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L'ULTIMO BERLINGUER Giuseppe Chiarante

La politica dell’ultimo Berlinguer (il Berlinguer dell’alternativa democratica della questione morale, del rinnovamento dei partiti e della politica per costruire la prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sull’austerità e sulla collaborazione fra i popoli del Nord e del Sud del mondo) non nasce dalla presa di coscienza dell’esito deludente – ed anzi decisamente fallimentare dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – della politica prima del compromesso e poi della solidarietà nazionale praticata durante gli anni settanta. Certo, anche quella presa di coscienza esercitò il suo peso: pesò in particolare l’avvertimento che , mentre la ricerca di un’intesa con le forze migliori del mondo cattolico aveva portato il PCI ai successi elettorali del ’75 e del ’76, la successiva politica di astensione verso il governo monocolore presieduto da Andreotti aveva deluso profondamente la domanda di riforme e di cambiamenti che si esprimeva in quei successi.

Il passaggio alla politica dell’alternativa, dopo il ritorno all’opposizione nel gennaio 1979, non derivò però soltanto dalla delusione per l’esperienza della solidarietà nazionale e dal desiderio di consolidare un radicamento sociale in qualche misura incrinato. Ciò che spinse Enrico Berlinguer fu un’acuta sensibilità – che in lui fu chiara prima che in tanti altri dirigenti del suo stesso partito – per la grave svolta regressiva che sul finire degli anni settanta cominciava a realizzarsi, così sul piano strutturale e istituzionale come negli orientamenti culturali e di fondo, tanto in Italia come negli altri paesi dell’Occidente. A distanza di più di vent’anni appare oggi più chiaro che è quello il momento in cui l’economia capitalistica, dopo la crisi e l’incertezza degli anni settanta, dà avvio a un processo di ristrutturazione e di rilancio che si fonda sulle possibilità aperte dalla rivoluzione informatica e dalla crescente mondializzazione dei processi produttivi e che si avvale di queste possibilità per mettere in discussione i diritti conquistati dai lavoratori con lo stato sociale e per tornare ad affermare un uso flessibile del lavoro come strumento di produzione. A questa svolta in campo economico si accompagna una linea politico-istituzionale che punta sulla restrizione e non più sull’allargamento della partecipazione e della democrazia, sull’affermazione di forme di governo di tipo decisionistico, sulla riduzione della spesa sociale e sulla compressione dei livelli salariali (l’attacco di Craxi alla scala mobile), sull’intreccio sempre più palese fra interessi economici anche personali e uso spregiudicato dei poteri di governo.

Berlinguer comprese con chiarezza che l’indirizzo così prescelto non rispondeva a una generica istanza di “modernizzazione” (come molti dissero anche a sinistra, allora e soprattutto dopo): ma comportava pericoli gravi per una democrazia concepita come effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni, apriva la strada a un sistema di malgoverno fondato sul dilagare della corruzione e del clientelismo, portava a un inasprimento delle ingiustizie e delle disuguaglianze così all’interno di un singolo paese quale l’Italia come fra il Nord e il Sud del mondo. In questo Berlinguer aveva pienamente ragione: di qui la sua battaglia per un’alternativa fondata su un rinnovamento della politica inteso come apertura alla società e soprattutto alle istanze dei nuovi movimenti; sulla centralità assegnata alla questione sociale come preminenza nel governo della cosa pubblica dell’interesse generale sugli interessi di parte; sulla difesa dello stato sociale, sulla lotta per la pace e contro la corsa agli armamenti, sulla ricerca di un’intesa con la parte migliore della sinistra europea (Brandt, Palme) per costruire un rapporto di cooperazione fra Europa e Sud del mondo. Di qui la sua prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sul principio dell’austerità, da lui già affermato nel 1977, nel pieno della crisi economica degli anni settanta: cioè uno sviluppo basato su un uso sobrio e razionale delle risorse e sulla lotta alle mille forme di dissipazione e di spreco, al fine di difendere la spesa sociale e i diritti salariali, di rispettare la natura e l’ambiente, di stabilire equi supporti così fra tutti i popoli come fra le donne e gli uomini di tutto il mondo.

La lotta condotta su queste basi (ricordo in particolare le grandi campagne sulla scala mobile, sulla questione morale, per l’occupazione, contro gli euromissili) segnarono un forte rilancio dell’iniziativa del PCI tanto da consentire, alle elezioni europee che si tennero subito dopo la morte di Berlinguer, la sua affermazione come primo partito superando anche la Democrazia cristiana. Ma l’improvvisa morte di Berlinguer troncò questo rilancio prima che fosse completata l’elaborazione di una piattaforma culturale e politica autonoma e compiuta. Il gruppo dirigente successivo, nonostante la buona volontà di Alessandro Natta e di molti dei suoi collaboratori, non fu all’altezza dei nuovi problemi che di conseguenza si posero. Ebbe così inizio un declino che la scelta di Occhetto nel 1989 era destinata a trasformare in una rotta per l’intera sinistra italiana.

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L'EREDITA' E L'ATTUALITA' DI ENRICO Chiara Valentini

Non è una cosa facile, nel mondo di oggi, ritrovare le coordinate della figura di Enrico Berlinguer, ricostruire quanto avevano contato il suo carisma e la sua politica, quale spessore di amori e di odii aveva suscitato. E poi quale eredità ha lasciato, che cosa nella grande miniera di idee che aveva messo in campo soprattutto nell’ultima parte della sua vita può essere utile oggi.

Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno dell’84, quasi vent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca. Ma molte delle vicende di cui è stato protagonista sono ancora aperte, molte intuizioni che aveva avuto, se le guardiamo con gli occhi di oggi, dimostrano la sua preveggenza, la sua capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.

Credo che pochissimi, fra i politici italiani, abbiano avuto come Berlinguer la capacità di intuire in anticipo quel che stava succedendo, le linee direttrici del cambiamento. In un momento come quello attuale, con la pace messa in pericolo dalla volontà di comando dell’unica superpotenza rimasta, fa una certa impressione ripercorrere il Berlinguer dei primi anni ’80, che esprime una visione quasi avveniristica del futuro. Che si rende conto, ben prima della fine dell’impero sovietico, come ormai il cuore del conflitto non è più fra paesi capitalisti e paesi socialisti ma fra il Nord e il Sud del mondo: fra un occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del terzo e del quarto mondo. In sintonia con lo svedese Olof Palme, che dopo non molto morirà in un attentato mai del tutto chiarito, Berlinguer era arrivato a prospettare un governo mondiale dell'’economia, inteso però come strumento di riequilibrio e di redistribuzione delle ricchezze.

Oggi ha poi un significato speciale ricordare che Berlinguer credeva profondamente nell’Europa. La vedeva come il laboratorio di una nuova sinistra possibile, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale che a un neoliberismo d’oltreoceano, portatore di ingiustizie profonde. Proprio in quest’ottica credeva fosse importante difendere “l’anomalia europea”, la sua cultura e la forza antagonista dei suoi partiti, dei sindacati e dei movimenti, dai continui tentativi di omologazione che vedeva messi in atto da Ronald Reagan e dalla nuova destra americana. E anche se non poteva certo immaginare la deriva militar- autoritaria di quelle scelte, aveva colto subito le minacce della rivoluzione conservatrice che cominciava allora, con l’esaltazione del capitalismo selvaggio come cura ai mali dell’economia e dell’egoismo individuale come sostituto ad una società solidale.

