Sbilanciamoci.info, newsletter 7 aprile 2017, con postilla
Il nostro paese spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno). E oltre a spendere molto, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente
Secondo i dati contenuti nel primo rapporto annuale sulle spese militari italiane presentato dall’Osservatorio MIL€X, presentato alla Camera dei Deputati lo scorso 15 febbraio, l’Italia spende ogni anno per le sue forze armate oltre 23 miliardi di euro (64 milioni di euro al giorno), di cui oltre 5 miliardi e mezzo (15 milioni al giorno) in armamenti.
Una spesa militare in costante aumento (+21% nelle ultime tre legislature), che rappresenta l’1,4% del PIL nazionale: esattamente la media NATO (USA esclusi), ma ancora troppo poco per l’Alleanza Atlantica, che chiede di arrivare al 2% in base a una decisione (mai sottoposta al vaglio del Parlamento) che incoraggia a spendere di più, invece che a spendere meglio, secondo una logica distorta che arriva al paradosso quando la NATO si congratula con la Grecia per la sua spesa militare al 2,6% del PIL, ignorando la bancarotta dello Stato ellenico. Oltre alla “virtuosa” Grecia, in buona compagnia del Portogallo (1,9% del PIL), gli Stati europei che spendono in difesa più dell’Italia sono le potenze nucleari francese e inglese (intorno al 2% del PIL) e le nazioni dell’ex Patto di Varsavia con la paranoia della minaccia russa come Polonia (2,2%) ed Estonia 2%. Altre grandi nazioni europee come Germania, Olanda e Spagna spendono molto meno di noi (intorno all’1,2% del PIL).
Oltre a spendere molto in difesa, l’Italia spende male, in modo irrazionale e inefficiente.
Il 60% delle spese è assorbito da una struttura del personale elefantiaca e squilibrata fino al paradosso di avere più comandanti che comandati, più anziani ufficiali e sottufficiali da scrivania, che graduati e truppa giovane operativa.
Quasi il 30% del totale viene invece speso per l’acquisto di armamenti tradizionali: missili, bombe, cacciabombardieri, navi da guerra e mezzi corazzati. Una spesa in forte crescita (+85% dal 2006) finanziata in gran parte dal Ministero dello Sviluppo Economico, che dovrebbe essere ribattezzato “Ministero dello Sviluppo Militare” poiché destina regolarmente al comparto difesa (Leonardo/Finmeccanica, Fincantieri, Fiat-Iveco, ecc.) la quasi totalità del budget a sostegno dell’imprenditoria (l’86% quest’anno, pari a 3,4 miliardi)
penalizzando le piccole e medie imprese e lo sviluppo industriale civile del Paese.
Un meccanismo di aiuti di Stato all’industria bellica nazionale, portato avanti da una potente lobby che condiziona il Parlamento, forzandolo ad autorizzare l’acquisto di armamenti costosissimi e logisticamente insostenibili (perché poi mancano i soldi per la manutenzione e perfino per il carburante), armamenti di tipo e quantità dettate da esigenze industriali e commerciali delle aziende, invece che da concrete necessità di sicurezza nazionale. Qualche esempio.
I quasi mille nuovi corazzati da combattimento Freccia e Centauro2 che sta comprando l’Esercito — spendendo molto più di quanto avrebbe speso scegliendo quelli prodotti da consorzi europei (i Freccia sono stati preferiti agli equivalenti ma molto più economici Boxer tedesco-olandesi). Una quantità di mezzi sproporzionata rispetto alle necessità operative (in Afghanistan, ad esempio, di questi mezzi ne sono stati usati solo 17) e spropositata per le capacità di manutenzione (per cui la maggior parte di questi mezzi finisce ad arrugginire nei depositi o cannibalizzata per i pezzi di ricambio).
Oppure le nuove navi da guerra ordinate dalla Marina — spacciate al Parlamento per navi “dual-use” per il soccorso umanitario: una seconda portaerei (ricordiamo che la prima, la Cavour, non viene quasi mai usata perché non ci son soldi per il gasolio) e altre 7 fregate lanciamissili che porteranno la flotta italiana a supere la potenza navale francese e ad eguagliare quella inglese (entrambe, lo ricordiamo, potenze nucleari).
Per non parlare degli ormai famosi F-35, che l’Italia — contrariamente ad altri Paesi NATO europei come la Germania — continua a comprare nonostante le critiche degli esperti, che li giudicano aerei inutili per le esigenze di difesa nazionali e dannosi per l’industria italiana.
A fronte di tutte queste spese da potenza militare d’altri tempi, l’Italia è completamente impreparata a difendersi dalle minacce concrete del presente e del futuro: terrorismo e cyberwar. Per prevenire attacchi terroristici serve intelligence sul territorio e on-line, non carri armati, cacciabombardieri e portaerei. Per difendersi da attacchi informatici — che oggi mettono in imbarazzo un ministero, ma domani potrebbero mettere in ginocchio il Paese — servono investimenti massicci nella cyber-difesa che invece non ci sono (150 milioni nel 2016, nulla nel 2017) e strutture militari dedicate (il cyber-comando italiano è ancora sulla carta).
E’ a dir poco paradossale continuare a spendere miliardi in armamenti tradizionali e poco e niente per prevenire e fronteggiare attacchi informatici che potrebbero mettere fuori uso tutte queste armi con un semplice virus.
postilla
Altre domande: Perché quel che resta dalla sinistra e della democrazia non renziana ha abbandonato le campagne di massa per la pace, e l'unico che ne proclama l'esigenza è papa Francesco? Perché si svendono i patrimoni pubblici e si lasciano degradare quelli culturali? Perché si negano risorse all'accoglienza dei dannati dallo sviluppo che riescono ad approdare sui nostri lidi? Perché si negano risorse per rendere le città più vivibili e amichevoli per tutti e i territori più garantiti nella loro integrità fisica e identità culturale?
Che non vogliano ridurre le spese per gli armamenti i mercanti di morte e i prezzolati governanti lo si comprende, ma gli abitanti del Belpaese sono diventati tutti "popolo bue"?
la Repubblica, 6 aprile 2017
«». il manifesto,
Gli attentati alla metropolitana di San Pietroburgo deflagrano in Russia. Mentre riscopriamo che in Siria c’è la guerra sporca, che cancella la vita delle vittime civili e insieme la verità.
Già la solidarietà di Trump per le bombe nella metropolitana russa sposta l’attenzione sull’atteggiamento del fronte occidentale verso Mosca. Volta a volta considerata nemica, come per la crisi Ucraina. Che, è bene ricordarlo, ha visto la reazione dell’annessione della Crimea a fronte del ruolo non proprio innocente dell’Unione europea e della Nato impegnata ormai nella pericolosa strategia di allargamento a Est. Ma subito riammessa nel club, tardivo, della «lotta al terrorismo» dopo che per almeno quattro anni lo schieramento occidentale, con la Turchia e le petromonarchie del Golfo h attivato le guerre in Libia e subito dopo in Siria.
Putin è entrato nella crisi siriana non già come riempitivo dello spazio lasciato vuoto dall’Occidente come ripete il mantra giornalistico. Ma per il pieno della sconfitta, prima in Libia con la riattivazione dell’islamismo jihadista e poi in Siria con il sostegno malcelato dell’alleata atlantica Turchia. Alla quale è stato delegato per anni il ruolo di santuario della destabilizzazione siriana.
L’esplosione di fatto della Turchia di Erdogan ha reso evidente la disfatta, con la ritirata di Obama, già - incerto sull’intervento della Nato contro Tripoli nel 2011.
Il leader russo a fine 2015, nel vertice del caminetto alla Casa bianca con Obama è stato di fatto «autorizzato» ad intervenire. Né va dimenticato che tra le ragioni rivendicate da Putin per il ruolo in Siria c’è stata quella di fermare sul campo le migliaia – dai tremila ai 5mila secondo anche le intelligence occidentali – di foreign fighters caucasici, soprattutto ceceni, partiti dalla Federazione russa della quale la Cecenia «pacificata» fa parte, per impedire il loro rientro in patria.
Senza dimenticare che sul campo della guerra in Ucraina, nel Donbass le milizie cecene sono state ampiamente usate, da Mosca con reparti autorizzati dal premier Khadirov, ma anche nel campo avverso con centinaia di miliziani islamisti arruolati nelle formazioni dell’estrema destra ucraina.
Nella Siria ferita a morte si vuole tornare a quattro anni fa. Si distrugge ogni possibilità per i negoziati di Ginevra e di Astana, i qaedisti e i jihadisti dell’Isis sono vendicativi perché sotto assedio a Idlib e a Raqqa; e in rotta a Mosul in Iraq, dove le stragi di civili vengono zittite. Lo sponsor dell’orrore siriano, l’ Arabia saudita, sembra taciturno ma lavora sulla propaganda. Intanto si alternano raid aerei sui civili, dell’una e dell’altra parte. E le stragi cancellano le vittime e la verità. Perché si riparla di «sospetto uso del Sarin», e non può non venire alla memoria l’estate del 2013. Quando non fu provato l’uso dei gas e solo il papa fermò con la preghiera l’intervento dell’America di Obama quasi pronto ad un’altra maledetta guerra.
Detto tutto questo sul fronte internazionale, resta ormai però la rilevanza in Russia dell’iniziativa terroristica. Nel giorno in cui il presidente russo era in visita a San Pietroburgo . Putin ha fatto della pacificazione della Federazione russa, prima di lui alle prese con un Caucaso incendiato ovunque, in Cecenia, in Daghestan, ma anche sul fronte georgiano in Abkhazia e Ossetia, lì dove nel 2008 la Georgia di Shakahasvili (finito nella leadership di Kiev ma poi cacciato anche da là) e su irresponsabile suggerimento della Nato, mosse alla conquista di territori insorti, subendol’immediata reazione militare russa e una pesante sconfitta. Il fatto è che sulla pacificazione cecena Putin ha giocato buona parte della sua legittimazione al potere, così come ora per la sua strategia d’intervento nella Siria già in guerra.
Pagando a quanto pare ormai un costo elevatissimo per la litania di attentati subiti che alla fine mostrano la vulnerabilità della Russia. Accettando, mentre abbraccia rinnovati interessi di potenza, l’asimmetrica normalità tra guerra e terrorismo. Proprio mentre si riaccende una protesta della scarsa e poco alternativa opposizione russa.
E se sarà confermata la pista dell’attentatore kirghiso, torna centrale anche il fronte asiatico delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, di fatto ancora legate politicamente ed economicamente alla Russia. Sullo sfondo il gioco rimasto aperto dell’Afghanistan in guerra da decenni.
Sembra riaprirsi per la Russia, di fronte alle chiusure in Europa, il dilemma storico, culturale e strategico, che fu prima della Russia zarista ma che si ripropose negli sviluppi della rivoluzione bolscevica e sui destini della ex Urss. E che torna nel disequilibrio nazionalista di Putin. Quello tra linea occidentalista oppure panslavista.
La prima vede i destini russi rivolti verso l’Ovest del mondo, l’altra insiste sull’asse degli interessi orientali. Un grande innovatore in tal senso è stato lo sconfitto Michail Gorbaciov. Parlava per la Russia ancora sovietica e già post-sovietica di «Casa comune europea». Ma tutti sappiamo com’ è andata a finire.
