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Da quando morì Enrico mi sono sempre astenuto dal commentare i giudizi politici e personali, anche i più aspri, espressi sul suo operato. A questo mi ha indotto, forse più che l’ovvio riserbo, il percepire che ci sono tuttora verso di lui (anche da parte dei giovani) stima e affetto diffusi, non scalfiti dalle critiche e dal passare del tempo.

Mi sono anche astenuto dall’intervenire sui nodi più discussi del suo impegno alla guida del Pci, come il passaggio del compromesso storico da strategia nazionale ad accordo di governo con la Dc, come la rottura coraggiosa ma incompiuta con il comunismo, come le aspre polemiche che hanno diviso il Pci dal Psi di Craxi: temi che suscitano interrogativi importanti per la storia come pure per le nostre prospettive odierne.

Non riesco a tacere, tuttavia, il senso di dolore personale e più ancora di sconcerto politico che mi è venuto dalla lettura di alcune pagine-chiave del libro di Piero Fassino "Per passione", che è un'autobiografia dignitosa e stimolante e un'utile fonte di analisi sociale e politica di Torino e dell'Italia.

Anch'io ho passione, e cito perciò una sua metafora che mi ha fatto rabbrividire. Il contesto è così descritto nel libro (pp. 156-161): da un lato Craxi, il quale "interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia" e quindi "una gran voglia di modernizzazione", e dall'altra un Pci "che di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi ai richiami del passato e si esilia in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola". La sorte, evidentemente, è segnata, e Fassino sprigiona così la sua fantasia descrittiva: "Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai da molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l'avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l'altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l'impatto con la crisi della sua strategia politica".

Un uomo fortunato, quindi, per quel che gli è accaduto tempestivamente a Padova. Non commento il carattere lugubre e macabro della metafora, poiché ciò spetta ai lettori, forse meno di me emotivamente coinvolti. Sul piano politico, però, unendo passione e ragione (e concordando ovviamente sul carattere negativo della rottura avvenuta allora nella sinistra e sulle reciproche responsabilità), è doveroso porsi due domande.

Una riguarda la partita in gioco: è proprio vero che lo scacco matto era imminente, e che non c'era altra via di uscita? La mia impressione è che, sebbene Craxi segnò punti a favore subito dopo la scomparsa di Enrico, come il referendum sulla scala mobile (avviato, come riconosce Fassino, tra molte esitazioni dei nostri dirigenti), negli anni successivi cominciò il declino della sua politica, che si concluse poi drammaticamente con il danno maggiore: la scomparsa del Psi. In quegli anni furono avviate invece, con grande travaglio, le successive trasformazioni del nostro partito, che pur con perdite e affanni mantiene un ruolo sostanziale nella sinistra italiana. Forse, ciò è accaduto anche perché nei decenni precedenti non abbiamo compiuto soltanto "la traversata del deserto", ma anche una costruzione democratica di rapporti sociali diffusi, e perché continuità e discontinuità (quando dalle due abbiamo scelto il meglio!) hanno contribuito entrambe a salvare e trasformare (in modo ancora insufficiente) questo partito.

L'altra domanda coinvolge giudizi politici su quel tempo, e ancor più sulle scelte che si stanno compiendo oggi: è proprio vero che Craxi era modernizzante e Berlinguer passatista? E come collocarsi ora, quando le coordinate degli anni ottanta e novanta risultano in gran parte superate?

Nel Psi, intuizioni e intenzioni moderniste ci furono certamente, come la Conferenza programmatica del 1982 che nelle idee di Martelli volle coniugare "meriti e bisogni". Nei Congressi del Psi l'arredamento diventò avveniristico, il "made in Italy" fu propagandato nel mondo, soprattutto nel campo della moda, e le televisioni moltiplicate e accaparrate. Ma scienza e scuola ristagnarono e l'innovazione tecnologica progredì scarsamente. Le istituzioni più che riformate furono occupate, poste al servizio di gruppi e partiti e spesso corrotte. Non sta a me ricordare, per contro, che come risultato di un confronto politico asperrimo Enrico percepiva e soffriva il rischio di un isolamento (anche interno) e più ancora di una stagnazione delle idee. Dopo aver sollevato la questione morale, intesa non nel senso giudiziario bensì come riforma dei partiti e della politica (1981) e dopo lo strappo con il sistema sovietico (1982) Enrico negli ultimi anni ha riproposto con slancio il tema dello sviluppo sostenibile e del governo mondiale, il ruolo della scienza e della tecnologia, la questione dell'etica pubblica.

Tali questioni hanno assunto con la crisi del neoliberismo, dell'assetto culturale caratterizzato dal "pensiero unico" e ora del dominio di un solo paese, una priorità programmatica pregnante e urgente. Nel nostro passato, più che in altre esperienze che si vorrebbero riproporre come modelli, ci sono tracce da seguire, e nel nostro futuro ci deve essere più coraggio e più innovazione. Anch'io ripeterei volentieri la formula fassiniana "modernizzazione più diritti", se cercassimo insieme di darle qualche contenuto unitario, costruttivo e mobilitante.