Quando era segretario del Pci Berlinguer veniva spesso descritto dai giornali come un uomo chiuso, un po’ fuori dal mondo, un“sardo-muto”,l’opposto di un protagonista di quella politica-spettacolo che già allora stava prendendo piede. E invece Berlinguer aveva una capacità di comunicazione fortissima. I commentatori dell’epoca riconoscevano che pochi riuscivano come lui a “rompere” lo schermo della Tv, a parlare alla gente, molto al di là del suo stesso partito, che peraltro era un grande partito del 30 per cento. C’era una passione e una sincerità nel suo modo di esprimersi che l’aveva fatto diventare una specie di contraltare rispetto a tanti altri politici del suo tempo, e in particolare rispetto a Bettino Craxi. Berlinguer aveva capito molto presto che dietro l’etichetta della modernità, del rinnovamento, delle grandi riforme istituzionali, Craxi aveva obiettivi ben più concreti e inquietanti: far saltare il banco della politica italiana, annettersi il Pci e sdoganare il Msi, farla finita con la cultura dell’antifascismo e della Resistenza.

A completare il disegno, c’era la volontà di arrivare a un presidenzialismo di stampo populista, di mettere la mordacchia al “parco buoi”, come Craxi definiva graziosamente il Parlamento, trasformando la democrazia italiana in senso parzialmente autoritario. Contro questi pericoli, che sono poi quelli con cui oggi ci troviamo a fare i conti, Berlinguer si era battuto con tutte le sue forze, fino a quell’ultimo comizio sul palco di Padova, continuato eroicamente quando ormai era stato colpito dal malore, con frasi sempre più smozzicate sugli scandali, sulla loggia P2, sulla nostra democrazia malata.

Una delle prime volte che avevo visto di persona Enrico Berlinguer, (a cui poi avrei dedicato una biografia in due volumi, cominciata quasi subito dopo i suoi spettacolosi e indimenticabili funerali), era stato il 26 settembre 1980, ai cancelli della Fiat. Il colosso torinese, per superare un momento di grave crisi del mercato internazionale, aveva messo in cassa integrazione 28 mila operai. E poi, siccome si erano rotte le trattative con i sindacati, aveva spedito13 mila lettere di licenziamento, espellendo i quadri sindacali e buona parte delle donne, che erano entrate nella fase di espansione. Berlinguer era arrivato a portare la sua solidarietà dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat, in un clima di grande scontro. Avevo seguito il suo giro ai vari cancelli, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, accolto dappertutto da una folla enorme. Anche se non era previsto un suo intervento, Enrico Berlinguer aveva accettato di parlare, su un palco improvvisato e senza microfono, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione.

Proprio in questi giorni - all'inizio del 2003 - in occasione della morte di Agnelli, vari programmi Tv hanno ricostruito quell’episodio, poi passato alla storia come esempio dell’estremismo di Berlinguer, che sarebbe andato ai cancelli per spingere gli operai all’occupazione (“Berlinguer incita alla rivolta”,avevano titolato vari giornali il giorno dopo). Abbiamo visto anche un filmato dove Gianni Agnelli, rispondendo a un giovane Bruno Vespa, sentenziava che “esce rafforzato il parere di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. Nella realtà però, come ricordo molto bene e come ha ricordato in questi giorni Piero Fassino, allora segretario del Pci torinese, le cose erano andate molto diversamente. Rispondendo alla domanda di un sindacalista della Fim che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, Berlinguer aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. “Se si dovrà arrivare a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”, si era limitato a dire. “Ma credi di aver fatto bene?”gli aveva poi chiesto polemicamente Luciano Lama, il segretario della Cgil, con cui c’era una fase di grande dissenso. E Berlinguer aveva risposto:”E’ un momento in cui la cosa più importante è dare la prova ai lavoratori che siamo con loro”. E’ uno dei tanti episodi che mostra fuori da ogni retorica chi era Berlinguer, la sua umanità, la convinzione che, al dilà delle tattiche politiche, è importante stare comunque dalla parte dei più deboli,dei lavoratori. Una lezione insomma più che mai attuale.

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SIGNIFICATO E LIMITI DEL COMPROMESSO STORICO Alexander Hobel

È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.

Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti – il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” – che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.

Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).

In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.

La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.

Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su “Rinascita”, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare – o almeno rendere più difficile – colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.

Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.

Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.

Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.

Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” – un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.

Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista – Ingrao – è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella – determinante – del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Cominci quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).

L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre – dice – “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.

La rottura tra questi ultimi – e il movimento del ’77 – e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia – dirà Chiaromonte – la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.

A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che – perso anche l’appoggio del PRI – si dimette. Seguono due mesi – i primi del “terribile 1978” – di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.

Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto – come dice Amendola – di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.

Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente”.

Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti – e Berlinguer in particolare – peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.

È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche – così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti – implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 – dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. – la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta – sul piano politico e ideale – della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.

L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano – cosa che pure in vari momenti si era detta – era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna – probabilmente sopravvalutata – ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.

Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.

Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.

Contro questo muro – e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo – si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato – nel bene e nel male – gran parte della vicenda dei comunisti italiani.

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Bruno Gravagnuolo, su l'Unità del 19 Settembre, scrive che Berlinguer avrebbe potuto portare il Pci al governo, con Craxi premier, «radicalizzando la revisione ideologica e senza rinunziare in nulla alla questione morale» e a riprova ricorda una offerta socialista in tal senso che, Tatò prima, e Berlinguer dopo, hanno rifiutato. Dell’offerta di Craxi, fatta tramite Scalfari, parla Antonio Tatò nel libro «Caro Berlinguer, note e appunti riservati di Tatò a Enrico Berlinguer, 19691984». Tatò la commenta a Berlinguer con sarcasmo e accusa Craxi di usare un tono «mussolinesco, minatorio e ricattatorio e gli chiede di non prenderla nemmeno in considerazione. La proposta è del 10 marzo 1981, ricco di avvenimenti poco edificanti che dimostrano quanto Craxi e il Psi, ormai largamente «craxizzato», fossero del tutto inaffidabili.

Le vicende del Psi craxiano, le ho vissute in prima persona fino al mese di ottobre del 1981, quando, insieme a un gruppo di compagni del comitato centrale, tra i quali ricordo Codignola, Enriques Agnoletti, Bassanini, Amendola, Leon, Ballardini, fummo buttati fuori dal Psi, con un telegramma di Antonio Natali, presidente della Commissione di controllo, inventore del sistema di tangentopoli, nel quale era scritto: «In relazione a notizie di stampa circa la tua adesione a iniziative scissionistiche sei convocato presso la sede della Commissione centrale di controllo per fornire entro le ore 18 di martedì (lo stesso giorno!) tue spiegazioni ed eventuali smentite». Alla nostra cacciata reagirono in molti: Giolitti, Lombardi, De Martino, Mancini, Bobbio, Bocca. Craxi, però, sulla questione morale, ragione prima della nostra opposizione, non tollerava critiche. Perciò, attaccò con inaudita violenza e definì gli oppositori: «piccoli trafficanti, girovaghi e avventurieri della politica».

