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il manifesto, 8 settembre 2017 (m.p.r.) con riferimenti

Come si può esprimere tutta l’indignazione e la rabbia per la triste conclusione (perché di questo si tratta con il ritorno dell’ambasciatore in Egitto) del caso Regeni, ovvero del martirio di un nostro giovane ricercatore? Non si può.

Il grido di dolore e insieme di sdegno resta nella gola, soffocato; tanto è lo sgomento per le ciniche parole del ministro Alfano. Ma in questa tristissima vicenda Alfano non è solo. Si chiama realpolitik, spirito del tempo, realismo e si pronuncia con assassinio di Stato. Perché i rapporti «ineludibili» tra Egitto e Italia, le cosiddette «ragion di Stato», hanno ancora prevalso cinicamente di fronte alla difesa di una vittima innocente, o meglio, colpevole di svolgere un dottorato di ricerca con una indagine sul campo in un paese dove vige una dittatura.

Diciamolo con chiarezza: l’Egitto è un paese governato da un dittatore, amico di un altro degno rappresentante della democrazia: Putin. In quale altro paese democratico si uccide così barbaramente un giovane studioso? E dove giornalisti (Abdallah Rashad non ultimo) vengono sequestrati dai servizi segreti senza che se ne sappia più nulla? Un delitto degno dello Stato più reazionario. Era già successo; succede sempre, e ancora questa volta (nutrivamo qualche speranza!) abbiamo assistito al prevalere degli interessi economici su quello delle persone, cittadini italiani inermi.

Guai a trovarsi in situazioni simili! Si scoprirà che il tuo Paese non ti difende, che hai la disgrazia di essere nato in Italia. Così va il mondo: è il neoliberismo bellezza!! E il silenzio dell’università di Cambridge? Quello della Francia? Gli affari sono affari e una persona è una persona. Questo rattrista e ci riempie di sdegno: se il mondo perde di vista l’umano, ovvero lo mette in second’ordine rispetto al business, niente ha più senso. Il sacrificio di una giovane vita vale assai meno di un affare. Così aumentano le esportazioni egiziane verso il nostro paese: 29% in più, pari ad un valore di 761 milioni di dollari e guai a comprometterle per un banale caso di omicidio.

Questo paese sa solo fare la voce grossa con i migranti, con i «dannati della terra», con quelli che non hanno diritti, ma si inchina perfino ai più biechi dittatori che promettono commesse in cambio del silenzio su un assassinio. Questo mercimonio non ha neppure la dignità di quella tragedia che anteponeva le ragion di Stato invocate dal Re Creonte a quelle dell’amor filiale di Antigone. Nel caso di Giulio Regeni non c’è alcuna tragedia: era tutto scontato che si concludesse così, con una farsa, anzi, una beffa, e dove le «ragion di Stato» si chiamano fare affari. In soccorso al prode Alfano è arrivato un altro alfiere della democrazia: Casini, che ha detto che tutto questo clamore sul caso non è altro che uno sciacallaggio per bieche opportunità politiche. Ben detto, da un esperto di queste cose.

Si prova solo vergogna ad essere cittadini italiani in casi come questo. Non erano le ragioni dei migranti che mettevano in serio pericolo la tenuta democratica del Paese. Il ministro Minniti è nudo: non si è accorto, o non ha voluto vedere, che quella tenuta democratica a rischio non veniva da fuori del Paese, ma dal suo Parlamento, da quella scelta scellerata di far rientrare l’ambasciatore in Egitto. Una decisione che ha inflitto una ferita profonda nella fiducia dei cittadini a essere tutelati nei loro diritti (e nella loro incolumità) da un Paese che si dice democratico. E su tutte pesa il silenzio imbarazzante dell’Ue troppo attenta a non compromettere gli equilibri di quei paesi, al di là del Mediterraneo, che, come la Turchia di Erdogan, hanno dato la loro parola (di dittatori) per contenere (massacrare) i profughi in fuga.

Così, a seppellire le ultime speranze di far luce su questo assassinio, le parole di Alfano: «Contro l’oblio vorremmo fosse intitolata l’Università italo-egiziana la cui istituzione è un progetto che auspico troverà nuova linfa con l’invio dell’ambasciatore Cantini. A Giulio sarà intitolato anche l’auditorium dell’Istituto di cultura italiana al Cairo e saranno organizzate cerimonie commemorative nella data della sua morte nelle sedi di tutte le istituzioni italiane in Egitto». Amen.

riferimenti
eddyburg con attenzione ha seguito la triste vicenda nella sezione eventi 2016: Giulio Regeni assassinio di stato. L'auspicio era di ottenere giustizia per un delitto orrendo. Il ritorno dell'ambasciatore in Egitto e le parole del ministro Alfano, le "ragion di stato", ci dicono purtroppo che giustizia non sarà fatta.

«il manifesto, 7 settembre 2017

STUPRI, TORTURE, SCHIAVISMO:
DENUNCIA-SHOCK SULLA LIBIA
di Michele Gonnella

«Stati d'accusa. La presidente internazionale dell’ong Msf Liu: «L’Italia e l’Europa vogliono essere complici»
«Quello che ho visto in Libia è l’incarnazione della crudeltà umana al suo estremo». Joanne Liu, presidente internazionale di Medici senza Frontiere, strappa il velo dell’ipocrisia, della realpolitik del ministro Marco Minniti, invocata come panacea da prestigiosi commentatori e fini analisti, sui respingimenti in Libia ad opera dei libici ma con il valido contributo, di soldi e di retorica, dell’Italia e dell’Europa. Lei lo chiama «ultra cinismo».

Ma sono le immagini e le storie che racconta di uomini e donne stipati e massacrati nei lager libici, picchiati, schiavizzati, torturati «per il solo crimine di desiderare una vita migliore» – la delegazione di Msf è appena tornata dalla Libia dove ha visitato i centri di detenzione ufficiali, proprio quelli finanziati dall’Italia con il plauso europeo – «storie che mi tormenteranno per anni», dice Liu, più della lettera-appello indirizzata da Msf al primo ministro italiano Paolo Gentiloni e agli altri leader europei, che non riescono più a nascondere la realtà.

Tripoli, donne profughe nelcentro di detenzione dopo la cattura

Ciò che la canadese Joanne Liu chiama con parole prive di equivoci: «complicità» con i criminali, cioè con «un modello di business che trae profitto dalla disperazione». Parole che, paradossalmente, hanno provocato commenti stizziti o minacciosi a difesa del governo soprattutto dall’opposizione di destra, da Calderoli a Romani. Nella conferenza stampa di ieri a Bruxelles – e nel video-messaggio diffuso sui social dall’Ong che non ha firmato il codice Minniti – c’è la spiegazione, documentata, di questo giudizio e delle ragioni dell’appello all’Europa a mettere in campo immediatamente un’altra strada, quella delle «vie legali e sicure» per accogliere e non inprigionare questa umanità africana in fuga.

Il premier Gentiloni ha risposto a stretto giro che si «augura» che «gli sviluppi che abbiamo avuto in queste settimane con le autorità libiche ci consentano di avere la possibilità di chiedere, e forse anche ottenere, condizioni umanitarie che sei mesi fa neanche ci sognavamo di chiedere».

L’Europa dal canto suo risponde con non meno stridente coscienza «delle condizioni inaccettabili, scandalose e inumane». «Non siamo ciechi e sordi», ribatte puntuta la portavoce della Commissione, Catherine Ray, ricordando lo stanziamento di 142 milioni di euro per assistere organizzazioni internazionali come l’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni in Libia. E annunciando inoltre come la Commissione Juncker stia cercando di realizzare un meccanismo per «monitorare» l’uso dei fondi europei per addestrare la Guardia costiera libica.

A tutta questa fumoseria fa da contraltare la crudezza delle condizioni di detenzione verificate dalla delegazione di Msf. «Quando sono entrata in un centro di detenzione a Tripoli – inizia Liu – c’era una guardia, enorme, che ha spalancato la porta e ha ricacciato la gente indietro con un bastone. Un mare di persone magre, emaciate, trattate come fossero animali». «Sussurravano “Tirateci fuori da qui”. Ho ho potuto solo dire loro: “Vi sento”». E ancora: «Una donna incinta era svenuta perché costretta a stare in piedi per ore su un piede solo, sotto il sole. Mi ha detto: “La mia storia non è neanche la peggiore”. E mi ha confidato di un’altra donna incinta stuprata nella stanza accanto a quella dove è stato rinchiuso il marito dopo essere stato picchiato davanti a tutti nel cortile». Poi c’è il ragazzo arrivato in Libia dalla Guinea per studiare e lasciato talmente senza cibo nel centro da rischiare la vita per malnutrizione. «Non riusciva a guardarmi in faccia mentre mi parlava e gli scendevano le lacrime».

Msf ha scelto di visitare solo i centri di detenzione del governo di Tripoli i Detention Centres for Illegal Migration, dove l’ong ha accesso. «L’Unhcr – Jan Peter Stellem di Msf – riferisce di circa 40 centri di detenzione ufficiali, ma ci sono molti campi illegali. In questo momento lavoriamo in 8 centri di detenzione: siamo stati anche in altri, ma a volte il controllo cambia e allora bisogna rinegoziare l’accesso al centro».

La gestione dei miliziani libiche invece – come risulta anche da inchieste giornalistiche – non si può mettere in discussione.

UN URLO
CONTRO LA COMPLICITÀ
di Tommaso Di Francesco


La lettera d’accusa al piano migranti dell’Italia e dell’Ue inviata da Joanne Liu e da Loris De Filippi, rispettivamente, presidente internazionale e responsabile italiano di Medici Senza Frontiere (Msf), sia a Bruxelles che al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni – che negli stessi minuti vantava da Lubiana: «I risultati sull’immigrazione si vedono nel senso della riduzione degli sbarchi e dei flussi» – non appartiene a quelle rivelazioni che possono passare inascoltate. Perché gridano, urlano una verità ormai incontrovertibile.

Il titolo infatti di questo nuovo rapporto della Ong – la stessa che il «Codice Minniti» ha messo all’indice mentre salvava vite umane nel Mediterraneo – potremmo sintetizzarlo con le stesse parole di Msf: «I governi europei complici nell’alimentare il business della sofferenza in Libia».

Accusa Joanne Liu, reduce da un viaggio-inchiesta in Libia di una settimana fa: «Il dramma che migranti e rifugiati stanno vivendo in Libia dovrebbe scioccare la coscienza collettiva dei cittadini e dei leader dell`Europa» che invece, «accecati dall’obiettivo di tenere le persone fuori dall'Europa, con le politiche e i finanziamenti europei stanno contribuendo a fermare i barconi in partenza dalla Libia, ma in questo modo non fanno che alimentare un sistema criminale di abusi».

Perché «la riduzione delle partenze dalle coste libiche – denuncia Msf – è stata celebrata come un successo nel prevenire le morti in mare e combattere le reti di trafficanti, ma sappiamo bene quello che succede in Libia. Ecco perché questa celebrazione è nella migliore delle ipotesi pura ipocrisia o, nella peggiore, cinica complicità con il business criminale».

Ecco gli abusi testimoniati: «Nei centri di detenzione di Tripoli le persone sono trattate come merci da sfruttare. Ammassate in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costrette a vivere una sopra l’altra. Gli uomini ci hanno raccontato come a gruppi siano costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne vengono violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato – accusa la lettera- dossier di Msf – avevano le lacrime agli occhi e continuavano ripetutamente a chiedere di uscire da lì».

È la conferma del primo reportage televisivo di Amedeo Ricucci per la Rai di un anno fa, di quello della Reuters di questa estate, dei duri giudizi di Angelo Del Boca e Alex Zanotelli, del viaggio a Sabhrata dell’Associated Press (e di questi giorni della Frankfurter Allgemeine) che ha svelato come le milizie di quella città (e delle altre, costiere e non), istruite, finanziate e armate dai nostri servizi, cambino casacca. Diventando da trafficanti le milizie di controllo della disperazione dei migranti, gestendo volta a volta, viaggi micidiali a mare, traffici di esseri umani, torture, stupri e centri di detenzione.

Ma che il j’accuse di Medici Senza Frontiere non può stavolta essere nascosto e tacitato nel silenzio del potere e dei media contigui, viene anche dalla stessa Commissione europea, già in imbarazzo per quei reportage.

«I centri d’accoglienza in Libia sono prigioni – dice la Commissaria Ue al commercio Cecilia Malmstroem già in Libia nel 2016 – e le condizioni in effetti sono atroci»; e anche Catherine Ray, portavoce di Federica Mogherini (Mister Pesc) ammette: «Siamo consapevoli, le condizioni di detenzione sono scandalose e inumane», ma l’Ue vuole «cambiare quelle condizioni» è per questo che «Unhcr-Onu e Oim vengono finanziate con 180milioni di euro». Si danno la zappa sui piedi e non se ne accorgono.

La risposta a questo patto criminale è stata finora in Italia una vergognosa esaltazione dell’emergente ministro degli interni Marco Minniti che sarebbe stato capace di convincere la cosiddetta Libia. Ma quale? Se quello Stato non esiste più e che sono almeno quattro le parti in cui è divisa dopo la guerra della Nato, con interposti conflitti tra centinaia di clan e fazioni armate.

Una capacità di convinzione appoggiata col «patto di Parigi» anche da Germania, Francia e Spagna. Che, per tenere lontano il misfatto occidentale, autorizzano in Libia, in Ciad e in Niger l’istituzione di un sistema concentrazionario di lager purché i disperati non arrivino in Europa. Con l’aggiunta della «coperta di Linus» di un presunto controllo dei diritti umani da parte dell’Unhcr e dell’Oim.

Per una fase temporale che semplicemente dimentica di rispondere a questa domanda: che fine fa adesso quel milione di migranti e profughi intrappolati in Libia, in cammino nei deserti e senza più vie di fuga? L’importante è che la loro tragedia sia nascosta nella sabbia.

Minniti, manco a dirlo, ammirato a manca e più ancora a destra come astro nascente, ha trovato in quella occasione una schiera di inaspettati elogiatori: Gabanelli, Travaglio, Gramellini, ecc… E guai a criticarlo. Il presidente del Pd Matteo Orfini ha tuonato: «Chi lo critica è una sinistra salottiera»; e gli «antimperialisti» Pierferdi Casini e Nicola Latorre hanno addirittura subodorato l’ingerenza Usa per il petrolio libico. Siamo davvero curiosi di sapere che cosa dirà ora questo stuolo militante di ammiratori sulla pelle altrui.

Le conseguenze dell'esternalizzazoine dell'"accoglienza" in salsa europea. Articoli di Enrico Fierro da

il Fatto Quotidiano e Francesca Mannocchi da L'Espresso. 8 settembre 2017 (p.d.)


il Fatto Quotidiano
“TORTURE E VIOLENZE IN LIBIA
PAGATE PER METTERLI NEI LAGER”
di Enrico Fierro
«L’accusa a Italia ed Europa. Duro rapporto di Medici Senza Frontiere sui campi di Tripoli: “Chi aiuta i trafficanti, chi salva vite o chi consente di trattarle come merci?”»

È impietoso, documentato, offre soluzioni e all’Europa la possibilità di salvarsi la faccia di fonte al mondo. È il rapporto che Medici senza frontiere ha inviato ieri alla Ue e ai governi e che è sui tavoli di Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Italia ed Europa tirano un sospiro di sollievo per il calo drastico degli sbarchi, i migranti sono stati fermati in Libia, la “pancia” delle opinioni pubbliche europee soddisfatta. Ma a quale prezzo? La situazione dei campi per i profughi in Libia “è vergognosa”, i finanziamenti e le politiche europee “alimentano un sistema criminale di abusi”.

Medici senza frontiere ha trascorso un anno a Tripoli, ha curato e assistito i migranti, quello che operatori, medici e volontari hanno visto è agghiacciante. “Estorsioni, abusi fisici e privazione dei servizi di base” subiti da uomini, donne e bambini. In quei campi di detenzione, gestiti da milizie spesso contigue ai trafficanti di carne umana, “le persone vengono trattate come merce da sfruttare”. I racconti di esseri umani ammassati “in stanze buie e sporche, prive di ventilazione, costretti a vivere uno sopra l’altro”, sono da brividi. “Uomini costretti a correre nudi” nei cortili dei centri di detenzione fino all’esaurimento di ogni forza, “donne stuprate e costrette a chiamare le famiglie e chiedere soldi per essere liberate”. “La loro disperazione è sconvolgente”, commenta Msf. E allora, celebrate il calo degli sbarchi, ma “è pura ipocrisia, oppure, nella peggiore delle ipotesi, complicità con il business criminale che riduce gli esseri umani a mercanzia nelle mani dei trafficanti”. Attacco duro alla Ue e alle scelte del governo italiano da parte di una delle più stimate organizzazioni umanitarie a livello mondiale.

Msf non dimentica di essere stata attaccata, delegittimata, non dimentica che la Guardia costiera libica “finanziata dall’Europa ci ha sparato addosso”, e pone una domanda: “Chi è davvero complice dei trafficanti, chi cerca di salvare vite umane, oppure chi consente che le persone vengano trattate come merci?”. Infine una domanda al capo del governo italiano Paolo Gentiloni: “Permettere che esseri umani siano destinati a subire stupri, torture e schiavitù, è davvero il prezzo che, per fermare i flussi, i governi europei sono disposti a pagare?”. L’interrogativo, pesante e ineludibile, è sul tavolo della Ue e del governo italiano.

Quella di Msf non è l’unica denuncia sulle condizioni dei campi di detenzione in Libia e sulla particolare diplomazia anti-immigrati del governo italiano. Una interrogazione al Parlamento europeo tenta di squarciare il velo sui rapporti con le milizie e i trafficanti. Relatrice la deputata di Possibile, Elly Schlein, firmatari tanti deputati europei e molti italiani, tra questi Barbara Spinelli e Sergio Cofferati. I deputati vogliono sapere “quali misure si intenda assumere per assicurare che i fondi Ue non finiscano nelle mani delle milizie che gestiscono il traffico di esseri umani”. Si tratta di 46 milioni di euro stanziati per la formazione della Guardia costiera libica, per il controllo delle frontiere e il miglioramento delle condizioni di vita nei centri di detenzione. Tema, quello dei rapporti tra milizie, trafficanti e governi, soprattutto quello italiano, sollevato da una inchiesta dell’Associated Press, il 30 agosto scorso. Nel reportage si parla esplicitamente di un “accordo diretto” tra milizie libiche e governo italiano, soprattutto nella città di Sabrata, a ovest della Libia, uno dei porti da dove partivano i gommoni degli scafisti. Le milizie tirate in ballo sarebbero due, entrambe capeggiate da due fratelli, detti “i re del traffico”, della potente famiglia al Dabashi. Si tratta della Al-Ammu (500 combattenti e legata al governo Sarraj), e la Brigata 48, vicina al ministro dell’Interno. Un punto delicatissimo e che riguarda direttamente l’azione del governo italiano, ma che per il momento ha ricevuto solo una flebile replica dalla Farnesina: “Non trattiamo con i trafficanti”. L’opinione pubblica deve accontentarsi.

L'Espresso
LA COSTA DEI LAGER:
I CENTRI DI DETENZIONE DEI MIGRATI
IN LIBIA, DOVE NEANCHE L'ONU ENTRA
di Francesca Mannocchi

«In Libia ce ne sono ormai dozzine. Ufficiali, gestiti da milizie vicine al governo. E segreti, in mano alle bande di trafficanti di armi e droga. e tribù hanno capito che tenere i migranti sotto chiave è un guadagno proprio come farli partire».

Zawhia? «Appartiene alla Libia solo sulla carta, ma in realtà ha le sue leggi, è uno stato a se stante». Mahmoud ha quasi quarant’anni, lavora per una società che si occupa della sicurezza delle aziende straniere a Zawhia, città nella parte occidentale della Libia, a circa 50 chilometri dalla capitale Tripoli. Siamo nella parte di paese solitamente indicata come “controllata dal governo di al-Sarraj”, quello riconosciuto internazionalmente, ma che invece è in mano a milizie contrapposte e bande armate che si spartiscono tutti i traffici illegali, compreso quello dei migranti.

