il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017
I naufraghi che arrivano morti a Lampedusa sono nudi. I lampedusani li vestono coi propri abiti e danno loro una tomba. Lo ius soli che tutti cercano è qui, nel cimitero dell’isola dove questi scappati per mare trovano una zolla e qualcuno anche un nome. Il naufrago che arriva a Lampedusa quando sta per annegare urla il proprio nome per sapersi presentare perché solo in questo modo, galleggiando – pur sbocconcellato dalle spigole – riafferma l’essere lui una persona e non lo “zero, virgola” di un calcolo.
Il naufrago è recuperato in acqua dalla Guardia Costiera e da lì, insaccato, approda allo stanzone dei morti nudi di tutto, pure di bara, con il custode che corre portando pantaloncini, magliette e legname, tanto legno con cui chiuderli – i morti, i naufraghi – per sorvegliarli nella pietà della terra che tutti ci fa uguali.
La Guardia costiera “che esce quando tutti rientrano” trova al largo una barca. Vi dondola dentro un liquame ustionante di benzina, urina e acqua di mare: una catasta di cadaveri putrefatti.
Solo il custode del cimitero sa come metterci mano, e quindi Compassione, su quella pappa informe. Il fetore della carne squagliata artiglia il blu incantevole del mare e del cielo.
Il custode, allora, alza l’ingegno: strappa dall’orto di casa sua le foglie d’alloro, le raduna in un fazzolettone che s’annoda in faccia al modo dei banditi del West e così coperto – proteggendo il proprio respiro – procede col da fare. Dal suo fagotto prende gli abiti asciutti con cui vestire i profughi, quindi scava, li seppellisce e poi vi mette sopra la croce.
“Come, la croce?” gli dicono tutti. “Non sono cristiani come noi, saranno di certo musulmani, dovevi metterci una cosa loro in segno di rispetto, una Mezzaluna”.
Ma solo il custode del cimitero, con l’alloro in faccia, conosce la parola giusta: “Se li avessi seppelliti sotto un altro segno li avrei fatti diversi da noi, il vero rispetto è farli uguali a noi”.
È come attraversare una dolorosa canzone a due voci trovarsi qua, a Lampedusa, e leggere Appunti per un naufragio di Davide Enia (edizioni Sellerio). Questo è lo scoglio dove si registra il numero più alto di riconoscimenti di cadaveri in una zona non di guerra. E così, sfogliare quelle pagine di realtà e camminarci dentro – con la cautela propria dello stare in un camposanto, tra le tombe – fa scoppiare in petto la verità.
Una granata che scoppia nel cuore è Lampedusa. I lampedusani si fanno in quattro per capire come aiutarli, i naufraghi – i sopravvisuti, e le salme – e il medico, presente da sempre, non ha certo fatto il callo alla fatica dei mangiamorte.
Ed è sempre come la prima volta. Poco prima di aprire il sacco necroforo supplica Dio mormorando “fa che non sia un bambino” – fa-che-non-sia-un-bambino! – poi va a spalancare quella borsa e vi trova proprio un bambino: “Era”, scrive Enia, “una cosuzza così.”
Enia nel suo libro descrive Pietro Bartolo – lui è il medico – mentre rivive lo sconforto di quella autopsia: “Le mani del dottore erano ferme nell’indicarne la statura. Non più di quaranta centimetri. Il bambino poteva avere un paio d’anni.”
E chissà adesso – in quale fossa, sotto quale lastra – è finito questo piccolino. Chiunque arrivi qui, tra le tombe di questo cimitero, scruta ogni placca – ogni buca – e s’interroga: “Dove l’avranno messo quel pesciolino?”
Chi legge Enia non può che andare a vedere e capire. Ecco qua, dunque, il pezzo di terra dove il mare, la benzina e l’urina hanno trovato tomba. Eccolo: un cespuglio fiorito, i lumini e “l’arriverò” di Cesare Pavese tra le croci. Così si legge: “Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò”.
Tra le cale ricche di memoria, come nella grotta dedicata alla Madonna di Porto Salvo, c’è il segnale che da secoli, ormai, marchia l’isola. Al tempo in cui parlavano le armi dell’Orlando Furioso, come nella battaglia di Lampedusa – tre cavalieri mori e tre crociati – descritta da Ludovico Ariosto, coi cristiani hanno trovato sosta anche i musulmani fino a farne un porto franco.
Un segnale che fa stare insieme tutti, oggi, comunque c’è: un timone conficcato sul terreno. Lo stesso legno delle barche usate nelle traversate indica il luogo del qui riposano “musulmani e cattolici, vecchi e giovani, neri e bianchi…”
Un altro segnale scavato nella viva carne dei popoli è nella tela nella grotta che raffigura la Madonna, il Bambino e Santa Caterina. Il quadro, oggetto di infiammata devozione, nell’incastro dei dettagli e delle affinità svela un’intimità con il Monastero di Santa Caterina di Alessandria, in Egitto, da sempre collegato con questa isola che è ancora Africa quando Linosa, invece, è già Europa.
È il monastero dove Muhammad il Profeta accordò la sua protezione e dove i cristiani vollero erigere una moschea che purtroppo non poté mai accogliere la preghiera per via di un errore di costruzione: non era orientata a Mecca.
Ogni indizio rivela l’imprinting.
Una tomba antica e senza nome, addobbata di piastrelle color turchese, svela all’occhio una suggestione più che una data: quell’anno Mille in cui erano appunto solo mille gli abitanti dell’isola di Lampedusa e tutt’e mille saraceni.
La prova Qibla con l’i-phone, l’applicazione dello smartphone che indica la direzione di Mecca, conferma: l’elegante fossa è correttamente rivolta verso la preghiera. Tutto il resto, no. Tutto è confusione nel segno di fare presto e fare al meglio.
I fiori sono scelti finti apposta per restare lungo a sulle pietre, ancora più duraturi delle lapidi di plexiglass del “Qui riposa”.
Ecco, se non un nome, la storia: “Il corpo di una donna di età compresa tra i 30 e i 40 anni viene rinvenuto dagli uomini della Guardia di Finanza a circa 5 miglia da Capo Ponente” La data, quindi: il 7 giugno 2008.
Ancora una data: 26/02/1973 –21/01/2009. Èla tomba di Eze Chidi: “Nato in Nigeria è stato ritrovato senza vita in un’imbarcazione a bordo della quale tentava di raggiungere l’Europa”.
Sono più di vent’anni che dura, la storia. Paola e Melo dicono che è la tomba a segnare l’appartenenza. È la tesi dell’antropologo Marco Aime, loro amico, un tema fatto proprio dal Forum Lampedusa Solidale che non è un’associazione, ma solo un gruppo di persone che in questo punto sul mare – il più vicino all’altro oceano, quello di sabbia – trova un bandolo alle esistenze venute a morire nel Mediterraneo dopo essersi lasciate alle spalle il Sahara.
Un ragazzo somalo che muore e fa sapere chi è – racconta Paola – rinuncia allo ius soli di qua perché la famiglia, nell’urgente richiamo dello ius sanguinis di là, in Somalia, viene a Lampedusa e se lo riporta a casa.
Per marocchini, tunisini, eritrei e nigeriani capitati qui è il tumulo a stabilire il domicilio. E mentre i sopravvissuti – indiscutibilmente vivi – diventano cifre di statistiche, i morti sono uomini e donne anche a dispetto del “pare che…”
Ed ecco il sepolcro di Yassin: “Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Quello che è certo, è che è arrivato a senza vita a Lampedusa.”
Paola e Melo gestiscono un B&b sull’isola che è come una camera di compensazione tra l’incontrovertibile fatto della bellezza assoluta e l’epica di Lampedusa.
Enia vi ha scorto il genius loci in quella residenza e sono loro, personaggi della realtà trasferiti nella verità di sguardo e parola, a dare testimonianza. Nel libro, e poi ancora dopo, quando le pagine sono state chiuse: “I veri soggetti di questa storia, quelli che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa vengono rinchiusi nei Centri e zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni.”
Un libro che si legge coi piedi, questo di Enia detto Davidù nella realtà eclatante di una storia – quella del confine estremo d’Italia – diventata epica. Un libro da inghiottire trovando nomi. E tombe.
Internazionale, 14 luglio 2017 (p.d.)
Ecco, per aiutarli davvero “a casa loro” bisognerebbe fare tutto questo. Ma è chiaro che nessun leader europeo ha realmente intenzione di farlo. Perché vorrebbe dire fare la rivoluzione.
«». altreconomia online, 12 luglio 2017 (c.m.c.)
Se il “codice di condotta” per le Ong messo a punto dal ministro dell’Interno Marco Minniti venisse messo in pratica «molte migliaia di migranti e rifugiati potrebbero rischiare di morire in mare». La denuncia arriva da Human Rights Watch e da Amnesty International che, con un comunicato stampa congiunto, evidenziano come «qualsiasi codice di condotta, se necessario, dovrebbe avere come obiettivo quello di rendere più efficace il salvataggio in mare», evidenziano le due associazioni. Puntualizzando che l’adozione del codice di condotta «non dovrebbe essere collegato allo sbarco».
Il testo del codice di condotta è stato diffuso ieri da Statewatch, ong indipendente che dal 1991 è attiva nel monitoraggio civico delle attività degli Stati e dell’Unione europea sui temi della giustizia sociale. Il documento, così come è formulato ora, prevede il divieto assoluto per le navi delle Ong di entrare in acque libiche, il divieto di inviare segnali luminosi, l’obbligo «di non effettuare trasbordi su altre navi, italiane o appartenenti a dispositivi internazionali», l’obbligo di non ostacolare le operazioni di search and rescue della Guardia costiera libica.
Infine l’obbligo pubblicare le fonti di finanziamento e quello di ricevere a bordo ufficiali di polizia giudiziaria (per svolgere le indagini preliminari per individuare scafisti e trafficanti) oltre che di trasmettere alla polizia tutte le informazioni potenzialmente interessanti per l’attività investigativa. «Il rifiuto di sottoscrivere il codice di condotta o il fatto di non adempiere a questi obblighi – conclude il documento – potrebbe portare al rifiuto da parte dello Stato Italiano di autorizzare l’accesso ai porti».
«Le Ong sono impegnate nel Mediterraneo a salvare vite umane perché l’Europa non lo sta facendo» commenta Judith Sunderland, direttore associato di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia Centrale. «Di fronte alle dimensioni di questa tragedia e agli orribili abusi cui sono vittime i migranti in Libia, l’Unione europea dovrebbe lavorare con l’Italia per mettere in atto una robusta attività di search and rescue nelle acque di fronte alla Libia, non limitarla».
Alle voci critiche nei confronti del codice di condotta si è aggiunta oggi quella dell’europarlamentare Barbara Spinelli durante un dibattito sulle attività di ricerca e soccorso promosso dalla Commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni) del Parlamento europeo. Spinelli ha ricordato che «un codice di condotta volontario era già stato sottoscritto dalla maggior parte delle Ong impegnate nel Mediterraneo» e ha stigmatizzato come «alcuni paragrafi siano stati concepiti solo per rendere impossibile il salvataggio di vite umane». Per Spinelli i punti critici sono soprattutto il divieto assoluto di operare in acque libiche «dove Triton non è presente e dove muoiono tantissime persone anche perché la Libia non è in grado di gestire un’area SAR» e la presenza della polizia giudiziaria a bordo delle imbarcazioni, in violazione del principio di neutralità delle Ong stesse.