Il congresso di Palermo della primavera del 1981 avvia il controllo totale di Craxi sul partito, avendo il segretario chiesto e ottenuto di cambiare lo statuto e di essere eletto direttamente dal congresso. Il partito sembra un altro e chi come me ne osserva l’andamento dalla presidenza, si rende conto della mutazione genetica che ha subito. L’autofinanziamento, l’anagrafe patrimoniale dei dirigenti, il Progetto socialista per l’alternativa del congresso di Torino, il dibattito culturale di Mondo Operaio, sono solo ricordi. Vittime della «modernità» sono la storia socialista, i suoi valori, i suoi uomini più rappresentativi. D’ora in poi la politica ha un solo scopo: rimanere a tutti i costi al governo e accumulare denaro e potere, ritenuti strumenti indispensabili per conquistare la presidenza del Consiglio. Appena terminato il congresso, Forlani, capo del governo, rende pubbliche le liste della P2, evitando, su richiesta di Craxi di farlo prima, perché gli avrebbe rovinato la festa. Nelle liste ci sono i nomi di 35 socialisti, alcuni dei quali il segretario conosceva da tempo, ma aveva taciuto, perché gli servivano per stravincere il congresso. Scoppia lo scandalo, Craxi adotta la linea morbida e affida il caso alla Commissione di controllo presieduta dal fido Natali che di fatto assolve tutti. Davanti alla Commissione Anselmi, nel 1984, Craxi sosterrà di saperne poco e definirà la P2 «un elemento del sistema massonico, non rispettoso delle regole degli altri ordinamenti, una sorta di placca di controllo e d’influenza sulle attività pubbliche con disegni velleitari e megalomaniaci». Ammette di avere incontrato Gelli «una sola volta» e di considerarlo una sorta di «grand commis, di segretario generale».

Sempre nel 1981 scoppia lo scandalo del conto protezione e viene arrestato Calvi, il quale ai giudici di Milano confessa di avere dato 21 milioni di dollari al Psi. Craxi, a quel punto, supera se stesso: va alla Camera, attacca i magistrati di Milano e conclude il suo intervento con queste parole: «Quando si mettono le manette a finanzieri che rappresentano in modo diretto o indiretto i gruppi che contano per quasi la metà del listino di borsa, è difficile non prevedere incontrollabili reazioni psicologiche e varchi aperti per le correnti speculative». La campagna d’estate contro i magistrati che «si muovono in nome e per conto del partito comunista» è violenta e anticipa di molti anni, anche nelle parole, oltre che nelle argomentazioni, le campagne berlusconiane. Il 1983, atto di nascita del governo Craxi, è segnato dagli scandali di Torino e Savona, che mettono in evidenza la corruzione galoppante nel partito. A Torino si vuole mandare a casa il sindaco Novelli, difeso in piazza da Berlinguer, perché ha consigliato agli imprenditori taglieggiati di andare dai magistrati e a Savona, Teardo, si dichiara prigioniero politico. Il Psi alle elezioni prende l’11,4 % dei voti: la «modernità», di cui gli affari e la corruzione costituiscono un elemento strutturale, non paga.

Il governo Craxi esordisce con il condono edilizio, spiegato e giustificato da Amato. Il 1984 è l’anno della grande abbuffata degli enti e i partiti di governo si dividono: Bnl, Comit, Credito Italiano, Casse di risparmio di Roma e di Torino, Eni, Agip, Iri, Stet, Sip, Enel, Finsider, Ina, Enea, Cassa del mezzogiorno. Oltre alla Rai, a proposito della quale, Ugo Zatterin, nel lasciare la direzione del telegiornale, in un’esilarante intervista dice: «Sono stato per sei anni il direttore lottizzato di un telegiornale lottizzato di un’azienda lottizzata». Se i protagonisti si somigliano, i fatti si ripetono, per cui scoppia anche un caso Biagi, il quale ha la cattiva idea di intervistare nel programma Linea Diretta, Biffi Gentili e Teardo, protagonisti arrestati de gli scandali di Torino e di Savona. Intervengono Martelli e Pillitteri e attaccano Biagi che replica paragonando Martelli a Goebbels. Ma il pezzo forte del governo sono le tv del Cavaliere, oscurate da tre pretori perché fuorilegge. Craxi, non perde tempo e dall’aereo che da Londra lo porta in Italia, fa sapere che il Consiglio dei ministri, convocato nei giorni successivi approverà un decreto legge che permetta alle tv del suo amico Silvio di riprendere le trasmissioni. Ci penserà Giuliano Amato a inventare il trabocchetto giuridico contenuto in ben tre decreti legge che il Parlamento non aveva alcuna voglia di approvare e che alla fine ingoia, perché Craxi ne fa una questione di vita o di morte. L’occupazione degli organi d’informazione diventa una sorta di ossessione: i giornalisti amici si promuovono e si premiano, i nemici, che poi sono quelli autonomi, come Andrea Barbato, si cacciano. I corrispondenti di Le Monde e Der Spiegel vengono messi alla porta e, di Philippe Pons (le Monde), si chiede il trasferimento in Nicaragua perché ha scritto degli affari oscuri del Psi con Calvi. Il sogno di Craxi (come di Berlusconi) è mettere le mani sul Corriere della Sera, che cerca di far comprare dai suoi amici e che combatte quando, dopo la vicenda P2, diventa direttore Cavallari, che non è manovrabile. A Pansa e a Padellaro i quali gli chiedono una intervista, risponde che la concederà quando Scalfari e Cavallari non saranno più direttori. Intanto il debito pubblico esplode e nei quattro anni di Craxi a palazzo Chigi raddoppia. I richiami degli economisti, anche amici, e di Ciampi, che presenta le dimissioni dopo l’incidente del venerdì nero della lira, non sortiscono alcun effetto. Spaventa, Andreatta e Pedone, in un forum di Repubblica lanciano l’allarme perché «un deficit senza freni, avviato verso un milione di miliardi, mina la stabilità del governo e l’economia». Ma il capo del governo va avanti per la sua strada.

Pertanto, se si valutano i fatti attentamente, risulta evidente che era impossibile qualsiasi collaborazione, senza correre il rischio di diventare complici, dal momento che la degenerazione della politica negli affari, nell’occupazione dello Stato, nella corruzione diffusa, era diventata parte costitutiva della «modernità» craxiana. La sconfitta sulla scala mobile, da sola, non autorizza a parlare di scacco matto a Berlinguer. Le vicende successive dimostrano che se Berlinguer fosse vissuto fino al 1992 si sarebbe presa la sua grande rivincita sulla Questione Morale, magari avendo anticipato di qualche anno la svolta di Occhetto. In ogni caso, nessuno spiega la cancellazione del Psi, il più antico partito italiano della sinistra, che aveva resistito a tutte le repressioni, nel momento in cui, dopo il crollo del comunismo, il socialismo in Europa ha mantenuto le posizioni e in alcuni paesi si è rafforzato.

A meno di sposare la tesi del complotto dei giudici, che serve solo a giustificare il fallimento della strategia Craxiana.

Caro Giovanni,

[…].

