiosa». La faccia del paese migliore, quello dove due fragilità – i disabili e gli immigrati- si incontrano e s’interrogano, abbattendo i pregiudizi. L’Italia di questi piccoli paesi, dove l’accoglienza ha radici antiche ed è un gesto di arricchimento culturale.

La XXIV luglio è una onlus dell’Aquila, attiva da oltre quarant’anni, che utilizza il teatro, la fotografia e altre forme di comunicazione nel percorso di riabilitazione. Nata come attività di reportage audiovisivo (con l’assistenza di volontari videomaker professionisti), un viaggio durato una settimana tra i paesi dell’Appennino (Marche, Molise e Abruzzo,) incontrando maghrebini e africani, asiatici e profughi.

Ora è un doc I migrati, diretto da Francesco Paolucci, che andrà in onda stasera alle 23.50 su Tg2Dossier e domani alle 19.20 su Tv2000. Uno sguardo ravvicinato e curioso verso questi nuovi cittadini che provano a inserirsi nella società, a dimenticare un passato fatto di guerre, privazioni e violenze. «Sono stati quattro giorni in mare, l’esperienza più terribile che mi è capitata, prima il viaggio passando per Sudan, Egitto e Libia, qui voglio rifarmi una vita» racconta una ragazza somala, accolta in una di queste cooperative solidali che si avvalgono dell’aiuto di mediatori culturali.

I quattro cronisti di giornata – Benito, Barbara, Gianluca e Giovanni – chiedono agli abitanti se gli stranieri si sono integrati nella vita del paese. «Ma questi ragazzi, la sera, se ne vanno fuori a bere un aperitivo, una birra?». E restano sorpresi del divieto di consumare alcol, per motivi religiosi. Le situazioni sono molto più semplici e gestibili, dando un carattere leggero e piacevole a tutta la vicenda dove si lavora per l’apprendimento dell’italiano, tra giochi linguistici e indovinelli metafisici.

Il FattoQuotidiano online, 23 febbraio 2017 (p.s.)

Nonostante lo spirito combattivo, alla fine i migliaia di membri della tribù di indiani Sioux di Standing Rock che si opponevano al passaggio di un oleodotto sul territorio della loro riserva, nel North Dakota, hanno perso la loro battaglia. Lo sgombero definitivo dell’accampamento allestito da quasi un anno dagli indigeni, insieme a molti ecologisti, sarà avviato e completato da parte delle autorità statunitensi. Sioux e attivisti non hanno rinunciato a lottare fino all’ultimo: dieci persone sono state fermate, perché stavano cercando di impedire l’accesso degli agenti nell’accampamento. Prima dell’arrivo delle autorità, gli attivisti hanno appiccato una ventina di fuochi come ‘cerimonia di addio’.

Finisce così una battaglia che solo a dicembre sembrava ormai vinta dagli Sioux. A fine 2016 Barack Obama aveva deciso di non concedere all’azienda costruttrice il permesso di realizzare l’opera, per la quale era stato studiato un percorso alternativo. Ma già allora Donald Trump aveva avvertito: «Deciderò io». Così ha fatto: lo scorso 7 febbraio ha annunciato di essere pronto a consentire la costruzione dell’oleodotto attraverso il fiume Missouri e il lago Oahe nel North Dakota. Il 24 gennaio il presidente ha firmato due ordini esecutivi per rilanciare il Dakota Access e l’altro oleodotto contestato, il Keystone XL, a sua volta bloccato da Obama per timori di danni ambientali.

L’oleodotto dovrebbe correre per quasi 2mila chilometri e attraversare quattro Stati per portare il greggio alle raffinerie dell’Illinois. Indiani e attivisti contestano da mesi il progetto, spiegando che la parte sottomarina del tracciato mette a rischio il bacino idrico delle comunità, senza contare la violazione di terreni e luoghi sacri Sioux. Nonostante le proteste, la tribù nulla ha potuto contro quest’ultima decisione di Trump. E ancora una volta è stata costretta ad abbandonare la propria terra.

a Repubblica online, ed. Milano, 23 febbraio 2017


LaLega Nord è stata condannata per il reato di discriminazione, per aver usato iltermine 'clandestini' per indicare quelli che, a termini di legge, sono invece'richiedenti asilo'. Lo stabilisce una sentenza del giudice Martina Flaminidella prima sezione civile del tribunale ordinario di Milano, che ha condannatola Lega a pagare 10mila euro di danni (oltre a 4mila euro di spese processuali)"per il carattere discriminatorio e denigratorio dell'espressioneclandestini” contenuta nei manifesti affissi nell'aprile scorso a Saronno. Unasentenza che potrebbe creare un precedente, visto che a partire dal segretarioMatteo Salvini, molti esponenti del Carroccio definiscono i profughi come'clandestini'.


Il processo - intentato da Asgi e Naga, due associazioni di volontariato -nasce da una vicenda del Comune brianzolo di Saronno,dove l'anno scorso la Caritas locale aveva chiesto al Comune - guidato dalsindaco leghista Alessandro Fagioli - le autorizzazioni per ospitare in unconvento di suore 32 rifugiati. Il sindaco Fagioli aveva negato i permessi erilasciato dichiarazioni trancianti contro i migranti:"Non voglio africani maschi vicino alle scuole dove vanno le nostrestudentesse", aveva detto per motivare la sua opposizione. La sezionelocale della Lega, il giorno dopo, aveva tappezzato il paese di manifesticontro i profughi, etichettandoli come 'clandestini' . La giudice spieganell'ordinanza che "Il termine 'clandestino' ha una valenza denigratoria eviene utilizzato come emblema di negatività", poiché"contraddistingue il comportamento delittuoso (punito con unacontravvenzione) di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato,in violazione delle disposizioni del Testo Unico sull’immigrazione".
"Conl’epiteto di 'clandestino' - spiega la sentenza pubblicata ieri - si fachiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorionazionale, ed è idoneo a creare un clima intimidatorio (implicitamenteavallando l’idea che i 'clandestini', non regolarmente soggiornanti in Italia,devono allontanarsi)". La giudice sottolinea che "contrariamenterispetto a quanto indicato nei manifesti per cui è causa, i 32 'clandestini'sono persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Statoitaliano di riconoscere loro la protezione internazionale". E aggiunge:"Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano,perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischioeffettivo in caso di rientro nel paese d’origine di subire un grave danno, nonpossono considerarsi irregolari e non sono, dunque, 'clandestini'". Chiaffibbia loro quell'aggettivo, punta a discriminare persone che sono "infuga per motivi di persecuzione" e a creare nei loro confronti un clima dipregiudizi