Anche per percorrere le cinquanta miglia che separano Tripoli da Zawhia è meglio andare in barca, via mare: in automobile è troppo pericoloso. La strada costiera, rimasta chiusa più di due anni per gli scontri tra milizie rivali, ora è di nuovo aperta, ma una delle tribù della zona, quella dei Warshafana, organizza check point improvvisati per rapire le persone - e naturalmente gli stranieri valgono di più.
Quando arriviamo al porto di Zawhia, intorno a noi il silenzio è irreale. Sul pontile ci sono una manciata di pescatori: puliscono le barche, rimettono in ordine le reti. Non c’è traccia della guardia costiera e non ci sono più i volti noti del contrabbando che qui era facile incontrare fino a poche settimane fa. Non c’è traccia nemmeno dei migranti africani, che prima affollavano il porto. Un uomo di Sabratha, città vicina e anch’essa tristemente nota per il traffico di uomini, sorride: «Se pensate che il traffico si sia davvero bloccato, siete solo illusi. I trafficanti si stanno solo riorganizzando. Molti di loro si stanno spostando nella zona di Garabulli, un centinaio di chilometri più a est. Alcuni stanno solo aspettando qualche settimana per riorganizzare i viaggi non più con i gommoni ma con le grandi navi di legno che contengono più migranti».
Lungo la strada che porta al centro di detenzione di Zawhia, l’autista ha mille occhi, si guarda intorno come se fossimo sempre sul punto di incontrare le bande armate. Che hanno le mani su qualsiasi cosa e gestiscono il centro di detenzione illegale della zona. Quello inaccessibile: sia ai giornalisti sia alla polizia sia alle organizzazioni umanitarie.
Nel centro di detenzione “ufficiale” sono rinchiuse circa 1.100 persone, quasi tutti uomini, divisi in gruppi da 100 o 200 persone per stanza. Una delle guardie apre il lucchetto della cella, e gli occhi dei ragazzi incrociano i nostri, in cerca di aiuto, in cerca di risposte. John è uno dei detenuti, viene dal Gambia. «Non viene mai nessuno qui, nemmeno le Ngo. Siamo completamente abbandonati. I libici ci trattano bene solo quando arriva qualche giornalista come voi, ma appena la porta alle vostre spalle si chiude noi torniamo ad essere meno che animali. E nessuno ci dice che ne sarà di noi, fino a quando staremo rinchiusi qui e perché». Accanto a lui c’è Alizar, 17 anni, eritreo, uno tra le centinaia di migliaia di minori che fuggono dai loro paesi da soli e restano incastrati nell’inferno libico. Alizar è orfano, non riesce a lasciare la Libia e comunque non potrebbe tornare nel suo Paese, perché in Eritrea la leva è obbligatoria anche per i ragazzi giovanissimi e lui ormai è un disertore. Se tornasse, sarebbe ucciso.
Lasciamo Zawhia alzando gli occhi verso la raffineria sullo sfondo, il fumo, la fiamma, che sono simboli della ricchezza del paese, verso un’altra prigione di migranti, quella di Surman. Da Zawhia dista pochi chilometri, ma bisogna percorrere strade secondarie per evitare check point e sottrarci alle milizie di zona: ce ne sono decine, specializzate nell’assaltare e rubare i mezzi blindati o nei rapimenti i locali. E poi ci sono le milizie islamiche: sono poche, nascoste, tuttavia molto pericolose.
Il centro di detenzione di Surman è un ammasso di cemento in mezzo al nulla. Dentro ci sono circa 250 tra donne e bambini. L’unica porta è chiusa a chiave da un lucchetto. In una stanza ci sono quattro donne stese a terra con quattro neonati: hanno tutte partorito nel centro di detenzione, nessuna di loro ha mai visto un dottore, nessuno le ha visitate, nessuno ha visitato i bambini. Non hanno niente: al posto dei pannolini usano delle coperte di lana, anche se è agosto, tenute addosso ai bimbi con dei pezzi di plastica.
Due bambini sembrano denutriti. La scorsa settimana, ci dicono, è morta una donna che aveva partorito un mese prima: ora il suo corpo è nell’ospedale di zona e nessuno sa che farne. Oggi di suo figlio, Bright, si prende cura Happiness, una ragazza, anche lei nigeriana, che ha attraversato il deserto insieme alla mamma del bambino. «Mentre stava morendo le ho promesso che mi sarei occupata io di Bright, ma come posso fare?», ci dice Happiness con il bimbo in braccio. «Qui non c’è latte, non ci sono medici, non viene nessuno ad aiutarci». Un’altra donna ci dice di aver perso le tracce di suo marito, arrestato con lei sulle coste di Zawhia. Un’altra racconta di aver viaggiato da sola nel deserto: ricorda la sete feroce, e di aver bevuto la sua pipì per sopravvivere. E ricorda di aver visto, lungo il cammino, scheletri di chi al deserto non è sopravvissuto. Questo è il destino cui sono condannati le centinaia di migliaia di migranti intrappolati in Libia.
In quasi tutti i centri di detenzione libici le organizzazioni umanitarie e i funzionari internazionali delle Nazioni Unite non possono arrivare per ragioni di sicurezza. Non arrivano dottori, non arrivano assistenti. Non arriva nessuno.
In una spiaggia lungo la costa tra Zawhia e Sabratha incontriamo un uomo che chiameremo Khaled: parla volentieri, qui lontano da orecchie indiscrete, ma preferisce non rivelare la sua identità per ragioni di sicurezza. «Tutto ha un prezzo qui in Libia, tutto si paga», dice. «I migranti erano un affare quando i trafficanti dovevano organizzare i gommoni per farli arrivare in Italia e sono un affare anche oggi che devono essere trattenuti qui con la forza. Parliamo di milioni di dollari. Secondo voi i trafficanti libici interrompono le partenze perché il ministero dell’interno italiano blocca le navi umanitarie lungo le coste? I trafficanti interrompono le partenze solo in cambio di soldi». Khaled riferisce poi di un incontro segreto tra alcuni uomini dell’intelligence italiana e i capi delle principali milizie di Zawhia e Sabratha: per la “sicurezza delle coste” le milizie avrebbero chiesto cinque milioni di dollari, e nella trattativa la milizia Anas Dabbashi, che già controlla la sicurezza del compound Mellitah Oil e Gas, avrebbe chiesto un hangar proprio a Mellitah dove basare il proprio quartier generale.
Altre fonti ben informate di Tripoli, riferiscono di numerosi incontri nella parte orientale della capitale libica tra i servizi italiani e le milizie che gestiscono la sicurezza della città, Nawasi e Tajouri. Le milizie avrebbero chiesto di garantire il blocco delle partenze, dietro il pagamento di una quota giornaliera a migrante.
La situazione economica nella Libia “di Serraj” del resto è al collasso. Un dollaro al cambio ufficiale vale un dinaro e mezzo, al mercato nero nove dinari, anche dieci. I libici non possono prelevare più di duecentocinquanta dinari ciascuno, al mese. Poco più di venticinque dollari. Anche le banche sono in mano alle milizie, sono le bande a decidere chi può avvicinarsi ai bancomat. Subito dopo la rivoluzione i nuovi deboli apparati statali avevano cercato di smobilitare e contemporaneamente premiare i combattenti che avevano rovesciato il regime: così anziché dissolversi le milizie hanno conquistato autonomia, potere e i soldi e le armi libiche sono diventate un piatto ricco, cui le bande più potenti hanno attinto indiscriminatamente.
Nella capitale, Tripoli, i gruppi armati si dividono tra chi sostiene e chi si oppone al governo di Sarraj. Tra i primi, le milizie più potenti sono le forze Rada, gruppo salafita di Abdel Rauf Kara, che ha il quartier generale nell’aeroporto di Mitiga, le milizie Nawasi che si occupano della sicurezza del primo ministro e la Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, la più grande nella capitale, guidata da Haitham Tajouri. Questo Tajouri è un signore della guerra, ha interessi economici enormi in città, i libici raccontano che quasi tutte le filiali delle banche della capitale siano controllate dai suoi uomini.
Lo scorso maggio Tripoli è stata teatro di violenti scontri tra milizie rivali per il controllo del mercato nero della valuta. Negli scontri tra le brigate Nawasi, in possesso degli uffici della società Libyana (poste e telecomunicazioni) nella parte ovest della città, e la brigata Ghazewy, presente nella città vecchia è morta una donna e diversi sono stati i feriti.
Le milizie non dominano solo la vita economica del paese: ne determinano anche la vita politica. Lo scorso maggio la brigata Nawasi ha attaccato il ministero degli esteri del governo Sarraj, accusando il ministro Mohamed Taher Sayala di aver rilasciato una dichiarazione troppo amichevole nei confronti del nemico Haftar. Sempre gli uomini della brigata Nawasi meno di un mese fa hanno fatto irruzione nell’ufficio del capo della sicurezza della Guardia Costiera Libica, Tareq Shanboor, accusato di aver criticato le decisioni italiane in Libia.
Shanboor stava lavorando come ogni giorno, quando una decina di uomini armati è entrata nel suo ufficio dicendo: vattene per sempre e senza ribellarti, da oggi l’ufficio sarà gestito sotto la nostra autorità. Hisham - un impiegato di una banca di Tripoli - ci spiega che ha impedito alla figlia maggiore di andare all’università: ha paura che gli uomini delle milizie la rapiscano. Solo a giugno e nella capitale i rapimenti sono stati più di cento, quasi duecento le rapine a mano armata. «Non guardate questa città da lontano, come fosse una cartolina», ci dice Hisham. «Se la guardate da lontano la vita sembra scorrere normalmente, ma qui la sicurezza è un miraggio, viviamo nel terrore, siamo tutti sotto il ricatto delle milizie. Tutti, cittadini e governo. La rivoluzione è stata una bolla, un’illusione. Il prezzo del pane e della frutta è cinque volte quello di pochi mesi fa, la gente non sa più cosa vendere. Ormai tutto è in mano a bande armate».
Questa è la Libia in cui l’Europa e l’Italia cercano di bloccare i migranti. «I trafficanti fermeranno le partenze per un mese, forse due. Hanno chiesto soldi, ne chiederanno ancora. È il prezzo che i vostri paesi pagano per non accogliere migranti», ci dice il nostro accompagnatore Mahmoud, mentre guarda il mare. E a voce bassa aggiunge che al posto di Gheddafi, ora ci sono centinaia di piccoli Gheddafi. Durante il regime del dittatore la vita era come anestetizzata, senza gioia e senza odore. Oggi, invece, nel regime delle milizie, la vita puzza e basta.

il manifesto, 7 settembre 2017

L’articolo 10 della Costituzione prescrive che gli stranieri che non possono esercitare le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» hanno diritto ad essere accolti nel nostro Paese, in quanto «persone» titolari, ai sensi del nostro articolo 2 della Costituzione, di diritti inviolabili a prescindere dalla loro nazionalità o Paese di provenienza. Non è una vaga, utopica aspirazione, ma il cuore del progetto della nostra Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (non solo dei cittadini italiani, nda), sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

È per questo che in Italia esiste un «diritto costituzionalmente garantito» all’asilo: non si può decidere se applicare o meno questa norma, dobbiamo chiederne noi l’attuazione, insieme a quella di tutti i principi che qualificano la nostra democrazia, e che ad oggi restano in gran parte inattuati. Eppure, in queste drammatiche settimane estive, lo Stato italiano – attraverso il suo governo, e segnatamente il suo ministro dell’Interno – non solo non ha attuato questo principio fondamentale ma ha decisivamente scoraggiato le organizzazioni non governative che soccorrevano in mare i migranti, e ha preso accordi con le autorità di Paesi in cui non sono garantite le «libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», affinché i loro cittadini e i migranti che ne attraversino i territori non possano fuggirne: cioè non possano aspirare, come noi tutti, a una vita libera e dignitosa. Siamo di fronte a un grave tradimento della nostra Carta fondamentale e dei Trattati e documenti internazionali che riconoscono e tutelano i diritti delle persone e dei richiedenti asilo. Crediamo che di fronte alle masse che lasciano la propria casa in cerca di diritti, di vita e di futuro la risposta dell’Occidente non possa essere la chiusura e il tradimento dei principi su cui si fondano le nostre democrazie.

Il fenomeno migratorio non si fermerà di fronte al nostro egoismo. Anzi, rischierà di degenerare in uno scontro di civiltà, già abilmente fomentato da chi coltiva la guerra come forma di lucro e dominio sui popoli, a prezzo del sangue dei più deboli e innocenti. Non possiamo, non dobbiamo, essere pedine di questo gioco al massacro. Abbiamo un orizzonte diverso, che guarda al mondo come casa di tutti e alla globalizzazione dei diritti, come fine dell’azione politica internazionale di chi crede davvero nella democrazia e nell’universalità dei diritti fondamentali. Tutti i Paesi più ricchi, a partire dall’Italia, devono garantire non solo l’accoglienza promessa delle Carte, ma impegnarsi in una strategia condivisa a livello sovranazionale che crei e garantisca ovunque le condizioni di eguaglianza e giustizia sociale la cui assenza è la vera e prima causa della grande migrazione in atto. E anche sulla natura e le dimensioni di questo fenomeno la Sinistra ha, innanzi tutto, il dovere di dire la verità: le migrazioni sono processi fisiologici e costanti in un mondo globalizzato, diventano massicce quando le minacce alla vita delle persone diventano intollerabili, quando una parte del mondo vive in condizioni disumane, o non vive affatto, e una piccola parte di privilegiati vive con le risorse di tutti.

Ecco: questo egoismo rischia di trasformarsi in un detonatore. Dobbiamo disinnescarlo. Anche perché sui migranti si sta costruendo l’ennesima menzogna mediatica, che devia l’attenzione dalle emergenze reali della politica, dalle cause reali dei nostri problemi. Insomma: prima si è provato a dire che era colpa della Costituzione. Sappiamo come è finita, il 4 dicembre scorso. Ma ora i mali del Paese, le nostre vite precarie, il taglio orizzontale di diritti e futuro: tutto è colpa dei migranti! Fumo negli occhi di una politica che non sa cambiare e non vuole rimettere al centro le persone, ma spera di «neutralizzarle» mettendo poveri contro poveri, disperati contro disperati. Non ci siamo cascati il 4 dicembre, non ci cascheremo adesso. Anche perché la piccola parte di migranti che sbarca sulle nostre coste rappresenta solo l’1% del flusso migratorio globale. Fra questi, solo una piccola parte aspira a fermarsi in Italia: non sono un’invasione, né un’ondata oceanica. Non rappresentano affatto una minaccia, semmai una grande opportunità: umana, culturale e anche economica.

Il nostro Paese, in drammatica crisi demografica, ha bisogno di nuovi italiani. Le nostre antiche città aspettano nuovi cittadini. E la perfino timida legge sullo ius soli in discussione in Parlamento è davvero il minimo che si possa fare per costruire questa nuova Italia. Ecco: stiamo lavorando a un progetto condiviso che permetta a questo Paese di risollevarsi e ripartire, in cui ci sia lavoro vero per tutti, non elemosine e precarietà per pochi. Chi non si ponga in questa prospettiva, chi non ambisca a creare le condizioni per un «Nuovo Inizio» democratico, sociale ed economico, non ha capito qual è il compito fondamentale della politica che vogliono gli italiani. Ancora una volta: è di questi nodi cruciali che dobbiamo e vogliamo discutere, non della sterile alchimia di sigle e leader.

Continuiamo a credere nella formula che abbiamo proposto al Brancaccio il 18 giugno scorso: ci vuole una sola lista a sinistra del Partito Democratico – un partito la cui involuzione a destra è apparsa, proprio sui temi dell’immigrazione, palese. Crediamo che anche la situazione della Sicilia confermi questa lettura: mentre il Pd guarda a destra, la sinistra cerca l’unità e la forza per proporre alternative radicali allo stato delle cose.

Si apre un autunno cruciale: proseguono le assemblee regionali, si moltiplicano quelle in città di ogni dimensioni, si preparano quelle tematiche fissate per il fine settimana a cavallo tra settembre e ottobre. Il loro formato è quello che abbiamo sperimentato da giugno in poi: aperto a tutti (associazioni, partiti, singoli cittadini) e senza dirigenze, egemonie o portavoce autonominati. Decideremo poi insieme, e democraticamente, in una grande assemblea nazionale che sarà indetta alla fine del lavoro sul programma, il tipo di organizzazione che vorremo darci. Tutto questo è importante: ma è solo un mezzo, uno strumento per metterci in grado di dare il nostro contributo all’attuazione della Costituzione. Il primo traguardo da cui ripartire per costruire un nuovo orizzonte di democrazia partecipata e di cittadini liberi.

«Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana».

il manifesto, 6 settembre 2017 (m.p.r.)

Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni - in questo caso particolarmente rare - il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti. E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole.

Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di «doppia morte». È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni.

Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato - a sua insaputa, per carità - una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per «ragioni geo-strategiche» e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente «il povero ragazzo».
Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire «ragazzo» un giovane uomo di 28 anni? E perché «studente», dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e - ahi lui - grosso modo di sinistra.
E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini.

La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione. Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. «La più affettuosa comprensione» e la «la più doverosa solidarietà», ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco.

La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni. I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche - ecco il punto - perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio.
Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda - non solo da essa, ovviamente - possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale.
«"Aiutiamoli (a crepare) a casa loro": perfetta unità sulla questione profughi e migranti delle tre forze che si contendono il controllo politico del paese, Pd, destra e 5stelle».

guidoviale.it blog, 5 settembre 2017 (p.d.)

Condivido i timori del ministro Minniti per «la tenuta democratica del paese»; è ora di prenderne atto. Solo che a creare questa drammatica situazione hanno contribuito in modo sostanziale lo stesso ministro, la sua politica, il suo partito e il governo di cui fa parte. La tenuta democratica del paese, già messa in forse da un parlamento di nominati, eletto con una legge incostituzionale, che ha legiferato illegalmente per quattro anni, mettendo le mani anche sulla Costituzione, è ormai al tracollo. Perché sulla questione profughi e migranti, su cui si decide il futuro dell’Italia, dell’Europa e del poco che ancora resta della democrazia, le tre forze che si contenderanno il controllo politico del paese- la destra, i 5stelle e il Pd hanno raggiunto una perfetta unità: «aiutiamoli (a crepare) a casa loro»; respingiamoli a ogni costo. Non c’è scelta. Poco importa se le destre lo proclamano con slogan razzisti e anche fascisti che i 5stelle ripetono da pappagalli mentre il Pd fa, ma sempre meno, ipocrita professione di spirito umanitario. In vista delle elezioni, e senza guardare oltre, Minniti vuole dimostrare che quello che destre e 5stelle propongono lui sa realizzarlo. E in parte ci riesce, incurante della catastrofe che sta contribuendo a mettere in moto.

Fermare gli sbarchi pagando e rivestendo con una divisa scafisti e trafficanti fino a ieri indicati come “il nemico”, in combutta con le Ong perché blocchino in mare, riportino a terra o imprigionino nel deserto profughi e migranti non è buona politica. Sappiamo che cosa fanno di quegli esseri umani intrappolati in Libia o ai suoi confini meridionali: le violentano, li fanno schiavi, li affamano, li imprigionano in condizioni igieniche inimmaginabili, li uccidono, li torturano per estorcere ai loro parenti altro denaro, li trattengono in veri Lager – pagati con fondi europei – e prima o dopo li imbarcheranno di nuovo verso l’Europa. O minacceranno di farlo come faceva Gheddafi, o come farà dopo le elezioni tedesche anche Erdogan, per strappare all’Unione europea altro denaro e nuove legittimazioni: a Erdogan ormai viene permesso tutto. Così, dall’Ucraina in mano a una milizia nazista, ai «moderati» che combattono Assad in nome della jihad, dai janjaweed che fermano in Sudan i profughi eritrei alla guardia costiera e ai «sindaci» libici incaricati di bloccare i flussi verso il Mediterraneo, l’Europa si circonda, armandole fino ai denti, di milizie usate come ascari, ma che non conosce, non controlla, e che sono sicura garanzia del mantenimento di un perpetuo stato di guerra in tutte le regioni ai suoi confini, aumentandone degrado e la produzione di nuovi profughi.
Non c’è argine a questa deriva. Le forze politiche italiane, come i governi dell’Unione europea e i partiti che li sostengono, Syriza compresa, hanno rotto la diga della solidarietà, lasciando campo libero a una ferocia covata a lungo sottotraccia, che ora riemerge come razzismo che si sente legittimato dalle politiche dei governi. A queste politiche non c’è per ora alternativa. A contrastarle ci sono solo le migliaia e migliaia di iniziative impegnate in tutta Europa dell’accoglienza, i milioni di individui che ne condividono lo spirito, le moltissime associazioni che cercano di mantener viva la solidarietà. Ma non sono unite da un programma comune e non è chiaro, al di là degli sforzi per non sopprimere in sé e negli altri uno spirito di umanità, che cosa si possa fare contro questa offensiva.
Ma la risposta non può più attendere. Invece di puntare lo sguardo su profughi e migranti, spaventare e spaventarsi per il loro numero – molti meno dei «migranti economici» che diversi paesi europei, Italia compresa, avevano accolto o regolarizzato ogni anno prima del 2008; e soprattutto meno delle nuove leve di cittadini e cittadine che verranno a mancare tra la popolazione europea di qui in poi – bisogna guardare a chi da quegli arrivi si sente minacciato. Se profughi e migranti sono considerati dai governi un peso e non una risorsa da valorizzare non c’è da stupirsi se molti passano alle vie di fatto per liberarsene con le spicce. E se casa e lavoro decenti (e scuola, e assistenza sanitaria, e pensione) sono un miraggio per un numero crescente di europei, la presenza e non solo l’arrivo di poche o tante persone tenute in inattività forzata, spesso in cattività, ed esibite come un carico inaccettabile a chi gli abita accanto non può che moltiplicare e acuire quell’ostilità di cui governi nazionali e locali sono i primi a far mostra. Non c’è argine agli arrivi o imposizione di rimpatri che possa invertire questa situazione.
Ma le case per tutti ci sono, solo che sono in gran parte vuote. Il lavoro per tutti, cittadini, profughi e migranti, c’è: è quello necessario alla riconversione energetica a cui tutti i governi si sono impegnati a Parigi e a cui nessuno ha ancora messo mano. Il denaro per finanziarla c’è: Draghi continua a tirare fuori dal cappello centinaia di miliardi che finiscono in tasca alle banche. Quello che manca è la politica per mettere insieme queste tre cose. Invece ci si è rivolti all’Europa per farle condividere una militarizzazione di stampo coloniale di confini sempre più ampi e lontani. Ma il «piano Marshall» da esigere, e rispetto a cui mobilitare non tanto governi e partiti, quanto la vera opposizione sociale ai programmi di contenimento e di respingimento, è un grande investimento, capillare e articolato, sulla riconversione ecologica.
Non siamo né finiremo «sommersi». Molti dei profughi arrivati negli ultimi anni e sicuramente quelli provenienti da zone di guerra o di conflitto armato torneranno nei loro paesi se e appena sarà possibile. E se altri ne arriveranno, quello che occorre sono politiche di sostegno alle loro esigenze immediate a partire dai corridoi di ingresso e di promozione della loro capacità di organizzarsi: per progettare, anche grazie ai legami che hanno con le loro comunità di origine, delle alternative pratiche alla rapina dei loro territori e ai conflitti che li hanno costretti a fuggire. È con loro che vanno fatti i progetti di cooperazione e anche i negoziati per restaurare la pace, dando spazio a queste forze e tenendo il più possibile lontani dai loro paesi multinazionali e mercanti di armi. Invece di deportazioni mascherate da rimpatri con cui i governi europei cercano di tacitare quel rancore degli elettori che essi stessi alimentano si innesterebbe così una libera circolazione delle persone da e verso i loro paesi di origine; a beneficio di tutti.
«Nessuno può aspettarsi troppo da una strategia focalizzata sul contenimento del fenomeno migratorio. Soprattutto se non si costituisce un’alternativa legale credibile per l’arrivo dei migranti nell’UE».

la Repubblica, 4 settembre 2017

Il mare non ammette frontiere. Come non le ammettono i motivi che spingono i migranti a partire. Queste due massime, che nessun Paese soggetto ai flussi migratori dovrebbe dimenticare, tornano in primo piano in Spagna. Per anni il governo di Mariano Rajoy si è gloriato della propria attività diplomatica in Africa, che avrebbe vaccinato il Paese contro l’epidemia migratoria di cui soffre la vicina Italia. Intanto però le cose cominciano a cambiare. Le cifre dell’esodo verso le coste italiane calano, mentre gli arrivi in Spagna sono quadruplicati. È quindi urgente riformare il discorso politico. E convincersi una volta per tutte che continuando a gestire il problema migratorio per compartimenti stagni non si fa altro che aggravare il problema.