Mi sono avvicinato alla sinistra comunista 45 anni fa: quando molti intellettuali se ne allontanavano. Gli eventi del 1956 mi sollecitarono a una riflessione profonda, dialettica, nella quale compresi l’inevitabile necessità delle durezze della storia. La mia amicizia con Franco Rodano e i suoi amici (da Filippo Sacconi a Tonino Tatò, da Claudio Napoleoni a Giuliana Gioggi, da Mario Melloni a Ugo Baduel, da Vittorio Tranquilli a Giancarlo Paietta, da Marisa Rodano a Giuseppe Chiarante) mi aiutarono a comprendere quanto fosse stretto il legame tra il dramma e la speranza. Compresi allora perché la prima realizzazione statuale del movimento proletario avesse radici così deboli, e perché la prima rottura rivoluzionaria pretendesse (una volta scongiurata, a Stalingrado, la tragedia dell’annientamento finale dell’umanità) uno sviluppo e un salto di qualità nell’Occidente europeo: compresi allora, di conseguenza, quanto fossero grandi le responsabilità della sinistra europea e, in essa, dei comunisti italiani.

Misurai allora, con i miei occhi, quando il comunismo italiano – pur incapace di svolgere pienamente, da solo, un ruolo internazionale all’altezza delle necessità del mondo – avesse contribuito e contribuisse a rendere la società italiana più giusta, più moderna, più ricca, più democratica. Quanto esso (per la presenza di figure come Palmiro Togliatti, e per la sintonia di civiltà che lo legava a figure delle altre sponde) contribuisse a radicare nel paese il senso dello stato, dell’interesse comune, della democrazia. E anche per questa convinzione entrai nel Partito comunista, prima come “indipendente” nelle sue liste poi, scaduto il mandato, come iscritto.

Ho sempre lavorato nel Partito come un membro di un collettivo: un gregario, anzi. Mettendo il mio specifico sapere e saper fare a disposizione di un disegno che condividevo. Solo in casi eccezionali mi è toccato svolgere una funzione di direzione politica: all’inizio degli anni Novanta. In quegli anni ho condiviso la svolta che ci ha portato ad abbandonare le antiche insegne: era una svolta inevitabile, poiché gli errori e i ritardi della sinistra europea avevano permesso che il lascito della Rivoluzione d’ottobre, confinato “in un paese solo”, si disgregasse e l’edificio dell’URSS e del comunismo internazionale tragicamente crollasse.

A mano a mano che la nuova formazione politica si sviluppava mi rendevo conto che il crollo di Berlino, mettendo la parola fine alle speranze nate con la Rivoluzione d’ottobre, rivelava un crollo inaspettato nella struttura stessa della sinistra italiana. Anche noi eravamo stati contagiati dalle malattie che avevamo criticato prima nella DC, poi nel PSI. Una parte molto larga del nostro quadro dalla DC aveva assunto quello che definirei il doroteismo: il privilegio del successo rispetto alla verità, del potere rispetto alla finalità, delle facilità dell’oggi rispetto alle difficoltà del futuro. Del PSI ci ha contagiato (certo marginalmente) la spregiudicatezza nell’asservire a fini di parte interessi comuni, e quella particolare forma di corruzione che in quegli anni esplose.

Furono queste le ragioni sostanziali (in aggiunta al concludersi della mia attività di amministratore locale, e alle particolari inettitudini che dimostrava la sinistra veneziana) che, qualche anno fa, mi hanno indotto a non rinnovare la tessera.

Scusami questa premessa certamente troppo lunga. Ma è la prima occasione che ho di ripensare a un percorso. Essa chiarisce però – mi sembra – le ragioni per cui, come ti dicevo, sono felice della tua candidatura. Mi sembra che essa significhi che è possibile la ripresa di alcune delle speranze smarrite.

La speranza di un ruolo internazionale della sinistra italiana, che si faccia carico in modo costruttivo, “politico”, delle tragedie del nuovo mondo che stiamo scoprendo tra noi e nei continenti (quello in bilico tra distruzione e disperazione), e delle potenzialità del vecchio mondo (un mondo che, con tutti i suoi errori e limiti, abbiamo contribuito a costruire). La speranza di una politica che torni a parlare alle cittadine e ai cittadini, ma a partire dagli ideali, dai principi, dai futuri da costruire insieme, e non dalla vellicazione degli interessi spiccioli. La speranza di un partito che riacquisti le doti della coerenza dei programmi e delle azioni, del rispetto degli altri, del disinteresse personale, e perda la smisurata fiducia nell’immagine che buca lo schermo e nelle parole d’ordine accattivanti (“modernizzazione” è una di queste) ma prive di senso. La speranza di una formazione nella quale la politica e gli altri saperi sappiano dialogare, rispettarsi, alimentarsi a vicenda, senza che la scienza strumentalizzi la politica né ne venga strumentalizzata.

E’ inutile che ti dica quali sono le tue qualità che mi sembrano renderti idoneo al ruolo che in cuor mio ti assegno. Voglio dirti però che il tuo cognome è tra queste, perché è simbolo di una continuità sostanziale con stagioni altissime della nostra storia. […]

1922: Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio, primo di due fratelli (Giovanni, il secondogenito, è del 1924) da Mario Berlinguer, avvocato, e Maria Loriga;

1937-1943: frequenta il liceo classico Azuni di Sassari conseguendo la maturità nel 1940. Si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, sostenendo tutti gli esami e progettando di laurearsi con una tesi su “Filosofia del diritto: da Hegel a Croce e Gentile”, Nell’ottobre del ’43 si iscrive al Partito Comunista Italiano, diventando Segretario della sezione giovanile di Sassari;

1944: il 7 gennaio viene arrestato perché ritenuto uno dei responsabili dei “moti per il pane” verificatosi in quei giorni a Sassari. Il 25 aprile viene prosciolto e scarcerato. Nel mese di maggio viene nominato responsabile della Federazione Giovanile Comunista di Sassari. Nell’autunno si trasferisce a Roma ed entra a far parte della Segreteria Nazionale del Movimento Giovanile Comunista;

1945: dopo la Liberazione è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del P.C.I;

1946: torna a Roma;

1948: al VI Congresso del PCI ,svoltosi a Milano dal 5 al 10 gennaio, viene eletto membro effettivo del Comitato Centrale e membro candidato della direzione del partito;

1950: al Congresso nazionale dell’appena costituita Federazione Giovanile Comunista Italiana svolto a Livorno dal 29 marzo al 2 aprile, viene eletto Segretario Generale, carica che manterrà fino al 1956; assume la Presidenza della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica che ricoprirà fino al 1952;

1956: con l’VIII Congresso del PCI esce dalla Direzione centrale ed assume l’incarico di direttore dell’Istituto Centrale di Studi Comunisti;

1957: si sposa il 26 settembre con Letizia Laurenti, dal cui matrimonio nasceranno quattro figli (Bianca, Marco, Maria e Laura); sempre in questo mese torna in Sardegna come Vice Segretario Regionale del PCI;

1958: nel mese di luglio torna a Roma ed entra a far parte della Segreteria Nazionale e dell’ufficio di Segreteria del PCI;

1960: al IX Congresso del PCI è nominato membro della Direzione, responsabile dell’ufficio di Organizzazione del partito fino al 1962;

1962: al X Congresso di Roma entra a far parte della Segreteria come responsabile dell’Ufficio di segreteria;

1964: membro della delegazione che partecipa al Congresso del Partito Comunista Francese esprime il rifiuto del PCI di condannare la politica del Partito Comunista Cinese;

