loader
menu
© 2025 Eddyburg

La grande manifestazione milanese. Una fiumana unita, ma senza ipocrisie. Articoli di Marco Revelli e Luca Fazio, Piero Colaprico, Daniele Fiori. il manifesto, la Repubblica, il Fatto quotidiano, 21 maggio 2017il manifesto
20 MAGGIO,
LA RIVINCITA DELL’UMANO
di Marco Revelli

Affermazione perentoria che ritornerà in mille cartelli,magliette, adesivi zizzagando lungo tutto il serpentone del corteo. Intornotanta, tanta gente di ogni etnia, di ogni età, di ogni paese che s’incrociava,incontrava, mescolava con accenti diversi, vestiti diversi, storie diverse, appartenenzediverse, ma tutti trascinati nel ritmo amico della grande festa tranquilla. Etutti coinvolti nella comune consapevolezza che si stava, insieme, sul versantedi uno spartiacque che sta decidendo del futuro del mondo e del mondo delfuturo, rispetto al quale non si può più dilazionare il momento della scelta.Se non ora quando?
Si è discusso molto sulle linee di frattura che organizzano oggiil campo del conflitto politico e sociale. Quella che divide Destra e Sinistra,dichiarata da più parti obsoleta e stracca. Quella che contrappone Alto eBasso, emergente e turgida, capace di disegnare lo scenario dei nascentipopulismi. Quella tra Conservazione e Innovazione, con tutto il carico diambiguità che entrambi i termini contengono. La linea di frattura rispetto allaquale si è schierata ieri Milano (e a Milano l’Italia) è la linea che separa econtrappone Umano e Inumano. Linea d’ombra estrema, in qualche modo terminale,che conduce le comunità alle questioni ultime: essere o non essere ancora capacidi riconoscersi l’un l’altro, e il Noi nell’Altro.
Chi ha sfilato ieri ha sentito il bisogno di dire moltosemplicemente, che voleva «restare umano». Non girare lo sguardo di fronteall’immagine di un uomo che muore, di un bambino che affoga, di una donna chepartorisce su una spiaggia e poi spira. Una scelta potente (con una carica dienergia positiva forte), perché quando l’Umano scende in campo con tutta la suaforza, gli argomenti del Disumano svaniscono, come i fantasmi di un romanzogotico: lo si vedeva bene ieri dove, nella «sua» Milano Matteo Salvini sembravauna misera ombra, irreale e grottesca, evocata solo da qualche cartelloirridente (uno recitava + Salvati /- Salvini).
Ma il 20 maggio milanese ha detto anche un’altra cosa. Un calmo,pacato ma fermo No all’ipocrisia politica. Alle finzioni e ai giochi doppi otripli. I cartelli gialli con su scritto «No Minniti e Orlando» checostellavano il corteo in tutti i suoi segmenti, dalla coda alla testa, nonerano espressione di una posizione «di parte». E nemmeno di una vocazione«divisiva».
Nella loro rizomatica pervasività esprimevano un sentimentodiffuso e condiviso d’intransigenza su questioni di fondo quali sono quelle deidiritti e del rispetto della vita: non si può ridurre la nuda vita a minacciadel «decoro urbano». Non si possono creare corsie veloci e preferenziali per leespulsioni a scapito dei giusti gradi di giudizio. Non si può trattare constati canaglia e tribù affinché respingano a crepare nel deserto coloro che nonsi vuole veder approdare sulle nostre spiagge… Semplicemente non si può. Chi lofa, magari di nascosto, dietro il paravento dell’ipocrisia diplomatica, sicolloca sul versante del disumano.
il manifesto
IN 100 MILA ALLA PARATA PER I MIGRANTI.

UN MONDO È GIÀ QUI
di Luca Fazio
«Insieme senza muri. Con la giornata per l'accoglienza, fortemente voluta dall'assessore Piefrancesco Majorino, e sostenuta dal sindaco Beppe Sala, si materializza il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia. Un successo clamoroso che ha dato voce a chi con diverse sfumature chiede a questo governo politiche immigratorie inclusive e non discriminatorie come la legge Minniti-Orlando»
Siamo contenti? Contentissimi. Ma consapevoli. Che non ci si può godere in eterno un pomeriggio come questo trascorso in una delle piazze più accoglienti d’Europa. Torneremo nella dura realtà, ma domani. Oggi siamo stati travolti, organizzatori compresi, da una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni. La parata per l’accoglienza è sfuggita di mano, a tutti. Meno male. Passerà alla storia come il corteo antirazzista più imponente che ci sia mai stato in Italia, anche perché si è materializzato come per incanto in uno dei momenti peggiori della storia recente. I numeri contano: sono circa100 mila persone, vere. Chilometri di storie diverse, unite da uno stesso sentimento, magari confuso ma sincero. Milano-Barcellona 1-1. E così Milano – e speriamo che davvero sia sempre in anticipo sui tempi – da ieri potrebbe cominciare a raccontarsi come una città “top player” dell’accoglienza.

Direbbe così il sindaco manager Beppe Sala, uno dei protagonisti assoluti di questo 20 maggio che somiglia a un 25 aprile di quelli meglio riusciti. Sembra l’unico politico, lui che politico non è, consapevole che – sommessamente – “il tema dell’immigrazione riguarderà le nostre vite per i prossimi decenni e io voglio essere un costruttore di ponti non di muri”. E ancora: “Di fronte al tema epocale delle migrazioni non si può girarsi dall’altra parte, vi prometto che non lo farò. Lavoro ogni giorno per costruire una grande Milano, ma questo non avrebbe senso se si perdesse l’anima solidaristica della città, io cercherò di fare Milano grande ma senza dimenticare la solidarietà”. Vedremo nei fatti se saprà onorare questo suo indiscutibile successo. Anche il presidente del Senato, Pietro Grasso – “chi nasce e studia qui è italiano” – si è lasciato andare sul palco in piazza del Cannone che fino a sera ha raccolto i pensieri di chi ha voluto testimoniare la propria presenza (con Radio Popolare che trasmetteva il tutto facendo gli onori di casa). Emma Bonino ha guardato avanti: “Milano oggi esprime quello che sarà il futuro del paese, piaccia o non piaccia”.

Il 20 maggio è anche una liberazione per tutti. Da un incubo che per anni ha paralizzato e continua a demoralizzare la parte migliore della società: è la paura di dichiararsi e fare politica definendosi antirazzisti, anche alzando la voce. Invece, forse, si può fare anche se per essere convincenti bisognerà lavorare duro, aggiornarsi e sporcarsi le mani. Compitino per la sinistra: erano tutti a Milano i leader del nuovo frastagliato corso (Mdp compreso). La voce per esempio l’ha alzata l’assessore Piefrancesco Majorino (giù il cappello, please) quando ha urlato contro Matteo Salvini e le sue “infamie” dette per insultare le persone che hanno raccolto il suo invito ad esserci, ognuno con la sua specificità e non senza qualche asprezza dichiarata.

Sono schegge di un vortice impossibile da mettere a fuoco con un’occhiata. Lasciamo perdere il “variopinto” ed il “colore”. La musica, ça va sans dire, ma non basta per dare l’idea. Ecco: il vero motivo per cui è andata alla grande è la presenza dei cittadini stranieri, mai visti così tanti tutti insieme. Non erano invitati, sono protagonisti a casa loro. Un mondo è già qui. Speriamo che un documentarista abbia raccontato la complessità delle moltitudini che si sono palesate con le loro storie drammatiche o già risolte, in t-shirt pettoruta o in costume tradizionale come all’apertura delle Olimpiadi. C’erano tutti. Ucraini, cinesi (nella loro compostezza marziale), cingalesi, salvadoregni, messicani, senegalesi, e profughi, persone non illegali che stanno aspettando di sapere se l’Italia vorrà farne dei cittadini o nuovi prigionieri da rispedire da qualche parte. Forse a morire. Tanto per tornare sul tema dell’accoglienza, che dopo una giornata come questa sarebbe bene non declinare in maniera approssimativa per lavarsi la coscienza senza tenere conto che le leggi approvate dal governo fanno carta straccia proprio di tutto quanto è stato detto ieri a Milano. Nuove prigioni, legislazione su base razziale, espulsioni di massa e respingimenti in Libia concordati con milizie da addestrare.
Chiedono altro i centomila. La contrarietà alla legge Minniti-Orlando è stata espressa in forme diverse lungo chilometri di percorso. Con cartelli, sventolando lembi di coperte termiche oro e argento, quelle che avvolgono i corpi dei migranti sopravvissuti. Guardarsi attorno e cogliere questo comune sentire non significa voler semplificare il dato politico. Il nodo rimane quello. Ognuno lo ha ribadito a modo suo. Tutte le associazioni cattoliche la pensano così e hanno dato prova di una grande capacità di mobilitazione (un leader credibile loro ce l’hanno). Tutte le associazioni laiche che si occupano di immigrazione hanno voluto esserci e potrebbero tenere seminari sui danni che provocherà la legge del Pd. I ragazzi dei centri sociali, quelli della piattaforma “Nessuna persona è illegale”, lo hanno urlato in faccia ai pochi esponenti del partito che ieri hanno preso coraggio e si sono rintanati nel primo spezzone del corteo. Chi con la guardia del corpo e chi un po’ meno al sicuro protetto da una gabbietta comica costruita dai City Angel per attutire le contestazioni. Sono stati presi a male parole ma niente di che, l’unico striscione del Pd che ha preso aria era un simpatico fake che ha guastato il colpo d’occhio alle prime file ingessate: “Pd, peggior destra” (niente di eversivo, solo centri sociali che citano Saviano…).

A proposito, sinceri applausi all’assessore extraterrestre del Pd,Pierfrancesco Majorino. Ci ha creduto fin dall’inizio. Adesso? E’ già ora di rimettere i piedi per terra. Ieri sono sbarcati 358 migranti a Trapani, 560 a Vibo Marina e 734 ad Augusta.

la Repubblica
LA MARCIA DEI CENTOMILA
di Piero Colaprico

«A Milano il popolo dell’accoglienza: “Ponti, non muri. ”In piazza anche il presidente del Senato Grasso: “È italiano chi nasce e studia qui” Berlusconi: “Così si delegittimano gli agenti del blitz alla stazione”»

Ma dov’è stata tutta questa gente che è uscita, verrebbe da dire, da chissà quali catacombe? Dov’erano per esempio sino a ieri, con le loro bandiere con il leone giallo in campo rosso, che ricordano quelle dei leghisti veneti, i giovani dello Sri Lanka? Hanno i costumi tradizionali, c’è chi balla e chi sfila con le divise della scuola, a decine mostrano alcuni cartelli vagamente surreali: «Visitate il nostro paese», con le foto del mare. Dai Bastioni di Porta Venezia è talmente tanta la gente, e a occhio uno su due è straniero, che il corteo parte mezz’ora prima, alle 14. All’inizio ci sono 50mila persone, alla fine dal palco si dice che erano centomila, in effetti, siccome i telefonini funzionano come radio militari, si sentivano messaggi di questo genere: «Dove sei esattamente?». E le risposte stupiscono: «Ancora in piazza Repubblica?, ma noi siamo in piazza del Cannone, al Castello, ma com’è possibile?».

Il sindaco Giuseppe Sala ci ha visto giusto, nel voler rilanciare, in una Milano dove crescono gli investimenti immobiliari e la popolazione universitaria, la marcia pro-migranti di Barcellona. Lo descrivono a volte come un gelido manager, ma non ha detto no alla mamma, Stefania: «Sono orgogliosa, gliel’ho chiesto io di venire, ho 86 anni, ma capisco — dice — quando bisogna scendere in piazza». E così, chi sognava il flop, il «meno di diecimila persone », chi pontificava, «Milano non ha bisogno di manifestazioni, tanto si sa che Milano tradizionalmente accoglie», è stato sconfitto. C’è una Milano che non si nasconde e, almeno in parte, sa che può crescere sia con i cinesi che sfilano dietro al dragone giallo e sia con gli africani che portano a spalle un canotto. Marciano a venti metri di distanza gli scout in divisa e i «Sentinelli», il gruppo che sfila in rappresentanza delle famiglie non tradizionali. Arabe con il velo e messicani con il sombrero, borchie e crocifissi, mani di Fatima e cornetti. Ballano i peruviani e le peruviane, con costumi teatrali, rigidamente separati, comandati gli uni da un uomo e le altre da una donna con un fischietto. Si capisce immediatamente che la giornata — vale la pena di sprecare un aggettivo retorico — può essere «epocale», nel senso che questo 20 maggio contrassegna un’epoca, la nostra, ed erano anni che non si vedevano così tante persone, bambini compresi, come quelli della scuola Palmieri, i più allegri con un gigantesco telo arcobaleno, alzare la voce. E manifestare per «un’Europa che accoglie», slogan che allineano le bulgare con i fiori tra i capelli e il ragazzo con la maglietta «Non sono straniero, sono stranero».

C’è chi certamente si ostina a vedere l’immigrazione di un unico colore, quello ritenuto più utile nel voto: il colore della paura, il nero della cronaca. Da Ismail Hosni, l’accoltellatore scoppiato della Centrale, che scaricava sì i video dell’Isis, ma pure quelli delle gang latine. Ad Anis Amri, l’attentatore di Berlino, ammazzato a Sesto San Giovanni, non mancherà mai materiale per il leghista Matteo Salvini: «Questa è la marcia degli invasori, siamo ostaggi degli immigrati, ci stanno portando la guerra in casa, farò una marcia degli italiani», grida. E, da destra, anche Silvio Berlusconi prova ad attaccare quella che è la sua Milano, sostenendo che il corteo «delegittima le forze dell’ordine, io non l’avrei fatto».

Sono parole molto lontane dal fiume di colori, che vanno dal giallo argento delle coperte lucide con le quali si coprono i naufraghi al bianco-rosso di Emergency. Dallo striscione della Camera del Lavoro di Brescia a Pax Christi e al bianco della comunità di Sant’Egidio, portato da tre ragazze del liceo Berchet e da un giovane nero che dormiva al «Binario 21», nello stesso luogo dal quale partivano i treni per i campi di sterminio. C’è un gruppone autodefinito «via Padova», i ragazzini di una scuola di teatro con addosso la tuta bianca usata dalla polizia scientifica e ci sono, impresse su un lenzuolo, le mani dei giovani stranieri accolti in una comunità del Giambellino. Molta musica, di ogni genere, si leva lungo le strade e si cammina come spinti da un vento nuovo, quello di chi, come dice il presidente del Senato, Piero Grasso «Non vuole muri e siamo qui a dirlo anche a chi i muri li vuole, io sono qui per difendere la costituzione e chi nasce e studia qui è italiano». Lo stesso spirito viene colto dall’ex segretario Pd Pierluigi Bersani: «Sono qui perché questo 20 maggio è una specie di 25 aprile dei tempi nuovi». Si sono visti don Colmegna, Massimo D’Alema, Giuliano Pisapia, continuamente braccato da chi gli dice di unire sinistra e centrosinistra, Carlo Petrini di Slow Food, Susanna Camusso della Cgil, e da parte del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni arriva un tweet, «Grazie Milano,sicura e accogliente».

Contro Grasso, contro Sala, contro gli assessori Carmela Rozza e Giancarlo Majorino la sola contestazione è mossa da una quarantina di persone del centro sociale Cantiere, e fa un po’ impressione che il più esagitato sia Leon Blanchard, figlio di un famoso e ricchissimo gallerista. Per loro il Pd è «la peggior destra» e «Minniti razzista», ma la contestazione dedicata anche al ministro dell’Interno non ha prodotto alcun effetto concreto: «Meglio le contestazioni, che rinunciare alla marcia. C’è tantissima gente — dice il sindaco Sala — e so di vivere in una grande città con tante contraddizioni, ma sono convinto che se avessero chiesto ai militari feriti se fosse giusta la manifestazione avrebbero detto di sì. Hanno sofferto ma sono servitori dello Stato. Come sindaco io voglio essere costruttore di ponti e non di muri».

Molto applaudita anche Emma Bonino, che ha rincarato la dose: «Dobbiamo imparare a rimanere umani. Questa è la Milano dell’integrazione e della legalità e ora fatevi un regalo. Mettete una firma per voi e per il vostro futuro», e cioè contro la legge Bossi-Fini.
Finite le parole della politica e delle persone, è cominciata la musica e la festa in piazza gestita da Radiopopolare: a qualcuno non piacerà, ma è come se, in nome dei diritti sociali, la Milano che non sta a destra avesse ritrovato un po’ se stessa, quello che era, quello che potrebbe essere.

Il Fatto Quotidiano
PER I MIGRANTI 100 MILA IN CORTEO
(CON FISCHI AL PD)
di Daniele Fiori

«Sinistra divisa - I Democratici contestati per il decreto Minniti»

Una manifestazione parallela, perché le parole sono condivise, ma i fatti vanno in un’altra direzione e i promotori dell’iniziativa “sono gli stessi del decreto Minniti-Orlando”. Così si spiegano le proteste che hanno segnato la marcia “Insieme senza muri”, organizzata dal Partito democratico milanese con l’assessore Pierfrancesco Majorino in testa, sostenuto dal sindaco Beppe Sala. Lo slogan dell’iniziativa ha funzionato e ha portato circa 100mila persone a marciare per le strade da Porta Venezia fino a Parco Sempione, tra associazioni, stranieri di tutte le etnie e cittadini. Allo stesso tempo però ha messo in luce la chiara contraddizione che il Pd ha portato con sé ponendosi alla guida di una manifestazione pro-migranti. Una buona parte di chi era in strada considera infatti lo stesso Pd il responsabile della situazione in cui versa l’accoglienza oggi in Italia. E più che contro la legge Bossi-Fini, ha protestato contro il decreto del governo a firma dei ministri Marco Minniti e Andrea Orlando. Proprio Sala e Giorgio Gori, primo cittadino di Bergamo, sono stati a lungo contestati dai giovani del centro sociale Cantiere. Gridavano: “Minniti razzista” e mostravano lo striscione “Pd peggior destra”.

