L’impegno in questa direzione deve tradursi inuna duplice attività: quella diretta a far sì che in tutti i corpi dello Statoe in coloro che vi lavorano penetrino e si affermino sempre più estesamenteorientamenti ispirati a una cosciente fedeltà e lealtà alla Costituzione esentimenti di intimo legame con il popolo lavoratore; e quella diretta apromuovere misure e provvedimenti concreti di democratizzazionenell’organizzazione e nella vita della magistratura, dei corpi armati e ditutti gli apparati dello Stato. Quest’azione può contribuire in misura assairilevante a far sì che il processo di trasformazione democratica della societànon prenda indirizzi unilaterali e non determini uno squilibrio tra settori chevengono investiti da questi processi e altri che ne vengono lasciati fuori oche vengono respinti in posizioni di ostilità: rischio, questo, gravissimo eche può divenire fatale.
Che fare? In quale direzionedobbiamo cercare noi di spingere le cose? Dalla sommaria ricapitolazione cheabbiamo fatto della composizione sociale e della condotta politica della Dcrisulta che questo partito è una realtà non solo varia, ma assai mutevole; erisulta che i mutamenti sono determinati sia dalla sua dialettica interna sia,e ancor più, dal modo in cui si sviluppano gli avvenimenti internazionali einterni, dalle lotte e dai rapporti di forza tra le classi e fra i partiti, dalpeso che esercitano sulla situazione il movimento operaio e il Pci, dalla loroforza, dalla loro linea politica e dalla loro iniziativa. Si pensi alla vicendapiù recente, quella del governo Andreotti: l’ostilità attiva delle massepopolari, la combattività e l’iniziativa unitaria dell’opposizione comunista,la battaglia del partito socialista e quella di gruppi, correnti e personalitàdella stessa Dc hanno portato allo sfaldarsi della coalizione di centro-destrae hanno creato una situazione in cui la stessa maggioranza di forze internaalla Dc che aveva portato Andreotti al governo, o che comunque lo sosteneva, èvenuta meno. La Dc ha dovuto abbandonare la linea e la prospettiva delcentro-destra.
Il Fatto quotidiano, 31 dicembre 2016
Il mio giudizio su Enrico Berlinguer è un po’ più tridimensionale di quello in voga. Perché non ha una sola faccia, una sola superficie, non è piatto. Già il fatto che ci sia stato un film-documentario di successo su Berlinguer, quello realizzato da Walter Veltroni, in cui c’è un tratto insincero, ti dice come Berlinguer sia disponibile a essere ‘utilizzato’. In questo film c’è uno spezzone del servizio girato dalla Rai ai suoi funerali. Si vede la grande folla riunita in piazza San Giovanni, ma il regista ha tolto l’audio. Se lo avesse lasciato che cosa si sarebbe sentito? L’Internazionale. Perché Berlinguer è l’ultimo dirigente comunista che faceva suonare l’Internazionale. È importante che ci sia questa colonna sonora. E lì non c’è.
C’è un’altra cosa molto interessante in quel documentario. Mentre parla Nilde Iotti e ringrazia il presidente della Repubblica, si vede Sandro Pertini che non riesce a trattenere le lacrime. Al suo fianco c’è il primo ministro di allora, Bettino Craxi, che non riesce a trattenersi dal ridere. Sono proprio a fianco, le due cariche principali della Repubblica. Uno piange e l’altro ride. E questo dice tutto.
Perché la mia opinione è tridimensionale? Perché io sono un anarchico, non un comunista. Sono un anarchico che, per non mi ricordo più quanti anni, è stato iscritto al Pci ed è andato a prendersi la tessera il giorno dopo aver ascoltato il famoso discorso di Berlinguer in cui diceva che non sarebbe bastato arrivare al 51%. E lo diceva perché Salvador Allende c’era arrivato al 51%, ma non gli era bastato. Pensa un po’: un anarchico che si iscrive al Pci perché è d’accordo sul Compromesso Storico. Una roba grossa! Ma bisogna capire. (…) Immagino abbiate presente che cosa sono stati il 1974, il 1975, il 1976: in quegli anni la democrazia in questo Paese è stata veramente in serio e imminente pericolo. E lo dice un anarchico, ancora una volta. Essendo un anarchico, forse non me ne importava nulla della democrazia? No, me ne importava eccome. (…)
Nel 1974 è arrivata la paura, con il tentativo di colpo di Stato, gli attentati. E poi una cosa terribile: il Movimento che si sfascia. Ero abituato all’idea che tutto fosse precario, ma non che tutto fosse perduto. Mai. (…) In quegli anni la mia compagna e io non vedevamo una contraddizione tra Berlinguer e le nostre idee, che pure erano diverse dalle sue. Quando sono andato a iscrivermi al Pci non sono andato alla Sezione Centro, sono andato alla Sezione Nord di La Spezia, che era quella del quartiere operaio, dove se c’era una cosa che proprio non sopportavano erano quelli come me. Però non mi sopportavano come non si sopporta un figlio. E infatti, appena mi sono iscritto, la prima cosa che mi hanno fatto fare è stata quella di scaricare la roba alla Festa dell’Unità, non mi hanno chiesto di elaborare un pensiero.
La mia iscrizione al Pci era veramente un atto di riconoscimento di una necessità, del bisogno di protezione. Che veniva da Berlinguer. (…) Sapevo e so che diceva la verità, soprattutto che diceva una verità che parlava alla mia fragilità, e che il suo Partito Comunista poteva sembrarmi un posto dove potevo stare. (…) Mi dicevo: devo pagare qualcosa alla realtà, altrimenti la realtà mi sommergerà. Mi dicevo: o mi iscrivo al Pci o mi sposo. Mi sono iscritto al Pci. Berlinguer era la realtà più consona a quella che era stata la mia educazione. Quando ho sentito il discorso del 51%, così poco anarchico, così poco sognatore, ho sentito che era il discorso della verità. (…)
Eppure nell’atto stesso della mia adesione c’era il seme della mia dis-adesione. Nel 1974 a La Spezia ci fu una grande assemblea sul Compromesso Storico. Mille persone, mille compagni del Pci in sala, e io sono in piedi nel corridoio, accanto a Paolino Ranieri, comandante partigiano. Mentre qualcuno parla dal palco sento che Ranieri dice: “Sì, però non l’ha mica discusso nel Comitato Centrale”. Nel momento stesso in cui mi affido a Berlinguer, mi rendo conto che mi affido anche, nella sua stessa logica, a uno che non si affida alla democrazia centralizzata, nemmeno a quella. Per inciso, fece benissimo. (…)
Berlinguer è stato sconfitto dal suo partito, perché forse l’unica possibilità che ancora poteva avere la democrazia incompiuta di questo Paese per compiersi era quella del passaggio generazionale, del raccogliere intorno a sé i figli, che non solo avevi messo al mondo ma che avevi fatto studiare e a cui avevi dato la possibilità di scapicollarsi e di essere questa enorme massa viva in totale abbandono. E invece questo salto il partito non glielo fece fare. (…)
Mi ricordo la fine degli anni Ottanta. Per un breve periodo ho lavorato al Comune di La Spezia e vedevo gli assessori che entravano in ufficio con L’Unità nella tasca della giacca, bella in vista. All’improvviso un giorno non c’è più L’Unita ma Il Sole 24 Ore. Quindi i comunisti si mettono a leggere Il Sole senza capirci nulla, perché non erano preparati, non avevano gli strumenti. (…) E poi ovviamente Craxi. Tra Compromesso Storico e giunte con sindaci socialisti il passo nel baratro è stato spettacolare. Craxi ha distrutto, cancellato quel poco di Berlinguer che ancora c’era. Berlinguer era amato dal suo popolo e non solo. Per me era una questione di sensazione, non di conoscenza. Berlinguer era così: le sue parole erano sempre la sua faccia e il suo esempio.
Garibaldi, dopo che con sessantaquattromila fucili puntati contro ha consegnato al re, a Teano, la più grande conquista militare del XIX secolo, viene immediatamente messo, di fatto, agli arresti domiciliari. Scappa, senza dare nell’occhio, va a Londra. Quando arriva a Londra la città si ferma, il porto si ferma, una folla immensa lo festeggia. La regina Vittoria scrive al suo primo ministro Benjamin Disraeli per chiedergli la ragione di questo trionfo. E lui risponde testuale: “Maestà, Giuseppe Garibaldi è oggi l’individuo più potente del mondo. Perché è ciò che dice, dice ciò che fa, fa ciò che è”. Puoi dirlo anche di Berlinguer. (…)
Mi sono iscritto anche al Pd. Sono andato nella sezione di casa mia, a Genova e l’ho trovata chiusa. Fisso un appuntamento, la segretaria si presenta con un’ora di ritardo. Prendo la tessera, ma non mi arriva mai la comunicazione della convocazione dell’assemblea congressuale, la ragione per cui mi ero iscritto. Chiedo informazioni e mi rispondono che me l’hanno mandata in busta anonima (un tipo di busta che normalmente butto via) “per non mettere in imbarazzo chi la riceve”. La sede è ancora chiusa.
Nel 1982 entrai nell’Arci e per me è stata una nuova possibilità. Conobbi Tom Benetollo, cacciato dal Pci. Anni prima, Berlinguer segretario lo aveva mandato al Congresso Mondiale della Gioventù Comunista a Pechino. Tom andò e lesse in un’aula immensa, attonita e silenziosa il testo di Blowin’ in the Wind, di Bob Dylan. Fu l’unico non applaudito in tutti quei giorni. Di nuovo, Tom assomiglia a Berlinguer e assomiglia a Garibaldi. L’idea è ciò che rende un uomo veramente potente. E noi ci crediamo e non smettiamo mai di crederci.
(Dalla postfazione a “Berlinguer. Vita trascorsa, vita vivente”, di Simone Siliani e Susanna Cressati, Maschietto editore, Firenze 2016)
La nostalgia per Enrico Berlinguer è come l’odore che proviene da questa antica fiaschetta dal collo morsicato. È un profumo forte, che si sente ancora. Menichelli ha vissuto tre lustri con Berlinguer. Molto più di un autista. Fu il suo angelo custode dal 1969 al 1984, l’anno della morte del compagno segretario del grande Partito comunista italiano. Menichelli faceva parte della Vigilanza del Partito, tutto con la maiuscola e fu assegnato a Berlinguer quando questi era stato da poco scelto come vicesegretario e successore di Luigi Longo, al posto del favorito Giorgio Napolitano. Era il 1969. Romano di borgata, Menichelli era arrivato alla Direzione, nel mitico Bottegone, nel 1964. La sua sezione Pci, quella di Villaggio Breda, fece una lettera di presentazione. In una riunione del comitato direttivo era stata esaminata “la biografia del compagno Menichelli Alberto” e l’esito fu positivo: “Il comitato direttivo dà parere favorevole, considerandolo un compagno serio, onesto (identico giudizio si dà sulla famiglia)”. Più di mezzo secolo dopo, Menichelli presiede l’associazione culturale intitolata a Berlinguer nel suo quartiere romano, a Cinecittà.
Quanti iscritti avete?
Trecento. L’altro giorno abbiamo chiuso la mostra.
Ovviamente dedicata a Berlinguer.
È un’iniziativa partita nel 1990 a Pescara, adesso va a Latina. Tantissimi sono venuti a vederla in sezione.
Sezione?
Circolo, mi scusi, sono abituato a chiamarla sezione. Sono anche presidente del comitato del No e leggo il Fatto perché siete rimasti voi a difendere la sinistra e i lavoratori.
La passione per Berlinguer è senza partito, ormai.
Alla mostra, mi ha colpito la presenza di molti giovani. È un dato incredibile se pensa che Berlinguer è morto 34 anni fa, quando loro non erano ancora nati.
Il suo impatto con lui come fu?
Ero teso, Berlinguer non voleva l’autista, fu costretto dal Partito, nel ’69 c’era stata la strage di piazza Fontana, cominciava un periodo di grandi paure. A lui piaceva guidare. Aveva una Fiat 1100. Era pignolo, quando arrivava a Botteghe Oscure parcheggiava da solo e saliva su.
Allora lei gli portò via un piacere quotidiano.
La prima settimana fu di silenzio totale. Solo “buongiorno” e “buonasera”. Ero timido, lui riservato.
La giornata tipo?
Al mattino ritiravo la mazzetta dei giornali e alle 7 e 30 ero da lui. Lo trovavo in pigiama, preparava la colazione per la famiglia. All’epoca abitavano ancora in viale Tiziano.
Una volta, Forattini fece una perfida vignetta con Berlinguer in pigiama.
Sì, la ricordo. Con questa storia del pigiama c’era un fotografo che mi perseguitava.
Immagino.
Voleva rifilarmi una macchinetta speciale per fotografare Berlinguer in pigiama. Diceva: “Famo un sacco di soldi”.
Prima dei soldi, c’era la lealtà verso il Partito.
Quello che diceva il Partito non si discuteva. Per me era un onore accompagnare Berlinguer, era l’uomo che rappresentava noi comunisti italiani.
Il rito dei quotidiani come si svolgeva?
A questo punto, Menichelli declama l’ordine di lettura dei quotidiani come se fosse una formazione di calcio). Leggeva Unità e Paese Sera. Poi Messaggero, Popolo e Tempo; Avanti!, Avvenire e Secolo d’Italia; Corriere della Sera, Stampa, Giorno e Umanità. Aveva anche due giornali francesi: Le Monde e L’Humanité. Nel frattempo accompagnavo Marco e Maria a scuola (due dei quattro figli di Letizia ed Enrico Berlinguer, ndr) e quando tornavo alle nove lo accompagnavo alla Direzione.
I vostri discorsi in auto fecero progressi?
Dopo due mesi avevamo preso confidenza. Berlinguer era una persona schiva ma non triste come è stato detto. Era essenziale e di un’onestà esemplare. Una mattina cominciammo a cercare i cartelli con su scritto “Affittasi”. Doveva lasciare la casa di viale Tiziano e cercava un nuovo appartamento.
Berlinguer cerca casa.
Andai da Cossutta, che all’epoca guidava l’Organizzazione. Era il 1974. Gli posi il problema così: “Vi sembra normale che il segretario del Partito (Berlinguer divenne segretario nel 1972, ndr) debba cercare casa da solo?”
E Cossutta?
Mi rispose: “Mica lo sapevo”. “Ecco adesso lo sai”, gli ribattei. Attivò il compagno dell’Economato. Prima gli proposero una villetta alla Camilluccia, ma lui rifiutò: voleva un appartamento più modesto. E così venne fuori la casa di via Ronciglione 12. A una condizione però.
Quale?
Doveva pagare lui l’affitto, non il Partito, altrimenti avremmo continuato a cercare noi i cartelli “Affittasi”. Così ogni mese io portavo una busta coi soldi a Botteghe Oscure.
In tempi di Casta, lei ha descritto una scena lunare.
Berlinguer era questo. Se non eravamo fuori Roma, cenava sempre a casa. Ogni sera, prima di ritirarci, comprava un litro di latte. Un giorno glielo chiesi: “Perché prendi il latte?”.
Cosa rispose?
Mi disse: “Mi premunisco, a quest’ora il frigo è quasi sempre vuoto”.
Il frigo vuoto!
Pagava il latte coi soldi sempre ciancicati, perciò gli regalai un portamonete. Una volta lo trovai seduto per terra nel salone. Attorno a lui tanti libri. Gli dissi: “Ma che stai combinando?”. Lui brusco: “Stai zitto che non mi ricordo più in quale libro ho nascosto 50 mila lire”.
Un materialista poco attento alle cose materiali.
Completamente disinteressato. Un giorno dovevamo andare a Torino. C’era uno sciopero aereo e fummo costretti a prendere il treno. Peraltro io avevo paura di volare. Berlinguer mi prendeva in giro: “Hai messo il paracadute?”. Quel giorno avevamo preso uno scompartimento, eravamo alla stazione Termini di Roma e io aspettavo sul binario il resto della scorta. All’improvviso vedo un poliziotto venire verso di me. “Che c’è?”, gli faccio. Lui mi risponde: “Il segretario ha due scarpe diverse”. Così salgo sul treno e vado da lui. Mi guarda e io: “Le scarpe sono spaiate”. Lui portava sempre i mocassini.
Partiste?
Crto. Chiuse la questione a modo suo: “Non sono tanto diverse, nessuno se ne accorgerà”. Un’altra volta perse il cappotto. Era un paltò verde talmente consumato che le asole erano diventate buchi. Lo dimenticò alla Camera per la fretta di tornare a Botteghe Oscure. Pensai: “Meno male, così ne prende uno nuovo”.
Invece lo ritrovò.
Esatto. Per dirle che persona era. Non gliene importava nulla. Anna (Azzolini, la storica segretaria di Berlinguer, ndr) mi raccontò che un famoso stilista dell’epoca, Litrico, aveva mandato una lettera. Voleva vestire gratis il segretario. Berlinguer rifiutò senza pensarci.
Nonostante tutto, piaceva molto. Anche alle donne.
Reichlin lo invidiava: “Le donne vengono sempre da te”. Ma lui era timidissimo. Ricordo che ad Avezzano fece una conferenza stampa in piazza. In prima fila c’era una signora matura, molto piacente. La rividi a Roma, a un comizio. Lo dissi a Tatò: “Quella signora era anche ad Avezzano”. Decisi di avvicinarla. Era un’americana, affascinata dal personaggio di Berlinguer.
Riferì al segretario?
Sì e gli dissi: “La prossima volta te la presento”.
Accettò?
Per niente. Mi fulminò: “Aho che porti!?!”.
Un monaco.
Per nulla triste, ripeto. Scherzava spesso e si preoccupava sempre per noi della Vigilanza. Abbiamo festeggiato tante volte Natale e Capodanno insieme, con le nostre famiglie, alle Frattocchie (la zona dei Castelli Romani dove il Pci aveva la sua “scuola”, ndr). Poi c’è l’episodio di Parigi.
Racconti.
Eravamo all’aeroporto De Gaulle, per tornare in Italia, e mi fa: “Vogliamo portare un regalino alle nostre mogli?”. Così entriamo in un negozio di profumi. La commessa ci indica una boccetta e ci spiega che è molto richiesta dalle signore italiane. Diciamo che va bene e andiamo alla cassa. Ci prese un colpo: costava 18 mila lire, un quarto del mio stipendio di allora, ma nessuno dei due disse nulla, per il timore di apparire provinciali. Pagammo e zitti.
I viaggi lunghi in auto come si svolgevano?
Lui si sedeva avanti. Gli avevo predisposto un tavolinetto per lavorare. Non staccava mai, si preparava tutto e scriveva a mano. Non parlava a braccio, non improvvisava come oggi Renzi. Quando poi doveva fare relazioni o discorsi di una certa importanza si rifugiava dalla zia Ines a Grottaferrata. Gli articoli per Rinascita sul compromesso storico li scrisse lì, dalla zia Ines, che per lui era come una mamma.
Il 1976 è l’anno decisivo.
Fu l’anno in cui aumentò la scorta a Berlinguer. Per le Br era un obiettivo e cominciammo a girare con due auto qui a Roma. Io ero sempre con lui, insieme con Lauro Righi. Davanti, nell’altra auto, c’erano Dante Franceschini e Pietro Alessandrelli. Ogni volta un percorso diverso. A causa dei terroristi cambiammo anche il lattaio. I terroristi avevano studiato la zona vicino a casa sua e così iniziò a prendere il latte da Vezio (leggendario bar comunista, a Botteghe Oscure, ndr).
Che auto era?
Un’Alfa 2000 blindatissima. La scorta di Moro ce la invidiava.
Già.
Berlinguer e Moro fecero due incontri segreti, sempre a casa del segretario del leader democristiano. Il secondo finì alle quattro di mattina. Vedemmo la lucina accendersi sopra il portone e ci preparammo. Era Moro che scendeva. Uscì e s’infilò per sbaglio nella nostra auto.
Un tragico lapsus preveggente.
Nelle lunghe ore di attesa, conobbi il maresciallo Leonardi, il capo della scorta di Moro. Volle vedere le nostre auto dall’interno e mi confidò che gli rinviavano sempre la richiesta di un’auto blindata. Io e i miei colleghi maturammo una convinzione.
Quale?
Se lo portavamo noi, Moro, non succedeva nulla. Con le nostre due auto, le Br non avrebbero mai potuto fare l’azione di via Fani.
Invece finì con la Renault rossa in via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, sede della Dc.
Il giorno del ritrovamento, Berlinguer mi chiama e mi dice: “Dall’Unità dicono che bisogna cercare un’auto rossa qui vicino”. Io vado da Vezio al bar e lui mi manda da un suo amico al primo piano. Saliamo e mi affaccio. Ero al telefono con Berlinguer per descrivergli tutto. E quando vedo la polizia aprire lo sportellone della Renault, lui attacca senza dire più nulla. Aveva già capito. Da quel momento cambiò per sempre. Nemmeno nel 1970, quando dormivo spesso a casa sua per la paura di un colpo di Stato, l’avevo visto così.
Inizia il cosiddetto “ultimo Berlinguer”.
Gli sentii pure dire che era assurdo che il segretario del Pci fosse a vita, che bisognasse aspettare la sua morte.
Una profezia su se stesso.
Quel giorno a Padova mi fece anche uno scherzo.
Stava bene.
Benissimo. Eravamo pronti per andare al comizio ma lui non scendeva dalla camera d’albergo. Vado su e non lo trovo. Ritorno giù, trafelato, e lo vedo spuntare nella hall, che rientra da una passeggiata. Mi dice: “Stavolta t’ho buggerato”.
Dopo l’interruzione del comizio, rientraste persino in albergo.
Sul palco, gli misi l’impermeabile sulle spalle e lui mi sussurrò di prendere i suoi appunti. In albergo era già in coma.
Trentaquattro anni fa.
Il mio Partito morì allora.
"». Il manifesto,
È un crocevia classico che appassionò Togliatti, che in questo si pose in netta discontinuità con l’anticoncordatario e «illuminista» Gramsci, come ricorda Giuseppe Vacca. E che tornò con forza in Berlinguer.
Il libro ripropone un momento significativo del confronto: il carteggio che nel 1977 vide impegnate le penne del vescovo di Ivrea Bettazzi e il segretario del Pci. Accanto alla convergenza individuata attorno ai condivisi «contenuti umanistici» o al riconoscimento del valore della persona, il dibattito mise in luce anche una contraddizione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come partito laico e pluralista, con l’articolo 5 dello statuto che invece prevedeva il canone del marxismo-leninismo.
Era la celebre questione del «trattino» che per alcuni mesi vide incrociare le spade alcuni filosofi comunisti e che fu archiviato, precisa Vacca, nella revisione statutaria del 1979. Il nodo più rilevante comunque verteva sulla conciliabilità tra l’identità comunista, protesa alla critica del capitalismo in nome di istanze generali di liberazione umana, e le analoghe tensioni per il trascendimento del presente che si affacciavano nel mondo della fede, dal «laburismo cristiano» di Dossetti, al fermento dei movimenti di base sino alla proposta esplicita delle Acli di una nuova società socialista.
Su questo possibile momento di confluenza, all’interno dei grandi valori costituzionali della solidarietà e della persona come valore, aveva insistito già Togliatti, in assemblea costituente. E ancor prima, nel discorso al teatro Brancaccio di Roma nel 1944, si era spinto a proporre alla Dc «un patto comune di azione, per un programma comune».
A Bergamo nel 1963 il leader del Pci annunciò una critica della società del consumo, fonte della incomunicabilità sostanziale dell’uomo moderno, che anticipava il richiamo di Berlinguer all’austerità quale occasione per ripensare radicalmente il modello di sviluppo, gli stili e i valori di vita.
Domenico Rosati scorge una affinità tra la proposta berlingueriana di austerità come contestazione dei pilastri della società borghese e l’annuncio di Moro della stagione dei doveri. Su questi lidi di censura dell’edonismo, in nome di una emergenza antropologica, c’è il rischio di smarrire il senso anche positivo del consumo ai fini della costruzione della soggettività (il consumo con il suo nichilismo mercantile è ciò che salva il capitalismo, lo intuì già Tocqueville; e non è anche per l’incapacità di garantire il consumo di massa che invece crolla il comunismo?). Ma lo scopo della riflessione sull’austerità come «occasione» non era quello di imporre una povertà generale ma di definire il progetto di un nuovo ordine sociale con altre compatibilità, con altre qualità riconosciute del vivere collettivo.