Intanto, dal parlamento inglese arriva una secca bocciatura all’operazione navale “Sophia” promossa dall’Unione Europea per contrastare il traffico di esseri umani: non solo non avrebbe raggiunto i risultati prefissi, ma la strategia di affondare le imbarcazioni dei trafficanti avrebbe spinto questi ultimi a usare sempre più spesso gommoni insicuri e sovraccarichi. Provocando così “un aumento delle morti in mare”, come si legge nell’inchiesta pubblicata dalla Camera dei Lord.
Al 19 giugno 2017 erano stati arrestati 110 smugglers (che però “appartengono agli ultimi anelli della catena criminale”) e distrutte 452 imbarcazioni. La prassi di distruggere le imbarcazioni avrebbe spinto i trafficanti a cambiare strategia: abbandonare i pescherecci, capaci di trasportare 500-600 persone e di raggiungere il centro del Mediterraneo, per sostituirli con gommoni gonfiabili, più economici e facili da reperire. «Questo cambiamento nel modello di business ha reso l’attraversamento molto più pericoloso per i migranti -si legge nel documento inglese-. Il fatto che oggi il 70% delle imbarcazioni in partenza dalla Libia siano gommoni ha provocato un aumento delle morti in mare».
La conclusione a cui giunge la Camera dei Lord è secca: l’Operazione Sophia ha alterato il modello di business, ma non ha in alcun modo ridotto i flussi dei migranti. «Una missione navale non è lo strumento corretto per contrastare l’immigrazione nel Mediterraneo Centrale – concludono i Lord-. Vi è poca giustificazione per il dispiegamento di asset navali e arei di alta fascia per i compiti svolti dall’operazione Sophia nella fase 2A (il contrasto in mare degli scafisti)». Il contrasto ai trafficanti non può essere fatto in alto mare, mentre «ci sono imbarcazioni molto più piccole e più adatte a svolgere l’essenziale compito di ricerca e soccorso, che può essere messo in atto al posto della missione (Sophia, ndr) per continuare a salvare vite».
Corriere della Sera, 10 luglio 2017
Roma. «L’unica soluzione per risolvere il problema dei migranti è creare flussi legali. Pensare di fermare queste persone alzando muri e impedendo loro di partire è un’utopia». Louise Arbour, è la rappresentante speciale per le migrazioni del Segretario Generale Onu e sta negoziando con i governi l’attuazione del Global Compact, accordo non vincolante per ottenere una migrazione «sicura, ordinata e regolare».
L’Italia denuncia di essere sola di fronte all’emergenza.
«Io non userei questo termine così catastrofico. Il problema certamente esiste, ma parlare di emergenza serve ad enfatizzare i timori. E invece queste persone rappresentano una vera risorsa per gli Stati».
Anche se non sono regolarizzati?
«Certamente, perché forniscono un contributo concreto: la maggior parte di loro manda nel Paese d’origine appena il 15 per cento di quanto guadagna. Il resto lo spende dove ha deciso di vivere».
Perché in Europa c’è tanta ritrosia ad accoglierli?
«Subentra la paura, il rifiuto alla regolarizzazione di chi riteniamo diverso da noi. Ma bisogna spiegare quali sono i vantaggi. Fermare questi flussi non è possibile, il fenomeno è irreversibile e come tale va governato. Anche perché, parlo dei rifugiati, ci sono dei requisiti di solidarietà da rispettare. Purtroppo all’interno dell’Ue si prendono impegni che poi non vengono rispettati».
Le difficoltà incontrate dall’Onu per formare un governo in Libia e la fragilità dell’esecutivo in carica hanno aggravato il problema?
«La Libia è uno dei problemi più seri che ci troviamo ad affrontare. Ma fino a che si procederà seguendo lo schema attuale non si raggiungerà alcun risultato».
Che cosa vuole dire?
«Dare soldi ai libici servirà soltanto ad aumentare il flusso migratorio e anzi contribuirà ad intensificarlo. Concedere fondi alla Guardia costiera locale non è la soluzione, anzi».
È l’unico modo per cercare di fermare le partenze.
«No, credere che sia così è un grave errore. L’unica strada da percorrere è quella che mira a mettere a posto le cose dal punto di vista politico. Si deve creare un governo stabile, evitare che i trafficanti continuino a spostare le armi dal sud al nord del Paese. Se non si imboccherà questo percorso la situazione peggiorerà ulteriormente».
L’Onu ha provato, evidentemente non è così semplice. Non si è fatto abbastanza?
«Quando la Nato ha deciso di annientare il regime di Gheddafi era prevedibile che ciò avrebbe portato al caos, ma questo sembrava non importare a nessuno. Adesso è molto più difficile trovare un rimedio. Se però l’Europa si illude che la concessione dei finanziamenti servirà a chiudere la partita commette uno sbaglio».
E allora qual è la soluzione?
«Lo ripeto, bisogna aprire canali di trasferimento legali anche per i cosiddetti migranti economici. Nel 2018 sarà operativo il Global Compact per favorire gli ingressi legali per motivi di studio, lavoro e ricongiungimento familiare di chi non ha diritto allo status di rifugiato».
la Repubblica, 9 luglio 2017, con postilla (i.b)
Dal confronto tra i cinque continenti, sia dalla loro estensione territoriale e sia dal numero degli abitanti e dalla loro età, emergono alcune considerazioni che vanno tenute presenti per quanto riguarda la storia del prossimo futuro. L'Asia è il continente più esteso e il più popoloso. L'età media è variabile da regione a regione, ma complessivamente non invecchia né ringiovanisce, è stabile. Gli abitanti sono 4 miliardi e 436 mila e il territorio è di 44 milioni e 580 mila chilometri quadrati. L'Europa è il continente territorialmente più piccolo: 10 milioni e 180 mila chilometri quadrati con una popolazione di 749 milioni di abitanti.
Trascuriamo le Americhe del Nord e del Sud che occupano un diverso emisfero. Qui da noi il vero tema da tener presente è l'Africa: vasta estensione e in proporzione all'Asia una popolazione minimale e giovane. Ha ragione Marco Minniti quando dice che il vero problema dell'Europa in genere e delle nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo è quello di fronteggiare l'Africa. In che modo?
Matteo Renzi è stato durissimamente contestato da tutti gli altri partiti italiani, a cominciare dalla dissidenza della sinistra guidata da Giuliano Pisapia, per aver detto che l'Italia deve bloccare l'accoglienza dei migranti e semmai dirottarli e soccorrerli nel Centro-Africa da cui provengono. Renzi per fronteggiare attacchi e insulti che gli sono piovuti addosso come una tempesta di grandine, ha parzialmente smentito le affermazioni che gli erano state attribuite, col massimo godimento soprattutto di Salvini. Ora si aspetta. Luglio e agosto le vacanze e subito dopo il tema andrà ripreso. Il come non è chiaro né da parte di Renzi né dei suoi critici interni né da quelli esterni. Ma gli estremi di quel tema sono invece chiarissimi fin d'ora e di questo vogliamo ora parlare.
Desidero anzitutto ricordare il mio incontro con Papa Francesco giovedì scorso. Uno dei temi di cui abbiamo parlato è appunto quello della povertà dei migranti in gran parte provenienti dall'Africa e diretti soprattutto verso l'Europa. Tutta l'Europa, del Sud, del Centro e del Nord.
La tesi del Papa è che il meticciato è inevitabile e va anzi favorito dall'Europa. Ringiovanisce la nostra popolazione, favorisce l'integrazione delle razze, delle religioni, della cultura. La popolazione europea sta, in quasi tutti i Paesi, diminuendo e invecchiando. L'accoglienza dei migranti è dunque per Francesco un fatto positivo, destinato a cementare una sostanziale amicizia tra i tre continenti che la geografia pone a confronto tra loro: l'Asia, l'Africa e l'Europa.
Molte nazioni hanno attualmente un sistema dittatoriale, ma il tempo e i popoli migranti possono favorire l'estendersi delle democrazie. Questo penso io. Naturalmente sono percorsi storici pieni di variazioni, nel bene e nel male, per i popoli che ne sono contemporaneamente i protagonisti e le vittime. Ma il percorso storico io credo sia questo perché questa è la modernità che dal Quattrocento domina l'Europa e anche l'India e la Cina. Non ancora l'Africa e perciò è all'Africa che bisogna guardare.
Il Pd vuole instaurare lo "ius soli". Incontra molte difficoltà, soprattutto in Senato dove non dispone d'una maggioranza. Ma lo "ius soli" è una conquista se il Pd riuscirà a ottenerlo. Oppure si potrà introdurre qualche modifica che però non intacchi il principio. Per esempio un diritto che diventa operativo solo quando il bambino è rimasto in Italia per almeno cinque anni dalla nascita, con eventuali assenze d'un mese l'anno se ci fossero esigenze dei genitori stranieri che non possono e non vogliono lasciare il figlio senza di loro.
Uno dei punti di fondo che i Paesi meridionali dell'Ue hanno rifiutato è stato quello di accettare l'attracco di navi cariche di migranti nei loro porti. Gentiloni ha protestato, Renzi ha protestato, ma poi c'è stata la mediazione favorita dalla Germania di aiutare con una "regalia" come contributo all'accoglienza.
Se posso esprimere un mio sentimento, sono sbalordito di quanto è accaduto. L'Italia, secondo me, deve esigere che le navi battenti bandiera francese o spagnola o portoghese o turca o greca o cipriota, attracchino nei rispettivi porti. Saranno poi quei governi a decidere la loro politica nei confronti di quelle navi, ma non rimandandole in Italia perché l'Italia deve accettare l'attracco delle navi di bandiera italiana.
In teoria alcune navi potrebbero battere bandiera europea, questo è uno dei motivi per i quali temi di questa importanza esigono al più presto uno Stato europeo federato. Allora sì, sarebbe relativamente facile governare in vari modi l'accoglienza o il respingimento dei migranti. Nel frattempo tuttavia il bravo e generoso e democratico ed europeista Macron, non vuole accettare le navi che battono bandiera francese. Dovrebbe invece consentire l'attracco nei suoi porti. Comunque può fare quel che vuole, ma sarà difficile a questo punto non mettere in gioco il suo europeismo e il rispetto per la democrazia. Gaullisti? De Gaulle era meglio, fece la pace con l'Algeria.
A questo proposito desidero ricordare che dal 1936, quando Mussolini conquistò l'Etiopia, le persone nate in Eritrea e nella Somalia italiana, erano considerati cittadini italiani. Si cantava una canzone intitolata "Faccetta nera" che diceva: Faccetta nera / sarai romana / la tua bandiera sarà sol quella italiana! / Noi marceremo insieme a te / e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re!".
Vedete? Il tempo passa ma spesso i temi d'allora si ripropongono.
Il nostro ministro dell'Interno Marco Minniti, è molto consapevole del problema delle emigrazioni dai Paesi dell'Africa occidentale. Fuggendo da Paesi dove rischiano di morir di fame o di essere imprigionati e uccisi, la loro fortuna sarebbe quella di organizzare un sistema di accoglienza europea, o al momento solo italiano, direttamente in quei territori.
Bisognerebbe trattare con quei governi, assumersi la responsabilità effettuando in quei Paesi una serie di investimenti appropriati alle esigenze locali, alimentari, sociali, culturali, sindacali. Insomma investimenti adeguati e richiesti da quei governi. Gli investitori sarebbero anzitutto italiani e/o europei e/o americani. I lavoratori, adeguatamente retribuiti, sarebbero anzitutto immigrati riportati nei Paesi d'origine e poi utilizzati dai Paesi in questione. Ci dovrebbe anche essere un contingente militare italiano di 200 o 300 effettivi, che dovrebbero sorvegliare e garantire che gli investimenti in corso siano adeguatamente protetti.