D’altronde la scritta “No Minniti Orlando”, insieme alle coperte termiche, è stata uno dei simboli della manifestazione. Portata al collo con fierezza da chi, come Roberta, sostiene sia “inutile parlare di Milano senza muri se poi è la stessa sinistra a costruirli”. Effetti collaterali di uno slogan che ha riunito in strada diverse anime della politica e della società civile, ma che è considerato in contraddizione con l’operato del governo. Lo dimostrano la presenza di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Stefano Fassina, fuggiti dal Pd, come anche di Gino Strada, Carlo Petrini e Moni Ovadia, rappresentanti di anime diverse della sinistra. Ma lo dimostrano pure le parole di Emma Bonino, eretta dagli stessi organizzatori a simbolo della marcia, che ha ammesso come il decreto Minniti-Orlando stabilisca “un diritto affievolito per i richiedenti asilo”. E così quando Sala ha cominciato il suo discorso dal palco di Piazza del Cannone, punto finale della marcia, davanti a lui campeggiava lo striscione “No Minniti Orlando”.

Subito dopo ha preso la parola il presidente del Senato Piero Grasso, interrotto a metà del suo discorso ancora dal coro “No Minniti”. La scommessa del sindaco di Milano è stata vinta in termini numerici, nonostante la difficoltà di organizzare una marcia a favore dei migranti nel mezzo delle polemiche sull’operato delle Ong nel Mediterraneo. Ma allo stesso tempo la grande risposta di pubblico ha fatto sì che emergesse in modo netto la contestazione di chi condivide i valori della marcia, ma non quello che il governo Pd ha fatto fino ad oggi. “Abbiamo organizzato e aderito all’iniziativa per fare una manifestazione parallela – spiega Zoe, membro della piattaforma No one is illegal – perché le parole portate oggi in strada dal Pd non corrispondono ai fatti”. Un’iniziativa pacifica, che si è unita al corteo dei migranti, facendo indossare anche a loro i cartelli con la scritta contro il decreto Minniti-Orlando.

“Una legge che aumenta le difficoltà dei disperati che arrivano in Italia”, accusa Santino. Le fa eco Paola: “Quando si costruiscono muri non importa se siano di destra o di sinistra, sempre muri sono”. Non stupisce lo striscione mostrato dall’associazione Clash city workers: “Pd = Lega”. E non sorprende che la maggior parte dei manifestanti siano d’accordo. Questo il pensiero di un’anima della marcia, una parte di elettori che si autodefiniscono “di sinistra”, con cui il Pd dovrà tornare a fare i conti, considerato il successo che l’iniziativa ha avuto. Anche perché in molti dicono di essere contenti dell’assenza di Renzi, “altrimenti la contestazione sarebbe stata dura”.

«Insieme senza muri. Più di mille associazioni laiche e cattoliche, centri sociali, partiti della sinistra e sindacati oggi partecipano alla marcia antirazzista. La piazza, critica apertamente le leggi sull'immigrazione Minniti-Orlando».

il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)

«Nessuna persona è illegale», poco importa se non sarà questo lo striscione che oggi a Milano aprirà la marcia per l’accoglienza dei migranti. L’incursione di chi ha lavorato per impedire che questa giornata antirazzista si trasformasse in una festosa e inutile parata filogovernativa ha già dato i suoi frutti.

Non è ancora una novità politica ma potrebbe essere più di un semplice slogan, forse è la speranza di ritrovare la forza per rovesciare un discorso a senso unico che negli anni ha tolto voce a chi si oppone al razzismo e alle leggi discriminatorie contro gli stranieri. E’ una storia lunga che si chiama Turco-Napolitano-Bossi-Fini-Minniti-Orlando.

L’obiettivo di chi oggi prova a rivoltarsi è ambizioso, riaggregare per andare oltre il 20 maggio e non farsi più schiacciare dalle schermaglie tra chi esibisce politiche razziste da destra e chi applica le stesse ricette criminali mascherandole con la retorica dell’accoglienza (in mare e nel deserto libico, si muore).

Con questa consapevolezza, sarà anche una festa. Con i bambini in prima fila (che ci guardano) e le musiche e le comunità straniere, per questo sarebbe bene dirla tutta senza ipocrisie. Sono attese in piazza migliaia di persone e considerata l’aria che tira, in Italia e in Europa, è già un fatto inedito rilevante. Un’occasione da non sprecare, pensano molti antirazzisti che da troppo tempo sono rimasti al palo. Non tutti però.

Comunque, sulla carta, ci saranno tutte le associazioni e le organizzazioni politiche e sindacali che vorrebbero riconoscersi in una società più aperta e inclusiva. Laiche e cattoliche, più di mille.

Ci sarà anche il Pd con qualche imbarazzo, è l’unica «formazione» invitata a non presentarsi in piazza con bandiere e simboli di partito (anche la presenza del ministro Maurizio Martina è percepita come un grattacapo).

Sono tre mesi che l’assessore Pierfrancesco Majorino (Pd), il primo a credere nella necessità di questa giornata, procede a tentoni con i piedi in due scarpe: da una parte non può fare a meno delle associazioni che lavorano con i migranti, tutte critiche con la legge Minniti-Orlando, e dall’altra non può rischiare di organizzare suo malgrado un corteo contro il governo e il Pd.

Ormai ci siamo. La voglia di esserci, forse per dovere, perché non ci si può sempre fare del male per eccesso di politicismo, è cresciuta in dirittura di arrivo anche per dare un segnale in controtendenza dopo un fatto di cronaca accaduto l’altra sera a Milano. Stazione Centrale, scenario perfetto: un giovane italiano senza fissa dimora, madre milanese e padre tunisino, Ismail Tommaso Ben Youssef Hosni, ha ferito tre agenti con un coltello da cucina durante un controllo. E’ indagato per terrorismo internazionale perché avrebbe postato un filmato sull’Isis. Leghisti, post fascisti e centro destri con la bava alla bocca - in testa Salvini e Maroni - hanno chiesto la sospensione della marcia.

Esemplare la risposta di Beppe Sala: «Resto convinto che l’accoglienza sia un dovere della nostra città e di chiunque possa alleviare le sofferenze di chi è in difficoltà serie e chiede aiuto. Confermo che guiderò la marcia . Il criminale che ha accoltellato gli uomini delle forze dell’ordine è figlio di madre italiana e di padre nordafricano ed è italiano a tutti gli effetti. Ciononostante a qualcuno fa comodo buttare questo atto criminoso sul conto dei migranti». Buon senso di libero manager.

Il sindaco è anche l’unico tra gli organizzatori che non avrà problemi di identità - e di relazioni con il Pd - se gran parte delle associazioni oggi non dimenticheranno di puntare il dito contro le leggi del governo che sono in contraddizione con lo spirito di accoglienza.

Lo sostiene chi si ritrova nella piattaforma «Nessuna persona è illegale» (centri sociali non solo milanesi, partiti della sinistra che non hanno bisogno di nascondere le bandiere, studenti, Arci Milano, Asgi, Naga, Melting Pot e altre 270 sigle).

E anche associazioni socialmente meno «pericolose» come Legambiente: «Affrontare la questione migranti come se fosse un problema di ordine pubblico, come fanno le pessime leggi 46 e 48 su nuove procedure per i richiedenti asilo e sicurezza urbana, proposte dal governo e approvate dal parlamento, è un’operazione pericolosissima» (la presidente Rossella Muroni).

E il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra, un’organizzazione non filogovernativa ma non per questo tacciabile di estremismo: «Chiediamo l’abrogazione delle leggi Minniti-Orlando, provvedimenti che, in nome di sicurezza e decoro urbano, portano ad un passo indietro sul piano dei diritti civili». Inutile nascondersi dietro un dito: fare nomi e cognomi oggi non è reato.

Chi ci sta scende in piazza alle 14,30 in Porta Venezia (la “piattaforma” anticipa alle 12 pranzando con i migranti). Pigri e riottosi possono rimediare con Radio Popolare, fanno una diretta esagerata.

«Il prontuario.Dal sarcasmo alla compassione ecco come zittire chi incita all’odio. Perché la prima guerra da combattere è contro il silenzio».

la Repubblica, 20 maggio 2017 (c.m.c.)


Come rispondere al razzismo aggressivo e manifesto senza mettersi sullo stesso piano di violenza verbale? Sono in tanti a tacere per questo timore, ma è un chiamarsi fuori che non paga. Il demoniaco sproloquio sul web dilaga anche perché sono forse troppo pochi quelli che hanno animo di rispondere pubblicamente, sul treno, per strada, al bar. La prima, vera guerra da combattere è contro il silenzio.

Brecht scrisse: «Non si dica mai che i tempi sono bui perché abbiamo taciuto». E i tempi furono bui per davvero. Non è la xenofobia il problema: ad essa va prestato attentamente ascolto. Essere inquieti di fronte all’Altro è un riflesso naturale e umano. Sbaglia chi non sa ascoltare questa paura. La classe politica ha il dovere di capire e gestire le tempeste identitarie generate dalla società globale per evitare che diventino odio, perché con quell’odio, poi, non si potrà più ragionare. È quanto accade sempre più spesso oggi.

Oggi siamo oltre il limite. Ed è diventato indilazionabile chiedersi in concreto con che parole rispondere a caldo, in modo efficace, alle provocazioni, stante che non serve porgere l’altra guancia, belare come agnelli o lanciarsi in raffinati pensieri. Bisogna avere a disposizione un’arma. Un vocabolario forte, metaforico, fulminante, capace di viaggiare su registri diversi. Qui provo a proporre un primo, un modesto arsenale di parole, una piccola officina che faccia da base per un vocabolario antagonista alle parole ostili.

La preghiera

«Prego perché tuo figlio non debba mai finire dietro un reticolato e perché tu non debba mai essere guardato come un miserabile. Prego Iddio che il tuo denaro e il tuo passaporto non siano mai rifiutati come carta straccia da un agente di polizia. Invoco il Signore perché i tuoi nipotini non debbano passare inverni nel fango, sotto una tenda, a mezzo chilometro da un cesso comune, con gli scorpioni e i serpenti che si infilano nelle loro coperte. Prego perché il tuo focolare non si riduca a un mucchietto di legna secca e il tuo unico contatto con la famiglia lontana sia il telefonino. Prego soprattutto perché tu non debba mai udire, rivolte a te, parole come quelle che hai appena pronunciato».

L’augurio

«Vorrei che tu non diventassi mai un miserabile, perché lo si diventa in un attimo. Basta molto meno di una guerra. È sufficiente un terremoto, un’alluvione. Una malattia, un tradimento, una truffa, un divorzio, un licenziamento, un bancomat che si nega allo sportello. Mio nonno emigrò per fame in Argentina, fece fortuna, poi la banca con tutti i suoi risparmi fallì e lui morì di crepacuore a quarant’anni, lasciando la famiglia in miseria. Oggi è peggio. Si diventa superflui per un nonnulla. Ti licenziano con un Sms. Anche senza emigrare».

L’accusa

«A sentire parole come le tue, se fossi un terrorista dell’Isis mi fregherei le mani. Penserei: che bisogno ho di fare altri attentati? Questi europei sono la mia quinta colonna. Si dividono invece di unirsi. Alzano reticolati fra loro. Risuscitano frontiere morte e sepolte. Picconano i loro valori: il laicismo, le garanzie, l’educazione scolastica. Invocano lo stato di polizia. Odiano le vittime del nostro stesso odio. Allontanano proprio quelli che meglio conoscono il loro nemico e potrebbero proteggerli dalla nostra aggressione. Cosa posso chiedere di più?».

L’ironia

«Bravi! Quando non ci saranno più stranieri, tutti i problemi saranno risolti. Niente più evasori fiscali, niente più debito di Stato, esportazioni di capitali, banche rapinate, assenteismo, inquinamento, disoccupazione, camorra, istruzione a pezzi... niente più ladri e imboscati, niente più congreghe di raccomandati che costringono i nostri figli a emigrare... Ma già, tu non chiami “emigrazione” quella dei tuoi figli, anche se finiscono nei call center con paghe da fame: la chiami “mobilità”, perché credi che a emigrare siano solo quelli con la pelle di un altro colore».

Lo sfottimento

«Urla, urla pure contro i migranti... Urlare è l’unica libertà che hai... Avrai tutti i megafoni che vuoi... Ti lasceranno fare perché le tue urla fanno il gioco dei potenti. Servono a coprire le loro responsabilità. A impaurire gli stranieri e abbassare il costo del lavoro. Le mafie, la grande distribuzione, l’alta finanza sentitamente ringraziano. Ma sappi che dopo gli stranieri toccherà ai tuoi, ai nostri figli. Non è mai stata inventata una forma più perfetta e perversa di dominio».

Il ghigno

«Però ti fa comodo che non tocchi a tuo figlio scannare galline in serie, sotterrare morti, pulire cessi e sottoscala, conciare pelli puzzolenti, raccogliere pomodori a cottimo, scuoiare manzi abbattuti, pulire i nostri vecchi in casa o in ospedale... Ti fa comodo, confessa, che ci siano gli stranieri. Il problema è che vorresti che, finito l’orario di lavoro, sparissero e che l’happy hour fosse solo per i tuoi figli. E io so perché: perché hai paura di conoscerli, gli stranieri. Perché se li conoscessi sapresti che sono come noi. E allora capiresti che il cerchio si chiude. Capiresti che dopo di loro toccherà a noi scannare galline in serie, pulire cessi e conciare pelli puzzolenti».

La commiserazione

«Vedi, io ho un’immensa pietà per quello che dici. Me ne dispiace. Perché se Gesù bambino tornasse, con sua madre, suo padre e l’asinello, lo chiuderesti in un centro di espulsione. Guai pensare che c’è qualcuno fuori al freddo. Sono cose pericolose. Fanno venire scellerati pensieri di frugalità... Non sia mai che la macchina del consumo rallenti prima di aver raschiato il fondo del barile. Perché solo allora capiremo che tra ghetti e agenzie di lavoro interinale, tra mafia e call center, tra il caporalato e le ottanta ora settimanali di lavoro inflitte legalmente da aziende senza patria, tra gli schiavi dei pomodori e i profitti dei signori in grigio non c’era nessunissimo confine».

L’avvertimento

«Ti piace Trump? Ti piacciono Theresa May e Marine Le Pen? Guardati dai falsi profeti, dai ladri e dagli scassinatori, guardati dai clown che recitano copioni da tragedia, dai contrabbandieri e dai seminatori di zizzania. Solo un’immensa, planetaria ingenuità può farti credere che un miliardario possa farsi paladino degli ultimi. Solo una colossale ignoranza, dopo due guerre mondiali, dopo l’autodistruzione della Jugoslavia e i massacri in Ucraina, può farti credere ancora alle parole di chi invoca la costruzione di muri nel nome delle nazioni. Additare nemici è l’ultima risorsa dei governanti incapaci».

La maledizione

«Via dall’Euro? Abbasso l’Europa? Vai, vai pure. Poi te lo paghi tu il mutuo. E dimmi, dove andrai? A diventare una colonia cinese? Ricordati la notte dell’Europa! Ricordati che ci siamo già suicidati due volte! Perfino il fascismo era meglio del berciare analfabeta! Oggi è Mein Kampf più Facebook, un’idea di stato governato da sceriffi e regolato dal porto d’armi universale. È questo che vuoi? Ricordati dei giornalisti uccisi! Ricordati che ci sono luoghi dove per il diritto all’informazione si muore!».

Le citazioni

«Non molesterai lo straniero, né l’opprimerai, perché foste anche voi stranieri in Egitto. Bibbia, Deuteronomio, 10.14 e 16-19». E ancora, anche se il rimando non è letterale: «Omero, Odissea, canto sesto. E Ulisse si accasciò sulla spiaggia dei Feaci, orrido a vedersi, ma Nausicaa, la figlia del re, non scappò da lui, gli diede di che mangiare, lavarsi e rivestirsi, e poi disse: raccontami la tua storia, straniero».

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Per questo motivo lo scorso febbraio Barcellona è scesa in piazza. È stata la manifestazione più grande d’Europa a favore dell’accoglienza dei migranti. Ed è nata per la volontà della società civile e con l’appoggio delle istituzioni. Siamo davvero felici di sapere dunque che anche a Milano il 20 maggio si riaffermerà questa stessa volontà e la necessità di non barricarsi dietro anacronistici muri “ideologici” e fisici.

“Vogliamo accogliere” non è solo lo slogan in cui si è riconosciuta la manifestazione che ha sfilato nella mia città a inizio anno. È molto di più. “Vogliamo accogliere” è la nostra risposta, della cittadinanza e anche di molti sindaci, di fronte alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” con cui l’Europa tutta si deve confrontare.

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché è nostro dovere. Siamo infatti noi, le città — e non gli Stati -, ad offrire un’opportunità reale di integrazione a immigrati e rifugiati. È nelle nostre strade e nelle nostre piazze che le persone smettono di essere numeri e diventano cittadini e cittadine. Ecco perché noi vogliamo e dobbiamo accogliere più persone e meglio.

Se non lo facciamo — se non ci impegniamo ad aprire la nostra comunità e la nostra società a chi lascia la sua casa e il suo Paese per cercare un’occasione di vita migliore nelle nostre città — , i nostri figli, i nostri concittadini ci chiederanno dove eravamo quando in Europa si alzavano muri e barriere contro quelli che fuggivano dalla guerra. Soprattutto ci chiederanno: che cosa avete fatto per evitarlo?

Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché l’appello del “popolo dell’accoglienza” che ha manifestato a Barcellona e che sfilerà a Milano per un “20 maggio senza muri” non lascia spazio a interpretazioni. Non abbiamo scuse per ignorarlo. Anzi, il coraggio, l’entusiasmo e l’apertura che così tante persone hanno dimostrato, dimostrano e dimostreranno ci spinge con forza a intraprendere azioni concrete e politiche.

Per questo motivo, serve l’aiuto e la collaborazione di molte altre città del mondo. Da Barcellona e Milano può nascere un network internazionale, in grado di indicare ai governi la via migliore da seguire per rispondere ai bisogni dei migranti, riconoscendoli come un’opportunità per la nostra società. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo. Perché nella gestione dei migranti l’Europa si gioca il proprio futuro e la propria credibilità. Le immagini che abbiamo visto in Italia, in Grecia e in altri Paesi stanno minando il progetto europeo e le sue conquiste; stanno mettendo in dubbio gli stessi principi fondanti dell’Europa. Oggi, davanti al pericolo di una “Europa- fortezza”, come città e come cittadini abbiamo la responsabilità storica di intervenire per cambiare la situazione. Vogliamo accogliere. E vogliamo continuare a farlo con serietà, ma anche con allegria ed entusiasmo. Perché le manifestazioni di Barcellona e di Milano altro non sono che una festa per i cittadini di tutto il mondo, un momento di incontro e di scambio, ricco di musica, colore, gioia e solidarietà.

Ecco allora che emerge con forza la necessità di ridare valore al Mediterraneo, di offrire al mondo un altro punto di vista per raccontare ciò che sta accadendo. Quel mare, che si è trasformato per molti migranti nel “mare della morte”, è infatti ancora il ponte, è il luogo in cui le culture si incontrano, è la ricchezza dei popoli che lo abitano. Affinché questa narrazione sia possibile ed evidente a tutti, le città devono unire le forze e continuare a essere un luogo di libertà che riconosce e garantisce i diritti a tutti coloro che in esse vivono. Per difendere tutto ciò, scendiamo nelle strade a manifestare. Vogliamo accogliere. Vogliamo continuare a farlo. E lo faremo, dando il nostro sostegno a Milano e a tutte le città che vorranno unire la loro voce alla nostra.

L'appello per la grande manifestazione, largamente unitaria, del prossimo sabato 20 maggio 2017 a Milano

«I casi veneziani al Campus universitario nel convegno su criticità e pratiche sostenibili nel Nordest».

La Nuova Venezia, 17 maggio 2017 (m.p.r.)

Mestre. «Dopo Germania e Giappone, l’Italia è il terzo stato al mondo con il tasso demografico più negativo da anni, un Paese di vecchi destinato alla scomparsa se non saprà integrare al meglio i migranti». Senza peli sulla lingua il professor Giorgio Conti - coordinatore degli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia - ha introdotto ieri al Campus universitario di via Torino il convegno dedicato ad un tema sempre più scottante nel mondo d’oggi, per l’Italia in particolare che è il primo approdo della fiumana di migranti che fugge da guerre, discriminazioni, miseria e disastri ambientali.

«Da immigrati a produttori: l’inclusione produttiva dei migranti: buone pratiche e criticità del e per il Nord-Est». Piaccia o no, l’Italia - come ha dimostrato la relazione di un ricercatore della Fondazione Leone Moressa piena di dati aggiornati - l’Italia è destinata al «declino demografico se non affronta la sfida delle grandi migrazioni con una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva di tutto il Paese». L’altra chiave per leggere l’epopea delle nuove migrazioni è «conoscere le cause delle migrazioni che non sono solo le guerre».
Francesco Della Puppa, del Master dell’Università Ca’ Foscari sull'Immigrazione ha parlato del lavoro autonomo immigrato, nel quadro dell’attuale crisi economica, in particolare del caso delle popolazioni immigrate dal Bangladesh in Italia e si sono stabilite in gran numero anche a Venezia dove lavorano, in gran parte nei cantieri navali. Al convegno – organizzato dagli Archivi della Sostenibilità, Università Ca’ Foscari Venezia – sono stati presentati una serie di casi di «integrazione riuscita» di migranti, diventati una risorsa per l’Italia.
«Non bastano i dati per capire cosa sta succedendo» ha puntualizzato Stefano Soriani, docente del dipartimento di Economia di Ca’ Foscari «ci vogliono racconti positivi di integrazione e ci sono, basta volerli vedere e magari imitare». Sono stati così mostrati i casi emblematici, il senegalese Moulaye Niang “Muranero”, artigiano del vetro a Venezia e in questi giorni ospite a Riace, in Calabria, dove sta insegnando il suo mestiere ad altri migranti che si sono stabiliti in quel comune, diventato esempio nel mondo di un’integrazione multiculturale positiva. E ancora, il caso di Hamed Mohamad Karim, un afgano che ha già messo in piedi quattro ristoranti etnici a Venezia. Oppure i giovani del Mali che ora lavorano e sui terrazzamenti in abbandono della Val Brenta e “Casa Colori” uno strumento innovativo di social housing per il turismo sociale e responsabile di Dolo
«Il Paese africano è una tappa obbligata per chi dalla Libia vuole arrivare in Europa. Ma deve prima subire torture e minacce di trafficanti e criminali».

la Repubblica, 17 maggio 2017

Per chi vuole entrare in Libia, per provare a saltare in Europa, il Niger è tutto. È la porta d’ingresso, la rotta di avvicinamento. Ma è anche la via di fuga, il percorso da fare in retromarcia per fuggire al mattatoio. Seny Condjira e Demba Djack ci hanno provato. Sono partiti dal Senegal, sono passati qui in Niger, sono entrati in Libia, hanno provato ad arrivare in Europa. Ma hanno fallito: sono stati torturati, picchiati, hanno assistito a tutto quello che succede da quelle parti. E hanno deciso che non era possibile, che dalla Libia bisognava soltanto fuggire, rientrare in Niger per tornare a casa.

Alla stazione di Niamey dei bus della “Sahelienne”, la compagnia che collega le capitali dell’Africa occidentale, i racconti dei migranti in ritirata dalla Libia sono terrificanti. Nelle foto sui telefonini ti fanno vedere i segni delle torture, i corpi martoriati e mutilati, due decapitati, decine di corpi bruciati non si capisce bene in quale occasione. Seny era partito quasi un anno fa. «Mio cugino è già in Italia, mi ha detto che da voi è assolutamente meglio della povertà assoluta che c’è qui».

Anche Demba ha provato a passare da Sebha e Tripoli per arrivare in Europa. «Vengo dalla regione di Matan, nell’interno del Senegal. Anche io ho visto le torture e la schiavitù in Libia. E sono fuggito». Ma perché questa violenza bestiale? «Adesso ti spiego come funziona in Libia», dice Seny che ha 34 anni e viene dalla regione di St.Louis. «Avevo iniziato il mio viaggio quasi un anno fa: dal Senegal al Mali tutto bene, noi con la carta di identità possiamo viaggiare nei paesi della Comunità dell’Africa occidentale. Poi dal Mali si passava in Burkina Faso, e lì i primi problemi: i poliziotti provano a rapinarti, a prenderti tutto quello che hai, e se non paghi rimani fermo alle stazioni per ore, per giorni. Per cui tu paghi. Siamo arrivati a Niamey, poi ad Agadez, prima di partire per il deserto e la Libia.

Ad Agadez ci attendevano i trafficanti, per giorni siamo rimasti nei ghettos organizzati per noi migranti: si sono fatti pagare e ci hanno assicurato il passaggio in Libia, in 30 su un pick-up Toyota. Il viaggio a noi è andato bene, in tre giorni siamo arrivati prima a Gatrun e poi a Sebha in Libia. Ma lì è l’autista ha detto che il trafficante non aveva pagato per noi, e che quindi doveva venderci, ci doveva portare dove c’erano gli altri migranti. Era una grande piazza, con intorno dei garage, un mercato degli schiavi».

«Noi africani venivamo comprati e venduti da arabi, da libici, che lavorano con la manovalanza di “caporali” nigeriani e ghanesi. Mi hanno venduto e trasferito in una prigione, una grande casa privata con altre 200 persone. Lì è iniziato il terrore: i carcerieri ci picchiavano, ci tagliavano con i machete, alcuni li hanno uccisi davanti agli altri. Perché? Ma perché tutti dovevamo essere terrorizzati e poi telefonare a casa per chiedere soldi, 300, 400 o 500 dollari per essere rimessi in libertà. Quando chiamavamo le nostre famiglie loro ci picchiavano per farci urlare, per terrorizzare i nostri parenti». Seny spiega bene come gli schiavisti libici ordinino ai migranti di chiedere soldi alle famiglie, chiedono di mandare i soldi con money transfer a loro complici in Ghana o in Guinea, così possono incassare senza farli passare dalla Libia.

Demba racconta che durante la prigionia molti ogni mattino venivano caricati per andare a lavorare nei campi, a costruire o riparare edifici, a fare qualsiasi tipo di lavoro fosse utile ai padroni. «Io sono riuscito ad avere un po’ di soldi dalla mia famiglia», dice Seny, «e a migliorare la mia posizione. Poi ho lavorato per loro come traduttore, perché molti di noi non parlavano nessuna lingua, in Libia il francese che parliamo noi non serve. In un modo o nell’altro, sono riuscito a comprami un viaggio per ritornare in Niger, e l’Oim ( l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) mi ha aiutato a tornare in Senegal».

Demba era arrivato fino a Tripoli, dove per settimane è passato da una fattoria-prigione all’altra. È riuscito a sopravvivere, e non sa ancora bene come sia riuscito a rientrare in Niger in rotta per il Senegal. «A Tripoli eravamo in condizioni micidiali. Un libico si è impietosito per uno di noi, lo ha portato in ospedale, ma in ospedale non c’era nulla. È stato fortunato perché un infermiere ha messo un post su Facebook e gli uomini dell’Oim sono andati ad aiutarlo, lo hanno curato e lo hanno rimesso in rotta per il Sud, io l’ho seguito».

I rapitori libici lavorano su grandi numeri: «Fanno fare decine e decine di telefonate, e trovano famiglie che corrono a vendersi la casa, le vacche, un pezzetto di terra pur di trovare i dollari chiesti come riscatto. In Libia è il caos totale, non c’è legge, è la perversione assoluta ». Giuseppe Loprete, il capo dell’Oim in Niger, dice che neppure questi racconti di vero terrore bastano a fermare quelli che dal Niger sono ancora in rotta verso il Nord, verso la Libia, sognando l’Europa: «Da mesi raccontiamo che il viaggio è un incubo, che possono morire in mare, che possono essere torturati e uccisi dai trafficanti.

Da qualche settimana abbiamo iniziato a far incontrare chi sale verso il Nord con chi fugge dagli schiavisti: soltanto i racconti di chi abbandona i campi di concentramento dei trafficanti ogni tanto convincono qualcuno a tornare indietro».

Seny e Demba spiegano però qualcosa di decisivo per capire la disperazione che sale dall’Africa: «Quando un anno fa abbiamo deciso di partire abbiamo mobilitato le famiglie, abbiamo chiesto soldi, abbiamo venduto animali, abbiamo dato una speranza ai nostri cari, abbiamo detto loro che avremmo mandato indietro soldi dall’Europa. Ecco, adesso tornare indietro è ammettere il fallimento, è confessare che i soldi richiesti sono stati perduti. Bruciati! Noi non si sa come siamo riusciti a fuggire dopo quello che abbiamo visto. Tanti non ci provano neppure, perché morire in Libia o in mare è meno grave di tornare indietro. Morire in Libia per tanti è meglio che rivedere una famiglia che non ti perdonerà di avere fallito».

«La settimana scorsa, motovedette libiche (riattivate dagli accordi con Minniti) hanno tentato di speronare una nave salva-profughi».

il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)

Il battesimo del fuoco è stato inquietante, il seguito si annuncia da brivido: alla prova dei fatti la politica euro-italiana per fermare l’immigrazione dalla Libia sembra la premessa di una catastrofe umanitaria essenzialmente ‘made in Italy’. Questo racconta la sorta di battaglia navale occorsa la mattina del 10 maggio davanti alle coste della Tripolitania. Ha opposto la nave di Seawatch, una Ong umanitaria tedesca, in quel momento impegnata nel salvataggio di forse 600 migranti stipati in un barcone che faceva rotta verso l’Italia; e due motovedette libiche, primo nucleo di una Guardia costiera che Roma sta resuscitando. Una delle due motovedette ha minacciato di speronare la nave di Seawatch, come dimostra il filmato che la ong ha messo in Rete; l’altra ha abbordato il barcone e l’ha ricondotto sulla costa, dove presumibilmente i passeggeri sono stati trasferiti in un ‘campo di detenzione’.
Formalmente le motovedette obbediscono al governo libico, che però è una finzione; di fatto sono la Marina del Viminale, essendo parte della strategia ideata dal ministro degli Interni Marco Minniti per contrastare il traffico di migranti. Iniziativa lodevole, quella italiana, se non fosse che le politiche si giudicano dai risultati, e questi sembrano pessimi. Impedire la partenza dei barconi senza aver organizzato una soluzione alternativa significa chiudere l’unica via di scampo rimasta ai migranti intrappolati in Libia, dai 150 ai 180 mila secondo la stima dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim). La gran parte non ha i soldi per tornare indietro al Paese d’origine. Decine di migliaia sono prigionieri di bande armate e trafficanti.
Soltanto una piccola quota, seimila, detenuti illegalmente da milizie cosiddette ‘filo-governative’ in condizioni secondo l’Oim “inaccettabili”, ha il privilegio di ricevere ogni tanto coperte e medicine. Altri migranti vivacchiano, precariamente liberi, in attesa di un imbarco. Altri ancora sono in balia di tribù che per secoli, e fino a ieri, razziavano villaggi africani e rivendevano gli abitanti catturati come schiavi ai mercanti del Golfo (l’Arabia saudita ha abolito la schiavitù solo nel 1960); e oggi, tornate all’antica vocazione, in un paio di città del sud organizzano aste pubbliche in cui vanno all’incanto migranti di pelle scura.
Tutto questo è ampiamente confermato da Oim, varie ong, agenzie Onu e documenti raccolti dalla Corte penale internazionale, che potrebbe presto formalizzare le indagini (secondo la procura dell’Aja numerose testimonianze confermano quanto siano comuni “omicidi stupri e torture” e quanto diffuso “il mercato di esseri umani”). Malgrado questo, Roma e l’Unione europea fingono di non sapere quale Cuore di tenebra sia oggi la Libia.
Pretendono anzi di applicare anche in Tripolitania la strategia cui sono ricorsi in precedenza, offrendo soldi e aiuti a governi mediterranei purché fermassero i flussi di migranti. Il problema è che la Libia non è l’Egitto o la Turchia, anzi non è: non esiste più uno Stato, tantomeno uno stato di diritto. Dietro la Guardia costiera c’è soltanto un caos ribollente di 200 mila armati. Dunque che ne sarebbe di quei 150-180mila esseri umani se le motovedette libiche riuscissero a bloccare o almeno a socchiudere la via per l’Italia?
Per sottrarsi a questa domanda Minniti, ma di fatto l’Unione, hanno deciso di nascondere il problema con uno stratagemma semantico. In Libia, dice il ministro degli Interni a Repubblica, ci sono soprattutto migranti ‘economici’, categoria esclusa dalle tutele internazionali: “Perché è evidente che chi, per 10 mila dollari, parte dal Bangladesh, raggiunge in aereo il Cairo o Istanbul e di lì viene preso dai carovanieri per essere condotto prima nel sud del Sahara e poi, a Sabrata e di lì sulle nostre coste con barconi, non sta sfuggendo a una guerra”, dunque non può chiedere di essere accolto come rifugiato politico. Ma è così? In Nigeria, Gambia e Bangladesh chi vive in alcune regioni o appartiene a determinati gruppi etnici o politici ha discrete possibilità di finire torturato o ammazzato.
Inoltre è ovvio che i migranti finiti in Libia sono molto più poveri di quanto li pretenda Minniti, altrimenti avrebbero comprato il visto in uno tra i consolati europei specializzati in questi traffici. E anche la povertà può comportare condizioni di vita intollerabili, come il ministro dell’Interno scoprirebbe leggendo, per esempio, quanto scrive Human Rights Watch sul lavoro minorile nel Bangladesh.
Se però partiamo dall’idea che quei migranti siano quasi tutte persone avventurose che cercano fortuna in Italia, allora diventa legittimo fermarli e rimandarli da dove sono venuti: e questo è il nucleo della nuova strategia euro-italiana. La Guardia costiera fermerà i barconi e ricondurrà i migranti sulla terraferma, dove troveranno, annuncia Minniti, “campi di accoglienza sotto la responsabilità dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e dell’Oim”, già finanziati dalla Commissione europea con 90 milioni. I campi di accoglienza, “oltre a impedire la vergogna di campi di concentramento gestiti da scafisti”, renderanno “più agevoli le procedure di rimpatrio volontario assistito”, cioè rimanderanno a casa i migranti ‘economici’.
Quel che Minniti omette è che Alto commissariato e Oim sbarcheranno in Libia solo quando potessero operare in condizioni di sicurezza, cioè in futuro imponderabile, comunque lontano; e se anche oggi fossero lì, riconoscerebbero alla gran parte dei migranti il diritto di ottenere la protezione internazionale almeno come “appartenenti a gruppi vulnerabili”, in quanto ostaggi o vittime delle milizie libiche (status che li metterebbe in condizione di chiedere asilo all’Europa). Dunque la sostanza della politica euro-italiana è che i guardacoste di Minniti fermeranno illegalmente i migranti in mare e li deterranno illegalmente, probabilmente fin quando non potranno scaricarli illegalmente in Niger, uno dei 10 Paesi più poveri del mondo. Nel frattempo in Italia continueremo a dibattere sul tema se quelli delle Ong siano o no cinici mentitori che violano la legge.
».

il manifesto 14 maggio 2017 (c.m.c.)