La specificità del contributo di Sardo è che la riproposizione del tema della fede (la sua domanda iniziale è: perché solo in Italia esiste una robusta componente cattolica che non si riconosce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per interrogarsi sul senso della eredità del comunismo italiano dopo la fine del Pci.
Perché quello che è scomparso è la traccia di un mondo, i segnali di un pensiero, i luoghi di una comunità, travolti da quello che Sardo chiama «il riformismo subalterno» che sfida identità, memorie, cultura politica, modello di partito, radicamento sociale, idea di società.
«Quando c’era Berlinguer la politica sapeva ragionare», osserva Rosati. Oggi, con il divorzio tra politica e ragione, avanza un nichilismo sorridente che costringe gli avanzi impotenti di una grande tradizione critica ad obbedire a un tweet, a scorgere carisma in una camicia bianca, a riverire gli imprenditori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rompere con il movimento operaio come terra insignificante, che neppure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.
«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».
Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul supplemento che l’Unità ha dedicato a Enrico Berlinguer nel trentennale della morte. Do atto al quotidiano un tempo “comunista” di aver operato un’apertura considerevole perché, come è ovvio, era implicito che avrei parlato anche dello scontro che, come gruppo de il manifesto, avemmo con l’allora segretario del Pci quando fu decretata la nostra radiazione dal partito. Tempi oggi cambiati rispetto a quelli in cui lo stesso giornale era arrivato a pubblicare un articolo, a noi rivolto, intitolato «Chi vi paga?», in cui si esprimeva il sospetto che si trattasse della Confagricoltori. (Chissà perché proprio la Confagricoltori).
E tuttavia, come mi è capitato in questi ultimi tempi di ripetere, quasi quasi rimpiango quelli pur durissimi della nostra radiazione: perché lo scontro asprissimo produsse un trauma in tutto il partito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una riflessione in tutta l’opinione pubblica della sinistra.
Oggi si può dire qualsiasi cosa che, vista la povertà del dibattito politico, non suscita, non dico passioni, ma nemmeno interesse. (Stento a definirla “libertà d’espressione”).
Questo sta infatti accadendo con l’amplissimo fiorilegio di pubblicazioni dedicate alla memoria di Enrico Berlinguer: che suscitano, come è giusto e naturale, grandi emozioni e nostalgie — soprattutto quando si rivedono le immagini struggenti del dolore profondo e sincero di un intero popolo al suo funerale — ma non contribuiscono affatto a chiarire il profilo politico di Berlinguer. Un giovane nato negli ultimi decenni potrà desumerne che si trattava solo di un uomo onesto capace di suscitare affetto e consenso. Certo non è poco di questi tempi, ma pochissimo per far capire davvero chi era.
Perché Berlinguer è stato un dirigente per nulla privo di spigoli, che non ha concesso nulla alla ricerca di un consenso facilone, non parliamo delle sue capacità comunicative: era il contrario dello showman. E che ha operato scelte spesso contrastate e non solo dall’esterno del Pci.
Banalizzarlo è la peggior sorte che gli si potesse riservare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pubblicazione di un numero speciale a lui dedicato di “Critica Marxista”, dove, se non sbaglio, fu solo Sergio Garavini a ricordare esplicitamente questi contrasti.)
Non un’operazione innocente: serve a far credere che anche quanto si fa oggi sia in definitiva in continuità con il suo pensiero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bacchettone, un po’ troppo ancorato al passato, lento nel percepire quanto aveva invece colto Bettino Craxi: che il mondo era cambiato e per essere contemporanei bisognava sposare la modernità senza aggettivi che il sistema proponeva.
(Persino il più quotato candidato al premio Strega, Francesco Piccolo con il suo “Tutti”, percorre la stessa strada: ama Berlinguer fino ad identificarsi con lui, ma lo rende una figura patetica, un vecchio buon nonno).
Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»
Il nostro giudizio su Berlinguer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più positivo. Al momento della radiazione i punti del contrasto furono importanti. In breve:la sua sordità rispetto ai movimenti emergenti, peggio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova generazione che aveva captato la valenza delle nuove contraddizioni del capitalismo; l’insufficienza di un sistema tutto fondato sulla democrazia delegata e la necessità di intrecciarla con nuovi organismi di rappresentanza diretta; la critica al comunismo sovietico e alla coesistenza fra le due grandi potenze mondiali intesa come strumento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, compagno largamente e così ingiustamente dimenticato, a capire assai di più, e lo ripetè, inascoltato, fin quando non fu definitivamente zittito dalla malattia. In un articolo su “Rinascita” era persino arrivato ad invocare maggiore pluralismo, in controtendenza con la rigida difesa dell’unanimismo invocato in nome di un’unità del partito già largamente fittizia).
Poi venne il compromesso storico, obiettivo di lungo periodo, e il governo di unità nazionale come passaggio verso quella meta. Un’ipotesi che riduceva il ben più complesso problema del rapporto col mondo cattolico a quello con la Democrazia Cristiana. Per Gramsci si era trattato della questione contadina, per Togliatti della questione democratica per arrivare più tardi alla comprensione che una religiosità davvero sentita poteva contribuire a superare l’identificazione borghese di libertà con individualismo (vedi le tesi del 9° Congresso del Pci). Stranamente proprio Berlinguer, che cercò più di ogni altro un avvicinamento alla Dc, aveva sempre manifestato incomprensione per il ben diverso travaglio di un mondo cattolico che non si identificava affatto con il partito e che, dopo aver emarginato Dossetti, aveva assunto il ruolo di pilastro del neocapitalismo italiano. Fu un rimprovero che avanzammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne conseguenze in termini di iniziativa politica, la crisi profonda della gioventù cattolica per effetto di quella scelta e che portò alle dimissioni di ben due presidenti della Giac e molti aderenti alla Fuci a confluire via via nel Pci.
Non sono pochi né di poco conto, dunque, i dissensi che ci hanno opposto. E però c’è poi quanto accadde a partire dalla fine dei ’70. Su questo non fummo tutti concordi e il dibattito proseguì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivista del Manifesto”, quella che riprendemmo a pubblicare grazie all’incontro con gli ex ingraiani che nel 1969 non avevano seguito la nostra scelta e al reincontro fra tutti noi manifestini, fra cui il rapporto si era incrinato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la redazione del giornale.
Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu definita, perché prese corpo con un discorso di Enrico Berlinguer ad un Comitato centrale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il terremoto dell’Irpinia; e dopo che nelle elezioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla politica dell’unità nazionale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il partito stesso ne era uscito fatalmente deteriorato per effetto della progressiva identificazione con il sistema dei poteri locali.
La svolta, di nuovo molto schematicamente, consistette soprattutto:
- nell’abbandono del compromesso storico e nella proposta di alternativa;
la aperta polemica con la linea adottata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della direzione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai cancelli della Fiat a riaffermare il dovere di rappresentanza della classe operaia del Pci, e dunque la proposta di referendum sulla scala mobile azzoppata dall’accordo detto di San Valentino fra sindacato e governo Craxi;
- la rottura con l’Urss brezneviana, certo fatalmente tardiva ma che con quella frase «è cessata la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre» voleva dire una cosa successivamente negata: che era comunque bene che quella rivoluzione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo sostegno al movimento pacifista, che si accompagnò al suo discorso sulla possibilità per l’Europa di una terza via, dunque di un autonomia dai due modelli, così come pur fra molte incertezze emergeva anche nel dibattito della sinistra socialdemocratica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire monacale rinuncia ai piaceri della vita (come fu interpretata), né cedimento alle richieste padronali di “austerity”, ma assunzione del modernissimo problema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla corruzione, che fu in realtà la denuncia di una ormai gravissima crisi della democrazia.
Molti, anche fra le nostre fila, Rossana per esempio, di questo passaggio dettero un giudizio più severo, quelli del Pdup vi fondarono invece il reincontro con Berlinguer, nella fase della più profonda aggressione dell’anticomunismo craxiano. Fu lui stesso a proporci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro congresso a Milano, forse anche perché pur essendo noi un piccolo partito avevamo qualche migliaio di quadri capaci che potevano aiutarlo a rompere l’isolamento in cui si era trovato nel suo stesso partito. Noi accettammo: non si tratta di un rientro – disse Magri al Congresso in cui venne presa la decisine — ma un reincontro, una tappa del processo che avevamo ipotizzato fin dalla nascita de “Il Manifesto”: aprire una dialettica fra movimento operaio tradizionale e nuovi movimenti.
Credo sia stato giusto farlo, anche se la improvvisa scomparsa del segretario del Pci tagliò le ali a quella prospettiva. Altri compagni, la maggioranza della redazione del giornale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritrovammo non era forse più riformabile.
“E’ morto un buon comunista” – intitolò il giorno dopo la morte di Berlinguer il manifesto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo editoriale del 12 giugno che la sua morte «era una tragedia politica», per via «dei grandi rischi che la democrazia italiana sta correndo». Il titolo diceva: «Caduto in battaglia», il riconoscimento della durezza dello scontro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impegnato, uno scontro in cui, «lui che, per sua natura così prudente, ha trovato accenti estremi per esprimere i suoi convincimenti e suscitare energie capaci di rovesciare l’andamento delle cose». Fino a rivendicare orgogliosamente “la diversità” dei comunisti: non per superbia o arroganza, ma per sottolineare che quel che li distingueva era un di più di impegno, di moralità, di disposizione al sacrificio, in nome della lotta per una società non semplicemente “aggiustata”, ma radicalmente diversa.
Delle frasi pronunciate in quegli ultimi anni da Enrico vorrei ricordarne soprattutto una, che oggi mi pare essenziale: «Non c’è fantasia, invenzione o rinnovamento, se si smantella quello che vi è alle spalle».
Fra i molti libri che le più prestigiose case editrici italiane si apprestano a stampare, emerge con un valore tutto proprio il lavoro inedito di Guido Liguori, studioso del pensiero politico e di Gramsci, di cui esce in questi giorni per Carocci il suo Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Berlinguer. Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, Editori Riuniti University Press).
Il rischio del volume è di idealizzare quell’epoca e, con essa, Enrico Berlinguer che ne è stato un protagonista indiscusso. Un rischio che si presenta con tutta evidenza quando Liguori ce lo descrive come il dirigente per il quale la politica è «passione e dovere», un modello di uomo politico impensabile ai giorni nostri, che «sempre immerso nei libri e nei giornali, passava le nottate a leggere, a prepararsi». Un rischio destinato a essere superato grazie al rigore analitico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chiarisce del contesto in cui Berlinguer si trovava ad operare.
La fine di un'epoca
L’apertura di Berlinguer verso il blocco governato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichiarazione della «nostra appartenenza» ai paesi Nato (la cosiddetta «via italiana al socialismo» non prevedeva ostacoli o condizionamenti da parte dell’Urss, secondo le parole del segretario), ma evidentemente questo non era stato sufficiente a tranquillizzare i professionisti dell’anticomunismo, memori di un capo del partito comunista italiano che, sempre in quegli anni, si lasciava andare a una dichiarazione tanto forte quanto discutibile: «È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no».
Liguori è opportuno ed efficace nel richiamare un dato centrale: quella, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comunque cambiando. È in quella fase che ha inizio il fenomeno politico sociale che oggigiorno si è affermato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costituisce un elemento nodale di comprensione di quel tempo: la fine del modello keynesiano, caratterizzato da una felice commistione di libero mercato e intervento governativo (welfare state) e il ritorno prepotente dell’ideologia e della politica liberista, basata sull’esaltazione della ricerca del profitto individuale e sulla mortificazione di ogni intervento statale che fosse volto alla tutela della giustizia sociale.
Il peccato originale
Contro questo preponderante ritorno di un’economia a cui veniva affidato il governo incontrastato sulla politica e sulle faccende umane, nell’ambito del mondo che si stava globalizzando, Enrico Berlinguer opponeva una soluzione che ha forti eco con quella portata avanti da Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei liberisti): un «governo mondiale» che, sulle basi politiche della centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mercatiste di un capitalismo che «aveva generato la decadenza della vita economica e della vita sociale, da cui nascevano non solo crescenti disagi materiali per le grandi masse della popolazione lavoratrice, ma anche il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le chiusure individualistiche, le illusorie evasioni».
In tale contesto quella di Berlinguer è anche la storia di una grande sconfitta, e questo emerge in maniera timida dalle considerazioni di Liguori. Il suo essere stato anzitutto un uomo dell’apparato, la sua miopia ideologica e politica rispetto alle spinte provenienti dai movimenti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il conservatorismo ideologico misto al deficit di laicità (peccato originale del comunismo italiano) che lo situarono su posizioni scettiche riguardo agli importanti referendum indetti dai radicali negli anni Settanta, rappresentano alcuni degli elementi alla base della sconfitta di Berlinguer (e del Pci), soprattutto di fronte alle spinte postmoderniste provenienti dal Psi del rampante Craxi.
Inopportune mitologie
Allora come oggi, probabilmente, in cui l’apparato più ortodosso del Pd (proveniente dall’ex Pci), col proprio immobilismo ha lasciato campo libero all’emersione esplosiva di figure spregiudicate e senza un fondamento teorico e programmatico di fondo, ci si è trovati a pagare un prezzo salatissimo e drammatico, proprio nel momento in cui maggiormente sarebbe stato necessario avere un forte contraltare alle spinte nuovamente disumanizzanti e totalitarie del neo-liberismo.
Certo, la denuncia berlingueriana della «questione morale» fu quanto mai profetica, come quel suo monito affinché i «partiti cessino di occupare lo Stato», ma è indubbio che troppi ritardi all’interno del Pci contribuirono in maniera sostanziale a che l’ideologia liberista riuscisse nella sua impresa di distruggere proprio lo Stato, rendendo conseguentemente obsoleti e depotenziati quegli stessi partiti (e idee) politici.
Ormai è il tempo in cui la politica si fa nei talk show. Una «piccola politica» (Gramsci) a cui Berlinguer ha poco o nulla da dire. Alla «grande politica», ammesso che essa possa finalmente tornare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia consapevoli anche dei suoi limiti. Tenendosi ben lontani da inopportune mitologie. Ben lontani, a pensarci bene, dalla logica spettacolare dei talk show.
A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014
Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer
CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.
*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.
*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.
*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico
dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)
La Repubblica, 19 marzo 2014
Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.
Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.
Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?
Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.
Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.
Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).
La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.
La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.
Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.
Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?
Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».
La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce
Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».
Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La
questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.
(...) Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.
Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base.
Una politica di austerità non è una politica di tendenziale livellamento verso l'indigenza, né deve essere perseguita con lo scopo di garantire la semplice sopravvivenza di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Una politica di austerità, invece, deve avere come scopo - ed è per questo che essa può, deve essere fatta propria dal movimento operaio - quello di instaurare giustizia, efficienza, ordine, e, aggiungo, una moralità nuova.
Concepita in questo modo, una politica di austerità, anche se comporta (e di necessità, per la sua stessa natura) certe rinunce e certi sacrifici, acquista al tempo stesso significato rinnovatore e diviene, in effetti, un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un'opera di trasformazione sociale.
Proprio perché pensiamo questo, occorre riconoscere, a me sembra, che finora la politica di austerità non è stata presentata al paese, e ancor meno attuata, dentro tale spirito non di rassegnazione, ma di consapevolezza e di fiducia. E se possiamo ammettere - dobbiamo ammettere, anzi - che vi sono state e vi sono a questo proposito manchevolezze e oscillazioni del movimento operaio e anche del nostro partito, tuttavia le deficienze principali sono da imputare alle forze che dirigono il governo del paese. (...)
L'austerità è un imperativo a cui oggi non si può sfuggire. Certe obiezioni di qualche accademico ignorano dati elementari del mondo di oggi e dell'Italia di oggi. In sintesi, questi dati sono: innanzi tutto, il moto e l'avanzata dei popoli e paesi del Terzo mondo, che rifiutano e via via eliminano quelle condizioni di sudditanza e d'inferiorità, cui sono stati costretti, che sono state una delle basi fondamentali della prosperità dei paesi capitalistici sviluppati; in secondo luogo l'acuita concorrenza, la lotta senza esclusione di colpi fra questi stessi paesi capitalistici, della quale fanno sempre più le spese i paesi meno forti e sviluppati, fra i quali l'Italia; infine, la manifesta e ogni giorno più evidente insostenibilità economica e insopportabilità sociale, in questo mutato quadro mondiale, delle distorsioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della società italiana negli ultimi venti-venticinque anni.
Da tempo noi comunisti cerchiamo di richiamare l'importanza e di far prendere coscienza di questi dati oggettivi della situazione del mondo e dell'Italia. Tuttavia, ancora oggi molti non si sono resi conto che adesso l'Italia si trova oramai - ma io credo, prima o poi, anche altri paesi economicamente più forti del nostro si troveranno - davanti a un dilemma drammatico: o ci si lascia vivere portati dal corso delle cose così come stanno andando, ma in tal modo si scenderà di gradino in gradino la scala della decadenza, dell'imbarbarimento della vita e quindi anche, prima o poi, di una involuzione politica reazionaria; oppure si guarda in faccia la realtà (e la si guarda a tempo) per non rassegnarsi a essa, e si cerca di trasformare una traversia così densa di pericoli e di minacce in una occasione di cambiamento, in un 'iniziativa che possa dar luogo anche a un balzo di civiltà, che sia dunque non una sconfitta ma una vittoria dell'uomo sulla storia e sulla natura.
Ecco perché diciamo che l'austerità è, si, una necessità, ma può essere anche un'occasione per rinnovare, per trasformare l'Italia: un'occasione, certo, come ha detto qui un compagno operaio, tutta da conquistare, ma quindi da non lasciarci sfuggire.
L'austerità per definizione comporta restrizioni di certe disponibilità a cui ci si è abituati, rinunce a certi vantaggi acquisiti: ma noi siamo convinti che non è detto affatto che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, conduca a un peggioramento della qualità e della umanità della vita. Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana. (...)
La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari.
Fonte:
http://www.pdcipadova.it/RICORDO%20DI%20BERLINGUER.htm.html
L’Unità
mi ha chiesto ciò che ricordo del giorno in cui il giornale, che allora dirigevo, diede, con tanti italiani, L’«Addio» a Enrico Berlinguer. Era mercoledì 13 giugno del 1984. Ma la giornata lunga era iniziata la notte tra il 7 e l’8 giugno, nel momento in cui Ugo Baduel mi telefonava da Padova per dirmi che Enrico era in condizioni disperate.
Ero a casa e tornai a Via dei Taurini, sede storica dell’Unità, che avevo lasciato da qualche ora, dopo aver informato e convocato i compagni che con me lavoravano al giornale, Romano Ledda, Carlo Ricchini, Giancarlo Bosetti, Renzo Foa e altri: avevo deciso di fare un’edizione straordinaria che fu distribuita la mattina di venerdì 8 giugno. Lucio Tonelli, Presciutti e i compagni dell’amministrazione erano al giornale. Il titolo diceva: «Sgomento, ansia, speranza per la vita di Berlinguer». Nel sommario: «Il presidente Pertini è accorso a Padova accanto ai familiari».
Le condizioni di Berlinguer erano tali da non dare molte speranze a chi non crede nei miracoli. E con i compagni della redazione capimmo subito, cosa era Berlinguer nell’animo di milioni di militanti e di elettori e cosa rappresentava nella coscienza nazionale. Dovevamo metterci su quella lunghezza d’onda, capire che il dramma di Berlinguer, che si svolgeva in un ospedale di Padova, non coinvolgeva solo il Pci. E avemmo subito un riscontro nel gesto di Pertini. Ma via via, le dichiarazioni di Cossiga, Saragat, Craxi, De Mita, di uomini del mondo della cultura e dell’economia, dei leader della sinistra europea e le parole del Papa, ci diedero la conferma di ciò che si sarebbe verificato. Infatti, ora dopo ora, la commozione e la partecipazione del popolo fu tale da configurarsi come uno dei momenti in cui la scomparsa di un leader mette in evidenza valori che sono nel profondo della coscienza nazionale. Il fatto che quella commozione e partecipazione si manifestassero nel momento in cui era in corso un’aspra lotta politica, in parlamento e nel paese - si discuteva il decreto di Craxi sulla scala mobile, si era svolta la grande manifestazione a Piazza S.Giovanni, e quel leader era il segretario del Pci - ci dice come quei valori a cui facevo riferimento - rapporto tra politica ed etica e la politica vissuta come grande passione civile sino all’ultimo respiro - hanno una valenza che va oltre ogni schieramento. Ma, in quelle manifestazioni di partecipazione e di cordoglio, c’era anche l’omaggio a un leader comunista che in una libera competizione elettorale, in una grande nazione europea, sede del Vaticano, aveva fatto guadagnare al suo partito il 34,4 dei suffragi collocandolo nell’area di governo.
So bene che i titoli che facemmo in quei giorni vennero anche criticati per una personalizzazione che varcava la soglia della politica. Per esempio il titolo dell’11 giugno in cui nell’occhiello c’è la notizia: «La situazione precipita, il compagno Berlinguer ormai si spegne» e il titolo a tutta pagina dice: «Ti vogliamo bene Enrico». Questi, però, erano a mio avviso i sentimenti più elementari e angoscianti del momento che attraversavano tante persone. E, questi, erano i miei sentimenti dato che con Enrico ebbi, come dirò, un serio e forte contrasto politico nel 1980-81, ma anche un rapporto forte dovuto non solo al fatto che lavorammo insieme per quattro anni, nella sezione di organizzazione (nel 1962-63), nell’ufficio di segreteria tra il 1963 e 1966, sino al famoso XI congresso. Quattro anni in cui ci vedevamo tutti i giorni e quando qualche mattina lui non poteva venire a Botteghe Oscure, perchè Letizia non c’era, e accudiva i figli, andavo a casa sua per vedere insieme le cose da fare. E non c’è dubbio che nei giorni dell'agonia e in quello in cui dovetti dargli l’«Addio», come in un film rivissi tanti momenti del nostro rapporto politico e della nostra amicizia. Rapporto politico e amicizia nel Pci avevano un significato particolare e relativo. Il «Partito sopratutto» si diceva. Ma l’amicizia se era fondata sulla fiducia, la disponibilità e la verità resisteva al contrasto politico. Dal punto di vista politico ho conosciuto Enrico solo dopo il 1956 quando lasciai la Cgil per la segreteria regionale del Pci e fui eletto nel comitato centrale. Negli anni in cui maturava la politica di centrosinisra e nel partito si sviluppò una lotta politica, Enrico, come Amendola, Bufalini, Alicata, Napolitano contrastò le posizioni di Ingrao, Natoli, Rossanda, Reichlin, i quali ritenevano che il rapporto Dc-Psi si collocasse in un disegno del neocapitalismo che bisognava combattere frontalmente e non, come sosteneva Togliatti, raccogliendo la sfida sul terreno del confronto e della lotta per le riforme. Una disputa politica che, dopo la morte di Togliatti, si concluse, con Longo segretario, all’XI congresso del Pci. Enrico - che aveva condotto una lotta politica come responsabile dell’ufficio di segreteria (nei fatti era un vice-segretario) fu criticato da Amendola e altri autorevoli compagni per aver «mediato» e fu destinato alla segreteria regionale del Lazio. Una storia di cui ho parlato nel mio libro 50 anni nel PCI. Le cose poi andarono come era giusto che andassero: Berlinguer fu eletto vice-segretario (1969) e poi segretario (1972). La scelta fu fatta con il convinto concorso dei compagni che all’XI congresso si erano trovati su sponde opposte, da Amendola a Ingrao. E in seguito Berlinguer seppe tenere insieme il gruppo dirigente, anche quando espresse politiche diverse. Nella prima fase, che sommariamente viene indicata come quella del «compromesso storico» fu molto innovativo sul piano internazionale, dall’Eurocomunismo sino all’adesione al Patto Atlantico. E sul piano interno: la lotta al terrorismo, la politica di risanamento economico e il superamento in positivo del centrosinistra sino al governo di solidarietà nazionale. In quella fase i suoi più stretti collaboratori furono Bufalini, Chiaromonte, Napolitano, Natta, Di Giulio e nella gestione interna Cossutta e Pecchioli. Ma coinvolse la «sinistra»: Ingrao fu presidente della Camera. Quando Berlinguer fece la «svolta di Salerno» proponendo «l’alternativa democratica» senza un riferimento ai partiti (il governo degli onesti), la sua fu considerata una sterzata a sinistra e i coordinatori furono Tortorella, Reichlin, con loro Minucci e Occhetto in punti chiave. Per la gestione interna Pecchioli. Cossutta era ormai fuori e in polemica con Enrico. Natta volle andare a presiedere la Commissione di Controllo, ma restò un suo riferimento essenziale. La «destra» però non fu emarginata: Napolitano era presidente del gruppo parlamentare alla Camera e Chiaromonte al Senato. Con Pajetta e altri autorevoli compagni, Berlinguer guerreggiava, ma li coinvolgeva. Con Longo invece i rapporti si raffreddarono. Tonino Tatò non fu suo consigliere, ma una persona di cui si fidava. Dei suoi giudizi, anche quelli scritti e ora raccolti in un libro, Enrico prendeva quelli che coincidevano con i suoi. Pensare che Berlinguer seguisse la politica suggerita da Rodano o Tatò è un abbaglio: seguì la sua e solo la sua, spesso con testardaggine sarda. Semmai un consiglio lo accettava da Giglia Tedesco, moglie di Tatò e da Marisa Rodano, moglie di Franco. Con Nilde Jotti i rapporti sempre buoni divennero burrascosi quando alla Camera si discusse il decreto sulla scala mobile. Enrico, sbagliando, contestava le decisioni di Nilde su interpretazioni controverse del regolamento che considerava favorevole al governo Craxi. La Jotti rifiutò sempre di discutere le sue decisioni in sedi diverse da quelle istituzionali. Quel conflitto però aveva anche un fondo politico: la Nilde considerava sbagliata la svolta berlingueriana, ma non ammetteva che si pensasse che le sue decisioni fossero influenzate da quel giudizio.