La città invisibile online, 2 aprile 2017 (c.m.c)
Si respira una brutta aria in Europa, in Italia, nella nostra città (ed arrivano pessimi segnali anche da altre parti del mondo, vedi gli Stati Uniti di Trump). In diversi stati europei si erigono muri e fili spinati, reali e burocratici, per respingere chi fugge da guerre, violenze, disastri ambientali. L’Unione Europea finanzia regimi oppressivi perché non facciano arrivare i rifugiati sul suolo europeo.
In Italia, il Governo decreta d’urgenza (i decreti Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza) per limitare i diritti dei richiedenti asilo e per combattere i poveri e gli emarginati in nome del cosiddetto decoro urbano, mentre il Parlamento non riesce ad approvare, a distanza di mesi dalla sua presentazione, una legge – pur imperfetta – sulla cittadinanza collegata allo “jus soli”.
Dovunque sono all’opera gli “imprenditori del razzismo” per alimentare – in un contesto di grave crisi causata dalle politiche di privatizzazioni, di tagli alle spese sociali, di precarizzazione diffusa del lavoro – intolleranza, razzismo, xenofobia, facendo di rifugiati e migranti i capri espiatori della situazione esistente, e vedendo in chiunque viva in condizioni di grave disagio sociale un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza.
Gli organi d’informazione, in generale, contribuiscono alla crescita di questo clima, con notizie allarmistiche e campagne securitarie. I virus dell’intolleranza e del razzismo penetrano in ogni ambiente, basandosi su percezioni, pregiudizi, voci prive di verifica e ignorando i dati reali.
Anche in città stiamo assistendo al progressivo diffondersi di un clima del genere. Eppure, di fronte ai comitati e alle persone che identificano il degrado con la presenza di nuovi abitanti di origine straniera e di persone in condizioni di visibile disagio, ad un’Amministrazione comunale che non contrasta i processi di esclusione sociale, ad un Sindaco che approva senza riserve il pessimo decreto sulla sicurezza, esiste un’altra Firenze che si oppone alle cause prime che hanno determinato la fuga di milioni di persone da guerre e devastazioni, e costruisce esperienze di conoscenza reciproca, accoglienza, inclusione, convivenza e che non è sotto la luce dei riflettori. Pensiamo che questa parte della città, solidale e impegnata nella tutela dei diritti, per tutti a partire dai più deboli, debba rendersi visibile
-per contrastare la pericolosa deriva in atto,
-per far conoscere maggiormente le iniziative positive presenti,
-per costruire una piattaforma rivendicativa riguardante le strutture di accoglienza, i processi di interazione, inserimento e inclusione, la casa, i necessari spazi di aggregazione, la formazione al lavoro etc.,
-per opporsi decisamente alla conversione in legge dei decreti Minniti-Orlando ed alla realizzazione in Toscana del CPR (Centro per il Rimpatrio) previsto dal decreto, nonché per esigere una sollecita approvazione della legge sulla cittadinanza basata sullo “jus soli”, l’apertura a livello istituzionale dei corridoi umanitari già sperimentati – per piccoli numeri – dalle organizzazioni senza scopo di lucro, l’abrogazione delle norme della Bossi-Fini che impediscono l’ingresso e la permanenza regolari in Italia dei migranti,
-per promuovere azioni volte allo sviluppo delle competenze interculturali.
Razzismo ed esclusione si contrastano con l’impegno a lottare concretamente contro le logiche di sfruttamento di tutte le persone in tutti i paesi, ponendosi sempre al fianco di chi questo sfruttamento lo subisce di più. Noi scegliamo di impegnarci per contrastare nazionalismi, fondamentalismi e fascismi di ogni segno e colore.
Perciò chi sottoscrive questo appello si impegna a promuovere nel mese di aprile, in maniera coordinata ed unitaria, iniziative volte all’informazione, alla sensibilizzazione, al confronto sui punti indicati in precedenza, ritenendo che il NO al razzismo ed il SI’ all’accoglienza ed alla solidarietà siano elementi essenziali per la convivenza civile e per lo svolgersi della vita democratica, secondo i principi definiti dalla Costituzione italiana.
Per una primavera di mobilitazione che, nel ricordo della vittoria della Resistenza sui nazi-fascisti il 25 aprile, dia il segno tangibile della presenza di una Firenze antirazzista e solidale!
Primi firmatari
Rete Antirazzista Fiorentina
PalazzuoloStradaAperta
Laboratorio perUnaltracittà
CO.R.P.I. – Compagnia Resistente
Coordinamento Basta Morti nel Mediterraneo
Fuori Binario
Comitato Stop Razzismo Prato
azzerocappaemme
Straniamenti
Biblioteca Riccardo Torregiani
Comitato 1°Marzo
per adesioni:
sandra.carpilapi@gmail.com
massimodamato@virgilio.it
il manifesto, 30 marzo 2017 (c.m.c.)
Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto «etnico» per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria «propria» con deroghe significative alle garanzie processuali comuni. Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale.
È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale». Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.
La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa.
Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione.
L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili. E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario.
A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento.
Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti.
«il manifesto
Ventimiglia e la zona dei «Balzi rossi» sono stati nell’estate scorsa sotto i riflettori per le proteste contro il blocco della frontiera francese poste in essere da migranti, dapprima accampati sulla spiaggia e successivamente ripiegati in città dove, peraltro, le strutture di accoglienza erano e sono insufficienti. Così molti dormono in strada e vengono sfamati dalla Caritas o da una mensa parrocchiale. Ma anche queste non bastano. Perciò ogni sera volontari francesi provenienti dalla Val Roja distribuiscono a chi ne ha bisogno panini, acqua e the.
Ma a Ventimiglia vige una ordinanza, emessa dal sindaco l’11 agosto 2016, che vieta la distribuzione di cibo ai migranti e così – incredibile ma vero – nei giorni scorsi tre volontari sono stati denunciati per il reato di «inosservanza dei provvedimenti dell’autorità» previsto all’art. 650 del codice penale.
All’altro capo dell’Italia, nel mare che divide la Sicilia dalle coste africane e in acque internazionali, si muovono da qualche tempo alcune navi di organizzazioni non governative che vigilano su eventuali naufragi e, nel caso, soccorrono i naufraghi o recuperano i corpi di chi non ce l’ha fatta.
Anche qui è accaduto che la Procura della Repubblica di Catania abbia aperto una «indagine conoscitiva» sulle organizzazioni interessate sospettate di favorire l’immigrazione clandestina se non addirittura – come sostengono alcuni commentatori – di agevolare gli scafisti.
Questa criminalizzazione della solidarietà che, paradossalmente (o forse no), colpisce chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni ha dei riferimenti precisi. Essa, infatti, è ormai regola negli Stati Uniti, dove il diritto penale sempre più persegue non solo i poveri ma anche chi vuole esercitare il diritto (o il dovere morale) di aiutarli.
Il fenomeno è descritto in termini analitici, e con ampia esemplificazione, in un recente e lucido libro di Elisabetta Grande (Guai ai poveri. La faccia triste dell’America, Edizioni Gruppo Abele, 2017) da cui si apprende, tra l’altro, che in molti Stati il divieto di camping penalmente sanzionato colpisce non solo l’homeless che vi fa ricorso, ma addirittura il proprietario che consenta al senza tetto di dormire in tenda sul proprio terreno per più di cinque giorni consecutivi, o che analogo divieto si estende all’autorizzazione a parcheggiare nel proprio spazio privato l’auto utilizzata da un homeless come abitazione.
Quanto alla somministrazione di cibo ai poveri, poi, si è assistito finanche all’arresto di un novantenne, fondatore di un’organizzazione benefica, colpevole di servire pasti caldi agli homeless su una spiaggia e, come lui, di altri attivisti dalla Florida al Texas o alla richiesta di cifre altissime, come tassa per l’occupazione di suolo pubblico richiesta, in California e in South Carolina, alle organizzazioni che distribuiscono cibo nei parchi.
Il meccanismo della criminalizzazione è lo stesso adottato dal sindaco di Ventimiglia: l’adozione di ordinanze contenenti proibizioni dettate da motivazioni per lo più speciose, come quella di garantire la sicurezza dei consociati, messa in pericolo dall’assembramento dei bisognosi che si recano a mangiare, o addirittura quella di proteggere la sicurezza alimentare o la dignità degli homeless, che meriterebbero un cibo controllato e un luogo coperto in cui consumare il pasto (tacendo che cibi e luoghi siffatti in realtà non esistono).
La cosa più inquietante è che quelle ordinanze, comparse la prima volta alla fine degli anni Novanta, hanno visto di recente una notevole intensificazione, con un aumento del 47% nel solo periodo tra il 2010 e il 2014, parallelamente al crescere della povertà e del numero di soggetti esclusi anche dai buoni alimentari assistenziali.
Ci fu, nella storia, un tempo (nell’Alto Medioevo) in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della Chiesa a «proprietà dei poveri», destinata a chi non era in grado di mantenersi con il proprio lavoro e non alienabile neppure dai vescovi. Ma fu eccezione: quando il diritto si è occupato dei poveri lo ha fatto, per lo più, in chiave di punizione e di difesa della società.
Ciò è stato messo in discussione, nel nostro Paese, dalla Costituzione repubblicana, che pone a tutti un dovere di solidarietà e indica l’uguaglianza sociale come obiettivo delle istituzioni.Sarebbe bene non dimenticarlo, anche da parte dei sindaci e dei procuratori della Repubblica.
«Ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio, che ha invece ben altre origini ». il manifesto, 28 marzo 2017 (c.m.c.)
Ci sono molti modi di gestire l’accoglienza dei profughi. I media si occupano quasi solo dei casi peggiori che comportano ruberie, isolamento e maltrattamenti delle persone ospitate, creazione che suscitano o alimentano reazioni di rigetto. Ma ci sono molti esempi, anche di successo, di cui i media parlano poco, lasciando l’impressione, che poi si alimenta con un effetto a valanga, che la maggioranza della popolazione veda nei profughi la principale fonte del proprio disagio; che ha invece ben altre origini. E’ ora di raccogliere e rendere pubbliche queste esperienze positive.
L’ultimo nato, Strada Facendo Ristorante etico, si trova in una ex casa del popolo, poi trasformata in un ristorante che non ha avuto successo e ha ceduto i locali alla cooperativa. L’altro ristorante, The last one, somministra pasti preparati nella cucina di Strada Facendo, dove è stata centralizzata la produzione. La cucina è di alto livello (Trip Advisor: 25 eccellente e 6 buono su 35 valutazioni), ma con un rapporto qualità/prezzo imbattibile. Biggy, vicecuoco della Guinea Biss, ha svolto il suo apprendistato con chef di livello come Dimitri e Ale Meo, che prestano la loro collaborazione rifiutando offerte di prestigio più vantaggiose. Il ristorante non propone una cucina etnica, ma multiregionale italiana, con prodotti di alta qualità che per questo non sono a chilometri zero né esclusivamente biologici. Chef a parte, nessuno aveva esperienza nel settore della ristorazione, partire dalla responsabile Carolina che nei giorni di chiusura del locale è a capo, con don Luca, di una unità di strada anti tratta che solo un mese fa ha portato in salvo due ragazze nigeriane di 16 anni e che ha trasformato il locale come fosse casa sua. Il successo di entrambe le iniziative è stato travolgente: i locali sono sempre affollati e Strada Facendo prevede di raggiungere del punto di pareggio quest’anno.