«È curioso, ma i migranti stanno polarizzando il mondo», dice al manifesto il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, candidato al Nobel per la Pace per il 2017. Padre Solalinde, scampato a un attentato dei narcos per il suo impegno a favore dei migranti, è in Italia per presentare il libro I Narcos mi vogliono morto, edito da Emi.

Oggi è a Udine, al Festival Vicino Lontano e visiterà la mostra «Vivos», legata al tema dei desaparecidos messicani, di cui si occupa da anni. Il 18 maggio sarà al Salone del libro di Torino, insieme a Moni Ovadia e Alex Zanotelli. Scrive: «Pochi sanno, o vogliono sapere, che nel Messico attuale mancano almeno 150.000 esseri umani, cinque volte gli scomparsi dell’ultima dittatura argentina. Svaniti nel nulla in quella guerra dimenticata in cui narcos rivali si fronteggiano con il sostegno di interi pezzi di polizia ed esercito per il controllo dei traffici. Come per molti altri orrori commessi nel corso di questo conflitto, le “prove generali” di desaparición sono state fatte sui migranti».

A Oaxaca, Solalinde gestisce l’albergo per migranti «Hermanos en el camino». Una struttura – spiega – «che nasce per proteggere le persone migranti dalla polizia e dai cartelli del crimine organizzato. Per i criminali, sono la preda perfetta: ufficialmente non esistono, non hanno documenti. E per le mafie, tutto ha un valore economico, anche gli organi. Abbiamo iniziato ad assisterli, a rispondere alle principali necessità concrete come quelle di comunicare con le famiglie, ma anche a fornire assistenza legale, a sporgere denuncia, a mettere in comune le diverse storie, a capire che la migrazione è un fenomeno complesso.

Dopo l’arrivo di Trump, il numero di chi cerca di andare negli Usa è diminuito?
Un po’, sì, ma il flusso continua, s’inventano maniere ingegnose per passare. Su 100 che cercano di andare negli Usa, 25 si arrendono e tornano indietro, altri 25 ci provano, ma il dato nuovo è che il 50% resta in Messico e si organizza, convinto che Trump non durerà e potrà ritentare. Il ripudio contro le politiche xenofobe di Trump, negli Usa, è forte. Il 1° maggio sono stato a Los Angeles in una delle tre gigantesche marce, sempre più numerose in cui è evidente il ruolo delle donne. La mia impressione è che stiano perdendo la paura di manifestarsi e che si stiano organizzando. È curioso ma i migranti stanno polarizzando il mondo. È chiaro negli Usa, ma anche in Messico. La maggioranza è a favore dei migranti, una minoranza ne ha paura, li criminalizza e li sfrutta: il crimine organizzato, l’Istituto nazionale delle migrazioni e i politici messicani in coordinamento con gli Stati uniti.

In Messico, le manifestazioni per i migranti si sono unite a quelle contro le privatizzazioni di Peña Nieto. C’è una speranza di cambiamento alle prossime elezioni?
Sì. Contro Trump e contro le politiche di Henrique Peña Nieto, il 20 gennaio c’è stata una grande manifestazione, e marce davanti all’ambasciata Usa. Mai la popolarità di un presidente è caduta così in basso come quella di Nieto. Il partito Morena, di Amlo, potrebbe farcela se la sinistra non si divide un’altra volta. Le candidature indipendenti, come quella dell’Ezln sono buone, ma un po’ tardive e in questo momento, come in passato, se la sinistra si divide, ne guadagna il sistema. Morena è un movimento nuovo e dobbiamo vigilare affinché non finisca nell’ingranaggio. Ad Amlo ho suggerito una commissione di controllo sociale ed etica, che ha già cominciato a funzionare.

Lei ha un ruolo importante nella ricerca degli scomparsi, anche dei 43 studenti normalistas, a partire dalle confessioni di alcuni trafficanti. Che cosa le hanno detto?
Che gli studenti siano stati bruciati risulta anche dagli esami di alcuni resti, ma il rogo non è avvenuto nella discarica di Cucula. L’equipe interdisciplinare di esperti indipendenti si è avvicinata alla verità a partire dalle testimonianze di tre sopravvissutti, che hanno assistito all’ultimo incontro degli studenti con l’esercito federale e con la polizia. Su uno degli autobus c’era un grosso carico di eroina. Sono scomparsi nelle caserme militari, dove si sa che esistono forni crematori. È un crimine di lesa umanità, che non si prescrive. Un crimine di stato. L’indagine potrà avere un seguito solo se vince Amlo e cambiano le cose.

Come lei scrive nel libro, il Messico è una gigantesca fossa comune, ma la comunità internazionale, e anche i vescovi, hanno nel mirino il Venezuela che i migranti li accoglie. Perché?
Quando ci sono in ballo grandi risorse, e in questo caso il petrolio, c’è la mano della Cia e degli Usa che vogliono il controllo geopolitico. Il papa chiede la pace e loro la guerra. Molto diverso è stato il messaggio del vescovo Ruiz o di Monsignor Romero, che ho conosciuto personalmente. Nel 1972, gli ho chiesto aiuto per la mia squadra di missionari itineranti, che la chiesa locale non accettava. Lui invece ne era entusiasta: è il cammino del Vangelo – disse.

».

il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia, quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.

Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico.

Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato - Peredrag Maktievich - «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.

E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».

I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati: gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì - nel mondo arabo - si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.

Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.

Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali: la carità è importante, ma ci vuole la politica.

«Nel 2013 una nave italiana era vicina al barcone affondato. La Marina poteva salvare i migranti ma l’ufficiale ordinò: “Andate via”.Indagine archiviata». Gli assassini colpevoli di questa strage saranno punbiti come meritano?

la Repubblica, 13 maggio 2017

LA Marina militare italiana si nascondeva. Il peschereccio crivellato di colpi con a bordo 480 profughi siriani in tutto, il dottor Mohanad Jammo, sua moglie, i loro tre figli e altri100 bambini, sta affondando a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Ma da via della Storta 701 a Roma il Comando in capo della squadra navale, il Cincnav, ordina a nave Libra di togliersi di mezzo. Proprio così: deve nascondersi per non farsi vedere dalle motovedette maltesi. Sono le 15.37 dell’11 ottobre 2013. La Libra dall’inizio dell’emergenza è l’unità più vicina, appena 17 miglia, un’ora di navigazione. Il capitano di fregata Nicola Giannotta, 43 anni, ufficiale in servizio alla centrale operativa aeronavale telefona a Luca Licciardi, 47 anni, capo sezione attività correnti della sala operativa del Cincnav. Gli chiede che cosa deve riferire alla Libra. La risposta di Licciardi è questa: «Che non deve stare tra i coglioni quando arrivano le motovedette... te lo chiami al telefono, oh, stanno uscendo le motovedette, non farti trovare davanti ai coglioni delle motovedette che sennò questi se ne tornano indietro».

Malta è lontana 118 miglia. La motovedetta maltese è ancora a più di due ore. Il capitano Giannotta obbedisce e chiama la Libra. Ordina che si tolga dalla congiungente tra Malta e il barcone, la rotta più breve. Con le seguenti parole: «Perché se vi vede a un certo punto (la motovedetta maltese)... eh, gira la capa al ciuccio e se ne va». E così l’ultima salvezza, la nave militare comandata da Catia Pellegrino, 41 anni, l’unico ufficiale davvero all’oscuro dello scaricabarile, si allontana oltre l’orizzonte, portandosi a 19 miglia nella direzione opposta al barcone. A quell’ora potrebbero ancora salvarli tutti. Il peschereccio si rovescia alle 17.07, dopo cinque ore di inutile attesa dalla prima richiesta di soccorso alla Guardia costiera. Almeno duecentosessantotto morti, sessanta bambini, quasi tutti caduti in mare e mai più ritrovati.

La motovedetta maltese, il pattugliatore P61, arriverà sul punto del disastro soltanto alle 17.51. Nave Libra addirittura più tardi, alle 18. Riescono a tirare a bordo duecentododici persone. Scende la sera. E molti bimbi che i sopravvissuti giurano di aver visto in acqua aggrappati a tavole di legno non appaiono nell’elenco dei superstiti. Nel buio sono finiti alla deriva per sempre.
«Ricordo perfettamente il dramma di quel naufragio», dice Enrico Letta, capo del governo in quei terribili giorni: «Questa nuova tragedia dell’11 ottobre, insieme con quella della settimana prima a Lampedusa, ci spinse a varare subito l’operazione Mare nostrum. Ci sono momenti in cui il salvataggio delle vite umane è questione di ore, se non di minuti. E mi resi conto che non si poteva lasciare la soluzione di queste vicende alla mercé della buona volontà o della casualità, ma bisognava costruire un quadro giuridico ben preciso perché non ci fossero morti. Io sono orgoglioso della soluzione che trovammo, perché servì a salvare migliaia di vite. Anni dopo resto convinto che quel modello vale anche oggi».

La Procura di Roma ritiene che il comportamento tenuto dagli ufficiali della Marina sia regolare. Il 3 aprile di quest’anno, con un atto firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone e i sostituti Francesco Scavo Lombardo e Santina Lionetti, viene chiesta l’archiviazione per gli unici quattro indagati. Sono il capitano Giannotta, il collega Licciardi, la comandante Pellegrino e Leopoldo Manna, capo della centrale operativa di Roma della Guardia costiera, tutti sotto inchiesta per omissione di soccorso. Nelle undici pagine della richiesta, da cui abbiamo estratto le telefonate del Comando della squadra navale, i magistrati scrivono che l’azione dei quattro «può ritenersi rispettosa della complessa e dettagliata disciplina del settore». Secondo Pignatone e i due sostituti procuratori, gli ufficiali non erano consapevoli del reale pericolo a bordo del peschereccio. L’indagine affidata alla Guardia di finanza, però, sembra non aver preso in considerazione le precise informazioni riferite alla Guardia costiera da Mohanad Jammo, 44 anni, il medico di Aleppo che con un telefono satellitare dal barcone alla deriva chiamava la sala operativa di Roma e della Valletta. Scartate anche parte delle conversazioni tra il Cincnav e la Guardia costiera e tra questa e le Forze armate di Malta durante le quali, alla formale richiesta dei maltesi, gli ufficiali italiani negano l’invio di nave Libra. Sono le stesse che sentiamo nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica.

Un’altra inchiesta contro ignoti è stata aperta ad Agrigento. Qui il procuratore Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Silvia Baldi hanno chiesto l’archiviazione perché, secondo loro, la responsabilità dell’omissione di soccorso è delle autorità di Malta: «L’imbarcazione dei migranti si trovava inequivocabilmente nelle acque territoriali di quel Paese», scrivono i magistrati. Forse una svista: le acque territoriali arrivano a 12 miglia, il dottor Jammo e tutti gli altri sono fermi a 118 miglia da Malta. In realtà il peschereccio, pur essendo molto più vicino a Lampedusa, è nell’area di competenza maltese per le attività soccorso. Alle richieste di archiviazione hanno presentato opposizione i genitori che hanno perso i loro bambini, assistiti dagli avvocati Arturo Salerni, Gaetano Pasqualino e Alessandra Ballerini. Il loro appello alla giustizia è ora nelle mani dei giudici.
Le informazioni che il dottor Jammo riferisce al tenente di vascello Clarissa Torturo, 40 anni, l’ufficiale di servizio alla centrale di Roma, sono inequivocabili e ben comprese. Tanto che l’allora comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Felicio Angrisano, le riporta in una lettera inviata a
L’Espresso nel 2013: «Ore 12.39... presenza a bordo di due bambini bisognevoli di cure... unità che con motore fermo, imbarca acqua», scrive l’ammiraglio. A quell’ora Jammo dice che l’acqua nello scafo ha raggiunto il mezzo metro. Difficile sostenere che non si sappia del pericolo.

Alle 14.35 l’ufficiale di servizio a Roma, parlando con le Forze armate di Malta, scopre che non hanno ricevuto la parte di fax con cui la Guardia costiera chiedeva ai maltesi di assumere il coordinamento dei soccorsi. Due ore perse. Nonostante questo, la Marina continua a nascondere nave Libra. Alle 15.12 l’operatore Butera di Cincnav chiama il tenente Torturo per avere aggiornamenti. «Malta ha risposto: assumo il coordinamento », spiega Torturo: «Gli abbiamo detto che c’è una unità della Marina in zona. Non gli abbiamo dato posizione e niente». «Ah, ok», risponde Butera. A quell’ora la Libra, molto adatta quel tipo di soccorso, è ad appena 17 miglia. Il mercantile più vicino è a 70. Malta dirotta una sua motovedetta, ma è ancora lontanissima.

E alle 15.37 i superiori di Butera, Luca Licciardi e Nicola Giannotta, ordinano a Catia Pellegrino di andare a nascondersi. Alle 16.38 Antonio Miniero, 42 anni, tenente di vascello della Guardia costiera, telefona al capitano Giannotta della Marina. Gli dice che Malta ha mandato un aereo sui profughi alla deriva e i piloti hanno scoperto che la Libra è praticamente lì, a 19 miglia. Vogliono dare istruzioni alla nave, essendo i maltesi l’autorità di soccorso competente. La richiesta di Malta è ufficiale. «Sarebbe il caso... », suggerisce Miniero. «Un attimo, io qua ne devo parlare con il capo ufficio operazioni», risponde Giannotta. Alle 16.44 Licciardi, il capo ufficio, contatta Giannotta: «E chiude la telefonata dicendo che a nave Libra non devono dire niente», annotano i magistrati romani nella richiesta di archiviazione. Solo alle 17.04, all’ennesimo sollecito di Malta, il comando della Marina ordina a Catia Pellegrino di avvicinarsi. Tre minuti dopo il barcone dei bambini si rovescia. E la Libra è ancora lontana.

Fabrizio Gatti intervista Mohanad Jammo è il dottore che nel 2013 lanciò l’allarme. La nave, carica di 480 profughi dalla Siria, stava affondando. Salvare vite umane era l'ultima preoccupazione delle autorità italiane e maltesi che ne avevano la responsabilità. E non intervennero.

la Repubblica, 12 maggio 2017

IL dottor Mohanad Jammo non risponde al telefonino. Subito dopo manda un selfie su WhatsApp in cui appare in camice verde, mascherina su naso e bocca, la cuffia da chirurgo in testa. E il messaggio: «Mi scusi, sto per entrare in sala operatoria». La sua voce, nel videoracconto “Il naufragio dei bambini” pubblicato da L’Espresso e Repubblica, ha fatto il giro del mondo: dal Washington Post alla Bbc ad Al Jazeera e molti altri l’hanno rilanciata in tv, alla radio e su Internet.