Nell' ultimo quarto di secolo agirono sulla scena politica due personaggi di rilievo, Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer. Sarebbe stato un bene per la sinistra se fossero andati d' accordo. Invece si fecero la guerra. Di chi la colpa ? Scrive Piero Fassino, segretario dei Ds, nel libro autobiografico Per passione uscito in questi giorni, e di cui già si è occupata Repubblica: «A ben vedere la sinistra, lungo tutto il Novecento, è stata minata da un "male oscuro": la pretesa di ciascuno dei suoi due massimi partiti di volerla da solo rappresentare tutta, scommettendo sulla sconfitta e sulla sparizione dell' altro. Una maledizione che segna il conflitto Berlinguer-Craxi. Nel ' 75-76 è il Pci, forte di una straordinaria avanzata elettorale, a scommettere su una bipolarizzazione del sistema politico che gli assegni la rappresentanza della sinistra, relegando il Psi a forza residuale. Una scommessa perduta, come si incaricheranno di dimostrare gli eventi successivi». Colpa di Berlinguer, dunque, che in quella fase non seppe istituire una collaborazione efficace coi socialisti? Così è stato interpretato il giudizio di Fassino. Ma in questo suo giudizio manca, a mio avviso, un anello essenziale. Craxi gode in questi giorni di buona stampa. Se la merita? Certo colpì la fantasia di tante persone, come leader del partito, perché era, in una fauna politica piuttosto addomesticata, l' unico animale da preda: dotato di una personalità forte, coraggioso e spregiudicato, capace di decidere. Quanto alle sue singole azioni di governo, ve ne furono di buone e di cattive. Giusto l' intervento sulla scala mobile; criticabili le simpatie per gli argentini nello scontro per le Maldive; discutibile Sigonella, l' episodio in cui mostrò indipendenza di fronte agli americani, ma permise la fuga di un terrorista. Si dice di lui che capì la necessità di "modernizzare" l' Italia, sebbene fosse contrario alle privatizzazioni. Se tuttavia è giusto giudicare un uomo politico, pragmaticamente, dal risultato finale, il suo risultato fu pessimo: prese in mano il partito socialista e lo distrusse. Ma non è questa la sede per giudicare il personaggio. Il tema è un altro: la collaborazione fra socialisti e comunisti, il rapporto con Berlinguer. E qui si dimentica troppo spesso un ostacolo decisivo: la questione morale. Il partito socialista, come si è poi ampiamente dimostrato, era un partito corrotto, e non mi riferisco solo ai finanziamenti illeciti, di cui erano colpevoli, quale più quale meno, anche gli altri partiti. Ricordo di avere incontrato per caso Flaminio Piccoli, in piazza Montecitorio, ai primi tempi del centrosinistra. Piccoli era un uomo schietto. «Anche noi - mi disse, e si riferiva ai democristiani - avremo le nostre colpe, non lo nego; ma questi altri - e si riferiva ai socialisti - da quando si sono avvicinati al potere, hanno una fame, una fame~». Era scandalizzato, perfino lui. In Italia si è riluttanti, pudicamente, a parlare di certe cose, ma non possiamo dimenticare che Bettino Craxi, il grande modernizzatore della repubblica, affidava a questo o a quello, per esempio al proprietario di un bar di Portofino, miliardi e miliardi, come risulta da documenti giudiziari, con l' incarico di trafugarli all' estero e di cancellare in modo assoluto la loro provenienza. Berlinguer era fatto di un' altra pasta. Fece della questione morale una bandiera del suo partito, e ci credeva. Parlava della "diversità" dei comunisti, e si riferiva anche a faccende di questo genere. Ma la modesta sensibilità etica di questo nostro paese non dà grande importanza all' onestà, che è considerata una variabile indipendente, una questione privata: se c' è tanto meglio, se non c' è pazienza. Fassino, che aveva con Berlinguer grande familiarità, non menziona questo aspetto del problema; ma io sono convinto che la questione morale (più semplicemente l' onestà, se preferite) fu uno degli elementi che indussero Berlinguer a evitare ogni tentativo di collaborazione profonda con quel partito socialista. Di Berlinguer uomo politico si possono dire tante cose, gli si possono rivolgere molte critiche. Il suo distacco dall' Unione sovietica fu forse troppo lento, troppo timido. La sua proposta del compromesso storico fallì, e comunque, se avesse avuto successo, non avrebbe giovato al paese. Anche se capiva il valore della libertà, non si staccò mai del tutto, intellettualmente, dal comunismo inteso come teoria; forse può essere paragonato, sotto questo aspetto, a Gorbaciov, che a sua volta non cessò mai di essere comunista nel profondo dell' animo, e quindi anticapitalista; è probabile che fallirono anche per questo, l' uno e l' altro. Resta da vedere se le circostanze avrebbero permesso, all' uno e all' altro, una politica diversa. Ma è pur sempre vero che in materia di onestà personale Enrico Berlinguer aveva le idee chiare. E per questa ragione mi è rimasto, nel ricordo, molto simpatico.

Ho notizia che nei prossimi giorni, per iniziativa della Fondazione «Italiani e Europei» presieduta da Massimo D'Alema e da Giuliano Amato, si svolgerà un convegno sul craxismo al quale interverranno Stefania Craxi, Rino Formica, Gianni De Michelis, lo storico Sabatucci, oltre agli esponenti della predetta Fondazione e al segretario dei Ds, Piero Fassino. L'obiettivo del convegno, se ho capito bene, è una rivalutazione dell'opera politica di Bettino Craxi e di quelli che all'epoca furono i suoi principali collaboratori politici.
Implicitamente, ma abbastanza chiaramente, un siffatto intendimento porterà ad una critica della politica di Enrico Berlinguer e quindi di tutto il gruppo dirigente dell'allora Pci, del resto già anticipato nel libro autobiografico recentemente pubblicato da Fassino.
Considero radicalmente sbagliata un'iniziativa del genere. E Lei

?

GIOVANNI MOLTENI Milano

Debbo pensare, gentile signor Molteni, che la domanda con cui lei conclude la sua lettera sia, come si dice, retorica, nel senso che lei conosce già la risposta se legge abitualmente . In effetti io penso che un dibattito sul craxismo sia del tutto inutile poiché è ininterrottamente, ampiamente e liberamente avvenuto a partire dai primi anni Ottanta fino ad oggi. C'è ancora da scoprire qualcosa di nuovo in punto di fatto? Non direi.

Allora a che cosa serve? Forse a un'operazione battezzata magari come revisionistica ma in realtà di pura marca trasformista? Ho fondate ragioni per rispondere affermativamente a questa domanda, e mi spiego.