Accanto a queste attività, Percorso Vita ha attivato un campo di due ettari e mezzo con annesso casale in località Saccolongo, precedentemente utilizzato per coltivazioni di biomassa, bonificandolo e destinandolo, sotto la guida di Guglielmo Donadello, responsabile nazionale tecniche di agricoltura di Legambiente, ad alberi da frutta e legumi di specie che non richiedono trattamenti. E’ un esempio contagioso perché molti agricoltori vicini, di fronte a questa vistosa trasformazione della produzione, si sono dichiarati disposti a cedere alla cooperativa parti dei loro terreni, perché le coltivazioni a cui sono attualmente destinati non danno rendimenti soddisfacenti. Così Percorso Vita è in procinto di acquisire nuovi e consistenti appezzamenti che potrebbero garantire alcune decine di ulteriori posti di lavoro.
Tra gli altri progetti, un gas e un master in mediazione culturale con il dipartimento di agraria dell’Università di Padova. Il corso è partito lo scorso gennaio con 17 allievi che fanno il tirocinio al ristorante e uno dei quali è già stato assunto dalla cooperativa.
Anche l’accettazione è un esempio di successo, non solo sul posto di lavoro. Biggy, il vicecuoco, ha una casa in affitto in località Brusogone, dove a vive con due colleghi. E’ una zona abitata da anziani, non sempre in buoni rapporti nemmeno tra di loro, che quando sono arrivati quei “neri" hanno avuto una reazione di rigetto. Ma poi, vedendoli gentili, collaborativi e anche impegnati a rimettere a posto situazioni in abbandono – aiuole, ringhiere, dei locali comuni, ecc. – hanno cambiato atteggiamento e ora non solo li trattano da pari a pari (hanno anche migliorato i rapporti tra loro), ma una vicina prepara anche per loro la cena tutte le sere per pura amicizia.
Tutto bene? Neanche per sogno! A Padova la commissione territoriale per le richieste di asilo dispone il 78 per cento di dinieghi e quando sono presenti esponenti della Lega, il 90 per cento. Tutti i membri della cooperativa hanno già ricevuto il diniego sia della commissione che del giudice e sono in attesa di appello, che per molti dovrebbe svolgersi prima che entri in vigore la sua abrogazione con il decreto Minniti.
il manifesto, 26 marzo 2017
La cerimonia per celebrare i Trattati di Roma sarà ricordata nella storia dei posteri come quella dei nani sulle spalle dei giganti. L’Europa costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale oggi si è ritrovata nel salone degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio sommersa dalla retorica della pace mentre alle nostre frontiere il fenomeno migratorio ci ricorda ogni giorno che nuove macerie le stanno attraversando portando l’eco delle guerre.
Tante manifestazioni in programma, una partecipazione di migliaia di persone isolate per le piazze di una Roma spettrale, in un sabato pomeriggio che ha svuotato la città, con le strade deserte occupate da vigili urbani mai visti così numerosi a ogni angolo del centro storico. E naturalmente con uno spiegamento massiccio delle forze dell’ordine per i venti di guerriglia che giornali e televisioni annunciavano a tamburo, formidabile antidoto a una partecipazione più larga.
Così il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie. A parlare di povertà, di lavoro, invitando la gente ad «abbracciare i confini».
Difficile del resto appassionarsi alla cerimonia del Campidoglio, ai discorsi ufficiali dei capi di stato e di governo. La scena mediatica, che avrebbe dovuto celebrare i fasti di un Renzi vittorioso al referendum del 4 dicembre, ha ricevuto la tranquilla accoglienza del suo successore. Che ha svolto diligentemente il suo compito. Come anche il presidente Mattarella che è tornato a insistere sulla necessità di una nuova Costituzione dopo averne già sottolineato l’urgenza nel discorso davanti alle Camere riunite, per una riforma dei trattati, per dare una nuova Costituzione all’Europa. Ma proprio ritrovarne le ragioni profonde non è semplice né scontato. Se a parole e nei riti della ricorrenza, con dosi di retorica pari alla mancanza di solennità, tutti hanno parlato dei problemi sociali, dell’economia che si nutre delle diseguaglianze, nei fatti le promesse e gli impegni di costruire un’Europa sociale sono contraddetti dalle vicende degli anni recenti come l’esempio della Grecia dimostra con le sue sofferenze. Per iniziare un processo costituente bisognerebbe battersi per quei valori che noi italiani abbiamo appena difeso con il referendum del 4 dicembre, quando abbiamo fatto scudo alla Costituzione che vorremmo vedere riflessa a fondamento di un’altra Europa, di un altro progetto politico. Quello schieramento che si è unito nel referendum era in piazza, con la destra e la sinistra presenti con parole d’ordine che hanno trovato espressione trasversalmente agli schieramenti, tra nazionalismi risorgenti e principi europeisti messi a dura prova dal grande sonno delle classi dirigenti. Più vicine agli Orazi e Curiazi che allo spirito di Ventotene.»La cerimonia per celebrare i Trattati di Roma sarà ricordata nella storia dei posteri come quella dei nani sulle spalle dei giganti. L’Europa costruita sulle macerie della Seconda guerra mondiale oggi si è ritrovata nel salone degli Orazi e dei Curiazi del Campidoglio sommersa dalla retorica della pace mentre alle nostre frontiere il fenomeno migratorio ci ricorda ogni giorno che nuove macerie le stanno attraversando portando l’eco delle guerre.
Tante manifestazioni in programma, una partecipazione di migliaia di persone isolate per le piazze di una Roma spettrale, in un sabato pomeriggio che ha svuotato la città, con le strade deserte occupate da vigili urbani mai visti così numerosi a ogni angolo del centro storico. E naturalmente con uno spiegamento massiccio delle forze dell’ordine per i venti di guerriglia che giornali e televisioni annunciavano a tamburo, formidabile antidoto a una partecipazione più larga.
Così il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie. A parlare di povertà, di lavoro, invitando la gente ad «abbracciare i confini».
Difficile del resto appassionarsi alla cerimonia del Campidoglio, ai discorsi ufficiali dei capi di stato e di governo. La scena mediatica, che avrebbe dovuto celebrare i fasti di un Renzi vittorioso al referendum del 4 dicembre, ha ricevuto la tranquilla accoglienza del suo successore. Che ha svolto diligentemente il suo compito. Come anche il presidente Mattarella che è tornato a insistere sulla necessità di una nuova Costituzione dopo averne già sottolineato l’urgenza nel discorso davanti alle Camere riunite, per una riforma dei trattati, per dare una nuova Costituzione all’Europa. Ma proprio ritrovarne le ragioni profonde non è semplice né scontato.
Se a parole e nei riti della ricorrenza, con dosi di retorica pari alla mancanza di solennità, tutti hanno parlato dei problemi sociali, dell’economia che si nutre delle diseguaglianze, nei fatti le promesse e gli impegni di costruire un’Europa sociale sono contraddetti dalle vicende degli anni recenti come l’esempio della Grecia dimostra con le sue sofferenze. Per iniziare un processo costituente bisognerebbe battersi per quei valori che noi italiani abbiamo appena difeso con il referendum del 4 dicembre, quando abbiamo fatto scudo alla Costituzione che vorremmo vedere riflessa a fondamento di un’altra Europa, di un altro progetto politico. Quello schieramento che si è unito nel referendum era in piazza, con la destra e la sinistra presenti con parole d’ordine che hanno trovato espressione trasversalmente agli schieramenti, tra nazionalismi risorgenti e principi europeisti messi a dura prova dal grande sonno delle classi dirigenti. Più vicine agli Orazi e Curiazi che allo spirito di Ventotene.
a Repubblica online, 26 marzo 2016
La dinamica dell'accaduto non è chiara: secondo alcune fonti le bombe avrebbero colpito un camion carico di esplosivo che poi avrebbe provocato il crollo del palazzo. Altre sostengono che l'obiettivo del raid era l'edificio stesso, dove ci sarebbe stata una postazione dell'Isis.
L'offensiva per riprendere Mosul ovest è iniziata a febbraio. La parte orientale della città è ormai sotto il controllo del governo e dell'esercito iracheno, ma il centro storico e la zona occidentale ancora sono oggetto di combattimenti furibondi. E' in uno di questi combattimenti che l'intervento dell'aviazione americana e alleata avrebbe compiuto la strage. Bachar al-Kiki, capo della provincia di Ninive, ieri ha parlato di "decine di corpi ancora sepolti sotto le macerie" di alcune palazzine distrutte dalle bombe. Il governatore provinciale Nawfal Hammadi ha accusato la coalizione a guida Usa di avere condotto raid sul quartiere di al-Jadida uccidendo "più di 130 civili". Lo stesso governatore Hammadi in una dichiarazione all'Agence France Presse ha attribuito parte della responsabilità ai jihadisti dell'Isis: "Cercano di bloccare con tutti i mezzi l'avanzata dell'esercito iracheno su Mosul, rastrellano i civili e li usano come scudi umani".
Due testimoni locali scampati alla strage, sempre all'Afp hanno descritto la distruzione di un immobile con 170 abitanti. L'Onu ha espresso "profonda inquietudine" e la coordinatrice umanitaria per l'Iraq, Lise Grande, si è detta "sconvolta da queste terribili perdite umane". Proprio nel timore di nuove stragi, l'esercito iracheno ieri sera ha annunciato la momentanea sospensione dell'offensiva. A più di un mese dal lancio dell'attacco a Mosul ovest, oltre duecentomila abitanti sono fuggiti dalla zona dei combattimenti, ma ancora seicentomila abitano nei quartieri della città sotto il controllo dell'Isis.
». Huffingto Post online, 25 Marzo 2017 (c.m.c.)
ùIl processo di unificazione Europea, di cui celebriamo il sessantesimo compleanno, ha aperto la strada a una nuova cittadinanza. Studiosi della politica e giuristi hanno abbondantemente illustrato il paradigma post-nazionale e sovranazionale della libertà politica che dissocia la cittadinanza dalla nazionalità. Si tratta di una rivoluzione non meno epocale di quella del 1789 che, per ripetere le parole di Hannah Arendt, inaugurò la «conquista dello stato da parte della nazione» e in questo modo l’inizio della democratizzazione.
La storia dell’Europa moderna conferma che mentre la formazione dello stato territoriale ha unificato il corpo dei sudditi della legge è stata la sovranità nazionale a rendere gli stati democratici. Il diritto che ha segnato questo mutamento epocale è quello di e/immigrazione, ovvero la libertà di movimento, delle persone e dei beni.