1966: all’XI Congresso di Roma esce dalla Segreteria del Partito, entrando nell’Ufficio Politico. Nel mese di febbraio diviene Segretario Regionale del PCI del Lazio, carica che manterrà fino al 1969. Visita il Vietnam del Nord;

1968: viene eletto deputato nel collegio di Roma con 151.134 voti di preferenza e diviene membro della Commissione Esteri;

1969: al XII Congresso di Bologna viene eletto Vice Segretario Nazionale del PCI. Il 14 giugno intervenendo alla Conferenza Mondiale dei 75 partiti comunisti a Mosca, illustra la posizione del PCI che non vota il documento conclusivo;

1972: al XIII Congresso Nazionale del Partito, svoltosi a Milano dal 12 al 17 marzo, viene eletto Segretario Nazionale. Nelle elezioni politiche del 7 e 8 maggio viene rieletto deputato nel Collegio di Roma con 230.722 voti di preferenza;

1973: esprime il voto favorevole nella Commissione Esteri della Camera al riconoscimento della Repubblica Democratica del Vietnam. A seguito del golpe fascista in Cile ( 10 marzo), il 28 settembre, il 5 e 12 ottobre pubblica su Rinascita tre articoli di “ riflessione sui fatti del Cile “ nei quali formula la proposta del “ compromesso storico”;

1975: viene riconfermato Segretario Nazionale al Congresso del PCI a Roma dal 18 al 23 marzo;

1976: in varie interviste sui principali quotidiani europei ribadisce la scelta democratica e la piena autonomia del Partito Comunista Italiano. Nel luglio - Aldo Moro eletto Presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana - annuncia l’astensione del PCI al Governo nazionale avviando la politica di “solidarietà nazionale”;

1977: agli esponenti del mondo della cultura a Roma propone la politica dell’austerità come avvio di un processo per la trasformazione del Paese;

1978: il 26 gennaio con il Comitato Centrale del Partito sottolinea l’esigenza di una partecipazione diretta del PCI al Governo del Paese. In occasione del rapimento di Aldo Moro,il 16 marzo, e l’uccisione dei 5 uomini della sua scorta, intervenendo al dibattito parlamentare riafferma la linea della fermezza contro il terrorismo sostenuta dal PCI;

1979: il 26 gennaio comunica ai leader dei partiti che sostengono il Governo Andreotti la volontà del PCI di uscire dalla maggioranza. Nelle elezioni politiche del 3 e 4 giugno viene rieletto sempre nel collegio romano con 238.399 voti di preferenza;

1980: condanna l’intervento sovietico in Afghanistan. Il 26settembre a Torino, davanti ai cancelli della Fiat, conferma l’appoggio del PCI alla lotta degli operai contro i licenziamenti e la cassa integrazione: Dopo il terremoto in Irpinia, espone la nuova linea politica comunista dell’alternativa democratica;

1981: il 26 settembre aderisce alla marcia per la pace Perugia-Assisi;

1983: viene rieletto nelle elezioni del 26 e 27 giugno per la IV volta deputato nel Collegio di Roma con 221.307 voti di preferenza;

1984: il 7 giugno durante un comizio a Padova per le elezioni europee, viene colto da ictus cerebrale. Muore l’11 giugno. Imponenti i suoi funerali.

Bibliografia tratta da quella di Antonio Smargiasse.

Fonte: http://www.arcabari.it/Archivio/schede/Enrico_Berlinguer.htm

Don Enrico Berlinguer

( May 25, 1922 - June 11, 1984), was an italian noble and politician.

Berlinguer was an important leader of the Italian Communist Party ( Partito Comunista Italiano or PCI) and its national secretary from 1972 to 1984.

Early Career

The son of Don Mario Berlinguer and Maria Loriga, Enrico was born in Sassari, Italy to a noble and important Sardinian family, in a notable cultural context and with familiar and political relationships that would have heavily influenced his life and his career.

He was the first cousin of Francesco Cossiga (who was a leader of Democrazia Cristiana and later became a President of the Italian Republic), and both were relatives of Antonio Segni, leader of Democrazia Cristiana and a President of the Italian Republic). Enrico's grandfather, Enrico Berlinguer Sr., was the founder of La Nuova Sardegna, a very important Sardinian newspaper, and a personal friend of Giuseppe Garibaldi and Giuseppe Mazzini, whom he had helped in his parliamentary work on the sad conditions of the island.

In 1937 Enrico Berlinguer had his first contacts with Sardinian anti-Fascists, and in 1943 formally entered the Italian Communist Party, soon becoming the secretary of Sassari's section. The following year a violent riot exploded in the town; he was involved in the disorders and was arrested, but was discharged after 3 months of prison. Immediately after his detention ended, his father brought him to Salerno, the town in which the Royal family and the government had taken refuge after the armistice. In Salermo his father introduced him to Palmiro Togliatti, the most important leader of the Communist Party and a schoolfellow of Don Mario.

Togliatti sent Enrico back to Sardinia to prepare for his political career. At the end of 1944, Togliatti appointed Berlinguer to the national secretariat of the Communist Organisation for Youth; he was soon sent to Milan, and in 1945 he was appointed to the Central Committee as a member.

In 1946 Togliatti became the national secretary (the highest political role) of the Party, and called Berlinguer to Rome, where his talents let him enter the national direction only two years after (at the age of 26, one of the youngest members ever admitted); in 1949 he was named national secretary of FGCI ( Federazione Giovanile Comunista Italiana - the communist movement for youth), a charge that he left in 1956. The year after he was named president of the world federation of democratic youth. In 1957 Berlinguer, as a member of the central school of the PCI, abolished the obligatory visit to Russia, which included political training, that was until then necessary for admission to the highest positions in PCI.

Berlinguer's career was obviously directed towards the highest positions of the party. After having held the most important ones, in 1968 he was elected a deputy for the first time in the electoral collegium of Rome. The following year he was elected the national vice-secretary of the party (the secretary being Luigi Longo); in this role he took part in the international conference of the communist and labour parties in Moscow, where his delegation didn't agree with the "official" political line, and refused to vote on the final document. It was absolutely the strongest speech by a Communist leader ever heard in Russia; he refused to "excommunicate" Chinese communists, and directly told Leonid Breznev that the tragedy in Prague (Czech invasion by Russian tanks) had put into clear evidence the diversity of concepts about fundamental themes like national sovereignty, socialist democracy, and the freedom of culture.

In 1970, memorably, he opened a relationship with the world of industry, and generally speaking with the conservative forces, publicly declaring that the PCI would have looked with favour on an eventual reprise of the industrial production and for a new model of development, concepts that were part of the program of the industrialists. Already the principal leader of the party, Berlinguer became formally the national secretary in 1972 (due to Longo's sudden illness).

In 1973, having been hospitalized after a car accident during a visit to Bulgaria, he wrote three famous articles ("Reflections on Italy after the facts of Chile" - after the golpe) for the intellectual weekly magazine of the party ( Rinascita), presenting the strategy of the so-called Compromesso Storico, a hypothesis of coalition between PCI and Democrazia Cristiana meant to grant Italy a period of political stability, in a moment of heavy economical crisis amd in a contest in which some forces were manoeuvring for a golpe.

International relations

The following year in Belgrad he met Yugoslavian president Josip Broz Tito, starting his intense foreign relationships with the major Communist parties of Europe, Asia and Africa.