Bettino Craxi sostenne, nel corso della sua attività politica, parecchie tesi ampiamente condivisibili. Per esempio, e fin dai tempi in cui militava nella corrente nenniana del Psi, si batté per l'autonomia del Psi dal Pci dopo la fase del frontismo e della compromissione filosovietica del partito di Nenni. Si batté per la modernizzazione dell'economia. Si batté per la riforma di alcuni punti importanti della Costituzione riguardanti la forma di governo e la sua stabilità. Si batté per costruire una posizione socialista che non fosse necessariamente a rimorchio del Pci o della Dc.

Si batté. Ne ebbe, diciamo così, la visione strategica. Ma poi bisognava trovare i mezzi acconci - da lui ritenuti acconci - per realizzare i suddetti fini. E i mezzi furono l'esercizio sempre più spregiudicato del potere e l'occupazione delle istituzioni piegate a strumenti per conservare e accrescere il potere.

Ma poiché il potere è pur sempre insidiabile e insidiato e dunque precario e reversibile per definizione, specie in regimi di democrazia liberale, la sana ricerca della stabílità si deforma molto spesso in tendenza all'autoritarismo.

Così avvenne almeno in parte per il craxismo, il quale cominciò a pretendere che sia i capi dei grandi enti pubblici, sia i dirigenti della Pubblica amministrazione, sia i banchieri, sia gli imprenditori privati inalberassero una bandiera di appartenenza e riconoscimento.

La Dc e gli altri partiti della costellazione di governo non avevano certo bisogno di lezioni per muoversi sul terreno del potere, ma non c'è dubbio che la spregiudicatezza craxiana servì di giustificazione e di esempio emulativo; le pratiche già presenti negli anni Settanta, negli Ottanta divennero canone ed entrarono a far parte d'una sorta di costituzione materiale dell'illecito.

Il Partito socialista smarrì la strategia dei fini e eresse a strategia quella che era stata la tattica dei mezzi. I mezzi cioè diventarono fini con lo stesso processo degenerativo che nella Dc aveva portato al vertice del partito la corrente dorotea. Il famigerato Caf (Craxi Andreotti Forlani) fu il coronamento finale del sistema prima dell'esplosione dei referendum e di Tangentopoli.

Quando Enrico Berlinguer parlava con accenti di autentica disperazione di una sorta di mutazione genetica che si era prodotta nel Partito socialista, aveva sotto gli occhi questa fenomenologia che qualcuno con molta ipocrisia chiamò modernizzazione ma che nella realtà fu corruttela omertosa. Purtroppo, nella parte finale della gestione berlingueriana e dopo di essa, quell'omertà coinvolse in qualche misura anche il Pci.

Queste, signor Molteni, non sono opinioni ma fatti e percorsi accertati nella loro fattispecie concreta. E sono anche altrettanti corpi di reato provati dinanzi a tutti i gradi della giurisdizione.

Aggiungo ancora che l'impero mediatico di Berlusconi e il gigantesco suo conflitto di interessi nacquero da una costola dei craxismo e del doroteismo, dai quali hanno ereditato i metodi e anche i voti.

Immagino che D'Alema e Fassino abbiamo ben presenti questi fatti. Tanto più inspiegabili risultano dunque le iniziative prese per rivalutare un periodo e un gruppo politico al quale si deve in notevole misura non solo ciò che accadde allora ma anche ciò che è accaduto dopo e che tuttora incombe sulle sorti del Paese e sul suo livello di moralità pubblica.

L'ULTIMO BERLINGUER Giuseppe Chiarante

La politica dell’ultimo Berlinguer (il Berlinguer dell’alternativa democratica della questione morale, del rinnovamento dei partiti e della politica per costruire la prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sull’austerità e sulla collaborazione fra i popoli del Nord e del Sud del mondo) non nasce dalla presa di coscienza dell’esito deludente – ed anzi decisamente fallimentare dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – della politica prima del compromesso e poi della solidarietà nazionale praticata durante gli anni settanta. Certo, anche quella presa di coscienza esercitò il suo peso: pesò in particolare l’avvertimento che , mentre la ricerca di un’intesa con le forze migliori del mondo cattolico aveva portato il PCI ai successi elettorali del ’75 e del ’76, la successiva politica di astensione verso il governo monocolore presieduto da Andreotti aveva deluso profondamente la domanda di riforme e di cambiamenti che si esprimeva in quei successi.

Il passaggio alla politica dell’alternativa, dopo il ritorno all’opposizione nel gennaio 1979, non derivò però soltanto dalla delusione per l’esperienza della solidarietà nazionale e dal desiderio di consolidare un radicamento sociale in qualche misura incrinato. Ciò che spinse Enrico Berlinguer fu un’acuta sensibilità – che in lui fu chiara prima che in tanti altri dirigenti del suo stesso partito – per la grave svolta regressiva che sul finire degli anni settanta cominciava a realizzarsi, così sul piano strutturale e istituzionale come negli orientamenti culturali e di fondo, tanto in Italia come negli altri paesi dell’Occidente. A distanza di più di vent’anni appare oggi più chiaro che è quello il momento in cui l’economia capitalistica, dopo la crisi e l’incertezza degli anni settanta, dà avvio a un processo di ristrutturazione e di rilancio che si fonda sulle possibilità aperte dalla rivoluzione informatica e dalla crescente mondializzazione dei processi produttivi e che si avvale di queste possibilità per mettere in discussione i diritti conquistati dai lavoratori con lo stato sociale e per tornare ad affermare un uso flessibile del lavoro come strumento di produzione. A questa svolta in campo economico si accompagna una linea politico-istituzionale che punta sulla restrizione e non più sull’allargamento della partecipazione e della democrazia, sull’affermazione di forme di governo di tipo decisionistico, sulla riduzione della spesa sociale e sulla compressione dei livelli salariali (l’attacco di Craxi alla scala mobile), sull’intreccio sempre più palese fra interessi economici anche personali e uso spregiudicato dei poteri di governo.