L’Unione europea nacque sulla libertà di movimento ma con un’ambiguità economica che non è scomparsa, nemmeno quando con il trattato di Lisbona la cittadinanza europea è stata consolidata da una famiglia di diritti costruiti attorno al “libero movimento” e alla “non discriminazione” tra gli Stati membri e all’interno di essi. Pur riconoscendo che l’immigrazione è un fatto fondamentale della vita umana, che riflette la ricerca di individui e collettività di migliorare la propria condizione di vita, ha scritto Ulrich Preuss, essa non mai ha di fatto tolto di mezzo le ragioni economiche per il diritto di movimento e il ruolo degli Stati membri. È vero che, comunque, le ragioni economiche non furono mai così preponderanti da bloccare lo sviluppo di decisioni riguardo la cittadinanza dell’Unione europea e da dare a quest’ultima uno status giuridico formale (il Trattato di Maastricht del 1993) e aumentarlo incrementalmente con i successivi trattati di Amsterdam (1999), Nizza (2003) e Lisbona (2009). Ma tutto questo è avvenuto prima della grande crisi finanziaria.
È stata sufficiente questa crisi a mostrare le ambiguità: il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati.
All’inizio del processo europeo di unificazione, quell’ambiguità si applicava essenzialmente all’immigrazione interna (l’antica preoccupazione degli anni ’50 e ’60). Successivamente si è applicata all’immigrazione extracomunitaria, formando sia la politica di integrazione con gli immigrati irregolari (descritti come cittadini di Paesi terzi) sia quella della repressione con i migranti sans-papiers. Joseph Weiler ha così argomentato che «la cittadinanza europea equivale a poco più di un cinico esercizio di pubbliche relazioni e che anche il più sostanziale diritto (al libero movimento e alla residenza) non è concesso secondo uno status dell’individuo in quanto cittadino ma in ragione delle capacità dei singoli come fattori di produzione».
Se il diritto fondamentale di libertà di movimento è così direttamente connesso a ragioni economiche – la circolazione di una forza lavoro concorrenziale – ciò significa che i confini nazionali sono interpretati e utilizzati come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro. Essi diventano il centro del conflitto tra opposti interessi, nel senso che i lavoratori stranieri (che minacciano la classe lavoratrice di una nazione accettando di lavorare senza la stessa protezione sociale e gli stessi salari della classe lavoratrice nazionale), incontrano gli interessi di quei settori economici la cui competitività si basa sul lavoro a basso costo. Questo è stato il ragionamento (populista ma non irrazionale) che ha guidato gli elettori nel referendum su Brexit.
Questo conflitto è il cuore di ciò che James Hollifiel ha chiamato il “paradosso liberale”, il fatto che una società democratica basata sul libero mercato e sulla libertà di movimento conserva un tratto di chiusura legale al fine di proteggere il contratto sociale tra lavoro e capitale, così riconoscendo che il proprio welfare presuppone una società chiusa e uniforme. Strategie di chiusura legale non sono necessariamente e brutalmente di tipo diretto (bloccando i confini, incarcerando e rimpatriando gli immigrati irregolari).
Di fatto, sono strategie per la maggior parte indirette, in modo particolare quando sono rivolte agli immigrati regolari, per esempio limitando i loro diritti civili e sociali, rendendo loro difficile la naturalizzazione, restringendo il loro accesso ai servizi sociali o impedendo i ricongiungimenti familiari. Dunque, per gli Stati europei, e ora anche per l’Unione europea, riguadagnare il controllo dei propri confini equivale ad ammettere che “il controllo dell’immigrazione può richiedere una riduzione dei diritti civili e dei diritti umani per i non cittadini”.
È sull’immigrazione che si gioca quindi il futuro dell’Unione: su questo diritto è sorta e su questo stesso diritto può cadere se lascerà che i singoli stati membri regolino le loro politiche delle frontiere in maniera nazionalistica (come del resto stanno già facendo ad Est). Non sembrano esserci altre soluzioni al problema europeo: perché l’Unione sopravviva deve farsi politica e avere un potere federale capace di imporsi ai governi degli stati membri. Una soluzione più utopistica oggi di sessant’anni fa, nonostante quell’Europa venisse da una carneficina mondiale e questa da sei decenni di pace.
«Il problema dell’Unione europea non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia ». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)
Al momento delle sue ultime elezioni l’Olanda è stata irrisa da tutti perché si è saputo che concorrevano ben 28 partiti. In realtà non c’era niente da ridere: grazie al privilegio di una legge rigorosamente proporzionalista, senza trucchi maggioritari, gli olandesi, con quei loro 28 partiti, hanno potuto rendere esplicita la crisi di rappresentanza che ormai percorre l’Europa, sconvolgendo antiche e storiche costellazioni politiche, producendo una varietà di fenomeni sbrigativamente catalogati col termine di populismo. La crisi del sistema democratico appare ormai in tutta la sua evidenza.
Di questo sarebbe bene che i rappresentanti dei 28 stati europei riflettessero oggi a Roma. Perché larga parte delle responsabilità di questa ormai profonda crisi di fiducia stanno proprio nel modo come è stata gestita l’Unione in questi sessant’anni che oggi invece si festeggiano.
Non lo faranno, ne sono certa: ricorreranno, come sempre, alla più insipida retorica.
Nel parlare di questo anniversario ci sarebbero mille cose da dire. L’elenco dei problemi all’ordine del giorno è lungo e drammatico. Non vi accenno, perché sono noti a tutti e tutti i giorni ne parliamo.
Temo che dal vertice celebrativo di Roma non uscirà nulla di serio, casomai solo qualcosa di preoccupante, come la già sbandierata proposta di rafforzare la nostra comune potenza militare (peraltro già ragguardevole, contrariamente a quanto si pensa), come se il possesso di un numero maggiore di cannoni potesse darci maggiore sicurezza contro il pericolo terrorista. O più autonomia dagli Stati uniti.
In realtà per riavviare qualche interesse per l’Unione europea, in un momento in cui più scarso non potrebbe essere, ci vorrebbe proprio una riflessione sul perché le tradizionali forze europeiste – di sinistra ma anche di destra – hanno a tal punto perduto la fiducia dei loro elettori.
E’ accaduto per molte ragioni ma essenzialmente perché si è andato sempre più confondendo il progetto europeo con quello della globalizzazione: l’Europa anziché smarcarsene, riaffermando la sua positiva specificità (a cominciare dal welfare ma soprattutto dalla sua storica maggiore distanza dalla mercificazione di ogni aspetto della vita), vi si è piattamente sempre più allineata.
E allora, perché l’Europa? Che senso ha, se resta niente altro che un pezzetto anonimo del mercato mondiale?
Costruire una nuova entità supernazionale, dotata di una qualche omogeneità culturale, sociale, economica e dunque politica, non è obiettivo facile. Tanto più se si pensa che la storia dell’Europa è storia delle sue nazioni, diverse in tantissime cose, a cominciare dalla lingua che vi si parla. Ma proprio per questo bisognava aver cura della società e non impegnarsi tecnocraticamente a costruire una pletorica macchina burocratica totalmente anti-democratica.
Senza un soggetto europeo, un popolo europeo in grado di diventare protagonista, dotato di quei corpi intermedi che danno forza all’opinione pubblica – sindacati, partiti, media, associazioni – come si può pensare di chiedere redistribuzione di risorse, solidarietà anziché competizione, comune sentire? Il problema dell’Unione europea, insomma, non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia.
Torno a richiamare la riflessione su un ultimo esempio: un mese fa la Bayer ha comprato la Monsanto, un puro accordo commerciale privato internazionale. Che avrà però per tutti noi conseguenze pesantissime, molto più rilevanti di qualsiasi altra deliberazione parlamentare.
Crediamo davvero che un’ Italietta che riacquista la propria totale sovranità nazionale potrebbe esercitare un controllo su simili decisioni? Se c’è una speranza di recuperare qualche forma di de-privatizzazione delle decisioni ormai assunte dai colossi operanti sul mercato internazionale l’abbiamo se daremo più forza a una delle entità in cui la globalizzazione potrebbe articolarsi, l’Europa, per l’appunto. Ma non una Europa qualsiasi, non l’attuale, bensì solo a una entità politica che abbia ridisegnato un modello di vera democrazia adeguato alla nostra epoca. Che ha come premessa il diritto-potere del popolo di contribuire alla determinazione delle scelte che lo riguardano.
Un tempo si chiamava “sovranità popolare” ed era intesa come “nazionale”; ora dobbiamo coniugarla come “europea”, ma senza, per questo, perdere la sostanza del termine sovranità e popolare.
Per questo è importante l’iniziativa delle tante associazioni, a cominciare dalla “mia” Arci, che, con il titolo “La nostra Europa”, ha promosso seminari e incontri in questi due giorni e oggi la marcia che parte alle 11 da piazza Vittorio.
E’ diversa da tutte le altre in programma: perché vuole dire sì all’Europa ma insieme che deve cambiare profondamente. E anche che per dare consistenza a questo obiettivo bisogna cominciare a dare protagonismo ai cittadini europei, non come individui, ma come soggetto collettivo. “La nostra Europa” ne è l’embrione.
« L'ex ministro greco, presenta un
New Deal europeo. Un piano in due tempi: subito proposte dirompenti per l’economia e il lavoro, poi una Costituzione che sostituisca i trattati». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)
Diem 25 (Democracy in Europe Movement), il movimento paneuropeo fondato dall’ex ministro greco dell’economia Yanis Varoufakis un anno fa a Berlino, oggi torna a Roma per presentare il suo programma economico. È il primo passo per approntare un’agenda «progressista» nella prospettiva delle elezioni europee del 2019. Entro il 2025, Diem intende «democratizzare l’Unione Europea», sempre che ne esisterà una tra otto anni. Nel frattempo propone un «dialogo» con le forze politiche esistenti per individuare una forma politica capace di dare vita a un «terzo spazio» oltre i liberismi, i sovranismi e i populismi «che vogliono recuperare un passato che non è mai esistito e vivono del rigetto dell’establishment» sostiene il co-fondatore italiano Lorenzo Marsili. Sul piatto Diem mette 60 mila iscritti in Europa, 8 mila in Italia. Oggi Varoufakis sarà alla manifestazione «La nostra Europa» che parte alle 11 da piazza Vittorio.
Dalla dichiarazione di Roma oggi non arriverà alcuna svolta per un’Europa agonizzante. Il futuro sarà l’Europa a due velocità sostenuta da Italia, Spagna, Francia e Germania, ma rifiutata dal blocco dell’Est?
Questa soluzione mi intristisce. Esiste già da molto tempo. È un revival della proposta Juncker sulle geometrie variabili dell’Unione Europea. Se questo è il futuro significa che questi politici si dichiarano già sconfitti e non sanno dove portare questo continente. Quella che stanno celebrando è la distruzione dell’Unione Europea e il suo approccio business as usual che alimenta populismo, xenofobia e reazione.
Cosa propone Diem 25 per uscire da questa impasse?
Una strategia in due tempi: ora un New Deal europeo, proposte economiche dirompenti, attuabili già da domani mattina, a trattati vigenti di cui non sono affatto orgoglioso. Dopo avere affrontato seriamente il problema della povertà di massa e della cronica mancanza di investimenti, promuovere un’assemblea costituente paneuropea che elabori una costituzione democratica e sostituisca tutti i trattati.
Un tentativo di costituzione europea è stato respinto nel 2005 dai referendum in Francia e in Olanda, soprattutto da sinistra che ha contestato la natura neoliberista di quel testo. Questo nuovo, eventuale, tentativo sarà diverso e in che modo?