Questo è il programma Minniti (ovviamente condiviso da Gentiloni e da Renzi). Minniti sa che i migranti puntano sul confine libico- tripolitano. È là che i migranti vanno ed è là che saranno fermati e riportati nella patria dalla quale stanno fuggendo, ma nelle condizioni di cui abbiamo parlato.
La tesi del nostro ministro dell'Interno (che fa anche il ministro degli Esteri in certe occasioni) è che l'Africa è un continente destinato a crescere più velocemente degli altri e se la crescita avverrà anche sul suo territorio potrà addirittura mettere in moto un movimento alla rovescia: molte ditte e tecnici europei si dislocheranno in Africa per aiutarla a crescere più velocemente e a imparare a costruire nuove imprese e nuove iniziative. Concludo dicendo che il paragone è: aiutiamo l'Africa e l'Africa aiuterà noi.
postilla
Vorremmo ricordare, sempre in riferimento al periodo coloniale mussoliniano che Scalfari utilizza per sorreggere le sua argomentazione, che le leggi razziali impedivano agli Italiani di sposare le donne nere, ma le potevano impunemente stuprare. Ad oggi sono ancora migliaia e migliaia le persone, nate dall'unione di italiani con eritree a cui non viene riconosciuta la doppia cittadinanza. Del nefasto periodo coloniale italiano, d'altra parte, si parla sempre meno, non si insegna nulla a scuola e viene cancellato dalla storia ufficiale. Raccomandiamo di leggere gli scritti di Angelo Dal Boca, importante storico del colonialismo italiano. Alcuni saggi si trovano nelle cartelle di eddyburg "Italiani brava gente". (i.b.)
"Refugee Deeply"Internazionale, 7 luglio 2017 (i.b)
Nel momento in cui l’immigrazione viene vista quasi come una crisi esistenziale per l’Unione europea, è facile dimenticare che Bruxelles ha sviluppato una politica comune al riguardo solo negli ultimi due anni. Prima erano i singoli paesi a gestire la questione, e i loro errori condizionano ancora oggi i tentativi di dare una risposta al problema. Tuttavia il fatto che le politiche migratorie dell’Unione siano relativamente nuove significa anche che abbiamo la possibilità di lasciarci alle spalle le idee sbagliate che hanno guidato le azioni dei singoli stati ed evitare le loro tragiche conseguenze.
Questa convinzione ha praticamente impedito ai migranti africani e asiatici di entrare legalmente nella maggior parte dei paesi europei. È importante tenerlo presente quando vediamo le caotiche scene di persone trasportate illegalmente via mare o via terra. Fino agli anni novanta, quando furono introdotte forti limitazioni ai visti, i migranti arrivavano in Europa in aereo. Eppure l’evidente relazione tra le leggi che limitano la migrazione regolare e l’aumento del traffico di esseri umani è spesso ignorata dai politici e dall’opinione pubblica.
Concessioni necessarie
È necessario cambiare strada: l’Europa riuscirà a chiudere i canali dell’immigrazione illegale solo se aprirà quelli legali. Le due cose vanno di pari passo. La Commissione europea si sta rendendo conto che è impossibile stringere accordi di riammissione (per rimpatriare i migranti economici e i richiedenti asilo la cui domanda viene respinta) senza offrire in cambio un aumento dei visti di lavoro. Si potrebbe mettere a punto un nuovo sistema che veda una coalizione di paesi europei offrire una serie d’incentivi ai paesi d’origine e di transito dei migranti, tra cui la concessione di un certo numero di permessi di soggiorno in cambio di un accordo sui rimpatri.
Un circolo vizioso
Non sarebbe la soluzione a tutti i problemi. I lussi migratori dall’Africa non s’interromperanno di colpo. Rafforzare le istituzioni dei paesi africani, salvaguardare lo stato di diritto e favorire lo sviluppo economico devono essere i pilastri di una più ampia strategia dell’Unione. Esigere il rispetto dei diritti umani in Libia è fondamentale per eliminare uno dei fattori principali che spingono i migranti a partire. Tuttavia, permettergli di farlo legalmente, mettendo in piedi nel frattempo un meccanismo efficace per i rimpatri, è il genere di cambiamento politico di cui l’Europa ha bisogno. I più cinici sosterranno che queste misure sarebbero impopolari.
il Fatto Quotidiano online, 9 luglio 2017
Mi permetto di parafrasare così le parole del Segretario del Partito di centrosinistra, ossatura della maggioranza di Governo: Se vi considerate di sinistra non dovete sentirvi moralmente in colpa se iniziate ad avvertire impulsi razzisti. Non siete voi a essere razzisti, sono i negri a essere troppi. Ma vi assicuro che continuerò ad avere moralmente a cuore gli affari di chi tra voi produce armi da vendere ai Paesi in guerra, impedendo che si creino condizioni di vita accettabili per i negri "a casa loro". Per Renzi dunque l'Italia non ha il "dovere morale di accogliere" ma di "aiutare a casa loro".
Eppure Renzi sa perfettamente che l'Italia realizza l'esatto contrario perché aiuta sì chi decide di lasciare il proprio Paese, ma ad ammazzarsi a casa propria. La prova? Le esportazioni di armi italiane". Così Roberto Saviano su Facebook.
2,7 miliardi di euro nel 2014, 7,9 miliardi di euro nel 2015, 14,6 miliardi di euro nel 2016. Queste cifre mostrano come è cresciuto negli ultimi 3 anni (e Renzi ne è al corrente) il valore complessivo delle esportazioni di armi dall'Italia. Ma il dato politicamente importante è il boom di vendite verso Paesi in guerra in violazione della legge 185/1990, che vieta l'esportazione e il transito di armamenti verso Paesi in stato di conflitto e responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. L'Italia nel 2014-2015 è stato l'unico Paese della UE ad aver fornito pistole, revolver, fucili e carabine alle forze di polizia e di sicurezza del regime di Al Sisi (con quale faccia chiedono verità per Giulio Regeni!).
Nigrizia denuncia forniture militari a Paesi dell'Africa settentrionale, a regimi autoritari, all'Arabia Saudita, condannata dall'Onu per crimini di guerra e per la quale il Parlamento europeo ha chiesto un embargo sulla vendita di armamenti.Quanta ipocrisia dunque nell'affermare di voler aiutare i migranti a casa loro. Ma attenzione, quella di Matteo Renzi non è una gaffe o un errore di comunicazione, è piuttosto un frettoloso e maldestro tentativo di dare in pasto una risposta alla ferocia della piazza.Matteo Renzi e il suo entourage non stanno capendo nulla della attuale fase politica. Se fosse un giocatore di calcio, il mister l'avrebbe fatto accomodare in panchina da un bel po'. Ma purtroppo l'allenatore è lui e la prima cosa che ha fatto da allenatore è stata liquidare Emma Bonino, risorsa vera della Repubblica.
il manifesto, 9 settembre 2017
Tende ancora a prendere le parti del ministro Marco Minniti, magari aggiustandone il tiro, ma l’ultima svolta del segretario dem in senso neosalviniano della serie «aiutiamoli a casa loro» sta provocando più un forte maldipancia in Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, membro della commissione Esteri, primo musulmano eletto nella storia parlamentare italiana. Già nella sfida dei gazebo alle primarie si era allontanato dalla versione .4 del renzismo, per intenderci quella con sponda sempre più a destra, per avvicinarsi al governatore pugliese Michele Emiliano, fino a entrare a far parte della sua corrente chiamata Fronte democratico. Chaouki chiede ora, dalla tribuna dell’assemblea di Fronte democratico di un torrido week-end romano, la convocazione urgente di una riunione della Direzione Pd interamente dedicata al tema delle politiche sull’immigrazione.
Con quale scopo chiede una direzione ad hoc?
La richiesta è che sullo ius soli non si perda altro tempo, è così?
È l’obiettivo principale. Per rispondere alla paura si deve dare un segnale forte. Almeno un milione di giovani, che sono i nostri principali alleati contro chi fomenta odio e intolleranza, aspetta da troppo tempo il riconoscimento di un diritto fondamentale che riguarda la loro identità. Bisogna che siano sicuri che questa legislatura non si chiuderà senza l’approvazione di questa norma.
Crede che questi nuovi italiani saranno anche potenziali elettori di centrosinistra?
Non è assolutamente detto. Anzi, se si guarda ciò che è successo in altri paesi, la prima generazione che accede al voto tendenzialmente si rivolge verso i partiti conservatori. Ma è per un diritto fondamentale che l’Italia deve dar loro una risposta e per sentirsi così più forte attraverso una iniezione di energie positive in tutti i campi della vita pubblica.
La linea cattivista sull’accoglienza non è stata inaugurata da Minniti e dalla polemica sulle ong-pull factor?
Ci vuole riconoscenza verso le decine di migliaia di volontari che sono l’orgoglio dell’Italia, che la fanno grande, impegnandosi ogni giorno per la solidarietà e il salvataggio di vite umane nel Mediterraneo. Se ci sono ong non corrette vanno punite, ma non si può criminalizzare un mondo del volontariato, di scuole, chiese e realtà associative nei territori, anche di nostri sindaci e amministratori locali che hanno lavorato e lavorano nel silenzio per tenere alta la bandiera dei diritti umani nel nostro Paese. Non è giusto farne il capro espiatorio dell’incapacità dell’Europa di gestire un problema complesso e strutturale come il fenomeno migratorio.
I governi europei a Tallinn e a Parigi hanno opposto un Niet a tutte le richieste di aiuto del governo Gentiloni. Renzi propone come contromisura di non pagare i contributi europei, è l’unica risposta?
È imbarazzante constatare l’ignavia dei governi europei e l’unica risposta possibile è mobilitare le opinioni pubbliche e anche i partiti vicini in tutta l’Europa per evitare che vinca un egoismo che danneggia tutti. L’Italia deve poi aumentare il suo protagonismo nell’accoglienza attraverso canali legali e sicuri di ingresso operando ove possibile una selezione dei richiedenti asilo già nei paesi di transito e di partenza. Penso alle fortunate esperienze con Tunisia e Marocco e agli accordi con il Niger e con il Sudan.
Scusi ma in Niger e in Sudan non risulta sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali. Così non si cementano regimi autocratici?
Lì porteremo l’Unhcr e le ong europee, che sorveglieranno i percorsi nei paesi terzi e monitoreranno la situazione dei diritti umani in stretto collegamento con l’Ue per canali sicuri e legali verso l’Europa.
Huffpost online, 5 luglio 2017 (i.b.)
L'idea attinge da esperienze passate analoghe: lo scorso anno il Progetto Open Homes, promosso dal Comune di Milano in collaborazione con l'associazione no profit I sei petali, ha raccolto l'adesione di 126 host che hanno ospitato 90 familiari di pazienti ricoverati negli ospedali milanesi. Ma già prima, nel 1012, durante l'Uragano Sandy, la comunità di Airbnb si è offerta di accogliere senza costi gli sfollati a causa del ciclone. Di lì è nata l'ispirazione per la creazione del programma di risposta alle catastrofi di Airbnb, che da allora ha fornito alloggi temporanei alle persone colpite da 65 disastri naturali nel mondo. A oggi è stata offerta ospitalità per oltre 6.000 notti senza alcun costo per gli operatori umanitari al lavoro per le crisi dei rifugiati a Kos, Lesbo, Giannina, Atene e nei Balcani, mentre l'anno scorso è stato raccolto circa un milione di dollari tra i membri della community da devolvere all'Unhcr. All'inizio di quest'anno, poi, Airbnb si è impegnata a contribuire all'International Rescue Committee con 4 milioni di dollari nei prossimi 4 anni per rispondere all'emergenza rifugiati a livello internazionale.