La Spagna avrebbe avuto un’occasione d’oro per dar prova di lungimiranza a luglio, quando Roma chiese la collaborazione di Parigi e Madrid per gli sbarchi che mettevano a dura prova le autorità italiane. Ma l’esecutivo spagnolo e quello francese risposero con un no. I motivi erano due: le supposte carenze diplomatiche di Roma, che avrebbe trascurato il dialogo coi Paesi di provenienza dei migranti, e il rischio del cosiddetto “effetto chiamata”: gli spagnoli sostenevano che una ripartizione dei migranti tra i Paesi europei sarebbe stata interpretata dalle mafie come un messaggio, facendo crescere la pressione.

Questi argomenti risultano poco convincenti. Più di dieci anni fa la Spagna affrontò da sola una crisi delle carrette del mare. E la risolse negoziando coi Paesi d’origine dei migranti che sbarcavano sulle sue coste. Ciò che allora venne fatto in maniera poco onorevole (il governo socialista di Zapatero ricorse ad accordi basati sul pagamento di denaro per far cessare il transito verso la Spagna) viene presentato oggi a Bruxelles come un successo. Ma c’è una lezione da trarre da quell’esperienza: mai più un Paese deve essere lasciato solo a gestire una sfida comune. I migranti che a rischio della vita attraversano il Mediterraneo (ma anche l’Atlantico, nel caso della Spagna) non lo fanno per stabilirsi a Tarifa, a Lesbo o a Lampedusa. Il loro obiettivo, la loro terra promessa è l’Europa che, seppure con gradazioni diverse, può offrire lavoro, scuole, servizi sanitari in condizioni infinitamente migliori. È questo il vero “effetto chiamata”, che nessun individuo di buon senso può credere di poter cancellare.

Secondo le cifre fornite da Frontex, quest’estate il numero degli arrivi sulle coste spagnole ha toccato livelli record dal 2009: tra gennaio e luglio sono stati registrati più di 11mila immigrati - un dato che ha già superato quello di tutto il 2016. Quest’impennata coincide con una flessione degli arrivi in Italia attraverso la Libia, il cui governo ha incominciato a cedere alle pressioni europee per un maggior controllo delle sue coste. Solo il tempo dirà se questi dati costituiscono un picco o se, al contrario, inaugurano una tendenza che infliggerebbe più d’un mal di testa alle autorità spagnole.
In ogni caso, la versione di un supposto attivismo di Madrid a fronte dell’abulia di Roma fa acqua da tutte le parti. L’Italia, inventrice della diplomazia moderna, ha creduto per anni di tenere la situazione sotto controllo grazie a una serie di accordi con la Libia. Mentre la Spagna, al di là degli aiuti ad alcuni Paesi d’origine dei migranti, si è affidata quasi interamente alla cooperazione col Marocco. Le rivolte del Rif e le tensioni alla barriera di Ceuta sono allarmanti, e mostrano un orizzonte tutt’altro che sereno. Oltre tutto, il patto col Marocco sfiora i limiti della legalità europea. Secondo le notizie diramate in agosto dall’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, ci sono continue denunce di respingimenti al confine tra il Marocco e le città autonome di Ceuta e Melilla. E per ogni migrante che raggiunge le coste spagnole, altri due vengono bloccati dalle autorità di Rabat. Senza il discutibile sostegno del Marocco, la Spagna sarebbe travolta, come lo è stata l’Italia.
Nessuno - né a Madrid né a Bruxelles - può aspettarsi troppo da una strategia focalizzata sul contenimento del fenomeno migratorio. Soprattutto se non si costituisce un’alternativa legale credibile per l’arrivo dei migranti nell’Unione Europea. È giunto il momento di cambiare prospettiva.

L’autrice è corrispondente del País a Bruxelles © LENA, Leading European Newspaper Alliance Traduzione di Elisabetta Horvat

Prosegue, a tutti i livelli, l'inumana e antistorica discriminazione dei migranti "economici" dagli altri, come se chi fugge dalla miseria e dalla carestia provocata dagli stessi attori delle guerre e delle persecuzioni non appartenesse alla stessa umanità.

il manifesto, 2 settembre 2017
«Ero straniero. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare»

È disumana, totalitaria e persino autolesionista la distinzione, fatta propria da quasi tutte le forze politiche italiane – da Salvini a Renzi, passando per i Cinque stelle – e recentemente anche dalla totalità degli stati dell’Unione europea, tra i rifugiati politici a cui sono dovute l’accoglienza e la protezione internazionale e i migranti economici: i «cattivi» che, invece, abbiamo la facoltà di respingere con tutti i mezzi, anche militari, anche illeciti, e ai quali non riconosciamo il diritto universale di fuggire da una vita di stenti e aspirare a un’esistenza migliore. Una logica alla quale come Radicali ci opponiamo con forza.

Da sempre, e non solo quando era terra di milioni di migranti, l’Italia ha difeso la libertà delle persone di attraversare i confini tra gli stati – di migrare per salvarsi dalla guerra, dalla fame, dalla povertà estrema – come diritto inalienabile, prima del diritto ormai affermato di libertà di movimento di merci, servizi, capitali.

Del resto la ricca Europa, con mezzo miliardo di abitanti, non solo ha bisogno – e ne avrà sempre di più negli anni a venire – di stranieri che vengano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri cantieri, nelle nostre famiglie, ma sarebbe in grado di gestire agevolmente, solo se lo volessero tutti gli Stati membri, anche flussi straordinari di profughi causati da carestie o guerre.

Invece proprio su iniziativa del nostro Paese e sulla base di un intollerabile alibi – «aiutiamoli a casa loro», alcuni Stati membri dell’Ue con l’avallo dell’Alto Rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, hanno deciso per la seconda volta e di nuovo senza nessuno dei passaggi formali necessari, di appaltare ad altri la soluzione, prevalentemente con mezzi militari, del problema. Senza curarsi delle inaudite violenze a cui saranno sottoposti i migranti e di cui saremo complici.

L’Italia ha stipulato patti e ha negoziato accordi economici per il controllo della frontiera esterna dell’Unione, se possibile, ancora peggiori di quelli con il governo turco, poiché stretti direttamente con le tribù libiche – cioè i «sindaci» ricevuti dal ministro Marco Minniti al Viminale – che probabilmente sono le stesse che hanno gestito e si sono contese il lucroso traffico dei migranti e i lager nel deserto nei quali vengono derubati, torturati, uccisi i profughi. Non si spiegherebbe altrimenti l’improvvisa interruzione degli sbarchi verso le nostre coste, che non può essere dovuta solo all’attivismo delle motovedette italiane donate ai militari libici.

Di fronte a questo grave sovvertimento dei valori in atto, come Radicali Italiani ribadiamo l’urgenza di sconfiggere la grande bugia sull’immigrazione. Esistono strumenti efficaci e rispettosi del diritto internazionale e della nostra umanità per gestire le grandi migrazioni, a partire dalle misure della nostra legge di iniziativa popolare «Ero straniero – L’umanità che fa bene» per superare la Bossi-Fini.

Una legge che, mentre i nostri governi sono impegnati ad alzare muri nel Mediterraneo e ai confini dell’Europa, chiede invece di aprire varchi: canali legali e sicuri di ingresso in Italia per i migranti per motivi di lavoro, di studio o di protezione internazionale e la loro accoglienza e inclusione nelle nostre società. Alla base nessuna odiosa distinzione tra chi fugge da guerre e persecuzioni e chi fugge dalla fame e dalla povertà, ma diritti e doveri chiari per tutti.

La stessa legge offre anche la soluzione al problema dei 500 mila migranti irregolari presenti in Italia introducendo un permesso di soggiorno temporaneo, condizionato all’integrazione attraverso il lavoro. Come ha lucidamente sottolineato il capo della polizia Gabrielli, «ci sono etnie che non otterranno mai lo status di rifugiati e sono destinati a restare illegalmente: per impedirlo, se non si riesce a ottenere i rimpatri, non resta che l’integrazione, che peraltro è un’opportunità da utilizzare per salvaguardarci dalla criminalità e dal terrorismo».

Nei prossimi giorni come Radicali Italiani insieme a Emma Bonino, all’ampia «coalizione» di organizzazioni che promuovono con noi la campagna «Ero straniero» e con il sostegno di centinaia di sindaci che hanno aderito, rilanceremo con nuove iniziative la raccolta firme su questa legge popolare: la sola proposta oggi in campo per rispondere al ricatto della paura con la fermezza della ragione, della legalità e dell’umanità.

L'autore è segretario di Radicali Italiani

«Alleanza “tattica”. I talebani sono agli antipodi rispetto allo Stato Islamico su fini e metodi, ma si è creato un interesse obiettivo di venire a patti».

il Fatto Quotidiano, 1°settembre 2017 (p.d.)

31.7. Attacco a Kabul a un compound della polizia afghana vicino all’ambasciata irachena (rivendicazione Isis). 25.8. Attacco alla moschea sciita di Imam Zaman. Venti morti e 35 feriti (attacco Isis). 29.8. Attacco alla filiale della Kabul Bank dove soldati e poliziotti stavano ritirando il salario. Cinque morti e nove feriti. Rivendicato dai talebani. Kabul brucia. Per i talebani e i jihadisti concentrare i propri sforzi sulla capitale afghana, oltre che un importante valore simbolico ne ha uno, ancor più importante, strategico. Infatti tutte le volte che i talebani sono riusciti a riconquistare una città di piccole o medie dimensioni sono stati spazzati via dall’aviazione americana che bombarda a chi cojo cojo, come avvenne a Kunduz il 3 ottobre 2015 quando riuscirono a centrare, con precisione chirurgica, anche un ospedale di Medici senza frontiere, che da quelle parti, e non sul Mediterraneo, ha una funzione insostituibile.

A Kabul gli americani e le forze della Nato non possono comportarsi con la stessa criminale disinvoltura, non perché colpirebbero sicuramente dei civili (dei civili afghani non gli potrebbe fregar di meno, in sedici anni di guerra ne sono stati uccisi dai 200 ai 300 mila senza che nemmeno Amnesty International osasse emettere un solo lamento) ma sicuramente dei soldati “regolari”, poliziotti, spie, infiltrati, Ong, collaborazionisti di ogni genere, imprenditori “amici”. Devono quindi agire con più cautela, con uomini sul terreno.

Si è detto che sarebbe in corso un’alleanza fra talebani e gli uomini di Al-Baghdadi. Un’alleanza in senso stretto non è possibile, allo stato. Perché diversi sono gli obiettivi dei due movimenti. I talebani vogliono ridare all’Afghanistan la sua indipendenza. La loro è una guerra ‘laica’. Quella jihadista è una guerra religiosa per piegare al verbo sunnita, in salsa wahabita, il mondo intero. Questo almeno in superficie, perché i moti più profondi del jihadismo sono sociali, come ho scritto più volte e come adesso è stato ammesso anche dal Procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni: “L’islamizzazione eversiva di ogni disagio, sia esso sociale, etnico che esistenziale sembra un dato ormai accertato idoneo a collocare in secondo piano persino la stessa conversione religiosa”.

A obiettivi diversi corrispondono metodi diversi. I talebani hanno sempre mirato a colpire obiettivi militari e politici, risparmiando il più possibile i civili, perché non hanno alcun interesse a inimicarsi la popolazione afghana sul cui appoggio si sostiene, da sedici anni, la loro resistenza. I jihadisti non hanno nessuna remora a colpire la popolazione, in particolare quella sciita (numerosi sono stati in Afghanistan gli attentati alle moschee sciite durante le funzioni, con centinaia di morti). Faccio notare che nei sei anni e mezzo di governo talebano la consistente minoranza sciita non è mai stata toccata. Nell’Afghanistan del Mullah Omar si poteva essere sunniti, sciiti, hazara e anche laici (Gino Strada era lì con i suoi uomini, e donne, di Emergency). L’importante era che tutti rispettassero la legge. Punto e basta.

Qualcosa però è cambiato nello scenario afghano. I Talebani, pur rimanendo militarmente, socialmente, culturalmente egemoni in tutta la vastissima area rurale del Paese (mentre la presenza dell’Isis, quasi esclusivamente militare, è assai più ridotta) si sono indeboliti. Non è stato facile per loro fronteggiare contemporaneamente gli occupanti occidentali e gli invasori dell’Isis. Inoltre la morte del Mullah Omar è stato un colpo durissimo per il movimento talebano. Omar con l’enorme prestigio che si era conquistato combattendo contro i sovietici, combattendo i “signori della guerra” che avevano fatto dell’Afghanistan terra di assassinii, di stupri, di taglieggiamenti e di ogni sorta di abuso sulla povera gente, riportando la pace e l’ordine nel Paese, governandolo saggiamente, senza inutili ferocie che gli erano estranee e guidando poi per quattordici anni la resistenza agli occupanti occidentali, riusciva a tenere compatto il movimento e coerente con i suoi obiettivi. I successori non sono alla stessa altezza.

Inoltre gli americani, con grande intelligenza, sono riusciti a far fuori, col solito drone teleguidato, il suo “numero due”, Mansour, che, se non aveva lo stesso prestigio di Omar, appartenendo alla “vecchia guardia” ne condivideva le idee e le linee politiche e militari, che possiamo definire, con tranquilla coscienza, moderate. Quindi molti giovani talebani, che non hanno fatto la resistenza, vittoriosa, agli invasori sovietici, la guerra, altrettanto vittoriosa, contro i “signori della guerra”, che non conoscono la rigida etica talebana, così puntigliosamente precisata dal “libretto azzurro” del 2009 del Mullah Omar, più che dalla moderazione della dirigenza talebana sono attratti dalla ferocia senza limiti, ma efficace, dell’Isis di cui vanno a ingrossare le fila. Inoltre molti foreign fighters che hanno perso la partita in Iraq stanno convergendo in Pakistan e in Afghanistan.
C’è quindi un interesse obiettivo dei Talebani di venire a patti con l’Isis. Per il momento sembra che abbiano smesso di combattersi fra di loro, finendo di fare il gioco dei loro nemici comuni, anche se per motivi diversi: gli occidentali. Ma qualche alleanza “tattica” è probabilmente già in atto. L’ultimo attentato alla Kabul Bank è stato rivendicato dai talebani ma ha anche modalità Isis (il kamikaze, l’autobomba, il fatto che a ritirare i salari c’erano sì soldati, poliziotti, collaborazionisti, ma anche molti civili afghani). Un’alleanza strategica è possibile, ma solo sulle basi poste dal nuovo leader talebano, che ha preso il posto di Mansour, Maulvi Haibatullah Akhundzada: “Voi ci aiutate a combattere gli occupanti occidentali, ma con i nostri metodi non con i vostri. Niente obiettivi civili”, la sua linea. Che ha il seguito seguente: “Una volta cacciati gli occidentali, noi vi permettiamo di attraversare l’Afghanistan e di entrare in Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan che sono fra i vostri obbiettivi” (Progetto Khorasan, con esclusione ovviamente dell’Afghanistan). Vedremo. Speriamo.
Un' ulteriore degenerazione della cooperazione internazionale ormai destinata alla gestione dei flussi migratori. Sparita anche la retorica della sradicazione della povertà e della sostenibilità. L'Occidente si rivela per quello che è: rapace.

il manifesto 31 agosto 2017 (i.b.)

Gli accordi di Parigi sulla gestione dei flussi migratori nei Paesi del nord Africa sancisce una nuova cornice geopolitica. Nell’ambito del lungo periodo della Guerra fredda, in cui gli Stati africani ottennero o si conquistarono l’indipendenza dal giogo coloniale, nacque la cosiddetta Cooperazione allo sviluppo, uno strumento geopolitico sostanzialmente volto a coprire, con la retorica sviluppista, la necessità dei due blocchi di spartirsi le risorse africane, e non solo, imponendo, al posto delle tanto decantate democrazie, i «loro figli di puttana», secondo la celebre definizione che Roosevelt diede del dittatore nicaraguense Somoza. Un caso tra tutti, il più emblematico perché poi riprodotto serialmente con la copertura ed il sostegno sia dell’Est sia dell’Ovest, è quello del Congo, in cui l’assassinio del giovane ed indipendentista Primo ministro Lumumba segnò l’avvento della lunga e sanguinaria cleptocrazia di Mobutu, inaugurando i termini reali del paradigma di «sviluppo» che si voleva imporre.

Eppure, in quel contesto, proprio per affermare la supremazia del modello occidentale contro quello del socialismo reale sovietico, e viceversa, si arrivò ad investire nel sostegno alle popolazioni africane sino allo 0,5% del Pil, con risultati certo deludenti dati gli obiettivi chiaramente neocoloniali, ma anche con la creazione ed il sostegno, in special modo da parte delle Ong di sviluppo, allora ci si definiva così, di una società civile africana consapevole del proprio ruolo nel Continente e nel mondo. Basti ricordare l’altezza di leader come Kenyatta, Nyerere, Sankarà, e dei dibattiti che allora si confrontavano sulle loro idee, come pure analizzare le cifre, irrisorie, degli spostamenti di popolazione africana nei decenni dagli anni Sessanta agli Ottanta. Poi, con il crollo del muro di Berlino, l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo venne meno perché il nemico sovietico era stato sconfitto e non c’era più bisogno di convincere ma semplicemente di vincere.
Si entra così nella fase in cui nasce il WTO contro l’Onu, ed il libero commercio mondiale diviene il nuovo paradigma universale. Le conseguenze delle disparità tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, cominciano ad acuirsi ed i flussi di popolazioni ad aumentare. Si arriva poi ai giorni nostri in cui il bioliberismo, cioè la biopolitica come forma costitutiva del liberismo, dopo aver normalizzato i movimenti sociali e messo in crisi le esperienze alternative latino americane, cerca di dare la spallata finale alle idee socialiste acuendo una divisione internazionale del lavoro di enormi proporzioni. È questo che sta condannando l’Africa, non a caso il continente con maggiori diseguaglianze e assenza di Diritti umani, ad essere sempre più un fornitore netto di materie prime strategiche, dal coltan al petrolio, dagli esseri umani al legno. Qui giocano oramai indisturbati, al riparo da movimenti sociali di una qualche forza, gli Usa, la Cina, quel che resta dell’Europa e le elites locali.

Ecco allora che a Parigi, Francia, Italia, Germania, cercano di riprendersi una fetta di influenza imponendo politiche para-coloniali e paramilitari a governi inesistenti come quello libico, o lasciando indisturbati quelli «amici» che non hanno nessuna intenzione di rispettare i Diritti umani, ma solo di assicurarsi il mantenimento di quel potere che hanno conquistato a suon di repressone e mazzette occidentali. Il solo evidenziare che gli accordi di Parigi siano stati in primis gestiti dai ministri degli Interni e che la cooperazione allo sviluppo, o quello che ne rimane, sia una componente chiaramente accessoria e residuale, inaugura una fase in cui gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, approvati all’unanimità dalle Nazioni Unite nell’ormai lontano 2015, e che prevedevano l’impegno dello 0,7% del Pil a sostegno di target quali l’eradicazione della povertà, il sostegno ai Diritti umani, la parità di genere, l’accesso all’acqua per tutti, alla salute e all’istruzione in un quadro globale di rispetto dell’ambiente, non vengono neppure nominati. Una regressione culturale e politica grave dunque, in cui gli interessi di una parte, quella già ricca della popolazione europea ma anche africana, vengono fatti prevalere su quella, maggioritaria, destinata a restare fuori dal supermercato globale o, alla meglio, ad entrarci solo come merce.