Scrivo da un borgo di montagna e ricostruisco a memoria, forse ho dimenticato qualcosa. Quel che però voglio dire è che Berlinguer fece una lotta politica aperta e anche dura, ma seppe tenere insieme il gruppo dirigente senza mediare. Penso che il suo carisma derivasse soprattutto dall’affidabilità di una persona che non mentiva, non giuocava d’astuzia e non mistificava. Ed era un messaggio che trasmetteva col suo volto, il suo comportamento, il suo parlare non solo al partito ma alla gente.
Gli esperti della politica sapevano e capivano le «svolte» berlingueriane, e quella dell’81 fu drastica e, a mio avviso, sbagliata, ma la grande maggioranza del partito e della pubblica opinione percepiva un messaggio comunque affidabile, condivisibile o meno, ma vero. Solo così si spiega il concorso di personalità e di popolo che si vide al funerale.
Io non sono stato, come altri compagni, fra i «consiglieri» di Berlinguer. Il quale riteneva spesso le mie posizioni e i miei giudizi «azzardati». Nel 1976 gli dissi di non votare al primo scrutinio Andreotti presidente del Consiglio e di aprire un «conflitto guidato» con la Dc per avere Moro presidente. Mi rispose - e lo ripetè in direzione - che era un azzardo perchè era Moro che voleva Andreotti, senza il quale non si faceva il governo. Ma fu a me e ai suoi familiari che nel 1973, rientrando dalla Bulgaria, mi disse che l’incidente d’auto, da cui uscì vivo per miracolo laico, era a suo avviso un attentato. La vicenda è stata ricostruita da Fasanella e Incerti in un libro. Mi chiese di tacere per sempre e lo feci fino al 1991. Quel racconto drammatico non fu solo un atto di fiducia nel mio riserbo, ma anche un giudizio su cosa erano ormai i gruppi dirigenti dei paesi dell'Est. E non fu questo il solo caso.
Enrico sembrava introverso ma il suo era solo un modo di esprimere grande rispetto per se stesso e gli altri. Ma un fatto fu per me decisivo per capire i nostri rapporti. Come ho già ricordato, negli anni ‘80-81 Berlinguer fece una svolta rispetto alla politica di solidarietà nazionale, che io, con Napolitano, Chiaromonte, Bufalini, Perna, Lama e altri compagni, contrastai. E nel 1980 in un’intervista al Mondo dissi che la politica di solidarietà poteva essere ripresa con una direzione politica affidata non più alla Dc, ma alla sinistra, nella situazione di allora al Psi, quindi a Craxi. Apriti cielo. Non ero a Roma, Berlinguer non mi cercò e la segreteria fece un comunicato in cui si diceva che le mie erano posizioni personali e non impegnavano il partito. Un azzardo il mio e una sconfessione la sua.
Eppure - ecco il punto - nel 1982, quando all’Unità si aprì una crisi grave, fu Berlinguer a proporre e a insistere che fossi io a dirigere il quotidiano del Partito. Sapeva che poteva contare sulla mia lealtà. E così fu anche nei momenti difficili.
Lo so, l’ho fatta lunga, ma nella vecchiaia le cose che si ricordano meglio sono quelle lontane. E i giorni dell’agonia e della morte di Berlinguer sono rimasti vivi nella mia mente e nel mio cuore e ripensandoci riprovo un emozione forte. Ricordo i volti dei redattori, dei compagni che in quei giorni sostavano all’Unità. Nel giorno in cui facemmo il numero dell’«Addio», Carlo Ricchini rintracciò presso la zia di Enrico la bellissima foto che collocammo in tutta la prima pagina: un Berlinguer di tutti, così mi sembrò quella foto. Chiesi a Renato Guttuso se voleva fare un disegno e dopo qualche ora arrivò in redazione il Berlinguer comunista col popolo comunista. Chiesi a Romano Ledda di scrivere l’addio del giornale per poi definirlo insieme - ed è quello che oggi tanti giovani possono leggere - pensando di comunicare con le nostre parole i sentimenti di milioni di persone.
Il fatto che dopo ventitré anni Berlinguer è ancora nei pensieri di tanti, anche di chi lo avversò e di chi non era ancora nato, ci dice che non fu un errore o una esagerazione l’edizione che oggi avete tra le mani. È vero, da allora la politica è molto cambiata e si è tanto scolorita. Certe passioni personali e collettive sembrano quelle di un’Italia antica, che non c’è più , di partiti che non ci sono più. Con la morte di Berlinguer e l’assassinio di Moro, in effetti, si chiuse un’epoca politica. Su quella che stiamo vivendo non dico nulla, perchè mi sembra di parlare del nulla.
Bisogna riflettere su alcune caratteristiche peculiari dell'epoca in cui viviamo e pensare ai problemi che cominciano a porsi come decisivi per i prossimi due decenni fino e oltre il duemila; nel periodo cioè in cui vivranno e raggiungeranno la maturità i giovani di oggi. A questa soglia dello sviluppo storico si presentano problemi non solo del tutto nuovi, cosa che è accaduta in varie epoche del cammino dell'umanità, ma di portata tale da generare possibilità e pericoli straordinari e sin qui impensati e impensabili.
Dobbiamo innanzitutto al progresso continuo delle scienze sperimentali le possibilità davvero inaudite e straordinarie che si aprono per migliorare la vita del genere umano.
La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica
La nuova tappa della rivoluzione scientifica e tecnologica è sotto i nostri occhi, fa già parte delle nostre esistenze e per i giovani di oggi costituisce, ormai, quasi una condizione naturale e scontata. Ma proprio perciò occorre riflettere bene intorno alle occasioni offerte dalla scienza per non smarrirne il significato e la portata, per cogliere bene quali prospettive positive possono essere aperte e quanto gravi siano, di contro, le limitazioni, le contraddizioni, i rischi generati dai vincoli sociali e politici e da un uso distorto delle scienze e delle tecniche. Mai come oggi la conoscenza della costituzione della materia inanimata e vivente è giunta sino ad individuare molti dei meccanismi più remoti del mondo fisico, dei processi chimici, degli svolgimenti biologici. La ricerca pura ha aperto il campo a progressi e a veri e propri salti di qualità nelle applicazioni tecnico-pratiche. Emergono sopra ogni altra, in questi anni, le possibilità offerte dalla elettronica - e poi dalla microelettronica - nel campo delle comunicazioni, delle informazioni, dell'organizzazione del lavoro nella fabbrica e nell'ufficio e nel campo stesso della vita individuale e della vita associata.
Nuove risorse d'energia sono state scoperte ed esse sono tali da poter annullare nel futuro l'incubo della fine delle risorse non riproducibili. Sono stati inventati modi nuovi di trarre energia da risorse riprodotte, a cominciare dall'energia solare.
Anche la disponibilità di altre materie prime e di alimenti può trovare nuove possibilità in ricerche in atto e in altre che potrebbero essere avviate per utilizzare pienamente e razionalmente le risorse del suolo, del sottosuolo, dei mari e degli spazi.
E' pienamente vero quello che è stato detto nella relazione di Fumagalli, e cioè che, vi sarebbero le condizioni, dal punto di vista delle conoscenze scientifiche e tecniche, per iniziare a passare dal regno della necessità a quello della libertà. Se volessimo davvero fare una gara sui temi di chi abbia avuto storicamente ragione, dovremmo dire che la storia ha dato proprio ragione a chi ha tenuto fede alla speranza indicata dal Manifesto dei comunisti, alla speranza - cioè - che avrebbe potuto venire un tempo in cui sarebbe stato possibile all'uomo di dominare la natura e «l'azione propria dell'uomo» invece di essere da questa sovrastato e soggiogato (Marx).
Ma non vi è soltanto il progresso tecnico-scientifico.
Se noi volgiamo lo sguardo alla storia di questo secolo - che conclude il secondo millennio della forma di incivilimento cui apparteniamo - scorgiamo straordinari progressi nella coscienza dei popoli e delle persone umane che li compongono. Vi è stato, innanzitutto, un risveglio da forme di soggezione secolare, di esclusione, di avvilimento della parte più grande del genere umano. Pensiamo a quello che era all'inizio del secolo la condizione dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina ma anche di tanta parte del proletariato e dei lavoratori nell'Europa e nell'America settentrionale, per avere l'idea del rivolgimento radicale che si è venuto attuando. Un rivolgimento peraltro, che non è stato il portato meccanico delle trasformazioni scientifiche e tecnologiche. Queste trasformazioni hanno generato condizioni nuove, ma vi sono state guerre, ci sono volute rivoluzioni, lotte, sofferenze e sacrifici inauditi per arrivare là dove siamo arrivati.
Il processo di liberazione dei popoli si è fondato sopra il risveglio delle coscienze individuali di centinaia di milioni, di miliardi di uomini. La partecipazione alla lotta non solo accende gli animi, ma li dispone alla conoscenza, rendendoli protagonisti attivi di un processo di mutazione. Non per caso la volontà dei conservatori e dei reazionari di ogni latitudine e di ogni stampo, è innanzitutto quella di tenere, o di rendere, passivi e conformisti le donne e gli uomini, ma innanzitutto le giovani generazioni.
Insieme alle conoscenze generate dalla presenza nel generale moto di innovazione e di lotta, a determinare una modificazione delle coscienze, non mai così estesa e così rapida, è venuto uno straordinario aumento della informazione che, pur dando vita anche a forme nuove e più sofisticate di manipolazione delle coscienze, ha spezzato isolamenti e chiusure talora antichissime e ha determinato per la prima volta nella storia del mondo un autentica contemporaneità degli eventi.
Da tutto questo è derivata anche la possibilità di ripensare i fondamenti più profondi del nostro vivere in società, sino alla ridiscussione dei ruoli storicamente assegnati agli uomini e alle donne.
Siamo oggi, con lo svolgimento dei nuovi movimenti femminili e femministici, all'inizio - un inizio certo contrastato e pieno anche di intime contraddizioni - di un mutamento nelle coscienze delle donne destinato alle conseguenze più grandi. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che il ripensamento della condizione secolarmente fatta alle donne, lo sviluppo del loro movimento di liberazione e il superamento dei limiti della concezione puramente emancipatrice - che consisteva nel proporre alle donne l'imitazione del modello maschile - tutto questo porta con sé una riconsiderazione generale della società, dei modi stessi della sua trasformazione, e della politica.
Siamo dunque di fronte ad un balzo in avanti straordinariamente grande nella storia umana e al dischiudersi di potenzialità sin qui sconosciute o solo vagamente immaginate. Ma guai a non vedere che, nello stesso tempo, si aprono dinnanzi all'umanità potenzialità negative anch'esse mai prima esistite.
Il primo e più drammatico pericolo è costituito dalla possibilità di giungere ad una guerra di distruzione totale. Per quanto rovinose e sterminatrici siano state le guerre del passato, in particolare quelle di questo secolo, mai si era profilata la possibilità di un evento bellico tale da porre fine a ogni forma di sopravvivenza dell'uomo su questa terra.
Contemporaneamente, l'uso irragionevole delle nuove tecniche e uno sviluppo quantitativo imponente, ma incontrollato ha già determinato non solo la possibilità, ma la minaccia concreta di rovine ecologiche gravissime e irreparabili. L'allarme lanciato da alcuni tra i maggiori studiosi contemporanei avverte sull'esistenza di danni crescenti per le acque - i fiumi, i laghi, i mari - e per l'aria che respiriamo, per l'atmosfera e per la troposfera che circonda la Terra. E' già vi sono, purtroppo, i segni concreti e pratici di potenzialità distruttive inaudite in processi apparentemente innocui o protetti: qui, a pochi chilometri da Milano vi fu il caso di Seveso, dove la diossina fece deserto; altrove sono stati i difetti di centrali elettro-atomiche e in ogni parte si avvertono le conseguenze sulla natura e sugli uomini dell'inquinamento crescente.
Grava poi sulla umanità l'incubo della insufficienza delle risorse alimentari dinnanzi ad una espansione demografica senza precedenti, mentre immense risorse vengono dissennatamente dilapidate e mentre lo spreco dilaga nei Paesi ricchi. Cresce così il divario tra il Sud e il Nord del mondo: un divario intollerabile per ragioni di giustizia e foriero, se non avviato a essere superato, di esplosioni di imprevedibile portata.
E tuttavia anche nei paesi ricchi, anche negli Stati Uniti, la povertà, quella vecchia e quella nuova, non è stata vinta e la disoccupazione o la inoccupazione, e l'emarginazione, colpiscono una quota crescente di popolazione, innanzitutto di popolazione giovanile. Nei paesi della Comunità europea occidentale e negli Stati Uniti si sfioreranno questo anno i venti milioni di disoccupati. La inoccupazione giovanile è divenuta un fatto endemico e strutturale, con conseguenze umane gravissime: un frutto dovuto cioè non all'andamento del ciclo economico, che può solo ridurlo o aumentarlo di poco, ma alle caratteristiche di processi produttivi e di innovazioni tecnologiche guidati dalla legge del massimo profitto.
Si esercitano sulle nuove generazioni fino dalla prima adolescenza, sollecitazioni crescenti per il consumo, e in particolare per nuovi consumi individuali. Si aumenta costantemente il loro patrimonio di informazione, ma contemporaneamente non si riesce ad assicurare ai giovani un tempestivo ingresso nel mercato del lavoro. Di qui nasce una condizione che non è certo più quella, almeno nella maggior parte dei casi, dell'estrema indigenza, (com'era ancora nell'Italia che usciva dal fascismo), ma è sicuramente una condizione di frustrazione profonda, causa non certo unica, ma non ultima di tante forme di sbandamento.
Dinnanzi a minacce e pericoli non mancano e anzi sono ampie e forti le risposte positive tra le vecchie e le nuove generazioni. E tuttavia non si può mancar di vedere le forme molteplici di incattivimento di modelli di violenza, di sopraffazione, di arbitrio, sino alle forme degenerative estreme del terrorismo, della mafia, della camorra e dei regimi repressivi di massa in tanti paesi del mondo.
Vi è anche chi teorizza che fenomeni come quelli del dilagare crescente nel consumo della droga pesante oppure dell'estendersi della criminalità organizzata, sarebbero uno scotto inevitabile per sistemi democratici, dove sono garantite le libertà dei cittadini. Noi non lo crediamo. Noi pensiamo piuttosto che nel presentarsi di questi mali si manifesti non una inevitabile conseguenza dei sistemi democratici, ma piuttosto una loro degenerazione profonda: una degenerazione dovuta alla contraddizione sempre maggiore tra il carattere sociale della produzione e le forme della conduzione economica, tra le motivazioni egoistiche sostenute come molla della società capitalistica e il bisogno crescente di solidarietà e di reciproca comprensione umana, tra il permanere di zone vastissime di vecchia e nuova emarginazione e la sfacciata opulenza, tra le prediche moraleggianti e i pessimi esempi pratici dati proprio da molti di coloro che dovrebbero fornire il buon esempio.
Non è dunque il sistema delle libertà democratiche che determina i guasti e le contraddizioni della società in cui viviamo, ma la incapacità di saldare libertà, giustizia ed efficienza.
Di fronte a questi problemi che caratterizzano la nostra epoca, sorgono dei quesiti urgenti. Quanti nel mondo - e come - pensano davvero a problemi di questa natura, muovendo da un'analisi oggettiva e da una visione che abbia al suo centro la preoccupazione per il futuro dell'umanità?
E che cosa si può e si deve fare perché prevalgano le alternative positive, quelle che vanno in direzione della difesa della vita e della pace e della affermazione della giustizia nei rapporti tra i popoli e all'interno delle nazioni?
Dobbiamo innanzitutto alla parte più umanamente sensibile del mondo scientifico italiano e internazionale non solo l'avvertenza dei pericoli gravi che l'umanità attraversa, ma anche i primi rilevanti tentativi di indicare ai popoli e agli Stati le possibili risposte.
Ma non sono molti nel mondo i dirigenti politici, dei Governi, dei partiti e di altri organismi sociali e politici che si sono dimostrati capaci di pensare a questi problemi in modo non troppo vincolato da puri e ristretti calcoli di Stato, di partito, di gruppo, di difesa o affermazione di ristretti interessi.
Ciò mi sembra vero particolarmente in Italia. Non c'è bisogno di ripetere per la ennesima volta che noi siamo rispettosi di tutte le forze politiche democratiche e che non vogliamo dare lezioni a nessuno: però non è possibile non avvertire in molti episodi della lotta politica interna alle forze del Governo una ristrettezza di orizzonte e, talora, un precipitare attorno a non nobili contese di interessa di parte, per le quali si infiammano gli animi e si misurano i muscoli e le cosiddette «grinte» (sulle quali ha scritto un bell'articolo il compagno De Martino).
Vi è insomma una preoccupante diminuzione del tasso di saggezza nei reggitori del nostro Paese e, per quanto si vede, nel mondo intero. Conforta, va però detto, che sta crescendo il numero di esponenti politici che cominciano a porsi e a porre alcuni dei problemi che ho ricordato in tutta la loro drammaticità. Basta pensare, per quanto riguarda il problema Nord-Sud, alle analisi e alle denuncie di Fidel Castro e di Willy Brandt.
Vi sono inoltre organismi internazionali, istituzioni e associazioni religiose (la Chiesa cattolica, le altre chiese cristiane) che hanno lanciato allarmi, rivolto moniti e in molti casi promosso iniziative.
Fra le forze che pensano ai massimi problemi cui ho accennato c'è il Partito comunista italiano. Abbiamo molti difetti, ma non quello di sfuggire all'analisi e al confronto con la realtà del mondo di oggi, di non sforzarci di comprenderla in tutta la sua portata e di non cercare di elaborare nostre proposte, di sviluppare iniziative, di stabilire contatti e intese con tutte le forze che possono e devono essere interessate a far marciare le cose nella direzione giusta.
Tutto ciò ha gettato i comunisti italiani in una impresa e in una lotta quanto mai ardua e tale da esporli a incomprensioni e polemiche, tanto da parte di correnti dogmatiche e conservatrici quanto da parte di correnti opportunistiche e di adagiamento. Impresa e lotta ardue, ma piene di fascino.
Non è cosa diversa o separabile da questa nostra ricerca la nostra iniziativa per una concezione e realtà del socialismo, quello che voi giovani comunisti avete chiamato giustamente un "socialismo nuovo".
L'esigenza di una concezione e di una strada originali non deriva unicamente dalla constatazione di insufficiente e limiti altrui (dei modelli di tipo sovietico e delle esperienze socialdemocratiche), ma anche e innanzitutto dai problemi posti dall'età che stiamo vivendo, dai processi di trasformazione materiale, dalla esistenza di contraddizioni profonde, non prima conosciute.
Noi riscopriamo proprio così l'esigenza del socialismo inteso come sforzo per una direzione consapevole e democratica dei procesi economici e sociali, fondata sulla difesa e la pienezza di tutte le libertà. Ci si risponde che il socialismo come lo pensiamo noi non esiste e che quindi si tratta di una parola vuota. Qunado iniziarono le prime rivoluzioni liberali le Costituzioni democratiche non esistevano, ma non per questo parole come Democrazia e Costituzione erano parole vuote.
Se tutte le parole che esprimono nuovi bisogni per la società fossero state considerate superflue, la storia propriamente umana non sarebbe neppure cominciata. E' del resto del tutto falso che la parola socialismo non sia venuta già esprimendo valori universali, così come la parola democrazia. Nella idea socialista è compresa come essenziale la necessità di forme consapevoli di direzione del processo economico al fine di garantirne un equilibrato sviluppo e una maggiore giustizia sociale. Il fatto che molte esperienze siano state manchevoli od erronee non elimina il valore di queste esigenze. Non elimina cioè il fatto - già segnalato politicamente da Togliatti nel memoriale di Yalta - che la necessità di forme programmate di intervento pubblico nella economia non può più essere in nessuna parte del mondo negata, neppure nei sistemi capitalistici, così come non si può disconoscere il bisogno di una più ampia giustizia sociale. La discussione sarà ed è sul rapporto tra programmazione e mercato, tra spinta alla eguaglianza e bisogno di differenze: ma questa è già una discussione che implica l'idea della trasformazione sociale. Ecco perché noi non pensiamo che possa essere definito moderno chi mette in parentesi la parola socialismo oppure dichiara la santa crociata contro di essa. E' vero perfettamente il contrario: è vero cioè che l'idea socialista e comunista continua ad essere la giovinezza del mondo.
Ciò che si è venuto logorando sono molte delle esperienze concrete che dimostrano i limiti, non solo pratici, di concezioni, di posizioni maturate molto tempo fa, all'inizio del secolo. Per questo il nostro partito si sforza di ammonire contro un uso dogmatico dei maestri del pensiero, e dunque anche dei maestri del pensiero socialista.
Ciò non significa affatto sottovalutare i risultati straordinari che hanno avuto la prima predicazione socialista, e poi il passaggio dal desiderio e dal sogno di una società nuova sino allo studio scientifico, con Marx, della struttura capitalistica della società del suo tempo. E' da tutto questo che è emersa la prima rivoluzione socialista, quella dell'Ottobre russo, le cui idealità e il cui valore stanno scritti nella storia del nostro tempo. Quella prima rottura innescò un processo storico nuovo, un processo che per grande tempo fu portatore di grandi conquiste e di straordinarie conseguenze nell'aprire una fase nuova di lotte per l'emancipazione nazionale e sociale.
Oggi siamo in una fase nuova e diversa dello sviluppo della lotta per il socialismo. Non da ora, certo, i comunisti italiani hanno considerato superato il mito dei paesi di tipo sovietico, mito che pure si costruì non a caso e che aiutò altre generazioni comuniste a far fronte con onore ai propri doveri, mentre molti altri (anche se non tutti) crollavano. Tuttavia questo processo si è ora completato.
Quei modelli di società e di Stato non solo - e da tempo - li giudichiamo non trasferibili in paesi come il nostro. Si viene rivelando la necessità che anche in quei paesi siano attuate riforme economiche e politiche che invertano i processi di stagnazione e di involuzione in atto in diversi di essi, processi che non possono certo essere arrestati, con misure repressive gravi, come quelle adottate dai militari in Polonia. Noi non pensiamo che si possa giungere a realizzare e a difendere trasformazioni di tipo socialistico nelle società e negli stati senza difficoltà, senza fatiche, senza contrasti e lotte. Ma vi è solo una strada giusta per affrontare e superare ogni ostacolo: appoggiarsi sul consenso e sulla partecipazione della classe operaia, dei lavoratori e del popolo. La necessità del socialismo e di un movimento per il socialismo riprende dunque forza come espressione delle condizioni oggettive, materiali, del mondo di oggi e dei bisogni che l'uomo di oggi chiede siano soddisfatti.
Al tempo stesso questa esigenza nasce da una opzione etica.
Se non si vuole che la giustizia prevalga sull'ingiustizia, non si giunge alla scelta del socialismo, e di un socialismo nuovo. Chi si rassegna all'ingiustizia, o l'accetta, o peggio la vuole perché ne trae un vantaggio, compie altre scelte.