Nellasentenza si fa riferimento alle frasi scritte sui 70 manifesti affissi aSaronno (dove poi il dormitorio per i profughi non è mai stato aperto):"L’espressione 'clandestini', evocando l’idea di persone irregolarmentepresenti sul territorio nazionale – alle quali viene pagato “vitto, alloggio evizi”, a costo di grandi sacrifici chiesti ai cittadini di Saronno, ai quali,invece, vengono tagliate le pensioni e aumentate le tasse – veicola l’ideafortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per icittadini". Dunque, "emerge con chiarezza la valenza gravementeoffensiva e umiliante di tale espressione, che ha l’effetto non solo di violarela dignità degli stranieri, richiedenti asilo, appartenenti ad etnie diverse daquelle dei cittadini italiani, ma altresì di favorire un clima intimidatorio eostile nei loro confronti".

La Lega è stata condannata anche a pubblicareil provvedimento sui suoi siti Internet istituzionali, sulla Padania e sualcuni quotidiani nazionali per bilanciare gli effetti "dell'elevatocontenuto discriminatorio delle espressioni contenute nei manifesti, della loroportata denigratoria, della loro idoneità a creare un clima fortemente ostilenei confronti dei richiedenti asilo".Soddisfatti gli avvocati ricorrentiper conto di Asgi (Associazione studi giudirici sull'immigrazione) e Naga:"Questa sentenza mette un punto fermo nell’uso comune del termine'clandestino' del linguaggio politico nei confronti dei richiedenti asilo -sottolineano Albero Guariso e Livio Neri - chiarendo che non è lecito allapolitica farlo con lo scopo di suscitare un clima che impedisca l’inserimentodei rifugiati nella collettività".

«Diritti umani. Esce il rapporto 2017: Europa e Italia sotto accusa per i migranti, Trump nel mirino. La violazione dei diritti umani tocca la quasi totalità dei paesi. Le parole chiave della deriva: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri».

il manifesto, 23 febbraio 2017 (c.m.c.)

Come un gambero il mondo va all’indietro: ripiombato in un buio clima da anni Trenta, diviso con l’accetta nell’inquietante binomio “noi” e “loro”, permeato di populismo razzista che lambisce il fascismo.

Il quadro che emerge dal Rapporto 2017 di Amnesty International è allarmante perché smonta l’impalcatura di falsa democrazia che l’Occidente – esperto “esportatore” – ha sempre usato per distanziarsi dalla funzionale categoria degli Stati canaglia.

La violazione dei diritti umani si allarga a macchia d’olio, tocca la quasi totalità dei paesi del mondo (159 quelli analizzati). Le parole chiave della deriva si accavallano: rifugiati, torture, sparizioni forzate, autoritarismi, muri.

Come si accavallano i nomi di chi oggi rappresenta «un mondo martoriato da una distruzione di vita e beni senza precedenti negli ultimi 70 anni»: Trump, Duterte, Erdogan, al-Sisi, Orbán.

Qualche numero: in 23 Stati sono stati commessi crimini di guerra, in metà si pratica la tortura, in 22 sono stati uccisi difensori dei diritti umani e in 36 è stato violato il diritto internazionale in materia di richiesta d’asilo.

Sullo sfondo un clima di razzismo strisciante che divide gli esseri umani in etnie, confessioni, razze e che riguarda anche l’Italia: «Esiste una retorica di divisione alimentata dal alcuni leader politici come Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia», dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia.

Una retorica che entra nell’amministrazione italiana e europea, fisicamente visibile nei muri e i lacrimogeni che accolgono i migranti in fuga e nei pacchetti di aiuti miliardari a paesi che violano palesemente i diritti umani.

Nel mirino di Amnesty finiscono gli accordi sui migranti siglati da Roma e Bruxelles, fatti di Cie, maltrattamenti, respingimenti in violazione del diritto d’asilo, morti in mare: «L’applicazione da parte delle autorità italiane dell’approccio hotspot europeo – si legge nel rapporto – ha portato a casi di uso eccessivo della forza, detenzione arbitraria e espulsioni collettive».

Non si salva la Francia chiamata in causa per quattro estensioni dello stato di emergenza e attacchi come lo sgombero della “giungla” di Calais. Né si salva la Ue che con Ankara ha siglato un accordo che prevede la deportazione dei nuovi arrivati (senza valutarne l’eventuale diritto d’asilo) sulla base della definizione della Turchia come «paese sicuro».

Un «paese sicuro» in cui è in corso una guerra contro i kurdi, due milioni di rifugiati vivono in campi profughi o per le strade delle grandi città senza opportunità di integrazione, 10 parlamentari sono in prigione insieme a 150 giornalisti.

E tale pare essere la definizione che tocca alla Libia, destinataria di un altro accordo seppur divisa in parlamenti rivali, preda di milizie armate e nota per il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione nel deserto.

Mentre si raccoglievano le spoglie delle 74 vittime dell’ultimo naufragio sulle coste della città di Zawiya, il ministro degli Interni Minniti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza presentava il memorandum libico come modello di un progetto strategico per l’Africa: «Abbiamo fatto un accordo importante con il Niger, più di recente con la Tunisia e firmato un memorandum con la Libia. L’idea è che l’Italia possa svolgere il ruolo di paese apripista».