«La barca sta andando giù, ti giuro, c’è circa mezzo metro d’acqua nella parte bassa. Stiamo morendo, per favore», grida al telefono satellitare il dottor Jammo dal peschereccio su cui lui, sua moglie, i loro tre bambini e altri 480 profughi siriani stanno affondando. E l’ufficiale nella sala operativa della Guardia costiera italiana, impassibile: «Vai, vai, chiama Malta. Loro sono lì, sono vicini». Ma non è vero. La nave più vicina è un pattugliatore militare italiano. Si chiama Libra, è a poche miglia, meno di un’ora e mezzo di navigazione. Malta è a 118 miglia. Lampedusa a 61. Il mare quasi calmo. È il pomeriggio dell’11 ottobre 2013. Il peschereccio si rovescia dopo cinque ore di telefonate e di inutile speranza, con la Libra all’orizzonte in attesa di ordini. Duecentosessantotto morti, sessanta bambini annegati tra i quali Mohamad, 6 anni, e il fratellino Nahel, 9 mesi, due dei tre figli di Mohanad Jammo. Un disastro che ci ricorda quanto sia pericolosa la mancanza di collaborazione tra governi europei, comandi militari e autorità di soccorso nell’affrontare la tragedia del nostro tempo.
«Penso che ci abbiano lasciati affondare e che credessero che così poi nessuno avrebbe raccontato la storia. Non mi so dare altre spiegazioni», dice al telefono Mohanad Jammo, 44 anni, non appena esce dalla sala operatoria dell’ospedale dove oggi lavora. Ad Aleppo dirigeva l’unità di terapia intensiva e il servizio di anestesia e antirigetto del team per i trapianti. Ora vive in Germania, la patria che l’ha accolto con la moglie e l’unica figlia sopravvissuta, gli ha insegnato il tedesco e gli ha dato i mezzi perché tornasse a fare bene quello che sa fare.
Ha visto il video, ha risentito la sua voce?
«Sì, ho visto il film. Ma mi lasci dire, anche se sapevo che c’era stata qualche negligenza nei soccorsi, mi ha scioccato. Non immaginavo che qualcuno potesse sostenere di voler salvare centinaia di persone con la sua sola decisione, semplicemente lasciandole morire».
Nelle sue chiamate lei ripete più volte di essere un medico. Cosa si aspettava di ottenere? «Credibilità. Continuavo a dichiarare che sono un medico, sperando di ottenere credibilità perché sentivo che il destinatario delle mie chiamate non prestava molta attenzione a quello che stavo dicendo».
Sono molti i medici a bordo di quel peschereccio. Partono alle dieci della sera prima da Zuwara in Libia. E vengono presi a mitragliate nella notte da miliziani libici che, su una motovedetta fresca di fabbrica, vogliono fermare il barcone per rapinare o rapire alcuni passeggeri. I proiettili sparati sotto la linea di galleggiamento aprono i buchi nello scafo da cui comincia a entrare l’acqua. Due bambini sono gravemente feriti. È la prima ondata di massa di profughi, le cui case sono finite in mezzo ai combattimenti tra i ribelli e l’esercito di Damasco. Se ne vanno insegnanti, professori universitari, la borghesia di Aleppo. La Svezia ha appena annunciato che ai richiedenti asilo siriani sarà dato un permesso di soggiorno permanente. Mohanad Jammo, che allora ha 40 anni e i suoi amici e colleghi Mazen Dahhan, 36, neurochirurgo, e Ayman Mustafa, 38, chirurgo, si informano. E scoprono che però per arrivare in Svezia, così come in Germania o in Italia, non esistono vie legali. C’è soltanto la rete dei trafficanti libici. Loro sono già tutti in Libia con le famiglie perché, dopo i primi due anni di guerra ad Aleppo, rispondono all’invito della comunità medica libica che vuole riaprire gli ospedali. È un periodo di pace apparente. E infatti la guerra riesplode anche in Libia. I nuovi integralisti infastidiscono le loro mogli. Un capobanda locale vede la famiglia Jammo e pretende che, per il suo primogenito, Mohanad gli prometta in sposa la figlia di cinque anni. La piccola è bionda, la guardano tutti. Non resta che partire.
Il 3 ottobre leggono su Internet che un barcone è affondato davanti a Lampedusa e ci sono centinaia di morti. La paura fa cambiare idea. Ma arrivano notizie di combattimenti sempre più vicini. Le famiglie dei medici passano le giornate barricate in casa. E l’amico Ayman Mustafa una mattina in ospedale fa capire che non c’è altra soluzione: «Qual è la percentuale di rischio della traversata?» chiede a un certo punto. La calcolano: 366 morti a Lampedusa, su trentamila persone sbarcate in Italia dall’inizio dell’anno. L’1,2 per cento. «Siamo chirurghi», concludono subito dopo: «E in chirurgia un margine di rischio dell’1,2 per cento è praticamente nullo». Vendono le loro cose.
Pagano di più per essere imbarcati su un peschereccio sicuro. Il pomeriggio prima di partire i trafficanti li rinchiudono dentro una casa in costruzione. Un solo rubinetto e forse un buco da qualche parte per centinaia di persone. Due giorni senza mangiare e senza poter nemmeno far pipì. Mohanad Jammo ha comunque pensato a tutto. Anche al biberon e al latte in polvere per il piccolo Nahel. In un saccone di cellophane ha messo i giubbotti di salvataggio che ha comprato per tutta la famiglia. Ma nella notte s’addormentano sfiniti e glieli rubano. La scatola di latte in polvere gliela sequestrano all’imbarco: «Non vi serve, tanto tra poche ore sarete in Italia», gli dice un libico.
Come ha spiegato a sua figlia quello che è successo?
«Chiedo scusa, ma non voglio parlare della mia famiglia. Hanno fin troppi ricordi e troppo dolore ».
Come vi trovate ora?
«Qui in Germania ci troviamo bene. Ho cominciato a studiare tedesco fin dal mio arrivo a fine 2013. Ho poi superato un esame e nel novembre 2014 sono tornato a fare il mio lavoro di medico. L’autorità tedesca ha riconosciuto i titoli di studio che avevo in Siria ».
Cosa le è rimasto dentro diquel viaggio?
«Senta, io sono scappato dalla guerra perché non sono un fighter, un combattente. Io non posso combattere contro nessuno. Un essere umano non è un nemico. No, io sono un medico. Lavoro nel mio campo, conosco a fondo la mia specializzazione e questo è tutto ciò che posso fare. Ma vivere nel mezzo dei combattimenti, no, non posso. Non c’è nulla che possa valere la pena tanto da lasciare le nostre famiglie per andare in guerra».
Salirebbe a bordo di un barcone se si trovasse oggi dall’altra parte del Mediterraneo?
«La mia meta era trovare una vita migliore per i miei bambini. Ora, nonostante quello che è successo, la penso allo stesso modo e prenderei le stesse decisioni. Non cambierò i miei principi e non darò mai il mio sostegno a nessuna parte in nessuna guerra. Non credo nella guerra».
Il dottor Dahhan ha perso nel naufragio la moglie e i tre bambini di 9, 4 e un anno. Il dottor Mustafa la moglie e la figlia di 3 anni. È ancora in contatto con loro?
«Mazen e Ayman sono amici che erano con me sulla barca. Siamo in contatto e so che anche loro stanno lavorando duro per riavere la vita che meritano».
In tutta Europa molti pensano che stiano arrivando troppi profughi.
«Mi spiace, ma non credo in queste definizioni, così come non credo nei confini. Chi dà a lei il diritto di vivere e lavorare qui e di respingermi? Chi pensa che i probleminelle altre parti del mondo siano isolati da quello che succede qui si sbaglia. Così come credo che i governi di molte nazioni europee abbiano un ruolo enorme, negativo o positivo, in ciò che sta succedendo là
Il dottor Jammo torna al suo lavoro. I suoi piccoli Nahel e Mohamad sono rimasti per sempre a 61 miglia a Sud di Lampedusa. Come quasi tutti gli altri sessanta bambini annegati, mai più ritrovati. E come Mabruk, significa augurio. È nato pochi minuti prima delle 17.07, l’ora del ribaltamento. Il terrore di quei momenti ha provocato il parto. Quando sentono le grida della madre, la pediatra Ola Mouaffek Shihab Eddin, 32 anni, e la ginecologa Naya Raslan, più o meno la stessa età, lasciano le loro famiglie e scendono sotto coperta per far nascere Mabruk. Sanno come finirà, ma non si tirano indietro. Annegheranno anche loro. Due gesti di eroismo in un mare pieno di vigliacchi.

«Senza regole: arrivo e smistamento dei migranti in mano a milizie e amministrazioni corrotte. E il mare restituisce sempre nuovi morti».

il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2017 (p.d.)

“Sono riemersi altri corpi sulla spiaggia. Sono ancora pochi. Ma immagino che molti altri ne arriveranno”, ha raccontato al Fatto sabato sera Ibrahim Mahjoob, direttore del centro di detenzione per migranti donne di Surman, piccola città sulla costa libica 60 km a ovest di Tripoli. Sarebbero 13 i corpi riemersi sul tratto di costa di Surman nelle stesse ore in cui un numero non precisato di corpi senza vita sarebbe stato rinvenuto sulla spiaggia di Zawiya, una ventina di chilometri più a est, nei pressi di Zuwara, al confine con la Tunisia. Nelle solo città di Zawiya circa 84 corpi sono stati rinvenuti dall’inizio dell’anno, come spiega il volontario della Mezzaluna Rossa di Zawiya, Mohamed Sifwa. “Tanti altri corpi sono in mare e la Guardia costiera li sta recuperando”. Corpi gonfi d’acqua, arsi dal sole e dalle acque del Mediterraneo, resi irriconoscibili. Così uomini, donne e bambini diventano numeri, quelli delle vittime registrate da istituzioni europee e libiche e organizzazioni non governative.
“Il naufragio potrebbe essere avvenuto circa10 giorni fa”, spiega Mahjoob. Secondo il direttore si tratterebbe di un gommone partito da Sabrata. Nota per le antiche vestigia romane, Sabrata negli ultimi due anni è divenuta il principale punto di imbarco delle carrette del mare. Qui trafficanti legati alla mafia nigeriana e sudanese gestiscono un giro di affari che lo scorso anno ha generato circa 150 milioni di euro, se si calcola una media di 400 euro per migrante su 180 mila arrivi nel 2016.
A Sabrata non esiste un’unità locale dei guardia coste, e quelle di Tripoli, Zawiya e Sabrata non entrano nelle acque territoriali della città vicina per non innescare tensioni e faide tribali, come nella migliore tradizione mafiosa. Mentre i guardia coste di Zawiya sono stati accusati più volte di essere in affari con i trafficanti di migranti di Sabrata, altre motovedette libiche lamentano la mancanza di mezzi economici e imbarcazioni per svolgere il loro lavoro, ed escono solo su segnalazione di mezzi in difficoltà al largo delle proprie coste.
Nel weekend le organizzazioni non governative hanno recuperato circa 6000 migranti al largo delle coste libiche. Nella stessa giornata, sul versante libico, 651 persone sono state recuperate dalla Guardia costiera di Tripoli. Nella conferenza stampa a Tripoli dopo il recupero dei migranti, il comandante della Guardia costiera della regione centrale, Rida Issa ha criticato le Ong: “Sono un segnale per i migranti che il viaggio fino in Europa è sicuro, perché sanno che non dovranno attraversare tutto il mare in piccole imbarcazioni”. “Tu arrivi ad Agadez e lì qualcuno garantisce per te fino all’Europa. E tu paghi quando arrivi salvo in Sicilia”, ha raccontato tempo fa al Fattoun giovane ghanese nel carcere per migranti di Triq Siqqa a Tripoli. L’anarchia ha lasciato spazio di manovra non solo alle milizie, ma anche e soprattutto alle organizzazioni criminali attive nella regione dell’Africa Subsahariana e nel Corno d’Africa. “A Sabrata ci sono uomini armati nigeriani a guardia dei casolari di periferia dove vengono stipate migliaia di migranti prima della partenza”, spiega una fonte di Sabrata: “Questo era impensabile fino a un paio di anni fa”.
L’internazionalizzazione del business ha portato a una sorta di industrializzazione. “Oggi il trafficante di migranti a Sabrata sa con largo anticipo quando arriverà il successivo carico di migranti. Prima arrivavano alla spicciolata”, rivela una fonte di Zuwara, dove le forze di sicurezza locali due anni fa sono riuscite a porre fine al business delle partenze.“La presenza di milizie che chiedono ciascuna una percentuale, lungo tutto il tragitto, fa aumentare esponenzialmente i costi delle varie tratte”. Prima il passaggio dei migranti da Sabha, città nel deserto, fino a Tripoli, veniva a costare ai migranti il prezzo del biglietto di un autobus o di un taxi collettivo. Oggi invece le organizzazioni criminali transnazionali si occupano anche di quella tratta e devono pagare il pedaggio ai vari gruppi armati. “Questo comporta una riduzione del guadagno dei trafficanti che operano sulla costa. Ecco perché i trafficanti riducono giorno dopo giorno gli standard per la traversata”, spiega la fonte: “Le missioni umanitarie ovviamente sono lì per aiutare. E solo quello possono fare, almeno fin quando la Libia non uscirà da questa crisi e sarà più stabile. Solo allora le istituzioni e il futuro esercito saranno in grado di mettere fine al governo delle milizie e scacciare le organizzazioni criminali che vengono da fuori”.

la Repubblica online, ed. Milano) e un commento di Guido Rampoldi (il Fatto quotidiano online, blog Guido Rampoldi), 7 e 8 Maggio 2017, con postilla

la Repubblica, 7 maggio
TRAGEDIA IN ZONA STAZIONE:
GIOVANE RIFUGIATO SI TOGLIE LA VITA
DAVANTI AI PASSANTI
di Zita Dazzi e Franco Vanni

«Trovato impiccato non lontano dal nuovo centro di accoglienza. Aveva 31 anni, arrivava dal Mali ed era da un anno e mezzo in Italia. L'assessore Majorino: "Rafforzare ancora di più la rete degli interventi sociali, in questo Paese è priorità assoluta"»

Le indagini dei carabinieri di Porta Monforte hanno portato a identificare il cadavere nel corpo di un 31enne cittadino del Mali. Decisivo è stato il rilievo delle impronte digitali. L'uomo si trovava in Italia da almeno un anno e mezzo. Aveva un regolare permesso di soggiorno per protezione internazionale, già concesso e in corso di rinnovo a Modena. Non risulta che avesse indicato un luogo di dimora recente. L'autorità giudiziaria al momento non ha ritenuto di dovere disporre autopsia.

Il corpo è stato rinvenuto lungo la massicciata della ferrovia. Il giovane è stato visto mentre saliva sul muretto e poi si calava con la corda al collo. La morte è stata accertata intorno alle 12.50, ma quando è stato soccorso era ancora vivo, è morto nell'ospedale Niguarda. Una foto del giovane suicida è stata mostrata a tutti gli operatori che lavorano nei centri gestiti da Caritas e da Progetto Arca in Stazione e dintorni, ma per ora nessuno sembra averlo mai visto.

Si è suicidato appendendosi con un cappio a un pilone verso i binari della ferrovia, davanti ai passanti, in via Ferrante Aporti. Un giovane migrante di colore, senza addosso documenti o altri elementi di riconoscimento, è stato trovato così dagli agenti di polizia stamattina, domenica, a poca distanza dal Casc, il centro di aiuto sociale del Comune che da qualche giorno sta svolgendo le funzioni che prima venivano svolte all'hub di via Sammartini. Qui vengono controllati i documenti e i profughi vengono inviati ai centri d'accoglienza in città. I migranti neo arrivati, secondo le nuove disposizioni, non possono più restare nella zona della stazione ma vengono inviati in via Lombroso e al Palasharp, in strutture dedicate ai senza fissa dimora.

il Fatto quotidiano, 8 maggio
MIGRANTE SUICIDA A MILANO,
UN INVITO A NON VOLTARSI DALL’ALTRA PARTE
di Guido Rampoldi

Non si conoscono esattamente i motivi per i quali un ragazzo del Mali si è impiccato due giorni nella stazione centrale di Milano, ma colpisce il modo distratto e burocratico con il quale la gran parte di politica e stampa stanno archiviando l’episodio. Non mancano preziose eccezioni (l’assessore Pierfrancesco Majorino, il parroco don Giuliano Savina, per esempio). Però nel complesso sembra prevalere un desiderio di voltarsi educatamente dall’altra parte.

Grossomodo è quel che accadde in gennaio quando un altro migrante si uccise a Venezia, gettandosi nel Canal Grande. In quella occasione una giovane veterinaria emigrata in Francia, Lia Morpurgo, scrisse una lettera che tuttora mi pare l’antidoto migliore contro la nostra fretta di rimuovere questi suicidi. La pubblico qui di seguito con un’avvertenza: nel mettere in relazione l’indifferenza e l’ostilità che circondano i migranti con gli analoghi sentimenti della popolazione civile verso i prigionieri del lager nazisti, ovviamente Lia Morpurgo non ha voluto in alcun modo

La lettera e i versi
di Lia Morpurgo

«Sono una ragazza di 27 anni, e attualmente lavoro come veterinaria in un piccolo paesino nel nord della Francia. Sono una dei tanti giovani italiani emigrati all’estero alla ricerca di lavoro. O meglio, alla ricerca di condizioni di lavoro più dignitose, più umane, più rispettose della legalità, rispetto a ciò che il nostro Paese ahimè ci offre. Una migrante economica, insomma, come i tanti migranti provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente a cui invece vengono negati permessi di soggiorno, lavoro, speranze.

«Ieri, degli amici francesi mi hanno interpellato riguardo alla vicenda di Pateh Sabally, il giovane migrante gambiano morto annegato nel Canal Grande, sotto gli occhi indifferenti di centinaia di cittadini e di turisti. Me ne hanno parlato con gli occhi attoniti e addolorati, chiedendomi come potesse essere possibile che l’indignazione e la vergogna non brucino i nostri volti e le nostre coscienze. Pochissimi i commenti che i giornalisti italiani hanno dedicato a questo fatto doloroso. Pochissimi i commenti sugli onnipresenti, onniscenti “social”.

«L’indifferenza dell’opinione pubblica italiana si aggiunge, come un macigno, all’indifferenza con cui i presenti hanno lasciato annegare Pateh, come se non fosse un loro pari, come se fosse intoccabile. Giacché “… noi per i civili siamo gli intoccabili. I civili, più o meno esplicitamente, e con tutte le sfumature che stanno tra il disprezzo e la commiserazione, pensano che, per essere stati condannati a questa nostra vita, per essere ridotti a questa condizione, noi dobbiamo esserci macchiati di una qualche misteriosa gravissima colpa. Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. Ci conoscono ladri e malfidi, fangosi, cenciosi e affamati e, confondendo l’effetto con la causa, ci giudicano degni della nostra abiezione”.

«Non è un migrante a scrivere queste parole, ma Primo Levi, in Se questo è un uomo, parlando delle popolazioni che abitavano accanto ai campi di concentramento, indifferenti allo sterminio.

«Settant’anni dopo, due giorni prima del Giorno della Memoria, un giovane migrante di 22 anni è stato lasciato solo ad annegare nell’acqua gelata, circondato da una folla di persone che hanno poi continuato a dedicarsi alle proprie faccende, allo shopping, ai souvenir. Vi domando, come è possibile aver voltato la testa, aver dimenticato?

«Riflettiamoci, e soprattutto, ricordiamo:

«Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi»

postilla

È proprio il piazzale antistante la Stazione centrale di Milano lo scenario che il governo Gentiloni Minniti scelse pochi giorni fa per mostrare a tutti, e in particolare ai "clandestini", il pugno duro che si era pronti a usare nella repressione dei "diversi". Non sappiamo se c'è una connessione diretta tra i due eventi, ma certamente quello sfoggio di violenza di Stato non ha contribuito a tranquillizzare quei nostri simili che sono fuggiti dagli inferni che il nostro mondo ha pesantemente contribuito a rendere tali.


Ha preso il via, dal 1° maggio scorso, la raccolta firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare della campagna "Ero straniero - L'umanità che fa bene", per cambiare le politiche sull'immigrazione in Italia.
Il suo scopo: cambiare il racconto, superare la legge Bossi-Fini e vincere la sfida dell’immigrazione, puntando su accoglienza, lavoro e inclusione .