"Da oggi potremo contare non solo sul sostegno delle nostre famiglie ospitanti, ma anche sulla disponibilità degli host di Airbnb a offrire un appoggio per qualche giorno e in casi specifici: quando un nostro rifugiato, in attesa di essere ospitato in famiglia, ha bisogno di un posto dove andare, o quando, terminata una convivenza, non è ancora totalmente autonomo", spiega Germana Lavagna, presidentessa di Refugees Welcome Italia, mentre Stefano Pasta, responsabile dell'accoglienza profughi a Milano della Comunità di Sant'Egidio, rimarca come "dal 2013, a fronte dell'emergenza profughi, assistiamo a due Europe: da un lato l'Europa dei muri, dei fili spinati, dei respingimenti e di chi è indifferente ai morti in mare, dall'altro l'Europa delle associazioni e dei tanti cittadini che vogliono aiutare in modo solidale i profughi, anche inventando forme innovative di welfare. Sono due Europe entrambe vere, anche se paradossalmente opposte. Apprezziamo particolarmente questo progetto con Airbnb perché ci permette di contribuire a costruire l'Europa dei ponti e non dei muri".
il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2017 (p.d.)
il manifesto, 5 luglio 2017 (c.m.c.)
«Chiudere le frontiere potrebbe costare un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Conti alla mano, il presidente dell’Inps Tito Boeri ieri – in occasione della relazione annuale sull’attività dell’istituto – ha fornito nuovi numeri su un tema che sta dividendo il Paese. E ha invitato a non alzare muri: «Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere – ha spiegato – Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale». «Gli immigrati – ha concluso sul punto Boeri – offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole».
Ma la relazione è stata l’occasione per il presidente Inps di dire la sua su molti altri temi, in alcuni casi appoggiando le politiche del governo – con un elogio del Jobs Act, contro l’articolo 18 – in altri attaccando di petto i sindacati, facendo intendere che i dati diffusi dalle stesse organizzazioni sulla loro rappresentanza siano gonfiati. Ancora: Boeri ha auspicato l’istituzione di un minimo salariale fissato dalla legge – sulla scorta dei nuovi voucher, che già fissano una paga oraria sganciata dai contratti – e ha chiesto di modificare i contratti a termine, oggi troppo sbilanciati a favore degli imprenditori e a danno dei lavoratori.
Prima dei nodi politici, uno sguardo ai dati del rapporto Inps: nel 2016 i pensionati con un reddito mensile sotto i mille euro sono stati 5,8 milioni, il 37,5% del totale dei pensionati italiani (15,5 milioni). Erano stati il 38% nel 2015: più alta la percentuale di donne sotto i mille euro – il 46,8% sul totale delle pensionate – a fronte del 27,1% degli uomini. Sono invece 1,06 milioni i pensionati sopra i 3 mila euro al mese e 1,68 milioni (il 10,8%) quelli che restano sotto i 500 euro al mese. Nel 2016 l’Inps ha chiuso con un bilancio di esercizio negativo per 6,046 miliardi, in miglioramento rispetto ai 16,2 miliardi di rosso del 2015. Il patrimonio netto si è ridotto alla cifra di 254 milioni di euro. Il contributo degli immigrati è evidente: tanto più se si considera che per il momento è più alto il valore dei contributi incassati rispetto a quello delle prestazioni erogate.
Il presidente Boeri è entrato quindi nel dibattito sull’adeguamento automatico dell’età, pronunciandosi sul possibile stop nel 2019: il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani – ha spiegato – perché i costi si scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». «Sarebbe meglio – ha quindi aggiunto – fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile». Elogio poi per la cancellazione dell’articolo 18: «Ha rimosso il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti». «I nostri studi – ha spiegato – dimostrano che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8 mila al mese di fine 2014 siamo passati alle 12 mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti». Ancora, Boeri nega che vi siano legami tra la rimozione dell’articolo 18 e il boom dei licenziamenti disciplinari: «Avrebbe dovuto caratterizzare essenzialmente le imprese con oltre 15 dipendenti, ma in realtà – ha spiegato – la crescita del tasso di licenziamento è stata più rilevante nelle piccole imprese, sostanzialmente estranee a tali riforme».
Altro nodo toccato, i contratti a termine: Boeri nota che dopo la fine dei ricchi incentivi a quelli a tutele crescenti (da inizio 2016) sono tornati ad aumentare, cannibalizzando le assunzioni stabili. Sarebbe perciò «opportuno riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore, potendo essere rinnovati ben cinque volte nell’arco di tre anni». OK al salario minimo fissato dalla legge: «Avrebbe il duplice vantaggio di un decentramento della contrattazione e di uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente numero di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione», e dalla paga fissata dai nuovi voucher (9 euro al netto dei contributi sociali) «il passo è breve». Bene il Rei, il nuovo reddito di inserimento, ma la platea è ancora troppo ristretta e le somme erogate sono ancora troppo basse: «Manca ancora in Italia uno strumento universalistico a sostegno della disoccupazione e dell’indigenza».
Internazionale online, 2 luglio 2017 (i.b.)
“Moria è la cosa più vicina alla torre di Babele che io conosca”, dice Sophia Koufopoulou, antropologa e sociologa greca che insegna all’università del Michigan, negli Stati Uniti, mentre ferma in maniera brusca la sua auto davanti al centro di detenzione più conosciuto di tutta la Grecia. Nell’hotspot di Moria, sull’isola di Lesbo, sono trattenuti i migranti irregolari arrivati dopo l’entrata in vigore dell'accordo tra Unione Europea e Turchia nel marzo del 2016. Sophia è arrivata a Lesbo da qualche settimana per partecipare con i suoi studenti a dei corsi estivi di volontariato nella sezione minorile del centro. “Moria è un labirinto dove vivono persone di decine di nazionalità diverse: ognuno nel suo settore, le donne con le donne, i minori con i minori, i maschi soli con i maschi soli. Da qualche settimana sono aumentati gli arrivi dalla Turchia e nel centro di detenzione sono trattenute anche molte famiglie con bambini piccoli”, spiega la ricercatrice mentre cammina rapidamente verso l’ingresso del centro.
La maggior parte delle persone che arriva a Lesbo dalle coste turche si sente di passaggio, spiega Sophia Koufopoulou. “Arrivano in Grecia pensando che prenderanno un aereo o un traghetto per raggiungere le famiglie in qualche altro paese europeo”. Ma in realtà, dopo l’accordo con la Turchia e la chiusura della rotta balcanica nel marzo del 2016, rimangono bloccati in Grecia per mesi, aspettando che la propria domanda di asilo, di ricollocamento (relocation) o di ricongiungimento familiare sia valutata dalle autorità europee. L’ingresso di Moria è un cancello, controllato da un poliziotto che lascia entrare solo chi riconosce. Dopo il primo blocco, si arriva davanti a un container che funge da reception: dietro una finestra una donna bionda chiede con gentilezza il nome di chi entra e di chi esce, si fa scrivere i nomi su dei post-it blu, li spunta da una lista, quindi lascia passare.
“L’incubo ricorrente è un bosco che si trova al confine tra Iran e Turchia: nella foresta i ragazzi hanno dovuto nascondersi dai militari di frontiera che sparavano a vista a chiunque cercava di attraversare il confine”. L’operatrice ha un sorriso aperto e luminoso, ma confessa di aver provato spesso sconforto: “Lavorare otto ore nel campo, reclusi, non è facile. All’inizio soffrivo d’insonnia, poi mi sono uscite delle bolle sulle braccia e poi su tutto il corpo. Credo che sia il mio modo di sfogare lo stress”, racconta mentre mostra delle piccole bolle biancastre sulle braccia. Praksis, l’organizzazione per cui lavora, ha deciso di lasciare il campo di Moria: “Crediamo che non sia giusto trattare le persone come pacchi, come cose, e per questo dopo aver cercato di dare assistenza a chi vive all’interno di Moria per molti mesi, l’ong Praksis ha deciso di andarsene”. Niovi Sakellaridi è combattuta perché crede che i ragazzi abbiano bisogno di essere aiutati, ma si rende conto che la detenzione acuisce i traumi e le difficoltà dei bambini.
“Riformando la legge sull’asilo nell’aprile del 2016, dopo un mese dall’entrata in vigore dell’accordo tra Ankara e Bruxelles sui migranti, la Grecia ha introdotto il meccanismo dell’ammissibilità della domanda con cui si valuta se il richiedente asilo provenga da un paese terzo considerato sicuro come la Turchia. Quindi le autorità greche non valutano le domande nel merito, ma nel caso dei siriani valutano solo se la Turchia sia un paese sicuro dove rimandarli”, continua. “Non c’è bisogno di andare troppo a fondo per sapere che la Turchia non è un paese sicuro perché non garantisce la protezione internazionale praticamente a nessuno e perché si è resa spesso responsabile di respingimenti alla frontiera con la Siria”, continua Gennari. “Il meccanismo ellenico ci interessa anche perché ci sembra che la Grecia si possa considerare un laboratorio delle politiche europee sull’immigrazione. Infatti se esaminiamo le riforme che il parlamento e la Commissione europea stanno valutando in questo momento – come la riforma del regolamento di Dublino e la riforma della direttiva procedure – norme che riguardano i pilastri del diritto d’asilo, ci rendiamo conto che Bruxelles vuole estendere a tutti i paesi europei molti meccanismi che sono stati sperimentati in Grecia, in vista di una restrizione generale dell’accesso all’asilo”, conclude Gennari.
“Da quando siamo arrivati ci hanno messo a dormire in un container con altre sette famiglie, per terra, con delle coperte, perché la stanza non è un dormitorio, ma una scuola. Non ci sono letti, non c’è acqua, la bambina ha una ferita sul piede ma non è ancora stata visitata dal medico”, afferma Ibhraim che ha vissuto a Urfa, in Turchia, prima di provare a raggiungere la famiglia della moglie in Grecia. Sull’isola di Lesbo da qualche settimana è stato registrato un leggero aumento degli arrivi. “Ogni giorno arrivano più di cento persone”, conferma Chloe Haralambous dell’associazione Borderline-Europe che monitora gli arrivi sull’isola greca. “Un incremento rispetto alle scorse settimane, ma niente di paragonabile agli arrivi di massa del 2015, quando se ne registravano anche tremila al giorno”. L’aumento degli sbarchi ha convinto le autorità a riaprire tre campi di transito nel nord dell’isola, dove da tempo le barche non arrivavano più direttamente sulla costa. “Credo che questa situazione sia dovuta più alle condizioni del mare, in questi giorni particolarmente piatto, che a un cambiamento della strategia da parte delle autorità turche che pattugliano le coste e riportano indietro i migranti”.
Quello che è certo è che si sono aperte nuove rotte: “Mentre nel 2015 il flusso era composto quasi esclusivamente da siriani, afgani e iracheni, ora arrivano migranti da tutto il mondo, anche se i siriani rimangono il gruppo più numeroso. Recentemente si è aperta una rotta dalla Repubblica Democratica del Congo: i congolesi arrivano all’aeroporto di Istanbul o a Smirne con un volo di linea e lì trovano trafficanti ad aspettarli. Questa situazione è sicuramente legata anche al deterioramento della rotta del Mediterraneo centrale, sempre più pericolosa”. Per compiere la traversata dell’Egeo i migranti riferiscono di aver pagato anche 50 euro, un prezzo molto basso rispetto ai cinquecento euro che servivano nel 2015, prima dell’accordo tra Unione europea e Turchia. “È paradossale che i viaggi costino di meno dopo l’approvazione dell’accordo, proprio quando cioè dovrebbe essere più complicato arrivare in Grecia dalla Turchia, con il dispiegamento di mezzi navali europei al largo delle coste turche, ma non riusciamo a capire bene che cosa stia succedendo in Turchia per quanto riguarda il traffico di esseri umani”, afferma Chloe Haralambous. Una cosa è certa: “Se la rotta dalla Turchia alle isole greche dovesse riaprirsi, la Grecia non sarebbe in grado di far fronte a una nuova emergenza”.
la Repubblica, 3 luglio 2017, con postilla.