In 1976, in Moscow again, Berlinguer confirmed the autonomous position of PCI from the Russian communist party. Berlinguer, in front of 5,000 Communist delegates, started talking of a "pluralistic system" (translated by the interpreter as "multiform"), described PCI's intentions to build "a socialism that we believe necessary and possible only in Italy", invoking "distension". When he finally declared the PCI's condemnation for any kind of "interference", the fracture was quite complete, since Italy was indicated by Russians as suffering the interference of NATO, so the only interference that Italian Communists could not suffer (they concluded) was the Russian one. In an interview with Corriere della Sera he declared that he felt "more, more safe under NATO's umbrella".

In 1977, in Madrid with Santiago Carrillo and George Marchais the fundamental lines of Eurocommunism were laid out. A few months later he was again in Moscow, for another speech that Russians didn't appreciate and that was published by Pravda only after relevant censorship. Berlinguer, with a political progression by little steps, was enforcing the structure and the consensus around the party by getting closer to the other components of society. After the surprising opening of 1970 toward conservatives, and the still discussed proposal of the Compromesso Storico, he published a correspondence with Monsignor Luigi Bettazzi, the Bishop of Ivrea; it was an event that sounded quite astonishing since Pope Pius XII had excommunicated the communists soon after World War II (and this measure had not been removed), and the hypothesis of any relationship between communists and Catholics seemed very unlikely. The act was also compensating on another field a terrible equation, commonly and popularly expressed, by which PCI was at least protecting leftist terrorists, in the years of maximum violence and cruelty of Italian terrorism. In this contest PCI opened its doors to many Catholics, and a debate started about the possibility of contact. Notably, Berlinguer's strictly Catholic family was not brought out of its usual, severely respected privacy.

In Italy a government called of national solidarity was ruling, but Berlinguer claimed an emergency government, a strong and powerful cabinet to solve a crisis of exceptional seriousness. On March 16, 1978Aldo Moro, president of DC, was kidnapped by Red Brigades, the day that the new government was going to swear in front of parliament. During the agony of Moro, Berlinguer adhered to the so-called Front of firmness, refusing to treat with terrorists (that had proposed the exchange the freedom of the politician with the freedom of some terrorists in prison).

After the death of Moro (one of DC's leaders more in favour of Berlinguer's Compromesso Storico, if not the most) and after the following adjustments, PCI remained more isolated. In June a campaign against President Giovanni Leone, accused of minor bribery, was progressively approved and finally supported by PCI, and resulted in the President's resignation. The election of the following President Sandro Pertini (socialist) was also emphatically supported by Berlinguer, but didn't produce the effects that PCI probably expected, at least in the immediate acts. Pertini was in fact a socialist and an anti-fascist partisan, imprisonned and sent to confinement by the regime. In Italy, after a new president is elected, the government respectfully resigns, in order to consent a new definition of the political assets. Communists, given his history and his figure (so far from moderate or conservative positions), expected Pertini to use his influence in favour of the leftist parties. But the president was at the time more influenced by minor political leaders like Giovanni Spadolini (republican party) or Bettino Craxi (socialist party), and PCI remained out of the governmental area.

After a few months Berlinguer took part into a meeting with the secretaries of the five parties in the government coalition and declared them that the age of the governments of national solidarity had came to an end.

It has to be recalled that it is during these years that PCI obtained the administrative government of many Italian regions, sometimes more than a half of them. Notably, the regional government of Emilia-Romagna and Tuscany (among the many others) should have been a concrete proof of PCI's governmental capabilities, at the time necessary for propaganda purposes. Berlinguer turned then his attention toward the enforcement of the local power, in the aim of showing that "trains could be in time" under the "reds" too. Throughout the nation, Berlinguer personally followed the electoral campaigns for many other minor institutions like the provinces and the local councils (while other parties used to send only local leaders), consenting the party to win in - sometimes - a relevant majority of them.

In other fields, through the cultural organisation named ARCI, and by the massive occupation of all the most important related public charges, PCI was trying (since perhaps the birth of the Republic) to establish a sort of monopoly of the Italian culture. At this time, musicians, writers, journalists, poets, painters, film directors, teachers, phylosopers and especially historians, intellectuals and artists had somehow to express some sort of coherence with communist positions, had to take part into the political life as external commenters, had to support the communist ideological campaigns and in some cases run for political elections providing the party with the weight of their popularity. The "Festa dell'Unità", popular meetings for ordinary PCI militants, were turned into cultural events, with memorable important political discussions, intellectual debates and conventions, ofter enriched by pop-music concerts. Very few names in said fields remained far from this general tendence.

Following his strong action on PCI's propaganda, Berlinguer worked also to enforce Luciano Lama's popularity in the field of Trade unions. The communist CGIL, Lama's union, became then the most important competitor of the government, de facto quite a dubbed labour party, leading the association with the other two unions (CISL and UIL), while the conservative trade union (CISNAL) was excluded by the most important decisions.

The breakup with Russia

In 1980 PCI publicly condemned the Russian invasion of Afghanistan; Moscow then immediately sent the French "colleague" Marchais to Rome, to try to bring Berlinguer into a milder position toward Russia, but Marchais was received with a notable coldness. The distance with Russia became very far when (in the end of that year) PCI didn't participate in the international conference of communist parties held in Paris. Soon, instead, Berlinguer made an official visit to China. In november of the same year, once again in Salerno, Berlinguer declared that the idea of an eventual Compromesso Storico has been definitively put aside; it would have been substituted with the idea of the democratic alternative.

In 1981, in a television interview he surprisingly declared that, in his personal opinion (and therefore in the political opinion of PCI), "the propulsive push of the October Revolution had been exhausted". The direction of the party criticised the "normalisation" of Poland and very soon the detachement from the Russian communist party became definitive and official, followed by a long polemic at distance between Pravda and L'Unità (the official newspaper of PCI), not made any milder after the meeting with Fidel Castro at Havana, Cuba.

On an internal side, Berlinguer's last principal claim is for the solidarity among the leftist parties ( Unità delle Sinistre).

Berlinguer suddenly abandoned the scene during a speech in a comizio (public meeting) in Padua; he was hit by a brainhaemorrhage while speaking and died three days after.

Analysis

The figure of Berlinguer has been defined in many ways, but he was generally recognised for a political coherence and a certain courage, together with a rare personal and political intelligence. A severe figure, a serious man (the anecdote with Roberto Benigni was perhaps the most cheerful moment of all his public life), he was sincerely respected and deeply esteemed by opposition figures too and his three days' agony was followed with great participation by the general population. His corpse, exposed at Botteghe Oscure (the head office of the party) was honoured by all of his political opposition, even by those from which he was divided by violent polemics (this fact surprised many foreign observers, starting with François Mitterrand). His funeral was followed by a large number of people, perhaps among the highest ever seen in Rome.

The most important political act of his career in PCI is undoubtedly the dramatic break with Russian Communism, the so-called strappo, together with the creation of Eurocommunism. And together with his substantial work tending to an opening towards possibilities of contact with the conservative half of the country.

The major difficulties that PCI encountered in Italy (in PCI's point of view), was like what other leftist parties encountered in other European countries, and consisted of the quite absolute refusal of contact from conservatives, since PCI hadn't broken its relationships with Russia and hadn't abandoned the classical schematic vision that usually leftist parties used to show regarding the social positions and relationships among social classes. In this sense, Berlinguer's work brought to a better legitimation of the party, even if the strappo is not unanimously considered as a mere manoeuvre of internal politics.