Questo non vuol dire, ovviamente, che solo chi sceglie l'obiettivo del socialismo può operare per la giustizia, per la pace, per la salvezza e il progresso dell'umanità. Non è così. Vi è anzi un'altra grande necessità che oggi riprende vigore: quella di un incontro e di una collaborazione tra tutte le forze che, muovendo dalle ispirazioni più diverse, sanno, vogliono, possono farsi interpreti di questi bisogni nuovi degli uomini di oggi, di un incontro e di una collaborazione che riconoscano, rispettino ed esaltino il contributo e i valori di cui ognuno è portatore, in uno sforzo incessante di reciproca comprensione e di comune arricchimento. Vi è qui l'altro dato di fondo, peculiare e insostenibile, della nostra concezione e della nostra politica.
Il problema che dobbiamo porre a noi stessi e a tutti è come si possono affrontare contraddizioni che rasentano ormai l'assurdità - tra abissi di miseria e culmini di ricchezza, tra spreco degli armamenti e bisogni elementari insoddisfatti, tra potenzialità del sapere e meschinità della conduzione politica senza porsi l'obiettivo di una trasformazione degli attuali sistemi di rapporti tra gli uomini e di una guida più razionale e più democratica dei processi economici e sociali sul piano nazionale, europeo e mondiale.
Che cosa possiamo fare, come partito e come Fgci, per soddisfare queste esigenza ormai vitali per gli uomini e le donne che abitano il nostro Paese, il nostro continente e il nostro pianeta, sventando i pericoli di eventi catastrofici e di intollerabili dominazioni reazionarie? Per prima cosa bisogna avere delle idee-forza: la difesa della pace e il disarmo sono una di esse, così come lo è il "nuovo socialismo", così come lo è il nuovo ordine economico internazionale.
In secondo luogo dovremmo lavorare per prendere e dare consapevolezza piena delle contraddizioni nuove del tempo nostro. Far conoscere a tutti che cosa comporta la continuazione della corsa al riarmo, quali sarebbero le conseguenze di una guerra combattuta con le armi atomiche e nucleari. E diffondere i risultati degli studi più recenti sui problemi del rapporto tra risorse e popolazione, tra sviluppo e ambiente e così via. Non è molto che scienziati, istituzioni e anche esponenti politici hanno cominciato a studiare questi temi tipici del nostro tempo e che domineranno i prossimi due decenni.
Si è cominciato, praticamente, a parlarne all'inizio degli anni '70: prima, e acnora per tutti gli anni '60, imperava il vacuo ottimiso del progresso incessante, del benessere che si sarebbe via via diffuso a tutta la popolazione e a tutte le nazioni. Ma negli ultimi anni, nel corso dei quali la realtà ha richiamato la necessità di una visione più lucida del futuro del mondo, un notevole patrimonio di studi si è già accumulato. Esso non è però ancora sufficientemente conosciuto e discusso da grandi masse.
A questo proposito avanzo una proposta concreta da realizzare in un tempo ragionevolmente breve: organizzare, come partito e come Fgci, un Congresso di fururologia, che si svolga sulla base di relazioni e comunicazioni di scienziati e di esponenti delle più varie discipline (scienze fisiche, chimiche, biologiche, antropologiche, demografiche, militari, economiche, sociali, informatiche, mediche, ecc.); e portare poi i risultati delle informazioni, valutazioni e proposte, che saranno fatte in tale Congresso alla conoscenza e alla discussione tra i giovani.
La terza cosa da fare, la più importante, è quella di proseguire nello sforzo già in atto per sviluppare tutti quei movimenti che si fondino sulle contraddizioni aperte, indichino soluzioni possibili, suggeriscano risultati concreti lungo una via di trasformazione e contribuiscano nel tempo stesso a migliorare e arricchire noi stessi nel nostro rapporto con gli altri.
Quando il movimento operaio muoveva i primi passi oltre un secolo fa, erano le minute rivendicazioni economiche che dovevano avere il primo posto. La grande battaglia unificante, che divenne internazionale, fu per le otto ore. Se non si fosse partiti di lì non si sarebbero certo potute costruire le leghe, i sindacati, il partito politico.
Oggi quel problema si ripresenta. E torna prepotentemente di attualità, se si vuole affrontare il tema della disoccupazione nei suoi aspetti strutturali, la esigenza di una grande battaglia internazionale per la riduzione dell'orario di lavoro. E' stato giusto che questo congresso abbia levato su questo tema una richiesta anche nei confronti dei sindacati.
La piaga della disoccupazione giovanile richiede grandi iniziative anche a livello europeo e una nuova politica nazionale che tenda a modificare la collocazione italiana nella divisione internazionale del lavoro. Ma - dunque - la battaglia per il lavoro chiede anch'essa specificazioni di qualità: riguardanti il tipo di sviluppo che è necessario e utile perseguire. Quanto sarà possibile sostenere una espansione fondata essenzialmente su produzioni, come dicono gli economisti, "mature" e cioè all'avanguardia, sul lavoro sommerso, sul permanere di una dipendenza fortissima nella ricerca e nei brevetti?
Ecco il bisogno economico di misurarsi con la qualità dello sviluppo. Contemporaneamente, si tratta di un bisogno non soltanto economico. La necessità di vivere in città meno alienanti e disumane, di salvare la natura e i beni culturali, di avere una vita culturale più ricca e piena, di andare ad una scuola il cui insegnamento sia qualificato; tutto questo viene diventando necessità primaria, come erano una volta, le necessità di sussistenza.
Ecco perché il movimento ecologico, nei suoi differenziati aspetti, la volontà di impegno culturale, lo stesso desiderio di partecipazione attiva al miglioramento della scuola hanno acquistato un rilievo così grande. Si esprime anche in questo modo una coscienza critica verso la società in cui viviamo.
Ed ecco perché noi non possiamo pensare di chiamare i giovani alla politica secondo vecchi contenuti e vecchie forme. Come portare la grande maggioranza dei giovani alla consapevoleza piena della realtà e alla possibilità di affrontarla alla luce della ragione. La ideologia della fine delle ideologie è essa stessa una forma di falsa coscienza e cioè una ideologia nel senso marxianamente peggiore della parola. Vi è una pressione forte per un allontanamento di giovani dalla politica.
La prima, essenziale, semplice verità che va ricordata a tutti i giovani è che se la politica non la faranno loro, essa rimarrà appanaggio degli altri, mentre sono loro, i giovani, i quali hanno l'interesse fondamentale a costruire il proprio futuro e innanzitutto a garantire che un futuro vi sia.
Non è mai stato facile essere comunisti. L'assassinio di compagni Pio La Torre e Rosario Di Salvo sono la prova più recente che non è neppure mai finito il tempo in cui bisogna testimoniare persino con il sacrificio estremo la propria fedeltà alle grandi idee per cui tanti dei nostri compagni sono caduti. Ma vi sono oggi difficoltà anche meno aspre e più impalpabili, date dal fatto che i problemi si presentano in forma diversa e più complessa che per il passato, perché le contraddizioni medesime della società tendono ad essere non più solo quantitative ma a riguardare la qualità dello sviluppo, della vita, del modo di esser donne e uomini, del rapporto tra individuo e individuo, tra individuo e società.
Alla crisi delle vecchie forme della politica già corrisponde, se sappiamo vederlo, il nascere di forme nuove di impegno. E queste nuove forme non derivano soltanto dal fatto che molti partiti siano in crisi e altri, compreso il nostro, sentano difficoltà, ma derica dal fatto che avanzano, assieme a questioni nuove, nuove sensibilità.
Vi è, per esempio, un bisogno più grande che per il passato di veder pienamente utilizzato il proprio tempo e il proprio contributo. Non possiamo perciò rammaricarci se tanta attività dei partiti, effettivamente ripetitiva, non viene seguita. Ma vi è anche più informazione, più spirito critico, più avvertita vigilanza contro i luoghi comuni, e le frasi fatte. Ecco perché certo vecchio modo di fare politica oramai respinge nel mentre si sviluppa una spinta grande all'associazionismo, a forme nuove di aggregazione, a nuovi interessi. Nella ripresa di tante forme di associazionismo cattolico non vi è soltanto, il bisogno di certezze che una fede può dare, vi è anche un grande e attivo impegno operativo intorno a tante cause positive. Le Chiese sospingono all'impegno nella società e da ciò deriva una religiosità che non è fuga dal mondo, ma opere e fatti.
Di qui sono venuti e possono venire contributi di notevole rilievo: innanzitutto al movimento per la pace. Talora, ciò si accompagna a spinte integraliste ma, quali che ne siano le motivazioni, bisogna essere attenti alle finalità concrete che vengono perseguite e vedere quali sono i possibili obiettivi consumi. Occorre non confondere mai la necessaria lotta contro il sistema di potere democristiano - sistema di potere che, con buona pace dell'attuale segretario della Dc, continua ad essere una pesante realtà e non una invenzione dei comunisti - e la necessità di intendere la complessità delle spinte presenti nell'area cattolica.
Noi non ci lasceremo impressionare dalla campagna pretestuosa in base alla quale ogni attenzione nostra verso la realtà cattolica viene presentata come ricerca di una intesa tra Dc e Pci. Si tratta di propaganda. Al tempo della solidarietà nazionale noi fummo sempre con i compagni socialisti dapprima nell'astensionismo, poi nel breve periodo della maggioranza. Non siamo certamente noi che abiamo praticato la linea della divisione a sinistra e della intesa separata con la Dc.
Abbiamo dichiarato e ripetiamo, comunque, che quell'esperienza politica è per noi conclusa.
La nostra prospettiva è quella di un'alternativa democratica al sistema di potere dominato dalla Dc. E' ed è in questo quadro che si colloca la nostra ricerca di uno sviluppo del rapporto unitario prima di tutto con il Psi.
Ma guai se, per timore di una propaganda malevola, noi dismettessimo la nostra attenzione verso il mondo cattolico. Proprio la piena conquista di una laicità storicamente costruita ci consente questa capacità continua di distinzione: volta a cercare di interpretare, nel campo che è proprio del partito politico, i bisogni del tempo, da chiunque essi vengono espressi. Non ci sfugge, quindi, che viene anche dal campo cattolico un bisogno di fare, di agire che corrisponde alla necessità effettiva di vedere almeno alleviati molti dei problemi assillanti di tanta parte della popolazione. E' ciò che si chiama il «volontariato». Il volontariato non è soltanto cattolico. Alle radici stesse del movimento operaio c'è il moto della solidarietà reciproca; l'originario costituirsi (prima delle leghe, prima del partito) di associazioni di mutuo aiuto, di reciproco sostegno.
In molte organizzazioni del volontariato, in ogni campo, credenti e non credenti lavorano insieme e anche quando le organizzazioni sono distinte e le aspirazioni ideali diverse, sovente le finalità di solidarietà umana comuni. E abbiamo visto proprio nei giorni scorsi, in una riunione nazionale, quante e quanto valide siano le forze nostre impegnate nelle associazioni volontarie.
Lo sviluppo nuovo e impetuoso di queste antiche e nuove forme di aggregazione ci insegna tante cose: non certo che si può fare a meno delle lotte (fra le quali oggi hanno portata decisiva quella per respingere l'offensiva della Confindustria). Né si può fare a meno dello Stato o della mano pubblica - come qualche teorico, anche di parte cattolica, suggerisce - ma certo che bisogna prendere posizione contro lo statalismo burocratico, che bisogna essere capaci di vedere le risorse autonome della società e saperle valorizzare in un dialogo continuo tra istituzioni democratiche e sollecitazioni che vengono direttamente dalla società.
Lo sviluppo dell'associazionismo e del volontariato indica che non basta partecipare, bisogna poter contare veramente, bisogna fare, bisogna contribuire a risolvere questioni reali. «Democrazia» deve congiungersi con efficienza e «libertà», deve divenire responsabilità e liberazione...
Fonte:
http://utenti.lycos.it/nostalgici/berlinguer.htm
Si capisce perché non c´è posto per Enrico Berlinguer nell´imminente Partito democratico. E tanto vale cacciarsi subito il dente: non c´è posto per Berlinguer, perché nessuno più di lui ne rappresenta la cattiva coscienza.
Con qualche ragionevole ribalderia si può anche dire che Berlinguer resta fuori dal Pd per la semplice, ma indicibile ragione che mette in luce la lunga e folta coda di paglia di tanti dirigenti diessini. Ma se l´immagine disturba, o suona azzardata, o immotivata, si potrebbe pure cercare di dimostrare che la figura di Berlinguer non entra nel «nuovo» partito perché è ancora oggi egli incarna delle virtù che non solo nel campo della sinistra post-comunista si sono ormai quasi definitivamente estinte.
La questione va ben al di là di quella gettonatissima entità ectoplasmica che nel discorso pubblico comincia a essere questo «Pantheon». Di sicuro non sarebbe andato a genio a Berlinguer. «Non amo le semplificazioni» ripeteva spesso; e anche: «Non faccio profezie». Non per caso lo chiamavano «il Sardomuto». Berlinguer non faceva battute in televisione, tantomeno le commentava. Era difficilissimo farlo sedere sui trespoli degli studi televisivi, figurarsi se si sarebbe permesso di affrontare una questione politica solleticando la suspence del pubblico con una frasetta tipo: «Guardi cosa arrivo a dire»; né sarebbe mai scivolato nell´intimismo con quell´inciso un po´ teatrale: «E mi costa molto!». Berlinguer non salutava a pugno chiuso, riteneva quel gesto «un segno di ostilità». E´ lecito quindi ipotizzare che mai avrebbe concluso, come il risoluto Bersani: «Punto e basta».
Oggi invece ci si può tranquillamente esprimere in quel modo, anzi forse si deve. Infatti «funziona». O nessuno ci fa più caso. E comunque pazienza. Ma se la battuta di Bersani fa un po´ di notizia; se si parla ancora una volta di Berlinguer è proprio perché il personaggio non si adattava per niente a «funzionare». Era quasi impossibile «fargli dire» questo o quel giudizio, magari schiacciandolo sulle modalità espressive del presente; le rare volte che qualche giornalista ci riusciva, per quanto dotato di fascino mediatico, quell´uomo dai capelli un po´ dritti e dalle giacche lente restava comunque immerso in un presente tutto suo. «Non ha nemmeno la televisione a colori» disse una volta Craxi. Ora, sarebbe di cattivo gusto evocare campionati di popolarità e rispetto post-mortem. Ma certo quella vecchia televisione in bianco e nero nel tinello di casa Berlinguer, più che una metafora di grigio modernariato politico sembra oggi la «prova regina» - come diceva lui con spiccato accento sassarese - di una mutazione genetica che certo non fa onore all´attuale ceto politico, o politicistico, o politicante, o peggio.
Il punto è che questa trasformazione antropologica, che riguarda l´intera classe politica italiana, rischia di apparire ancora più evidente nel campo che fu suo. Lo si vorrebbe qui dire nel modo meno animoso, come pura e piatta constatazione. Ma di nuovo: Berlinguer è divenuto scomodo perché è tutto quello che i dirigenti diessini hanno smarrito: il silenzio, la compostezza, la sobrietà, la serietà, lo spirito di servizio, il senso della propria dignitosa e decorosa funzione, il disdegno dell´omaggio e della «comunella» con gli avversari, la concezione alta non solo della politica, ma anche del potere. In un´intervista a Giovanni Minoli, che gli chiese cosa pensava del potere, se gli piaceva, Berlinguer, senza muovere un muscolo del volto, ma con un´intensità niente affatto minacciosa, rispose che il potere gli poteva anche piacere, «ma come possibilità di far avanzare gli ideali in cui crediamo io e i miei compagni».
Si noti la formulazione. In questo senso, pare addirittura di scorgere una qualche proporzione matematica. Ai suoi tempi Berlinguer era il «noi» nella misura in cui i dirigenti post-comunisti sono oggi un´accolita di «ego» per lo più arroventati e quindi sempre disposti a farsi del male l´uno con l´altro. E tutto questo non significa che egli sia da considerare il Padre Pio del comunismo italiano, ma certo conosceva e praticava doti che oggi non sembrano molto in voga dalle parti di via Nazionale, o nelle fondazioni limitrofe. La prima delle quali doti potrebbe essere, ad esempio, l´umiltà. E la seconda, sempre almanaccando, la tenuta psicologica. E la terza, se è consentito divagare dai massimi sistemi, la gentilezza, il garbo, il tratto umano.
Poi sì, certo, si capisce, c´è la politica, c´è la morale, c´è la guerra fredda. Su sulla «storia», sulle scelte di Berlinguer, sui suoi ritardi, sui suoi errori, sulla rigidità, la doppiezza, gli attuali oligarchi del Botteghino potrebbero utilmente intrattenere quel resta di un antico partito. Il compromesso, l´austerità, lo strappo, la musata sulla scala mobile, la diversità. Ma lui era diverso davvero, anche come stile, anche come dirigente, anche come uomo. E su questo i capi diessini non dicono molto. Anzi, a metterla giù dura, l´impressione è che oggi Enrico Berlinguer è diventato ingombrante perché sta lì a ricordargli, e nel modo meno simpatico, le ragioni originarie del loro stesso impegno politico. Ragioni che - via, lo ammettano! - si sono, come dire, un po´ indebolite. Ragioni che si sono attenuate, «modernizzate», «laicizzate». E anche vero rientra nel novere delle cose che possono e a volte devono accadere. Ma al tempo stesso, modernizzandosi e laicizzandosi, quell´impulso primigenio, quella voglia tutta giovanile di battersi per la povera gente - il Berlinguer partecipò giovanissimo ai «moti del pane», guidando la mobilitazione di gente che aveva fame - ecco, morto lui, in tanti e tanti ex giovani quadri del Pci quelle ragioni si sono aperte a tante e tante altre cose non proprio berlingueriane.
Berlinguer è morto nel 1984, e nel corso di questi 23 anni è stato tirato da una parte e dall´altra, tagliato a fettine, esposto sulle bancarelle congressuali; e poi pubblicato postumo, soggetto di libri scritti da futuri ministri, sindaci e presidenti a loro immagine e somiglianza, ma a loro uso e consumo. Troppo commemorato e insieme dimenticato a forza, difeso dai parenti, lodato dagli avversari (Andreotti, Romiti, Montanelli). Ma in fondo per comprendere Berlinguer - e quel che un tempo si chiamava popolo c´è riuscito meglio di tanti esponenti del suo ex gruppo dirigente - bastano quelle ultime immagine sul palco di Padova. Le parole smozzicate, il fazzoletto sul volto, e lui che voleva continuare. Un ricordo che non si riesce proprio a scartare. Anzi, forse stai a vedere che è proprio in questa memoria stralunata, ma piena di poesia che non c´è posto per il Partito democratico.
A Enrico Berlinguer è dedicata in eddyburg una cartella di scritti suoi e su di lui
«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia».
La passione è finita?
Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...
Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
È quello che io penso.
Per quale motivo?
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.
Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
E secondo lei non corrisponde alla situazione?
Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.
La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.
Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.
In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.
Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?
Veniamo alla seconda diversità.
Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.
Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.
Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.
Non voi soltanto.
È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?
Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.
Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.
Dunque, siete un partito socialista serio...
...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...
Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?
No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.
Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?
Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.
Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.
Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?
Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.
Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...
Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.
E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?
Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.
Fonte
http://www.ilbolerodiravel.org/kattivi_maestri/q_morale.htm
Sta per terminare l'anno di celebrazioni del ventesimo anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, nel corso delle quali ha rifatto capolino l'ambigua categoria della modernità. Nello stesso tempo è apparso che quanto più sono grandi il rispetto e la venerazione dei cittadini italiani per la figura del grande leader scomparso, tanto più una ristretta storiografia memorialista, a partire curiosamente, ma non tanto, da quella dei massimi dirigenti dei Ds, si è dilettata in una revisione negativa comparata ad una rivalutazione di Craxi. I termini del paragone sono ancora una volta la contrapposizione tra modernità e conservazione.
In ogni uomo politico si possono mettere in evidenza le ombre e le luci. Tuttavia dinnanzi a quella sorta di revisionismo grossolano al quale abbiamo assistito negli ultimi tempi sento l'esigenza di mettere in discussione due capisaldi della critica nei confronti di Berlinguer: la scarsa modernità e il moralismo.
Una analisi attenta del pensiero politico del Nostro ci permette di ritornare sulla distinzione tra modernità e innovazione.
Non c'è dubbio che in Berlinguer ci fosse e si facesse sentire una visione critica dei processi di modernizzazione, mossa dalla consapevolezza che nel cammino stesso del progresso umano ci possono essere delle perdite secche, in termini di valori e acquisizioni del passato, che occorre recuperare. E non c'è nemmeno dubbio che, sotto questo profilo, fosse molto attento ai rischi che determinate forme di modernizzazione potessero travolgere tutto e tutti. Anche l'applicazione della più sofisticata tecnologia alla guerra è una forma di modernizzazione, alla quale non si deve necessariamente applaudire.
Un'altra prova di modernità é lo yuppismo, la spregiudicatezza negli affari e nella politica misurata con i valori del mercato, il cinismo che ha come unico metro di giudizio il risultato immediato, la competizione per la competizione, l'esaltazione acritica della potenza del danaro, in una parola la modernità del rampantismo.
Berlinguer aborriva quel tipo di rampantismo che all'epoca contraddistingueva, persino nei modi e negli atteggiamenti, Craxi e il gruppo di giovani leoni che ruotavano attorno a lui. E fu proprio questo tipo di avversione ad essere erroneamente scambiata, o meglio, contrabbandata, per antisocialismo viscerale. Naturalmente lui si contrapponeva a tutto quel brulicare di una modernità vacua e insieme prevaricatrice, prepotente, chiassosa e travolgente. Cercava di combatterla, a volte con strumenti inadeguati.
Tutto ciò, tuttavia, non gli precludeva la via della ricerca, l'interesse per l'inedito, una indubbia curiosità per le nuove domande che sorgevano dal mondo femminile e da quello giovanile. In sostanza era decisamente aperto all'innovazione.
Come negare che fu un innovatore?
Nella politica internazionale fu un europeista convinto, lanciò l'idea di un' Europa né antiamericana né antisovietica; si fece paladino dell'eurocomunismo, ponendo al centro di questa idea il tema della priorità assoluta della libertà come valore universale che doveva essere rispettato al di sopra delle decisioni a maggioranza della democrazia; arrivò ad invocare l'ombrello della Nato contro le tendenze aggressive dell'Urss; chiese la fine dei blocchi contrapposti e dichiarò, con il famoso strappo, la fine della spinta propulsiva della rivoluzione sovietica.
In sostanza, come ho altre volte detto, portò la cultura comunista fino al suo limite possibile, arrivò a lambire il confine più avanzato che sia mai stato avvicinato da un partito comunista, pur rimanendo all'interno della tradizione comunista, nella speranza, che si rivelerà sbagliata, della riformabilità dei cosiddetti paesi socialisti.
Certo, non andò oltre quel confine, che comportava una certa, per quanto critica, solidarietà di campo.
Ciò avverrà in seguito con la svolta: ma chi di noi avrebbe in quel periodo fatto la svolta?
Berlinguer tuttavia pose molte premesse importanti, che proprio grazie al loro carattere innovativo, richiedevano un successivo salto qualitativo. Lo reclamavano, pena la mortificazione di tutta l'innovazione precedente. E ciò indipendentemente dalle polemiche, a volte legittime a volte capziose, sui tempi e sui modi.
Voglio però ricordare che Berlinguer pensava, sia pure in astratto, alla necessità di cambiare nome. Ne parlammo, mi ricordo, quando - allora io ero segretario regionale del Pci siciliano - venne in Sicilia durante la campagna elettorale del referendum su divorzio. Mi disse chiaramente: quello che abbiamo fatto in Italia, i mutamenti che abbiamo introdotto nella nostra cultura politica, sono tali per cui dovremmo cambiare nome al partito. E ricordo anche la sua risposta a De Martino, il quale chiese a Berlinguer di fare con lui un nuovo grande partito unificato e Berlinguer non balzò sulla sedia scandalizzato. Rispose semplicemente: non posso farlo ora perché in Urss c'è Breznev e avremmo una frattura enorme in Italia; i sovietici organizzerebbero una fortissima scissione.
Questi miei ricordi, che risalgono al lontano 1975, dimostrano che le spie della Cia in casa Tato non hanno tanto rivelato l'autonomia critica di Berlinguer nei confronti di Mosca, cosa a noi nota da tempo, ma piuttosto, ed è grave che nessun commentatore l'abbia sottolineato con sufficiente forza, il fatto che l'Italia si trovasse in una situazione di sovranità limitata, al punto che una grande potenza straniera poteva permettersi di organizzare sul nostro territorio dei veri e propri crimini contro la privacy.