Berlinguer comprese con chiarezza che l’indirizzo così prescelto non rispondeva a una generica istanza di “modernizzazione” (come molti dissero anche a sinistra, allora e soprattutto dopo): ma comportava pericoli gravi per una democrazia concepita come effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni, apriva la strada a un sistema di malgoverno fondato sul dilagare della corruzione e del clientelismo, portava a un inasprimento delle ingiustizie e delle disuguaglianze così all’interno di un singolo paese quale l’Italia come fra il Nord e il Sud del mondo. In questo Berlinguer aveva pienamente ragione: di qui la sua battaglia per un’alternativa fondata su un rinnovamento della politica inteso come apertura alla società e soprattutto alle istanze dei nuovi movimenti; sulla centralità assegnata alla questione sociale come preminenza nel governo della cosa pubblica dell’interesse generale sugli interessi di parte; sulla difesa dello stato sociale, sulla lotta per la pace e contro la corsa agli armamenti, sulla ricerca di un’intesa con la parte migliore della sinistra europea (Brandt, Palme) per costruire un rapporto di cooperazione fra Europa e Sud del mondo. Di qui la sua prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sul principio dell’austerità, da lui già affermato nel 1977, nel pieno della crisi economica degli anni settanta: cioè uno sviluppo basato su un uso sobrio e razionale delle risorse e sulla lotta alle mille forme di dissipazione e di spreco, al fine di difendere la spesa sociale e i diritti salariali, di rispettare la natura e l’ambiente, di stabilire equi supporti così fra tutti i popoli come fra le donne e gli uomini di tutto il mondo.

La lotta condotta su queste basi (ricordo in particolare le grandi campagne sulla scala mobile, sulla questione morale, per l’occupazione, contro gli euromissili) segnarono un forte rilancio dell’iniziativa del PCI tanto da consentire, alle elezioni europee che si tennero subito dopo la morte di Berlinguer, la sua affermazione come primo partito superando anche la Democrazia cristiana. Ma l’improvvisa morte di Berlinguer troncò questo rilancio prima che fosse completata l’elaborazione di una piattaforma culturale e politica autonoma e compiuta. Il gruppo dirigente successivo, nonostante la buona volontà di Alessandro Natta e di molti dei suoi collaboratori, non fu all’altezza dei nuovi problemi che di conseguenza si posero. Ebbe così inizio un declino che la scelta di Occhetto nel 1989 era destinata a trasformare in una rotta per l’intera sinistra italiana.

http://www.arsinistra.it/documenti/indexberling.html

L'EREDITA' E L'ATTUALITA' DI ENRICO Chiara Valentini

Non è una cosa facile, nel mondo di oggi, ritrovare le coordinate della figura di Enrico Berlinguer, ricostruire quanto avevano contato il suo carisma e la sua politica, quale spessore di amori e di odii aveva suscitato. E poi quale eredità ha lasciato, che cosa nella grande miniera di idee che aveva messo in campo soprattutto nell’ultima parte della sua vita può essere utile oggi.

Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno dell’84, quasi vent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca. Ma molte delle vicende di cui è stato protagonista sono ancora aperte, molte intuizioni che aveva avuto, se le guardiamo con gli occhi di oggi, dimostrano la sua preveggenza, la sua capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.

Credo che pochissimi, fra i politici italiani, abbiano avuto come Berlinguer la capacità di intuire in anticipo quel che stava succedendo, le linee direttrici del cambiamento. In un momento come quello attuale, con la pace messa in pericolo dalla volontà di comando dell’unica superpotenza rimasta, fa una certa impressione ripercorrere il Berlinguer dei primi anni ’80, che esprime una visione quasi avveniristica del futuro. Che si rende conto, ben prima della fine dell’impero sovietico, come ormai il cuore del conflitto non è più fra paesi capitalisti e paesi socialisti ma fra il Nord e il Sud del mondo: fra un occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del terzo e del quarto mondo. In sintonia con lo svedese Olof Palme, che dopo non molto morirà in un attentato mai del tutto chiarito, Berlinguer era arrivato a prospettare un governo mondiale dell'’economia, inteso però come strumento di riequilibrio e di redistribuzione delle ricchezze.

Oggi ha poi un significato speciale ricordare che Berlinguer credeva profondamente nell’Europa. La vedeva come il laboratorio di una nuova sinistra possibile, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale che a un neoliberismo d’oltreoceano, portatore di ingiustizie profonde. Proprio in quest’ottica credeva fosse importante difendere “l’anomalia europea”, la sua cultura e la forza antagonista dei suoi partiti, dei sindacati e dei movimenti, dai continui tentativi di omologazione che vedeva messi in atto da Ronald Reagan e dalla nuova destra americana. E anche se non poteva certo immaginare la deriva militar- autoritaria di quelle scelte, aveva colto subito le minacce della rivoluzione conservatrice che cominciava allora, con l’esaltazione del capitalismo selvaggio come cura ai mali dell’economia e dell’egoismo individuale come sostituto ad una società solidale.

Quando era segretario del Pci Berlinguer veniva spesso descritto dai giornali come un uomo chiuso, un po’ fuori dal mondo, un“sardo-muto”,l’opposto di un protagonista di quella politica-spettacolo che già allora stava prendendo piede. E invece Berlinguer aveva una capacità di comunicazione fortissima. I commentatori dell’epoca riconoscevano che pochi riuscivano come lui a “rompere” lo schermo della Tv, a parlare alla gente, molto al di là del suo stesso partito, che peraltro era un grande partito del 30 per cento. C’era una passione e una sincerità nel suo modo di esprimersi che l’aveva fatto diventare una specie di contraltare rispetto a tanti altri politici del suo tempo, e in particolare rispetto a Bettino Craxi. Berlinguer aveva capito molto presto che dietro l’etichetta della modernità, del rinnovamento, delle grandi riforme istituzionali, Craxi aveva obiettivi ben più concreti e inquietanti: far saltare il banco della politica italiana, annettersi il Pci e sdoganare il Msi, farla finita con la cultura dell’antifascismo e della Resistenza.