Berlinguer was, quite obviously, strongly fought by many sides. An internal opposition inside the PCI stressed that (in a rough synthesis) he had turned what was born as a workers' party into a sort of bourgeois revisionist club. External opposition figures noted that strappo took several years to be completed; this perhaps as an alleged evidence of not definitive decision on the point (it has to be recalled that previous leader Luigi Longo had already had contrasts with Russia at the time of Czech invasion).

The acceptance of the Atlantic Pact is however generally seen as a notable evidence of the autonomous PCI's position, following the supposed "diversity" of this party that Togliatti, Berlinguer's true maestro, used to describe "strange as a giraffe".

All the work of Berlinguer, nevertheless, even if supported by a notably correct communist local administration of some regions (as said), wasn't able to bring PCI into the government and the last idea of the leader, the democratic alternative, is yet to be translated into something of clear today.

He died Padua.

Fonte

http://www.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer

Enrico Berlinguer nacque a Sassari nel 1922 in una famiglia agiata della media borghesia cittadina (aristocratica ma antifascista) - (cugino di Francesco Cossiga di sei anni più giovane)

L’aria che respirò fin da bambino fu quella dell’antifascismo democratico e liberale del padre Mario, esponente dell’Unione Democratica Nazionale di Giovanni Amendola, poi del Partito d’Azione e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, del Partito Socialista Italiano.

La cultura democratica ed antifascista portarono il giovane Enrico ad assumere atteggiamenti contestatari nei confronti del sistema ed ad aderire (a 14 anni), in forma segreta e clandestina, al Partito Comunista Italiano di cui diventerà uno dei massimi dirigenti.

Trampolino di lancio di questa futura carriera sarà un incontro con Togliatti procuratogli proprio dal padre Mario.

La carriera di Berlinguer è quella del perfetto funzionario togliattiano; inizia con cariche a livello locale, entra in Parlamento, viene cooptato nel gruppo dirigente del Partito ed infine fa una veloce carriera politica ai vertici di quest’ultimo.

Alla morte di Togliatti sostituì Giorgio Amendola nel ruolo di coordinatore del Partito divenendone, negli anni della segreteria di Luigi Longo, il numero due.

Durante gli ultimi anni della segreteria Longo, quando il vecchio esponente comunista era malato, assumerà la guida effettiva del PCI di cui sarà nominato ufficialmente segretario nel 1972 ed inizierà subito un nuovo corso per la politica comunista pur mantenendo una forte continuità nelle tradizioni e nei comportamenti.

Di togliattiano non ebbe solamente il cursus honorem, ma anche, soprattutto, la formazione in cui furono presenti anche molti elementi di derivazione crociana che fecero di Enrico Berlinguer prima di tutto un attento osservatore delle vicende italiane ed un fine intellettuale.

Partendo dalle considerazioni togliattiane sulla fragilità della democrazia italiana ed analizzando la crisi cilena del 1973, Berlinguer progettò fin dal 1974 l’incontro tra cattolici, laici e comunisti che avrebbe dovuto essere la condizione per l’inizio di un periodo di ripresa e di sviluppo della democrazia italiana basato su di un compromesso di portata storica.

Purtroppo la tragica fine dell’onorevole Moro impedì che ciò avvenisse ed aprì le porte agli anni rampanti del craxismo e della corruzione.

Come Togliatti Berlinguer affidava ai partiti un ruolo pedagogico e di mediazione politica e sociale. La mediazione doveva essere di carattere alto e nobile in grado di impedire derive reazionarie nelle classi meno mature dal punto di vista politico e culturale.

Il “Compromesso Storico” avrebbe avuto come principale interlocutore il mondo cattolico e ciò doveva essere inteso come la naturale continuazione del tentativo di rapporto verso tali settori iniziato con il voto a favore dell’articolo 7 della Costituente da parte del PCI nel 1947 e del successivo discorso di Bergamo ai cattolici da parte di Togliatti.

Il dialogo ed il rapporto con i cattolici non era soltanto di carattere strategico, ma aveva anche una comunanza di caratteri di base come è verificato dal rapporto epistolare esistente tra Berlinguer ed il Vescovo di Ivrea, monsignor Bettazzi, ed i discorsi tenuti dallo stesso segretario comunista ad Assisi, alle “Marce della Pace” organizzate da Aldo Capitini.

Inoltre alcuni cattolici furono candidati nelle liste del PCI come indipendenti a partire dal 1976; Adriano Ossicini, Mario Gozzini ed Antonio Tatò furono i principali esponenti di quel tentativo di coniugare le istanze solidaristiche del messaggio evangelico cristiano con la ricerca di una più forte ed equa giustizia sociale della tradizione socialcomunista: era il cosiddetto cattocomunismo tanto odiato da Craxi, prima, e, poi, da Berlusconi.

Questa apertura culturale dei comunisti in politica interna andava di pari passo con una nuova politica estera più slegata da Mosca (in tale ottica va interpretato l’appoggio dato alla “Primavera di Praga” e la condanna del successivo intervento reazionario sovietico, maggiormente aperta a livello di integrazione europea e basata sulla ricerca di rapporti politici non solo con i partiti comunisti europei, che furono, anch’essi, di nuovo modello (l’ Eurocomunismo ), ma anche con la socialdemocrazia ed il laburismo europei, in primo luogo con la S.P.D. di Willy Brandt ed il Labour Party di Harold Wilson.

Altro tema cardine della politica berlingueriana fu la “questione morale”, ossia la denuncia della corruzione e dell’inefficienza del sistema democratico dei partiti politici.

Ciò non avvenne in un’ottica qualunquistica e demagogica, ma semplicemente fu il campanello d’allarme, insieme con la richiesta di una maggiore austerità economica, di ciò che sarebbe potuto venire se la politica non si fosse saputa regolare facendo, così, venire meno il legame con il paese reale.

Le parole usate dallo stesso Berlinguer per descrivere ed analizzare il fenomeno sono esaustive e descrivono chiaramente il fenomeno in questione.

Berlinguer, nel corso di una ormai famosa intervista ad Eugenio Scalfari, ebbe a dire, nel 1981, quanto segue: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le Università, la RAI TV , alcuni grandi giornali…..Bisogna agire affinché la giusta rabbia dei cittadini verso tali degenerazioni non diventi un’avversione verso il movimento democratico dei partiti”.

L’invito non fu accolto dalla classe politica dominante che, anzi, preferì parlare di moralismo usando toni a dir poco squallidi.

Anche il tema del risanamento economico, da intendersi anche come la ricerca di un nuovo modello di sviluppo compatibile non fu capita, ma anzi fu, addirittura, avversata: solo uomini come Ugo La Malfa, Paolo Baffi e Bruno Visentini ascoltarono, capirono e compresero il messaggio di Enrico Berlinnguer.

Esso era, in sostanza, un disperato appello per la salvezza e la difesa delle nostre istituzioni repubblicane e del nostro vivere comune, in poche parole della idea stessa di democrazia.

Se avessero ascoltato Berlinguer ci si sarebbero risparmiato i “folli anni ‘80” e la successiva fase caratterizzata da “Tangentopoli”.