L’«emergenza migranti», evento epocale che sveste l’Europa di decenni di presunta cultura di pace e accoglienza, si inserisce in un più vasto imbarbarimento dei discorsi promossi da movimenti xenofobi e di ultradestra che puntano a farsi (o si sono già fatti) governo.

Il linguaggio cambia e plasma la dicotomia noi/loro, rintracciabile nelle politiche dell’amministrazione Trump o del governo ungherese di Orbán.

«Il cinico uso della narrativa del noi contro loro, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta – scrive Salil Shetty, segretario generale di Amnesty – Un numero elevato di politici risponde ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie».

Una manipolazione che investe di riflesso la rete di alleanze globali ed erge a colonne portanti della lotta al terrorismo islamista regimi di stampo autoritario.

Ce lo ricorda Giulio Regeni, vittima della pervasiva macchina della repressione egiziana che oggi ripropone ad un livello ancora peggiore le stesse politiche dell’era Mubarak: torture, sparizioni forzate, omicidi extragiudiziali, soffocamento della società civile sono pratiche ormai sistematiche.

L’elenco potrebbe continuare: le Filippine di Duterte e i 7mila omicidi giustificati con la lotta al traffico di droga; le bombe saudite in Yemen; la legge sulla sorveglianza di massa del Regno Unito; gli attacchi in Polonia ai diritti di donne e Lgbti; il fuoco che ha distrutto centinaia di villaggi in Darfur; la pratica israeliana dello “spara per uccidere” e la strutturale confisca di terre palestinesi da parte di Tel Aviv.

E, compiendo un giro completo, si torna all’Italia. Amnesty rilancia la lettera inviata con Antigone, A Buon Diritto e Cittadianzattiva al ministro della Giustizia Orlando: Roma introduca il reato di tortura.

Un episodio significativo della prima guerra nel Medio Oriente. «La storia di Issa Amro che insegna la speranza ai ragazzi palestinesi e ora rischia di andare in carcere».

la Repubblica, 22 febbraio 2017

Da mesi Issa Amro, nato nella città di Hebron e illustre sostenitore palestinese della resistenza non violenta, aspetta di sapere quando sarà processato e giudicato da un tribunale militare israeliano. È stato accusato di una serie di reati che vanno dalla partecipazione a manifestazioni non organizzate all’“offesa a un soldato”. Le due accuse più gravi a suo carico parlano di aggressione a una coppia di militari e al coordinatore per la sicurezza di un insediamento. In entrambi i casi, risalenti il primo al 2010 e il secondo al 2013, l’esercito afferma che Amro ha preso a spintoni i suoi antagonisti. Amro respinge le accuse e fa notare che in entrambi i casi è stato lui a subire conseguenze fisiche.

Le forme di crudeltà insensata sono del tutto comuni nella vita nei territori occupati, ma da nessuna parte sono più frequenti che a Hebron. al checkpoint e ha trovato la ragazza rannicchiata e tremante. Si è inginocchiato accanto a lei e le ha parlato, dicendole che se avesse cercato di pugnalare un soldato sarebbe morta di sicuro. Lei ha risposto «non mi interessa, tanto per me non c’è speranza ». Amro le ha allora fatto presente che la sua morte non avrebbe aiutato la Palestina e che la sua comunità aveva bisogno di lei. Le ha parlato dei molti modi con i quali ci si può opporre a un’occupazione senza far ricorso alla violenza. «Non mi ha creduto » ricorda Amro, «ma ho iniziato a farle un esempio dietro l’altro ». Alla fine lei gli ha consegnato il coltello e lui l’ha affidata alla polizia palestinese. Da allora Amro ha ricevuto altre chiamate di aiuto per sventare atti violenti. Tra gli altri casi, c’è stato anche quello di una giovane donna che gli ha scritto su Facebook dicendo di volersi armare di coltello e andare incontro al martirio per il bene della causa palestinese. Anche in questo caso, Amro è riuscito a farle cambiare idea perorando la causa della non violenza: ha subito contattato gli amici della giovane, che sono riusciti a fermarla.

Questo dunque è l’uomo che ora rischia di scontare una lunga condanna in un carcere militare israeliano per reati che comprendono un battibecco da scuola infantile con parole che non ha mai pronunciato e un’aggressione della quale dice che non avrebbe potuto macchiarsi. L’accusa deve ancora rispondere alla mozione presentata dal suo avvocato di far cadere quattordici delle diciotto imputazioni a suo carico, sulla base di un “abuso di giustizia” e del fatto che esse sono state criticate da più parti.

-Murale di Banky sul Muro a Behit Sahour

Agli occhi del mondo l’impegno di Amro per la non violenza lo ha reso un portavoce di particolare rilievo e visibilità per il suo popolo. L’anno scorso ha ricevuto le visite di alcuni membri del Congresso americano e, pur essendo imminente la data originaria fissata per il suo processo, è andato in Belgio dove ha conosciuto il presidente del Parlamento europeo e ha preso la parola davanti all’assemblea dei parlamentari.
Esistono palestinesi che uccidono, che indossano giubbotti imbottiti di esplosivo per farsi saltare in aria, usano autobombe, aggrediscono a coltellate soldati e civili israeliani.

Issa Amro non appartiene a questa categoria: al contrario, il suo impegno nei confronti del movimento che considera la resistenza non violenta l’unica strada percorribile per indurre un cambiamento duraturo, è la migliore speranza di pace per palestinesi e israeliani.Se Israele perseguita e persegue penalmente organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese non resterà nessun modello al quale fare riferimento per capire come dissipare frustrazione e disperazione. Gli unici rimasti saranno come Mohammad Tarayreh, che il 30 giugno 2016 si è intrufolato nell’insediamento di Kiryat Arba alla periferia di Hebron, ha fatto irruzione nella camera da letto di Hallel Yaffa Ariel, una tredicenne israeliana, e l’ha pugnalata a morte. A furia di incatenare il pugno alzato della resistenza, lasceranno libera soltanto la mano che impugna il coltello.