L’iniziativa è promossa da: Radicali Italiani, Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, ACLI, ARCI, ASGI, Centro Astalli, CNCA, A Buon Diritto, CILD, con il sostegno di numerosi sindaci e organizzazioni impegnate sul fronte dell’immigrazione, tra cui Caritas Italiana e Fondazione Migrantes.

Proposta di legge di iniziativa popolare “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell'inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”.

Sintesi delle proposte

Permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari

S’introduce il permesso di soggiorno temporaneo (12 mesi) da rilasciare a lavoratori stranieri per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani e per consentire a coloro che sono stati selezionati, anche attraverso intermediari sulla base delle richieste di figure professionali, di svolgere i colloqui di lavoro. L’attività d’intermediazione tra la domanda di lavoro delle imprese italiane e l’offerta da parte di lavoratori stranieri può essere esercitata da tutti i soggetti pubblici e privati già indicati nella legge Biagi e nel Jobs Act (centri per l’impiego, agenzie private per il lavoro, enti bilaterali, università, ecc.), ai quali sono aggiunti i fondi interprofessionali, le camere di commercio e le Onlus, oltre alle rappresentanze diplomatiche e consolari all’estero.

Reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta)

Si reintroduce il sistema dello sponsor, originariamente previsto dalla legge Turco Napolitano, anche da parte di singoli privati per l'inserimento nel mercato del lavoro del cittadino straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio nazionale, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale.

Regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”

Si prevede la regolarizzazione su base individuale degli stranieri che si trovino in situazione di soggiorno irregolare allorché sia dimostrabile l’esistenza in Italia di un'attività lavorativa (trasformabile in attività regolare o denunciabile in caso di sfruttamento lavorativo) o di comprovati legami familiari o l’assenza di legami concreti con il paese di origine, sul modello della Spagna e della Germania. Tale permesso di soggiorno per comprovata integrazione dovrebbe essere rinnovabile anche in caso di perdita del posto di lavoro alle condizioni già previste per il “permesso attesa occupazione” e nel caso in cui lo straniero, in mancanza di un contratto di lavoro, dimostri di essersi registrato come disoccupato, aver reso la dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro per l'impiego. Si prevede inoltre la possibilità di trasformare il permesso di soggiorno per richiesta asilo in permesso di soggiorno per comprovata integrazione anche nel caso del richiedente asilo diniegato in via definitiva che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione.

Nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali

Il riconoscimento delle qualifiche professionali deve avvenire non solo su base del titolo acquisito all’estero, ma anche attraverso procedure di accertamento standardizzate che permettano la verifica delle abilità e delle competenze individuali acquisite mediante precedenti esperienze professionali.

Misure per l'inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo

Si prevede di ampliare il sistema Sprar puntando su un'accoglienza diffusa capillarmente nel territorio con piccoli numeri, rafforzando il legame territorio/accoglienza/inclusione attraverso tre azioni essenziali: apprendimento della lingua, formazione professionale, accesso al lavoro. Si introducono misure per aumentare, a beneficio di tutti, l'efficacia dei centri per l'impiego, da finanziare con i fondi europei Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione), a partire dall'aumento del numero degli addetti e la creazione di sportelli con operatori e mediatori specializzati nei servizi rivolti a richiedenti asilo e rifugiati.

Godimento dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati

Ai lavoratori extracomunitari che decidono di rimpatriare definitivamente – a prescindere da accordi di reciprocità tra l’Italia e il paese di origine - va garantito il diritto a conservare tutti i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati in modo che possa goderne, al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, anche in deroga al requisito dell’anzianità contributiva minima di vent’anni.

Uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale

Vengono eliminate tutte le disposizioni che richiedono, per l’accesso a molte prestazioni di sicurezza sociale (assegno di natalità, indennità di maternità di base, sostegno all’inclusione attiva ecc.), il requisito del permesso di lungo periodo, tornando al sistema originario previsto dall’art. 41 del T.U. immigrazione che prevedeva la parità di trattamento nelle prestazioni per tutti gli stranieri titolari di un permesso di almeno un anno.

Garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri

Sono previsti interventi legislativi a livello nazionale affinché tutte le Regioni diano completa e uniforme attuazione a quanto previsto dalla normativa vigente in materia di accesso alle cure per gli stranieri non iscrivibili al Sistema sanitario nazionale (SSN). In particolare si chiede: piena equiparazione dei diritti assistenziali degli stranieri comunitari a quelli degli extracomunitari, coerentemente con i LEA, e inclusa la possibilità di iscrizione al medico di medicina generale, onde garantire la continuità delle cure, e il riconoscimento ai minori, figli di cittadini stranieri, indipendentemente dallo stato giuridico, degli stessi diritti sanitari dei minori italiani.

Effettiva partecipazione alla vita democratica

Si prevede l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo.

Abolizione del reato di clandestinità

Si abolisce il reato di clandestinità, abrogando l’articolo 10-bis del decreto legislativo 26 luglio 1998, n. 286.

Se chi governa sapesse governare e decidesse che salvare vite umane viene prima delle competenze allora la burocrazia sarebbe uno strumento di salvezza, e non uno strumento di morte.

la Repubblica, 9 maggio 2017

«PER favore, stiamo morendo. Per favore, 300 persone, stiamo morendo ». Il lucido terrore, la voce incredula e supplicante di Mohanad Jammo, medico siriano in fuga dalle bombe con la moglie e i tre figlioletti, è un pugno allo stomaco che stordisce in giorni in cui la legittimità della presenza delle navi delle Ong a ridosso delle acque libiche e il loro operato sono fortemente messi in discussione. Le registrazioni audio pubblicate sul sito dell’Espresso delle conversazioni telefoniche dell’11 ottobre 2013 tra la sala operativa di Roma della Guardia costiera e un grosso barcone in balia delle onde nel Canale di Sicilia dopo essere stato mitragliato da una motovedetta libica raccontano il drammatico e dimenticato retroscena (su cui nessuna Procura ha mai indagato a fondo) di uno dei più grossi naufragi della storia. Appena otto giorni dopo quello davanti alle coste diLampedusa, a rovesciarsi in un tratto di mare tra l’isola e Malta, fu un grosso barcone di legno su cui viaggiavano 480 profughi siriani, quasi tutte famiglie. Annegarono in 268, tra cui 60 bambini mentre, vergognosamente, Italia e Malta si rimpallavano la “competenza” sul soccorso e la nave Lybra della Marina militare rimaneva ferma per più di cinque ore in attesa di ordini per poi arrivare sul luogo del naufragio quando era ormai troppo tardi.

L’audio delle conversazioni tra il dottor Jammo, a bordo del barcone che stava già imbarcando acqua, e gli operatori che rispondevano alle chiamate di soccorso alla sala operativa di Roma è sconcertante. Un’ora e un quarto dopo aver ricevuto la prima richiesta di soccorso, con le coordinate navali precise e il numero elevatissimo di bambini, donne e uomini in gravissimo rischio di vita, a Roma continuano a suggerire ai migranti di chiamare Malta. «Signore, ti ho dato il numero dell’autorità di Malta. Siete vicino Malta. Vai, vai, chiama Malta direttamente, loro sono lì».
A nulla serve il grido disperato che arriva dal barcone dove l’acqua è ormai alta più di mezzo metro sul fondo e ha invaso la stiva. «Per favore, ho chiamato Malta. Ci hanno detto che siamo vicini a Lampedusa più che a Malta». E poi, scandendo le parole: «Stiamo morendo, per favore, stiamo morendo, 300 persone, stiamo morendo».
Niente da fare. Da Roma, con molta flemma, sanno solo rispondere: «Hai chiamato Malta? Devi chiamare Malta, signore, Stai parlando con Italia». «Sì, sì, Italia. Lampedusa è in Italia — insiste disperato il medico siriano che è ormai agli sgoccioli con il telefono dopo due ore di chiamate — Non abbandonateci, il credito è finito. Siamo senza credito. Se tagliano la linea, per favore, hai il mio numero ora, chiamami tu».
Ma da Roma l’unica chiamata che parte ben tre ore dopo è verso la sala operativa di Malta per una burocratica contesa sulla competenza di quel soccorso. I maltesi fanno notare che la nave più vicina è una della Marina militare italiana, ma nulla si muove fino alle 17.07 quando è Malta a chiamare per dare notizia dell’avvenuto naufragio.
«Il nostro aereo ha visto il barcone rovesciarsi, la gente è in acqua, è urgente, il barcone è affondato ». «Ma è lo stesso barcone? », chiedono da Roma. Sì, lo stesso che per quattro ore e mezza ha invocato aiuto invano. Solo a quel punto intervengono Italia e Malta, i superstiti vengono recuperati e divisi tra i due paesi. A Porto Empedocle sbarcano cinque bimbi piccolissimi soli che, un mese dopo, solo grazie a Repubblica sono stati ricongiunti ai genitori, finiti a Malta, che li credevano ormai morti.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

Fazal Amin ha 22 anni ed è arrivato dall’Afghanistan. “Da quanto tempo sei qui?”, gli chiedo. “Non molto”, dice. “Un anno”. Ha provato a entrare in Croazia 35 volte. E 7 volte in Ungheria.
Circa 5 mila profughi sono bloccati in Serbia ormai da mesi. Dal 18 marzo 2016, per l’esattezza. Da quando l’Unione Europea ha deciso di rispedire in Turchia chiunque entri illegalmente in Grecia, chiudendo così la cosiddetta via dei Balcani. Ma la frontiera è vicina, è a un paio d’ore da Belgrado: e quindi molti, di notte, provano ad attraversare. Per poi, all’alba, essere di nuovo qui. Ciondolano tutto il giorno nella zona della stazione. Tra un centro dell’Unhcr in cui possono connettersi a Internet, e di fronte, un ambulatorio di Medici Senza Frontiere. Che non è neppure un ambulatorio, in realtà, perché sono tutti ragazzi, tutti in salute: hanno bisogno solo di una doccia. “E dopo un anno, nessuno ci ha ancora pensato”, dice uno dei medici.
Nel 2016, la missione Frontex per il controllo dei confini è costata 254 milioni di euro. L’Ue ha previsto poliziotti, lacrimogeni, fili spinati, sensori a infrarosso: ma non sacchi a pelo. Molti, dopo un anno, dormono ancora per terra. Di giorno, girano per Belgrado come tutti gli altri ragazzi. Con lo zaino e le Nike. Non fosse per la pelle più scura, sembrerebbero studenti. E invece, non possiedono che quello zaino. E si capisce subito quanto sia dura: hanno tutti dei capelli bianchi. A meno di 30 anni.
La Belgrado dei turisti è a pochi passi da qui. E anche quella degli artisti: per molti, Belgrado sarà presto la nuova Berlino. Quest’area, alla confluenza tra il Danubio e la Sava, è uno sconfinato cantiere da 3,5 miliardi di euro: il nuovo lungofiume, tutto acciaio e vetro. Ma per ora, di là dalla strada che finisce alla cattedrale, è ancora la Seconda guerra mondiale: circa mille profughi sono accampati nei vecchi magazzini delle ferrovie, degli edifici lunghi, rettangolari. Senza luce. Tutti mattoni e amianto.
L’interno è così poco interno, con i soffitti squarciati, gli infissi senza vetri, che si sta intorno al fuoco. Un fuoco di pneumatici e bottiglie di plastica: non c’è legna. Solo aria di diossina. E per terra, spazzatura, coperte, e cataste di ragazzi. Hanno in tutto 15 bagni chimici e due docce. E 4 lavandini. Quest’inverno, solo l’intervento di Medici Senza Frontiere ha evitato morti assiderati, facendo salire la temperatura da -16 gradi a -1. Si accede dal retro della stazione. Molti pendolari parcheggiano l’auto proprio qui, davanti al primo dei magazzini. Guardano distratti un ragazzino scalzo nel fango.
“I profughi sono solo in transito, non vogliono fermarsi in Serbia. E quindi non c’è ostilità”, dice Andrea Contenta, di Medici Senza Frontiere. “Ma non è solo questo. I profughi, per esempio, sono liberi di girare in pieno centro: non credo che a Parigi, a Roma sarebbe così”, dice. Oltre ai mille intorno alla stazione, mille sono nel campo di Krnjaca, di là dal Danubio, e altri mille in quello di Obrenovac, fuori città.
Due campi di prefabbricati in cui non manca niente. Eppure la Serbia, con il suo reddito pro capite di 4.716 euro, è uno dei Paesi più poveri d’Europa. Un paese da cui si parte. Nel 2015, l’anno dell’esodo, il 40 percento delle richieste di asilo in Germania è arrivata da qui. Non dalla Siria. Da Serbia e Kosovo.
“Quello che tutti temono, in realtà, è essere rispediti in Bulgaria. Perché sono tutti dublinanti”, spiega Andrea Contenta. Sono tutti profughi, cioè, a cui la polizia ha registrato le impronte in Bulgaria: è dalla Bulgaria che sono entrati in Europa, e quindi, secondo il regolamento di Dublino, è in Bulgaria che sono tenuti a presentare domanda di asilo. E ad aspettare il responso. “Ma in Bulgaria vengono rinchiusi in veri e propri centri di detenzione”, dice. “Mentre alla frontiera con Ungheria e Croazia, intanto, vengono respinti con manganelli, gas e cani. Alla fine, sono trattati meglio qui che in quell’Europa che sognano”.
Per i profughi la Serbia è il crocevia ideale, perché confina con quattro Paesi dell’Unione Europea: la Bulgaria, l’Ungheria, la Croazia, e anche la Romania. Ma oltre alla geografia, in realtà, conta la politica. I profughi sono concentrati sostanzialmente in tre Stati in cui, per motivi diversi, hanno potuto diventare merce di scambio.
Il primo è la Turchia: si è impegnata a tenersi i profughi in cambio di 3 miliardi di euro e l’accesso allo spazio Schengen per i propri cittadini. Il secondo è la Grecia. Che in questo momento, ovviamente, è costretta ad accettare qualsiasi decisione di Bruxelles. Dal 2015, ha ricevuto 780 dollari a profugo, aumentati a 14.088 dopo la chiusura della via dei Balcani: secondo un’inchiesta del Guardian, 70 dollari su 100 sono svaniti. E infine, appunto, la Serbia. Che dal 2014 sta negoziando l’adesione all’Unione Europea: la promessa su cui Aleksander Vucic, riconfermato presidente il 2 aprile, ha costruito tutto il suo consenso. “Ma la democrazia, qui, non è ancora solida.
Per niente. Si registrano attacchi sempre più frequenti alla società civile, alla stampa. Alla magistratura”, spiega Srdjan Cvijic, analista della Open Society. “Ospitando i profughi, Vucic si assicura il sostegno di Bruxelles. Che è pronta ora a sorvolare su tutto il resto. Su un avvicinamento all’Europa che è un avvicinamento solo al suo mercato”, dice. “Non ai suoi valori”.
L’Unione Europea ha delle norme sull’immigrazione, ma non ha una politica dell’immigrazione. Non ha delle norme coerenti. Uguali per tutti. E anche qui a Belgrado, in realtà, tutto è tranquillo, sì: ma il merito, più che dell’Ue, è degli europei. Dei volontari europei. Mentre tanti partono per il califfato, tanti partono per Calais. Per Kos. Per Lampedusa.
Qui alla stazione sono una sessantina, e sono in larga parte di quel genere di ventenni che i governi detestano: piercing, capelli rasta. L’aria da centro sociale. Domandi se studiano, se lavorano, e ti rispondono che per ora sono in viaggio, a cercare il senso della vita. D’istinto, diresti che non sono capaci di badare neppure a se stessi: e invece, sotto la guida di Paul Linger, il solo veterano, cucinano, spazzano, montano generatori. Recuperano legna e vestiti. Risolvono problemi pratici e burocratici di ogni tipo. “Ma soprattutto, parlano con i ragazzi”, dice Paul. Chiacchierano, giocano. Suonano. “Un luogo così, con mille giovani uomini affamati, esausti e sfiduciati, in mezzo a una strada da mesi, potrebbe essere una polveriera. E invece, è diventato un gruppo di amici”.
Tutto è organizzato autonomamente, qui. Con donazioni private. E perfettamente. “Con le mille procedure, i mille formalismi delle Ong, o delle agenzie dell’Onu, tutto questo non sarebbe mai possibile. Abbiamo un’unica regola: ognuno fa quello che può”, dice Paul. “Anzi, due regole ”, dice. “Perché per stare qui, ognuno paga di tasca sua”. E non dice altro, ma non solo perché è molto impegnato. “Tanto ormai sui profughi è già stato detto tutto: è solo questione di volontà politica”, taglia corto. Ho tempo solo di domandargli perché è qui. Mi guarda come se dovessi domandare piuttosto a tutti gli altri perché non sono qui, poi mi dice: Perché questi profughi sono in Europa. E io sono europeo.
Anche se tecnicamente, non lo è: è inglese. In realtà, però, non è affatto facile. Leonor viene dal Portogallo, ed è un’assistente sociale. “Ma in Portogallo mi occupo di barboni e tossici. Mentre qui ho davanti dei ragazzi identici a me. Come posso aiutarli davvero?” dice. “Sono normalissimi. Sono solo nati nel posto sbagliato”. “Possiamo solo cucinargli una zuppa. Trovargli una felpa. E per questo, siamo degli eroi”, dice Mateo, spagnolo. “Ma il loro problema non è certo questo”.
“Quest’inverno, quando erano nella neve fino al collo, sono arrivati centinaia di fotografi. Ma ora non interessano più a nessuno. Perché ormai abbiamo visto di tutto. E qui, in fondo, è passabile, no?”, dice l’italiano Roberto. “Ascolti le loro storie, e ti viene da chiedergli: sei stato torturato? Ti hanno stuprato davanti a tua madre? Sei stato ucciso? No? E allora, perché sei andato via? Anche se io per primo - conclude - vivo a Londra. Io per primo sono un migrante economico”.
«Invece di accapigliarsi su Zuccaro - ha fatto bene, ha fatto male? - e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?». Domanda ineccepibile. Ahimè, hanno già risposto.

il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017

La Storia se ne infischia della Giustizia: quello che deve accadere accade, che il Diritto lo consideri giusto oppure no. La Politica dovrebbe governare la Storia, un po’ come il pilota che conduce una nave in acque tempestose; se il pilota è incapace la nave naufraga. Che è proprio quello che sta avvenendo per quanto riguarda l’immigrazione in Europa attraverso il Mediterraneo.