Siamo in realtà in una lunga campagna elettorale europea in cui Stati e governi in difficoltà crescente sperano di riacquistare crediti imponendo muri sempre più distanti, affinché i problemi legati alla migrazione, all’integrazione, ai cambiamenti culturali e climatici, all’esclusione sciale, restino fuori dalla percezione dell’opinione pubblica o vengano attribuiti all’invasione dei migranti. Eppure, in queste giornate calde, devastate da incendi e da scarsità di acqua, dovrebbe essere chiaro che tutto è collegato e che soprattutto, respingendo i profughi economici, oltre a quelli politici, non si fa che mettere la cenere sotto un tappeto oramai logoro e sporco, sporco come le coscienza dei leader che si stringono le mani creando così ponti di interessi che sanno essere in contrasto anche tra loro, perché così facendo si brucia e consuma, oltre all’ambiente, un’altra risorsa cui non si può rinunciare: la solidarietà umana.
* L’autore è Presidente Terre des Hommes
Trasformiamo in lager buona parte del continente africano, finanziamo milizie mafiose, reprimiamo i migranti e trasformarli in carne viva da vendere. Come non definire colonial-criminale questa politica, in cui si spende Marco Minniti? Articoli di Domenico Romano, Tommaso Di Francesco e un'intervista ad Alex Zanotelli.

il manifesto, 31 agosto 2017

«ACCORDO TRA L’ITALIA E LE MILIZIE
PER FERMARE I MIGRANTI IN LIBIA»
di Domenico Romano

«Patto criminale. L’agenzia Ap: “I servizi italiani trattarono con i trafficanti. Poi lo stop alle partenze”»
Dietro la forte diminuzione di sbarchi nel nostro Paese potrebbe esserci un accordo siglato dal governo italiano direttamente con due milizie libiche coinvolte nel l traffico di esseri umani. A rivelarlo è una lunga e dettagliata inchiesta dell’agenzia americana Associated press che cita numerose testimonianze, tra le quali anche quella di un portavoce di una delle due milizie.

«Non c’è nessun accordo tra il governo italiano e i trafficanti», ha smentito ieri una nota della Farnesina, mentre da Bruxelles una portavoce dell’esecutivo europeo ha rifiutato di commentare le notizie in arrivo dalla Libia: «Suggerisco di chiedere alle autorità italiane», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti. «Quando si tratta di fondi europei – ha poi sottolineato la portavoce -, sono soggetti a controlli molto stretti, con destinazione molto chiara. Noi continuiamo a seguire le regole, come facciamo sempre».

La scorsa settimana era stata un’altra agenzia di stampa, la Reuters, a riferire di una milizia denominata «Brigata 48» che a Sabrata impedisce ai barconi carichi di migranti di prendere il mare. Sabrata è ormai da tempo uno dei principali punti di imbarco per i disperati che dalla Libia tentano di raggiungere l’Italia. Secondo la Reuters la milizia, formata da «agenti, militari e civili», in cambio del suo lavoro riceverebbe finanziamenti direttamente dal governo di Tripoli guidato dal premier Fayez al Serraj (nella foto con Minniti e Gentiloni).

Notizie che adesso troverebbero conferma nell’inchiesta condotta in Libia dall’Ap. Due, secondo l’agenzia americana, le milizie coinvolte: oltre alla già citata «Brigata 48» anche un’altra denominata «Al Ammu», il cui nome ufficiale sarebbe «Brigata del martire Anas al-Dabashi». Quest’ultima dal 2015 si occuperebbe della sorveglianza dell’impianto petrolifero di Melitah che l’Eni gestisce insieme alla National oil corporation (Noc) libica. Entrambe le milizie avrebbero base a Sabrata e sarebbero guidate da due fratelli appartenenti al clan dei Dabbashi che controlla la città.

L’Ap ricorda come nello scorso mese di luglio gli arrivi lungo le coste italiane siano notevolmente diminuiti rispetto all’anno passato, tendenza confermata ad agosto con appena 2.936 sbarchi rispetto ai 21.294 del 2016. «Una diminuzione dell’86%», spiega l’agenzia, che attribuisce la flessione in parte alle condizioni del mare e all’attività della Guardia costiera libica ma, soprattutto, «all’accordo con le due più potenti milizie della Libia occidentale».

A sostegno delle sue affermazioni l’agenzia cita almeno cinque funzionari della sicurezza e attivisti di Sabrata che confermano il coinvolgimento delle milizie nel traffico di uomini. Un funzionario arriva a descrivere i fratelli Dabashi come «i re del traffico» di esseri umani a Sabrata. «Nel suo ultimo rapporto di giugno – scrive inoltre l’Ap – le Nazioni unite hanno indicato la milizia al Ammu come il principale agevolatore del traffico di esseri umani».

Secondo quanto affermato da Bashir Ibrahim, definito dall’Ap come il portavoce di al-Ammu, due mesi fa le milizie avrebbero raggiunto un accordo «verbale» con il governo italiano per fermare le partenze dei migranti e da allora avrebbero impedito la partenza delle imbarcazioni imponendo anche alle altre organizzazioni criminali di interrompere il traffico. «Come contropartita ricevono attrezzature, barche e stipendi», ha spiegato Ibrahim, secondo il quale in questo momento sarebbe i atto «una tregua» destinata a durare finché durano i sostegni alle milizie. «L’integrazione ufficiale delle due milizie tra le forze di sicurezza di Serraj – scrive l’Ap – permetterebbe all’Italia di lavorare direttamente con loro visto che non sarebbero considerate come trafficanti ma parte del governo riconosciuto».

Secondo alcuni attivisti di Sabrata intervistati dall’Ap l’Italia avrebbe gestito l’accordo saltando il governo Serraj e inviando agenti dei servizi in Libia a trattare direttamente con i capi delle milizie. «I trafficanti di ieri sono la forza anti-traffico di oggi», ha detto un poliziotto che ha preferito mantenere l’anonimato. «Quando la luna di miele tra i trafficanti e gli italiani finirà ci troveremo in una situazione pericolosa» ha aggiunto il funzionario spiegando come le forze regolari non siano sufficientemente armate per affrontare le milizie. «Un portavoce del governo italiano- conclude l’Ap – ha detto che l’Italia non commenta notizie che riguardano i servizi segreti»


ZANOTELLI: «PER RAZZISMO E LINEA MINNITI
SAREMO GIUDICATI DALLA STORIA»


Rachele Gonnelli intervista Alex Zanotelli

«Intervista a padre Alex Zanotelli. Il missionario: Le ong colpite per presunte collusioni con i trafficanti con cui ora è il governo a stringere patti L’accordo per bloccare chi fugge da guerra e torture in Libia è criminale»

«Un giorno diranno di noi e di ciò che stiamo facendo sui migranti ciò che noi diciamo sui nazisti e sulla Shoah». Padre Alex Zanotelli si è svegliato male ieri e ha iniziato così la giornata, con una sorta di scomunica, se non fosse che è un missionario e non un papa. «Sì, sto male – ammette come un fiume in piena – sono arrabbiatissimo, mi fa star male ciò che sento, specialmente questa guerra contro le ong perché, si diceva, facevano accordi con i trafficanti e ora invece è il governo a fare accordi con i trafficanti. Si resta a bocca aperta, sono esterrefatto, bisogna reagire, meno male che c’è papa Francesco ma non basta, chiedo a tutti i missionari e i sacerdoti di schierarsi, di fare di più».

I paesi forti dell’Europa hanno approvato la linea italiana di fermare i migranti in Libia e prima ancora in Ciad e Niger. Cosa prevede che succederà?

«È dall’anno scorso che, Renzi prima, con quello che venne chiamato l’Africa compact, e Gentiloni poi, il governo italiano cerca di copiare l’accordo con Erdogan per sigillare anche la rotta africana come già quella balcanica. È un atto criminale su cui un giorno verremo giudicati dal tribunale della Storia. Anche il caso Regeni è connesso con questa politica di esternalizzazione delle frontiere, come la chiama Renzi».

Come c’entra il caso Regeni con l’accordo con la Libia del premier Serraj?

«C’entra perché quando si parla di Libia si deve ricordare che lì non c’è uno Stato sovrano, ma una situazione caotica, di guerra e violenze, scatenata tra l’altro proprio dall’intervento militare di Francia e Italia in quella guerra assurda del 2011 contro Gheddafi. Ora, vista l’estrema debolezza del premier di Tripoli Serraj, è chiaro che bisogna tener buono il generale Haftar, perché non si sa mai con chi fare accordi, chi prevarrà, quindi visti i legami di Haftar con l’Egitto di al Sisi si manda l’ambasciatore al Cairo. Anche Regeni fa parte del grande gioco dell’Europa in Africa. Questo accordo con la Libia è peggiore di quello con Erdogan, che pure è un dittatore, perché in Libia ci sono solo milizie che si combattono e queste milizie possono essere benissimo imbrigliate con la mafia o la camorra. C’è un problema di legalità enorme».

La base legale è ancora l’accordo sulla detenzione dei migranti fatto da Berlusconi con Gheddafi.

«Sì, è un misto di ironia e ferocia quasi machiavellico. Il problema è che sappiamo bene cosa succede a chi resta bloccato in questa Libia. Tutte le testimonianze parlano di stupri, torture, schiavitù. E in ogni caso la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra sul rispetto dei diritti umani. Perciò siamo alla criminalità pubblica, istituzionale».

Paolo Mieli pur riconoscendo che si utilizzano personaggi equivoci delle milizie di Sabratha e tra i capi tribù spacciati per sindaci del Fezzan, definisce provvidenziale la linea Minniti di bloccare i migranti in Libia e a sud della Libia.

«Si vuole utilizzare soprattutto il Ciad, che tra i due paesi del Sahel interessati è quello più forte militarmente, per bloccare i migranti nel deserto prima del loro arrivo in Libia. Non ce la faranno, sfonderanno altrove. Magari riusciranno a rallentarli un po’ e così vinceranno le elezioni ma questo è quanto. Già adesso sono aumentati gli arrivi in Spagna. Si apriranno altre rotte, è ovvio. Non si può fermare chi fugge da guerre e situazioni terribili e terrificanti. E hanno diritto a scappare, mentre l’Europa, cioè noi abbiamo il dovere, in base a tutte le convenzioni dell’Onu, di accoglierli».

Minniti spiega di essere motivato a salvaguardare la tenuta democratica del Paese.

«Già i suoi decreti mi facevano star male poi questa affermazione…sono rimasto a bocca aperta, non so chi pensi di essere. Ma posso capire la real politik del governo, mi fa più male il silenzio della chiesa di base. Se non è la coscienza critica non so a cosa serva, fortuna che c’è papa Francesco ma non basta ed è la prima volta che lo sprone viene dall’alto. Mentre l’odio è scatenato, il razzismo sta crescendo, ci inonda, indotto da molti fattori ma soprattutto dal fatto che non vogliamo accettare che il nostro benessere, il nostro stile di vita, per cui il 10% del mondo consuma il 90% delle risorse, non può più continuare. E noi andavamo bene con le adozioni dei negretti a distanza, ma quando l’adozione è a vicinanza non va più bene, disturba».

LO STILE COLONIALE DI MINNITI
di Tommaso Di Francesco

Che arriva dal patto di Parigi di quattro Paesi decisivi per i destini dell’Ue? Niente di concreto e niente di vero. Solo uno stile coloniale, confermato dalle ultime dichiarazioni di Minniti: «Se non avessimo fatto questo in Libia c’era da temere per la tenuta democratica del Paese». Smentito ieri clamorosamente dal ministro della giustizia Orlando. Quindi trasformiamo in lager buona parte del continente africano «per la democrazia»? In realtà finanziando milizie mafiose, come rivela un veridico reportage dell’aurorevole Ap, per reprimere i migranti. Come non definire colonial-criminale questo lessico e questi intenti?

Da Parigi dunque solo l’evidenza di una pervicace quanto elettorale volontà di dimostrare ad ogni costo alle rispettive opinioni pubbliche il comune intento a contenere, il più possibile lontano dalla coscienza europea ed occidentale, il fenomeno epocale delle migrazioni, quelle dei rifugiati da guerre e persecuzioni e quelle da miseria.

E nonostante sia eguale questa condizione, invece con infinita perfidia si è ribadito a Parigi per bocca di Angela Merkel la nefasta distinzione che relega i cosiddetti «migranti economici» in un limbo di morte.

Perché niente di concreto? Lo ha ribadito anche la rappresentante della politica estera Ue Mogherini: non ci sarà alcuna promessa di piano Marshall per l’Africa «già spendiamo – ha spiegato – 20 miliardi di euro, in aiuto allo sviluppo, alla cooperazione, in partenariati commerciali…». Per un continente ricchissimo come l’Africa, nel quale siamo impegnati direttamente e indirettamente con il commercio di armi in tante guerre, e dal quale ogni giorno rapiniamo risorse petrolifere, minerarie e terre, per affari che rimpinguano il nostro interscambio commerciale e i bilanci delle multinazionali, lo scambio ineguale che proponiamo è «addirittura» di 20 miliardi di euro all’anno più varie centinaia di milioni per le operazioni di contenimento vere e proprie.

Tutti finanziamenti che finiscono per la maggior parte nelle mani predatorie delle leadership locali corrotte (anche da noi). Una somma – con le chiacchiere sui «limiti di Dublino», e sulla presunta «perfezione» del ruolo dell’Italia» – che, com’è chiaro, non può essere sufficiente allo sforzo che si annuncia. Che intanto propone centri di identificazione in Africa, con tanto di coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Oim.

Ma che fine farà subito quel milione di profughi che in questo momento è rimasta intrappolata in territorio libico? Dice il governo Minniti-Gentiloni che ci penseranno i «sindaci» delle città costiere libiche, la guardia costiera libica e forze militari che la Francia metterà a disposizione in Niger e Ciad (paesi le cui economie sono nelle mani di Parigi e si rifletta sull’assenza-presenza del Mali dove è in corso un intervento militare francese).

Per la conoscenza che abbiamo della Libia e sulla base di veridici reportage, prima della Reuters e ieri dell’Ap – che preoccupano la stessa Ue per i quali il governo italiano si trincera dietro un «non commentiamo le operazioni dei Servizi» – vale la pena ripetere che le città libiche, della costa e non, altro non sono che potentati e clan locali spesso legati ad una storia di jihadismo estremo. E che la cosiddetta guardia costiera spesso cambia casacca e si trasforma nella milizia di questi potentati. Che, come a Sabrhata, spesso si spartiscono anche il lucroso traffico di migranti, controllando relativi e spaventosi centri di detenzione dove non entrano i diritti umani.

Ora tutte queste forze di controllo sono impegnate da noi, dopo la campagna vergognosa di colpevolizzazione delle navi umanitarie delle Ong, sia contro i profughi sia contro le Ong rimaste uniche e sempre in minor numero a soccorrerli in mare.

Perché niente di vero? Si parla di Europa, ma sono solo quattro Paesi che, se pur centrali, sono stati continuamente contraddetti in questi tre anni fra loro e da tutti gli altri, da quelli dell’Est e dall’Austria. E poi si parla di «Libia» e di «autorità libiche», ma Fayez al Serraj chi rappresenta? Le Libie sono tante, dopo la devastazione della guerra a Gheddafi, e tutte in conflitto fra loro. Lo ha insediato la nostra Marina, ora gli arriverà – ma a lui solo o anche al signore della guerra della Cirenaica Khalifa Haftar e agli altri clan del Fezzan? – anche un pacchetto di milioni di euro.

Del resto questo scambio «per la democrazia» è già accaduto per l’altro interlocutore fondamentale dell’Occidente, il Sultano Erdogan, che ha appena finito di essere il santuario delle milizie jihadiste dell’Isis ed è impegnato in un repulisti violento contro ogni opposizione; o come l’altro leader sponsorizzato dall’Italia, il presidente golpista egiziano Al Sisi. Naturalmente e subito nel pieno disprezzo del diritto-dovere all’accoglienza e alla normalizzazione dei flussi: questo un governo democratico dovrebbe fare, non rincorrere le pulsioni razziste.

E di fatto trasformando la Libia e ora anche Niger e Ciad in un grande campo di concentramento. Un fatto è certo: piuttosto che attenti al numero di morti a mare, nella grande fossa che è diventata il Mediterraneo, valutiamo la riduzione degli arrivi con un occhio ai sondaggi, meno il 46% in estate ma solo meno 6% in un anno. Disperazione e vittime non si devono vedere. Né si deve dire che se fortunatamente i morti diminuiscono, i flussi no.

Ora li «concentriamo» tra sponda libica a confini a sud del Sahara, armando milizie e facendo le sentinelle su un percorso di 5mila chilometri? Meglio se il misfatto avviene nel grande deserto a sud della Libia e nel Sahel, lontano da telecamere e coinvolgimenti diretti, ma con tanto di timbro dell’Onu, la coperta di Linus buona per tutte le stagioni. È in quel deserto che, adesso, stiamo ricacciando milioni di persone alla disperata quanto impossibile ricerca di una nuova, mortale, via di fuga.

L'ENI coinvolta negli ignobili traffici degli schiavisti e dei capibanda della criminalità internazionale. Scenario, i «fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri».

il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2017

«5 milioni di euro - I soldi erogati alle milizie coinvolte anche nella sicurezza degli impianti Eni. Ed è un accordo solo provvisorio»

Questione di punti di vista. La linea del governo sull’immigrazione piace alla Merkel e a Macron, non dispiace in Italia all’opposizione ed entusiasma la nostra stampa, che ne canta i numeri: sbarchi calati del 72%, scafisti in ritirata, Guardia costiera libica arrembante e adesso perfino umanitaria, avendo trasferito ben diecimila migranti intercettati in mare in “campi di accoglienza”. Vista dalla Libia la situazione quantomeno sconta un problema di traduzione.

Lì sono invece chiamati “campi di detenzione”, trattandosi in effetti di fetidi lager africani dove i migranti arrestati ridiventano manodopera quasi gratuita a disposizione dei loro carcerieri. E la “lotta agli scafisti” in arabo più o meno suona come una formula sarcastica, tipo “comprare una breve tregua dagli scafisti, e dopo chissà”, che potrebbe corrispondere ai misteriosi accadimenti recenti sulla costa tra Sabrata e Zawiya.

Lungo un centinaio di chilometri a ovest di Tripoli, quel tratto di litorale è in relazione con l’Italia per due motivi: ospita il terminal Eni ed è il principale pontone degli scafisti, quello da cui parte il maggior numero di imbarcazioni dirette alla Penisola.

Queste due funzioni si intersecano – ricavo da un puntiglioso reportage pubblicato da Middle East Eye e non smentito dagli interessati. Infatti la Mellitah Oil and Gas (una joint-venture tra Eni e Noc, la compagnia statale libica, che gestisce concretamente le attività in loco) ha affidato la guardiania del terminal e dell’annesso compound alla milizia di Ahmed Dabbashi; quest’ultima sarebbe da anni nel traffico di esseri umani, al pari di un altro contractor di Noc, la milizia di Mohammed Kashlaf, anch’essa nel giro delle guardianie petrolifere. Il terzo mammasantissima è il comandante al-Bija, capo dei guardacoste, citatitissimo nei rapporti di Human Right Watch e della missione Onu al Consiglio di sicurezza.

Intorno a queste tre figure si serra la razionalità dell’economia locale. Le milizie arrestano e depredano i migranti arrivati sulla costa, sistematicamente i neri, e li stipano nei centri di detenzione, statali o “privati” (un luogotenente di Kashlaf, l’ex colonnello Fathi al-Far, fino a ieri controllava il lager di Zawiya). Prigionieri e alla fame, per racimolare i soldi necessari a pagare il viaggio in Europa i migranti sono costretti ad accettare le condizioni dei loro custodi, che li affittano come lavoratori-schiavi spesso al settore petrolifero. Questo calvario può durare anni. Al termine i migranti ottengono il diritto a imbarcarsi, per un prezzo che include tanto la traversata quanto la mazzetta per il comandante al-Bija, altrimenti implacabile nell’intercettare natanti non autorizzati (da lui).

Perché d’improvviso milizie e guardacoste ora sorvegliano la costa e impediscono le partenze (non tutte)? Sono arrivati medicinali per l’ospedale di Sabrata. Ma soprattutto, spiega Middle East Eye, l’Italia ha accordato incentivi alle milizie, pare per 5 milioni di euro. La milizia di Kashlaf avrebbe chiesto ai nostri servizi segreti un hangar per custodire l’autoparco e per gli uffici: l’ha avuto.

Come insegna l’Afghanistan, i miliziani puoi affittarli per un po’ ma non comprarli per sempre. Sulla costa si dà per certo che l’accordo reggerà un mese, grossomodo fino alle elezioni tedesche. Magari la tregua durerà un po’ di più, ma finirà.

Nel frattempo pare improbabile che gli europei si affanneranno a permettere all’Alto commissariato per i rifugiati di accedere ai campi di detenzione e valutare il diritto di ciascun prigioniero a ottenere protezione internazionale: sia perchè quegli sventurati in Europa nessuno li vuole, sia perchè le milizie potrebbero reagire male se le privassimo di un’altra fonte di reddito.

Potremmo pagare per compensare i mancati profitti: ma quanto e per quanto? Avendo capito come butta, con un giornalista suo estimatore, il generale Haftar si è detto disponibile a risolvere il problema di flussi e migranti in cambio di 20 miliardi di euro, venti volte quello che Erdogan finora ha incassato dall’Ue. Nei territori controllati dai suoi lanzichenecchi Haftar fa torturare a morte gli oppositori e protegge un suo luogotenente ricercato dalla Corte penale internazionale.