L’obiettivo è naturalmente quello di ridurre gli sbarchi: a tal scopo si pensa di limitare la libertà di movimento delle navi delle Ong a cui potrebbe essere vietato l’accesso in acque libiche e che potrebbero essere invitate ad approdare anche nei Paesi di cui battono bandiera. Un’altra richiesta è quella di riscrivere il mandato di Frontex per permettere di sbarcare i migranti in altri Paesi europei oltre il nostro. Quel «segnale straordinario» invocato ieri dal ministro Minniti in un’intervista a Il Messaggero: «Sono europeista e vorrei vedere l’arrivo di una nave carica di migranti in un porto non italiano». L’Europa, naturalmente, è solo uno degli scenari: «La partita fondamentale si gioca in Libia - ha detto lo stesso Minniti - vero confine meridionale dell’Europa, da cui sono arrivati quest’anno il 97% dei migranti » e dove serve dunque un governo stabile. Infine si chiede di affrontare in maniera seria la questione della ridistribuzione dei migranti: quella ricollocazione che finora è stato un flop visto che dall’Italia sono state smistate solo settemila persone.
L’incontro di ieri ha dato il via ad una settimana di incontri cruciali per l’Italia: oltre all’appuntamento di giovedì a Tallin, infatti, domani a Strasburgo si tiene il dibattito plenario al Parlamento europeo con anche i presidenti di Commissione e Consiglio europeo Jean-Claude Juncker e Donald Tusk. Mentre il 7 e 8 luglio si tiene il G20 di Amburgo. Anche per questo si è deciso di preparare il terreno con Francia e Germania, che finora si sono detti pronti ad aiutare l’Italia, nonostante quella distinzione fatta dal presidente francese Macron, fra migranti economici e rifugiati. L’Italia ha ormai bisogno di risposte immediate visto che, secondo dati del Viminale nei primi mesi del 2017 sulle nostre coste sono sbarcate 83.360 migranti, il 18,7 per cento in più dell’anno precedente. Di questi - sono dati dell’Unhcr - 12.600 solo la scorsa settimana.
I governanti europei non riescono ad avere altri interessi che quello di conservare poltrone e potere connesso ai miserabili ruoli che i sapienti mandriani del popolo bue ha loro affidato. Perciò sono incapaci di comprendere che la tragedia dell’esodo, provocato da decenni di insensato «sviluppo» delle risorse del pianeta Terra, e che le pratiche neonaziste che hanno promosso e continuano a promuovere, si ritorcerà contro di loro e dei popoli che governano. (e.s.)
il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2017 (p.s)
La consigliera M5s Fortini ha parlato anche con altri ragazzi dell’ex Alimarket «Mi hanno parlato della presenza di cimici - spiega - di pessime condizioni igieniche e di un’aria irrespirabile». Infine l’allagamento: «Quel giorno era allagata mezza Bolzano - replica Critelli - e i gestori del centro mi hanno assicurato che nel giro di qualche ora la situazione si è comunque risolta. Non credo che un paio di centimetri di acqua siano un problema esagerato». E gli ospiti del centro devono essere “attenti” con le loro lamentele, secondo i consigli del funzionario della Provincia: «Gli ospiti sono liberi di dire quello che vogliono - dice - Di solito però consigliamo loro di stare attenti a lamentarsi, perché la popolazione reagisce considerandoli degli ingrati».
Ad oggi ci sono circa 1600 profughi in Alto Adige, di cui 800 a Bolzano e più di 300 solo nel centro ex Alimarket. «La soluzione sarebbe distribuirli su tutti i Comuni della Provincia - propone Fortini - ma in molti si oppongono, specialmente ora che è periodo di turismo. Il risultato è che nel capoluogo qualche profugo finisce anche a dormire per strada». Stando ai dati di fine 2016, in Alto Adige sono operativi nell’accoglienza 18 Comuni, per un totale di 27 centri di accoglienza. «Anche noi preferiremmo avere solo strutture con 25-60 ospiti - spiega Critelli - ma per gestire un sistema di accoglienza serve almeno un centro con grandi numeri. L’ex Alimarket può ospitare fino a 480 persone quindi siamo a norma. Poi è chiaro che più aumenta il numero di ospiti, più la gestione diventa difficile. Rispetto a quello che potenzialmente potrebbe succedere è successo anche poco».
il manifesto, 30 giugno 2017 (p.d.)
«». Reset, 27 giugno 2017 (c.m.c.)
Prima Milano poi Bologna: due città che, in modi diversi ma con due importanti manifestazioni pubbliche a maggio 2017, hanno accolto la voce dei migranti. Il capoluogo lombardo ha visto la partecipazione di numerosi migranti e cittadini, assieme alle istituzioni; il capoluogo emiliano, al contrario, ha avuto come protagonista la sola voce dei migranti rivolta in primis contro la legge Minniti-Orlando.
Lo slogan della manifestazione di Bologna, NoOneIsIllegal, è sorta esclusivamente dal basso, dalle esigenze e dalla rivendicazione dei diritti da parte degli stessi migranti e non è stato accolto dalle istituzioni che sembrano comunque abbracciare una legge come quella Minniti-Orlando. Quest’ultima rappresenta un ostacolo evidente alle possibilità dei migranti di appellarsi contro le commissioni che devono valutare le richieste di asilo. I migranti stessi non ci stanno e lo dimostrano con la consapevolezza del proprio status di apolide che, come sosteneva Hanna Arendt, li porta ad essere considerati delle non persone. Due mobilitazioni piene di speranza, portate avanti da chi crede nel valore delle differenze culturali ed etniche: la voce dei migranti nelle due manifestazioni italiane vuole una società plurale che non fomenti muri e paure.
Rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia solo negli ultimi decenni (in particolare tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta) ha adottato una politica di accoglienza nei confronti dei migranti che si è tradotta inevitabilmente in un’urgenza presente nel tessuto sociale. Già la Bossi-Fini ha dato vita a un processo di costante indurimento della condizione dei migranti, che s’inscrive perfettamente nel quadro socio-politico europeo. E i migranti, consapevoli dei fraintendimenti che hanno dato luogo a simili leggi, in queste recenti manifestazioni hanno richiesto una risposta in prima istanza politica, e poi socio-culturale, al razzismo e alla xenofobia.
Occorre partire proprio da qui, ovvero dal contesto sociale e politico dell’Europa, per adottare un punto di vista privo di pregiudizi e miti che alimentano il dibattito sull’immigrazione, che va considerato nel quadro generale delle politiche neoliberali. Considerando anche il caso delle presidenziali francesi di maggio 2017, c’è stato uno sforzo intellettuale da parte di alcuni economisti che hanno riformulato l’urgenza del problema dell’immigrazione, analizzando i miti che ruotano attorno ad esso. Tra chi, come Le Pen, ha portato avanti una campagna politica incentrata sulla sicurezza dei cittadini francesi e di conseguenza sulla paura dell’immigrato, e chi, come Macron, ha considerato i problemi dell’immigrazione in Francia a partire da una consapevolezza storica del periodo colonialista. Emerge, inoltre, la voce di studiosi che hanno fornito alcuni spunti per una ricostruzione del problema immigrazione.
Gran parte dei fraintendimenti generati dal dibattito sull’immigrazione sono dovuti a una mitologia, cioè a un insieme di rappresentazioni collettive radicate nei cittadini. Ed è proprio la potenza di questo mito che svela la sua contraddizione. Questa è l’ipotesi proposta da Éloi Laurent, professore di scienze politiche all’università di Stanford, nel suo libro Mitologie economiche (Neri Pozza 2017). Negli ultimi anni regna incontrastato il “mito socio-xenofobo” che, secondo l’economista francese, può essere descritto brevemente in questi termini: ci sono troppi migranti e poche risorse disponibili. L’immigrazione rappresenterebbe un costo economico non sostenibile. Tuttavia, i migranti sono in maggioranza giovani, attivi, in molti casi anche formati e rinforzano le dinamiche sociali dei Paesi in cui vivono. In realtà non è l’immigrazione in sé, ma la non integrazione che costituisce un costo economico considerevole. L’adozione di un approccio neoliberale ha dato luogo alla strumentalizzazione, in Europa e anche negli Stati Uniti, dello status dei migranti e degli stranieri.
Questa è la socio-xenofobia che secondo Laurent è figlia del neoliberismo. I Paesi del Nord Europa, considerati un tempo come modelli d’integrazione e d’accoglienza, stanno assumendo un atteggiamento di chiusura nei confronti dello straniero e del migrante. L’immigrazione sarebbe, secondo i cittadini europei, esclusivamente responsabile dei nostri mali e non un coadiuvante ai problemi relativi al mercato del lavoro. Questa è la tesi che invece riporta il libro di El Mouhoub Mouloud – professore di economia all’Università di Parigi Dauphine ed esperto di relazioni internazionali – che in L’immigration en France. Mythes et Réalités (Fayard 2017 non tradotto in italiano) svela i miti sull’immigrazione fornendo dati empirici.
Primo mito da scardinare, la definizione di quello che dovrebbe essere un Paese accogliente. Si tratta spesso di un mito diffuso, soprattutto in Francia, ma smentito da dati sul numero di rifugiati. La popolazione immigrata è costituita da meno di 6 milioni di persone in Francia all’inizio del 2015, e cioè l’8.9%, una cifra che, paragonata al dato di grandi paesi d’immigrazione come il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada e la Nuova Zelanda dove si supera anche il 20%, non sembra essere poi così alta. La Francia, come l’Italia, non sembra essere propriamente una terra d’accoglienza. Lo dimostrano anche dati sui rifugiati: le richieste di asilo politico sono nettamente inferiori a Paesi come Germania, Regno Unito e Svezia. Mouloud propone alcuni spunti di riflessione per definire i contorni di una politica alternativa dell’immigrazione: il più interessante è costituito dalla creazione di un permesso di residenza permanente per sostituire la molteplicità di tutti quei decreti vigenti e favorire la mobilità dei migranti garantendo così i loro i diritti.
Una via, quella proposta dai due economisti, che accantona l’intolleranza che contraddistingue l’atteggiamento dei cittadini europei e che, attraverso una pulizia semantica con dati e numeri alla mano, pone al centro la necessità di partire dal valore della persona. Al di là della nazione d’origine e della fede professata: pretesti concettuali che hanno alimentato da sempre le discriminazioni. Quella sul valore della persona è una scelta che, almeno nel caso del territorio italiano, dovrebbe condurci all’approvazione della Legge sulla cittadinanza, un gran passo in avanti che farebbe dialogare comunità e istituzioni.
il Fatto Quotidiano e Rachele Gonnelli da il manifesto. 29 giugno 2017 (p.d.)
il Fatto Quotidiano
il manifesto
. il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2017 (p.d.)
«.Articoli di Baobab experience onlus il manifesto e che-fare.com, 25, 26 giugno 2017 (c.m.c.)
il manifesto
BAOBAB CHIAMA
FERROVIE
DELLO STATO
DATE SPAZIO AI MIGRANTI
Baobab experience onlus
Gentile Ingegnere Renato Mazzoncini,
sono passati solo tre giorni dalla presentazione dell’ultimo rapporto dell’Unhcr e ancora una volta i numeri confermano che decine di milioni di persone sono in fuga, e che quasi una persona su cento è costretta ad abbandonare la propria casa. Le risposte di governi nazionali ed istituzioni europee sono scoordinate, incoerenti ed improntate ad una visione difensiva in cui l’unica scelta comune consiste nell’innalzamento delle barriere in entrata, e nella corsa al ribasso dei sistemi di accoglienza. E’ quando smettiamo di leggere i numeri, ed iniziamo a guardare i volti di chi arriva, ad ascoltarne le parole, a curarne le sofferenze, che ci rendiamo conto che dietro i proclami e gli auspici alla solidarietà internazionale si nasconde il vuoto. E allora, dietro il nulla delle parole rimangono solo le persone da difendere.