L'altro elemento di modernità nel senso dell'innovazione furono le posizioni di Berlinguer sull'austerità. Apriti cielo: quelle posizioni suscitarono un vero e proprio marasma in gran parte della intellettualità italiana che incominciò a gridare al moralismo in sintonia con il dileggio dei craxiani.
In realtà tutto quello starnazzare fu dettato, in parte, da un malinteso e, in parte, da una risibile e sconcertante miopia culturale.
A parte la considerazione che saranno poi necessari ben dieci anni per risanare le casse dello Stato dilapidate dai dileggiatori dell'austerità, se facciamo le somme dei risultati raggiunti da Craxi e le esigenze attuali delle nostre economie, chiediamoci: chi è stato più al passo con i tempi?
Sicuramente ci fu una visione dell'austerità che io stesso non condivisi. Ma se è vero che l'austerità fu presentata anche con alcune esemplificazioni di sapore moralistico ed accentuazioni, soprattutto per opera di alcuni zelanti interpreti, che potevano assomigliare alle politiche di risanamento che finivano per fare pagare i costi maggiori ai più poveri facendoli ricadere principalmente sulle spalle dei lavoratori, l'ispirazione generale dell'intuizione berlingueriana era ben altra cosa.
Berlinguer capì molti anni prima che sorgessero i movimenti no-global che il mondo si trovava sull'orlo di un abisso. Che se si credeva di esportare nel resto del mondo il modo di produrre - e di saccheggiare le risorse energetiche - dei paesi capitalisticamente sviluppati il pianeta poteva saltare in aria, e che nel rapporto sempre più problematico tra uomo e natura si annidava il rischio di una vera e propria catastrofe.
Di lì nacque la sua proposta di cambiare il modo di produrre e di consumare.
Adesso tutti parliamo di sviluppo sostenibile, anche se siamo ancora molto lontani dall'aver assunto il tema del rapporto uomo-natura e della qualità dello sviluppo come il fulcro di tutte le politiche sociali ed economiche.
Allora il “passatista” Berlinguer era, molto più di Craxi, in sintonia con alcuni grandi della socialdemocrazia europea quali la signora Brutdland, Otto Palme e Willy Brandt.
Il rampantismo dominante non solo irrideva a tutto questo, ma si scagliava con veemenza contro il preteso moralismo del segretario generale del Pci.
Non escludo che ci siano state in lui cadute moraliste che riguardavano fondamentalmente i suoi gusti e comportamenti personali. Ma tali atteggiamenti non possono, in alcun modo, fare aggio sulle posizioni politiche assunte a proposito della corruzione politica dilagante. Èstato un suo merito innegabile quello di aver anticipato di almeno quindici anni la stagione di “mani pulite”. Si può solo dire che se le forze politiche dell'epoca gli avessero dato retta avrebbe fatto strada, anziché la soluzione giudiziaria, quella politica.
Considero da un punto di vista strettamente storiografico molto stravagante associare la questione morale, sollevata da Berlinguer, alla mera esigenza della difesa della identità del proprio partito attraverso la diversità. Ci dovrebbe soccorrere il metodo delle analisi differenziate per cogliere insieme il rapporto e la differenza tra i due temi. Che l'affermazione del Pci come partito dalle mani pulite abbia rappresentato uno dei connotati fondamentali della non sempre felice proclamazione della propria diversità, è un dato indubbio, tuttavia non esaustivo dell'assoluta autonomia della questione morale dai problemi del partito. Si dimentica che la tematica relativa alla crisi fiscale degli Stati incominciava ad assumere una valenza internazionale strettamente legata alla corruzione della politica. E anche in questo Berlinguer era al passo con i tempi.
Sollevare la questione morale è stato e continua ad essere un merito che non ha nulla a che vedere con il moralismo e con il cosiddetto giustizialismo, in quanto coinvolge tutti gli aspetti fondamentali della vita economica e sociale del paese e investe gli interessi generali e particolari dei cittadini, di tutti i cittadini di una nazione. E' tema centrale della ricostruzione della democrazia, oggi sempre più manipolata e pilotata dalla corruzione. Nello stesso tempo chiama in causa la questione complessa e delicata della riforma della politica e dello stesso sistema politico, su cui, per la verità, Berlinguer si mostrò molto esitante.
Ma come si vede, nella valutazione complessiva del suo impegno politico e civile, il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte dell'innovazione.
Ed è un vero peccato che proprio alcuni di coloro che avrebbero dovuto essere i suoi più stretti eredi abbiano, in questo ventennale, perso l'occasione di rendergli giustizia secondo verità.
Cominciamo con un'autocritica. Sapevamo da tempo che i repubblicani Usa avevano mobilitato al voto la destra religiosa fondamentalista; ma nel fervore preelettorale abbiamo finito per parlarne poco o niente. Siamo stati contagiati dalla speranza e dall'impegno delle campagne democratiche nelle ultime settimane prima del voto, mentre i repubblicani, previdenti e organizzati, la loro mobilitazione l'avevano fatta molto prima, quando i riflettori erano ancora meno focalizzati sulla campagna elettorale. E l'hanno fatta potendo contare soprattutto su strutture organizzate e ideologizzate come le chiese, su mezzi di comunicazione capillari e istituzioni educative ben finanziate, muovendosi sotto la soglia di attenzione nostra e dei media progressisti. Col senno di poi, è facile ricordarsi che una parte dell'astensionismo è legata a una religiosità «other-worldly», che si occupa solo dell'aldilà e ritiene che gli affari di questo mondo non la riguardino - fino a che qualcuno non li convince che negli affari del mondo sono in gioco anche articoli di fede. Avremmo dovuto parlarne prima. Una volta scoperto questo fatto, sui nostri media è apparsa subito una vulgata istantanea: a) le elezioni non si vincono sulle questioni materiali ma sui valori; b) per orientarci sui valori dovremmo ascoltare la destra. Credo che entrambi i punti siano sbagliati.
Fra i «valori» che hanno orientato il voto di maggioranza negli Stati uniti spiccano intolleranza sui gay, rifiuto del diritto di scelta delle donne, guerra e militarismo, armi da fuoco, pena di morte... Questi per me non sono valori, ma il loro contrario. Ma noi abbiamo delegato l'idea stessa di «valori» al cattolicesimo e alla destra, tanto non che ci riesce di dirlo, né di affermare valori altri, che vengono dalla storia della sinistra e della democrazia: giustizia sociale, uguaglianza, pace, non violenza, apertura culturale, accoglienza, l'internazionalismo, ambientalismo, una laicità rispettosa del diritto di tutti i credenti e non credenti. Sono valori capaci di accendere speranze, passioni, mobilitazioni. Ma invano li cercheremmo nelle piattaforme del nostro centrosinistra, o in quella di Kerry. L'unico che ha osato parlare di in pubblico di giustizia economica è stato Bruce Springsteen, che fa un altro mestiere.
E passiamo alla «autonomia» dei «valori forti» rispetto agli interessi materiali. Facciamo conto che gli elettori americani fossero posti davanti alla scelta fra votare contro l'aborto o a favore di qualcosa che gli cambia la vita, per esempio, il diritto alla salute; fra votare contro i gay o a favore di un buon contratto di lavoro, un salario adeguato e sicuro, una casa a un prezzo decente, trasporti pubblici accessibili, l'istruzione superiore per i propri figli... Siamo proprio sicuri che i «valori forti» avrebbero la meglio su questi interessi concreti? I democratici hanno governato per quarant'anni sulla base di un progetto socio-economico, il New Deal, che ha cambiato la vita di milioni di persone. Eppure, la destra religiosa esisteva anche allora. Io credo che molti votanti si concentrano sui «valori» immateriali sia perché nessuno gli propone niente di altrettanto significativo sul piano degli interessi materiali, tale da cambiargli la vita; sia perché, anzi, non credono più che qualcosa possa cambiare. Clinton vinse puntando su un interesse materiale, la riforma sanitaria e il diritto alla salute (che per me è anche un valore, ma lasciamo perdere) e gli elettori gli ridiedero fiducia anche dopo il disastro «etico» di Monica Lewinski. Ma poi la riforma sanitaria non si è riusciti a farla, e si è rinforzata l'idea che il sistema economico sia un destino immutabile, un dato irriformabile. Inutile starci a pensare, il mondo non cambierà mai se non in peggio; ragioniamo su altre cose su cui abbiamo opzioni più chiare.
Sul piano economico Kerry era sicuramente diverso da Bush - ma non abbastanza da generare speranze e spostare orientamenti. La sua descrizione dei fallimenti della politica economica di Bush era puntuale, ma le spiegazioni delle cause erano poco incisive e la proposte generiche e timide. Mi piaceva la sua idea di portare il salario minimo da 5 dollari e mezzo a 7; ma era appena un modo per non far crepare i più miserabili, non cambiava la vita di nessuno (e comunque, in un'elezione dove un'astensione del 42% è decantata come un trionfo democratico, sospetto che non fossero tanti i minimum wage workers che sono andati a votare - pure perché tanti di loro non ne hanno il diritto).
Insomma, l'alternativa non è fra valori e interessi materiali come tali, ma fra un discorso netto e forte sui valori e una proposta debole e generica sugli interessi. Infatti la destra possiede anche un discorso forte sugli interessi materiali. In televisione, Bertinotti ricordava che in Ohio si sono persi duecentomila posti di lavoro negli ultimi anni e implicitamente, come Kerry, ne attribuiva la responsabilità a Bush. Ma una parte del voto per Bush viene proprio da gente che ha perso il lavoro, gente alla quale la destra offre una spiegazione convincente e un capro espiatorio credibile: è colpa della concorrenza sleale del resto del mondo. Mi ricordo, a Youngstown, Ohio, la dolorosa, eloquente poesia di un operaio licenziato dell'auto, che finiva: «ma che ne sapete di tutto questo, voialtri intellettuali con le vostre macchine straniere?» Se i padroni americani ti licenziano, la colpa è degli intellettuali e degli stranieri. Né Kerry ha proposto qualcosa di molto alternativo - per esempio, una legislazione che renda meno facile licenziare, discriminare, ingaggiare crumiri, e che dia ai lavoratori una forza contrattuale paragonabile a quella che gli diede l'NRA negli anni '30. Sarà volgare, ma credo che, anziché una separazione, esista un nesso fra un certa lettura dei fatti socio-economici e una certa proposta di «valori». Se la colpa del declino economico dell'America popolare è degli stranieri, è logico rifugiarsi in un nazionalismo guerresco che illude di espandere il modello americano facendo la guerra agli stranieri e impadronendosi del loro petrolio; se la colpa è di quelle checche degli intellettuali, è naturale aggrapparsi ai «valori» virili delle armi da fuoco, della pena di morte, della discriminazione dei gay, del dominio sul corpo delle donne. In altre parole: in questa elezione, «valori» e interessi non sono stati tanto autonomi, quanto correlati. L'elettorato americano ha votato sui valori che meglio collimano con la percezione (sbagliata e ideologica, ma semplice e convincente) dei propri interessi.
Una cosa la possiamo imparare dalla destra americana: la pazienza e la lungimiranza. La travolgente egemonia di oggi è il risultato di un ripensamento cominciato dopo la sconfitta di Goldwater nel 1964. Allora, nel pieno di quella che sembrava l'avanzata inarrestabile dell'altra America, il partito repubblicano cominciò a cambiare pelle. Smise di puntare sul ceto medio-alto moderato; si spostò verso la destra radicale, religiosa e rurale; sviluppò una proposta di «valori» e una strategia di comunicazione capace di far cambiare schieramento a molti elettori tradizionalmente democratici. Più che con Nixon (normale alternativa bipartitica), questa strategia si affermò con Reagan, che fu l'esito e il rilancio di una profonda modificazione delle coscienze. Ci sono voluti quindici anni, ma dura da ventiquattro anni (l'intervallo Clinton fu reso possibile da Ross Perot) più i prossmi quattro, e non se ne vede la fine. Allora, cerchiamo pure tattiche e alleanze per togliere subito il governo a Berlusconi; ma se non ci mettiamo in testa di lavorare a lungo termine e in profondità su un insieme di proposte materiali e di principi morali correlati nostri e distinti, non ci libereremo mai del berlusconismo. E anche se vinciamo, lo vedremo tornare.
C'è un'altra ragione per l'egemonia repubblicana a lungo termine: l'inevitabile messa in discussione del modello di vita americano e occidentale. I limiti di sostenibilità del pianeta, le legittime richieste di vita migliore da parte delle maggioranze dell'umanità comportano un declino o una radicale revisione di uno stile di vita che dipende dall'accaparramento e dallo spreco di quote sproporzionate delle risorse limitate del mondo. In altre parole: è finita la frontiera; è finita un'idea di benessere e di democrazia fondati su un'espansione senza confini. Possiamo progettare un modo di vita diverso; o possiamo arroccarci a difesa esclusiva dei nostri privilegi attraverso il dominio economico e militare (creando una frontiera nuova che arriva fino all'Asia Centrale). Per i repubblicani americani, e non solo loro, lo standard di vita occidentale non si tocca, e se produce guerre e inquinamento, guerre e inquinamento sia. E siccome quelli che se ne stanno già accorgendo e pagando i prezzi non sono i ceti privilegiati, ma i lavoratori, i precari, i disoccupati, i più giovani, gli emarginati, è proprio in queste fasce che una strategia di difesa a oltranza dell'esistente contro ogni cambiamento trova consensi. Anche qui una strategia economica è correlata a indicazioni di «valori». Maggioranze preoccupate e insicure, tanto più dopo l'11 settembre, si convincono che i propri interessi economici si difendono chiudendosi nell'egoismo personale e nazionale, subordinando lo stato di diritto alla sicurezza, sospettando di chiunque non ti somiglia, perseguendo il dominio del più forte, disprezzando ogni vestigia di diritto internazionale come un'offesa alla propria sovranità (e ogni positiva azione dello stato come una violazione della propria libertà solitaria). La paura del declino economico e l'egoismo fondamentalista sono facce di una sola medaglia.
E per finire. L'unico referendum in cui ha prevalso un'opzione «progressista» è stato quello sulle cellule staminali in California. Un'amica americana l'aveva previsto: c'è sempre più gente in America, diceva, che ha un'età in cui non ha più bisogno dell'aborto ma ha paura dell'Alzheimer. Tra la «moralità» di Bush e l'interesse a cercare una cura, non hanno esitato. Ma non è tanto un segno di laicità e modernità, quanto di stanchezza e, ancora, di paura: l'America a cui volevamo bene, giovane e piena di speranze, è sempre più carica da paure, solitaria ed egoista, e più vecchia.
Debbo ringraziare Rossana Rossanda che polemizzando nel numero di novembre della rivista (1) con un mio articolo (2), ha riaperto la questione Berlinguer con una critica radicale e mi costringe, così, a ripensare cose antiche. È un esercizio non facile e un po' tormentoso. Ma, forse, può essere utile per capire meglio quel che succede oggi.
In quello scritto (dell'ottobre scorso) avevo replicato al giudizio del segretario dei Ds - Fassino - su Berlinguer, passatista e fallito, e su Craxi, modernizzatore e vincente 3. Quella sprezzante valutazione, spinta ai limiti della contumelia, riguardava il periodo ultimo della segreteria, e della vita, di Berlinguer: e solo su questo mi ero espresso. Rossanda ha esteso il discorso. E conclude: «… difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato.» Concordo pienamente. Avevo appunto fatto notare, in quell'articolo, che sono contrario a ogni visione acritica, per chiunque e in qualsiasi caso. Aggiungo che - se lo conoscevo bene - era questa anche la opinione di Berlinguer.
Proprio perciò non penso affatto quel che Rossanda mi fa dire e cioè che «se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa». Non ho mai pensato e non ho scritto che «il declino e il dissolvimento del Pci» siano colpa di Craxi e della morte di Moro. Anzi se qualcuno sostenesse una tale tesi mi parrebbe uno sproposito e, riflettendo sulla fine del Pci 4 ho sostenuto tutt'altro, cercando di riandare, piuttosto, alla cultura costitutiva del vecchio Partito, piena di meriti, ma minata anche da contraddizioni divenute alla fine insuperabili.
Ma la mia argomentazione, dice Rossanda, «sembra suggerire» proprio quella tesi che io stesso giudicherei del tutto sbagliata. Il perché di quel «sembra suggerire» non viene dimostrato. Ma non importa. Su un «sembra», e cioè su una sensazione, è difficile ragionare. Mettiamo pure che la penna abbia tradito il pensiero. Dunque, ripeto. Ho replicato al giudizio di Fassino su Craxi e Berlinguer con tre argomenti. Il primo. La diversa eredità lasciata dai due dirigenti. Il secondo. La assurdità di definire «allo sbando», «senza bussola» eccetera un partito che, avendo visto il fallimento della sua politica (quella della solidarietà nazionale), se ne ritraeva e proponeva una nuova politica (quella dell'alternativa). Il terzo. La possibile fecondità della ricerca di fondamenti nuovi tentata da Berlinguer proprio in quell'ultimo periodo, dopo lo `strappo' con i sovietici.
Ma, obietta Rossanda, «il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico». È certamente vero che la parte più lunga e più nota della segreteria Berlinguer è quella che prende il nome dal `compromesso storico', tradotto poi nei governi di solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sentirei di discutere se la «parte più importante» nella vita di un politico (e di una persona) sia quella in cui segue una strada che si rivelerà infeconda o sbagliata o quella in cui riesce a criticare se stesso e a cercare una strada nuova. La cosa più difficile è correggersi. Tanto difficile che gli esempi sono rarissimi, da tutte le parti.
Che sia stato poco rilevante il tempo, successivo al '79, della autocorrezione o, come si dice, della `svolta', Rossanda lo pensa da sinistra ma non è la sola a pensarlo. Fassino definisce quella del compromesso storico «l'ultima strategia politica di Berlinguer degna di questo nome», ripetendo quello che hanno detto dirigenti del medesimo orientamento politico più anziani di lui. Molti esponenti del Pci ultrariformisti che poi diverranno fautori della democrazia dell'alternativa intesa come alternanza furono del tutto contrari - sebbene con la discrezione che si usava allora - alla rottura della solidarietà nazionale sostenuta da Berlinguer. E considerano gli anni successivi alla svolta, come accade a Rossanda, irrilevanti o peggio. Correggersi è veramente difficile.
Ma da dove veniva la politica cui Berlinguer darà il nome di `compromesso storico'? Chiarante (nel numero di dicembre 5) ha già posto in luce l'annuncio di quella politica nel Congresso (1972) che elesse Berlinguer segretario, ha ricordato la posizione anticipatrice di Chiaromonte sulla impossibilità di governare con il 51%, l'origine togliattiana della politica di `unità democratica'. Il dibattito nel gruppo dirigente del Pci da tempo non stava più soltanto - come ritiene Rossanda - tra Ingrao «più interrogato dai cambiamenti» e Amendola che «puntava alla unificazione con il Psi». Si era venuta formando un'altra posizione che convincerà alla fine la maggioranza del gruppo dirigente, una posizione nutrita fortemente della memoria dei governi unitari successivi alla Liberazione, troncati nel '47 dalla guerra fredda. La linea - non nuova - dell'incontro tra socialisti, comunisti e cattolici per `rinnovare e risanare' l'Italia fu ripresa in quegli anni e aggiornata con il contributo decisivo di due dirigenti poco citati, Agostino Novella e Paolo Bufalini, che ebbero allora un peso rilevante nella posizione di centro del Partito. Novella era stato il più rigoroso interprete - in polemica con Amendola - proprio della politica togliattiana di unità democratica nella Resistenza, aveva diretto la Cgil fino al distacco dall'organizzazione sindacale mondiale di osservanza sovietica e sarà poi uno dei promotori della segreteria Berlinguer. Come Bufalini, cresciuto alla scuola di Togliatti, che aveva dato la sua impronta al partito siciliano e romano e sarà uno dei più attenti, da una posizione pienamente laica, ai rapporti con la Chiesa.
Ma sulla linea dell'incontro con i cattolici non mancò il contributo dei dirigenti considerati più a sinistra, anche se essi sottolineavano in particolare misura le novità rappresentate dai cattolici di avanguardia e dalla sinistra democristiana e con questi si ponevano in relazione, piuttosto che con la ufficialità vaticana. Fecero epoca i dibattiti di Ingrao con gli esponenti dei `basisti' che venivano allargando il loro spazio nella direzione della Dc. Fu dunque lunga la preparazione di quella nuova politica `unitaria', piena di ambiguità. Da un lato veniva concepita in contrapposizione con le suggestioni - soprattutto esterne - di `alternativa di sinistra' considerate irrealistiche e quasi pericolose. Ma c'era anche l'idea di un nuovo `blocco storico' trasformatore, di cui la base cattolica doveva essere parte.
Non fu, però, cosa da poco, nel linguaggio criptico e nella liturgia di allora, l'aggiunta dell'aggettivo `storico' da parte di Berlinguer alla parola `compromesso', la cui necessità era ben presente nella tradizione comunista internazionale e interna (da Brest Litovsk in poi 6). Quell'aggettivo nasceva dall'idea non solo che il `risanamento e rinnovamento' del Paese avesse bisogno di una concordia nazionale ma che l'attenuazione del contrasto di classe «per evitare la comune rovina delle classi in lotta» dovesse accompagnarsi a forme di mutamento nei rapporti tra lavoro e capitale di cui lo statuto dei diritti era stato una premessa considerata insufficiente e dovesse comportare un inizio di modificazione nel tipo di sviluppo attraverso un più forte sostegno ai consumi pubblici rispetto a quelli privati.
Berlinguer rifiutò sempre, fino alla fine, di considerare i governi di solidarietà nazionale come la traduzione del compromesso storico. Vi era, in questo, un po' del carattere della persona, fatto anche di timidezza e di ostinazione, e dunque una difficoltà reale di vedere la connessione tra le premesse e le conseguenze, tra le intenzioni e la realtà. Ma vi era anche qualcosa di vero, nel senso che non fu certo una libera scelta, una libera applicazione del compromesso storico quella che portò a governi composti solo da democristiani, sostenuti dall'esterno da tutta la sinistra (giunta ad essere il 50 per cento del Parlamento). Ed era vero che la traduzione concreta in termini di linea governativa, anche da parte dei dirigenti comunisti più integrati - sebbene dall'esterno - in quella esperienza, fu dettata da una linea scarsamente o per nulla distinguibile dal passato. Si vide alla fine il `risanamento' ma solo dei conti pubblici e, come sempre, essenzialmente a spese del lavoro. Di `rinnovamento' non vi fu traccia neppure per timidi cenni. Dal punto di vista di una forza anche solo progressista fu un fallimento indubbio.
Ma Rossanda non giudica quel tanto di distanza che ci fu tra progetto e concreto svolgimento della vicenda dei governi detti di solidarietà nazionale, sebbene è sul fallimento della esperienza di governo che si valuta il fallimento del progetto. Sicché ricade su Berlinguer anche la responsabilità che fu di altri e comunque dell'insieme. Non è un metodo giusto quello di trascurare le condizioni in cui si svolge un certo fatto per poterlo giudicare. Uno storico stimato come Paul Ginzborg - il quale pure dava un giudizio negativo sulla nascita dei governi di solidarietà nazionale - è venuto, poi, alla conclusione che era difficile fare diversamente nelle condizioni date.
Tuttavia il giudizio di fatto, che dovrebbe guardare alle condizioni concrete, non elimina la valutazione di principio. Ed è su questo soprattutto che Rossanda interviene: quella idea di compromesso storico del 1973 fu motivata dalla falsa previsione di involuzioni fascistiche che non vi furono, volle essere un accantonamento della lotta di classe da parte dei comunisti in cambio della rinuncia della Dc ad alleanze a destra e nella speranza di un rinnovamento democristiano che non vi fu, fu un brutto episodio di `autonomia del politico' contro i movimenti e le lotte sociali, fu la interpretazione del primato della politica come «primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica» rispetto alla politica intesa «come governo della costituzione materiale del Paese», andò addirittura contro non solo le lotte nelle fabbriche ma «contro la Cgil di Lama dei primi anni '70». In più Berlinguer quando si dichiarò più sicuro sotto l'ombrello della Nato o aveva - sempre secondo Rossanda - ancora il timore di un «pericolo sovietico sempre più improbabile» oppure voleva esprimere «il riconoscimento che il capitalismo aveva vinto e doveva vincere». Il che costituisce, secondo Rossana, anche il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds.