© 2017, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti

Sta per uscire un libro su un tema che ci sta molto a cuore: l'accoglienza delle moltitudini degli "sfrattati dallo sviluppo". Si chiama

La città e l'accoglienza e raccoglie testi di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, Enzo Scandurra. Gli autori ci hanno concesso di pubblicare in anteprima la loro introduzione. Li ringraziamo


Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia, Enzo Scandurra, La città e l’accoglienza, manifestolibri, Roma, 2017

Un Popolo Nuovo arriva alla frontiera della civilissima Europa. Un Popolo composto dai “dannati della Terra”; da coloro che non hanno più nulla da perdere perché hanno perso tutto. Parte da lontano: dalla sponda sud del Mediterraneo e, prima ancora, dai paesi dell’Africa. Attraversa deserti, fiumi e mari; abbandona alle proprie spalle luoghi di morte: rovine in fiamme, terre desertificate dal furore predatorio del modello occidentale. All’Europa presenta il conto da pagare per gli anni di benessere da essa goduto estraendo ricchezze dai loro territori.

Nelle città europee, un tempo luoghi di accoglienza e di ibridazioni etniche, sociali, religiose, si alzano muri per fermarne il cammino, per arrestarne la marcia silenziosa. Così la Fortezza-Europa pensa di difendere se stessa dall’“invasione”. Fuori da quei muri ci sono loro, i nuovi barbari, che fuggono da terre devastate; dentro quei muri i cittadini che hanno goduto dei dividendi provenienti dalle loro terre. Solo governi miopi e terrorizzati di perdere i loro antichi (e attuali) privilegi possono pensare di fermarli. L’Europa rischia la barbarie poiché si mostra incapace di affrontare la crisi da essa stessa provocata, il nuovo disordine mondiale prodotto dalla sua politica coloniale. I governi degli stati nazionali sono divisi e imbelli, tenacemente decisi a difendere una identità nazionale figlia di “mille letti” e spazzata via dalla Globalizzazione.

L’Europa disporrebbe di strumenti assai più efficaci per disinnescare il conflitto che non l’erezione di muri. Si chiamano: accoglienza, diritti, libertà, riconoscimento dell’alterità. E invece l’Europa non ha saputo fare altro che riscoprire il valore del “confine” compiendo un pericoloso passo indietro rispetto alle questioni di inclusione e di libera circolazione.

Dagli anni Novanta si è assistito in tutte le città del mondo, con intensità variabile, a un processo di deregolamentazione che ha fiancheggiato la privatizzazione di intere parti di città. La città è diventata il luogo dove si manifestano e si concretizzano logiche finanziarie il cui obiettivo non è migliorare le sue condizioni di vivibilità, ma aumentare i profitti d’impresa.

Questo libro, scritto da urbanisti, nasce per sostenere una tesi opposta alla tendenza in atto che vede la città farsi fortezza contro il “diverso”. La nascita e lo sviluppo delle città europee ci parla di un’altra storia dove il meticciato di lingue ed etnie, insieme al dovere dell’accoglienza, caratterizzavano lo splendore delle città e la loro solidità civile. Ricordare questa lunga storia non è oziosa operazione accademica: essa sola può aiutarci a costruire un futuro di pace considerando i nuovi transiti e le nuove migrazioni anziché fenomeni da demonizzare e da cui difenderci, occasioni di un nuovo vivere insieme e di ripensare l’idea stessa di città moderna.Perché la storia ci insegna che le nostre città sono l’esito di complessi e straordinari processi d’interazione e di scambio tra componenti culturali eterogenee. È grazie a questi processi, prodotti dall’incontro-scontro di differenze, che esse hanno acquisito la forma attuale sussumendo i diversi modi dell’essere insieme e di costruire beni comuni.

È noto come la storia d’Italia negli ultimi secoli del Medioevo coincida con quella delle sue città, le quali furono, fra l’xi e il xii secolo, caratterizzate da un grande dinamismo demografico ed economico. Nell’ambito di questo sviluppo, le comunità urbane erano costituite da persone tra loro molto diverse: mercanti, immigrati dal contado, operai, artigiani, religiosi, studenti universitari, forestieri, mendicanti e proprietari di grandi fortune. Facevano parte di questa comunità anche gli appartenenti a etnie e a confessioni religiose minoritarie, come gli ebrei, i musulmani, i greci, tutelati da uno stato giuridico particolare.

Il carattere accogliente e ospitale che risale alle origini della città e ne costituisce l’essenza profonda, attraversa la lunga storia urbana e ricorre negli statuti delle città europee.

Lo possiamo osservare, oltre che nei processi che hanno contribuito a generare le città, nelle stesse architetture dedicate all’accoglienza, a lungo considerata atto dovuto e, soprattutto, gratuito: dall’ospitalità caritatevole di matrice ecclesiastica, nell’alto medioevo, all’accoglienza laica inquadrabile nel fenomeno della «religione civica» delle città comunali.

Già dal v secolo le città si dotano di architetture deputate all’accoglienza: xenodochia, hospitia, foresterie. Ricoveri sorgeranno presso le sedi vescovili nel cuore della città, nei monasteri esterni alle mura, lungo le vie di pellegrinaggio e sui valichi montani.

Secoli dopo, le libere città comunali rappresentano una concreta possibilità di miglioramento delle condizioni di vita dei “servi villatici”, in fuga dal contado: dietro le mura di cinta la vendetta dei loro signori non avrebbe potuto raggiungerli («l’aria della città rende liberi»). In quest’epoca, presso il ceto che oggi definiremmo “dirigente”, si diffonde l’aspirazione alla fondazione di monasteri, cappelle e, non ultimi, di ospedali. Le città europee conoscono così un’ondata di fondazioni di case di mendicità nelle quali trovano rifugio: pauperes, peregrini, transeuntes, mulieres in partu agentes, parvuli a patribus et matribus derelicti, debiles et claudi, generaliter omnes.