La nostra associazione, Baobab Experience, lavora da due anni con i migranti: più di 60mila persone sono passate dai nostri campi, ed hanno ricevuto cure mediche, cibo, un riparo per la notte, assistenza legale. Sono donne e uomini, alcuni di loro in transito verso altri paesi europei, altri richiedenti asilo in Italia. Questi ultimi, a Roma, sono costretti ad aspettare in media un mese e mezzo prima di poter accedere alle pratiche, e in questo tempo non viene assegnato loro un centro. L’unico riparo che trovano nella capitale è quello offerto da Baobab Experience.
In questi due anni abbiamo dovuto far fronte alla indisponibilità delle istituzioni cittadine a consentire che l’assistenza ai migranti potesse essere fornita in un luogo adatto a garantire condizioni umane per loro ed a ridurre l’impatto della loro presenza sulla comunità ospite. I venti sgomberi forzati che Baobab Experience ha subito hanno prodotto solo altri disagi e sofferenze sui migranti, e non hanno risolto alcuno dei problemi che in tanti a loro attribuiscono. Dopo venti sgomberi, non è aumentata la sicurezza della nostra città. Non ne è aumentato il livello di pulizia e decoro. Non è diminuita la marginalizzazione e l’esclusione di chi arriva, né i rischi ad esse associati. E soprattutto, gli arrivi non si sono fermati, e non si fermeranno.
Noi pensiamo che si possa fare meglio di così. Pensiamo che si possa provare, di fronte al fallimento di un sistema che non riesce a trovare soluzioni diverse da muri e sgomberi, a pensare a una diversa visione. Sappiamo che il Gruppo che Lei guida rappresenta una delle realtà più avanzate sul terreno della responsabilità sociale, e che numerose iniziative sono state già intraprese per il recupero a fini sociali di immobili non più utilizzati in attività industriali. Come ha detto Claudio Cattani, presidente di RFI, appena tre giorni fa: «L’emergenza sociale investe tutto il territorio nazionale e la capillarità del nostro sistema di stazioni ci impegna da sempre ad avere attenzione per quanti cercano riparo, aiuto e solidarietà presso i nostri spazi». Per questo,
Le proponiamo di intraprendere insieme un percorso coraggioso, di concederci l’utilizzo del parcheggio per bus totalmente inutilizzato, attualmente occupato dai migranti che la notte vi trovano riparo, e di consentirci di attrezzare un campo che assicuri condizioni minimali di assistenza, sicurezza, pulizia, decenza, ed in cui sperimentare insieme, un nuovo modello di accoglienza che possa fare da esempio.
Siamo pronti ad attrezzare quel campo in pochissime ore, grazie all’aiuto delle associazioni mediche e legali con cui condividiamo da anni il nostro percorso, insieme alle Ong internazionali e ai cittadini che ci sono solidali: abbiamo un progetto che saremmo lieti di presentarle.
Pensiamo sia venuto il tempo delle scelte. Siamo convinti che sia possibile dare, qui a Roma, una coraggiosa risposta, con i fatti, nel modo in cui noi e voi sappiamo eccellere, per la nostra stessa natura di uomini del fare, ad una delle grandi sfide di questi tempi difficili. Proviamoci insieme.
BAOBAB SGOMBERATO.
IL RACCONTO DI PICCOLI MAESTRI
di Carla Susani
Giovedì scorso siamo stati al Baobab, una manciata di Piccoli maestri per ragionare su un progetto ideato da Elena Stancanelli, un’Orazione civile, un’opera corale da scrivere a partire dall’Eneide; eravamo Maria Grazia Calandrone, Nadia Terranova, Tommaso Giartosio, Federico Cerminara, Tiziana Albanese e io.
Il Baobab è stato tanti luoghi dal 2015 in poi, centro di accoglienza sotto un tetto a via Cupa, tendopoli a ridosso del Verano, tendopoli in un parcheggio prossimo alla Stazione Tiburtina e ora in un parcheggio ancora un po’ più lontano sotto il sole a picco.
Da due anni, Baobab experience, il gruppo di volontari che ha condiviso e condivide l’esperienza, risponde al continuo afflusso di profughi e transitanti; lo fa in modo emergenziale perché le istituzioni non hanno attivato a Roma una struttura di prima accoglienza. Sul loro sito dichiara di avere assistito 35000 persone, ma probabilmente sono di più.
Chi arriva non ha acqua, cibo, informazioni sulle procedure per la richiesta di asilo e sui diritti, si ritrova sulla strada; Baobab experience, con l’aiuto di MEDU Medici per i diritti umani, molte altre associazioni e una quantità di persone che continua a crescere prova a far fronte ai bisogni minimi, alle necessità sanitarie, fornisce informazioni. Ma offre qualcosa in più: si fa strumento di incontro e di conoscenza: chi arriva ha l’opportunità di fare amicizia, di conoscere Roma antica, di giocare a calcio, di suonare, di avere libri da leggere.
La presenza di noi Piccoli Maestri sul piazzale ha a che fare con questo stile di : ci sono momenti in cui persino il pane e l’acqua sono incerti, ma neanche in quei momenti essere umani si riduce a questo, in ogni circostanza abbiamo bisogno di pensare e di pensarci.
L’effetto è che la disumanizzazione di chi ha bisogno, ma persino la carità straziante e cieca verso i derelitti, è messa sotto scacco. Sia chiaro, Baobab non è una soluzione, è una supplenza che non è in grado di supplire: una tendopoli su un piazzale assolato, quando va bene, solo pensarlo è sconfortante. Ma alle istituzioni persino questo è sembrato troppo, le istituzioni non hanno affrontato la questione in modo strutturale.
La risposta si è risolta in questi anni negli sgomberi. Sgomberi in cui spesso vanno distrutte anche le tende, i viveri, le donazioni.
I Piccoli maestri sono invece scrittrici e scrittori che vanno nelle scuole pubbliche a leggere e raccontare gratuitamente i classici, nascono da un’idea Elena Stancanelli ha avuto alcuni anni fa.
Più di una volta la strada di Baobab experience e quella dei Piccoli maestri si sono incontrate. Siamo andati giovedì alla tendopoli curata da Baobab experience con l’idea di costruire un’opera nuova leggendo e raccontando l’Eneide (sul solco di Xeneide, un progetto artistico promosso da Stalker e noworking da poco concluso all’Auditorium).
Il piazzale aveva un aspetto desolato, faceva caldo anche alle sette del pomeriggio. Eravamo all’inizio imbarazzati, anche turbati. Gente giocava a palla, c’era una famiglia con quattro figli che poi abbiamo scoperto curda, c’erano volontari qua e lì, qua e lì crocchi di ragazzi che chiacchieravano.
Ci siamo avvicinati, titubanti, preoccupati di disturbare, abbiamo chiesto una sedia, poi non abbiamo potuto fare a meno di raccontare il nostro progetto, quell’embrione di progetto che avevamo in testa e che a raccontarlo sembrava fragilissimo.Si sono raccolti attorno a noi una decina di ragazzi. Tommaso traduceva, in francese e in inglese. Poi ci ha aiutato anche Momo. Insomma, sono stati contenti e a poco a poco entusiasti all’idea di mettere in relazione la loro storia con un antico poema che parla di un uomo in fuga dalla guerra, che naviga rischiando la furia dei venti attraverso il Mediterraneo.
Al crocchio si sono aggiunti altri ragazzi, uno leggeva Simenon. Tutti si sono fatti coinvolgere, vengono dall’Africa occidentale e da quella orientale. Due hanno cominciato a litigare sulla differenza fra poesia e prosa, uno ci ha raccontato che scrive poesie, uno si è dichiarato lettore di Balzac (e mi scuso perché ancora non so i nomi, non ho fatto a tempo). Ci siamo dati appuntamento il giovedì successivo per cominciare, con l’idea di vederci tutti i giovedì per lavorare al progetto.
Eravamo quasi impressionati dal vedere come fosse vero quello che credevamo, la letteratura, diceva un ragazzo, è la cosa più importante che c’è, la letteratura è la vita stessa. Nella mattina di lunedì l’ennesimo sgombero. La Rete Ferrovie Italiane ha piazzato pesantissimi dissuasori di cemento per evitare che si potesse rimettere su il campo. Volontari e cittadini seduti per terra e una lunga trattativa hanno impedito che le tende donazioni dei cittadini venissero distrutte.
Questo giovedì non siamo potuti tornare al campo perché non c’era più, ma prepariamo il lavoro per essere pronti a incontrarci di nuovo. Ora, a piazzale Maslax è rimasto un presidio, all’ora della cena e del pranzo si distribuisce il pasto, ma dormire si deve dormire da soli evitando assembramenti.
L'Espresso, 25 giugno 2017 (c.m.c.)
«La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere», scriveva Italo Calvino. Il paesaggio semidesertico, il caldo torrido, quel colore, un marrone chiaro e tendente al giallo, che domina l'orizzonte di rocce e deserto. E poi i diavoli di sabbia: alti mulinelli di rena e polvere che si formano improvvisamente, ricordando dei piccoli tornado, e crescono su uno sterminato numero di prefabbricati bianchi e grigi. Se i segni si ripetono, affinché una città cominci a esistere, questi sono i segni che hanno fatto nascere Zaatari, la città dei rifugiati.
Il campo rifugiati di Zaatari sorge al nord della Giordania, su un lembo di terra semidesertico al confine con la Siria, vicino alla città di Al Mafraq. Nato per ospitare le migliaia di profughi in fuga dal vicino Paese devastato dalla guerra civile, Zaatari viene aperto nell'estate 2012, come campo temporaneo di tende, sotto l'egida del governo di Amman e dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. In pochi mesi diventa uno dei campi più grandi del mondo e, per densità di popolazione, la terza città del regno hascemita. Oggi vi abitano circa 80.000 persone. Tutte siriane.
Arrivarci, partendo dalla capitale, è molto semplice: si tratta di circa settanta chilometri di strada scorrevole. Entrare nel campo, invece, è già più complicato. Circondato da un arido perimetro privo di barriere o reticolati, ma controllato giorno e notte dall'esercito giordano, Zaatari ha un'unica strada di accesso alla fine della quale, ovviamente, la polizia chiede di verificare i permessi di entrata rilasciati dallo Stato. Fuori dal posto di blocco non c'è la fila: il campo ha raggiunto la sua capienza massima ed è quindi stato chiuso a nuovi ingressi. Ottenere il permesso per entrare non è per nulla semplice e i rifugiati che escono per lavorare nelle vicinanze sono pochi, e spesso non lo fanno per la via principale.
Noi siamo riusciti a visitarlo grazie al supporto del Norwegian Refugee Council, efficiente ong norvegese che all'interno ricopre un ruolo fondamentale nella distribuzione di quelli che in termine tecnico vengono definiti "non-food items", tutti i beni di prima necessità che non sono alimentari: dai pannolini per i bambini e i vestiti fino ai sussidi finanziari.