Personalmente, negli anni della solidarietà nazionale, cercai di fare quel che potevo - forse perché ero il responsabile delle politiche per la cultura - perché ci si accorgesse e si dialogasse con i movimenti e poi per aiutare Berlinguer a portare fuori il Pci dalla esperienza della solidarietà nazionale. Sono ovviamente responsabile come tutti gli altri delle scelte della direzione di allora. Ma come si vedrà poi, e fino a oggi, il mio orientamento personale non era uguale a quello di altri. Dunque, non mi considero in alcun modo un difensore del compromesso storico. Ma l'argomentazione di Rossanda mi pare che vada decisamente oltre il segno. Se fosse compiutamente fondata la sua analisi sulla negazione della lotta di classe, della lotta sindacale, e persino della Cgil di Lama, Berlinguer non avrebbe voluto e promosso la rottura davanti alla manifesta impossibilità di risultati innovativi. Se fosse stato convinto di una linea di abbandono del conflitto sociale, che pure esisteva nel Pci, mai egli sarebbe andato - per citare un fatto che volle essere emblematico - davanti ai cancelli della Fiat. Ma Rossanda anche su questo non si impietosisce: quando ci va è ormai tardi. Più che un'analisi, si rischia la requisitoria. Come nel romanzo popolare ottocentesco dove l'implacabile commissario perseguita, in nome della legge, il povero galeotto ormai redento e dedito alle opere di bene.
A me pare che scegliendo una visione parziale non si fa giustizia alla persona ma soprattutto non si legge la realtà. Berlinguer non è solo quello dell'ultima fase della sua segreteria, ma non è neppure solo quello della prima fase: dal punto di vista del tempo (7 anni e 5 anni) ma soprattutto per l'importanza dell'impresa. Il vero gesto di rottura della tradizione - che infatti la parte più conservatrice del Pci non gli ha mai perdonato da vivo come da morto - è proprio il rigetto della solidarietà nazionale o, se si vuole dire così, l'abbandono del compromesso storico. Esso era l'ultima propaggine di quella linea della grande unità che derivava dal rifiuto di abbandonare la `diversità' dei comunisti italiani in termini di collocazione internazionale (che faceva cadere su di loro l'interdizione al governo). Ma derivava anche dall'idea che solo con un `fronte largo', anzi larghissimo, si potesse avviare qualche riforma consistente. Solo una ormai scarsa conoscenza della realtà poteva - però - far supporre che si potesse ricominciare sulla stessa linea di trent'anni prima.
Ha ragione Rossanda che c'è una continuità tra la linea dell'unità democratica e i Ds: per esempio, nel tentativo di D'Alema per il mai nato governo Maccanico di unità nazionale e poi nel progetto fallito della Bicamerale con Berlusconi, entrambi presentati come se fossero in continuità con la politica togliattiana. Ma questa presunta continuità senza la grande unità antifascista (e senza l'Urss) si ripresentava stralunata e spaesata, fuori dal tempo e dallo spazio, come una scadente imitazione rapidamente messa fuori commercio. Bisogna però ricordare che per produrre questa imitazione si era dovuto provvedere, appunto, a ignorare, a irridere, a considerare poco importante la svolta che Berlinguer operò chiudendo con tutta la lunga tradizione che aveva avuto nella Resistenza il suo punto più alto.
La rottura con la tradizione unitaria avviene assieme con lo strappo definitivo dall'Urss. Ma anche questo era in ritardo e non abbastanza forte, secondo Rossanda. Dopo la morte di Togliatti - «che arrivò a votar contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti» - il Pci si ferma sulla strada indicata nel memoriale di Yalta, che «prendeva le distanze» dall'Urss. Anzi Berlinguer «continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito». E lasciò il partito ancora forte ma per poco, perché lo lasciò disarmato rispetto al crollo dell'89.
Spiace doverlo constatare ma i fatti non sono questi. Il memoriale lasciato da Togliatti alla sua morte a Yalta era segreto, destinato ad una discussione interna con il gruppo dirigente sovietico. È Longo che decide di pubblicarlo, prendendo le distanze. È Longo che si oppone alla Conferenza dei partiti comunisti per anni e, quando i sovietici la convocano ad ogni costo, vi manda Berlinguer, vice segretario, con la decisione di non votare nessuno dei documenti presentati. E Berlinguer in quella sede dichiarò (eravamo nel '69) che i comunisti non potevano concepire socialismo senza pluralismo politico, sollevando un caso internazionale clamoroso.
È Berlinguer segretario, non altri - come ha testimoniato in un suo libro Cervetti 7, allora organizzatore e amministratore del Pci - che ruppe nel '75 con i finanziamenti sovietici. Ed è ancora Berlinguer che - prima della Polonia e dell'Afganistan e dello `strappo', che sarà nell'80 - va a Mosca (era il '77) a fare una sorta di scomunica alla rovescia, proclamando il «valore universale della democrazia». Fu di nuovo un caso mondiale. Ugo la Malfa ebbe a dichiarare che bisognava smettere di chiedere al Pci altre prove di democraticità.
Si poteva, si doveva fare ancora di più? Senz'altro. Fino alla fine si sperò nella riformabilità dell'Unione Sovietica, ma non per colpa di Berlinguer che aveva scritto che non è socialismo quello che non garantisce neppure il grano per il pane. Si sperò perché, dopo la morte di Berlinguer, vennero Gorbaciov, la perestroika, la glasnost. Troppo comodo, semmai, per i dirigenti comunisti che sono rimasti - tra cui io stesso - nascondersi dietro Berlinguer perché non comprendemmo che Gorbaciov non ce l'avrebbe fatta, che la riforma sarebbe fallita o che l'avrebbero fatta fallire.
Ma se è comprensibile che da destra si rimproveri a Berlinguer di non aver concepito la rottura con l'Urss come il salto pieno dentro la accettazione del sistema dato, non mi sembra né giusto né utile, da sinistra, rimuovere quello che fu secondo me - ma credo di non sbagliare - il suo vero assillo finale. Ricostruire le fondamenta autonome di una sinistra capace di critica del sistema e di proposta riformatrice atta al governo. Anche a questo sforzo finale per distinguere il proprio partito da un sistema politico marcio e da una sinistra che sbandava nel ministerialismo si deve il mantenimento della forza del Pci, che è andata oltre la sua scomparsa: perché è su quella eredità che ancora vivono in larga misura le sinistre di oggi.
Certo, ricostruire dalle fondamenta implica un percorso difficile che non mi pare che qualcuno abbia compiuto, e che è ancora tutto davanti a noi. Fu uno sforzo complicato, per chi era cresciuto per tutta la giovinezza a fianco di Togliatti, intendere le correnti nuove che percorrevano il mondo e che il movimento operaio comunista e socialista non aveva neppure immaginato: dal femminismo della differenza all'ecologismo, al nuovo pacifismo, ai temi proposti dalla rivoluzione scientifica e tecnologica. Sono questioni che è difficile ancora oggi, a sinistra, maneggiare consapevolmente. Certo che va riscoperto lo scontro di classe. Ma non ci si può illudere che basta riprendere il discorso interrotto da quelli che potettero essere gli errori del Pci negli anni settanta. Non ci sarà niente da fare se non leggeremo il contrasto tra le classi dentro la nuova composizione sociale in una realtà globalmente trasformata e in connessione con le contraddizioni, i bisogni, i desideri nuovi. La crisi non è solo da una parte. Se la sinistra moderata sbanda al centro, quella alternativa non riesce a ricomporre la propria diaspora, il che è più grave, perché nega le speranze.
Penso che una ricerca storicamente fondata sul passato - senza preconcetti e senza rimozioni - possa aiutare a capire che cosa abbia portato il nostro paese nelle mani di Berlusconi e la sinistra italiana ed europea sino al punto in cui siamo oggi, tra la deriva moderata e la fragilità degli alternativi.
Non ho scritto questo articolo per tessere le lodi di un compagno scomparso che ha fatto anch'egli i suoi errori assieme a tante cose giuste. Ma perché, per guardare avanti, mi sembra indispensabile sfuggire all'esercizio consolatorio di dare tutta la colpa a chi non c'è più, guardando un po' di più dentro noi stessi.
note:
1 Rossana Rossanda, Discutendo di Enrico Berlinguer, «la rivista del manifesto», n. 44, novembre 2003, pp. 60-62.
2 Aldo Tortorella, I nipotini di Padre Bettino, «la rivista del manifesto», n. 43, ottobre 2003, pp. 7-11.
3 Cfr. Piero Fassino, Per passione, Rizzoli 2003.
4 Appunti sulla fine del Pci, su «Critica Marxista», 1998, n.5.
5 Giuseppe Chiarante, Alle origini del compromesso storico, «la rivista del manifesto», n. 45, dicembre 2003, pp. 52-55.
6 Brest Litovsk è il nome del luogo ove fu sottoscritta dall'appena costituito governo sovietico, ai tempi di Lenin, l'armistizio e poi la pace separata nel 1918 con la Germania. In quel trattato la Russia cedeva molti territori alla Germania.
7 Gianni Cervetti, L'oro di Mosca, Baldini e Castoldi-Dalai 19992.
PADOVA La sera prima era a Genova. A Padova era arrivato a mezzogiorno e mezzo, in auto. Non ci veniva da dieci anni, l’ultimo comizio lo aveva fatto per il referendum sul divorzio. Specchio di un’epoca ormai sostituita da una mobilità frenetica. A Padova era atteso al casello dal segretario del Pci Flavio Zanonato; era andato all’hotel Plaza, stanza 421, una piccola camera senza pretese, per rinfrescarsi. Pranzo molto leggero, col fedelissimo Antonio Tatò che già brontolava per «il pesce di ieri sera che forse ti ha fatto male». Un riposino. Poi si era messo a scrivere il discorso. «Scriveva sempre personalmente i suoi discorsi, dalla prima all’ultima parola», sorride Zanonato.
«Discorsi tutti diversi - aggiunge Zanonato- sempre molto legati alle città in cui si trovava. Parlava poco, ma quando parlava , parlava sul serio: erano documenti».
Era cominciato così il 7 giugno 1984 di Enrico Berlinguer. Poi un incontro con gli operai della Galileo in crisi. Verso sera, una passeggiata a piedi verso piazza della Frutta, per il suo ultimo comizio. I padovani lo riconoscevano, lo fermavano, lo salutavano: non solo i comunisti. Un po’ piovigginava, un po’ no. La piazza era strapiena; un discorso di Berlinguer era un evento. Piena e allegra. Poi, «all'improvviso l'atmosfera è cambiata, è virata dal bianco al nero istantaneamente, come una foto quando la sviluppi», ricorda lo scultore Elio Armano, che allora stava sul palco in qualità di «sindaco rosso» - una mosca bianca - di un comune vicino. A tre quarti del discorso Berlinguer aveva cominciato a sentirsi male. Soffriva, faticava, le parole si inceppavano.
La gente, dalla piazza, se n'era accorta per prima vedendo il volto contratto proiettato su un maxischermo alle spalle del palco. Sul palco nessuno lo aveva capito: «Eravamo lì come dei baccalà», si rimprovera Armano retrospettivamente, «da giù qualcuno urlava "basta, basta!", Berlinguer continuava faticando, aggrappato alla tribunetta in multistrato, l'avevo disegnata proprio io». Era intervenuto Tatò: «Smettila!». E Berlinguer continuava. Pietro Folena, allora segretario cittadino, aveva fatto salire sul palco un medico che stava in prima fila, il professor Giuliano Lenci, primario pneumologo, trapiantato a Padova da Pisa.
Quella serata riempie da vent'anni i sogni di Lenci, ormai da tempo in pensione. «Salii. Smettila, gli sussurrai anch'io. Berlinguer mi disse, rapidamente: "Mi vien voglia di vomitare". O bischero, e vomita!, esplosi». Lo fece, appena un po’. Riprese a parlare, con uno sforzo supremo, tagliando le ultime pagine, arrivando al famoso invito finale ai compagni, «andate casa per casa, strada per strada. . .». Tatò, dietro, stringeva i pugni per l'ostinazione: «È un sardo, è un sardo. . .». Corsa in albergo. Visita accurata del professor Lenci, diagnosi istantanea, lesione cerebrale destra, una emorragia lenta e progressiva, trasferimento immediato a neurologia, poi nella vecchia rianimazione. La folla si spostava all'istante: dalla piazza all'hotel, dall'hotel all'ospedale, seguiva Enrico guidata dal passaparola, cupa e introversa.
L'ospedale di Padova divenne per i giorni di agonia il cuore d'Italia. La mattina dopo arrivò Sandro Pertini, il vecchio socialista presidente della Repubblica. Non volle più andarsene, «qua c'è un mio figlio». La moglie, naturalmente, i figli, il fratello Giovanni, e quasi tutti i dirigenti Pci, con Pecchioli, Angius e Pajetta che si sobbarcavano il grosso del lavoro; a Roma erano rimasti solo Natta e Occhetto, futuri segretari. «In ospedale ho visto Pecchioli e Ingrao, uno bassino, l'altro altissimo , abbracciarsi e scoppiare a piangere a dirotto», ricorda Pietro Folena. Il partito aveva un cuore, e lacrime da versare, non era quella grigia macchina di burocrati che tanti deridevano. Arrivavano tutti, i democristiani, i liberali, Cossiga e Scalfaro, Spadolini e Forlani, Biondi e De Mita. Venne Bisaglia: «In una pausa, mi confidò: “Ho paura del mare”, e poco dopo morì annegato», ghigna il professor Lenci, che faceva da anfitrione nel «suo» ospedale.
Si riproducevano in piccolo le tensioni nazionali. Arrivò, buon ultimo, il presidente del consiglio Bettino Craxi. Una settimana prima, al congresso socialista, Berlinguer era stato fischiato. A Padova il clima era glaciale. Nel piazzale dell'ospedale, sempre affollato, tirava brutta aria: «C'era un bel malumore tra i compagni. Dovette essere sedato», dice Lenci. Craxi fu accolto con gelida cortesia, anche dai dirigenti, e dagli stessi medici: «Ricordo che salì fino all'anticamera della Rianimazione, e lì si mise a parlare con qualcuno, e non si decideva mai a entrare. Giron, il primario, si infastidì. "Vagli a dì che venga, se vuol venire, che io ho da fare"».
C'era tensione anche tra Pertini e Nilde Jotti. Pertini s'era incavolato di brutto - come un genitore severo col figlio - perché la presidente della Camera era arrivata a Padova un giorno dopo lui. Non le parlava, la ignorava ostentatamente. Il servizio d'ordine aveva un bel daffare ad organizzare gli spostamenti evitando che i due si incontrassero. Ma queste sono storie da troppo affetto.
Il servizio d'ordine mobilitava tutto il partito, in ospedale e al Plaza. L'ospedale calamitava mezza regione. Passava la gente andando o tornando dal lavoro, si fermava a chiedere: «Come sta?». Non erano comunisti. In albergo dormivano i vertici del Pci . Là l'organizzazione era in mano a Folena e a Daniele Lorenzi dell'Arci. Daniele ricorda: «Chi dava più da fare era Angius. Timido, gentile, non lo conosceva nessuno, lo fermavano sempre, doveva cercarmi per passare. . .».
Lorenzi, la notte dell'ictus, aveva già avuto la sua rogna: l'operatore privato ingaggiato per riprendere il comizio, fiutato l'affare, era partito per Parigi, a vendere la cassetta: 90 milioni gli offrivano. Telefonate tempestose. Folena, alle due di notte, era riuscito a contattare a Roma il «responsabile comunicazione» del Pci, un tal Veltroni: «Riuscì a far intervenire la Rai. La Rai contrattò con l'avvocato dell'operatore, e acquistò lei la cassetta». Il contratto fu steso dentro un furgone, nel piazzale dell'ospedale.
E Berlinguer morì, l'11 giugno. Tanti parroci avevano invitato a pregare per lui nella messa domenicale. L'aereo presidenziale aspettava a Venezia. Padova, Mestre, erano impercorribili, le strade assiepate di gente. Pioveva. Si erano gremiti i ponti e i bordi dell'autostrada, fabbriche ferme, contadini venuti in trattore, camionisti in lacrime. Passava Enrico Berlinguer, «piccolo, timido, silenzioso, attento, caparbio, impregnato di moralità e di passione, e oggi no, non vedo nessun leader politico così carismatico, capace come lui di suscitare una tale emozione collettiva», dice Zanonato. Lenci, il professore, si aggrappa ad un ultimo flash: «Poco prima della morte, la signora Berlinguer mi consegnò un abito, per il marito. Io lo presi, cominciai a cincischiarlo distrattamente, come faccio sempre coi miei vestiti, lei si preoccupò: professore, per cortesia. . . sono andata a prenderlo a Roma, l'ho stirato io stanotte. . .»
Berlinguer ha lasciato senza dubbio un grande vuoto, politico e umano. Per le sue doti personali, che erano notevoli, e per la straordinaria capacità dell´intellighenzia comunista d´aureolare di carisma leader che meno sembravano adatti alla comunicativa - si pensi a Togliatti - era diventato un protagonista della vita politica. Meritava - più di tanti altri - d´esserlo: perché poteva commettere errori, mai disonestà o bassezze.
I suoi apologeti, spesso smodati, hanno fatto di lui una sorta di audace rinnovatore del comunismo. La verità è che Berlinguer aveva una mente aperta, ma all´interno degli schemi di partito: e che la sua conversione al nuovo fu graduale, attenta e sofferta: un adeguamento intelligente alle prospettive che la storia e la politica, in Italia e fuori d´Italia, imponevano, e che avevano costretto anche il coriaceo Marchais a molte concessioni.
Ecco perché un timido piaceva tanto alla gente , intervista di Antonio Gnoli
«Ho ancora viva l´immagine dell´uomo. Berlinguer è stato un caso raro, forse unico, di politico in grado di trasmettere un senso di fiducia e amorevolezza», Gillo Dorfles, studioso di estetica e di comportamenti legati al costume offre una lettura un particolare di Berlinguer.
«La sua postura, il suo modo di darsi in pubblico pur nella reticenza assoluta, suggerivano situazioni insolite per un politico. Innanzitutto la distanza. Dalla sua persona emanava qualcosa di remoto e intangibile. Se penso alle odierne risse televisive, al modo arruffato con cui la politica cerca l´autoaffermazione, non posso non rilevare quanto distante fosse la sua presenza. Distanza ma anche diversità. Ecco l´altro tratto sorprendente. Ci è difficile immaginare un politico altrettanto spoglio da ambizioni mediatiche, così sprovvisto di retorica e talmente scarno nell´oratoria da risultare quasi affetto da mutismo. Le sue parole erano avvolte dal silenzio. Niente a che vedere con le studiate pause craxiane, con quel parlare lento e calcolato. Quelle parole sembravano al contrario scaturire da una immensa timidezza».
«Tutto questo ha finito con il creare il più involontario degli esercizi carismatici: la distanza si è trasformata in un´aura potente, la differenza in un valore al quale riferirsi, la timidezza in una forma di aristocratica innocenza. Nessuno, nell´Italia degli anni Settanta, è stato come lui: un punto di attrazione per i più diversi strati sociali. Un operaio poteva vedere in lui la moralità al potere, il borghese quel senso aristocratico che gli derivava dalle sue radici».
«Non è irrilevante dove e come si nasce. Berlinguer apparteneva a quella ristretta cerchia di famiglie sarde, aristocratiche e colte, dalle quali sono usciti personaggi di primo piano, come Pintor o Cossiga. È ovvio che da solo questo non sarebbe bastato. E non so se oggi un uomo del genere avrebbe avuto quella presa che ebbe allora. Mi permetto di dubitare. Di lui, a me che non mi sono mai occupato di politica, resta la sua rara essenzialità antropologica. Il suo corpo erano i suoi pensieri. Dopotutto quest´uomo apparentemente fragile e dimesso è stato quello che ha persuaso milioni di persone, anche fuori dal suo partito, sull´efficacia e la bontà di un certo progetto politico. Non giudico se un tale progetto fosse giusto o sbagliato, non spetta a me dirlo. Quello che posso notare in conclusione è che esteticamente fu il contrario del kitsch: un personaggio tragico».
Enrico Berlinguer è stato davvero l´ultimo Segretario Generale. E non soltanto del più grande partito della sinistra. Parlo anche degli altri grandi partiti italiani. Oggi guidati da leader a volti capaci, a volte no. Ma tutti troppo arrendevoli ai media e sempre alla ricerca della visibilità.
Per apprezzare la siderale alterità di Berlinguer, bisogna raccontare come si arrivava a intervistarlo. Ossia attraverso quale rito religioso occorreva passare, prima di raccogliere il verbo che lui aveva deciso di affidarti.
L´officiante del rito era Antonio Tatò. Il suo assistente? Il suo portavoce? Il suo segretario? Macchè, Tonino era ben di più. L´angelo custode. L´eminenza grigia del berlinguerismo. O suor Pasqualino, come l´aveva battezzato Alberto Ronchey, per paragonarlo alla monaca occhiuta che governava Pio XII. Era bello Tonino. Alto. Prestante. Voce bene impostata. Mix perfetto di alterigia e di cordialità. Splendido profilo tra il centurione e il barbiere di lusso. Chioma nera, imbrillantinata, taglio anni Quaranta, da attore nei film dei telefoni bianchi.
Era lui a stabilire il trattamento da riservare ai giornali. Un´intervista vera, faccia a faccia con il Segretario Generale. Oppure soltanto risposte scritte, da Tonino ovviamente. La volta della Nato e di Dubcek, era il giugno 1976, vigilia elettorale, a me toccò l´intervista vera. Quella precotta se la beccò Gaetano Scardocchia, allora capo dell´ufficio romano della Stampa. Gaetano protestò per un´ora, ma non ci fu nulla da fare. Tonino gli spiegò che non era per disistima verso di lui, ma per il padrone del giornale, Umberto Agnelli, candidato della Dc al Senato. In quel tempo, il Dottore e i suoi uomini non erano amati a Botteghe Oscure. E Fortebraccio, il sarcastico corsivista dell´Unità, li bollava così: «Arriva Umberto Agnelli scortato da Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore».
Berlinguer era l´opposto di suor Pasqualino. Prima di tutto nell´aspetto fisico. Una figura smilza, quasi fragile, da adolescente che non ha mai giocato a pallone ed è invecchiato di colpo, le spallucce un po´ incassate, la schiena già curva. In quel 1976, aveva 54 anni, uno in meno del D´Alema di oggi. Però il viso era più vecchio, il volto di un uomo che non si risparmiava, che aveva consegnato se stesso alla politica e al partito. Un pallore grigio da fatica. Occhiaie. Rughe ben nette. Capelli come aghi di un´istrice. Barba di fine giornata quasi bianca. Il vestito, poi, gli conferiva un´apparenza da funzionario di federazione. Il solito abito carta da zucchero, un po´ informe. La cravatta rossiccia annodata alla meglio. Una camicia bianca qualsiasi.
Eppure guai a lasciarsi ingannare dall´apparenza. L´insieme che ho descritto, invece di trasmettere una sensazione di fiacchezza, ti scagliava addosso una forza insospettabile in quel piccolo uomo. Un´energia contenuta, ma grandissima. Compressa come una molla pronta a scattare. Trave portante di un carattere ferreo, da super testardo, anche capace di molte asprezze. Il carattere di un uomo abituato a nascondere il fuoco interno, la passione politica e la fede in una missione sotto una coltre fredda, dimessa. Quella che faceva sembrare un monarca rosso soltanto un suddito del partito. E un leader comunista indiscusso appena una formica paziente della lotta di classe.
Questo scudo consentiva a Berlinguer di dissimulare un´altra dote che sperimentai subito, a mie spese, nei preliminari di quella e di altre, successive interviste. Il Segretario Generale aveva un tratto da antico aristocratico che, nel ricevere un borghese che non conosce, lo fa parlare. Per capire quali siano le sue intenzioni. O per prepararsi a scansarne le pretese quando gli sembrino eccessive. Me ne resi conto dopo: Berlinguer era il contrario dei politici verbosi che oggi danno aria ai denti da tutte le tivù, indefessi dichiaratori del nulla. Parlando pochissimo, sapeva ottenere lunghe risposte.