Oggi siamo di fronte a un processo di occupazione e privatizzazione delle città ad opera di gruppi economici e finanziari che promuovono politiche urbane che massimizzano profitti e producono nuove povertà, a tal punto che è lecito chiedersi: di chi è la città?

E tuttavia, alle porte delle nostre città chiamate postmoderne, si affaccia un mondo composto di persone in movimento, di soggettività fluide, di alterità, dei diversi e non assimilabili. La moltiplicazione e l’intensificazione dei flussi migratori agisce da contrappeso alla privatizzazione e, anzi, la contrasta. Le città ridiventano incroci di progetti di vita che producono nuovi spazi pubblici conseguenti alle pratiche di scambio messe in azione dai migranti e quelle di supporto ai diversi progetti migratori: le pratiche di mutuo-aiuto dei migranti e quelle delle società ospitanti. Locale e globale s’intrecciano e interagiscono in forme sconosciute nelle epoche precedenti producendo, nelle città, nuove centralità, nuovi e inediti luoghi di incontro, luoghi-sosta di radicamenti dinamici e di mobilità multiformi, luoghi-intersezione di nomadismi che cortocircuitano la dimensione locale e quella globale.

Il tradizionale rapporto comunità/territorio tende a modificarsi. La rottura dei legami e dei vincoli tradizionali delinea ora un’idea diversa di comunità: permeabile, mutevole, instabile, che oggi si riconosce in una polifonia di forme e sfumature differenti. La figura del migrante non annuncia la morte della comunità. Se i movimenti migratori producono, da una parte, de-territorializzazione in quanto scompaginano assetti geopolitici, configurazioni di potere e strutturazioni sociali consolidate, allo stesso tempo sono anche agenti di ri-territorializzazione poiché riconfigurano inedite forme comunitarie, costruiscono nuove grammatiche spaziali e inediti radicamenti territoriali.

L’annullamento della logica identitaria può diventare, dunque, il presupposto operativo per un rinnovato umanesimo antropologico che ritrova proprio nella città il suo terreno originario.

Gli Autori

Anche negli Usa di Donald D. Trump, contro chi vuole distruggere le conquiste di un passato migliore del presente, la parola d'ordine è la stessa: resistere, resistere, resistere.

Huffington Post, 20 febbraio 2017

A un mese esatto dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz pubblica sul Guardian una riflessione su come sopravvivere all’era Trump senza diventare ciechi e sordi di fronte a violazioni dello stato di diritto che si annunciano continue. In una parola: resistere. Senza mai abbassare la guardia, resistere. Senza stancarsi, resistere.

Scrive Stiglitz:

«Se c’è un risvolto positivo nella nube Trump, è un nuovo senso di solidarietà su valori fondamentali come tolleranza ed eguaglianza, sostenuto dalla consapevolezza dell’intolleranza e della misoginia, sia nascoste che evidenti, incarnate da Trump e dal suo team. E questo senso di unità è diventato globale, con Trump e i suoi alleati che stanno riscontrando rifiuto e proteste in tutto il mondo diplomatico».

Il premio Nobel , che oggi insegna alla Columbia University, porta l’esempio dell’American Civil Liberties Union (Unione Americana per le Libertà Civili) che – “avendo anticipato che Trump avrebbe presto calpestato i diritti individuali – si è mostrata più preparata che mai a difendere principi chiave della Costituzione come il giusto processo, l’equale protezione e la neutralità ufficiale riguardo alla religione. Nei mesi scorsi – sottolinea Stiglitz – gli americani hanno supportato l’organizzazione con milioni di dollari di donazioni”.

«Allo stesso modo – continua l’autore de Il prezzo della diseguaglianza -, in giro per il Paese, dipendenti e consumatori hanno espresso la loro preoccupazione per amministratori delegati e consigli d’amministrazione che sostengono Trump”. Di fronte all’atteggiamento spesso opportunista e spregiudicato di investitori e vertici aziendali, spetta ai singoli il compito di “rimanere vigili e resistere, ove necessario».

Scrive ancora Stiglitz:

«Media di primo piano come The New York Times e The Washington Post hanno finora rifiutato di normalizzare la negazione di Trump dei valori americani. Non è normale per gli Stati Uniti avere un presidente che rigetta l’indipendenza dei giudici; rimpiazza i funzionari più esperti dell’esercito e dell’intelligence al cuore della legislazione sulla sicurezza nazionale con un fanatico dei media dell’estrema destra; e, di fronte all’ultimo test missilistico della Corea del Nord, promuove le iniziative imprenditoriali di sua figlia».

Tutto questo – conclude Stiglitz – non è normale né accettabile, ed è importante ricordarselo sempre per evitare di diventare “insensibili” a questi e altri abusi di potere.

«Una delle sfide più grandi di questa nuova era sarà restare vigili e resistere – ogni volta e in ogni luogo in cui sarà necessario».

«Hanno investito quote tra i 500 e i tremila euro ciascuno. Laici e cattolici insieme: "Affiancheremo le istituzioni"».

La Nuova Venezia, 17 febbraio 2017 (p.s.)

Marghera. Un gruppo di trentacinque persone e un obiettivo: comprare un appartamento per accogliere e ospitare, almeno in questa prima fase, i richiedenti asilo, i «fratelli profughi». E’ il loro modo di trasformare «lo sgomento in decisione e la compassione in azione diretta», spiegano i membri dell’associazione, ispirati dalle parole di Papa Francesco: «Quanta indifferenza e ostilità nei confronti dei fratelli profughi!». E da quelle del presidente Sergio Mattarella: «Io, con la mia famiglia e la mia comunità, cosa posso fare?».

L’appartamento dei migranti è il modo dei membri dell’associazione di praticare l’accoglienza diffusa, impegnandosi in prima persona. «Ognuno di noi», spiega Antonino Stinà, il presidente dell’associazione DiCasa, «ha messo una quota compresa tra 500 e 3000 euro come forma di prestito infruttifero all’associazione».