A completare il disegno, c’era la volontà di arrivare a un presidenzialismo di stampo populista, di mettere la mordacchia al “parco buoi”, come Craxi definiva graziosamente il Parlamento, trasformando la democrazia italiana in senso parzialmente autoritario. Contro questi pericoli, che sono poi quelli con cui oggi ci troviamo a fare i conti, Berlinguer si era battuto con tutte le sue forze, fino a quell’ultimo comizio sul palco di Padova, continuato eroicamente quando ormai era stato colpito dal malore, con frasi sempre più smozzicate sugli scandali, sulla loggia P2, sulla nostra democrazia malata.

Una delle prime volte che avevo visto di persona Enrico Berlinguer, (a cui poi avrei dedicato una biografia in due volumi, cominciata quasi subito dopo i suoi spettacolosi e indimenticabili funerali), era stato il 26 settembre 1980, ai cancelli della Fiat. Il colosso torinese, per superare un momento di grave crisi del mercato internazionale, aveva messo in cassa integrazione 28 mila operai. E poi, siccome si erano rotte le trattative con i sindacati, aveva spedito13 mila lettere di licenziamento, espellendo i quadri sindacali e buona parte delle donne, che erano entrate nella fase di espansione. Berlinguer era arrivato a portare la sua solidarietà dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat, in un clima di grande scontro. Avevo seguito il suo giro ai vari cancelli, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, accolto dappertutto da una folla enorme. Anche se non era previsto un suo intervento, Enrico Berlinguer aveva accettato di parlare, su un palco improvvisato e senza microfono, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione.

Proprio in questi giorni - all'inizio del 2003 - in occasione della morte di Agnelli, vari programmi Tv hanno ricostruito quell’episodio, poi passato alla storia come esempio dell’estremismo di Berlinguer, che sarebbe andato ai cancelli per spingere gli operai all’occupazione (“Berlinguer incita alla rivolta”,avevano titolato vari giornali il giorno dopo). Abbiamo visto anche un filmato dove Gianni Agnelli, rispondendo a un giovane Bruno Vespa, sentenziava che “esce rafforzato il parere di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. Nella realtà però, come ricordo molto bene e come ha ricordato in questi giorni Piero Fassino, allora segretario del Pci torinese, le cose erano andate molto diversamente. Rispondendo alla domanda di un sindacalista della Fim che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, Berlinguer aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. “Se si dovrà arrivare a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”, si era limitato a dire. “Ma credi di aver fatto bene?”gli aveva poi chiesto polemicamente Luciano Lama, il segretario della Cgil, con cui c’era una fase di grande dissenso. E Berlinguer aveva risposto:”E’ un momento in cui la cosa più importante è dare la prova ai lavoratori che siamo con loro”. E’ uno dei tanti episodi che mostra fuori da ogni retorica chi era Berlinguer, la sua umanità, la convinzione che, al dilà delle tattiche politiche, è importante stare comunque dalla parte dei più deboli,dei lavoratori. Una lezione insomma più che mai attuale.

http://www.arsinistra.it/documenti/indexberling.html

SIGNIFICATO E LIMITI DEL COMPROMESSO STORICO Alexander Hobel

È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.

Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti – il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” – che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.

Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).

In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.

La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.

Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su “Rinascita”, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare – o almeno rendere più difficile – colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.

Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.

Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.

Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.

Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” – un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.

Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista – Ingrao – è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella – determinante – del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Cominci quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).

L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre – dice – “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.

La rottura tra questi ultimi – e il movimento del ’77 – e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia – dirà Chiaromonte – la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.

A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che – perso anche l’appoggio del PRI – si dimette. Seguono due mesi – i primi del “terribile 1978” – di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.

Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto – come dice Amendola – di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.

Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente”.

Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti – e Berlinguer in particolare – peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.

È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche – così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti – implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 – dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. – la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta – sul piano politico e ideale – della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.

L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano – cosa che pure in vari momenti si era detta – era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna – probabilmente sopravvalutata – ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.

Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.

Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.

Contro questo muro – e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo – si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato – nel bene e nel male – gran parte della vicenda dei comunisti italiani.

http://www.arsinistra.it/documenti/indexberling.html

Bruno Gravagnuolo, su l'Unità del 19 Settembre, scrive che Berlinguer avrebbe potuto portare il Pci al governo, con Craxi premier, «radicalizzando la revisione ideologica e senza rinunziare in nulla alla questione morale» e a riprova ricorda una offerta socialista in tal senso che, Tatò prima, e Berlinguer dopo, hanno rifiutato. Dell’offerta di Craxi, fatta tramite Scalfari, parla Antonio Tatò nel libro «Caro Berlinguer, note e appunti riservati di Tatò a Enrico Berlinguer, 19691984». Tatò la commenta a Berlinguer con sarcasmo e accusa Craxi di usare un tono «mussolinesco, minatorio e ricattatorio e gli chiede di non prenderla nemmeno in considerazione. La proposta è del 10 marzo 1981, ricco di avvenimenti poco edificanti che dimostrano quanto Craxi e il Psi, ormai largamente «craxizzato», fossero del tutto inaffidabili.

Le vicende del Psi craxiano, le ho vissute in prima persona fino al mese di ottobre del 1981, quando, insieme a un gruppo di compagni del comitato centrale, tra i quali ricordo Codignola, Enriques Agnoletti, Bassanini, Amendola, Leon, Ballardini, fummo buttati fuori dal Psi, con un telegramma di Antonio Natali, presidente della Commissione di controllo, inventore del sistema di tangentopoli, nel quale era scritto: «In relazione a notizie di stampa circa la tua adesione a iniziative scissionistiche sei convocato presso la sede della Commissione centrale di controllo per fornire entro le ore 18 di martedì (lo stesso giorno!) tue spiegazioni ed eventuali smentite». Alla nostra cacciata reagirono in molti: Giolitti, Lombardi, De Martino, Mancini, Bobbio, Bocca. Craxi, però, sulla questione morale, ragione prima della nostra opposizione, non tollerava critiche. Perciò, attaccò con inaudita violenza e definì gli oppositori: «piccoli trafficanti, girovaghi e avventurieri della politica».