Per tutto questo non è affatto escluso che la linea intrapresa dal governo produca un disastro umanitario made in Europe. Il ministro dell’Interno Marco Minniti finora si è dimostrato abile (e spregiudicato, anche se non credo che la figura dello sceriffo law and order gli corrisponda). Ha riattivato la politica estera italiana in Libia, per giunta adesso finanziata dalla Ue; ridotto il numero degli affogati; arginato flussi migratori che qualsiasi al-Sisi del Mediterraneo poteva usare per ricattarci. Ma né Minniti né alcuno in Europa sa come risolvere due problemi enormi: come estrarre dalla Libia 150 mila migranti, come stabilizzare un Paese prigioniero delle milizie. Su questo scacco forse dovremmo iniziare a riflettere piuttosto che raccontarci balle.

: «Era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo». il Fatto quotidiano, 30 agosto 2017

Bene, riassumiamo le linee etico-strategiche della nuova politica sulla migrazione dall’Africa. Noi non siamo capaci di fare gli hot spot di identificazione in modo decente. O fanno schifo con un cesso per seimila persone, o chi li gestisce ci specula sopra come una specie di schiavista, o c’è un giro di mazzette, o tutte e tre le cose. Quindi il nostro geniale piano è di spostare tutte queste belle cose verso sud, e che se la vedano un po’ loro. Naturalmente non è un servizio gratuito: bisogna dare qualcosa a chi si prende questa briga, la Libia, il Ciad, il Niger. L’abbiamo già fatto con il signor Erdogan, che incassa dei bei soldi per fare da tappo alla migrazione da sud-est, dalla Siria in particolare.

Certe cronache plaudenti si esaltano per numeri dell’aiuto europeo all’Africa, e alla Libia in particolare: già pronti 170 milioni! Urca! È un po’ come dire: mi compro una villa al mare e ho già pronti 27 euro e mezzo.

Dunque i migranti, i disperati, uomini e donne che attraversano mezzo mondo verso nord nella speranza di mangiare tutti i giorni, o di non essere arrestati dal regime, o di non dover fare il militare a vita come in Eritrea, hanno un buon valore di scambio, diciamo paragonabile a quello del petrolio e delle materie prime. È un affare far arrivare il gas in Italia, ed è un affare non far arrivare i migranti.

Naturalmente tutto questo prevede un aggiustamento delle rotte, delle strategie per spostare grandi carichi di persone. Insomma cambia la logistica dello schiavismo, e per ora gli accordi di Parigi sono questo, niente di più: era seccante e costoso vederli morire nel Mediterraneo, ora moriranno nel deserto, potrebbe essere costoso lo stesso, ma almeno non li vediamo e non sentiamo quel disagio di veder crepare la gente sotto casa. Se si espellono dal vocabolario parole come “etica”, “morale” e “umanità”, va tutto benissimo (si attende con ansia la pubblicazione di un vocabolario Italiano-Minniti). In ogni caso, sia chiaro, alle vite di quelli che prima morivano o venivano ripescati nel Mare nostrum e che ora rischiano la pelle nel Sahara, non frega niente a nessuno, sono numeri, statistiche, flussi da bloccare. La distinzione tra migranti politici e migranti economici – che a Parigi è stata molto sottolineata – è ormai accettata dalla politica di ogni colore, come se la situazione economica di un paese che non riesce a dar da mangiare ai suoi cittadini, costringendoli a rischiare la vita per scappare da lì, non fosse una questione politica, che scemenza. Insomma, l’Europa mette un tappo – un altro – per difendere i suoi confini da quella clamorosa fake news che si chiama “invasione”, una parola prima rumorosamente inventata dalla destra xenofoba e leghista, poi sdoganata dai media, e ora praticamente diventata verità ufficiale anche se i numeri dicono il contrario. Naturalmente siamo tutti contenti se i cittadini di Sabrata, in Libia, avranno un laboratorio per analisi mediche, ovvio, e se Zwara avrà la sua rete elettrica costruita dall’Europa, benissimo, molto bene.

Si segni a verbale, però, che tutto questo sarà (forse, speriamo che le pompe idriche a Kufra vengano fatte con più efficienza delle casette per i terremotati del centro Italia, ecco) costruito sulle spalle di centinaia di migliaia di migranti internati in lager libici, o morti di sete nel deserto, o arrestati prima della partenza. Il piano europeo di Parigi sottolinea anche l’esigenza di “fare opera di pedagogia” (questo l’ha detto Macron), cioè spiegare bene (suggerirei delle slide) a gente che mette in gioco la sua vita, che fa viaggi di anni, che viene picchiata, incarcerata, derubata, violentata e torturata ad ogni tappa, che qui non li vogliamo. Una pedagogia del “sono cazzi vostri”, insomma, salutata come una grande vittoria europea sul fronte dell’“emergenza immigrazione”. Amen.

L'Europa di Marco Minniti sta raggiungendo il suo obiettivo: chi vuole o deve attraversare il Mediterraneo, perché in fuga dalla persecuzione o perché intrappolato nel caos libico, oggi è bersaglio della caccia al migrante. I diritti? cancellati.

la Repubblica, 29 agosto 2017

«Il corridoio è sempre più stretto e si muore nel deserto. Niger, l’esodo sta rallentando la strategia di Roma funziona ma la strage ora è nel deserto»
Le voci corrono veloci lungo le carovaniere del deserto, con un passaparola che trasmette lo stesso messaggio in tutta l’Africa occidentale: «La rotta per la Libia è diventata pericolosa ». Sì, costi e rischi sono sempre più alti, la speranza di arrivare in Europa sempre più bassa. E la gente smette di partire. Lo testimoniano i numeri dell’esodo monitorati in Niger, il grande crocevia dei percorsi che portano al Mediterraneo e snodo della strategia annunciata ieri a Parigi. Nel 2016 gli osservatori dello Iom, l’Organizzazione per le migrazioni, avevano censito 333 mila persone in viaggio verso Nord, quest’anno invece fino a luglio ne sono state contate 38 mila mentre dagli stessi valichi quasi il doppio ha fatto il percorso inverso, cercando di tornare a casa.
«C’è un calo drastico calo dei flussi verso la Libia. Non vediamo più quei convogli di 50-60 veicoli che l’anno scorso erano frequenti», conferma Alberto Preato, uno dei dirigenti Iom in Niger: «I migranti che accogliamo parlano molto tra loro e dai loro discorsi emerge con chiarezza come quella rotta sia diventata difficile».Le pressioni e le sovvenzioni europee hanno spinto il governo nigerino a cambiare linea.
C’è una nuova legge che punisce i trafficanti con l’arresto e il sequestro dei camion. Ci sono gendarmi meglio addestrati ed equipaggiati. Anche i francesi, presenti nell’ex colonia da quattro anni con una missione militare, adesso sono più attivi: l’onda lunga delle stragi terroristiche e il timore che in qualche modo l’Isis tragga vantaggio da questi movimenti, li ha convinti ad aprire gli occhi sulla situazione. E i primi progetti umanitari, finanziati dai singoli paesi o dalla Ue, stanno facendo nascere prospettive alternative all’emigrazione.
C’è però chi va avanti. Le organizzazioni dei trafficanti non sono scomparse: evitano i posti di polizia e sfuggono ai censimenti, muovendosi direttamente nel deserto. Una traversata micidiale, con persone che per guasti o cinismo vengono abbandonate nel nulla. «Molti rischiano la vita», spiega Preato: «Ora mandiamo quasi tutti i giorni delle missioni per soccorrere questi dispersi. Le autorità locali e l’esercito nigerino collaborano con noi in queste ricerche: più di mille persone sono state salvate negli ultimi mesi». Patrick, un giovane nigeriano, ha raccontato il calvario del suo gruppo: «Abbiamo vagato senz’acqua per dieci giorni. Ho visto due bambini morire e subito dopo la loro madre. Prima che arrivassero gli aiuti ho scavato 24 fosse nella sabbia».
Questo è l’altro volto della politica di dissuasione messa in atto dall’Unione europea, con una regia italiana e un contributo francese, in passato parallelo e infine convergente. Chi vuole o deve attraversare il Mediterraneo, perché in fuga dalla persecuzione o perché intrappolato nel caos libico, oggi affronta un viaggio infernale. I controlli delle istituzioni nigerine si trasformano in repressione armata in Libia, dove la caccia ai migranti è diventata più remunerativa – grazie ai fondi ufficiali e alle elargizioni dell’intelligence – del loro sfruttamento.
La strategia dei piccoli passi avviata dal ministro Marco Minniti sta funzionando: di fatto chi si dirige verso le nostre coste ha davanti un triplice sbarramento. Nel Fezzan, la prima tappa libica, la pace siglata a Roma tra tebù e tuareg ha concluso tre anni di guerra, finanziata soprattutto con il traffico di uomini. Le nostre sovvenzioni inoltre stanno spingendo alla sorveglianza dei confini e delle arterie principali. Più a nord sono scese in campo le milizie municipali, spesso guidate dagli stessi personaggi che fino a pochi mesi fa gestivano il mercato dei barconi come lo “Zio” che comanda la brigata 48 di Zuwara. Sono loro che dominano il territorio, espressione di quei consigli cittadini che costituiscono l’unica autorità: l’accordo con i loro leader è stato appena rinnovato a Roma e benedetto dall’Ue.
A Tripoli c’è poi un’altra forza, legata al governo Serraj, chiamata Rada, che la scorsa settimana fa ha catturato “il re dei trafficanti”: tal Musa Bin Khalifa indicato come il signore delle spiagge degli scafisti. Infine c’è la Guardia costiera, equipaggiata e assistita dalla nostra Marina, a cui adesso spettano tutti gli interventi nelle acque territoriali, tenendo alla larga le navi delle ong.
Tre giorni fa la Corte Suprema di Tripoli ha dato un riconoscimento giuridico ai patti per il contrasto dell’immigrazione. Quindi la forma è salva: le operazioni delle milizie municipali e delle strutture nazionali hanno un timbro di legalità. Ma la verità in Libia è sempre scritta sulla sabbia e nessuno può dare garanzie sulla sorte di chi finisce nelle mani dei potentati. Che si dividono ogni aiuto: pochi giorni fa abbiamo consegnato diecimila kit di prima assistenza per i migranti, subito spartiti tra guardia costiera e municipalità di Zuwara. Ma tutti sanno – e lo stesso Minniti ha posto la questione – che in Tripolitania è difficile se non impossibile ottenere il rispetto dei diritti umani: l’Onu ha ribadito ieri la denuncia sulle condizioni dei centri di dentenzione.
La soluzione che arriva da Parigi è quella di spostare il problema in Niger. Si annuncia la creazione lì degli hotspot dove vagliare le domande di asilo, valutando la possibilità di trasferirvi le persone fermate in Libia, sotto la vigilanza di un contingente militare. Un altro esodo, forzato e in senso inverso. Il segno delle difficoltà dell’Europa, che seguendo la pista aperta dall’Italia sta riuscendo a frenare gli sbarchi, ma ora deve trovare il modo di tutelare quei diritti che sono l’essenza della nostra civiltà.
Molti vizi ci impediscono di affrontare in modo corretto il dramma dei "migranti economici": l'ipocrisia, la smemoratezza, l'ignoranza, la complicità con gli sfruttatori delle regioni colonizzate. Eppure, 4 milioni sono i migranti italiani.

Avvenire, 29 agosto 2017

Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: o ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo. Ma, sotto sotto, non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita.

L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali sparsi per il mondo. Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà.

E non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Diciamocelo: i migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le famiglie rimaste a casa. Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant'è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita.

Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo stati e siamo ancora parte attiva, addirittura i suoi artefici. Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è «cambiamo le cose qui affinché cambino là». Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici.

Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre stabili divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali. Delle 181mila persone disperate sbarcate sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani.

Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, già governatore della Banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-13 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio alle compagnie internazionali, Eni compresa. Quei soldi sottratti ai nigeriani sono finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, a Londra e in vari paradisi fiscali. Con la complicità di grandi banche internazionali. E non solo. Anche di Stati e Governi poco vigilanti, e l’Italia non è affatto esclusa. È proprio il caso di dire «aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra».

«Folla alla celebrazione nella parrocchia di Vicofaro dopo le polemiche sui migranti. La formazione di destra accolta dai fischi». Resoconto agro-dolce d'un bell'episodio d'accoglienza praticata e d'antirazzismo corale.

Avvenire, 27 agosto 2017

Don Massimo Biancalani, il parroco di Vicofaro, a Pistoia, nel mirino dell’estrema destra per le sue aperture generose verso gli immigrati, che nei giorni scorsi ha accompagnato in piscina scatenando anche le ire di Salvini, ha due prerogative vincenti. Innanzi tutto è un uomo di grande simpatia, poi ha una stazza da lanciatore di peso, più di un metro e novanta per circa un quintale di peso. La prima caratteristica gli è servita per accogliere con il sorriso le centinaia di fedeli che ieri mattina si sono presentate alla Messa nella sua parrocchia di Santa Maria Maggiore.

La seconda per stringere la mano con cordiale sicurezza anche agli esponenti di Forza Nuova - proprio coloro che l’avevano contestato - guardandoli dall’alto al basso mentre entrano in chiesa, mansueti come agnellini. Buoni buoni, i quindici esponenti del movimento di estrema destra che avevano annunciato la loro presenza alla Messa per “verificare” la correttezza dottrinale – absit iniuria verbis - delle parole di don Biancalani, sono stati scortati ai banchi loro assegnati. Gli ultimi tre della fila a sinistra dell’altare, dove hanno seguito disciplinatamente tutta la celebrazione, senza unirsi però alle esplosioni di applausi che, durante l’omelia, hanno costellato le parole del parroco. Tante le sue riflessioni di buon senso sul dovere dell’accoglienza, qualche spunto originale sull’esigenza di unire e non dividere, un racconto appassionato del suo apostolato con persone come gli immigrati “che ci regalano in umanità più di quanto riusciamo a dare loro”.

Ma anche una serie di critiche pesanti al governo per le scelte in Libia, “con tanti soldi pagati per non far più partire gli immigrati”. Forse sarà davvero così, ma è davvero l’omelia della Messa il momento più adatto per valutazioni politiche di questo tipo? In tanti applaudono, qualcuno sospira: “Don Massimo è così, prendere o lasciare”. Appassionato, simpatico, ribelle, un po’ sopra le righe. Prima dell’inizio della celebrazione, mentre smista il flusso di fedeli che prendono posto, alza gli occhi verso il matroneo e avverte: “Non appoggiatevi alla balaustra, che non è a norma. Accidenti, adesso mi prendo un’altra multa”.

E non si tratta dell’unico fuori programma della mattinata. Perché, è bene ammetterlo subito, la liturgia celebrata nella parrocchia all’estrema periferia ovest di Pistoia, è stata tutt’altro che ordinaria. La preghiera – se c’è stata – è stata tutta ritmata dagli applausi e, soprattutto all’inizio e alla fine, condita da qualche fischio, qualche slogan vecchio stile e alcuni canti partigiani. D’altra parte, con quel lungo preludio di polemiche e di tensioni, non avrebbe potuto andare diversamente. L’impegno del vescovo Fausto Tardelli per riportare la questione nel suo alveo naturale – quello di una celebrazione eucaristica –, per precisare anche con toni indignati che la pretesa di “esaminare” l’operato di un sacerdote appariva del tutto inaccettabile e per chiedere alla politica di fare un passo indietro, è valso a convincere solo gli uomini di buona volontà. Ma tra il migliaio di persone che già un’ora prima dell’inizio della celebrazione, affollano il piccolo piazzale davanti alla moderna costruzione, difficile dire quante lo siano davvero. Ci sono, numerosissimi, gli operatori dei media.

Ci sono in forze polizia e carabinieri. Ma anche molte decine di esponenti di estrema sinistra con striscioni antirazzisti che rumoreggiano e lanciano slogan. Quando appare lo sparuto gruppetto di Forza Nuova, quasi tutti con crani rasati e bicipiti palestrati, la tensione sale altissima. Un doppio cordone di forze dell’ordine divide i contendenti. Breve trattativa. Gli esponenti dell’estrema destra potranno entrare in chiesa a patto di seguire docilmente le indicazioni. Mentre la polizia fa barriera, volano insulti e sputi, partono slogan storici (“Fascisti carogne…”) ma a giudicare dalle barbe grigie e dall’abbigliamento ex Lotta Continua, sono “storici” anche gli autori degli stessi.

Poi, sul gradino più alto del sagrato, ecco la sagoma imponente di don Biancalani. Sorride e alza le manone in segno di pace. La piazza si placa. Chi vuole entrare in chiesa, compresi gli uomini di Forza Nuova, sfila davanti a lui che stringe mani, ascolta, sorride, ringrazia. Poi, una volta dentro, in una chiesa zeppa, verrebbe da dire “in ogni ordine di posti”, la celebrazione s’avvia secondo il registro stabilito. Il vicario generale, don Patrizio Fabbri, mandato dal vescovo a concelebrare, per portare a don Biancalani solidarietà e sostegno della diocesi, prende spunto dalla partecipazione straordinaria per invitare tutti a tornare anche domenica prossima. Sì perché – fa capire – il Vangelo e la Messa sono sempre gli stessi e non si capisce perché tutto questo entusiasmo non possa essere replicato. E anche l’impegno del parroco, la sua dedizione per i poveri, sono gli stessi da anni. Se merita di essere sostenuto oggi, perché non può avvenire la stessa cosa anche tra una settimana? Ma le ragioni della partecipazione straordinaria non sono un mistero per nessuno.

C’entra il clima di scontro alimentato sui social da posizioni intollerabili e da qualche uscita non proprio ben calibrata, c’entrano le tensioni sociali di un fenomeno come l’immigrazione che né a livello locale né sui grandi scenari nessuno sembra in grado di governare al meglio, forse c’entra anche la voglia assurda di rispolverare vecchie contrapposizioni che sembravano sepolte sotto la polvere dei decenni e delle tragedie. Invece, quando alla fine della Messa, il gruppetto di Forza Nuova viene accompagnato all’uscita dalla polizia, c’è ad attenderlo una folla di antirazzisti e di altri “anti” che riprende minacciosamente con gli slogan di cui sopra e conclude intonando a lungo “bella ciao”. Per canti liturgici e segni di pace ripasseremo un’altra volta.

Sla Repubblica, 27 agosto 2017

CENTRI IN AFRICA, CODICE ONG
IL PIANO EUROPEO PER I MIGRANTI

«Oggi a Parigi vertice con i big Ue. Arriva il sostegno alla linea italiana Intesa con i paesi del Sahel per fermare l’esodo attraverso la Libia»
I grandi d’Europa riuniti oggi a Parigi daranno il loro sostegno alle politiche migratorie italiane e cercheranno di lanciare un piano europeo, sul quale poi far convergere gli altri partner Ue, per chiudere la Rotta del Sahel che porta i migranti in Libia. E’ questo l’obiettivo del vertice organizzato da Emmanuel Macron al quale parteciperanno Merkel, Gentiloni e Rajoy. Un format che prevede anche una presenza europea con Federica Mogherini e coinvolge i paesi africani con l’arrivo a Parigi dei leader di Libia, Niger e Ciad. Sullo sfondo l’idea, che poi sarà sviluppata a livello europeo nel corso dell’autunno, di aiutare i paesi del Sahel a costruire campi dove raccogliere i migranti nel rispetto dei diritti umani prima del loro ingresso in Libia per poi, questa è l’intenzione del momento, procedere al rimpatrio volontario di quelli economici e all’accoglienza in Europa di chi ha diritto alla protezione internazionale. C’è anche il sostegno al lavoro della Guardia costiera libica, con l’impegno a favorire la costruzione di nuovi campi Unhcr dove accogliere i migranti che restano bloccati in Tripolitania.

Ieri la stessa Merkel ha riconosciuto che «non è possibile lasciare sole Italia e Grecia solo per la loro posizione geografica». Il vertice voluto da Macron riprende e cerca di razionalizzare una serie di idee — a partire dal coinvolgimento dei paesi del Sahel — che datempo circolano tra le capitali, in particolare tra Farnesina, Viminale e il team di Mogherini. Non a caso i quattro big dell’Unione promuoveranno le ultime misure italiane: «Germania, Francia, Spagna e Alto rappresentante Ue — reciterà la dichiarazione finale — si felicitano per le misure prese dall’Italia nel rispetto del diritto internazionale. Il codice di condotta sui salvataggi in mare è un passo positivo per migliorare coordinamento ed efficacia dei salvataggi.

I capi di Stato e di governo chiedono a tutte le Ong che operano in zona di firmare il codice e rispettarlo». Ancora, Berlino, Parigi e Madrid «continuano a sostenere l’Italia in particolare intensificando i ricollocamenti e fornendo il personale necessario a Frontex e all’Ufficio europeo che si occupa di asilo». Promosse anche le intese tra Roma e le 14 comunità locali libiche volte a contrastare il business dei trafficanti di esseri umani. Stesso discorso sulla cooperazione con Niger e Ciad, paesi di transito che possono aiutare a chiudere i flussi, così come l’impegno a lavorare con i paesi di origine dei migranti per bloccare le partenze.