L’impegno di chi aderisce, partecipando all’associazione, è di vincolare il prestito per almeno tre anni trascorsi i quali l’associazione, in caso di richiesta, si impegna a restituire la somma nell’arco di un anno. In pochi mesi l’associazione è riuscita a raccogliere 80 mila euro, individuando un appartamento, a Marghera.

Nei prossimi giorni l’appuntamento dal notaio per il rogito e l’acquisto dell’abitazione mentre in primavera è previsto l’arrivo dei primi ospiti. L’appartamento verrà dato in comodato d’uso gratuito a una cooperativa vicina alla Caritas, tra quelle accreditate e autorizzate dalla prefettura di Venezia, e sarà la cooperativa ad occuparsi dell’accoglienza dei migranti, tra i quattro e i sei.

I soci dell’associazione DiCasa sono famiglie che abitano in città e che hanno deciso che era il momento di fare qualcosa, rimboccarsi le maniche. Tra i soci anche don Nandino Capovilla, parroco alla Cita di Marghera, molto impegnato sul fronte delle persone più bisognose: «Questo progetto è il sogno di un gruppo di persone, cattoliche e non, che si sono chieste: che cosa possiamo fare per questi fratelli?».

La nascita dell’associazione per l’acquisto della casa è stata la risposta. «Perché non ci si può lamentare e allo stesso tempo stare con le mani in mano», nota don Nandino.
L’esperienza di Marghera è anche la risposta a Cona, il maxi centro dove sono ospitati oltre mille migranti, anche per le ostilità di molti altri comuni del Veneziano che si oppongono ai trasferimenti, mettendosi di traverso alle indicazioni della prefettura.

«Dicono che le cooperative fanno soldi con i migranti? Non tutte le cooperative sono uguali, ci sono realtà e persone seriamente impegnate in progetti con piccoli numeri, che rendono più facile l’integrazione», aggiunge Stinà.

I volontari dell’associazione daranno ai profughi (e in particolare alle profughe e ai loro figli che, secondo la Prefettura di Venezia, sono l'attuale emergenza in quanto soggetti più deboli ancora) un tetto sotto il quale stare, ma cercheranno anche di stare loro vicino nella gestione della casa, oltre il lavoro degli operatori della cooperativa. «Li aiuteremo con la lingua, nei rapporto con il quartiere».

Che poi vuol dire imparare a fare la spesa, capire come funziona la raccolta differenziata, trovare la fermata giusta per andare a prendere l’autobus, conoscere il fornaio sotto casa. «Un investimento? Sì, nella giustizia, nell’accoglienza e nella solidarietà».

».

Lettera 43 online,15 febbraio 2017 (c.m.c.)

La Babele che si erge contro la stretta di Donald Trump sugli immigrati - oltre al muro annunciato e lo stop agli ingressi da sette Stati musulmani, un decreto che dal 26 gennaio 2017 ne autorizza gli arresti sommari - è composta da centinaia tra grandi città e centri minori americani sparsi in quasi tutti gli States della federazione: una realtà che, per agire in modo democratico, il nuovo presidente degli Usa dovrebbe considerare, anche solo per rispettare la maggioranza della popolazione (quasi 3 milioni di elettori in più per Hillary Clinton, se Oltreoceano si votasse secondo la regola “una testa un voto”) che non lo vuole alla Casa Bianca.

Donald le smantella? New York, San Francisco, Chicago, Seattle, ma anche Detroit, Dallas e Tampa negli Stati roccaforte dei repubblicani, la capitale dell'Alabama Birmingham e una miriade di altri Comuni locali. Sono circa 200 le «città-santuario» degli Usa, una trentina quelle più grandi, che, dal loro gran rifiuto nel 1996 alla Legge sull'immigrazione dell'Amministrazione democratica di Bill Clinton sull'aumento delle espulsioni, tengono orgogliosamente aperte le porte agli stranieri irregolari sul territorio. Barack Obama, e prima di lui anche Bush figlio, le avevano nel complesso tollerate. Trump le vuole smantellare, tagliando loro miliardi di fondi a meno che non si adeguino al nuovo corso.

Qualcuna delle città-santuario, come la Miami anti castrista e altri bacini elettorali nell'Alaska di Sarah Palin, si sono subito dichiarate pronte a cooperare con il Dipartimento per la Sicurezza nazionale che applica il decreto Trump e saranno presto depennate dall'elenco delle città-santuario. Ma sono mosche bianche: la maggioranza di questi porti sicuri per gli oltre 11 milioni di senza diritti, che lavorano nella clandestinità mandando a scuola i loro figli negli Usa, promette di non cedere al diktat del governo e si attrezza a un duro e lungo scontro con Trump. Una guerra di trincea.

De Blasio in prima fila. Il sindaco di New York Bill de Blasio, italo-americano figlio di immigrati, ha iniziato a «mettere da parte 250 milioni di dollari all'anno, in riserve, per quattro anni», visti i «tempi incerti che si prospettano». La Grande Mela è la metropoli capofila, e la più famosa, dell'opposizione all'Amministrazione Trump. De Blasio ha annunciato, immediatamente dopo la vittoria del tycoon alle elezioni dell'8 novembre 2016, che avrebbe trasgredito le direttive di Washington: «Non daremo al Dipartimento del governo le liste degli irregolari di New York. Non deporteremo coloro che rispettano la legge», ha aggiunto, «non separeremo le famiglie».

Un'altra metropoli che fa molto rumore per le barricate contro Trump è la liberal San Francisco, capitale dei diritti agli omosex oltre che della Silicon Valley delle multinazionali informatiche in guerra con la nuova Amministrazione protezionista. Ma tutta la California degli artisti di Hollywood, che confina col Messico, da Los Angeles a San Diego, da Sacramento a Santa Barbara per citare le località più conosciute, è disseminata di città-santuario che non procedono agli arresti tout court degli immigrati disposti da Washington. E pure la capitale, sede del Congresso e della Casa Bianca, è a sua volta città-santuario dal 2010, da quando il Consiglio comunale votò lo stop al proprio dipartimento di polizia a eseguire un programma di sicurezza.