Il congresso di Palermo della primavera del 1981 avvia il controllo totale di Craxi sul partito, avendo il segretario chiesto e ottenuto di cambiare lo statuto e di essere eletto direttamente dal congresso. Il partito sembra un altro e chi come me ne osserva l’andamento dalla presidenza, si rende conto della mutazione genetica che ha subito. L’autofinanziamento, l’anagrafe patrimoniale dei dirigenti, il Progetto socialista per l’alternativa del congresso di Torino, il dibattito culturale di Mondo Operaio, sono solo ricordi. Vittime della «modernità» sono la storia socialista, i suoi valori, i suoi uomini più rappresentativi. D’ora in poi la politica ha un solo scopo: rimanere a tutti i costi al governo e accumulare denaro e potere, ritenuti strumenti indispensabili per conquistare la presidenza del Consiglio. Appena terminato il congresso, Forlani, capo del governo, rende pubbliche le liste della P2, evitando, su richiesta di Craxi di farlo prima, perché gli avrebbe rovinato la festa. Nelle liste ci sono i nomi di 35 socialisti, alcuni dei quali il segretario conosceva da tempo, ma aveva taciuto, perché gli servivano per stravincere il congresso. Scoppia lo scandalo, Craxi adotta la linea morbida e affida il caso alla Commissione di controllo presieduta dal fido Natali che di fatto assolve tutti. Davanti alla Commissione Anselmi, nel 1984, Craxi sosterrà di saperne poco e definirà la P2 «un elemento del sistema massonico, non rispettoso delle regole degli altri ordinamenti, una sorta di placca di controllo e d’influenza sulle attività pubbliche con disegni velleitari e megalomaniaci». Ammette di avere incontrato Gelli «una sola volta» e di considerarlo una sorta di «grand commis, di segretario generale».

Sempre nel 1981 scoppia lo scandalo del conto protezione e viene arrestato Calvi, il quale ai giudici di Milano confessa di avere dato 21 milioni di dollari al Psi. Craxi, a quel punto, supera se stesso: va alla Camera, attacca i magistrati di Milano e conclude il suo intervento con queste parole: «Quando si mettono le manette a finanzieri che rappresentano in modo diretto o indiretto i gruppi che contano per quasi la metà del listino di borsa, è difficile non prevedere incontrollabili reazioni psicologiche e varchi aperti per le correnti speculative». La campagna d’estate contro i magistrati che «si muovono in nome e per conto del partito comunista» è violenta e anticipa di molti anni, anche nelle parole, oltre che nelle argomentazioni, le campagne berlusconiane. Il 1983, atto di nascita del governo Craxi, è segnato dagli scandali di Torino e Savona, che mettono in evidenza la corruzione galoppante nel partito. A Torino si vuole mandare a casa il sindaco Novelli, difeso in piazza da Berlinguer, perché ha consigliato agli imprenditori taglieggiati di andare dai magistrati e a Savona, Teardo, si dichiara prigioniero politico. Il Psi alle elezioni prende l’11,4 % dei voti: la «modernità», di cui gli affari e la corruzione costituiscono un elemento strutturale, non paga.

Il governo Craxi esordisce con il condono edilizio, spiegato e giustificato da Amato. Il 1984 è l’anno della grande abbuffata degli enti e i partiti di governo si dividono: Bnl, Comit, Credito Italiano, Casse di risparmio di Roma e di Torino, Eni, Agip, Iri, Stet, Sip, Enel, Finsider, Ina, Enea, Cassa del mezzogiorno. Oltre alla Rai, a proposito della quale, Ugo Zatterin, nel lasciare la direzione del telegiornale, in un’esilarante intervista dice: «Sono stato per sei anni il direttore lottizzato di un telegiornale lottizzato di un’azienda lottizzata». Se i protagonisti si somigliano, i fatti si ripetono, per cui scoppia anche un caso Biagi, il quale ha la cattiva idea di intervistare nel programma Linea Diretta, Biffi Gentili e Teardo, protagonisti arrestati de gli scandali di Torino e di Savona. Intervengono Martelli e Pillitteri e attaccano Biagi che replica paragonando Martelli a Goebbels. Ma il pezzo forte del governo sono le tv del Cavaliere, oscurate da tre pretori perché fuorilegge. Craxi, non perde tempo e dall’aereo che da Londra lo porta in Italia, fa sapere che il Consiglio dei ministri, convocato nei giorni successivi approverà un decreto legge che permetta alle tv del suo amico Silvio di riprendere le trasmissioni. Ci penserà Giuliano Amato a inventare il trabocchetto giuridico contenuto in ben tre decreti legge che il Parlamento non aveva alcuna voglia di approvare e che alla fine ingoia, perché Craxi ne fa una questione di vita o di morte. L’occupazione degli organi d’informazione diventa una sorta di ossessione: i giornalisti amici si promuovono e si premiano, i nemici, che poi sono quelli autonomi, come Andrea Barbato, si cacciano. I corrispondenti di Le Monde e Der Spiegel vengono messi alla porta e, di Philippe Pons (le Monde), si chiede il trasferimento in Nicaragua perché ha scritto degli affari oscuri del Psi con Calvi. Il sogno di Craxi (come di Berlusconi) è mettere le mani sul Corriere della Sera, che cerca di far comprare dai suoi amici e che combatte quando, dopo la vicenda P2, diventa direttore Cavallari, che non è manovrabile. A Pansa e a Padellaro i quali gli chiedono una intervista, risponde che la concederà quando Scalfari e Cavallari non saranno più direttori. Intanto il debito pubblico esplode e nei quattro anni di Craxi a palazzo Chigi raddoppia. I richiami degli economisti, anche amici, e di Ciampi, che presenta le dimissioni dopo l’incidente del venerdì nero della lira, non sortiscono alcun effetto. Spaventa, Andreatta e Pedone, in un forum di Repubblica lanciano l’allarme perché «un deficit senza freni, avviato verso un milione di miliardi, mina la stabilità del governo e l’economia». Ma il capo del governo va avanti per la sua strada.