Altro tema in cui Berlinguer fu precursore fu quello del decentramento politico, amministrativo e fiscale nel quadro di una maggiore responsabilizzazione dei centri di spesa locale.

Al convegno fiorentino del novembre 1982 organizzato dalla Confindustria sul tema “Lo Stato e i soldi dei cittadini” ebbe a dire: “E’ poi indispensabile che i Comuni – i quali peraltro sono l’unico settore dello Stato le cui spese sono rimaste al di sotto del tetto d’inflazione programmato – possano disporre di una autonoma capacità impositiva, secondo una linea generale che tenda a responsabilizzare sempre di più tutti i centri di spesa”.

La figura di Berlinguer è stata negli ultimi tempi oggetto di dibattiti e di convegni. Per tutti deve rimanere il ricordo di un uomo che ebbe indiscussi esempi di lungimiranza politica, che seppe arrivare prima a capire fenomeni e questioni che altri intuirono troppo tardi o che non capirono mai.

Come ha scritto Sandro Curzi. “Invece aveva ragione, non suggeriva alcun cilicio agli italiani e alla società moderna, e nemmeno voleva che qualcuno si spogliasse dei propri beni. Invitava piuttosto a riflettere sulla limitatezza complessiva delle risorse, a trovare una misura nel consumo: misura morale prima ancora che economica”.

Berlinguer morì nel 1984 ed ai suoi funerali parteciparono volontariamente e spontaneamente oltre un milione di cittadini che volevano esprimere il proprio affetto per un grande politico, anzi meglio, per un grande uomo che Indro Montanelli aveva definito “un uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre alle prese con una coscienza esigente, solitario, di abitudini spontanee, più turbato che alettato dalla prospettiva del potere, e in perfetta buona fede” di cui ci resta un programma sociale, politico, economico, etico e morale non scritto basilare per il futuro democratico e di progresso del nostro Paese.

di Luca Molinari

http://www.cronologia.it/storia/biografie/berlingu.htm

Quello che mi pare si possa dire in linea generale -forse su questo tema potremo tornare- è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell'est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d'inizio nella rivoluzione socialista d'ottobre, il più grande evento

Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell'est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo della distensione, perché è chiaro che l'inasprimento della tensione internazionale, la corsa agli armamenti portano all'irrigidimento dei vari regimi, compresi quei regimi; inoltre, è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell'ovest dell'Europa, nell'Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia. Si tratta, in sostanza, della politica, della strategia, dell'ispirazione fondamentale del nostro partito, che ricevono da quei fatti una nuova conferma.

Turone: Non le sembra in questa risposta di avvertire l'eco quasi storica di una felice eresia, a mio giudizio? Lei dice che la capacità di propulsione e di rinnovamento delle società dell'est europeo si è andata esaurendo; si chiude un ciclo. Ora, io vorrei sapere perché si chiude questo ciclo. Solo perché ci sono stati errori o anche perché forse c'è qualcosa che non funzionava nell'ideologia? Mi sembra di ricordare che nel documento già citato ci fosse una frase, quella sulla necessaria indissolubilità fra democrazia e socialismo, richiamata adesso da lei, che, sotto il profilo dell'ortodossia leninista, è veramente, felicemente eretica. Possiamo dedurne che il PCI, il quale è all'avanguardia nella coraggiosa opera di revisione in corso in campo comunista, ha finalmente messo in soffitta accanto a zio Stalin anche babbo Lenin?

Noi pensiamo che gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservino una loro validità, e che vi sia poi, d'altra parte, tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che sono ormai caduti, che debbono essere abbandonati con gli sviluppi nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, che si concentra su un tema che non era il tema centrale dell'opera di Lenin.

Il tema su cui noi ci concentriamo è quello della via al socialismo e dei modi e delle forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e con tradizioni democratiche quali sono le società dell'occidente europeo. È chiaro che l'esplorazione di vie verso il socialismo, in questa parte dell'Europa e del mondo, richiede soluzioni del tutto originali, rispetto a quelle che si sono attuate nell'Unione Sovietica e che poi si sono via via attuate negli altri paesi dell'est, sia europeo sia asiatico.

Da questo punto di vista, noi consideriamo l'esperienza storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti nell'est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti all'avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno considerate criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè, che noi chiamiamo terza via, la terza via appunto rispetto alle vie tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell'est europeo. Si tratta di una ricerca nella quale vediamo impegnati non solo alcuni partiti comunisti, ma anche alcune delle socialdemocrazie, o almeno, alcuni settori della socialdemocrazia, dove questo stesso tema viene discusso e approfondito.

Nichols: Vorrei parlare della crisi polacca, però allargando un pochettino le cose per parlare della crisi più generale che abbiamo in Europa. Il papa sta facendo, come sappiamo, molti passi e molti interventi sempre interessanti in questo campo. Lo ha fatto per molto tempo, lo sta facendo adesso. Nel campo della pace -diciamo- e nel campo dell'unità dell'Europa orientale e occidentale. Dànno fastidio questi passi ai comunisti, o sono ben visti da voi?

Tutt'altro. Io penso che le parole che soprattutto in questi ultimi tempi il papa ha pronunciato in modo chiaro per condannare la corsa agli armamenti e, in particolare, la corsa verso nuove armi atomiche, siano delle parole giuste, che dànno ascolto ed espressione alla volontà di milioni e milioni di credenti che hanno manifestato insieme a noi, o in forme autonome, nel corso di questi ultimi mesi, in Italia e in altri paesi europei.

Valuto soprattutto in modo positivo la più recente iniziativa presa dal papa, che non è più soltanto un appello alla pace. Il papa, come è noto, ha inviato suoi rappresentanti, scelti tra i membri della Pontificia Accademia delle Scienze, per illustrare ai rappresentanti delle massime potenze -Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Inghilterra- uno studio compiuto dalla stessa Pontificia Accademia delle Scienze sulle conseguenze di un conflitto atomico, affinché tutti ricavino, da questo studio e dai terribili disastri addirittura di proprozioni catastrofiche per tutta l'umanità che ne deriverebbero, le dovute conseguenze.

Non soltanto occorre subito arrestare ogni passo nuovo verso la corsa agli armamenti, ma occorre lavorare per la messa al bando delle armi atomiche. Questa è anche la nostra posizione e la posizione di numerosi Stati. È la stessa posizione che si è espressa potentemente nei movimenti della pace che si sono avuti in questo ultimo periodo quasi in contemporaneità, ed è un fatto nuovo di estrema importanza, in numerose capitali europee.

Noi pensiamo che si tratti di un movimento che coinvolge un insieme di forze: Stati, governi, movimenti popolari, Chiesa cattolica e altre chiese, e che premerà in questo senso. Ci sarà effettivamente la prospettiva di porre un termine a questa corsa che non posso giudicare altro che una follia.

Nichols: E sull'Europa orientale?

Il papa ha espresso un concetto che, dal punto di vista generale, è valido: l'Europa ha una sua unità, una sua civiltà comune. I popoli europei, indipendentemente dai loro regimi sociali e politici, debbono avvicinarsi, debbono comunicare maggiormente fra loro, debbono comprendersi. Anche questo è un concetto che non ci è estraneo, anche se noi lo esprimiamo e lo manifestiamo in forme e con iniziative diverse.

Fonte:

http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/strappo.htm

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