La minaccia dei fondi taglaiti. Come Boston, Denver e Los Angeles, Washington è una delle città Usa che non si sono mai esplicitamente proclamate città-santuario ma che, disponendo forme di protezione per gli irregolari e bloccando alcune disposizioni centrali dei governi contro di loro, negli anni si sono di fatte aggiunte all'elenco. Anche il sindaco di Boston Marty Walsh si è dichiarato «profondamente disturbato» dai provvedimenti di Trump, anticipando di mettere in campo «tutti i mezzi legali» a disposizione «per proteggere tutti i residenti» della capitale del Massachusetts. A rischio, solo per il 2016, per Boston ci sono circa 65 milioni e mezzo di dollari di entrate fiscali dal governo federale.

In totale l'Amministrazione Trump (ora scossa dal caso Flynn) è pronta a sospendere più di 2 miliardi di fondi verso le 10 maggiori città statunitensi (quasi tutte città-santuario), per boicottare gli ammutinamenti. Per New York si tratta di più di 250 milioni di dollari di finanziamenti in meno, per Los Angeles più del doppio. Per Seattle di 72 milioni, per Denver di 39 milioni. La chiusura dei rubinetti di Washington toglierà risorse ai programmi educativi e sociali, anche per il sostegno all'assistenza sanitaria, in un anno nel quale potrebbe saltare anche la riforma del welfare di Obama che Trump intende abolire il prima possibile. A Seattle, teatro anche di calde manifestazioni anti-Trump, l'Amministrazione locale stima che i mancati introiti fiscali «avranno un grosso impatto anche sull'economia e sul commercio».

Appello al quarto emendamento. Ma l'ostruzionismo va avanti anche in decine di altre città minori: da Phoenix e Tucson in Arizona, a New Orleans in Louisiana, a Portland nel Maine, a Baltimora in Maryland, a Minneapolis in Minnesota, a Cleveland e Dayton nell'Ohio, da Est a Ovest la mappa degli Usa è tempestata di paletti a Trump. Oltre a ribadire che non si piegherà alla Casa Bianca, a dicembre il primo cittadino di Chicago Rahm Emanuel ha stanziato nel bilancio comunale del 2017 un milione di dollari per l'assistenza degli immigrati. Il sindaco di Seattle Ed Murray ha affermato categorico: «Non permetteremo alla polizia, come avvenne nella Seconda guerra mondiale, di dipendere dal governo federale per prelevare gli immigrati. Il quarto emendamento è chiaro a proposito».

L'articolo citato della Costituzione americana tutela chi si trova sul suolo degli Stati Uniti da «ricerche e misure irragionevoli sulle persone e sulle loro cose». Negli Usa le città-santuario hanno iniziato a costituirsi spontaneamente dagli Anni 80 per accogliere gli stranieri in fuga dai conflitti nell'America latina, e si sono man mano ingrossate con l'inasprimento delle leggi sull'immigrazione degli ultimi 30 anni: la costruzione della barriera con il Messico di Bush padre prima, il via libera alle «deportazioni di clandestini» di Clinton poi, infine l'aumento dei controlli e delle espulsioni alle frontiere dello stesso Obama, che a fronte di una grande sanatoria per circa 5 milioni di irregolari interni, nei suoi due mandati ha anche rafforzato le misure di deterrenza agli ingressi.

Cinque stati contro. Smantellare questa rete di porti sicuri non potrà essere immediato per Trump, neanche se ha già firmato l'ordine esecutivo che blocca i finanziamenti statali alle città-santuario. Se centinaia di arresti di irregolari sono scattati e procedono in diversi Stati degli Usa, in almeno altri cinque (California, Oregon, Vermont, Connecticut e Rhode Island) e in 39 città, nonché in oltre 600 contee, le leggi fissano limiti legali alla cooperazione delle polizie locali con le agenzie federali nazionali sull'immigrazione. E sono diversi gli appigli legali per i sindaci delle città-santuario.

«». arcipelagomilano.org, 7 febbraio 2017 (m.c.g.)

Evidenziare collegamenti tra le due città una settimana fa era quasi immediato: là un grande attivismo di avvocati, qui una grande ammirazione per il loro agire, per le generose modalità di opposizione all’ordine di Trump sul «ban dei cittadini o nativi dei 7 paesi». Come altre volte prima (come già fu per il digitale e sulla collaborazione per la giovane imprenditoria) cercare nessi e distinzioni nei comportamenti degli abitanti delle due città sembrava immediato. Unica la domanda che nasceva: perché a tanta ammirazione per gli avvocati americani, che si esprimeva sui nostri social e nelle conversazioni, non corrispondeva un analogo ammirato rispetto verso i giuristi italiani che nel nostro paese sono costantemente impegnati nella tutela dei diritti civili? Mentre promuovono azioni di advocacy, difesa degli stranieri e dei migranti, esprimono pubblicamente a Milano la loro solidarietà ai colleghi incarcerati nella Turchia di Erdogan.

Certo un’insorgenza di attenzione, emozionata e preoccupata o a momenti esultante, per quelle che apparivano vittorie, anche se parziali e temporanee in USA, era determinata dall’enormità del fatto, dal senso di valanga che avrebbe potuto determinare tra gli stati del pianeta; mentre qui in Italia più che in Europa abbiamo i nostri “momenti” nei lutti, nel dolore di una nuova strage nel Mediterraneo, di un assassinio di un giovane africano. E purtroppo non fanno quasi notizia i numerosi episodi di discriminazione razziale e religiosa e siamo ormai assuefatti all’incessante numero di morti in mare al quale i media prestano sempre meno attenzione. Ma non ancora assuefatti a Milano, non così diffusamente, non sempre: è l’orgoglio del nostro senso civico.