TAJANI: “PER TRIPOLI 6 MILIARDI DI AIUTI
COME QUELLI CONCESSI ALLA TURCHIA”
Alberto d’Argenio intervista il presidente del Parlamento europeo

«Una parte dei finanziamenti dovrebbero andare a Niger e Ciad per chiudere la rotta del Sahel»

Un piano europeo immediato per la Libia uguale a quello messo in campo per la Turchia: sei miliardi per favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli e chiudere il Mediterraneo centrale. E poi un investimento di lungo periodo da 50-60 miliardi per tutta l’Africa capace di contrastare le cause più profonde delle migrazioni. È quanto chiede il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ai leader di Francia, Germania, Italia e Spagna che si riuniscono proprio oggi a Parigi per varare una strategia sui flussi migratori. «Non serve a nulla dare spiccioli, qualche decina di milioni: per contrastare le migrazioni dobbiamo varare un grande piano Ue per l’Africa», afferma Tajani forte della pressione che negli ultimi mesi l’aula di Strasburgo ha saputo esercitare su governi e Commissione europea.

Presidente Tajani, cosa si aspetta dal vertice di Parigi?«Quello che conta è che facciano un passo avanti verso la soluzione dei problemi legati alle migrazioni».

Quattro paesi possono dare risposte senza gli altri partner Ue?
«Chiaramente serve una strategia europea, ma trovo giusto che i governi che hanno un ruolo fondamentale in Europa prendano la guida dell’Unione e provino a trascinare gli altri verso una soluzione».

A suo giudizio come si risolve la questione dei flussi?
«Con decisioni di breve e di lungo termine. L’Europa ha dato sei miliardi alla Turchia per chiudere la Rotta balcanica. Ecco, è arrivato il momento di fare lo stesso con la Libia: diamo subito alla Libia 6 miliardi di euro e poi investiamo in una strategia complessiva per l’Africa».

Finora si è detto che era impossibile dare soldi a Tripoli perché il Paese è instabile e il governo, al contrario di quello turco, non controlla il territorio.
«Questi soldi servirebbero anche a favorire un accordo tra Bengasi e Tripoli».

In che termini?
«Il generale Haftar potrebbe diventare il capo delle forze armate libiche e il premier Al Serraj potrebbe mantenere la leadership politica. Ma andrebbero coinvolte tutte le tribù, in particolare quelle del Sud».

I soldi andrebbero solo alla Libia o anche ai paesi confinanti che devono chiudere la Rotta del Sahel?
«Naturalmente parte dei sei miliardi dovrebbero andare anche a Niger e Ciad per chiudere il corridoio libico. Il presidente del Ciad, tra l’altro, mi ha detto che nei prossimi mesi l’Isis potrebbe far entrare in Europa proprio da quella rotta foreign fighters che sta arruolando nel Sahel per fare attentati nel nostro continente. Per questo serve subito un investimento europeo capace di chiudere la rotta e costruire campi in Ciad e Niger sotto l’egida dell’Onu dove accogliere i migranti. Stessa cosa andrà fatta anche in Libia appena sarà stabilizzata».

E i diritti umani?
«Ovviamente questi soldi dovrebbero finanziare la costruzione di strutture Onu capaci di rispettare i diritti dei migranti, di curarli e di sfamarli».

È d’accordo con chi chiede che la loro posizione sia esaminata in loco e che chi ha diritto alla protezione internazionale venga portato direttamente in Europa?
«Certo, chi è perseguitato, come ho visto con i cristiani che scappavano da Mosul per non essere decapitati, deve essere accolto. Farlo è un nostro dovere e va bene se accogliamo chi ancora si trova in Africa».

Parlava anche di un piano Ue a lungo termine.
«Dovremmo fare campagne di informazione nei paesi di origine e transito per scoraggiare le partenze visto che chi si mette in cammino pensa di trovare il Bengodi mentre poi rischia di morire nel deserto o in mare oppure, se ce la fa, finisce a fare lo schiavo in campagna. E poi sì, serve un piano europeo di lungo termine: a luglio il Parlamento ha sbloccato 4 miliardi per progetti in Africa, ma non basta. Servono 50-60 miliardi freschi che grazie all’effetto leva dei privati potrebbero mobilitare fino a 500 miliardi. Con questi soldi potremmo finanziare progetti in tutta l’Africa con un approccio economico, non di puro sfruttamento come fanno i cinesi, per rilanciare l’economia del continente e contrastare le cause che spingono le persone a partire verso l’Europa. Ovviamente i soldi andrebbero concessi solo dietro un sistema di monitoraggio di programmi e spesa. È questo il modo in cui la politica si prende le sue responsabilità, altrimenti che facciamo, continuiamo con le polemiche sugli sgomberi a Roma e magari diamo la colpa alla Polizia? O andiamo avanti con le liti elettorali sullo ius soli?».

Come si risolve il problema della cittadinanza?
«È inutile mettere queste persone in mezzo alla campagna elettorale, lascerei stare e spingerei per una norma europea. D’altra parte chi diventa cittadino italiano diventa anche cittadino europeo».


Un panorama degli scontri tra i suprematisti bianchi di estrema destra e gruppi antirazzisti, da Charlotteville alle successive marce sparse nei vari stati, da una serie di articoli dell'

Internazionale, 25 agosto 2017 (i.b.)


Premessa

Il 12 agosto scorso a Charlottesville, in Virginia i sostenitori della supremazia bianca, costituiti da nazionalisti bianchi, neonazisti e membri della Ku Klux Klan, scendono nel campus universitario per protestare contro il piano della città per abbattere i monumenti degli Stati Confederati, in particolare della statua del generale Robert E. Lee. La marcia suprematista ha scatenato la reazione degli antifascisti e lo scontro è rapidamente diventato violento. Tre persone sono state uccise (contando coloro che sono morti nell'incidente dell'elicottero di stato che si è schiantato) e decine di altre sono state ferite.

Vale la pena ricordare che gli Stati Confederati, un’ istituzione composta da sette stati americani, dichiarò la propria secessione dagli Stati Uniti D'America nel 1861, per mantenere la schiavitù. La questione della preservazione o abbattimento di questi monumenti, simboli della lotta contro la fine della schiavitù e il dominio bianco, è diventato un tema caldo negli ultimi anni. Dopo l’uccisione di massa nella chiesa di Charleston nel 2015, perpetuata da Dylann Roof, che si autodefinì suprematista bianco e posò con la bandiera degli Stati Confederati, una serie di città e stati hanno cominciato a mettere in discussione i monumenti alla Confederazione. Visti non solo come celebrazione dell’orgoglio sudista, ma anche simboli di una Confederazione che ha combattuto per mantenere la schiavitù e la supremazia bianca in America, la contesa su questi monumenti rappresenta qualcosa di molto più prodondo, è la lotta tra due culture contrapposte. Con una destra razzista che si è vista legittimata dall’elezione di Trump. Si legga a questo proposito, qui di seguito, l’articolo di Paul Mason.

L’episodio di Charlottesville non è un fatto isolato. Lo hanno confermato gli eventi che ne sono seguiti. Il 19 Agosto a Boston, dove i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”, si è svolta invece una contro manifestazione. Se a Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate” in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederali. Il 22 agosto 2017 è stata la volta di Phoenix, in Arizona, dove la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e spray al peperoncino per disperdere i manifestanti che si erano radunati davanti al Convention Center per protestare contro il presidente Donald Trump, che stava tenendo un discorso. Quattro persone sono state arrestate. Secondo la versione del dipartimento di polizia di Phoenix, gli agenti hanno caricato i manifestanti dopo essere stati attaccati con pietre e lacrimogeni. I manifestanti sostengono invece che la polizia ha reagito in modo sproporzionato al lancio di alcune bottiglie d’acqua. Sabato a San Francisco, un gruppo di destra di fronte a una resistenza su larga scala, ha annullato un incontro vicino al Golden Gate Bridge, ma gli anti fascisti hanno marciato comunque per ribadire che lì i neo-nazisti ei suprematisti bianchi non sono benvenuti. Altre manifestazioni, discorsi, rally - pro o contro il dominio bianco, e pro e contro Trump - si stanno tenendo in molte località.

Se da una parte il messaggio elettorale nazionalista di Trump dà forza non solo ai conservatori, ma anche ai neonazisti, negli Stati Uniti esiste anche una forte anima antinazista e antirazzista e ci sono decine di gruppi antifascisti, gli unici spesso a contrastare le organizzazioni di suprematisti bianchi. Si leggano qui di seguito gli articoli ripresi dal New York Time e dal The Guardian sulle mobilitazioni per contrastare il razzismo e la violenza, e i vari gruppi attivi sui vari territori, con un approfondimento sui Redneck Revolt, un gruppo antirazzista, anticapitalista, ma favorele alle armi. (i.b.)

LA GUERRA CULTURALE
DELLA DESTRA AMERICANA
di Paul Mason

Le memorie del generale unionista William Tecumseh Sherman sono una lettura sgradevole. Nonostante combattesse per gli stati dell’Unione, Sherman si oppose all’emancipazione degli schiavi, sabotò il tentativo di liberarli da parte delle sue stesse truppe e li usò per costruire le sue fortificazioni. Ma fece anche un’altra cosa che può servirci da lezione, alla luce della marcia fascista di Charlottesville: scatenò una guerra totale contro i suoi nemici degli stati del sud. Ordinò alle truppe di fare a pezzi chilometri di ferrovie, dare fuoco alle fattorie dei proprietary di schiavi che facevano resistenza e bruciare Atlanta. Dopo aver visto gli estremisti di destra che nei giorni scorsi hanno silato per le strade di Charlottesville con elmetti e fucili d’assalto, ovviamente nessuno vorrebbe mai che gli Stati Uniti sprofondassero in un’altra guerra.

Ma i conflitti culturali che caratterizzano l’America di oggi ricordano in parte il periodo precedente alla guerra civile. Come ha fatto notare lo storico Allan Nevins, alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento l’America bianca era composta da “due popoli” culturalmente molto diversi e che avevano due modelli economici contrapposti: l’industria e il libero mercato contro la mezzadria e la schiavitù. I concetti che i confederati portavano con sé in battaglia hanno resistito fino a oggi: i diritti dei singoli stati contro il governo federale, la supremazia bianca, l’idea di una nazione fondata sulla religione.

Non è un caso se queste idee sono sopravvissute. La statua del generale confederato Robert E. Lee, che il comune di Charlottesville ha deciso di rimuovere, è considerata un simbolo da difendere per i gruppi di estrema destra, che si sentono legittimati dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre.C on le bandiere confederate che a Charlottesville sventolano accanto a quelle con le svastiche, i progressisti di tutto il mondo devono farsi una domanda: cosa siamo pronti a fare per sconfiggere la destra razzista?

Gli estremisti di destra hanno scatenato una Guerra culturale. “Questa comunità è di estrema sinistra”, ha dichiarato Jason Kessler, l’organizzatore della Marcia Unite the right (Uniamo la destra), aggiungendo che gli abitanti di Charlottesville hanno “assimilato i princìpi marxisti difusi nelle città universitarie che tendono a dare la colpa di tutto ai bianchi”. Non è una richiesta d’aiuto, è l’espressione della stessa ostilità culturale alla modernità che possiamo ritrovare negli scritti dei leader politici sudisti.

Tutti gli studi fatti dopo le elezioni hanno rivelato che la coalizione di Trump ha conquistato consensi dopo che ha permesso a milioni di persone di esprimere il loro razzismo e la loro violenta misoginia. Eleggendo Trump, i suoi sostenitori hanno dichiarato una guerra culturale alla sinistra moderata e contro il movimento antirazzista Black lives matter. L’atteggimento del presidente in seguito all’omicidio di Heather Heyer, l’attivista antifascista investita dal suprematista James Alex Fields, non è casuale.

Alla Casa Bianca inoltre ci sono persone legate all’estrema destra come Sebastian Gorka. L’intero movimento dei sostenitori di Trump alimenta il razzismo, non lo combatte. Carl Paladino, imprenditore e sostenitore del presidente, di recente ha dichiarato che Michelle Obama “dovrebbe tornare a essere un maschio ed essere abbandonata nella savana dello Zimbabwe dove potrà vivere con Maxie il gorilla”.

Nell’ultimo anno della guerra civile il generale Sherman, pur essendo un razzista, capì che l’unico modo per allontanare la popolazione del sud dal suo modello economico basato sulla schiavitù era distruggere le infrastrutture che lo sostenevano. Oggi sembra che non esista più alcuna infrastruttura del razzismo americano, ma non è così. Ci sono le regole della polizia, secondo le quali basta la presenza di un nero in un quartiere di bianchi per fare una perquisizione, c’è la criminalizzazione dei giovani neri attraverso il sistema giudiziario, c’è una segregazione nascosta nella vita pubblica e ci sono gli atteggiamenti razzisti dei mezzi d’informazione, da Fox News fino ai programmi radiofonici locali.

Tutte le persone che hanno mostrato il loro volto durante le fiaccolate fasciste hanno il diritto costituzionale a esprimere la loro opinione. Ma usano anche siti gestiti da aziende americane e hanno lavori, telefoni, contratti, conti bancari. Non c’è alcun diritto sancito dalla costituzione a usare le infrastrutture statunitensi per organizzare delle violenze. E, al di là di tutto, la principale istituzione che legittima le azioni violente dell’estrema destra è la presidenza Trump.

Charlottesville è il campanello d’allarme per i progressisti di tutto il mondo. Che vi troviate in una città universitaria o in una città multietnica colpita dalla povertà, Kessler e i suoi alleati si stanno mobilitando per punire la vostra comunità, responsabile di sostenere il “marxismo culturale”. Se qualcuno scatena una guerra culturale contro di te, prima o poi ti devi difendere.

GLI STATUNITENSI IN PIAZZA
CONTRO IL NAZIONALISMO
The New York Times, Stati Uniti

Il 19 agosto decine di migliaia di manifestanti, spinti dalla preoccupazione per la violenza esplosa una settimana prima a Charlottesville, in Virginia, hanno sfilato in decine di città in tutti gli Stati Uniti per protestare contro il razzismo, il suprematismo bianco e il nazismo.

Queste mobilitazioni avvengono mentre il paese si ritrova ad affrontare i temi del razzismo e della violenza e si chiede cosa fare con i simboli della confederazione (l’unione degli stati favorevoli alla schiavitù durante la guerra di secessione del 1861). Il presidente Donald Trump, criticato aspramente dopo aver dichiarato che a Charlottesville “la colpa è stata di entrambi gli schieramenti”, ha scritto un tweet il 19 agosto per “complimentarsi con tutti i manifestanti di Boston che si sono schierati contro l’odio e il fanatismo. Il nostro paese tornerà presto a unirsi”. Poi ha aggiunto: “A volte servono le proteste per guarire, e noi guariremo e saremo più forti che mai”.

A Boston i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”. In risposta migliaia di persone convinte che l’evento sarebbe servitor a fare propaganda per neonazisti e nazionalisti, hanno partecipato in massa a una contromanifestazione. Si sono presentati al

Boston Common, il parco dove si doveva svolgere il raduno di destra, alcune ore prima e hanno trovato volantini con simboli neonazisti. “Sono qui per quello che è successo a Charlottesville”, ha detto Rose Fowler, 68 anni, insegnante in pensione afroamericana. “Qualcuno è stato ucciso mentre lottava per i miei diritti. Perché non dovrei lottare per me stessa e per gli altri?”.

A Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate”. A Hot Springs, in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederati. Molti passanti si sono fermati per protestare contro Trump e l’odio razziale.

Tre persone sono state arrestate. Intorno alle 13 a Charlottesville, in una strada secondaria, l’umore era cupo mentre si ricordava Heather Heyer, l’attivista antirazzista morta il 12 agosto dopo essere stata investita da una macchina guidata da un nazionalista. Susan Bro, la madre di Heather, era in piedi davanti a un memoriale di iori e candele, in lacrime e appoggiata al marito.

Contenere la rabbia

A Dallas, dove nel 2016 un uomo aveva ucciso cinque agenti durante una manifestazione degli attivisti neri, le forze dell’ordine hanno formato una barriera con autobus e camion intorno agli antirazzisti, per “mettere in sicurezza” l’area e impedire alle automobile di avvicinarsi. Al tramonto intorno a uno dei monumenti confederati della città si è scatenata una battaglia di urla e slogan, ma non ci sono stati episodi di violenza.

I poliziotti sorvegliavano la situazione da vicino e gli elicotteri sorvolavano la zona. A un certo punto sono arrivate alcune persone armate di fucili e in tuta mimetica. Un rappresentante del gruppo, chiamato Texas Elite III%, ha detto che non facevano parte di nessuno dei due schieramenti ma erano lì per garantire la sicurezza.

In tutto il paese le autorità stanno cercando di contenere la rabbia che accompagna il dibattito sui monumenti confederati.

Il 20 agosto l’università di Duke, nel North Carolina, ha annunciato di aver rimosso una statua del generale confederato Robert E. Lee dall’ingresso della cappella del campus di Durham. “Ho preso questa decisione per proteggere la cappella e per garantire la sicurezza degli studenti, e soprattutto per ribadire i valori dell’ateneo”, ha scritto il rettore Vincent Price in un’email agli studenti.

Price ha precisato che la statua sarà “conservata in modo che gli studenti possano studiare il complesso passato della Duke e creare un futuro senza conlitti”.

BIANCHI, ARMATI E ANTIFASCISTI
di Cecilia Saixue Watt

Alla grigliata ci sono pasti gratuiti, un banchetto dove dipingersi la faccia e una postazione che prepara “cartelli di protesta” con una pila di scatole di cartone ritagliate, pennarelli e rotoli di nastro adesivo. Alcuni bambini del quartiere – nessuno ha più di dodici anni – si fermano li davanti. Vogliono dei cartelli da attaccare alle biciclette per andare in giro e “dire a Trump” quello che pensano di lui. Uno prende un pezzo di cartone e ci scrive sopra a caratteri cubitali: “Trump è una puttana”.

Max Neely interviene subito. “Sarebbe meglio non usare quella parola”, dice in tono paterno. Con il suo metro e ottantacinque li sovrasta tutti. “È offensiva nei confronti delle donne, e oggi qui ce ne sono tante che meritano rispetto. Forse dovreste scegliere un’altra frase”. I bambini si consultano, alla fine decidono per una frase meno ofensiva: “Fanculo Trump!!!!”.

Neely, un attivista di 31 anni con i capelli lunghi e la barba folta, ha davanti a sé una lunga giornata di lavoro: Donald Trump è qui a Harrisburg, in Pennsylvania, per celebrare i primi cento giorni alla Casa Bianca con un discorso nel complesso fieristico degli agricoltori. In altre zone della città, l’opposizione di sinistra si sta preparando: gruppi come Keystone Progress, Dauphin County Democrats e Indivisible hanno in programma una manifestazione di protesta.

Il gruppo di Neely non è con loro. Ha preferito organizzare un picnic in un piccolo parco, con barbecue gratuito e volantinaggio. Qualcuno ha piantato nell’erba una bandiera rossa su cui sono disegnate falce e martello. Da un tavolo vicino pende uno striscione nero con la scritta “Redneck Revolt: contro il razzismo, per il lavoro, a favore delle armi”. “Se per caso non lo avesse notato, non siamo dei moderati”, dice Jeremy Beck, uno degli amici di Neely che si occupa della cucina. “Se ti spingi molto a sinistra, alla fine arrivi così a sinistra da riprenderti le armi”, di sicuro non sono progressisti dalle idee confuse. La Redneck Revolt è un’organizzazione nazionale di politici della classe contadina e operaia che si sono riappropriati della parola redneck, un termine storicamente usato in senso spregiativo per indicare i rozzi contadini del sud degli Stati Uniti che avevano il “collo rosso” perché lavoravano nei campi sotto al sole. Sono antirazzisti militanti. Non è un gruppo costituito esclusivamente da bianchi, anche se s’interessa soprattutto dei problemi dei bianchi poveri. I princ.pi dell’organizzazirne sono decisamente di sinistra: contro il razzismo e i suprematisti bianchi, contro il capitalismo e lo statonazione, a favore degli emarginati.

La Pennsylvania è uno degli stati in cui è ammesso per legge l’open carry, cioè girare per strada con un’arma in vista. Per gli attivisti di Redneck Revolt poter portare un’arma è un’affermazione politica: una pistola in vista serve a intimidire gli avversari e ad afermare il diritto ad averla. Molti di quelli che oggi sono alla grigliata possiedono un’arma, e avevano pensato di portarla con sé, ma alla fine ci hanno rinunciato, perché vogliono che all’evento partecipino le famiglie.

La Redneck Revolt è nata nel 2009 come una costola del John Brown gun club, un progetto di addestramento all’uso delle armi da fuoco con sede in Kansas. Dave Strano, uno dei suoi fondatori, vedeva una grande contraddizione nel Tea party, il movimento ultraconservatore, che all’epoca muoveva i primi passi. Molti attivisti del Tea party erano lavoratori che avevano sofferto a causa della crisi economica del 2008. Accusavano l’1 per cento dei più ricchi del paese di aver causato quella situazione, ma poi accorrevano in massa ai raduni inanziati da quelle stesse persone. Appoggiando i politici di idee conservatrici in economia, pensava Strano, sarebbero stati ulteriormente manipolati per fare gli interessi dei più ricchi. “Quella della classe operaia Bianca è sempre stata una storia di sfruttamento”, scriveva su un sito di anarchici. “Ma siamo gente sfruttata che a sua volta sfrutta altri sfruttati. Viviamo nelle case popolari delle periferie da secoli, e siamo stati usati dai ricchi per attaccare i nostri vicini, colleghi di lavoro e amici, di religione, pelle e nazionalità diverse”.