Pertanto, se si valutano i fatti attentamente, risulta evidente che era impossibile qualsiasi collaborazione, senza correre il rischio di diventare complici, dal momento che la degenerazione della politica negli affari, nell’occupazione dello Stato, nella corruzione diffusa, era diventata parte costitutiva della «modernità» craxiana. La sconfitta sulla scala mobile, da sola, non autorizza a parlare di scacco matto a Berlinguer. Le vicende successive dimostrano che se Berlinguer fosse vissuto fino al 1992 si sarebbe presa la sua grande rivincita sulla Questione Morale, magari avendo anticipato di qualche anno la svolta di Occhetto. In ogni caso, nessuno spiega la cancellazione del Psi, il più antico partito italiano della sinistra, che aveva resistito a tutte le repressioni, nel momento in cui, dopo il crollo del comunismo, il socialismo in Europa ha mantenuto le posizioni e in alcuni paesi si è rafforzato.

A meno di sposare la tesi del complotto dei giudici, che serve solo a giustificare il fallimento della strategia Craxiana.

Caro Giovanni,

[…].

Mi sono avvicinato alla sinistra comunista 45 anni fa: quando molti intellettuali se ne allontanavano. Gli eventi del 1956 mi sollecitarono a una riflessione profonda, dialettica, nella quale compresi l’inevitabile necessità delle durezze della storia. La mia amicizia con Franco Rodano e i suoi amici (da Filippo Sacconi a Tonino Tatò, da Claudio Napoleoni a Giuliana Gioggi, da Mario Melloni a Ugo Baduel, da Vittorio Tranquilli a Giancarlo Paietta, da Marisa Rodano a Giuseppe Chiarante) mi aiutarono a comprendere quanto fosse stretto il legame tra il dramma e la speranza. Compresi allora perché la prima realizzazione statuale del movimento proletario avesse radici così deboli, e perché la prima rottura rivoluzionaria pretendesse (una volta scongiurata, a Stalingrado, la tragedia dell’annientamento finale dell’umanità) uno sviluppo e un salto di qualità nell’Occidente europeo: compresi allora, di conseguenza, quanto fossero grandi le responsabilità della sinistra europea e, in essa, dei comunisti italiani.

Misurai allora, con i miei occhi, quando il comunismo italiano – pur incapace di svolgere pienamente, da solo, un ruolo internazionale all’altezza delle necessità del mondo – avesse contribuito e contribuisse a rendere la società italiana più giusta, più moderna, più ricca, più democratica. Quanto esso (per la presenza di figure come Palmiro Togliatti, e per la sintonia di civiltà che lo legava a figure delle altre sponde) contribuisse a radicare nel paese il senso dello stato, dell’interesse comune, della democrazia. E anche per questa convinzione entrai nel Partito comunista, prima come “indipendente” nelle sue liste poi, scaduto il mandato, come iscritto.

Ho sempre lavorato nel Partito come un membro di un collettivo: un gregario, anzi. Mettendo il mio specifico sapere e saper fare a disposizione di un disegno che condividevo. Solo in casi eccezionali mi è toccato svolgere una funzione di direzione politica: all’inizio degli anni Novanta. In quegli anni ho condiviso la svolta che ci ha portato ad abbandonare le antiche insegne: era una svolta inevitabile, poiché gli errori e i ritardi della sinistra europea avevano permesso che il lascito della Rivoluzione d’ottobre, confinato “in un paese solo”, si disgregasse e l’edificio dell’URSS e del comunismo internazionale tragicamente crollasse.

A mano a mano che la nuova formazione politica si sviluppava mi rendevo conto che il crollo di Berlino, mettendo la parola fine alle speranze nate con la Rivoluzione d’ottobre, rivelava un crollo inaspettato nella struttura stessa della sinistra italiana. Anche noi eravamo stati contagiati dalle malattie che avevamo criticato prima nella DC, poi nel PSI. Una parte molto larga del nostro quadro dalla DC aveva assunto quello che definirei il doroteismo: il privilegio del successo rispetto alla verità, del potere rispetto alla finalità, delle facilità dell’oggi rispetto alle difficoltà del futuro. Del PSI ci ha contagiato (certo marginalmente) la spregiudicatezza nell’asservire a fini di parte interessi comuni, e quella particolare forma di corruzione che in quegli anni esplose.

Furono queste le ragioni sostanziali (in aggiunta al concludersi della mia attività di amministratore locale, e alle particolari inettitudini che dimostrava la sinistra veneziana) che, qualche anno fa, mi hanno indotto a non rinnovare la tessera.

Scusami questa premessa certamente troppo lunga. Ma è la prima occasione che ho di ripensare a un percorso. Essa chiarisce però – mi sembra – le ragioni per cui, come ti dicevo, sono felice della tua candidatura. Mi sembra che essa significhi che è possibile la ripresa di alcune delle speranze smarrite.

La speranza di un ruolo internazionale della sinistra italiana, che si faccia carico in modo costruttivo, “politico”, delle tragedie del nuovo mondo che stiamo scoprendo tra noi e nei continenti (quello in bilico tra distruzione e disperazione), e delle potenzialità del vecchio mondo (un mondo che, con tutti i suoi errori e limiti, abbiamo contribuito a costruire). La speranza di una politica che torni a parlare alle cittadine e ai cittadini, ma a partire dagli ideali, dai principi, dai futuri da costruire insieme, e non dalla vellicazione degli interessi spiccioli. La speranza di un partito che riacquisti le doti della coerenza dei programmi e delle azioni, del rispetto degli altri, del disinteresse personale, e perda la smisurata fiducia nell’immagine che buca lo schermo e nelle parole d’ordine accattivanti (“modernizzazione” è una di queste) ma prive di senso. La speranza di una formazione nella quale la politica e gli altri saperi sappiano dialogare, rispettarsi, alimentarsi a vicenda, senza che la scienza strumentalizzi la politica né ne venga strumentalizzata.