Zaatari è diviso in 12 distretti, 12 aree diverse create per praticità e per una migliore organizzazione. Le strade, a un occidentale, possono sembrare tutte simili. Lo stesso vale per le costruzioni destinate ad abitazione. Un occhio più attento, però, può distinguere i distretti in base ai prefabbricati: da una parte quelli donati dall'Arabia Saudita, dall'altra le abitazioni regalate dal Qatar o da altri benefattori.
In ogni distretto, inoltre, ci sono aree destinate a usi specifici, circondate da barriere e filo spinato, controllate all'entrata. Grazie ad Hassan, il giovane "technical communications officer" di Nrc, e grazie soprattutto al loro Country director, l'italiano Carlo Gherardi, visitiamo le attività nel campo della ong norvegese: da un lato la formazione, i grandi laboratori professionali dove i più giovani siriani possono imparare l'arte della sartoria, il mestiere dell'elettricista, come aggiustare un moderno telefono cellulare o come costruire, e poi gestire, un pannello solare. Dall'altra le attività di educazione per i bambini in età scolare: in Giordania, come negli altri Paesi dell'area mediorientale, il tema del diritto all'educazione dei rifugiati siriani rimane una delle sfide più importanti da vincere. All'interno di Zaatari, per fortuna, sono state costruite più scuole in grado di garantire un percorso scolastico ufficiale a tutti questi figli della guerra civile.
Organizzazioni come Nrc, con l'aiuto di Unicef, realizzano programmi di recupero per chi ha perso anni di istruzione, corsi di supporto nello studio, di affiancamento per i bambini che hanno più difficoltà a concentrarsi. Colpisce il lavoro realizzato con il "Better Learning Programme", un progetto mirato ad aiutare i piccoli che non riescono a concentrarsi in classe a causa del sonno disturbato: gli incubi e la paura di quello che hanno vissuto in Siria li continuano a perseguitare.
Zaatari è enorme e la scuola, ovviamente, non è l'unico problema di una città nata all'improvviso. Per anni le case dei rifugiati sono state le tende delle Nazioni Unite. Ora, come detto, sono prefabbricati più moderni, con interni rivestiti da una lamina di legno. L'elettricità, però, c'è solo quando cala il buio. Durante il giorno bisogna farne a meno, tranne che nelle zone provviste di generatore. L'acqua potabile viene fornita dall'Unicef, con grandi contenitori di plastica che vengono ricaricati quotidianamente per servire più di una famiglia. Alimenti e cibo sono garantiti da un'altra agenzia dell'Onu, il World Food Programme. Mentre, per tutto quello che riguarda i beni di prima necessità non alimentari a pensarci è proprio il Norwegian Refugee Council. È grazie a loro che riusciamo a entrare nell'area di distribuzione: è qui che un rifugiato può chiedere quello di cui ha più bisogno. Quando vi entriamo è in corso la consegna di pannolini per i neonati. Decine di donne si muovono silenziose e velate nell'area di riconoscimento, alcune con un semplice velo sui capelli, molte con il velo totale, quello che permette di vedere solo gli occhi di chi lo porta.
All'interno dell'area, però, devono alzarlo per il riconoscimento dell'iride: il governo giordano, infatti, in collaborazione con Unhcr, ha attivato un sistema di registrazione dei rifugiati tramite il riconoscimento oculare. Con una macchina fotografica digitale l'iride viene registrata nei database all'arrivo e ogni volta che è necessario qualcosa dal Centro di distribuzione per l'assistenza umanitaria, che sia qualcosa di materiale o il sussidio monetario mensile, è necessario il suo riconoscimento. Il clima nella stanza in cui avviene è surreale: per chi vive al campo non c'è nulla di più naturale, per i visitatori vedere una fila di operatori chiedere ai siriani di guardare nella macchina fotografica a forma di binocolo crea un clima un po'fantascientifico. E ancor di più quando, dopo pochi secondi, una nitida foto dell'occhio appare sugli schermi dei computer.
Una forma di ossimoro in una "città" in cui, per motivi di sicurezza, nessuno può accedere alla rete internet. Eppure la vita va avanti, nonostante le difficoltà. A raccontarcelo è Farazat, un siriano trasferitosi qua da tre anni. «Prima di scappare dalla mia terra le ho provate tutte: per un periodo ho lavorato come falegname e carpentiere in Libano, per mandare del denaro a casa. Ma dopo pochi mesi sono voluto tornare; non potevo lasciare mia moglie e i miei figli da soli in Siria», ci rivela seduto per terra, nel suo ordinato prefabbricato. «Per qualche mese ho cercato di tirare avanti; ho sperato che la guerra finisse. Ho deciso di scappare definitivamente il giorno in cui è nata mia figlia», racconta. E ancora: «eravamo in un ospedale da campo e lei è nata prematura di qualche settimana. Subito dopo il parto è stata messa in un'incubatrice. Dopo pochi minuti una bomba ha colpito l'ospedale; la piccola ha iniziato a piangere e l'elettricità è saltata, interrompendo il funzionamento dell'apparecchiatura. In quel momento ho deciso che non avrei più potuto rischiare la vita della mia famiglia. Appena mia figlia si è stabilizzata, siamo scappati». Farazat ora ha tre figli, che gli corrono attorno sotto lo sguardo vigile della moglie, mentre ci parla. Sono salvi, sono vivi. «La vita nel campo non è facile, per mesi sono stato passivo, senza far nulla, poi ho ritrovato coraggio e mi sono messo a insegnare l'arte della falegnameria in un centro di formazione. Ora sono felice: siamo salvi, abbiamo un tetto, del cibo, una casa. Ma quando penso alla mia terra, a una vita normale, mi piange il cuore. Soprattutto quando penso ai miei figli, che credono il mondo finisca qua, perché non hanno mai visto altro. Se non il campo, se non Zaatari».
È impossibile descrivere in poche parole una vita così complessa, un luogo così difficile e complicato, una quotidianità così distante dalla nostra, ma reale. L'esempio lampante, forse, sono gli "Sham Elysees", il viale principale, che prende nome un po' da Parigi e un po' dal nome arabo di Damasco. Sham, appunto. È lì che si può sentire con gli occhi come la vita vince, comunque, sulle tragedie umane. È lì che i siriani hanno aperto una miriade di negozietti in cui vendono di tutto, dai profumi per le ragazze agli abiti da sposa. Perché a Zaatari c'è chi nasce, chi cresce e va scuola, chi lavora, chi ruba e chi si sposa. A Zaatari c'è la vita. Nonostante tutto. Nonostante il costante tentativo degli esseri umani di provare a porvi fine
Corriere della Sera, 23 giugno 2017Sulla missione europea per controllare i confini libici il nostro premier ha detto a Juncker che occorre per svariati motivi. In primo luogo la chiedono gli stessi libici, e ieri Gentiloni ha anche visto nella sede della nostra rappresentanza il capo del governo libico di accordo nazionale, Fayez Al-Serraj. In secondo luogo come ex potenza coloniale l’Italia non può gestire la missione, ha aggiunto Gentiloni, i libici non l’accetterebbero.
Un terzo motivo, non detto, che riferiscono nel nostro governo, è di natura diplomatica, geopolitica, e coinvolge la Francia, che ha una base militare in Niger, nella città di Madama, non lontana dai confini libici, e che vorrebbe avere un ruolo di primo piano nel controllo della frontiera tra Libia e Ciad. Il governo francese avrebbe anche stimato in 500 unità il numero di un contingente che controlli i confini, ma secondo le valutazioni del nostro ministero della Difesa occorrono migliaia di unità.
Di qui la richiesta di Gentiloni, che sia a Macron che alla Merkel, in primo luogo, gira almeno un’altra istanza: un coinvolgimento con fondi propri per la gestione dei flussi migratori, e la prevenzione degli stessi, attraverso la Libia. Prima di volare a Bruxelles il capo del governo aveva detto, in Parlamento, che sulla Libia l’Unione si muove in modo «drammaticamente lento»; le sue richieste di ieri hanno lo scopo di fare dei decisivi passi in avanti, creando una consapevolezza maggiore in tutti i Paesi membri.
Il raddoppio dei fondi europei diretti per la Libia (l’anno scorso erano 200 milioni e sono già stati spesi) si accompagna infatti a un precisa condizione di Palazzo Chigi: i nuovi fondi devono provenire solo in parte dal bilancio comunitario, una parte cospicua deve arrivare dai bilanci nazionali.
L’altra richiesta che Gentiloni ha anticipato a Juncker, chiedendogli un sostegno, e che poi ha esplicitato al tavolo del Consiglio europeo, riguarda i migranti salvati nel Canale di Sicilia, da qualunque nave. Per Gentiloni l’automatismo attuale, secondo il quale vengono accompagnati nei porti italiani, è ormai obsoleto: «Possono anche essere portati sulle coste francesi, maltesi o della Tunisia, se coinvolta», sono gli esempi che il nostro presidente del Consiglio ha fatto a Juncker, con il quale ha anche parlato della candidatura di Milano come nuova sede dell’agenzia europea per il farmaco, che per la Brexit lascerà Londra. In tutto i Paesi Ue candidati sono 20, e nonostante i tanti punti di forza di Milano, il dossier si annuncia difficile, se non in salita.
Guidoviale.it blog, 19 giugno 2017 (p.d.)
Entrambe queste definizioni collocano i profughi o i migranti ambientali fuori dal diritto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, in base alla quale le persone a cui spetta il diritto di asilo sono solo quelle costrette a fuggire da un fondato timore di persecuzione (da parte di uno Stato) per cinque ragioni: razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un particolare gruppo sociale. Successivamente il diritto di asilo è stato esteso includendovi ogni tipo di violenza e, in particolare, la guerra. In ogni caso il termine profugo (refugee) si applica solo alle persone che varcano il confine del proprio Stato, mentre le persone che si spostano al suo interno per cause di forza maggiore, siano esse la guerra, la violenza o il degrado ambientale, sono chiamate (displaced persons) e non possono ovviamente essere fatte oggetto di protezione internazionale. La correttezza del termine profugo ambientale è stata comunque contestata soprattutto sulla base di due considerazioni:
Primo, il rapporto tra degrado ambientale ed esodo all’estero non è quasi mai diretto. Prima di abbandonare il proprio paese le vittime di un processo di degrado ambientale cercano per lo più altre strade: si spostano in un altro territorio, spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale. Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero. Ricostruire l’eziologia di questo esodo è pertanto molto difficile. “I disastri – afferma il professor Roger Zetter dell’Università di Oxford, una delle massime autorità negli studi su questo argomento – non spostano la gente. E’ la loro vulnerabilità sociale e politica e la loro esposizione agli shock a predisporli allo spostamento. L’ambiente non ‘perseguita’ come possono farlo una dittatura o una guerra”. Secondo, il tentativo di estendere ai migranti ambientali la protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra, in particolare in un periodo in cui la sua applicazione viene messa in forse da molti Governi, rischia di diluire e compromettere anche la protezione accordata alle persone che la Convenzione deve proteggere.
Altri studiosi ritengono invece che i profughi ambientali siano effettivamente vittime di una violenza, quella dei cambiamenti climatici provocati dall’Occidente e dei disastri prodotti dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi processi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per il professor Francois Gemenne dell’Università di Paris Vincennes, i profughi ambientali sono effettivamente vittime di violenza: quelli propri dell’antropocene, cioè dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali provocati dall’Occidente, dai suoi consumi e dai suoi investimenti, che rendono tutti gli Stati e i popoli che sono all’origine di questi flussi responsabili del destino di chi è costretto a fuggire. Per questo hanno diritto a una protezione internazionale. Quale che siano le ragioni che spingono sia i profughi di guerra che i migranti ambientali a fuggire dai loro paesi, oggi sono entrambi esposti allo stesso carico di maltrattamenti, violenza, sfruttamento, rapine e rischi mortali durante il loro viaggio verso l’Europa, dato che nessun corridoio umanitario viene predisposto per facilitare il loro arrivo.