Otto anni dopo, in tutti gli Stati Uniti ci sono più di venti sezioni della Redneck Revolt: i gruppi variano molto per dimensioni, alcuni hanno solo una manciata di iscritti. Neely è iscritto alla sezione Masondixon, che comprende la Pennsylvania centrale e il Maryland occidentale, dove è nato. Molti degli iscritti sono bianchi, ma l’organizzazione cerca di costruire un’identità che vada oltre l’appartenenza etnica. “Sono cresciuto giocando nei boschi, facendo galleggiare bottiglie di birra sul fiume, sparando bengala. Insomma, facendo un bel po’ di casino”, racconta Neely. “Tutte cose che molti considerano parte della nostra cultura. Stiamo cercando di capire gli errori che abbiamo commesso accettando la supremazia bianca e il capitalismo, ma stiamo anche creando un ambiente che riletta la nostra cultura”.

La Redneck Revolt si rifà alla Young Patriots Organization, un gruppo di attivisti degli anni sessanta formato essenzialmente da operai bianchi della zona dei monti appalachi e del sud. “Ammiro gli attivisti della Redneck Revolt”, dice Hy Thurman, uno dei fondatori dei young patriots. “Penso che stiano andando nella direzione giusta”. Il suo gruppo era antirazzista ed era in stretti rapporti con gli attivisti delle Pantere nere, ma nelle sue campagne di reclutamento usava la bandiera dei confederati, simbolo del sud schiavista durante la Guerra civile. Thurman mi ha spiegato che la usavano solo per entrare in contatto con i bianchi poveri che s’identiicavano con quell simbolo. Allo stesso modo, oggi la Redneck Revolt sfrutta un altro emblema dell’america contadina: le armi. Molti dei suoi iscritti vivono in posti dove avere una pistola o un fucile è abbastanza normale. E Neely vorrebbe che la sua organizzazione diventasse un’alternativa accettabile per le persone che altrimenti potrebbero unirsi alle milizie di destra.

Dall’assedio di Ruby Ridge del 1992 – quando la casa di un suprematista bianco fu assediata nove giorni dalla polizia e nello scontro morirono tre persone – negli Stati Uniti c’è stata una proliferazione di organizzazioni paramilitari antigovernative. Gli Oath Keepers, per esempio, sono una milizia che afferma di voler difendere la costituzione minacciata dal governo federale. Sostengono di non essere politicamente schierati, ma le loro idee sono decisamente di destra. Durante le elezioni presidenziali del 2016 hanno annunciato che avrebbero controllato i seggi per impedire manipolazioni del voto, affermando di “essere preoccupati soprattutto per i tentativi di brogli da parte della sinistra”. Ma gruppi come gli Oath Keepers hanno molto in comune con alcune organizzazioni di sinistra: denunciano le violazioni dei diritti umani, sono contrary alla sorveglianza di massa e al Patriot Act (la legge antiterrorismo approvata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001) e s’indignano per la povertà che aligge la classe operaia.

“Usiamo la cultura delle armi per entrare in contatto con la gente”, dice Neely, il cui nonno era un cacciatore. “Non abbiamo niente a che fare con l’elitismo dei progressisti. Il nostro messaggio fondamentale è: le armi vanno bene, il razzismo no”.

Famiglia proletaria

“Sono preoccupato per Pikeville”, dice Neely. “Ho degli amici lì”. Pikeville è una cittadina del Kentucky, nel cuore della regione degli appalachi. Non ha un aeroporto internazionale né interstatale, ha una popolazione di diecimila abitanti e tanti idilliaci paesaggi di montagna. Ha sempre basato la sua economia sul settore minerario, ma punta anche sul turismo: ogni anno a metà aprile più di centomila persone arrivano per partecipare all’hillbilly days festival, che celebra la cultura e la musica degli appalachi.

Quest’anno per., una settimana dopo la fine del festival, l’atmosfera a Pikeville è decisamente diversa. Lo stesso giorno in cui Trump è a Harrisburg, in città è previsto l’arrivo dei neonazisti. Il Nationalist front – un’alleanza di gruppi di suprematisti bianchi di estrema destra – ha programmato una manifestazione davanti al tribunale. “Schieratevi dalla parte dei lavoratori bianchi”, si leggeva sul volantino che circolava online. “Questo è l’inizio di un processo di costruzione e allargamento delle nostre radici nelle comunità di lavoratori bianchi per diventare i difensori del nostro popolo”, ha scritto il neonazista Matthew heimbach sul Daily Stormer, un sito neonazista.

Il Nationalist Front considera la contea di Pike – cronicamente povera e abitata in grande maggioranza da bianchi – un terreno fertile per le sue ideologie. In realtà da qualche anno Pikeville se la sta cavando meglio, ma tutte le località intorno sono in difficoltà. Il tasso di disoccupazione della contea è tra i più alti del paese, sopra il 10 per cento. Nelle elezioni presidenziali Trump ha saputo sfruttare questa disperazione con la sua retorica a favore della classe operaia e contro gli immigrati, e ha ottenuto l’80 per cento dei voti. Heimbach spera di usare questo consenso per creare un movimento nazionalsocialista. “Abbiamo organizzato questa manifestazione perché ci stanno a cuore gli abitanti della contea”, dice Jef Schoep, capo del gruppo neonazista National Socialist Movement, in un video girato per pubblicizzare il raduno. “Abbiamo visto fabbriche chiuse, gente che ha perso il lavoro, famiglie disperate che hanno cominciato a usare droghe e a fare altre cose che non dovrebbero fare.

Vogliamo ridare speranza alla gente. Qualcosa per cui combattere”. Quel qualcosa è uno stato etnico bianco, ma la maggior parte degli abitanti di Pikeville non sembra interessata. Il consiglio comunale ha autorizzato la manifestazione del Nationalist Front citando il diritto alla libertà di espressione sancito dalla costituzione statunitense, ma il sindaco Donovan Blackburn ha anche rilasciato una dichiarazione a favore della pace e del rispetto per la diversità. Gli student universitari hanno organizzato una contromanifestazione di protesta, che per. è stata quasi subito annullata per motivi di sicurezza: le autorità accademiche temevano che lo scontro tra i nazionalisti e gli antifascisti – o antifa – potesse diventare violento.

Cresciuti in Europa in vari momenti del novecento, gli antifascisti rappresentano il fronte compatto della sinistra che si contrappone ai nazionalisti: un’allenza di anarchici, comunisti e attivisti di altri movimenti decisi a sradicare il fascismo con ogni mezzo, compresi quelli violenti, che giustiicano con la violenza intrinseca del fascismo. Usano spesso la tattica del Black Bloc di indossare maschere e vestirsi completamente di nero per non essere identiicati dalla polizia.

Negli Stati Uniti i gruppi antifascisti non sono mai stati attivi come quelli, per esempio, che ci sono in Grecia. Ma dopo l’elezione di Trump, e la successiva ondata di crimini d’odio commessi da gruppi di destra, si sono subito mobilitati. All’inizio di febbraio, due settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, c’è stata una manifestazione di antifascisti nel campus dell’università di Berkeley, in California, per impedire a Milo Yiannopoulos, ideologo dell’estrema destra, di tenere un discorso.

“Viviamo in un momento storico in cui c’è una disuguaglianza economica senza precedenti, e le persone faticano a tirare avanti”, dice Sidney (non è il suo vero nome), un antifascista degli appalachi che tiene d’occhio l’attività dei nazionalisti bianchi nella sua zona. “Quando i governi non fanno nulla per cambiare la situazione, la gente cerca una risposta altrove. Il fascismo sta risorgendo perché siamo in questo momento storico. Il problema non si risolverà lasciandoli in pace. Come lasciare in pace un’infezione”. Sidney, un ragazzo di 27 anni della Virginia, viene da una famiglia di minatori. Divide il suo tempo tra il lavoro come installatore di strutture in cartongesso e l’attivismo per la Redneck Revolt. “Pikeville ha attirato la mia attenzione”, dice. “Il Traditionalist Worker Party, di estrema destra, si sta mobilitando molto nella regione. Io non sono del Kentucky, ma vengo da una famiglia proletaria degli appalachi, e questa cosa non mi va giù”.

Per convincere i gruppi antifascisti a non indossare maschere – come fanno spesso durante le manifestazioni – le autorità di Pikeville hanno emesso un’ordinanza che vieta di a chiunque abbia più di 16 anni di andare a volto coperto nel centro della città. I manifestanti antifascisti dovranno girare a volto scoperto, e questo potrebbe essere pericoloso: i gruppi neonazisti usano software per il riconoscimento facciale e altri sistemi per identificare le persone che li contestano e acquisire informazioni che poi usano per attaccarli.

“Noi della Redneck Revolt in genere manifestiamo a volto scoperto”, dice Sidney. “Vogliamo conquistare il sostegno della comunità, ed è più facile riuscirci se tutti sanno chi siamo”. Ma Sidney ha un’altra preoccupazione: anche in Kentucky è legale girare armati in pubblico, e Hheimbach ha invitato gli iscritti del Nationalist Front a presentarsi armati sul luogo della manifestazione in vista di “possibili attacchi della sinistra”. Sidney ha deciso che porterà la sua pistola, una semiautomatica Smith & Wesson, ma la terrà nascosta. Alcune persone del posto avrebbero preferito che se ne fossero stati tutti a casa, sia i neonazisti sia gli antifascisti. “Non posso biasimarli se la pensano così”, dice Sidney. “Si ritrovano questo enorme scontro ideologico sulla porta di casa e non lo hanno chiesto loro”.

Poco dopo mezzogiorno un folto gruppo di manifestanti antifascisti – alcuni armati, altri in giubbotto antiproiettile – si dirige verso il tribunale pronto ad affrontare il Nationalist Front. Ma trova solo una decina di nazionalisti bianchi che li aspetta in una piccola zona transennata dalla polizia. Sono della Lega del Sud, un’organizzazione che promuove la secessione degli stati meridionali degli Stati Uniti. Le due principali delegazioni del Nationalist Front – Traditionalist Worker Party e National Socialist Movement – non ci sono. Gira voce che si siano persi. “Non mi sorprende, visto che non sono di queste parti”, dice Sidney.

Arrivano i nazisti a Harrisburg, intanto, sei giovani nazionalisti bianchi si avvicinano alla cucina da campo di Neely. Sono ben pettinati e indossano tutti una polo bianca, come se fosse un’uniforme. Neely si rivolge a loro con circospezione chiedendo se sono interessati al socialismo. No, rispondono. dicono di far parte di Identity Evropa, un gruppo che chiede la segregazione razziale e ammette solo persone di “origine europea non semitica”. Hanno sostenuto la candidatura di Trump, ma ora sono a Harrisburg per protestare contro di lui. Sono delusi perché il president non sta facendo abbastanza per creare uno stato etnico bianco.

Neely vuole tenerli lontani dalla cucina. Una giornata per famiglie e molti dei partecipanti al picnic sono giovani attivisti neri della scuola locale. Neely sa che potrebbero cavarsela da soli, ma difendere il diritto a esistere contro persone che negano la tua umanità è sempre un compito difficile. Perciò, mentre i suoi amici li tengono d’occhio dall’altra parte della strada, Neely li lascia parlare della loro ideologia, di come gli Stati Uniti erano destinati solo ai bianchi, del fatto che la cultura bianca è sotto attacco. Discute con loro nel modo più educato possibile, sperando che la situazione non degeneri, tanto che loro lo ringraziano di essere così calmo e civile. “Facile restare calmo quando sei bianco”, dice Neely. “. facile quando non è in gioco la tua vita o quella della tua famiglia”. L’incontro si conclude in modo piuttosto brusco quando tre ragazze del posto cacciano via i nazionalisti bianchi.

Nel 2014, durante le proteste contro le violenze della polizia a Ferguson, nel Missouri, esponenti armati degli Oath Keepers si piazzarono sui tetti, sostenendo di voler proteggere i manifestanti dalla polizia. Ma molti attivisti neri erano spaventati da quegli uomini bianchi armati pesantemente.

Quando gli attivisti della Redneck Revolt si presentano alle manifestazioni dei neri, invece, di solito è perché sono stati invitati. “Sono il nostro servizio d’ordine”, dice Katherine Lugaro, leader di This Stops Today, un gruppo per i diritti dei neri di Harrisburg. “Sono un muro tra noi e quelli che ci odiano. rischiano la vita per noi”.

A Pikeville, un’ora dopo l’inizio previsto della manifestazione, una roulotte entra nel parcheggio in fondo alla strada. Sono Heimbach e gli altri neonazisti. Un centinaio di persone che indossano vestiti neri coperti di simboli nazisti marcia verso il tribunale. Nelle prime file, molti sono armati. Altri portano scudi di legno decorati con svastiche e simboli celtici. Qualcuno ha uno scudo con l’immagine di Pepe the Frog (la rana simbolo dall’estrema destra online) e le parole “Pepe über alles”, Pepe sopra ogni cosa, un riferimento all’inno nazionale tedesco. Fanno il saluto nazista a Heimbach. Gli antifascisti sono il doppio di loro.

Poi cominciano i lunghi comizi dei neonazisti, che vengono coperti dalle grida degli antifascisti. Un gruppo di persone ascolta i discorsi del Nationalist front dietro le transenne piazzate dalla polizia. Ma quasi tutti i residenti di Pikeville si sono uniti agli antifascisti, e intonano i loro slogan. “Sono quelli che strillano di più”, dice Sidney. “Immagino che la maggior parte non s’interessi di politica, forse sono conservatori, ma capiscono che c’è un limite”.

Nessun ferito, nessunfa sparatoria. I neonazisti iniscono i loro discorsi e tornano alla roulotte. La forte presenza della polizia è riuscita a tenere separati i due gruppi e a impedire qualsiasi possibilità di scontro. Tutto finito. A Harrisburg scende la notte. Max Neely e i suoi si riuniscono in un bar. Bevono birra e parlano di hockey. Poi si spostano in una saletta privata per fare il bilancio della giornata.

Si siedono intorno a un posacenere e fumano una sigaretta dopo l’altra commentando educatamente a turno gli eventi. Ci sono molte cose da discutere. In mattinata un uomo che protestava contro Trump è stato arrestato, con l’accusa di aver avuto una discussione violenta con un poliziotto a cavallo, e il gruppo vuole dargli il suo sostegno. Tra due giorni ci sarà una manifestazione per i diritti degli immigrati. E poi devono decidere cosa fare per il festival dell’orgoglio della Pennsylvania centrale. Intorno a loro, le pareti della stanza sono coperte di bandiere statunitensi.

Riuscire a fare cose in sé sbagliate in modi sbagliati per servire meglio le voglie della speculazione immobiliare e il diffuso razzismo. Di questo record d'insipienza morale e politica ci raccontano gli articoli di Carlo Lania, Luca Kocci e Rachele Gonnella. il manifesto, 27 agosto 2017
«SIAMO RIFUGIATI,
ABBIAMO DIRITTO
AD AVERE UNA CASA»
di Carlo Lanìa


La procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul presunto racketdegli affitti nello stabile di via Curtatone sgomberato giovedì dalle forzedell’ordine. Un’ipotesi che i rifugiati eritrei che occupavano una parte deisette piani dell’edificio che affaccia su piazza Indipendenza ieri hannorespinto con decisione. «Non pagavamo per poter dormire in una stanza, i soldiservivano per le ristrutturazioni e le pulizie», hanno spiegato in molti.

Dopo le cariche indiscriminate di tre giorni fa, quando sonostati svegliati dalla polizia e sgomberati a colpi di potenti getti d’acqua daigiardini dove dormivano da alcuni giorni, ieri per i rifugiati eritrei èarrivato il momento per un piccolo riscatto. Sono stati loro ad aprire la manifestazioneindetta dai movimenti della casa, e lo hanno fatto con un striscione con cuihanno voluto ricordare a tutti che loro sono «rifugiati e non terroristi». Piùdi cinquemila le persone che hanno partecipato al corteo che da piazzadell’Esquilino ha attraversato pacificamente il centro della città fino apiazza Madonna di Loreto dove i manifestanti hanno dato vita un sit in echiesto l’apertura di un tavolo sull’emergenza abitativa tra Regione, Comune eprefetto.

Ma al centro della manifestazione ieri sono stati i rifugiati divia Curtatone, diventati loro malgrado uno dei simboli delle molte occupazioniesistenti a Roma (secondo alcune stime oltre 90). «Vogliamo una casa, vogliamoun tetto, vogliamo la possibilità di poter mandare a scuola i nostri figli»,hanno gridato lungo via Cavour. Tra di loro anche una delle donne colpitegiovedì dal cannone ad acqua della polizia mentre cercava di recuperare vestitie documenti in piazza Indipendenza. «Gli ultimi episodi avvenuti nella capitaledimostrano il pieno fallimento delle politiche dell’accoglienza in Italia, dovesi ragiona solo per emergenze e in nome del profitto, generando mostri comequello di Mafia capitale», ha spiegato la «Coalizione internazionale deisans-papier».

Italiani e stranieri hanno sfilato insieme. Presenti tutte leprincipali realtà delle occupazioni capitoline, dai Blocchi precarimetropolitani al Coordinamento cittadino lotta per la casa. Nel corteo ancheuna delegazione delle 60 famiglie accampate nella basilica dei santi Apostoli:«La nostra colpa è la povertà», è la protesta affidata a uno striscione.

Dopo quello di via Curtatone in teoria nelle prossime settimane aRoma potrebbero esserci altri 15 sgomberi classificati come urgenti in unalista stilata sedici mesi fa dal prefetto Francesco Tronca, all’epocacommissario prefettizio della capitale, all’interno del «Piano di attuazionedel programma regionale per l’emergenza abitativa per Roma capitale». Sgomberiche, come indicò Tronca in una delibera, dovrebbero essere eseguiti solo «manmano che si renderanno disponibili gli alloggi per l’emergenza abitativa». Lastessa linea adottata ora dal Viminale che dopo gli scontri di giovedì invieràla prossima settimana ai prefetti unacircolare con le nuove linee guida per gli sgomberi, indicando come prioritarioil reperimento di abitazioni alternative prima di poter procedere con le forzedell’ordine. L’emergenza casa potrebbe però entrare anche nell’ordine delgiorno dei lavori del Campidoglio. Stefano Fassina, deputato e consiglierecomunale di Sinistra italiana, ha assicurato di voler chiedere alla conferenzadei capigruppo dell’assemblea capitolina di indire un consiglio comunalestraordinario per il piano casa.

«Qualcuno sta creandouna politica della paura ma non è questa la soluzione», ha detto ieri unaportavoce del movimento riferendosi a quanto accaduto nella capitale negliultimi giorni. L’esito della manifestazione dimostra che però è una politicache si può sconfiggere.

VIA CURTATONE, ILVATICANO:
«VIOLENZA INACCETABILE»
di Luca Kocci
«Migranti. Il segretario di Stato Parolin al meeting di Clesprime sconcerto e dolore per le immagini delle sgombero»
Le immagini dellosgombero dei migranti dallo stabile di via Curtatone e poi da piazzaIndipendenza a Roma «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattuttoper la violenza che si è manifestata, una violenza che non è accettabile danessuna parte». È quello che pensa il segretario di Stato vaticano cardinalePietro Parolin – il più stretto collaboratore di papa Francesco -, interpellatoa margine del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dove ieri èintervenuto sul tema «L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo».

A Roma, precisa ilcardinale, «c’era la possibilità di fare le cose bene, secondo le regole. Oraci sarà l’impegno a trovare delle abitazioni alternative per queste persone.Penso che se c’è buona volontà le soluzioni si trovano, senza arrivare amanifestazioni così spiacevoli». Certo, «ci si poteva pensare prima», rispondead una domanda, «perché soluzioni non mancano».

Se nel dialogoestemporaneo con i giornalisti Parolin cammina sul filo dell’equilibrio,durante il suo intervento all’interno dei padiglioni della kermesse ciellina ilcardinale è più netto. «Una parte non piccola del dibattito civile e politicodi questo periodo si è concentrata sul come difenderci dal migrante», dice ilsegretario di Stato vaticano. «Per la politica è doveroso mettere a puntoschemi alternativi a una migrazione massiccia e incontrollata. È doveroso stabilireun progetto che eviti disordini e infiltrazioni di violenti e disagi tra chiaccoglie. È giusto coinvolgere l’Europa, e non solo. È lungimirante affrontareil problema strutturale dello sviluppo dei popoli di provenienza dei migranti,che richiederà comunque decenni prima di dare frutto». Ma, aggiungerivolgendosi alla platea di Cl, «non dimentichiamo che queste donne, uomini ebambini sono in questo istante nostri fratelli. E questa parola traccia unadivisione netta tra coloro che riconoscono Dio nei poveri e nei bisognosi ecoloro che non lo riconoscono».

«Eppure – conclude, bacchettando i «cattolicidella domenica» – anche noi cristiani continuiamo a ragionare secondo unadivisione che è antropologicamente e teologicamente drammatica, che passa da un’loro’ come ’non noi’ e un ’noi’ come ’non loro’», mentre «abbiamo bisogno diricomprendere senza superficialità il tema della diversità, della suaricchezza, in un quadro di conoscenza e rispetto reciproci».

LO SGOMBERO E IL DESTINO
DEL PALAZZO DI VIA CURTATONE
di Rachele Gonnella


«Affari del mattone nella capitale. Mistero sul futurodell'edificio occupato dai rifugiati da quasi quattro anni»
Il palazzo da cuiesattamente una settimana fa la polizia ha cacciato i circa mille rifugiati –poi in parte accampati con donne e bambini nelle aiuole della sottostantepiazza Indipendenza e cacciati anche da lì con gli idranti tre giorni fa – èormai vuoto. O meglio, dei nove piani – più due sotterranei – dell’edificiorazionalista costruito negli anni cinquanta a non più di cento passi dalla stazionetermini resta vivo solo il supermercato al piano terra.