Fame e Guerra sono i motori dell’immigrazione: si migra in cerca di salvezza; quindi si è disposti a tutto. Non ha senso aspettarsi collaborazione da parte dei migranti, sono i Paesi di destinazione che devono gestire un fenomeno storico come questo. Non importa come, si può stabilire che i migranti sono invasori da combattere o esseri umani da accogliere; ma, nell’uno o nell’altro caso, si devono adottare misure concrete, idonee a raggiungere l’obbiettivo stabilito: un esercito in armi alle frontiere o un’efficiente organizzazione di accoglienza.

Quello che non ha senso è dire ai migranti che migrare è vietato e che, se tuttavia migrano, saranno aiutati se si troveranno in difficoltà. Ancora più insensato è ricorrere ai Tribunali: quelli che migrano non commettono un reato ma quelli che li aiutano sì: saranno puniti. Così i trasportatori ammucchiano sulle barche i trasportati (previo adeguato compenso), li portano al largo e aspettano che qualcuno li raccolga. C’è il rischio che la barca affondi prima che arrivino i soccorsi ma sono gli incerti del mestiere del migrante.

In questo sistema demenziale (analogo a quello che regola la prostituzione: prostituirsi non è reato però per quelli che la organizzano sì, così le strade sono piene di poverette e gli organizzatori contano i soldi), arriva la denuncia di Carmelo Zuccaro, Procuratore della Repubblica di Catania: le Ong vanno a raccogliere i migranti, c’è il sospetto di accordi organizzativi tra trasportatori e salvatori; e poiché i soldi non hanno odore, anche di accordi economici; voi li imbarcate, noi li “salviamo” e li portiamo a destinazione, i soldi ce li dividiamo.

Prima di Zuccaro l’aveva detto, 4 mesi fa, Frontex. Ma non c’è bisogno di grande acume investigativo per capire che, in un sistema velleitario e vigliacco come quello adottato dall’Italia, l’opportunità di lucrare sulla migrazione è stata raccolta da molti.

L’Italia non vuole i migranti; quindi di organizzare accoglienze efficienti (una per tutte: sussidi e alloggi in cambio di lavori di pubblica utilità) non se ne parla; però sparargli quando arrivano non sta bene; e anche affondarli in mare non si può. Quindi non si fa nulla: i migranti sono deportati in campi di concentramento gestiti da privati (che ci guadagnano); sono salvati in mare da privati (anche) che forse (e sarebbe appena ovvio) ci guadagnano; quando li si acchiappa, si perseguitano i trasportatori che – in realtà – svolgono un servizio di pubblica utilità (remunerato com’è giusto che sia): i migranti sono in pericolo di vita, scappano da guerra e fame, vogliono essere trasportati al di là del mare.

Giuridicamente (per quello che vale in una tragedia come questa) la differenza tra lecito e illecito sta nello scopo e nel momento in cui i migranti vengono raccolti in mare. Se sono trovati a metà strada o giù di lì si tratta di salvataggio, se me li vado a cercare a una decina di chilometri dalla costa di partenza, si tratta di trasporto: se lo si fa per scopi umanitari si commette il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina semplice (reclusione fino a 3 anni, quindi niente: affidamento in prova ai servizi sociali etc); se lo si fa a scopo di lucro, favoreggiamento aggravato (da 4 a 12 anni: in realtà da niente a 4/5 anni). Se ci si associa per commettere più reati di questo tipo, si tratta di associazione a delinquere, una cosa più seria. Che anche qualche Ong voglia una fetta della torta non sarebbe per nulla strano: con tutti i soldi che ci sono in ballo, l’efficacia intimidatoria di queste norme è pari a zero.

Invece di accapigliarsi su Zuccaro – ha fatto bene, ha fatto male? – e in considerazione del fatto che fare la guerra ai migranti è una brutta cosa, non sarebbe meglio organizzare seriamente l’accoglienza?
«Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Internazionale online 6 maggio 2017 (c.m.c.)

Cédric Herrou ha 37 anni, è un contadino francese, coltiva ulivi nella val Roia, al confine tra Italia e Francia, dove negli ultimi anni sono passati migliaia di migranti. Il 10 febbraio un tribunale di Nizza ha condannato Herrou a pagare una multa di tremila euro con la condizionale per aver aiutato alcuni profughi ad attraversare il confine. Lo ha invece assolto dalle altre accuse: quella di aver occupato insieme a una cinquantina di eritrei una struttura dismessa delle ferrovie dello stato francesi e di aver favorito il movimento e la residenza di migranti irregolari in Francia.

Era accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver aiutato duecento migranti ad attraversare la frontiera e per aver dato da mangiare e da bere a 57 di loro. Rischiava fino a cinque anni di prigione e trentamila euro di multa per aver aiutato queste persone che non avevano regolari documenti “a entrare e a spostarsi” nel paese.
Negli ultimi mesi Herrou è diventato il simbolo dei cittadini che in tutta Europa si sono mobilitati per aiutare i migranti, ma che in molti casi sono incorsi in veri e propri processi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Il 4 maggio a Roma l’agricoltore francese ha incontrato i volontari e i migranti della Baobab experience che hanno da poco affrontato l’ennesimo sgombero da parte delle forze dell’ordine.

Herrou ha raccontato che, nonostante i processi, i movimenti di base che aiutano i migranti tra Italia e Francia si sono rafforzati e ora rappresentano un vero e proprio argine alle violazioni del diritto d’asilo che sono sistematiche alla frontiera tra i due paesi. Herrou interverrà al festival Pensare migrante il 5-6-7 maggio alla Città dell’Altraeconomia di Roma.

«». 7 maggio 2017 (p.d.)
Di Firenze resistente ho sentito parlare per la prima volta da Edoardo Detti, assessore all'urbanistica del Comune, ispiratore del piano regolatore della città dei primi anni Sessanta. Detti era un urbanista-professore e raccontava Firenze agli studenti con parole semplici, auspicava la sua capacità di conservarsi in salute, per continuare ad essere di tutti. Poi anche per Firenze sarebbero arrivati giorni difficili, aggressioni tentate e alcune riuscite, sempre incombenti i progetti di speculazione proporzionali ai elevati valori immobiliari da quelle parti. Nel 1989 il clamoroso no di Occhetto al disegno squilibrato per costruire la nuova città nella piana di Castello, stop al patto supino, il Comune subalterno a Fondiaria & C. Del seguito parlano le inchieste e le sentenze. Si racconta anche di questa storia nel libro – a cura di Ilaria Agostini – Urbanistica resistente nella Firenze neoliberista: perUnaltacittà 2004-2014, Aión, 2016.

Un caso esemplare che spiega il rinnovato interesse alle trasformazioni di aree di pregio del Paese da parte di potenti uomini d'affari in ottimi rapporti con la politica. Un programma per molte città italiane non percepito dai più. A lasciar fare, si sa, la vita nelle aree urbane peggiora, e ad essere penalizzati sono normalmente i più deboli. A Firenze c'è chi ha deciso di farci caso e di non lasciar fare; e di replicare nel merito ai teorici delle città funzionali alla rendita immobiliare, pure se chiamate smart-city.

Un movimento attivo pure al tempo di Matteo Renzi amministratore della Provincia e poi del Comune (2004-2014) che ostentava la discontinuità con il passato. Calcando la scena toscana con con lo stile politico ridimensionato di recente (la rottamazione se conviene, decisioni fulminee, tutto storytelling, ecc.). Criticato dai suoi oppositori fiorentini per il messaggio incubato “Firenze città delle opportunità”, meno tutele per la città dei tesori/più vantaggi per gli investitori.

Firenze, la palestra dove il sindaco si è preparato per trasferire il modello di governo locale alla scala dell'intero Paese. SbloccaItalia un primo traguardo immaginato nel corso dell'allenamento fiorentino. La legge per l'emancipazione dagli intoppi burocratici e dai tempi di valutazione dei progetti, mentre un po' dappertutto si rafforzava l'idea che ogni forma di cittadinanza fosse assoggettabile alle ambizioni di grandi costruttori, Sgr, gestori di fondi, general contractor, società di project management e via dicendo. Tutta roba che regalerà al Paese la sventola della bolla edilizia e anche di questo si parla nel libro.

Ilaria Agostini lo spiega bene, raccogliendo e richiamando opportunamente i contributi degli autori del volume. E indica la strada per reagire. Lo strumento è la mobilitazione civica sull'esempio di quella sperimentata a Firenze. Una forma di partecipazione svincolata dagli schemi convenzionali dei dibattiti pubblici guidati dalle istituzioni. Imprevista dal sindaco Renzi e raccolta attorno alla lista “perUnaltracittà” (poi laboratorio politico) a guida di Ornella De Zordo, massima l'attenzione ai temi urbanistici con il più alto grado di competenza, indispensabile per organizzare la resistenza della civitas per l'urbs. Per conservare le città che “avvolgono di poesia la vita di coloro che vi abitano” – sono parole di Simone Weil.

Un libro utile a chi è interessato alle vertenze per il diritto alla città, ma anche a chi volesse saperne di più su evoluzione e affaticamento del renzismo. È uscito circa un anno fa, quando le politiche di Renzi avevano un indice di consenso più alto; e letto allora il giudizio di “perUnaltracittà” poteva sembrare eccessivo e rubricabile tra le polemiche di provincia. Esaminato oggi, tante cose si capiscono meglio, dal particolare al generale. D'altra parte Firenze non è un dettaglio. E neppure Renzi.

Scritto per eddyburg e inviato contemporaneamente a La Nuova Sardegna.

Qualche episodio dei guasti provocati dalle aziende del "capitalismo avanzato" italiano nello sfruttamento delle risorse dell'Africa viene al pettine dei tribunali. Chissà come andrà a finire.

il Fatto quotidiano online, 4 maggio 2016

Sono passati sette anni da quando, il 5 aprile del 2010, una conduttura petrolifera di proprietà della Nigerian Agip Oil Company Limited, la controllata di Eni in Nigeria, esplose a circa 250 metri da un torrente, nella zona settentrionale dei territori della comunità Ikebiri, nello Stato di Bayelsa. Gli sversamenti inquinarono il fiume e gli stagni, danneggiando sia la fauna ittica che la vegetazione e compromettendo le fonti di sostentamento di interi villaggi basate soprattutto sulla pesca, e poi sulla raccolta di frutti e sulla coltivazione. Ora il capo della comunità, Francis Timi Ododo, a nome delle popolazioni che vivono in quell’area, ha avviato una causa legale nei confronti della multinazionale italiana Eni. Procedimento nel quale sarà supportata dalle sezioni europea e nigeriana di Friends of the Earth. La comunità chiede due milioni di euro a titolo di risarcimento, ma soprattutto la bonifica dell’area devastata dall’incidente. Bonifica che, secondo la Naoc, è già stata eseguita. E in tribunale sarà Davide contro Golia. Oggi è stato notificato l’atto di citazione nei confronti dell’Eni, nei prossimi giorni toccherà alla sua controllata, mentre il procedimento legale avrà luogo presso il Tribunale di Milano. In Italia a rappresentare gli interessi della comunità è l’avvocato Luca Saltalamacchia, mentre in Nigeria è il legale Chima Williams. “Si tratta di un caso senza precedenti in Italia – sostiene Friends of the Earth – e, se la comunità dovesse vincere la causa, sarebbe la prima volta che una compagnia italiana viene condannata dalla giustizia del suo Paese per un disastro ambientale causato in una nazione straniera”.

L’incidente del 2010 – La comunità Ikebiri è composta da diversi villaggi situati sul delta del Niger, dove le popolazioni si dedicano alla produzione dell’olio di palma, alla costruzione di canoe, alla pesca, all’agricoltura. “Ricostruire i fatti non è stato semplice – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – ma lo abbiamo fatto anche attraverso i documenti della stessa Naoc”. Il 5 aprile 2010 la comunità di Ikebiri scoprì l’esistenza della fuoriuscita di petrolio. Nella zona, Naoc possiede sette pozzi petroliferi e otto condutture, con diverse linee di flusso. La compagnia fu immediatamente allertata. “I loro tecnici – continua il legale – intervennero l’11 aprile insieme a unità armate”. In seguito a quel controllo, al quale fu ammessa la presenza di un delegato della comunità, fu la stessa Naoc a redarre un report, ammettendo che l’incidente era stato causato da “difetti della tubatura” e annotando: “La riparazione è stata completata. Le aree impattate dovrebbero essere bonificate il più presto possibile”. Quello che avvenne in seguito è tuttora poco chiaro.

Le prime operazioni – “L’area fu chiusa – spiega Saltalamacchia – e la controllata di Eni ha sempre dichiarato di aver proceduto nei giorni a seguire a una bonifica, ma di tale operazione non è mai stata mostrata una documentazione, anche se richiesta più volte”. Quello che la comunità sa, invece, è che nei giorni successivi a quel primo intervento sul posto all’area fu dato fuoco. Nessuno della comunità ha potuto vedere la zona in quel frangente, in quanto sarebbe stato molto pericoloso avvicinarsi. “Da un lato ci chiediamo come mai non è mai stata fornita documentazione rispetto alla bonifica che Naoc dice di aver eseguito – aggiunge il legale – dall’altro, allargando lo sguardo a quanto avviene nella zona del Delta del Niger, in un report è stata la stessa Onu a lanciare l’allarme riguardo alla pratica dei certificati di avvenuta bonifica ‘regalati’ dalle agenzie governative. Non è questo il caso, ma il sospetto è che la bonifica non sia avvenuta e si sia solo cercato di trovare un intervento tampone, magari proprio incendiando il sito”. Un’accusa che la Naoc ha sempre rigettato al mittente.

Il sito inquinato – Naoc sostiene che gli sversamenti abbiano interessato un’area di circa 9 ettari, ma secondo la comunità la contaminazione ha interessato prima una zona contenuta, di circa 17,9 ettari, allargandosi poi proprio per mancanza di una bonifica. A supportare questa tesi ci sarebbero i risultati di alcune analisi chimiche fatte eseguire a novembre 2015 sui luoghi dell’incidente. I risultati? “Dimostrano che il sito è inquinato in più punti, non solo nelle immediate vicinanze dell’area interessata”, aggiunge l’avvocato Saltalamacchia. A causa delle piogge, il petrolio fuoriuscito venne trasportato ad oltre due chilometri di distanza. “Ancora oggi all’interno di questo perimetro – spiega il legale – il terreno risulta pesantemente inquinato. La verità è che servirebbe una vera bonifica, operazione complessa quanto costosa, anche più di un eventuale risarcimento”. Potenzialmente l’area inquinata potrebbe essere ampia 400 ettari, eppure Naoc sostiene di aver correttamente bonificato il sito. Dalla comunità, i residenti raccontano un’altra storia. Come quella di Emilia Matthew. “In questi anni è successo – spiega – che molti di noi si siano ammalati. La pesca, che da sempre ha rappresentato la nostra fonte di sostentamento, è ora assolutamente a rischio. I pesci che vivevano nei laghetti e negli acquitrini sono stati tutti uccisi dal petrolio. Anche le nostre coltivazioni, che comprendono le piante medicinali che noi stessi usiamo per curarci, sono state contaminate dal petrolio”.

I tentativi di accordo andati in fumo – Diversi i tentativi di mediazione messi in atto dalla comunità per ottenere un risarcimento, ma soprattutto la bonifica dei luoghi. Subito dopo l’incidente la comunità Ikebiri contattò Eni, chiedendo di essere risarcita per quanto accaduto e ottenendo un pagamento di due milioni di naira (equivalenti a circa 6mila euro attuali e 10mila nel 2010). “Al di là di questa cifra – sottolinea Friends of the Earth – versata, peraltro, solo a titolo di ‘materiale di primo soccorso’, non vi è stato alcun tipo di risarcimento”. Un’offerta iniziale di 4,5 milioni di naira (equivalenti a 13mila euro attuali e 22mila del 2010) è stata rifiutata dalla comunità, che l’ha giudicata insufficiente. Attraverso il suo legale italiano, la comunità ha cercato più volte di giungere a un accordo transattivo sia con Eni che con Naoc, ma non si è arrivati a nulla di concreto. “Secondo gli standard applicati nel passato dalle corti nigeriane e tenuto conto del tempo trascorso dal 2010 a oggi – spiega a ilfattoquotidiano.it l’avvocato Saltalamacchia – un risarcimento congruo dovrebbe ammontare a poco più di 700 milioni di naira, pari a circa due milioni di euro”. In quelle aree dopo questo tipo di incidenti la maggior parte delle comunità accettano risarcimenti anche irrisori, lasciando che il sito rimanga inquinato. “In questo caso – spiega il legale – la comunità è intenzionata ad andare avanti e far valere i propri diritti”.