Come si è visto, le cause che spingono i profughi e i migranti ambientali ad abbandonare il loro paese sono diverse. Più in particolare esse rientrano in una delle seguenti categorie:
- Eventi ambientali estremi come terremoti, alluvioni. Uragani, siccità, carestia, ecc.;
I profughi e i migranti ambientali abbandonano i loro luoghi di origine secondo modalità differenti a seconda dei fenomeni che li hanno spinti a farlo. Quando sono in gioco eventi estremi e improvvisi, quasi tutti gli abitanti di un’area si spostano insieme verso altre aree il più possibile vicine a quelle che lasciano, per lo più all’interno dello stesso paese. Quando invece il fattore determinante è un degrado graduale dell’habitat, l’emigrazione è in genere più selettiva. Si spostano (da soli o in piccoli gruppi) solo alcuni membri di una famiglia o di una comunità, in genere giovani, spesso i più istruiti e persino i più benestanti, anche perché devono sostenere i costi del loro viaggio, tutt’altro che indifferenti, con le risorse delle loro famiglie o con quelle di parenti che si trovano già all’estero e che li attendono. Spesso, prima di imbarcarsi in un viaggio rischioso verso l’Europa, raggiungono una città o la capitale del paese, dando origine a nuovi slum. Il loro obiettivo principale è guadagnare e mandare del denaro a casa per integrare le scarse risorse delle loro famiglie. Il modello di migrazione seguito dalle persone cacciate dalla costruzione di un’infrastruttura o da qualche altro progetto di sviluppo riproduce quello delle persone colpite da un evento estremo, anche quando il loro trasferimento è organizzato da un’agenzia di governo.
Il modello della gente che fugge da una guerra è invece spesso simile a quello seguito dalle persone cacciate dal degrado del loro habitat, anche quando la loro fuga assume le caratteristiche di una valanga, come oggi in Siria. In entrambi questi schemi di esodo, la maggioranza delle persone desiderano tornare prima o poi da dove sono venuti, anche se pochi riescono poi a farlo. Improvvisi disastri ambientali o lento degrado di un habitat sono spesso causa di conflitti armati o di guerre, perché un ambiente immiserito riduce le risorse di una comunità che vive di un’economia di sussistenza, inducendo gruppi etnici o armati ad accaparrarsi quel che resta a spese di altri gruppi anche con le armi. E’ questo, per esempio, il caso del confitto che coinvolge Boko Haram nel nordest della Nigeria, o di quello che aveva devastato il Ruanda. Spesso l’economia nazionale o le politiche del Governo non sono in grado di far fronte alla rapida crescita di conglomerati urbani provocati da una migrazione interna. E’ questa una situazione che sfocia facilmente in rivolte urbane che, in un contesto vulnerabile, possono poi esplodere in una guerra aperta, soprattutto se delle potenze straniere cercano di trarre vantaggio dalla situazione per raggiungere i loro scopi.
E’ questo il caso della Siria: alle origini della guerra che la sta devastando ci sono anni di siccità che avevano strappato un milione e mezzo di contadini dalle loro terre, facendoli confluire verso città già sovraffollate. Qui, in una fase di radicalizzazione e internazionalizzazione del conflitto, l’obiettivo principale dello Stato islamico è stato quello di accaparrarsi le risorse strategiche del paese: in particolare i pozzi petrolifere e soprattutto le risorse idriche attraverso il controllo delle dighe. Tornando a una visione di insieme, le seguenti carte dell’Africa centrale e settentrionale – prese dalla relazione di Grammenos Mastrojeni al convegno Il secolo dei profughi ambientali?, Milano, 24.9.2016 – mostrano come ci sia una sovrapposizione quasi completa tra le aree segnate da degrado ambientale (1), i paesi coinvolti in una guerra o in un conflitto armato (2), le aree colpite da una carestia (3) e le zone da cui proviene la maggioranza dei flussi migratori (4); a riprova di quanto sia difficile distinguere i profughi di guerra da quelli cacciati da un disastro ambientale. E’ sbagliato considerare questi conflitti questioni puramente regionali. Il peggioramento dell’ambiente globale e l’allargamento delle aree gravemente colpite dai cambiamenti climatici provocano un conflitto crescente tra i paesi sviluppati e la moltitudine dei profughi che cercano la sopravvivenza in paesi meno coinvolti dai cambiamenti climatici. Un documento prodotto dal Pentagono già nel 2004 così prospettava il futuro che ci attende: Le prossime guerre saranno combattute per ragioni di sopravvivenza.
Nei prossimi 20 anni diventerà evidente un sensibile calo della capacità del pianeta di sostenere la popolazione esistente. Milioni di persone moriranno a causa di guerre o carestie, finché gli abitanti del pianeta non saranno stati ridotti a un numero sostenibile. I paesi più ricchi, come gli Stati uniti e l’Europa si trasformeranno in “fortezze virtuali” per impedire l’arrivo di milioni di migranti espulsi dalle loro terre sommerse o non più in grado di produrre cibo per mancanza di acqua. Ondate di profughi in arrivo via mare creeranno gravi problemi. Rivolte e conflitti finiranno per spezzare l’Africa e l’India. I Governi incapaci di garantire le risorse di base e i servizi essenziali e di difendere i propri confini verranno spazzati via dal caos e dal terrorismo. Ma quanto sono i migranti o profughi ambientali? Global Estimates calcola che dal 2008 a oggi siano stati circa 28,5 milioni ogni anno. Un’altra fonte sostiene che solo nel 2015 ci siano stati 27,8 milioni di displaced persons, 19,2 dei quali a causa di calamità naturali e 8,6 a causa di conflitti e violenza; L’OIM prevede 250 milioni di profughi ambientali al 2050. Significativo il numero dei profughi provocati da progetti di sviluppo: in Cina, tra il 1950 e il 2015 circa 80 milioni. In India 65 milioni, di cui solo il 17 per cento sono stati ricollocati in modo più o meno appropriato. Ecco alcune cifre di spostamenti provocati da progetti di sviluppo ed eventi organizzati dall’uomo.
Questi dati sono ricavati dal libro Crisi ambientale e migrazioni forzate, prodotto dall’associazione A Sud, Roma, 2016).
Le politiche dell'Unione europea
Quali sono le politiche dell’Unione Europea nei confronti dei profughi? Schematizzando molto per motivi di tempo si può dire quanto segue: L’Europa deve riuscire a respingere il maggior numero possibile di profughi. Lo fa distinguendo tra profughi che hanno il diritto di chiedere asilo in base alla Convenzione di Ginevra perché fuggono guerre o persecuzioni, e “migranti economici”, che non hanno quel diritto e devono essere rimpatriati. I profughi ambientali rientrano in questa seconda categoria.
La selezione tra profughi di guerra e migranti economici viene effettuata negli sulla base dei paesi di origine, classificati in sicuri e non sicuri. Paesi come Afghanistan, Mali, Niger, Nigeria, Sudan, Etiopia sono considerati sicuri e i profughi di quei paesi sono considerati migranti economici e sono costretti al rimpatrio. Per promuoverlo vengono stipulati degli accordi con i loro Stati di origine a cui sono versati miliardi di euro in cambio di questa riconsegna. Ma vengono anche dotati di armamento militare o strumenti di sorveglianza e recentemente, come viene prospettato per il Niger, si progetta il trasferimento in loco di un contingente militare per bloccare i flussi. Respingere i profughi tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento delle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili per tutti i loro paesi, come lo sono oggi gran parte della Libia e i territori in mano allo Stato islamico.
Costituire l’Europa in fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché l’intero continente sarà sempre di più circondato da guerre e bande armate. Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o immigrati regolarizzati. Ostilità che si è già rivelata origine di un terrorismo stragista autoctono e non importato, ma anche di una crescente estraneità e di un crescente rancore di intere comunità che genereranno nuovi conflitti interni su basi etniche o pseudoreligiose.
L’alternativa a queste politiche deve essere comunque elaborata dal basso, dalla cittadinanza attiva e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità autoctone che quelle migranti. Non può essere definita in partenza, ma alcuni dei suoi capisaldi possono essere enunciati fin da ora. Si tratta di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello europeo, che per ora può essere valorizzato solo come strumento di mobilitazione e di condizionamento dei Governi, cercando i necessari collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:
I sette pilastri di una risposta ragionevole
Primo: Politiche di austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei dato che l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di vecchi, è inevitabile. Così si rischia di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. E’ appena il caso di ricordare che il milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a mala pena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono corridoi umanitari di ingresso e soprattutto politiche inclusive, costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto dello sfruttamento e della schiavizzazione dei profughi e dei migranti non regolarizzati in forme tradizionali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione e manutenzione dell’usato, cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno anche nei paesi di origine ed essere il motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Un programma e dei progetti del genere non possono essere affidati né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né solo a programmi governativi. Abbinando accoglienza e lavoro, inclusione e produzione, soltanto l’economia sociale e solidale è adatta a concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Le persone fuggite da guerre e disastri per lo più desiderano ritornare nei loro paesi se solo il degrado sociale e ambientale venisse invertito. Sono queste le premesse per la costituzione di una grande comunità euromediterranea. Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno acquisito in Europa.
Sesto: Per questo le loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa in campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in quegli stessi territori.
Settimo: Premessa obbligata è una battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella ibridazione dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è dovuto solo alla paura (di una loro propensione a delinquere o del terrorismo). Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e culture di cui si teme che possano mettere in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. E’ questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve essere il nostro impegno.
la Nuova Venezia on line, 20 giugno 2017
Hanno sfilato in oltre trecento, martedì mattina a Venezia, per chiedere di essere trattati con dignità e protestare contro le condizioni di sovraffollamento del centro di Conetta, nel quale vivono in attesa che lo Stato riconosca o meno il loro status di rifugiati. "Non siamo merce", "Cona no buono", "Basta alla ghettizzazione" alcuni degli slogan che sono risuonati martedì mattina tra le calli e i campi.
Nella Giornata mondiale del profughi, si sono ritrovati martedì mattina nel piazzale della stazione di Santa Lucia, per poi raggiungerre campo Santo Stefano - nei pressi della Prefettura - dopo aver attraversato l'intera città. Ad organizzare la manifestazione è stato l'Unione sindacale di Base-Usb. Ad aprire il corteo, uno striscione con la foto di Sandrine, la giovane ivoriana morta a gennaio per una trombosi, al centro di Cona: un decesso che aveva acceso i riflettori sulle difficili condizioni di vita all'interno della struttura.
Dal 2001, il 20 giugno è la Giornata mondiale dei profughi, per ricordare l’anniversario della convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (Convention Relating to the Status of Refugees), firmata il 20 giugno del 1951.
I manifestanti chiedono un'accelerazione delle pratiche burocratiche per il riconoscimento dello status di rifugiati, migliori condizioni di vita all'interno dei centri di accoglienza e hanno portato in piazza il loro disagio anche con canti e balli, oltre che con slogan contro il razzismo e per chiedere "Asilo per tutti". Tra loro, diverse nazionalità e fedi religiose e un'unica richiesta: "Dignità".
"C'è chi attende anche da due anni il permesso di soggiorno", spiegano dall'Usb, "chiediamo alla Prefettura di organizzare un incontro a breve per affrontare tutte le criticità: prima di tutto, bisogna velocizzare la burocrazia".
Senza il riconoscimento del loro status di uomini e donne in fuga dalla guerra e dalla fame, queste persone vivono nel difficile, sovraffollato limbo dei centri di accoglienza o di tendopoli, senza documenti né la possibilità di lavorare.