Non può che essere diverso. La prospettiva è costruire una repubblica europea su base federalista e che coinvolga tanto i parlamenti quanto le autonomie locali, sempre a partire dai cittadini e dalle loro città. Questo non sarà possibile farlo finché l’Europa continuerà a disgregarsi. Non sarà possibile parlare di una simile prospettiva finché dalla Grecia alla stessa Germania ci sarà la paura di perdere il lavoro o di non trovarlo.
Cosa prevede il «New Deal europeo» che presenterà stasera alle 20 al teatro Italia di Roma?
Un piano di investimenti per la riconversione ecologica da finanziare con un nuovo uso del Quantitative Easing con il quale, oggi, la Bce di Draghi acquista titoli di stato e delle imprese. È basato su un rilancio della Banca Europea degli investimenti. La Bce dovrebbe acquistare i suoi bond per finanziare gli investimenti. Inoltre vanno assicurati i beni di prima necessità e il diritto a un alloggio degno da finanziare con i profitti delle banche centrali europee. I rendimenti del capitale e della finanza vanno socializzati.
Diem 25 si sta configurando come un movimento politico trans-europeo. Quali saranno i suoi prossimi passi?
Abbiamo rivolto un invito aperto, e non una lista di cose da fare, ai partiti, sindacati, movimenti, ai cittadini. Confrontiamoci nei prossimi due mesi. Il 25 maggio ci incontreremo alla Volksbühne di Berlino, a un anno dalla nostra fondazione, per avviare un processo politico elettorale in vista delle prossime europee. Il processo prenderà forme diverse in ogni paese per dare una declinazione nazionale dell’agenda che avremo discusso e condiviso.
Da De Magistris a numerosi esponenti delle associazioni e delle sinistre fino a D’Alema, sono numerosi i soggetti interessati a un discorso critico e rifondativo dell’Europa politica. Ma seguono opzioni non proprio convergenti. Quale spazio avrà Diem?
De Magistris ha aderito al nostro movimento, molti esponenti della sinistra italiana sono interessati. D’Alema ha iniziato a fare un discorso molto critico su quello che è diventata l’Europa. Sta a lui capire se vuole parlare con noi. Il nostro documento sul New Deal non è la bibbia, stabilisce i parametri per un confronto.
Quali sono i vostri obiettivi?
Creare un’infrastruttura che possa permettere alle sinistre, e a un’area politico-culturale più ampia, di avviare un dialogo diverso da quello che esiste oggi. È il nostro lavoro: aprire lo spazio affinché questo possa avvenire a livello continentale.
Cosa risponde a chi, da sinistra, vuole uscire dall’Euro e dall’Unione Europea?
L’Unione Europea, per com’è stata costruita, è una cattiva idea. Lo sostengo dal 1998. La Grecia non doveva entrarci. E questo non lo dico perché sono anti-europeo, ma perché era insostenibile la sua permanenza. Di questa realtà bisogna tuttavia fare un’analisi dinamica e non statica. Gli eventi sono determinati da una molteplicità di cause. Ora non basta dire che l’uscita ci porterà al punto dove l’Unione Europea non ci porterà mai. La nostra proposta è seria, modesta e internazionalista, basata su una disobbedienza costruttiva. A differenza dei left-exiters il nostro piano A non prevede l’uscita dall’Unione Europea, ma un meccanismo per gestire gli effetti negativi di una possibile disgregazione dell’Eurozona. Quando l’establishment metterà una pistola alla tempia, come ha fatto con me quando facevo il ministro dell’Economia della Grecia, allora sarà possibile dire: fallo. E ne pagherai le conseguenze. Dobbiamo condividere le responsabilità politiche e smetterla di accusarci a vicenda.
il Fatto quotidiano, 23 marzo 2017
L’Unione europea si appresta a celebrare il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma manifestandosi sotto forma di un immenso accumulo di spettacoli. Come nelle analisi di Guy Debord, tutto ciò che è direttamente vissuto dai cittadini è allontanato in una rappresentazione.
Le celebrazioni sono il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi. Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”.
La realtà dell’Unione va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali sono i suoi strumenti privilegiati?
La prima cosa che vuole è risolvere a proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo, illustrando il Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Ue, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere Ue deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati.
In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi.
La difesa europea e anche l’Europa a due velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro: siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica, solidarietà, e pace alle frontiere e nel mondo. Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’Ue. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente.
All’indomani della crisi del 2007-2008, la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra.
La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione Ue), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori: come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non.
Se decidesse di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è con il tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle più forti (nazionali o sovranazionali).
Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico, Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.
il manifesto, 24 marzo 2017
«Siria, 500 marine e milizie curde schierate verso Raqqa, raid aereo Usa fa strage di sfollati», così titolavamo una nostra pagina ieri. Ecco il punto. Se si rimuove e cancella la guerra in corso, gli strumenti di analisi per comprendere gli attentati jihadisti come quello sanguinoso di Londra, è un grave danno non solo alla verità ma anche all’intelligenza.
La scia di sangue, che è tornata fin nella recinzione del parlamento britannico e a un anno esatto dagli attacchi a Bruxelles, dura infatti da troppo tempo. È una seminagione che parte dall’11 settembre 2001 a New York, arriva in Europa, prima in Spagna, poi a Londra e di seguito a Parigi, prima Charlie Hebdo poi, con una vera azione di guerra imparagonabile al ponte di Westminster, al Bataclan.
Dietro, impossibile non vedere, la diaspora di Al Qaeda troppo presto data per liquidata dopo l’uccisione di Osama bin Laden e invece riattivata in tutto il Medio Oriente con nuovi gruppi affiliati; e altrettanto incredibile tacere la lunga stagione della guerra occidentale nella vasta aerea mediorientale, dall’Afghanistan, dove dura da 16 anni e che nel solo 2016 ha prodotto 11.400 vittime civili, all’Iraq che era «missione compiuta» nel 2003; alla Libia e alla Siria dove la coalizione ibrida di Paesi europei, Usa, Turchia e petromonarchie del Golfo tentava lo stesso colpo riuscito a Tripoli con Gheddafi.
Se si rimuove questa ombra feroce che pesa sulla democrazia occidentale, vale a dire l’adesione e la promozione di conflitti bellici almeno negli ultimi venti anni, ecco che il terrorismo jihadista diventa indecifrabile. E invece i suoi codici sono ben leggibili ai nostri occhi.
Eppure ci si richiama alla necessità del modello israeliano, dimenticando che anche per l’Onu Israele occupa militarmente i territori palestinesi.
Così si ricorre a topos narrativi, il lupo solitario, l’emulazione su web, la propaganda islamista, il terrorista della porta accanto.
E si richiama la figura dei foreign fighters, che non sono poche decine ma migliaia e migliaia, da 15 a 20mila denunciò Obama stesso. Tutti partiti in tour da Europa e Stati uniti, mentre le rispettive intelligence guardavano da un’altra parte. E tutti bene accolti dall’atlantica Turchia che, in stretti legami economici e militari con i jihadisti, poi li ha smistati sui campi di battaglia. Ora ci ritornano pericolosamente in casa. Proprio mentre si annunciano le battaglie «decisive» delle due o tre guerre mondial-mediorientali ancora di là da finire.
Si combatte in Siria anche per far fallire la tregua decisa dall’Onu e i negoziati di Astana.
Sul campo si fronteggiano almeno sette eserciti, degli Usa – ora schierati piedi a terra -, della Russia, della Turchia, di quel che resta della Siria di Assad, le milizie sciite hezbollah e iraniane e la miriade di jihadisti, qaedisti e dell’Isis.
Ma la scia non finirà, nemmeno se cadesse Raqqa e neanche se cade Mosul, dove la frantumazione è pressappoco eguale anche perché ogni giorno in Iraq è strage di civili proprio per reazione alla perdita di posizioni del jihadismo sunnita.
Tre sono gli Stati distrutti dai nostri conflitti, Iraq, Libia e Siria: il cuore del Medio Oriente non esiste più.
Si dirà che ormai la scia di sangue del terrorismo di ritorno è diventata endemica. Ma questa endemia deriva dalle alleanze strategiche dell’Occidente legate mani e piedi alle petromonarchie del Golfo e alla nuova Turchia del Sultano Erdogan, nonostante tutto. Deriva cioè dalle guerre che abbiamo promosso.
Testimoni soli e veridici i milioni di disperati in fuga dai conflitti, dal terrorismo e dalla miseria. Una umanità alternativa che, solo se si azzarda a venire da noi, la ricacciamo con i muri e le fosse comuni a mare, per rinchiuderla poi «democraticamente» in campi di concentramento.
I dati evidenziati dalla Commissione sono eloquenti. Se agli anziani, sempre più numerosi, si aggiunge il numero, sia pure in calo, di bambini e ragazzi al disotto di 15 anni, il risultato è che ad oggi nei paesi dell’Unione ci sono solo meno di due persone in età lavorativa che devono supportare le spese d’istruzione, sanità, pensioni, oltre alle altre spese generali dello stato per ogni persona anziana o molto giovane. Nei prossimi anni la situazione è destinata ad aggravarsi giacché la dipendenza dei giovanissimi e soprattutto degli anziani graverà su una persona e mezza in età lavorativa (1,57 nel 2030). E ciò solo in termini fiscali.
Ancor più importante è il deficit in termini di Pil. La sproporzione crescente tra la popolazione complessiva e quella in età lavorativa (anche a non tener conto del tasso di disoccupazione, dei sottoccupati e inattivi) non promette nulla di buono. Infatti le proiezioni economiche e di bilancio della Commissione prevedono una crescita media del Pil dell’1,1% fino al 2020 e dell’1,4% nei decenni successivi (nell’Ue a 28, ora 27). I valori sono ancora più bassi per l’Ue a 15. Il che significa una perdurante stagnazione.
Stando così le cose, la prima conseguenza negativa è che per garantire gli attuali livelli di spese sociali non basta continuare a tagliare in nome di un “rigore” dalle cui strette si vuol uscire solo a parole. Come non bastano i vani e inutili propositi di riduzione della spesa pubblica complessiva.
Per modificare questi squilibri occorrerebbe una rapida crescita della popolazione in età lavorativa dell’ordine di decine di milioni in pochi anni. Il che sarebbe possibile solo mettendo in atto politiche di accoglienza e rapida regolarizzazione di immigrati decine di volte più numerosi di quelli che bussano attualmente alle nostre porte.
Ovviamente, ciò richiederebbe una decisa inversione di tendenza anche in politiche economiche capaci di promuovere un effettivo ampliamento delle basi produttive e del lavoro. Ma pure su questo piano bisognerebbe che gli slogan conclamati non fossero contraddetti dalle pratiche effettivamente adottate.Ed è proprio questa la contraddizione da cui emerge la doppiezza politica dell’Unione europea e dei paesi membri. Non v’è alcuna intenzione di riformare il sistema economico e innovare le politiche sociali.
Si preferisce far credere che sia possibile ed utile fermare i flussi migratori e ignorare la funzione riequilibratrice che essi avrebbero in termini demografici, economici e socio-culturali.
Anche chi pretende di distinguersi dalle politiche di partiti e governi apertamente nazionalisti e xenofobi poi elabora e sottoscrive programmi che pretendono di rispedire i migranti nei paesi dai quali fuggono. E sono disposti a stringere patti con governi spesso corresponsabili delle condizioni di conflitto e di miseria dai quali uomini, donne e bambini cercano scampo a costo di subire sofferenze e violenze d’ogni genere fino al rischio di morire.