Mentre tu cadevi nella rete, lui ti ascoltava senza batter ciglio, senza mai scoprirsi, senza concedere che qualche rara briciola di se stesso. Condita da un sorriso stento, ma sempre con una punta di malizia. Che il Segretario ti regalava tormentandosi l´orecchio destro, un tic che emergeva quando non fumava una delle tante Turmac. O quando non beveva un dito di whisky allungato con molta acqua. Un piccolo vizio da praticare con lentezza, a sorsi misurati con parsimonia, l´aria curiosamente rassegnata di chi prende una medicina.
Intervistarlo, soprattutto in momenti cruciali per il partitone rosso, richiedeva all´interrogante un´intensità pari alla sua. E fargli domande equivaleva a inoltrare quesiti scomodi a un santo assiso sotto il baldacchino. Tu all´esterno di quel riparo invisibile, ma esistente. Lui protetto e attento, chiuso nella lontananza dei propri doveri di leader e, insieme, teso a non sbagliare, per ottenere il meglio da quel lavoro a due.
Mi ha sempre colpito in Berlinguer l´estrema cura che metteva nel rispondere. Aveva già studiato l´elenco delle domande, che suor Pasqualino gli aveva consegnato almeno un´ora prima. E davanti al tuo quaderno ancora bianco, aspettava da te la prima mossa.
Quella d´avvio di una partita a scacchi di cui soltanto lui conosceva l´esito. In tanti anni, non sono mai riuscito a sorprendere Berlinguer con domande-tranello. Se aveva accettato i quesiti che Tatò voleva bocciare, significava che intendeva fare del nostro colloquio un atto politico destinato a restare. Però a deciderne il modo e il livello era affar suo. Dopo l´intervista sulla Nato, Giancarlo Pajetta parlò di una «forzatura giornalistica». Eppure doveva ben sapere che era un´eventualità inesistente con il Segretario Generale. E per il rito consumato nella piccola stanza, al secondo piano delle Botteghe Oscure: una scrivania coperta di carte, uno scaffale di libri, una fotografia di Gramsci alla parete.
Tre ore di colloquio alla presenza di un Tonino teso più del suo capo. E a volte ansioso di suggerirgli le risposte. Quarantadue pagine di appunti. Il giorno successivo, la revisione del testo, sempre per opera del santo sotto il baldacchino. Armato di una biro nera, Berlinguer procedeva pensieroso, la fronte aggrottata, con una lentezza sfiancante. Propria di chi sa di avere, dentro il partito, tanti fucili spianati a suo danno. E ha imparato che ogni parola può nascondere un´insidia, e quindi va soppesata, valutata, in tutti i suoi pro e i suoi contro.
Il Segretario Generale rileggeva ad alta voce le risposte che mi aveva dato. Se la prova non lo convinceva, la biro calava sul foglio per l´inevitabile correzione. «Lei corregge troppo!» protestavo. E lui, con un sorriso magro, replicava: «Non correggo: miglioro». Aveva una grafia minuta, ben disegnata, tutta spigoli, inclinata sulla destra, con certe lettere un po´ uncinate. Adesso che la guardo dopo tanti anni, mi vien da dire: ecco una grafia d´acciaio, infrangibile come la struttura umana di re Enrico.
Sto cadendo nel vezzo di mitizzare Berlinguer? Penso di no. Mi sono ben chiari i suoi errori, gli integralismi, le lentezze nel procedere verso un traguardo che sarà raggiunto, ma non da lui, soltanto nel fatale Ottantanove. Era anche un leader altero. Troppo orgoglioso della propria diversità. Sicuro all´eccesso di essere nel giusto. Moraleggiante. Un po´ cupo. Fustigatore dei peccati del mondo.
Ma come si fa a non rendergli onore? L´onore che spetta a un uomo che ha lottato per la propria causa in modo chiaro e leale. Dentro un´epoca sempre più marchiata dalla disonestà, dal trasformismo e dalla viltà.
Giovanni Berlinguer è il fratello di Enrico. Di due anni più giovane. Lo ha seguito durante tutta la sua vita politica, ed è sempre stato un militante e un dirigente del Pci, anche se a differenza del fratello non ha scelto la militanza a tempo pieno ma ha svolto la sua professione di scienziato, medico, e professore universitario. Nel 2001 Giovanni Berlinguer ha accettato di essere il candidato della corrente di sinistra dei Ds alla segreteria del partito. Ora è presidente di “Aprile”.
Com’era Enrico Berlinguer da ragazzo?
Come può essere un ragazzo di buona famiglia. Studioso quanto basta, molto appassionato di mare, gentile, pochi amici ma di solido legame. Aveva un carattere forte. Forse era segnato dalla morte della madre. Fu un fatto che pesò molto su di noi, anche su di me, che ero più piccolo di due anni.
Quando morì vostra madre?
Morì nel ’36, ma era malata da molto tempo. Morì quando Enrico aveva 14 anni e io 12. Il ricordo che ho io di mia madre è di una donna sempre malata, debole. Una donna molto affettuosa, ma spesso assente. Per noi è stata una esperienza molto dolorosa…
A scuola Enrico era bravo?
Sì era bravo, ma non eccellente. Anch’io ero bravo e neanch’io eccellevo. Fummo rimandati a ottobre un paio di volte. Eravamo molto legati. La differenza d’età era piccola e non creava un distacco, anche perché c’erano amicizie comuni, molti cugini. I cugini erano più piccoli di noi, ma erano associati ai giochi, alle attività collettive, e soprattutto alla vita di mare. D’estate a Stintino eravamo uno stuolo di coetanei. Enrico faceva il capobanda.
A quell’epoca non era timido e un po’ triste come lo abbiamo conosciuto?
No, non era timido, non è mai stato timido e non è mai stato triste. Era riservato ed è sempre stato riservato. La leggenda sulla sua tristezza era quella che lo faceva maggiormente arrabbiare. Enrico era allegro, gli piaceva vivere, gli piaceva divertirsi.
Voi due eravate molto uniti?
Con la crescita, verso i 15 anni, i nostri interessi iniziarono a divergere, io mi sentivo attratto dalle scienze, lui maturava una passione per la filosofia. Io sognavo di diventare chirurgo, lui non so cosa sognasse: leggeva libri per me difficilissimi. Anche nel tempo libero prendevamo vie diverse. Insieme facevamo la vela e giocavamo al pallone, per il resto ci dividevamo: io mi specializzai nel biliardo, nella carambola. Ero molto forte. A lui piaceva giocare a carte. Andava al bar Rubattu, a via Roma e lì ore a tressette o a mariglia, che è un gioco di carte sassarese, una specie di bridge dei poveri, si fa con quaranta carte. Poi spesso faceva quella che noi chiamavamo la seconda ora. Cioè, quando la notte il bar chiudeva, lui restava lì dentro, con un po’ di amici e giocava a poker…
Allora è vero che giocava a poker, come dice Fassino?
Sì, però non è vero che perdeva. Enrico vinceva quasi sempre a poker. E coi soldi si comprava i libri di filosofia. E la filosofia credo che fu l’anticamera della politica.
Quando iniziò a occuparsi di politica?
Non so dire una data esatta. La politica in casa nostra c’è sempre stata. Mio padre era nettamente schierato con l’antifascismo, era stato deputato nell’ultima legislatura semilibera, quella dal ‘24 al ’26. Faceva parte del gruppo liberal-costituzionale di Giovanni Amendola. Durante il periodo fascista lui aderì al partito d’azione, subito, appena fu fondato dai Rosselli.
E a casa vostra si parlava molto di politica?
Sì, era un’assemblea permanente. Vivevamo in una villetta, dopo la morte di mia madre, che era divisa in due appartamenti. In uno dei due appartamenti viveva la zia Lidia col marito Andrea, che era un funzionario di banca; poi venne, quando fu pensionato e ritornò a Sassari da Roma, anche il nostro nonno materno, Giovanni Loriga, un medico igienista. Nelle riunioni serali esplodeva lo scontro politico: papà democratico, mio nonno socialista di impronta positivista, come molti scienziati di quella generazione, poi c’era lo zio Andrea, anarchico, e noi due ragazzi che propendevamo per idee più moderne e avanzate. Queste si precisarono poi, quando Enrico entrò in contatto con gruppi di lavoratori che erano stati comunisti.
Quando successe?
Negli anni tra il ’40 e il ’42. Noi eravamo influenzati anche da zio Ettore, che era il più giovane degli otto fratelli di mio padre, faceva il giornalista alla Nuova Sardegna finché i fascisti non la chiusero. Lui aveva una piccola biblioteca di libri proibiti. Naturalmente c’era “Il Manifesto” di Carlo Marx (edizioni Laterza) e poi c’erano gli scritti di un pensatore anarchico della fine dell’Ottocento, Max Nordau. Ricordo che leggemmo un suo libro che ci colpì molto. Si chiamava, “Le menzogne convenzionali della nostra civiltà”. C’era un bel catalogo di menzogne: patria, famiglia, religione…Noi eravamo molto legati allo zio Ettorino perché lui era della generazione di mezzo, faceva un po’ da ponte tra noi e quelli dell’età di mio padre. Anche con lui c’erano continue discussioni: di politica, di filosofia, di letteratura.
Tu una volta mi hai detto che tuo fratello era un kantiano.
Si, in filosofia era un kantiano. Aveva letto la “Critica della ragion pura”, la “Critica della ragion pratica” e la “Critica del giudizio”. Non conosceva ancora gli scritti politici di Kant, perché allora in Italia circolavano poco. Aveva una immensa ammirazione per la costruzione intellettuale di Kant e soprattutto per la dimensione morale della sua opera. Però leggeva anche molti altri autori. Soprattutto leggeva Hegel, Schopenhauer, e amava molto la “Storia del liberalismo europeo” di Guido De Ruggiero.
Quando succede che tutto questo si tramuta in politica-politica?
La politica - ti dicevo - c’era sempre stata. Negli anni 40 esplode. Un po’ per la nostra passione e la nostra curiosità di capire quello che succedeva. Un po’ anche per l’influenza di nostro padre.
Voi eravate interessati all’aspetto pubblico della vita di vostro padre?
Sì, soprattutto ai suoi racconti sul fascismo e sull’antifascismo, e alle implicazioni politiche di quel che faceva come avvocato penalista. Mi ricordo in particolare un episodio che fu anche drammatico. Nel ‘37 ci fu a Sassari un duplice omicidio. Alcuni uomini della milizia, dopo una lite, uccisero due venditori ambulanti di torrone. Mio padre, insieme all’avvocato Andrea Cugiolu, fece la parte civile per incarico dei parenti delle vittime. Il clima in città divenne accesissimo. I fascisti erano scatenati. Minacce, scritte sui muri, telefonate anonime, cortei. Mi ricordo gli slogan scritti con la vernice vicino casa, e i manifesti affissi per la città: “Chi tocca la milizia avrà del piombo”. Una vera campagna intimidatoria. L’aula della Corte d’Assise era stracolma il giorno che iniziò il processo. Sia perché il fatto aveva creato molto scalpore, sia perché nel processo erano impegnati due avvocati “di grido”, i più noti di Sassari. A difendere gli imputati della milizia fu chiamato l’avvocato Siniscalchi, che veniva da Napoli, e a Napoli era il capo del fascio, cioè il federale. Iniziò subito la polemica tra difesa e parte civile. A un certo punto Siniscalchi gridò contro mio padre: “voi state facendo speculazione politica sopra due cadaveri!”. Mio padre si alzò dal suo banco, attraversò l’aula, si avvicinò al banco di Siniscalchi, in silenzio, e gli assestò due schiaffoni in faccia. Successe il finimondo. Mio padre era così. Cugiolu si arrabbiò e gli disse: “Mario, il processo è finito qui…”.In effetti il processo fu sospeso e rinviato a Viterbo. “Legittima suspicione”. Poi a Viterbo i fascisti furono assolti. Ma l’episodio dello schiaffo ebbe un seguito. Si scoprì che ambedue gli avvocati, Siniscalchi e mio padre, erano ufficiali in congedo, e si vide anche che il codice d’onore degli ufficiali in congedo, in questi casi, imponeva il duello. Era una situazione strana. La legge, formalmente, proibiva il duello. Ma il codice d’onore lo esigeva. Si decise di farlo. Si stabilì la data. Si stabilì l’arma: spada. A noi, nostro padre non disse niente. Però ci comunicò che lui, per distrarsi, riprendeva le lezioni di scherma. Si allenava tutti i giorni. A noi sembrava strano, lui aveva quasi cinquant’anni. Il duello si fece. In campagna, vicino a Sassari, all’alba. Fu un duello in piena regola: coi padrini, i medici, il pubblico e tutto. E un cordone di carabinieri per evitare invasioni e garantire la regolarità. Mio padre da giovane aveva fatto molta scherma. Ai primi assalti ferì subito Siniscalchi al braccio destro, i medici si affrettarono a dire che Siniscalchi non poteva continuare. Duello vinto. Mio padre tornò a casa alle sette, ci svegliò per mandarci a scuola e ci raccontò tutto, ed era eccitatissimo e molto felice.
Questa strana vicenda ha anche una coda recente. Qualche anno fa ho sentito che si presentava alle elezioni per il Senato un avvocato di Napoli di nome Siniscalchi, nelle liste dell’Ulivo. Per curiosità ho chiesto chi era. Mi hanno detto che era di una nota famiglia di avvocati napoletani e che suo padre era stato anche il capo del fascio. Vedi come cambiano le cose? Del resto devo dire che poi, negli anni successivi al duello, mio padre ci parlò sempre bene di Siniscalchi, che incontrò più volte in Cassazione. Disse che era una brava persona. In effetti era un uomo potente e se voleva vendicarsi di mio padre poteva farlo. Invece non fece niente …
Quando è che voi diventaste comunisti?
Prima della liberazione, nel ’43, si era costituito a Sassari un gruppo di comunisti, in gran parte anziani. E appena possibile fu costituita la sezione del Pcdi . Non era arrivata in Sardegna la notizia che il nome era cambiato e che si chiamava Pci. Enrico diventò segretario dei giovani comunisti di Sassari. Ci furono subito molti iscritti. Proletari, sottoproletari, studenti. Io diventai comunista più tardi, nella primavera del ’44, quando Enrico uscì di prigione dove lo avevano rinchiuso per la rivolta del pane. Enrico aveva molto ascendente sui ragazzi, faceva delle lezioni, spiegava Marx, le teorie comuniste e tutto il resto. In Sardegna la fine del fascismo fu salutata con grandi manifestazioni. Nel settembre del ’43, dopo l’armistizio, ci fu anche il tentativo degli antifascisti di spingere l’esercito italiano a disarmare la divisione tedesca che era di stanza nell’isola. Sarebbe stato possibile, perché i soldati tedeschi erano sparsi nel territorio, quindi vulnerabili. Però il comandante delle forze armate italiane respinse questa idea. Permise che i tedeschi si raggruppassero e sloggiassero rapidamente dalla Sardegna che loro consideravano indifendibile. I tedeschi salirono al nord, passarono in Corsica e poi sbarcarono in Francia. La Sardegna fu libera già dal settembre del ’43. Non ha conosciuto la guerra guerreggiata. E’ stata, forse insieme alla Puglia, l’unica Regione italiana che non l’ha conosciuta. Ha vissuto solo i bombardamenti devastanti prima del settembre ‘43, soprattutto a Cagliari, dove c’era un porto importante che fu sottoposto a moltissimi attacchi dagli aerei alleati. E il porto di Cagliari è proprio dentro la città. A Sassari, invece, ci furono solo un paio di bombardamenti senza vittime.
Cosa successe dopo l’8 settembre?
La situazione politica restò per molti mesi immobile. Ci fu continuità con il fascismo. Non c’erano più il partito fascista e le milizia, ma le prefetture, le questure, tutti i gangli dell’amministrazione erano nelle mani degli stessi di prima . Nessun cambiamento. E la situazione economica peggiorava. Durante la guerra c’erano state sofferenze, ma la Sardegna aveva un certo grado di autosufficienza alimentare. Pastorizia e agricoltura. Dopo l’otto settembre le cose peggiorarono, c’era la crisi vera. Arrivò la fame. C’era anche il divieto di costituire partiti politici, tanto che nostro padre fu arrestato per avere contravvenuto a questo divieto, organizzando il partito d’azione. Fu una vicenda curiosa l’arresto di mio padre. Lui era un personaggio, in città. Conosceva tutti, specialmente a Palazzo di giustizia. Così, quando fu spiccato il mandato di cattura, qualcuno lo avvertì e lui cercò di non essere arrestato. Legò insieme qualche lenzuolo per calarsi dal balcone sul retro, e poi mise un catenaccio al cancello di casa, in modo di avere il tempo per fuggire. Quando arrivarono i carabinieri lui se ne accorse, andò nel balcone sul retro, prese in mano il lenzuolo e si calò in giardino. Però nostro padre era coraggioso quanto distratto. Così nella fretta si era dimenticato di legare il lenzuolo all’inferriata, e quando scavalcò il parapetto aggrappato al lenzuolo volò a terra col lenzuolo in mano e fu una scena drammaticissima e anche un po’ comica. Io ero in casa e mi spaventai molto. Corsi all’ospedale a chiamare soccorsi. Lui finì piantonato in corsia.
E l’arresto di Enrico quando avvenne?
Più tardi. Mio padre era stato già liberato. A Sassari, all’inizio del ’44, ci fu una rivolta spontanea degli affamati. Saccheggiarono i forni, ci furono grandi manifestazioni in piazza d’Italia, e fu invasa anche la prefettura. Scattò subito la repressione e colpì selettivamente quelli che erano accusati di essere i fomentatori, cioè i giovani comunisti. Molti giovani comunisti stavano effettivamente tra la gente. Ma non erano stati loro a organizzare la rivolta, non potevano essere stati i promotori di un movimento così grande. Era un movimento grande e anche disperato, perché era mosso dalla fame, dalla fame vera. Enrico fu arrestato insieme a una trentina di ragazzi comunisti. Fu accusato di devastazione, saccheggio, insurrezione armata. Imputazioni gravissime. Comportavano la pena di morte. Per diversi mesi furono tenuti segregati al carcere di San Sebastiano, che si trovava proprio di fronte allo studio legale di Mario e Aldo Berlinguer. Erano isolati, senza la possibilità di comunicare tra loro, né con le famiglie, né con gli avvocati. I giudici e la polizia lavorarono per costruire prove false che servissero a dimostrare che Enrico era il capo della rivolta. E qualche giovane comunista, forse per paura, forse perché ebbe delle promesse, finì per convalidare queste accuse.
Voi eravate preoccupati. Poteva finire male…
Si noi eravamo molto preoccupati. Però sapevamo che il castello di accuse non avrebbe retto al processo. E contavamo sul mutamento del clima politico e morale che stava maturando nella parte continentale dell’Italia già liberata. Eravamo convinti che la liberazione avrebbe avuto conseguenze positive anche sul processo. Quando mio padre fu incluso nella delegazione dell’antifascismo sardo, per il primo congresso nazionale degli antifascisti, che si tenne a Bari, lui non voleva andare, per restare a Sassari e occuparsi di Enrico. Ma Enrico riuscì a fare uscire dal carcere una lettera nella quale insisteva, diceva al padre che doveva assolutamente andare a Bari. La prigionia di Enrico fu molto serena, per stato d’animo, per comportamento. In teoria loro erano isolatissimi, ma siccome mio padre era di casa a San Sebastiano, e conosceva tutti i secondini, nel giro di pochi giorni si organizzò una rete di contatti clandestini, attraverso i messaggi scritti che i secondini facevano filtrare. Servirono molto a organizzare la difesa contro accuse manipolate e perfino stravaganti. L’episodio più incredibile è stato il ripescaggio, da parte dell’accusa, del verbale redatto contro Berlinguer Enrico dalla milizia fascista, che aveva fermato e perquisito lui e altri tre “complici”, trovati nelle vicinanze di un manifesto sovversivo intitolato “Sorgere e Risorgere”, e firmato dalla nota formazione clandestina Giustizia e Libertà. La cosa più strana è che il verbale era stato compilato dall’Ufficio politico investigativo della 177esima Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “l’anno millenovecentotrenta, addì 28 del mese di ottobre”, cioè quando Enrico aveva otto anni..
Il processo a Enrico credo che è stato quello più impegnativo della lunga vita professionale di mio padre. Anche se non si concluse mai. Il clima politico cambiò ed Enrico fu prosciolto in istruttoria e scarcerato. Quattro mesi di carcere. Uscì dimagrito, impallidito, ma probabilmente rafforzato. Credo che fu in quei mesi che decise di dedicare la sua vita alla politica. Aveva 21 anni, aveva quasi finito gli esami all’università, stava scrivendo la tesi di filosofia del diritto. La politica lo travolse, non si laureò mai.
Ci sono delle lettere di Berlinguer dalla prigione?
Si, ci sono le lettere che ci mandava attraverso i secondini amici. Sono scritte a matita, perché non aveva penne, e sono scritte su pezzetti di carta di ogni tipo, da pacchi, o sui margini bianchi della carta di giornale. In quelle lettere dimostra una forza di carattere eccezionale. Rifiutava qualunque agevolazione che non fosse per tutti. Tendeva continuamente a tranquillizzare noi sul suo stato d’animo, raccontava le letture, commentava i libri. Un giorno scrisse che aveva imparato a memoria l’Amleto in inglese, e che l’Amleto esprimeva in modo perfetto i dilemmi di ogni essere umano. Sono molto interessanti queste lettere. Erano poi straordinarie, sul piano affettivo, le lettere di nostro padre a lui. Gli scriveva quasi ogni giorno. Lettere lunghe. Nella prima parte metteva il racconto degli atti istruttori, notizie sullo svolgimento delle indagini, consigli legali eccetera; poi nella seconda parte parlava della guerra e della politica italiana, oppure faceva il resoconto del congresso di Bari, del suo ritrovare amici e compagni di lotta dei quali si erano perdute le tracce. In tutte queste lettere c’era un gigantesco amore paterno….
Cosa fa Enrico quando esce dalla prigione?
Compie un viaggio con mio padre a Salerno dove c’è la sede del governo, e lì conosce Togliatti: glielo fa conoscere mio padre. Poi, subito dopo la liberazione dell’Italia va a Roma. Per la verità andiamo a Roma insieme. Prendiamo casa con nostro padre in un appartamentino a via Boccanegra, dietro piazza Bologna. Tra noi in quel periodo c’è un rapporto molto intenso di comunicazione e di scambio, non di frequenza perché ci vediamo poco. Lui viaggia, io studio medicina. Enrico è diventato un dirigente del movimento giovanile comunista, diretto da Giulio Spallone e poi da Giuliano Paletta. C’è anche Carlo Lizzani. Sta poco a Roma. Il partito lo spedisce a Milano a fare esperienza. A Milano c’è il “Fronte della Gioventù”, quello fondato da Eugenio Curiel, che è stato ucciso nel 1945 dai nazisti. Il “Fronte” è una organizzazione unitaria, non solo di comunisti. Poco dopo si costituisce la federazione giovanile comunista, e lui diventa il segretario nazionale.
Com’era il tuo rapporto politico con lui?
Sono stato un seguace di Berlinguer. Un adepto. Ma nel corso degli anni ho avuto anche varie discussioni, vari dissensi. Non frequenti ma li ho avuti. Per esempio negli anni quaranta, quando la prospettiva dell’Italia era di andare verso la normalizzazione, non ero d’accordo, ero irrequieto, io non credevo molto alla possibilità di una azione sul terreno democratico. Enrico si mostrò molto più ragionevole di me, e naturalmente aveva ragione.
Tu eri un po’ “secchiano”, forse, nel senso di simpatizzante per Pietro Secchia?
No, questo no. Non ho mai avuto simpatia per Pietro Secchia.
Sulla linea politica del “compromesso storico”, negli anni ’70, eri d’accordo?
Pensavo che fosse una giusta strategia ma fui turbato di fronte al suo divenire semplice accordo di governo. Un accordo che poi significò subalternità. Su questo discutemmo molto con lui. Enrico diceva che era un passaggio obbligato. E d’altra parte la validità della strategia ebbe una straordinaria conferma nelle elezioni del ’75 e del ’76. Il Pci guadagnò moltissimi voti.
Perché fu abbandonato il compromesso storico?