Una settimana fa la domanda era come rendere più conosciute le azioni dei singoli legali e delle associazioni presenti (dall’ASGI Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, ad Avvocati per Niente, ma anche la Camera Penale e la Camera Minorile); come creare presso i cittadini “normali”, i non esperti, i non professionisti nel campo, eppure mediamente informati, un moto di vicinanza. Attenzione e conoscenza, considerazione per quelli che nel nostro paese come i loro colleghi negli aeroporti americani sono protagonisti di quotidiane azioni legali dirette a fianco di vittime della tratta, di diritti di famiglie da ricongiungere, di espulsioni, di trattenimento nei CIE e di altrettante significative attività di formazione verso studenti universitari e più giovani colleghi, di informazione a operatori sociali … registrando negli ultimi anni un aumento di sensibilità negli ambiti appunto giuridici e sociali.

Una settimana fa era una domanda da rivolgere ai cittadini milanesi, a quelli e quelle che hanno costituito una compagine infaticabile e una costante presenza di supporto alle variegate forme di accoglienza ai migranti, ai rifugiati, ai transitanti, alle decine di migliaia che sono passati di qui … una domanda a una città che è stata protagonista dell’accoglienza sociale, dalle prime necessità allo sviluppo di modalità sempre più accurate, per esempio verso i minori che viaggiano da soli.

Una domanda da rivolgere alla città perché questa esperienza, e le scelte che l’hanno sottesa, vengano portate con sempre maggior forza a livello nazionale, al Parlamento e al Governo; perché vengano sviluppate norme necessarie per l’integrazione, come la riforma della cittadinanza cioè la legge sullo ius soli, sia pure nella forma temperata, e l’abolizione della Bossi-Fini.

Sono passati pochi giorni e abbiamo invece un accordo sulla Libia che segue le orribili orme di quello sulla Turchia, e le nostre frontiere non sono diverse dal Ban di Trump. Come scrive Annalisa Camilli su Internazionale: «Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con la firma del memorandum d’intesa con la Libia l’Italia viola “il diritto di asilo consacrato nella costituzione italiana e il dovere di rispettare i diritti umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per il nostro paese». Secondo l’Asgi, inoltre, l’Italia usa i fondi della cooperazione per finanziare la militarizzazione della frontiera.

“L’Unione Europea tradisce i principi cardine della civiltà giuridica e viola la base democratica sulla quale si fonda la pacifica convivenza dei cittadini” afferma il presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, l’avvocato Lorenzo Trucco. E anche Emma Bonino ha espresso una posizione molto netta sulla Stampa: «L’Europa si è scandalizzata per il bando di Trump e il muro al confine con il Messico, ma quello che stiamo facendo in Europa non è poi così diverso. Un Paese, la Libia, viene pagato perché metta un “tappo” per trattenere tutti i migranti di qualunque nazionalità. Un piano che qualcuno ha definito “Trump soft”, simile a quello già applicato in Turchia».

La nostra indignazione sui Ban di Trump ci coinvolgerà anche e fino a difendere la nostra Costituzione e i principi fondativi dell’Europa? Questa domanda ci riguarda tutti, tecnici professionisti e cittadini.

«Basterebbe organizzarsi, cercare risposte intelligenti e i cittadini non vivrebbero in uno stato d’ansia permanente per le paure sollevate ad arte da politici senza scrupoli».

Verona-in online, 13 febbraio 2017 (c.m.c.)
Le vicende di questi ultimi giorni, legate all’accoglienza dei profughi in città e in provincia, aiutano molto a chiarire perché in Italia, ogni volta che ne arriva qualcuno, ci troviamo perennemente nella confusione più totale e nell’emergenza.

Le politiche migratorie sono regolate dalla Legge 189 del 2002, la Bossi-Fini. Non si può quindi ragionevolmente pensare che contenga indicazioni buoniste o di sinistra. In base a questa legge il Prefetto di Verona ha deciso di destinare all’accoglienza di una quindicina di profughi (mica migliaia) un edificio del quartiere San Zeno, sede dello Sportello Immigrazione. La Lega Nord ha promosso una raccolta di firme contro questa decisione, raccogliendone 517, fra persone della zona e passanti occasionali.

Poco lontano, a Lugagnano, il Prefetto ha pure richiesto al Sindaco la disponibilità ad accogliere giovani profughi o mamme italiane vittime di violenza coi loro bambini. Il Sindaco Mazzi, invece di opporsi, ha avviato una serie di incontri coi membri della sua comunità, cercando di coinvolgere tutti per trovare la soluzione migliore. Ha fatto il suo dovere. Si sta dando da fare per risolvere il problema nel migliore dei modi invece di crearne altri.

Le leggi in materia, anche se discutibili, ci sono. Vanno ottemperate senza sollevare continue opposizioni. Basterebbe organizzarsi, basterebbe che tutti si attivassero per fare la propria parte e i cittadini non vivrebbero in uno stato d’ansia permanente per le paure sollevate ad arte da politici poco interessati al loro benessere. I problemi sono già tanti senza che ci sia chi li ingigantisce.

Detto questo, diamoci da fare perché questi centri funzionino al meglio. Mi pare che la scelta di favorire gruppi poco numerosi, all’interno della città, sia più positiva rispetto a quella dei grandi CIE sovraffollati e isolati che abbiamo visto tante volte in televisione.

E’ importante che ci siano regole ferme e chiare e che gli ospiti vengano coinvolti nella gestione del Centro, nella sua pulizia, nella preparazione dei pasti… Lasciare delle persone inattive serve solo ad incattivirle. Bisognerebbe organizzare da subito corsi di lingua italiana per dar loro la possibilità di comunicare in fretta; far intervenire i mediatori linguistico-culturali (a Verona ce ne sono molti, formati anche attraverso Master universitari); mettere i richiedenti asilo in contatto con i loro compatrioti arrivati in Italia già da tempo; creare occasioni di incontro con gli abitanti del quartiere per facilitare la loro inclusione sociale.

Fra un po’ avremo una nuova amministrazione cittadina; spero che si adoperi da subito per organizzare una dignitosa accoglienza di queste persone, che non scappano da casa per puro divertimento, favorendo in questo modo anche la serenità di tutti i cittadini.

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