Con quale coraggio si celebra l’anniversario di un’Europa ideale proprio quando gli stati membri dell’Unione e le istituzioni comunitarie attuano programmi che contraddicono i più elementari diritti di chi fugge da guerre, conflitti etnici, povertà estrema? Si finge di distinguere tra migranti che avrebbero diritto di accoglienza – salvo poi contingentarne il numero e richiuderli in campi di ritenzione in attesa di pochi permessi e molto probabili rimpatri – e i cosiddetti “irregolari”. Si tenta così di giustificare la negazione di qualsiasi accesso a chi cerca solo di sfuggire alla fame ed invoca l’elementare diritto di costruirsi una vita migliore.
Ma non basta. Non si esita ad alimentare sentimenti di paura ed ostilità nelle popolazioni dei paesi meta dei migranti del tutto strumentalmente, a fini di controllo e disciplinamento sociale o addirittura di mero calcolo elettorale. Tutto ciò non merita alcun sventolio di bandiere.
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Annunciata indirettamente dal Segretario di stato Usa, Rex Tillerson, che ha esortato i Paesi alleati, durante l’incontro ieri con il premier iracheno Heider al Habadi, «a fare di più» contro l’Isis, l’operazione dietro le linee nemiche compiuta da 500 combattenti curdi appoggiati delle forze speciali Usa, ha colto di sorpresa i miliziani dello Stato islamico. Il blitz, con l’impiego di aerei Osprey capaci di atterrare in spazi ristretti come un elicottero, è avvenuto a Tabqa, una cittadina della provincia di Raqqa, la “capitale” dell’Isis in Siria. I curdi hanno strappato all’Isis il controllo di quattro villaggi e interrotto la strada che porta verso Aleppo, a ovest. Tuttavia Raqqa si trova a decine di chilometri a est del luogo dove sono intervenuti curdi e americani. L’obiettivo dell’operazione perciò è solo quello di mettere le mani su quell’area, in preparazione dell’assalto finale a Raqqa. L’operazione congiunta segna un nuovo passo verso un maggiore coinvolgimento militare in Siria della nuova Amministrazione Usa che, come ha ribadito ieri Tillerson, considera la guerra all’Isis la «priorità assoluta». A Mosul intanto gli uomini del Califfato resistono alla pressione dell’esercito iracheno e la liberazione della città appare ancora lontana.
Non lontano da quell’area, nella cittadina di Mansoura, decine di sfollati siriani sono stati uccisi da un bombardamento aereo della scuola dove erano ospitati. I morti sarebbero una quarantina e l’Osservatorio per i diritti umani in Siria, vicino all’opposizione, sostiene che è stato compiuto dalla Coalizione a guida americana. Silenzio da parte di Washington, responsabile appena qualche giorno fa di un altro attacco aereo contro presunti «leader di al Qaeda» che invece ha centrato in pieno una moschea facendo dozzine di vittime. Nella scuola di Mansoura avevano trovato alloggio temporaneo una cinquantina di famiglie fuggite dai combattimenti nella provincia di Raqqa e da quelle di Homs e Aleppo.
Nel frattempo è definitivamente crollata la tregua proclamata alla fine dello scorso anno e la Siria precipita in una nuova, ma non inattesa, escalation militare innescata da jihadisti e qaedisti, descritti come “ribelli” o “insorti” dai media occidentali. In qualche capitale del Golfo qualcuno ha deciso di silurare i negoziati avviati da russi e turchi ad Astana e dalle Nazioni Unite a Ginevra, considerati «favorevoli» al presidente siriano Bashar Assad. I miliziani della Hay’at Tahrir al Sham, la coalizione composta da al Qaeda e dai suoi numerosi alleati, proseguono l’offensiva alla periferia orientale di Damasco e a Hama. Qui i qaedisti e altri gruppi islamisti hanno raggiunto il villaggio di Khatab, 10 chilometri a nord ovest della Hama. A Damasco Hay’at Tahrir al Sham, che domenica aveva lanciato una prima offensiva respinta dai governativi, martedì è ritornata all’attacco e ha occupato una zona industriale della capitale. Per ora i qaedisti guidati da Abu Muhammad al Julani, luogotenente di Ayman Zawahri, il successore di Osama Bin Laden, resistono agli attacchi aerei e al fuoco dell’artiglieria governativa. E a loro volta, dal sobborgo di Jobar, lanciano razzi e colpi di mortaio verso la capitale. In linea d’area sono ad appena tre-quattro chilometri dal quartier generale di Assad e domenica erano riusciti a colpire anche un edificio dell’ambasciata russa. Decine di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro case per sfuggire ai combattimenti.
Alla vigilia di una nuova sessione di colloqui tra governo ed opposizione l’inviato speciale dell’Onu per la Siria Staffan De Mistura ha descritto questi sviluppi come “allarmanti”. Un po’ poco visto di fronte al negoziato che si sta sbriciolando. Tra i gruppi alleati di al Qaeda nell’assalto della capitale infatti ci sono anche Ahrar al Sham e Jaysh al Islam considerati “moderati” dall’Occidente e Mohammed Alloush, leader di Jaysh al-Islam – fazione finanziata e armata dall’Arabia saudita – è il capo negoziatore a Ginevra. E se nei mesi scorsi, dopo la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano, i “ribelli” si erano spaccati in due gruppi – i presunti “moderati” favorevoli a discutere una soluzione politica e i qaedisti considerati “terroristi” anche dagli Stati Uniti e non solo da Mosca – adesso la frattura si è ricomposta. E la direzione dell’orchestra jihadista “ribelle” appare saldamente nelle mani di al Qaeda contraria a qualsiasi ipotesi di compromesso con «l’apostata» Assad. Invece secondo l’editorialista Hussein Abdel Aziz, del quotidiano saudita al Hayat, l’offensiva di Hay’at Tahrir al Sham non sarebbe volta a far naufragare il negoziato bensì avrebbe solo lo scopo di rafforzare l’opposizione ai colloqui a Ginevra ed Astana.
nytimes.com, Sunday Review, 18 marzo 2017
Sintesi
Si calcola che, a partire dal 1990, grazie agli aiuti internazionali è stata salvata la vita di più di 120 milioni di bambini affamati. Ma oggi è in atto una tragedia che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio sterminio: in particolare nello Yemen dove, complice l’Arabia Saudita che è alleata degli USA, si impedisce l’accesso ai reporter, per nascondere una carestia apocalittica. La blanda tradizione umanitaria bipartisan dei governi degli Stati Uniti (meno di un quinto dell’1% del reddito nazionale è stato mediamente allocato nel corso del tempo agli aiuti umanitari: circa la metà delle donazioni degli altri paesi sviluppati) sarà cancellata da Trump. L’Amerika non vuole più occuparsene: priorità agli investimenti nel settore militare, costruzione del muro con il Messico, drastico taglio dei fondi per l’assistenza (sia agli strati più poveri della popolazione americana che alle crisi umanitarie internazionali). Sono queste le priorità sbandierate dal nuovo tiranno dell’Occidente» (m.c.g.)
First, a quiz: What is the most important crisis in the world today?
A.) President Trump’s false tweets that President Barack Obama wiretapped him.
B.) President Trump’s war on the news media.
C.) Looming famine that threatens 20 million people in four countries.
Kind of answers itself, doesn’t it?
«We are facing the largest humanitarian crisis since the creation of the United Nations,» warned Stephen O’Brien, the U.N.’s humanitarian chief. «Without collective and coordinated global efforts, people will simply starve to death.»
How is Trump responding to this crisis? By slashing humanitarian aid, increasing the risk that people starve in the four countries — Yemen, South Sudan, Somalia and Nigeria. The result is a perfect storm: Millions of children tumbling toward famine just as America abdicates leadership and cuts assistance.
«This is the worst possible time to make cuts,» David Miliband, president of the International Rescue Committee, told me. He said that “the great danger” is a domino effect — that the U.S. action encourages other countries to back away as well. The essence of the Trump budget released a few days ago is to cut aid to the needy, whether at home or abroad, and use the savings to build up the military and construct a wall on the border with Mexico.
(Yes, that’s the wall that Trump used to say Mexico would pay for. Instead, it seems it may actually be paid for by cutting meals for America’s elderly and by reducing aid to starving Yemeni children.)
It’s important to note that «all of these crises are fundamentally man-made, driven by conflict,» as Neal Keny-Guyer, C.E.O. of Mercy Corps, put it. And the U.S. bears some responsibility.
In particular, the catastrophe in Yemen — the country with the greatest number of people at risk of famine — should be an international scandal. A Saudi-led coalition, backed by the United States, has imposed a blockade on Yemen that has left two-thirds of the population in need of assistance. In Yemen, “to starve” is transitive.
The suffering there gets little attention, partly because Saudi Arabia mostly keeps reporters from getting to areas subject to its blockade. I’ve been trying to enter since the fall, but the Saudi coalition controls the air and sea and refuses to allow me in. In effect, the Saudis have managed to block coverage of the crimes against humanity they are perpetrating in Yemen, and the U.S. backs the Saudis. Shame on us.
Likewise, the government in South Sudan this month denied me a visa; it doesn’t want witnesses to its famine.
In the United States, humanitarian aid has been a bipartisan tradition, and the champion among recent presidents was George W. Bush, who started programs to fight AIDS and malaria that saved millions of lives. Bush and other presidents recognized that the reasons to help involve not only our values, but also our interests.
Think what the greatest security threat was that America faced in the last decade. I’d argue that it might have been Ebola, or some other pandemic — and we overcame Ebola not with aircraft carriers but with humanitarian assistance and medical research — both of which are slashed in the Trump budget.
Trump’s vision of a security threat is a Chinese submarine or perhaps an unauthorized immigrant, and that’s the vision his budget reflects. But in 2017 some of the gravest threats we face are from diseases or narcotics that can’t be flattened by a tank but that can be addressed with diplomacy, scientific research, and social programs inside and outside our borders.
It’s true that American foreign aid could be delivered more sensibly. It’s ridiculous that one of the largest recipients is a prosperous country, Israel. Trump’s budget stipulates that other aid should be cut, but not Israel’s. The U.S. contributes less than one-fifth of 1 percent of our national income to foreign aid, about half the proportion of other donor countries on average.
Humanitarian aid is one of the world’s great success stories, for the number of people living in extreme poverty has dropped by half since 1990, and more than 120 million children’s lives have been saved in that period.
Consider Thomas Awiapo, whose parents died when he was a child growing up in northern Ghana. Two of his younger brothers died, apparently of malnutrition. Then Thomas heard that a local school was offering meals for students, a “school feeding program” supported by U.S.A.I.D., the American aid agency, and Catholic Relief Services. Thomas went to the school and was offered daily meals — on the condition that he enroll.
«I kept going to that little village school, just for the food,» he told me. He became a brilliant student, went to college and earned a master’s degree in the U.S. Today he works for Catholic Relief Services in Ghana, having decided he wants to devote his life to giving back.
I asked him what he thought of the Trump budget cutting foreign assistance. «When I hear that aid has been cut, I’m so sad,» he answered. «That food saved my life.»