Attraverso le finestredella balconata rimaste aperte, da dove i bambini eritrei e etiopi sisporgevano durante il blitz per fare linguacce ai poliziotti «caritatevoli» chemanganellavano i loro parenti, ora entrano le cornacchie. E nessuno per ilmomento, neanche al i municipio, sa quale potrebbe essere la prossimadestinazione di quelle ampie metrature che un tempo ospitavano gli uffici della Federconsorzi.

Né si capisce l’urgenzadi quell’ordine di sgombero forzato in pieno agosto, cioè a ridossodell’apertura delle scuole, senza una effettiva e concordata alternativad’alloggio per tante famiglie, per lo più cattoliche, che abitavano là dentro.

L’occupazione andavaavanti dall’ottobre del 2013, e il decreto di sequestro preventivo per«invasione di terreni e edifici» – l’occupazione, appunto – è stato firmato dalgiudice il 1° dicembre di due anni dopo, quindi due anni e mezzo fa.

Di solleciti allaprefettura, per l’esecuzione dello sgombero forzato dei locali, da allora se nesono succeduti almeno tre.

Due solleciti da partedella proprietà risalgono all’inizio del 2016, quando poi all’interno delpalazzo un soprallugo dei vigili del fuoco portò al sequestro di unacinquantina di bombole di gas usate per preparare i pasti. Sempre in quelperiodo indagini della guardia costiera sui tabulati telefonici di sospettiscafisti portarono all’arresto di un paio di occupanti. Ma anche allora non siprocedette allo sgombero.

I dirigenti delsupermercato escludono che il palazzo sia ora stato messo in vendita, magariper sfruttare la ripresina del mercato immobiliare romano. «abbiamoristrutturato tutto solo un anno fa con un grosso investimento e il contrattod’affitto è appena stato rinnovato», dice l’addetto stampa che presidial’ingresso in giacca e cravatta, soddisfatto della cacciata deiclienti-occupanti e della presenza di due blindati dietro l’angolo.

Di certo la proprietà haavuto un danno dall’occupazione, calcolato in 240 mila euro l’anno di bolletteper acqua e luce – allacci che non si possono staccare in casi di primarianecessità come questi – e 575 mila euro di Imu e Tasi. Ma si tratta dispiccioli considerati volumi d’affari e plusvalenze miliardari dei proprietari:il fondo d’investimento omega, ossatura della holding idea fimit sgr, uncolosso finanziario nato per incamerare e mettere a reddito le grandi e spessoprestigiose proprietà immobiliari di banche (omega ha «in pancia» gli immobilidi intesa-s.paolo) o enti pubblici come Enasarco e Inps, diventato inbrevissimo tempo (dal 2008 al 20111, in piena crisi) primo playeritaliano di fondi immobiliari e quarto a livello europeo.

È una creatura dimassimo caputi, ingegnere civile che dall’azienda del padre onofrio, altroingegnere civile amico dell’«asfaltatore d’Abruzzo» Remo Gaspari a Chieti,diventato top manager dell’alta finanza real estate. Caputi, con moltemani in pasta – siede nei cda di Acea, Mps, Antonveneta – è un ex amico e oggi,vice presidente di Assoimmobiliare, concorrente di Caltagirone. E proprio conla ristrutturazione della vicina stazione termini ha avuto il suo trampolino dilancio.

Di recente è uscito daidea Fimit. Nel frattempo la «sua» creatura, tramite il fondo Alpha, è in balloper affittare due grossi edifici a Massimina, periferia nordovest dellacapitale, come hub per immigrati. I fili del destino tra l’1% e gli ultimi delrestante 99% talvolta si intrecciano.
«Prefettura e Campidoglio non sapevano quanti fossero i profughi. Soluzioni solo per 103: “Così famiglie divise”. Le pressioni della proprietà. I 700 in strada».Secondo il Palazzo chi non è "fragile" non ha bisogno di un tetto.

il Fatto quotidiano, 26 agosto 2017


Alla fine rimane la strada. La risposta per i 700 rifugiati – forse 800 secondo altre fonti, forse di più – che ora vagano dopo il doppio sgombero di piazza Indipendenza a Roma si ferma alla lista dei “salvati”. Sono 104 i nomi nell’elenco che la Prefettura di Roma ha consegnato al Campidoglio, con le situazioni ritenute di “fragilità”. Ovvero ammalati, disabili, famiglie con bambini. Le possibili soluzioni sul tavolo – in un caos di rimpalli e scaricabarile – riguardano solo queste persone. Per tutti gli altri nessun diritto e neppure sistemazioni temporanee. Quando si è riunito il Comitato per l’ordine pubblico non sapevano neanche quanti fossero, da tempo la polizia non metteva piede in quel palazzo.

La storia di via Curtatone inizia il 19 agosto, quando la Questura avvia l’espulsione degli occupanti. L’edificio, occupato da quattro anni, era già stato sottoposto a sequestro preventivo da parte del Tribunale e ospitava per lo più rifugiati eritrei ed etiopi. Dopo l’operazione di polizia una task force composta dai servizi sociali del Comune di Roma, dall’ufficio minori del commissariato e dalla proprietà – citata in un comunicato ufficiale della Questura, ma che non è chiaro a che titolo partecipasse alla task force – ha avviato un censimento degli occupanti, con l’obiettivo di individuare i soggetti fragili, ovvero chi, secondo la legge, aveva diritto di ricevere una assistenza, anche abitativa. Un primo elemento anomalo è l’inserimento solo in epoca recente dello stabile nella short list degli sgomberi urgenti. È di proprietà di un importante fondo finanziario che evidentemente è stato capace di far valere le proprie ragioni assai più di numerosi privati che pagano le spese per gli stabili occupati a Roma.

Per cinque giorni, dopo lo sgombero di sabato scorso, i rifugiati rimangono in attesa di una risposta accampandosi, in parte, nei giardini di piazza Indipendenza, a due passi dalla stazione Termini, davanti al Consiglio superiore della magistratura, in una Roma ancora semivuota. Il 23 agosto, ovvero quattro giorni dopo la prima azione di sgombero, si riunisce il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per discutere sul caso, poche ore dopo un primo tentativo di allontanamento dei rifugiati dalla piazza operato dalla polizia.

In un documento firmato dal gestore dell’immobile, la società romana Sea Srl, e dall’assessore alle politiche abitative della giunta capitolina Rosalia Alba Castiglione, datato 24 agosto, si legge: “In data 23 agosto 2017, in sede di comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico, è emersa la necessità di intervento anche dell’Amministrazione capitolina atta a garantire l’accoglienza ricettiva per evitare problematiche di ordine pubblico e sanitarie”.

Sarebbe toccato al Comune, ma era di fatto impossibile risolvere l’emergenza in poche ore e le cariche del 24 mattina hanno fatto precipitare tutto. E dal Campidoglio fanno sapere che in realtà la Prefettura ha chiesto di trovare una soluzione solo per i 104 inseriti in una lista consegnata dopo il primo sgombero. Tutti gli altri? Nessuno sa neanche quanti siano. È la lista dei sommersi, degli invisibili. “Un’operazione di cleaning”, ovvero di pulizia, come ha detto al Corriere della Sera il prefetto di Roma Paola Basilone, che passa la palla alla giunta Raggi. La sindaca, da parte sua, replica che “la Prefettura nei dati che ci ha comunicato il giorno dello sgombero non ha citato la presenza di 37 bambini. Siamo stati avvisati dello sgombero – ha scritto su Facebook – a poco più di 12 ore dall’inizio” e ha attaccato la Regione Lazio “che ha disatteso il decreto legge Minniti che la chiama direttamente in causa” e denunciato “l’assenza di adeguate politiche nazionali”. “Un vergognoso scaricabarile”, attacca la sindaca.

Sono le 6 di mattina di giovedì 24 agosto. Tutti i rifugiati interpellati dal Fatto Quotidiano raccontano la stessa versione: “Siamo stati svegliati dagli idranti”. Parlano di cariche dure, mostrano i lividi, raccontano frasi inquietanti – “Siete come topi, andatevene” – che però non trovano conferma. La Questura anzi ribadisce che la resistenza è stata violenta, con lancio di sassi, bottiglie e di almeno una bombola di gas. Quattro i fermi.

Poche ore dopo una telecamera inquadra un funzionario di polizia, Francesco Zerilli, dirigente del primo commissariato di Roma, Trevi-Campo Marzio, mentre dirigeva una carica. Si sente la frase: “Se tirano qualcosa spaccategli un braccio”. Già in serata la questura annuncia l’avvio di accertamenti, la preistruttoria disciplinare è aperta e il dirigente, se i fatti saranno confermati, potrebbe perdere l’incarico. “Non è un violento”, lo difendono i colleghi. Ma è lo stesso dirigente che nel 2014 guidò le cariche che provocarono diversi feriti, sempre a Roma in piazza Indipendenza, tra gli operai della Thyssenkrupp. Con lui si scontrò verbalmente l’allora leader della Fiom Maurizio Landini.

Il giorno dopo gli scontri la situazione è ancora più drammatica. Le case promesse dalla proprietà ai 103 sono in realtà sei villini da 90 metri quadri (due camere da letto), in mezzo alla campagna della provincia di Rieti, a decine di chilometri dalle scuole frequentate dai bambini. Ai nuclei familiari il Comune aveva offerto posti in case famiglia, ma spesso separando genitori e figli. “Volevano mandare la madre con il figlio da una parte e il padre in un’altra zona di Roma, per questo non abbiamo accettato”. Dormono alla stazione Termini o accolti dalla solidarietà del centro Baobab della stazione Tiburtina: “Ora vorremmo andarcene dall’Italia, ma non possiamo”. Un rifugiato registrato e riconosciuto può rimanere solo qui.

La denuncia dell'inazione della sindaca di Roma di fronte al problema dei senza casa cacciati con la forza e le proposte inascoltate di un suo ex collaboratore.

il manifesto, 26 agosto 2017
Le città vivono di avvenimenti simbolici che restano negli anni a venire. I due sgomberi del palazzo e dei giardini di piazza Indipendenza resteranno come una macchia indelebile sull’amministrazione Raggi. Nei quattro giorni drammatici vissuti dalla comunità di rifugiati non si è affacciato né il sindaco né il suo vice, un atteggiamento che dimostra una intollerabile insensibilità sociale. La giunta che doveva riscattare la città dalla vergogna di mafia capitale si è asserragliata nel palazzo Senatorio e occupa il suo tempo a consultare Genova o Milano per avere lumi. Possiamo suggerire di tentare di trovare un nome cui affidare il ruolo di Capo di gabinetto visto che è un anno preciso che fu sfiduciata Carla Raineri e da allora manca il garante della correttezza amministrativa degli atti comunali. Non era mai avvenuto prima.

E passando dal dramma alla farsa ecco le dichiarazioni del vicepresidente della Camera Di Maio che ha addirittura teorizzato la priorità dell’impegno del sindaco Raggi verso i romani, al di là dei quali ci sono evidentemente soltanto leoni. Per un movimento che voleva cambiare la cultura politica italiana non c’è male. Il peggio seguirà.

Se mancava la città capitale, a piazza Indipendenza c’era però lo Stato. Quello con il volto meraviglioso del poliziotto che consola la donna disperata e quello del prefetto Gabrielli che accusa della mancata utilizzazione del finanziamento di 130 milioni conquistato con fatica negli anni scorsi per risolvere i problemi dei senza tetto. Su queste stesse pagine avevamo dato atto del suo lavoro quando era prefetto di Roma. Resta il fatto scandaloso che quei soldi non siano stati ancora spesi per responsabilità dell’amministrazione comunale.

È la prima volta che vinco il riserbo cui mi ero finora attenuto, ma dopo aver assistito a tre sgomberi avevo redatto e consegnato al sindaco e ai membri della giunta un progetto dal titolo «Un tetto per tutti» in cui tentavo di fornire un quadro di obiettivi per risolvere il problema delle occupazioni in atto a Roma.
- Il primo era nel riuso delle caserme abbandonate.
- Il secondo stava nella costruzione su aree pubbliche di piccole dimensioni comunali o dell’Ater (duemila metri quadrati) di edifici da assegnare a senza tetto. I 130 milioni di Gabrielli non erano certo sufficienti ma la bravura di una amministrazione si misura anche nella capacità di strappare risorse. Questa proposta fu in particolare contestata dalla stessa Raggi che mi ricordò che i 5Stelle erano contro il consumo di suolo. Su un altro tavolo erano però favorevoli allo stadio della Roma che prevedeva cemento su 20 ettari (cento volte di più!) solo di parcheggi.
- La terza stava nella piena utilizzazione del patrimonio pubblico spesso abbandonato o occupato da famiglie senza titolo.
- La quarta stava nella legalizzazione di alcune delle occupazioni in atto perché la proprietà privata deve essere certo rispettata ma all’interno di quanto previsto dalla nostra Costituzione.

L’elenco era più ampio, ma ciò che preme sottolineare è il fatto che a Roma ha vinto l’insensibilità sociale e il disprezzo per le condizioni della parte più sfavorita della società.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Con l’inerzia e i silenzi si avalla l’altro volto dello Stato, quello del ministro Minniti che sta riducendo il gigantesco problema dell’integrazione degli immigrati alla sola chiave securitaria: così si smarrisce il senso della comunità urbana e si dà anche voce all’istigazione alla violenza del dirigente filmato alla stazione Termini.

Rigurgiti razzisti anche a Pistoia. Bersaglio: il parroco che porta gli immigrati in piscina. La Diocesi lo difende, i razzisti si arrabbiano.

l'Avvenire, 24 agosto 2017
«Forza Nuova: "Sotto esame la cattolicità del parroco". Il vescovo Tardelli: spero si voglia scherzare. E manda il vicario generale a celebrare la Messa, con don Biancalani: una tutela, non una resa»

Diocesi in campo per evitare di trasformare la Messa in un terreno di scontro politico. E per proteggere, insieme alla sua comunità, un parroco coraggioso che talvolta non sa trattenersi dall’accompagnare con qualche considerazione un po’ colorita i suoi slanci solidali. Succede a Pistoia, dove da giorni si discute sulla decisione di don Massimo Biancalani, parroco di Santa Maria Maggiore in Vicofaro. La sua scelta di accompagnare in piscina un gruppo di quindici immigrati al termine di una giornata di lavoro, è diventata un caso nazionale.

Ha tuonato la Lega, Forza Nuova ha addirittura minacciato di verificare direttamente l’ortodossia del sacerdote durante la Messa domenicale. E il vescovo Fausto Tardelli, giustamente, si è indignato. Così, per tutelare il parroco e far sentire alla comunità la presenza della diocesi, domani la celebrazione festiva delle 11 sarà presieduta dal vicario generale don Patrizio Fabbri.

Nessuna "resa", come qualcuno ha sintetizzato in modo sbilenco. Nessuna volontà di esautorare il parroco. Anche perché don Biancalani sarà presente, concelebrerà e terrà l’omelia. Ma con il supporto autorevole del vicario che – ripetiamolo – non significa commissariamento ma vicinanza fraterna e supporto umano nel caso in cui, prima o dopo la celebrazione – Dio non voglia durante – si dovesse verificare qualche episodio spiacevole.

Purtroppo è già annunciata anche una cospicua presenza di forze dell’ordine. Purtroppo non tanto per l’impegno della polizia, che come sempre farà il suo dovere, ma perché quando una celebrazione eucaristica dev’essere protetta con uno schieramento di agenti significa che qualcosa si è inceppato.

E in questa vicenda sembra davvero che troppi sassolini siano andati a finire tra gli ingranaggi. A Pistoia, don Biancalani è conosciuto e apprezzato. Sempre in prima linea in tutte le emergenze sociali, sempre pronto a schierarsi per gli ultimi. Nella sua parrocchia, grazie al lavoro dell’associazione "Virgilio" che opera in sintonia con la Caritas diocesana, ospita una decina di giovani immigrati. Qualche anno fa non aveva avuto esitazioni ad avviare iniziative pastorali per gli omosessuali e le persone lgbt. E spesso accoglie e aiuta anche bambini rom. Proposte che, è facile immaginarlo, finiscono per risultare un po’ indigeste a coloro che guardano con sospetto a tutti gli slanci di radicalità evangelica. Soprattutto quando questa radicalità si rivolge a gruppi, etnie e situazioni "periferiche".

Certo, don Massimo non è l’unico sacerdote pistoiese schierato con i poveri e i rifugiati. La diocesi accoglie complessivamente circa 130 immigrati che fanno capo ai progetti Sprar e al centro per l’accoglienza rifugiati. Sono coinvolte alcune parrocchie con le rispettive associazioni e soprattutto una casa diocesana a Lizzano in Belvedere, sulle colline pistoiesi, che ospita una quarantina di immigrati. Perché allora questo accanimento contro il parroco di Vicofaro? Qualcuno ritiene che a Pistoia, con la nuova giunta di centrodestra presieduta dal sindaco Alessandro Tomasi (Fratelli d’Italia) il clima sia cambiato. Anche se ieri il sindaco ha detto di concordare pienamente con il vescovo.

Ma c’è anche chi pensa che a don Biancalani, da buon toscanaccio, sia scappata un’espressione un po’ borderline. L’altro giorno, quando ha postato su Facebook le immagini dei suoi immigrati in piscina – volti sorridenti di ragazzi che sembravano aver già conquistato una fetta di paradiso – ha aggiunto una didascalia un po’ provocatoria: «Loro sono la mia patria, razzisti e fascisti i miei nemici». Poteva risparmiarsela? Forse sì. Fatto sta che Forza Nuova è partita all’attacco: «Vigileremo durante la Messa sull’effettiva dottrina del prete». Minaccia che sarebbe ridicola, se non fosse anche fastidiosa. E in ogni caso sproporzionata rispetto all’uscita di don Biancalani, che è comunque uomo che opera per il bene.

« il manifesto, 26 agosto 2017

La notizia del progetto di accoglienza di Riace, messo in crisi da interpretazioni burocratiche sulla validità dei bonus o delle borse lavoro (fino a ieri accettate), è calata come una mannaia. Da un anno gli operatori non vengono pagati, così come gli affitti e i fornitori. Il sistema regge grazie ad una economia di sostegno davvero solidale che sta facendo miracoli. Non è il primo progetto che vede gli stessi operatori mettere mano ai propri risparmi per anticipare il pocket money ai richiedenti asilo. Era il luglio 2012 quando, sempre il sindaco Domenico Lucano aveva iniziato uno sciopero della fame e appeso la fascia tricolore al chiodo, simbolo di una resa, perché stretti dalla morsa dei ritardi questa volta imputati alla Protezione Civile. Si può capire dunque la stanchezza che gli ha fatto dire “Basta chiudiamo tutto”. E qui è partito un tam tam lanciato dalla Rete dei comuni solidali, una raccolta firme per attivare quel mondo che si riconosce in Riace che lo ha eletto come simbolo.

Nonostante la settimana di ferragosto stiamo registrando una risposta forte. Amministratori, pensionati, giornalisti, studenti, il mondo dell’associazionismo, le cooperative che lavorano per i progetti Sprar, persone dello spettacolo, scrittori, docenti universitari. Deputati, europarlamentari. Ma anche molti magistrati, il Comitato esecutivo di Magistratura Democratica e molti giudici a titolo personale da Genova a Pescara, Padova, Firenze Ravenna, Trapani, Sassari. C’è l’operaio tessile di Biella, il farmacista di Pontedera, il grafico di Andria, l’artigiana di Ladispoli, la casalinga di Quartu Sant’Elena. L’Agesci, l’Anpi, la Scuola di Pace di Boves, la neo segretaria della Fiom il comitato della Terra dei Fuochi, lo Spi Cgil di Reggio. Un mondo che si è mosso, consapevole che una firma vale poco, eppure la voglia di metterla per dare almeno un segnale e non essere allineati sul punto più basso della Storia.

Non è proibito essere sindaci ed essere anche gradassi e ignoranti. Come il sindaco di Venezia, che ha dichiarato che se sentisse qualcuno gridare a Piazza San Marco "Dio è grandissimo" in lingua araba lo abbatterebbe in tre passi.

la Nuova Venezia, 24 agosto 2017

RIMINI. «Dobbiamo battere qui in Italia il terrorismo, stiamo alzando le difese, e io dico che se qualcuno si mette a correre in Piazza San Marco gridando 'Allah Akbar' in tre passi lo abbattiamo». Imprevedibile come sempre il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha lanciato questa provocazione parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, a un convegno sulla demografia, riportato dall'agenzia Agi.

Dopo gli attentati di Barcellona e in Finlandia il questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi, spiega: «Eravamo pronti da una settimana». Apparecchiature speciali per garantire la sicurezza di centinaia di star e personalità che affolleranno il Lido durante la kermesse

Gli ha risposto il sindaco di Rimini , Andrea Gnassi, ironizzando: "suggerirò ai romagnoli di non cantare 'Romagna Mia' in San Marco, perchè non si sa mai, anche se non sono sicuro di aver ben capito l'intervento di Brugnaro perchè l'ha fatto per metà in veneto".

Un intervento che ha destato ilarità e un po’ di preoccupazione, visti i tempi, tra gli addetti ai lavori: quasi una sfida alla vigilia degli importanti appuntamenti (Mostra del Cinema e visita del Presidente della Repubblica) che tra pochissimi giorni vedranno arrivare a Venezia centinaia di personalità da tutto il mondo.

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