E’ inutile che ti dica quali sono le tue qualità che mi sembrano renderti idoneo al ruolo che in cuor mio ti assegno. Voglio dirti però che il tuo cognome è tra queste, perché è simbolo di una continuità sostanziale con stagioni altissime della nostra storia. […]

1922: Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio, primo di due fratelli (Giovanni, il secondogenito, è del 1924) da Mario Berlinguer, avvocato, e Maria Loriga;

1937-1943: frequenta il liceo classico Azuni di Sassari conseguendo la maturità nel 1940. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, sostenendo tutti gli esami e progettando di laurearsi con una tesi su “Filosofia del diritto: da Hegel a Croce e Gentile”, Nell’ottobre del ’43 si iscrive al Partito Comunista Italiano, diventando Segretario della sezione giovanile di Sassari;

1944: il 7 gennaio viene arrestato perché ritenuto uno dei responsabili dei “moti per il pane” verificatosi in quei giorni a Sassari. Il 25 aprile viene prosciolto e scarcerato. Nel mese di maggio viene nominato responsabile della Federazione Giovanile Comunista di Sassari. Nell’autunno si trasferisce a Roma ed entra a far parte della Segreteria Nazionale del Movimento Giovanile Comunista;

1945: dopo la Liberazione è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del P.C.I;

1946: torna a Roma;

1948: al VI Congresso del PCI ,svoltosi a Milano dal 5 al 10 gennaio, viene eletto membro effettivo del Comitato Centrale e membro candidato della direzione del partito;

1950: al Congresso nazionale dell’appena costituita Federazione Giovanile Comunista Italiana svolto a Livorno dal 29 marzo al 2 aprile, viene eletto Segretario Generale, carica che manterrà fino al 1956; assume la Presidenza della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica che ricoprirà fino al 1952;

1956: con l’VIII Congresso del PCI esce dalla Direzione centrale ed assume l’incarico di direttore dell’Istituto Centrale di Studi Comunisti;

1957: si sposa il 26 settembre con Letizia Laurenti, dal cui matrimonio nasceranno quattro figli (Bianca, Marco, Maria e Laura); sempre in questo mese torna in Sardegna come Vice Segretario Regionale del PCI;

1958: nel mese di luglio torna a Roma ed entra a far parte della Segreteria Nazionale e dell’ufficio di Segreteria del PCI;

1960: al IX Congresso del PCI è nominato membro della Direzione, responsabile dell’ufficio di Organizzazione del partito fino al 1962;

1962: al X Congresso di Roma entra a far parte della Segreteria come responsabile dell’Ufficio di segreteria;

1964: membro della delegazione che partecipa al Congresso del Partito Comunista Francese esprime il rifiuto del PCI di condannare la politica del Partito Comunista Cinese;

1966: all’XI Congresso di Roma esce dalla Segreteria del Partito, entrando nell’Ufficio Politico. Nel mese di febbraio diviene Segretario Regionale del PCI del Lazio, carica che manterrà fino al 1969. Visita il Vietnam del Nord;

1968: viene eletto deputato nel collegio di Roma con 151.134 voti di preferenza e diviene membro della Commissione Esteri;

1969: al XII Congresso di Bologna viene eletto Vice Segretario Nazionale del PCI. Il 14 giugno intervenendo alla Conferenza Mondiale dei 75 partiti comunisti a Mosca, illustra la posizione del PCI che non vota il documento conclusivo;

1972: al XIII Congresso Nazionale del Partito, svoltosi a Milano dal 12 al 17 marzo, viene eletto Segretario Nazionale. Nelle elezioni politiche del 7 e 8 maggio viene rieletto deputato nel Collegio di Roma con 230.722 voti di preferenza;

1973: esprime il voto favorevole nella Commissione Esteri della Camera al riconoscimento della Repubblica Democratica del Vietnam. A seguito del golpe fascista in Cile ( 10 marzo), il 28 settembre, il 5 e 12 ottobre pubblica su Rinascita tre articoli di “ riflessione sui fatti del Cile “ nei quali formula la proposta del “ compromesso storico”;

1975: viene riconfermato Segretario Nazionale al Congresso del PCI a Roma dal 18 al 23 marzo;

1976: in varie interviste sui principali quotidiani europei ribadisce la scelta democratica e la piena autonomia del Partito Comunista Italiano. Nel luglio - Aldo Moro eletto Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana - annuncia l’astensione del PCI al Governo nazionale avviando la politica di “solidarietà nazionale”;

1977: agli esponenti del mondo della cultura a Roma propone la politica dell’austerità come avvio di un processo per la trasformazione del Paese;

1978: il 26 gennaio con il Comitato Centrale del Partito sottolinea l’esigenza di una partecipazione diretta del PCI al Governo del Paese. In occasione del rapimento di Aldo Moro,il 16 marzo, e l’uccisione dei 5 uomini della sua scorta, intervenendo al dibattito parlamentare riafferma la linea della fermezza contro il terrorismo sostenuta dal PCI;

1979: il 26 gennaio comunica ai leader dei partiti che sostengono il Governo Andreotti la volontà del PCI di uscire dalla maggioranza. Nelle elezioni politiche del 3 e 4 giugno viene rieletto sempre nel collegio romano con 238.399 voti di preferenza;

1980: condanna l’intervento sovietico in Afghanistan. Il 26settembre a Torino, davanti ai cancelli della Fiat, conferma l’appoggio del PCI alla lotta degli operai contro i licenziamenti e la cassa integrazione: Dopo il terremoto in Irpinia, espone la nuova linea politica comunista dell’alternativa democratica;

1981: il 26 settembre aderisce alla marcia per la pace Perugia-Assisi;

1983: viene rieletto nelle elezioni del 26 e 27 giugno per la IV volta deputato nel Collegio di Roma con 221.307 voti di preferenza;

1984: il 7 giugno durante un comizio a Padova per le elezioni europee, viene colto da ictus cerebrale. Muore l’11 giugno. Imponenti i suoi funerali.

Bibliografia tratta da quella di Antonio Smargiasse.

Fonte: http://www.arcabari.it/Archivio/schede/Enrico_Berlinguer.htm

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