Link: 'ThatFood Saved My Life,' and Trump Wants to Cut It Off - The New ...
https://www.nytimes.com/.../that-food-saved-my-life-and-trump
La Nuova Venezia, 20 marzo 2017 (m.p.r.)
CORTEO PER L'ACCOGLIENZA
«SIAMO TUTTI CITTADINI»
Venezia. Il Veneto che vuole una società dove l’uguaglianza a prescindere dal colore della pelle e la parità dei diritti siano valori fondanti, si è mostrato ieri per le calli di Venezia con la Marcia per l’Umanità, al grido di «la nostra Europa non ha confini, siamo tutti cittadini». La Venezia città dei ponti, è diventata simbolo della richiesta di ponti umanitari e solidarietà sociale. La manifestazione, organizzata da Melting Pot, si inserisce nel più ampio movimento europeo #overthefrontress che monitora i percorsi dei migranti, denunciando le ingiustizie.
I MIGRANTI SI PRESENTANO AI RESIDENTI
di Giusy Andreoli
Villanova, incontro per conoscere i dieci stranieri appena arrivati in paese
Villanova di Camposampiero. Sono stati presentati ieri mattina dal sindaco ai residenti i 10 migranti africani che hanno trovato accoglienza in due appartamenti di Murelle Vecchia affittati dai proprietari, privati cittadini, alla Cooperativa “Laris” di Torri di Quartesolo, in accordo con la Prefettura di Padova. I 10, che ieri erano alle scuole medie, provengono dall’hub di Bagnoli e sono in Italia da giugno; cinque sono cristiani e cinque musulmani. Tutti sono stati vaccinati e hanno fatto uno screening sanitario. Kone Wandan è della Costa d'Avorio, ha 25 anni e faceva il commerciante; Mballo Madou è del Senegal, ha 28 anni ed era agricoltore; Len Yamory arriva dalla Guinea, ha 20 anni, studiava e dava una mano ai genitori nei campi, anche Fofan Abdurahman è della Guinea, ha 18 anni, studiava e aiutava i genitori in campagna; Madjegue Keita è invece del Mali, ha 18 anni e lavorava in campagna; arriva dalla Nigeria Ewemad Yobo, 25 anni, elettrauto; Osaren Ikponmwosa è nigeriano e diplomato ragioniere; nigeriano è Lucky Omobude, di 27 anni, gestiva un negozio di vestiti. Gli ultimi due sono della Sierra Leone: Tajan Alhajiss, 19 anni, studente, muratore e Koemneh Vandi, 25 anni, studente.
la Repubblica, ed.Bari online, 17 marzo 2017
Uno stabile destinato a ospitare migranti è stato occupato da una decina di famiglie del quartiere Salinella a Taranto. La zona di via Plinio è stata transennata e presidiata dalle forze di polizia. I circa 50 occupanti protestano: «Perché dare queste case ai migranti quando noi siamo senza casa e lavoro». Secondo il coordinatore regionale dei giovani di Forza Italia Mimmo Lardiello, «i residenti della zona sono preoccupati perché si parla dell'arrivo di 400 immigrati. Il governo non può decidere da un giorno all'altro di trasformare un quartiere che ospita numerosi studi professionali in un ghetto». I poliziotti hanno poi proceduto alle operazioni di sgombero dell'immobile in seguito alla denuncia presentata la proprietario.
Da giorni circolava la voce che lo stabile al numero 16 di via Plinio, edificio di proprietà privata fino a due anni fa sede di uffici comunali, sarebbe stato preso in fitto da cooperative che si occupano dell'accoglienza e dell'assistenza ai migranti. L'allarme fra le famiglie della zona è scattato quando sul posto si è presentata una ditta di pulizie. In pochi minuti i manifestanti hanno allontanato i dipendenti della ditta e messo un guardiano all'ingresso dello stabile. La zona è stata subito presidiata dalla polizia. Poi sono arrivate mamme e bambini che hanno occupato gli alloggi.
La protesta ha un duplice volto: da un lato le famiglie della parte più popolare del quartiere che chiedono aiuto e alloggi al Comune, dall'altro professionisti e residenti della zona Bestat (Beni stabili), «preoccupati che l'arrivo di alcune centinaia di migranti peggiori ulteriormente la qualità della vita in un quartiere scarsamente illuminato e già teatro di atti vandalici contro portoni e auto in sosta», come spiega il consigliere comunale di Fi Giampaolo Vietri.
«L'accoglienza non può essere improvvisata e schizofrenica. Bisogna individuare razionalmente - aggiunge Lardiello - aree dove sono garantiti controlli di polizia e impatto sociale. Pochi mesi fa trenta migranti sono stati sistemati in un palazzo in pieno centro a Taranto ed hanno violato il regolamento condominiale creando scompiglio fra i residenti».
la Repubblica, 13 marzo 2017
Il clima sta cambiando, anche in Italia. Lo si capisce dalle parole, scritte nei documenti ufficiali ed evocate nel dibattito politico: quelli che erano semplicemente “migranti” adesso sempre più spesso vengono chiamati “irregolari” o “clandestini”. Termini in voga negli anni di Silvio Berlusconi premier, con un governo apertamente sostenuto da un partito a vocazione xenofoba quale la Lega Nord.
Questa svolta è incentivata e in parte finanziata dall’Unione Europea. La Commissione di Bruxelles però non sembra avere definito una strategia per affrontare la realtà dell’esodo: non è un’emergenza ma — ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella — «un fenomeno epocale che non si può rimuovere». Le radici sono nella situazione disastrosa del continente africano, ma l’impressione è che la Ue stia puntando solo a contenere gli effetti, cercando una maniera per ridurre le partenze dalla Libia.
Un approccio tattico, carico di pericoli. Lo sfruttamento dell’esodo è l’unica industria che continua a crescere nello sfacelo libico, con una vera e propria catena di montaggio che oltre alle organizzazioni tribali della zona di Sabratha — l’epicentro degli imbarchi — coinvolge una rete di relazioni ramificata fino al cuore dell’Africa subsahariana. Più in Libia aumenta la confusione, più migranti vengono fatti salire sui gommoni. E in questi giorni il caos è massimo. Ci sono combattimenti tra milizie d’ogni genere, un po’ ovunque, con una escalation militare che vede in campo armamenti sempre più sofisticati: persino a Tripoli da settimane si segnalano scontri.
Finora tutti gli interventi della comunità internazionale si sono rivelati velleitari. Come ha sottolineato sulle pagine del think tank "Brookings" Federica Saini Fasanotti, una delle migliori analiste del marasma tripolino: «La Libia ha bisogno di un piano d’azione realistico». Quale? La stessa ricercatrice in un’audizione alla Commissione affari esteri della Camera di Washington ha parlato di «destrutturare per ristrutturare» puntando a «uno stato federale, diviso in tre larghe regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. I governi regionali potrebbero proteggere meglio gli interessi locali nella sicurezza, nella rinascita economica e nell’amministrazione ». È una prospettiva circolata lo scorso anno pure in alcune cancellerie europee e in ambienti del governo italiano, poi abbandonata per il sostegno incondizionato all’esecutivo benedetto dalle Nazioni Unite e guidato dal premier Fayez Serraj.
A un anno dall’insediamento, però, Serraj non è riuscito a creare strutture nazionali e stenta persino a imporre la sua autorità sull’intera capitale.
Per questo è assurdo pensare di fermare la marcia verso Nord confinando i migranti sul territorio libico. In una zona di guerra, ogni azione delle forze locali, inclusa la nuova guardia costiera formata dalla missione navale europea, mette a rischio la vita di uomini, donne e bambini. Gli scafisti non esitano a sparare contro le vedette per difendere il loro carico umano. E obbligano a partire anche con il mare in tempesta, aprendo il fuoco contro chi si ribella: la scorsa settimana 22 persone sono state uccise e 100 ferite. Solo stabilizzando la Libia si potrà cominciare ad affrontare il problema. Ma questo richiede un impegno dell’intera Europa, con una visione chiara: siamo davanti a un esodo che impone una risposta globale.
«Libia. Incontro con la piattaforma libica della società civile che chiede al prossimo Consiglio Onu per i diritti umani di creare un team di monitoraggio. «Abusi sistematici, torture, rapimenti: diritti violati da tutti gli attori del conflitto». il manifesto, 11 marzo 2017
Due appuntamenti vanno segnati sul calendario libico di qui a 15 giorni: il 15 marzo la Corte d’Appello di Tripoli emetterà la sentenza sul memorandum d’intesa firmato da Italia e governo di unità nazionale (Gna) sui migranti; e il 22 all’Onu si riunirà nella sua 34esima sessione il Consiglio per i diritti umani.
Due date importanti. Ad attenderne i risultati ci sono anche Zahra’ Langhi, fondatrice della Libyan Women’s Platform for peace; Karim Saleh, responsabile per la Libia del Cairo Institute for Human Rights Studies; e Hisham al Windi, attivista.
Li abbiamo incontrati a Roma dove sono incontreranno istituzioni e associazioni della società civile in rappresentanza della piattaforma nata nel settembre 2016 e che mette insieme 16 organizzazioni di base libiche impegnate in campi diversi, migrazione, genere, media, libertà di espressione. L’obiettivo è dare la misura della sistematicità delle violazioni in atto nel paese e la distruttiva frammentazione in autorità diverse che impedisce l’individuazione dei responsabili di crimini.
Il quadro ce lo danno mostrandoci la lettera inviata al Consiglio per i diritti umani e sottoscritta, tra gli altri, dal Cairo Institute, Amnesty International e Human Rights Watch: 450mila sfollati interni, centinaia di migliaia di migranti africani in transito detenuti e abusati, migliaia di prigionieri nelle carceri delle diverse autorità.
«La situazione umanitaria in Libia non ha mai smesso di deteriorare dal 2011 – ci spiega Karim – È peggiorata nel 2014 con la scissione delle autorità centrali in due e poi nel 2016 con la scissione in tre diversi esecutivi in competizione, ognuno con un braccio armato. Le violazioni sono sistematiche: detenzioni arbitrarie, tortura e stupro nelle carceri, rapimenti e sparizioni forzate che hanno come target sia i difensori dei diritti umani che la comunità giudiziaria, giudici, avvocati, procuratori e le famiglie delle vittime che tentano le vie legali».
«Gli abusi sono perpetrati da tutti i diversi attori del conflitto, che si muovono in una free-zone. La comunità internazionale deve creare un meccanismo di monitoraggio degli abusi».
Che è esattamente quello che chiedono al Consiglio per i diritti umani: una missione di esperti indipendente che monitori la situazione umanitaria e faccia progressi per perseguire i responsabili.
«L’Isis non è il solo gruppo criminale in Libia – continua Karim – All’interno delle frammentate istituzioni di est e ovest la situazione è la stessa. E dietro di loro ci sono Stati che trasferiscono con regolarità armi e denaro, come l’Egitto a favore di Haftar in violazione dell’embargo Onu. Armi che non solo impediscono di spezzare il circolo della violenza, ma che aumentano il potere di gruppi estremisti in totale contraddizione con le dichiarazioni pubbliche delle autorità egiziane: dicono di sostenere Haftar in chiave anti-terrorismo, ma nella realtà lo creano».