Delta del Niger quinto al mondo per tasso di inquinamento – Il delta del Niger è il quinto luogo con il più alto tasso di inquinamento petrolifero al mondo. È come se, dagli anni Cinquanta al 2006, si fossero verificati in questo luogo cinquanta disastri della portata del naufragio della petroliera Exxon Valdez, che nel 1989 sversò nei mari dell’Alaska 40,9 milioni di litri di petrolio. Gli sversamenti continuano ancora oggi, al ritmo di più di uno al giorno. Lo Stato di Bayelsa, dove ha sede la comunità Ikebiri, è considerato uno dei più inquinati di tutto il Paese. L’Eni è consapevole di tali problematiche, tanto che si è dotata di una serie di strumenti di due diligence da applicare alla propria attività, anche in Nigeria, dichiarando che tali strumenti sono vincolanti anche per la Naoc. “Esistono decine e decine di risoluzione delle Nazioni Unite e regolamenti europei – aggiunge Saltalamacchia – che parlano della tutela dei diritti umani, dei risarcimenti, delle responsabilità, ma gli Stati non li rispettano come dovrebbero. Questa è una controversia storica per l’Italia”.

Il cane a sei zampe, interpellato da ilfattoquotidiano.it, ha fatto sapere che “NAOC, una delle società controllate di Eni che opera in Nigeria, ha sempre operato in modo responsabile sul territorio. In relazione all’oil spill che avrebbe interessato la comunità Ikebiri nel 2010 – è il commento della società petrolifera – NAOC ha avviato un dialogo costruttivo con gli esponenti della comunità Ikebiri, ed è intervenuta in modo tempestivo ed efficace per bonificare i siti interessati, che sono stati oggetto di ispezione da parte delle autorità competenti nigeriane con esito positivo. Tuttavia – ha specificato Eni – alcuni membri della comunità Ikebiri avevano già promosso un procedimento giudiziario presso la corte competente nigeriana nell’ambito del quale NAOC, in quanto titolare delle attività, sta fornendo tutti i chiarimenti necessari in ordine alla risoluzione della controversia. Eni è stata informata dell’inizio di procedimenti giudiziari in Italia in merito a tali vicende. Il Department Petroleum Resources (equivalente di UNMIG in Italia) – ha concluso la società – ha validato, insieme al NOSDRA (National Oil Spill Detection and Response Agency) che fa capo al Ministero dell’Ambiente nigeriano, la nostra posizione nelle Joint Investigation Visit effettuate”.

«300 agenti, cani, cavalli, mezzi blindati e un elicottero = 52 migranti portati in Questura, nessuno denunciato». Questa l'incredibile prova di forza effettuata nella "capitale morale d'Italia" per far paura ai fuggitivi dagli inferni che abbiamo concorso a realizzare.

il Post, 3 maggio 2017

Nel primo pomeriggio di martedì 2 maggio la polizia ha fatto una grande operazione alla Stazione Centrale di Milano, che ha portato al trasferimento in Questura di 52 immigrati, nessuno dei quali è poi stato denunciato. All’operazione hanno partecipato 300 poliziotti, alcuni mezzi blindati, squadre cinofile, agenti a cavallo e un elicottero. Prima dell’operazione le serrande che chiudono gli ingressi in piazza Duca d’Aosta della stazione della metropolitana Centrale sono state abbassate, e anche i cancelli che consentono l’accesso all’atrio della stazione sono stati chiusi. La stazione della metropolitana è rimasta aperta con l’accesso limitato agli altri ingressi, mentre chi doveva prendere il treno è dovuto passare dagli ingressi laterali, con disagi e rallentamenti. Gli agenti si sono avvicinati alla stazione chiudendo i tre lati di piazza Duca d’Aosta per impedire alle persone di scappare.

l motivo dell’operazione è che commercianti e residenti da un po’ di tempo denunciano una situazione di degrado della Stazione Centrale: soprattutto negli ultimi mesi sono aumentati i migranti che dormono intorno alla stazione, vicino alla quale si trova anche l’hub per migranti di via Sammartini. Una decina di giorni fa un migrante aveva avuto una breve colluttazione con un militare, in piazza Duca d’Aosta: ne era nato uno scontro tra un gruppo di migranti che aveva circondato alcuni soldati, tirando loro qualche oggetto, prima che intervenissero degli altri militari a disperdere la folla.

Dei 52 immigrati portati ieri in Questura dalla polizia, però, nessuno è stato denunciato. Quattro di loro, senegalesi e gambiani, hanno anzi scoperto che la loro domanda per ottenere lo status di rifugiato era stata accolta. In piazza Duca d’Aosta c’era anche il segretario della Lega Nord Matteo Salvini, che ha fatto delle dirette su Facebook elogiando i controlli ed è stato contestato da qualche passante. L’assessore alla Sicurezza di Milano Carmela Rozza, del PD, ha detto di essere d’accordo con l’operazione: «Da tempo abbiamo chiesto a Prefettura e Questura una massiccia campagna di identificazione di coloro che stazionano in tutta l’area della Stazione Centrale e intorno all’hub di via Sammartini». Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare e sempre del PD, ha invece detto di non essere d’accordo e di preferire «la cultura degli interventi mirati, continuativi e condotti nel silenzio». Patrizia Bedori, consigliera comunale del M5S, ha detto: «Nel rispetto della legalità non possiamo che essere contenti del blitz. Speriamo non resti un fatto isolato».

«il manifesto, 4 maggio 2017
La destra non si accontenta: né quella radicale Lega-Fdi né quella sedicente «moderata» azzurra. Anzi, è lo stesso Silvio Berlusconi a farsi sentire per ordinare ai forzisti di votare contro la legge che modifica l’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa, dopo la bocciatura dell’emendamento leghista, sottoscritto da La Russa per Fdi e Gelmini per Fi, che voleva introdurre la «presunta proporzionalità» tra la risposta dell’aggredito e l’offesa dell’aggressore. Se fosse stato accolto, avrebbe reso superflue le indagini del magistrato. Sarebbe stata una licenza di uccidere. «Noi vogliamo rafforzare la legge ma senza cedere alle follie della Lega. Bisogna lasciare al giudice margini di discrezionalità», dice il relatore Armini, Pd, spiegando il no all’emendamento della destra unita.

Sfumata la possibilità di un voto unitario di maggioranza (ma senza Mdp) e destra riunificata, la maggioranza stessa si compatta grazie a una modifica proposta dai centristi di Area popolare che rende la norma ancora più rigida ma senza sostituire del tutto la legge di Lynch al codice penale. Sarà considerata legittima difesa «la reazione a un’aggressione commessa in tempo di notte, ovvero la reazione a seguito dell’introduzione nei luoghi ivi indicati con violenza alle persone o alle cose, ovvero con minaccia o con inganno». Sarà altresì legittima difesa sparare «in situazioni comportanti un pericolo attuale per la vita, l’integrità fisica, per la libertà personale o sessuale». Lo Stato inoltre, grazie a un emendamento del Pd approvato dall’aula, risarcirà le spese legali della vittima in caso di assoluzione.

Lega e Fdi si scatenano. Accusano la maggioranza di «tutelare i delinquenti e umiliare le vittime» e di «preferire i carnefici alle vittime». Forza Italia oscilla. Il capo gira il pollice: «Noi non siamo certo per la difesa “fai da te” ma di fronte al pericolo deve essere garantito il diritto alla difesa. Il testo votato dalla maggioranza delude queste aspettative, non dà risposta al tema centrale del diritto alla difesa, lascia alla discrezionalità del giudice margini eccessivi. Chi è costretto a usare un’arma per difendersi non può essere sottoposto alla lunga e umiliante trafila di un procedimento giudiziario nel quale deve giustificare le sue azioni». Però i deputati forzisti votano l’emendamento «deludente» salvo poi, a meno di improbabile sorprese, pronunciarsi contro la legge nel complesso, stamattina, nel voto finale.

La legge che Montecitorio modificherà oggi era stata varata proprio da Berlusconi e dall’allora guardasigilli Castelli. L’allargamento del diritto di sparare anche in caso di «violenza contro le cose», cioè di semplice furto senza minaccia per la vita o l’integrità della vittima, era già in quel testo. La non punibilità era però subordinata alla presenza di un’offesa «ingiusta» e soprattutto all’accertamento di una «difesa proporzionata all’offesa». Il nuovo testo dunque non lascia affatto le cose come stanno, come sostiene la destra. La nuova norma limita fortemente i margini di discrezionalità del magistrato, che riguardavano essenzialmente proprio la proporzionalità tra l’offesa e la reazione. Quel che la destra chiedeva era di cancellare del tutto il ruolo del magistrato.

La legge passerà oggi col voto del Pd e di Ap. La situazione è dunque paradossale. Un premier e un governo targati di fatto Pd, a fronte di un calo accertato della criminalità, aggravano ulteriormente una delle leggi peggiori varate dalla destra, la quale non si accontenta e lucra consensi chiedendo di più. È l’Italia del 2017, bellezza. Un bel posticino.

Nessuna persona sensata che legga con attenzione queste chiarissime informazioni può continuare a pensare che le ONG accusate dal procuratore Zuccaro abbia torto marcio, e con lui quanti si allineano alle posizioni dei grillini italiani, di Matteo Salvini e del governo renziano.

il Fatto quotidiano, 30 aprile 2017

Il 19 aprile, a Catania, ho incontrato il procuratore Carmelo Zuccaro, che rispondendo a una mia specifica domanda ha ripetuto le preoccupazioni già espresse il 22 marzo in un’audizione alla Camera, sull’attività di alcune Ong che fanno Ricerca e Salvataggio spingendosi se necessario nelle acque territoriali libiche. Preoccupazioni più prudenti erano apparse in dicembre in un rapporto dell’agenzia Frontex. Le Ong che il procuratore sospetta di collusione con i trafficanti sono sei: cinque di origine tedesca (Sos Méditerranée, Sea Watch Foundation, Sea-Eye, Lifeboat, Jugend Rettet), una spagnola (Proactiva Open Arms). Nell’audizione il procuratore ha escluso dai sospetti Medici senza frontiere e Save the Children.

Alcune premesse sono indispensabili.

– La prima riguarda il linguaggio. Quando affermo che le Ong intervengono “se necessario”, e che le operazioni includono la ricerca oltreché il salvataggio, è perché questo prescrive la legge. Soccorrere una barca a rischio naufragio è una necessità. E chi svolge tale compito deve non solo assistere la barca casualmente incrociata, ma anche mettersi in ascolto (cioè cercare) chiunque lanci Sos di soccorso, anche da lontano. I due termini sono accostati nella Convenzione Onu di Amburgo sulla Ricerca e il Soccorso in mare adottata nel 1979.

– Seconda premessa: quando incombe il naufragio non è possibile distinguere tra le motivazioni dei fuggitivi. A chi affonda non puoi chiedere se stia cercando un lavoro o se scappi da guerre o oppressioni. Non puoi salvare il richiedente asilo e lasciare affogare chi subodori non lo sia, e non solo perché non hai gli “strumenti” che facilitino la distinzione. Puoi lasciare affogare o no. La prima opzione viola la legge del mare.

– La terza premessa riguarda la Libia. C’è stata una guerra, cui l’Italia ha partecipato, che con la scusa di eliminare una dittatura ha creato violenze incontrollabili da qualsivoglia autorità interna. Risultato: esistono sufficienti prove che la Libia non è più solo un Paese di transito, ma un Paese da cui si evade in massa (penso agli ex immigrati del Bangladesh nel Paese di Gheddafi). Nei centri dove vengono rinchiusi e a volte uccisi, i fuggitivi vivono “in condizioni peggiori che nei campi di concentramento”, ha confermato a gennaio una lettera dell’ambasciatore tedesco in Niger al proprio ministero degli Esteri. Esiste poi una vasta rete di commercio di persone sequestrate, torturate, vendute come schiave, come denunciato il 9-10 aprile dall’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim), legata all’Onu.

Non le Ong ma ancora una volta l’Onu, attraverso un rapporto del 13 dicembre 2016 dall’Alto commissariato per i diritti umani, ha dichiarato che la Libia non è un Paese sicuro. Conseguenza: le persone soccorse lungo le sue coste “non devono essere sbarcate” nella terra più vicina, in Libia.

A queste premesse ne aggiungo altre due, che valgono per qualsiasi Paese abusivamente chiamato sicuro (Eritrea, Sudan, Turchia);

– Chiunque fugga da uno Stato che non garantisce gli elementari diritti della persona ha diritto a ottenere protezione internazionale sulla base di un esame personale delle proprie richieste (Convenzione di Ginevra del 1951).

– La legge internazionale contempla sia il diritto per l’imbarcazione in difficoltà a lanciare un Sos di salvataggio, sia il dovere, per le navi che ricevono il messaggio, di attivarsi soccorrendo. Oggi la chiamata avviene con i telefoni satellitari, il che estende il perimetro della ricerca e del salvataggio. La Ricerca implica per forza l’uso di telefoni sempre accesi, perché l’Sos possa essere inteso in tempo utile.

Queste realtà sono così evidenti che Frontex stesso ha precisato di non aver parlato di “collusione” fra Ong e trafficanti. Ancora più chiara la messa a punto del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans. Ai parlamentari europei, il 26 aprile a Bruxelles, ha detto: “Non c’è alcun tipo di prova che esista una collusione fra le Ong e le reti criminali di smuggler per aiutare i migranti a entrare in Europa”. Dubito che il procuratore Zuccaro abbia prove che l’Unione e Frontex non possiedono. Nell’incontro che ho avuto a Catania, lui stesso ha ammesso di non averle: “È il motivo per cui non abbiamo aperto un fascicolo”. È molto singolare che appena una settimana dopo, il 27 aprile su Rai3, torni sulla vicenda accusando alcune Ong non solo di intrattenere rapporti con i trafficanti ma anche di destabilizzare l’economia italiana. Sono d’accordo con quanto detto da Erri De Luca il 27 aprile: simili accuse non sono che “insinuazioni”, incompatibili con il mestiere di procuratore.

Fatte queste premesse, la conclusione mi pare chiara. Se è vero che la Libia non è un Paese sicuro (così come non lo sono Eritrea o Sudan, con cui Roma ha negoziato un accordo di rimpatrio di migranti lo scorso agosto), se è vero che i migranti rischiano torture, schiavizzazione e morte nei campi libici, lo smuggler non può essere l’esclusivo avversario da contrastare, tanto più che gli scafisti sono spesso scelti tra i migranti, minorenni compresi. A partire dal momento in cui esistono fughe da condizioni esistenziali invivibili, e mancano vie legali di fuga, gli smuggler sono inevitabili. Non a caso il loro nome muta nella storia. Gli smuggler che aiutarono a fuggire antifascisti, antinazisti ed ebrei erano evidentemente pagati. Non si chiamavano trafficanti ma passeur in francese, schlepper o Helfer (aiutanti) in tedesco. Lo stesso dicasi dei boat people in fuga dal Vietnam, nel 1978-79. Nessuno in Occidente se la prese con i trafficanti: si era in Guerra fredda e ai boat people venne offerto un santuario incondizionatamente.

Nessun profugo fugge senza soffrirne, e i più muoiono nei deserti prima di arrivare in Europa. Il loro è un esilio forzato. Come tutti noi, sono marionette di “grandi giochi” geopolitici ed economici che hanno militarmente devastato o desertificato le loro terre. Da questa realtà occorre partire. Ricordo anche che il soccorso in mare è sempre più equiparato a un atto sospettabile, nelle decisioni dell’Unione: per questo fu abolito Mare Nostrum, nel 2014. Nello stesso momento in cui la Ricerca e il Salvataggio sono definiti un pull factor (un fattore di attrazione), viene volutamente oscurato l’essenziale che è il fattore che spinge alla fuga (il push factor).

Su due punti il procuratore ha ragione. Le Ong riempiono – al pari dei trafficanti – un vuoto: intervengono perché non esistono vie legali di fuga e scelte europee su Search and Rescue. E non le preture ma i politici sono i responsabili di tali storture. A una risposta, tuttavia, il procuratore non risponde: che fare, se la politica non si muove? Cosa si ripromette, screditando non solo alcune piccole Ong che vivono di donazioni private ma anche la Guardia costiera italiana che agisce coordinandosi con loro?

Invito il M5S a usare un altro vocabolario (la parola “taxi” dei migranti è fuori luogo e sbadata). Invito il procuratore a leggere Lord Jim di Joseph Conrad. Consegnare le persone al naufragio è una scelta che macchia. Il capitano Jim sa di aver perso la sua grande occasione, abbandonando la nave disastrata. Nel resto della vita dovrà trovare la sua seconda occasione, per riparare al peccato di omissione.

L'orgoglio di servire i padroni del mondo nel saccheggiare la risorse altrui e nel fomentare guerre per rendere le rapine più facili (poiché questo è oggi la Nato), e di rendere con questo più poveri i sudditi di Palazzo Chigi.

il manifesto, 29 aprile 2017

«L’Italia partecipa a testa alta all’Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l’obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni.

Proprio ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente statunitense Donald Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell’Italia alla sicurezza dell’Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l’Italia rispetterà l’impegno assunto».

I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell’Italia, all’11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all’estero, extra budget della Difesa). Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l’Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 miloni di euro al giorno.

Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto: «Andiamo, devi pagare, devi pagare…».

E, nell’intervista, Trump si dice sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese sociali.

C’è però, evidentemente, chi ci guadagna. Nel 2016, l’export italiano di armamenti è aumentato di oltre l’85% rispesso al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo importatore di armi italiane. Un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto del 23 febbraio 2016). Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.

Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali, redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due terzi del suo fatturato complessivo.

L’azienda accresce fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di sistemi d’arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello aria-aria Meteor); l’Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra (come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce l’impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35 schierati in Europa.

Poco importa che Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce di fornire armi utilizzabili contro civili – fornisca armi a paesi come il Kuwait e l’Arabia Saudita, che stanno facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, convertito in disegno di legge, è essenziale che l’industria militare sia «pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell’industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».

Poco importa naturalmente che si spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al giorno, ormai in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che l’Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si arricchisce con la guerra.

© 2025 Eddyburg