«A monte sta il fallimento dell’intervento occidentale che non ha disarmato e demobilitato i gruppi nati dopo Gheddafi né aiutato alla costruzione di un sistema di sicurezza interna basato sul rispetto dei diritti umani – aggiunge Zahra’ – Il fallimento nello state-building e nel bloccare il flusso di armi ha disintegrato il paese».
Lo si vede nel fenomeno delle città-Stato libiche: ogni gruppo governa uno specifico territorio con un diverso obiettivo politico, religioso o etnico. Hisham tenta da tempo di monitorare i diversi attori che nascono e si riproducono, «le repubbliche militari» le chiama.
«Alcune milizie sono legate al premier del Gna Sarraj, al generale Haftar o all’ex primo ministro Ghwell; altri non si sono coalizzati con nessuno. Tale ramificazione di poteri in competizione è dovuta all’enorme afflusso di armi nel paese dal 2011. Non è stato immaginato alcun piano per il post-Gheddafi, per disarmare le milizie e far partecipare questi soggetti in un processo politico serio. Le dinamiche delle ‘repubbliche militari’ sono in continua evoluzione: si ampliano e si riducono con grande rapidità; alcune sono legate a poteri precedenti, clan, tribù, altre sono frutto di poteri nuovi o di scissioni, come lo stesso Haftar o i cosiddetti ‘quiet salafi’, i salafiti non jihadisti, invisibili sotto Gheddafi ma ora presenti anche tra le fila di Haftar in chiave anti-jihadista. La parte più debole, in tutta questa situazione, è lo Stato».
Uno Stato che non c’è, sebbene qualcuno finga di vederlo. Come l’Italia che con il Gna, che controlla a mala pena Tripoli, ha raggiunto un’intesa per frenare i migranti. Il giudizio della società civile è pessimo: «Un atto immorale: l’Italia ha forzato un paese troppo debole – dice Zahra’ – Non è un accordo, ma un memorandum, trucco che elimina aspetti legali come la ratifica dei due parlamenti che infatti non c’è stata. Il Gna è debole, si aggiunge ad altri due “governi”, non ha autorità né legittimazione perché non è stato votato da nessuno. In questa situazione senza potere di fatto né legittimazione popolare il Gna si è visto imporre un accordo dall’Italia che incrementerà gli abusi sui migranti che resteranno in un paese dove le milizie abusano di loro dall’arrivo alla tentata partenza. È immorale e esacerba la fragilità del Gna, un governo che tra 9 mesi scade. Qual è il piano dopo 9 mesi?».
Internazionale online, 10 marzo 2017 (p.d.)
Il 2 febbraio il primo ministro italiano e il primo ministro del governo di unità nazionale libico Fayez al Serraj hanno firmato un memorandum d’intesa per fermare l’arrivo dei migranti in Europa. Nel memorandum si dichiara l’intenzione di rinchiudere i migranti in centri di detenzione di prossima costruzione in Libia e di offrire sostegno finanziario e addestramento alle forze di sicurezza libiche affinché sorveglino i confini della Libia. Una volta tanto i libici si trovano d’accordo su qualcosa: molti giornalisti, blogger, leader di milizie e politici hanno condannato il memorandum, tutti per motivi diversi e da diversi punti di vista. Permettetemi di condividere con voi alcune delle opinioni espresse su questa sponda del Mediterraneo.
La posizione di forza dell’Italia
In un articolo intitolato “Acqua calda e governo complice”, il giornalista Salem Barghouti ha affermato che il documento è “simile a un memorandum d’intesa imposto a paesi che sono stati sconfitti e occupati, attuato con l’aiuto del governo complice dell’occupazione”. E prosegue: “Dal 2004 l’Italia cerca di istituire un centro regionale in Libia per impedire l’immigrazione irregolare, ma non c’era riuscita perché lo stato era forte. Tuttavia, questo progetto, o per meglio dire il sogno italiano, è tornato alla ribalta politica quando l’Unione europea ha avuto la certezza che la debole e dispersiva Libia era pronta ad accettare l’avvio degli insediamenti. Prima di firmare un simile memorandum, il governo di unità nazionale avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che il documento non dovrebbe esentare l’Italia dal rispetto degli impegni presi in precedenti accordi e trattati stipulati con l’ex regime, in particolare il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008. Quel trattato comprendeva un risarcimento per le vittime libiche delle mine seminate dall’Italia per impedire l’ingresso delle truppe dell’Asse in Libia e un risarcimento per il periodo coloniale sotto forma di investimenti per un valore stimato di cinque miliardi di dollari (4,7 miliardi di euro). I centri di riabilitazione a cui si fa riferimento nel memorandum d’intesa disporranno di alloggi, strutture sanitarie, medicine e attrezzature, una prova eloquente del fatto che questi centri sono concepiti per essere stabili e modulabili. E questo significa il reinsediamento di migranti in un paese che gli europei ritengono uno stato al collasso in cui non si prevede alcun significativo miglioramento nel prossimo futuro. Gli italiani si trovano in una posizione di forza. Sono stati in grado di dettare le condizioni nell’interesse dell’Italia, tenendo conto del prezzo pagato per il sostegno offerto alla rivoluzione libica. Non sono scontento del memorandum d’intesa; so che presto arriverà un altro governo nazionale e getterà a mare quell’accordo, e il mare lo risospingerà sulle coste italiane”.
Un grande gioco
Il coordinatore delle relazioni libico-egiziane con le tribù, Akram Jirari, ha messo in discussione le intenzioni e la credibilità della concomitante decisione presa dalla Banca centrale della Libia di liquidare i dollari per i cittadini libici. In base a questa decisione, ciascun libico avrà il diritto di ritirare un totale di 400 dollari statunitensi (378 euro circa) per ciascun membro della sua famiglia. Jirari ha spiegato che questa risoluzione non è altro che “un grande gioco per distrarre la gente con la questione del cambio del dollaro mentre in Libia si costruiscono gli insediamenti per profughi e migranti”. In un linguaggio aspro ha aggiunto che la decisione di costruire insediamenti ha lo scopo “di sbarazzarsi dei migranti irregolari e impedire loro di arrivare in Europa facendoli invece stabilire in Libia, con tutte le malattie e i danni che possono causare, un peso che adesso stanno sopportando in Europa”.
Un altro commentatore ha tracciato dei parallelismi con un argomento doloroso tra i più citati, la dichiarazione di Balfour, che stabiliva il sostegno del governo britannico alla fondazione di un “focolare ebraico” in Palestina. Lo stesso commentatore si chiede: “In Libia sarà la volta della dichiarazione di Al Serraj, la promessa di istituire una patria per gli africani in Libia?”.
La camera dei rappresentanti con sede a Tobruk ritiene “nullo e privo di valore” il memorandum d’intesa. Secondo i parlamentari, la questione non “è soggetta a interessi individuali né agli interessi dei paesi europei, in particolare della repubblica italiana”. E continuano: “L’Italia sta cercando di sbarazzarsi del peso e dei pericoli dell’immigrazione clandestina per la sicurezza, l’economia e la società in cambio di un po’ di sostegno materiale alla Libia, che è peraltro già obbligata a fornire”.
In molti hanno sottolineato come già nel 2008 la Libia avesse firmato un accordo dettagliato sullo stesso argomento. Si chiedono se il nuovo memorandum d’intesa sia stato un tentativo da parte dell’Italia di disattendere gli obblighi imposti dal precedente trattato o di sfruttare la situazione di vulnerabilità della Libia. In una dichiarazione, la commissione nazionale sui diritti umani in Libia ha espresso un netto rifiuto del memorandum d’intesa o di qualsiasi altro “progetto, protocollo, convenzione o memorandum politico o legale che possa suggerire il rimpatrio dei migranti africani o il loro reinsediamento in Libia”.
L’assenza del punto di vista dei migranti
Come ho detto prima, quasi tutte le fonti libiche tendono a concordare su questa vicenda. Cosa ancora più significativa, nonostante la grande varietà di punti di vista sono tutte accomunate anche da quello che non dicono. Criticando il memorandum d’intesa, nessuno ha espresso preoccupazione per le condizioni disumane che i migranti subiscono e continueranno a subire. Leggendo le notizie sui mezzi d’informazione internazionali, capita di imbattersi in titoli come questo: “I leader dell’Ue discutono di come il blocco dei 28 stati membri possa impedire ai migranti di imbarcarsi su navi di fortuna sulla costa libica per attraversare il Mediterraneo diretti in Europa”.
In altri termini, finché tenete i migranti lontani dalle coste europee possiamo fare finta che vada tutto bene: quello che succede a Tripoli resta a Tripoli. Le condizioni dei migranti sono già un incubo in Libia. Perciò firmare un documento che istituisca per loro una Guantanamo libica è servito soltanto a sancire ufficialmente le loro sofferenze e a suggellare la loro situazione disperata. L’assenza del punto di vista dei migranti limita la possibilità di una vera comprensione della situazione e di un vero dibattito.
Definiamo noi stessi e i nostri rapporti con gli altri soprattutto in base ai dettagli sul nostro conto che permettiamo agli altri di conoscere: quanto riveliamo di noi stessi, e come e quando scegliamo di rivelarlo. In una prospettiva più ampia, una catena di informazioni stabile, illimitata e senza censure è essenziale per comprendere qualsiasi condizione umana. Nella vicenda relativa alla crisi dei migranti e alle soluzioni proposte osserviamo ciò che accade quando le persone più colpite da una situazione non hanno alcuna voce in capitolo, quando il loro punto di vista viene ignorato. Nonostante l’accesso immediato a un’enorme quantità di informazioni, il resto del mondo continua a non sapere molto di quello che accade sull’altra sponda del Mediterraneo.
Venti mesi fa mi sono unito ad Andrea Segre nel suo viaggio per la realizzazione del film L’ordine delle cose. Mi ha spiegato la sua idea di aprire un varco sulle storie che accadono lontano dai riflettori quando si firma un accordo di questo tipo. Sono convinto che la sua idea diventerà un’importante testimonianza cinematografica.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
la Repubblica, 8 marzo 2017
La nuova sfida di Orbán arriva proprio nel giorno in cui la Corte di giustizia europea, respingendo il ricorso di una famiglia siriana che tentava di entrare in Belgio, ha deciso a sorpresa con una sentenza che gli Stati “non sono obbligati a garantire visti umanitari a persone che desiderano entrare nel loro territorio con l’obiettivo di presentare richiesta d’asilo”. In Ungheria, i nuovi migranti che riusciranno a entrare nel Paese saranno alloggiati in campi di raccolta costruiti con enormi alloggi-container in fila parallela circondati da filo spinato, finché il loro caso non sarà esaminato. Verso il summit straordinario della Ue a Roma il 25 marzo, è una sfida. Si reintroduce l’arresto automatico dei richiedenti asilo, sospeso nel 2013 su richiesta della Ue e dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). «Con Donald Trump presidente eletto a Washington, elogiato da Orbán, il vento è cambiato», dicono fonti diplomatiche Nato per telefono.
Di loro solo 425 hanno ottenuto asilo. È in costruzione la seconda barriera anti migranti al confine serbo: “barriera intelligente”, un sensore ogni 15 cm. Human Rights Watch accusa, ma senza prove, i soldati ungheresi di pestare i migranti e filmare tutto su selfies. Il partito di Orbán è membro del Ppe (Popolari europei).