Per molte ragioni. La più importante credo sia che l’interpretazione prevalente che si ebbe di quella idea politica fu in termini di negoziati di vertice e di cedimenti. E poi perché a un certo punto ci furono dei cambiamenti sostanziali nel quadro politico: mutarono le coordinate in cui si era mossa quella strategia. I cambiamenti principali furono due. Uno fu che sul piano internazionale vinsero la Thatcher nel 1979 e Reagan nel 1980. Cioè prevalse alla guida dell’occidente una linea di capitalismo aggressivo, rivoluzionario, espansivo. Che dette avvio alla globalizzazione neoliberista nella quale oggi viviamo e della quale vediamo chiari i guasti e le ingiustizie che ha creato. E l’altro mutamento fu interno. Cambiò il nostro panorama politico: con la morte di Moro prevalse nella DC una linea che era assolutamente contraria al compromesso storico e aveva in testa un futuro molto diverso per l’Italia. Il compromesso storico si basava molto su quelle due personalità straordinarie: quella di Berlinguer e quella di Moro. La morte di Moro fu un colpo micidiale per l’Italia. E poi ci fu un altro fattore ancora: ci fu un ricambio nei gruppi dirigenti dell’economia italiana. Vinsero le correnti più conservatrici, e queste correnti decisero un contrattacco: vollero porre un freno alle riforme, riassorbirle e iniziare una vera e propria inversione di marcia sul piano politico e sul piano sociale…
Gli anni settanta, che sono quelli durante i quali si realizza la strategia del compromesso storico, sono ricchi di riforme. Riforma sanitaria, equo canone, aborto e moltissime altre. Riforme che modificarono la struttura economica e lo spirito pubblico dell’Italia.
Si, il contrattacco fu proprio contro queste riforme. Una parte dei gruppi dirigenti politici ed economici decisero che bisognava invertire rotta. Sbarrarono il compromesso storico.
A quel punto nella politica di Berlinguer c’è una rottura e un ripensamento. Nasce così la linea dell’alternativa democratica, e poi la teoria della diversità e l’apertura della questione morale?
Lui sente che c’è un tarlo nel sistema politico. E che i partiti di governo non sono più animati da alcuno slancio ideale. Stanno perdendo il rapporto tra la politica e le cose che contano, cioè l’ interesse dei cittadini, le aspirazioni della gente, le esigenze di solidarietà. E soprattutto sente che l’accordo tra Dc e socialisti è un accordo di basso profilo. Non ha le basi politiche e ideali che aveva avuto la nascita del primo centrosinistra. E’ una alleanza insufficiente a garantire la guida democratica del paese. Allora Enrico cerca strade nuove. Secondo me quegli anni, e cioè i primi anni ’80, non sono gli anni dell’isolamento - della ricerca dell’isolamento e dell’identità, uno contro tutti - come qualcuno ha scritto. Sono gli anni in cui lui si rende conto, non sempre in modo del tutto nitido ed evidente, che il mondo è entrato in una fase nuova. E oltre a proporre una politica di alternativa democratica, ai partiti e all’opinione pubblica, tenta di definire e ridefinire i metodi della politica, gli scopi, la fisionomia. E così propone da un lato la questione morale, dall’altra la linea dell’alternativa. La questione morale non è certo una questione giudiziaria. Enrico non si pone l’obiettivo di mandare qualcuno in prigione, ha un obiettivo molto più ambizioso: quello di rinnovare i partiti, il costume, i rapporti coi cittadini. In sostanza si pone il problema della riforma della democrazia e del potere. E’ questa la questione morale. E l’alternativa è un insieme di progetti e di temi che allora furono scarsamente capiti dal suo stesso partito, e soprattutto dal gruppo dirigente del suo partito, ma che erano incredibilmente moderni, erano proiettati nel futuro. Oggi sono di straordinaria attualità, costituiscono l’agenda politica reale. Sono il tema dello scontro che è aperto tra le diverse concezioni politiche del mondo e del suo futuro.
Quali erano questi temi?
Il tema dell’austerità, per esempio. Che è un tema gigantesco, per niente conservatore , anzi tutto costruito su un’idea nuova di “domani”. Sollevava le seguenti esigenze: revisione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo; valorizzazione di nuove risorse, lotta contro gli sprechi dell’occidente, redistribuzione della ricchezza, salvaguardia dell’ambiente. Non sono le questioni che oggi abbiamo davanti e che ancora non ci decidiamo a prendere di petto? Mi ricordo di quando preparava la relazione al XVI congresso. Un giorno mi disse: “Al prossimo congresso lancerò un altra idea. Quella del governo mondiale”. Eravamo nei primi anni ottanta, nel reaganismo e nel breznevismo, Gorbaciov non era ancora alle viste, il muro sembrava eterno, la corsa agli armamenti galoppava. E lui lanciava l’idea di un governo mondiale? Rimasi molto sorpreso. Pensai che non lo avrebbe fatto. Invece lo fece, e spiegò cosa intendeva per governo mondiale e perché era necessario ed era l’unica via d’uscita. Mi convinse. Capii che era effettivamente la direzione giusta. Non so quanto realistica, ma giusta. E lui mi suggerì di rileggere gli scritti politici di Kant, dove questa idea era specificata. Era delineato un nuovo rapporto tra popoli e governi non come soluzione parziale per impedire questa o quella guerra, bensì come modo per stabilire relazioni diverse tra popoli e potere e per assicurare la convivenza nel mondo.
Per Berlinguer il pacifismo fu importante?
Si il pacifismo fu importante. Il pacifismo negli anni ottanta entra in una fase nuova. Non assomiglia al pacifismo dei decenni precedenti. Diventa indipendente, autonomo. Nel dopoguerra i movimenti pacifisti erano sempre stati molto influenzati dalla divisione del mondo in blocchi. In quei movimenti c’era una specie di adesione a uno dei due blocchi. Negli anni ottanta cambia tutto. E Enrico cambia la politica del Pci. Vedi, io credo che ci siano due momenti importantissimi di svolta nella sua politica. Uno è la famosa intervista a Giampaolo Pansa nella quale Enrico riconosce la Nato e dice di sentirsi più tranquillo con l’Italia sotto il suo ombrello. E’ un vero e proprio rovesciamento della politica estera. Il secondo momento è la lotta contro gli euromissili, nei primi anni ottanta. Non solo contro i missili americani ma anche contro i missili sovietici. Enrico fu tra i pochi uomini politici italiani che iniziò a prendere in considerazione un mondo non più diviso in blocchi, e iniziò a pensare la politica fuori dei blocchi.
Tu dici che la sua non era una posizione difensiva e di conservazione e rilancio dell’identità. Dici che era una posizione che guardava più al futuro che al presente. E’ così?
Si, è così. C’è in quegli anni un’altra intervista importante. Una lunga intervista all’Unità, a Ferdinando Adornato, che allora era un giornalista dell’Unità, e l’intervista fu pubblicata in un numero speciale che prendeva spunto dall’anno 1984 (visto che 1984 è il titolo di un famoso libro di Charles Orwell sul futuro). In quell’intervista Enrico mostrava di avere capito molto di quello che stava per succedere, e della rivoluzione tecnologica che era alle porte. Lanciò una proposta, quella di un grande convegno internazionale sulla futurologia, che suscitò scarsissimo interesse nel partito e nell’intellettualità. Egli era molto interessato a un tema che era stato tra noi, fin da ragazzi, oggetto di discussioni infinite: la priorità della filosofia o della scienza e i loro rapporti nella dinamica della storia e del pensiero umano. Era interessato all’innovazione, al ruolo delle nuove scoperte scientifiche e soprattutto al peso che tutto questo avrebbe avuto sulla politica e sui rapporti tra la politica e il genere umano.
Si rendeva conto che questi rapporti non potevano essere garantiti solo dalle vecchie strutture dei partiti. Non stava forse pensando anche al superamento di quella forma di partito?
Sì , credo che stesse pensando a questo. Ma il suo pensiero non era ancora abbastanza delineato. C’è una conversazione di cui ha dato conto Francesco De Martino. Egli suggerì a Enrico di cambiare il nome del Pci. Sembra che Enrico abbia risposto che un passo del genere non sarebbe stato capito dal suo stesso partito. Ma di questo non posso dare alcuna testimonianza perché con me non ne parlò mai.
La politica dell’ultimo Berlinguer (il Berlinguer dell’alternativa democratica della questione morale, del rinnovamento dei partiti e della politica per costruire la prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sull’austerità e sulla collaborazione fra i popoli del Nord e del Sud del mondo) non nasce dalla presa di coscienza dell’esito deludente – ed anzi decisamente fallimentare dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro – della politica prima del compromesso e poi della solidarietà nazionale praticata durante gli anni settanta. Certo, anche quella presa di coscienza esercitò il suo peso: pesò in particolare l’avvertimento che , mentre la ricerca di un’intesa con le forze migliori del mondo cattolico aveva portato il PCI ai successi elettorali del ’75 e del ’76, la successiva politica di astensione verso il governo monocolore presieduto da Andreotti aveva deluso profondamente la domanda di riforme e di cambiamenti che si esprimeva in quei successi.
Il passaggio alla politica dell’alternativa, dopo il ritorno all’opposizione nel gennaio 1979, non derivò però soltanto dalla delusione per l’esperienza della solidarietà nazionale e dal desiderio di consolidare un radicamento sociale in qualche misura incrinato. Ciò che spinse Enrico Berlinguer fu un’acuta sensibilità – che in lui fu chiara prima che in tanti altri dirigenti del suo stesso partito – per la grave svolta regressiva che sul finire degli anni settanta cominciava a realizzarsi, così sul piano strutturale e istituzionale come negli orientamenti culturali e di fondo, tanto in Italia come negli altri paesi dell’Occidente. A distanza di più di vent’anni appare oggi più chiaro che è quello il momento in cui l’economia capitalistica, dopo la crisi e l’incertezza degli anni settanta, dà avvio a un processo di ristrutturazione e di rilancio che si fonda sulle possibilità aperte dalla rivoluzione informatica e dalla crescente mondializzazione dei processi produttivi e che si avvale di queste possibilità per mettere in discussione i diritti conquistati dai lavoratori con lo stato sociale e per tornare ad affermare un uso flessibile del lavoro come strumento di produzione. A questa svolta in campo economico si accompagna una linea politico-istituzionale che punta sulla restrizione e non più sull’allargamento della partecipazione e della democrazia, sull’affermazione di forme di governo di tipo decisionistico, sulla riduzione della spesa sociale e sulla compressione dei livelli salariali (l’attacco di Craxi alla scala mobile), sull’intreccio sempre più palese fra interessi economici anche personali e uso spregiudicato dei poteri di governo.
Berlinguer comprese con chiarezza che l’indirizzo così prescelto non rispondeva a una generica istanza di “modernizzazione” (come molti dissero anche a sinistra, allora e soprattutto dopo): ma comportava pericoli gravi per una democrazia concepita come effettiva partecipazione dei cittadini alle decisioni, apriva la strada a un sistema di malgoverno fondato sul dilagare della corruzione e del clientelismo, portava a un inasprimento delle ingiustizie e delle disuguaglianze così all’interno di un singolo paese quale l’Italia come fra il Nord e il Sud del mondo. In questo Berlinguer aveva pienamente ragione: di qui la sua battaglia per un’alternativa fondata su un rinnovamento della politica inteso come apertura alla società e soprattutto alle istanze dei nuovi movimenti; sulla centralità assegnata alla questione sociale come preminenza nel governo della cosa pubblica dell’interesse generale sugli interessi di parte; sulla difesa dello stato sociale, sulla lotta per la pace e contro la corsa agli armamenti, sulla ricerca di un’intesa con la parte migliore della sinistra europea (Brandt, Palme) per costruire un rapporto di cooperazione fra Europa e Sud del mondo. Di qui la sua prospettiva di un diverso sviluppo imperniato sul principio dell’austerità, da lui già affermato nel 1977, nel pieno della crisi economica degli anni settanta: cioè uno sviluppo basato su un uso sobrio e razionale delle risorse e sulla lotta alle mille forme di dissipazione e di spreco, al fine di difendere la spesa sociale e i diritti salariali, di rispettare la natura e l’ambiente, di stabilire equi supporti così fra tutti i popoli come fra le donne e gli uomini di tutto il mondo.
La lotta condotta su queste basi (ricordo in particolare le grandi campagne sulla scala mobile, sulla questione morale, per l’occupazione, contro gli euromissili) segnarono un forte rilancio dell’iniziativa del PCI tanto da consentire, alle elezioni europee che si tennero subito dopo la morte di Berlinguer, la sua affermazione come primo partito superando anche la Democrazia cristiana. Ma l’improvvisa morte di Berlinguer troncò questo rilancio prima che fosse completata l’elaborazione di una piattaforma culturale e politica autonoma e compiuta. Il gruppo dirigente successivo, nonostante la buona volontà di Alessandro Natta e di molti dei suoi collaboratori, non fu all’altezza dei nuovi problemi che di conseguenza si posero. Ebbe così inizio un declino che la scelta di Occhetto nel 1989 era destinata a trasformare in una rotta per l’intera sinistra italiana.
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Non è una cosa facile, nel mondo di oggi, ritrovare le coordinate della figura di Enrico Berlinguer, ricostruire quanto avevano contato il suo carisma e la sua politica, quale spessore di amori e di odii aveva suscitato. E poi quale eredità ha lasciato, che cosa nella grande miniera di idee che aveva messo in campo soprattutto nell’ultima parte della sua vita può essere utile oggi.
Enrico Berlinguer è morto l’11 giugno dell’84, quasi vent’anni fa. Non è ancora storia, non è più cronaca. Ma molte delle vicende di cui è stato protagonista sono ancora aperte, molte intuizioni che aveva avuto, se le guardiamo con gli occhi di oggi, dimostrano la sua preveggenza, la sua capacità di cogliere alla radice i problemi drammatici del nostro tempo.
Credo che pochissimi, fra i politici italiani, abbiano avuto come Berlinguer la capacità di intuire in anticipo quel che stava succedendo, le linee direttrici del cambiamento. In un momento come quello attuale, con la pace messa in pericolo dalla volontà di comando dell’unica superpotenza rimasta, fa una certa impressione ripercorrere il Berlinguer dei primi anni ’80, che esprime una visione quasi avveniristica del futuro. Che si rende conto, ben prima della fine dell’impero sovietico, come ormai il cuore del conflitto non è più fra paesi capitalisti e paesi socialisti ma fra il Nord e il Sud del mondo: fra un occidente sempre più ricco ed arroccato a difesa dei suoi privilegi e le masse povere del terzo e del quarto mondo. In sintonia con lo svedese Olof Palme, che dopo non molto morirà in un attentato mai del tutto chiarito, Berlinguer era arrivato a prospettare un governo mondiale dell'’economia, inteso però come strumento di riequilibrio e di redistribuzione delle ricchezze.
Oggi ha poi un significato speciale ricordare che Berlinguer credeva profondamente nell’Europa. La vedeva come il laboratorio di una nuova sinistra possibile, da contrapporre sia al decrepito comunismo reale che a un neoliberismo d’oltreoceano, portatore di ingiustizie profonde. Proprio in quest’ottica credeva fosse importante difendere “l’anomalia europea”, la sua cultura e la forza antagonista dei suoi partiti, dei sindacati e dei movimenti, dai continui tentativi di omologazione che vedeva messi in atto da Ronald Reagan e dalla nuova destra americana. E anche se non poteva certo immaginare la deriva militar- autoritaria di quelle scelte, aveva colto subito le minacce della rivoluzione conservatrice che cominciava allora, con l’esaltazione del capitalismo selvaggio come cura ai mali dell’economia e dell’egoismo individuale come sostituto ad una società solidale.
Quando era segretario del Pci Berlinguer veniva spesso descritto dai giornali come un uomo chiuso, un po’ fuori dal mondo, un“sardo-muto”,l’opposto di un protagonista di quella politica-spettacolo che già allora stava prendendo piede. E invece Berlinguer aveva una capacità di comunicazione fortissima. I commentatori dell’epoca riconoscevano che pochi riuscivano come lui a “rompere” lo schermo della Tv, a parlare alla gente, molto al di là del suo stesso partito, che peraltro era un grande partito del 30 per cento. C’era una passione e una sincerità nel suo modo di esprimersi che l’aveva fatto diventare una specie di contraltare rispetto a tanti altri politici del suo tempo, e in particolare rispetto a Bettino Craxi. Berlinguer aveva capito molto presto che dietro l’etichetta della modernità, del rinnovamento, delle grandi riforme istituzionali, Craxi aveva obiettivi ben più concreti e inquietanti: far saltare il banco della politica italiana, annettersi il Pci e sdoganare il Msi, farla finita con la cultura dell’antifascismo e della Resistenza.
A completare il disegno, c’era la volontà di arrivare a un presidenzialismo di stampo populista, di mettere la mordacchia al “parco buoi”, come Craxi definiva graziosamente il Parlamento, trasformando la democrazia italiana in senso parzialmente autoritario. Contro questi pericoli, che sono poi quelli con cui oggi ci troviamo a fare i conti, Berlinguer si era battuto con tutte le sue forze, fino a quell’ultimo comizio sul palco di Padova, continuato eroicamente quando ormai era stato colpito dal malore, con frasi sempre più smozzicate sugli scandali, sulla loggia P2, sulla nostra democrazia malata.
Una delle prime volte che avevo visto di persona Enrico Berlinguer, (a cui poi avrei dedicato una biografia in due volumi, cominciata quasi subito dopo i suoi spettacolosi e indimenticabili funerali), era stato il 26 settembre 1980, ai cancelli della Fiat. Il colosso torinese, per superare un momento di grave crisi del mercato internazionale, aveva messo in cassa integrazione 28 mila operai. E poi, siccome si erano rotte le trattative con i sindacati, aveva spedito13 mila lettere di licenziamento, espellendo i quadri sindacali e buona parte delle donne, che erano entrate nella fase di espansione. Berlinguer era arrivato a portare la sua solidarietà dopo che la Flm aveva bloccato la Fiat, in un clima di grande scontro. Avevo seguito il suo giro ai vari cancelli, Mirafiori, Rivalta, Lancia di Chivasso, accolto dappertutto da una folla enorme. Anche se non era previsto un suo intervento, Enrico Berlinguer aveva accettato di parlare, su un palco improvvisato e senza microfono, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione.
Proprio in questi giorni - all'inizio del 2003 - in occasione della morte di Agnelli, vari programmi Tv hanno ricostruito quell’episodio, poi passato alla storia come esempio dell’estremismo di Berlinguer, che sarebbe andato ai cancelli per spingere gli operai all’occupazione (“Berlinguer incita alla rivolta”,avevano titolato vari giornali il giorno dopo). Abbiamo visto anche un filmato dove Gianni Agnelli, rispondendo a un giovane Bruno Vespa, sentenziava che “esce rafforzato il parere di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. Nella realtà però, come ricordo molto bene e come ha ricordato in questi giorni Piero Fassino, allora segretario del Pci torinese, le cose erano andate molto diversamente. Rispondendo alla domanda di un sindacalista della Fim che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, Berlinguer aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. “Se si dovrà arrivare a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”, si era limitato a dire. “Ma credi di aver fatto bene?”gli aveva poi chiesto polemicamente Luciano Lama, il segretario della Cgil, con cui c’era una fase di grande dissenso. E Berlinguer aveva risposto:”E’ un momento in cui la cosa più importante è dare la prova ai lavoratori che siamo con loro”. E’ uno dei tanti episodi che mostra fuori da ogni retorica chi era Berlinguer, la sua umanità, la convinzione che, al dilà delle tattiche politiche, è importante stare comunque dalla parte dei più deboli,dei lavoratori. Una lezione insomma più che mai attuale.
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È noto che nella cultura politica del PCI la storia del Partito è stata sempre letta in termini di rinnovamento nella continuità. Si tratta di un’interpretazione sostanzialmente veritiera. Da questo punto di vista, il “compromesso storico” teorizzato da Berlinguer è emblematico: nonostante le “discontinuità” (Vacca) che pure presenta, esso per certi versi è il “catalizzatore” di una tendenza strategica di lunga durata.
Essa prende avvio già da Gramsci, che coglie l’importanza per la “rivoluzione italiana” di un “blocco storico” tra la classe operaia settentrionale di orientamento socialista e masse contadine, perlopiù meridionali e cattoliche. Ma è soprattutto con Togliatti – il Togliatti del “Partito nuovo”, dell’unità nazionale antifascista e della “democrazia progressiva” – che la politica delle alleanze trova la sua massima centralità.
Fin dalla Resistenza, Togliatti individua l’importanza di un’azione unitaria tra le forze socialcomuniste e forze cattoliche, rappresentate dalla DC. All’interno di quest’ultima si individua la compresenza di un’ala conservatrice, legata alla “borghesia possidente” e alla parte più retriva della Chiesa cattolica, e un’ala democratica, più radicata nelle masse popolari. Questa concezione della DC come partito “a due facce” rimarrà una costante nella cultura politica del PCI, che si porrà l’obiettivo di favorirne l’ala progressista, evitando così che la DC scivoli a destra, trascinando con sé l’intero quadro politico. L’alleanza tra le tre grandi forze di ispirazione popolare viene così vista come una “necessità storica e politica” (1946), o addirittura come “un aspetto della via italiana al socialismo” (1960).
In altri momenti, Togliatti si rivolgerà direttamente alle masse cattoliche, con gli appelli per la pace e la salvezza del genere umano, nel tentativo di acuire la contraddizione, ormai sempre più evidente, tra il gruppo dirigente conservatore della DC e masse cattoliche potenzialmente progressive. Morto Togliatti, a seguito del Concilio Vaticano II e dell’emergere di un diffuso “dissenso” cattolico, si valuterà anche la possibilità di rompere l’unità politica dei cattolici, ma al tempo stesso si accentuerà il dialogo con la sinistra democristiana, al fine di costruire quella “unità delle forze di sinistra laiche e cattoliche”, che consenta di andare oltre il centrosinistra.
La strategia di Berlinguer nasce su questo retroterra. Ma nasce anche dalla storia italiana (e mondiale) della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70, allorché, sotto la spinta dei grandi movimenti di massa del 1968-69, matura quella grande avanzata del movimento operaio e democratico, a cui lo Stato italiano e l’alleato americano reagiscono innescando la strategia della tensione. In questo quadro, si collocano le stragi di piazza Fontana, di Gioia Tauro e della questura di Milano, il tentativo golpista di Borghese, l’attivismo del SID nello scongiurare un’evoluzione del quadro politico verso sinistra. Né è senza significato l’intesa tra DC e MSI sull’elezione di Leone a Capo dello Stato (1971). Dall’altra parte, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, la nascita delle Regioni, le grandi lotte operaie. Sul piano internazionale, alla situazione di grave crisi economica si affianca l’ulteriore avanzata dei movimenti di liberazione (Vietnam) e l’emergere di governi progressisti come quello di Allende in Cile.
Quest’ultimo, che si regge su un’unità delle sinistre con appoggio esterno democristiano, è rovesciato nel settembre 1973 dal colpo di Stato di Pinochet, sostenuto dalla CIA e da multinazionali come la ITT. Berlinguer commenta i fatti cileni con tre saggi su “Rinascita”, nei quali afferma che, in Italia come in Cile, non si può governare col 51%, ossia con un fronte di forze esclusivamente di sinistra; solo il consenso “della grande maggioranza della popolazione”, e dunque una “strategia delle alleanze” che sposti settori consistenti di ceto medio, è possibile scongiurare – o almeno rendere più difficile – colpi di mano autoritari e tragedie come quella cilena. Occorre quindi riprendere il processo di rinnovamento e di unità avviatosi con la Resistenza, attraverso un “compromesso storico” tra le maggiori forze popolari e il perseguimento di una “alternativa democratica” alla direzione del Paese.
Si tratta dunque della riproposizione e dell’aggiornamento della tradizionale politica unitaria del PCI, anche se Berlinguer allarga la sua visione delle alleanze fino a comprendervi i nuovi movimenti e le soggettività sociali, politiche e culturali emergenti. Nella sua proposta, dunque, c’è anche qualcosa di nuovo, che allude fin d’ora a quel “rinnovamento della politica” su cui si soffermerà negli anni ’80. Tuttavia, la DC di Fanfani è un interlocutore ben poco adatto: sulla questione del divorzio, il Segretario democristiano spinge per il referendum abrogativo, alleandosi ancora col MSI e puntando a ricostituire un fronte anticomunista. Ciò che avviene, al contrario, è l’aggregarsi di un ampio comitato di “Cattolici per il NO”, e la vittoria del NO con circa il 60% dei voti.
Due settimane dopo, la strage di piazza della Loggia: un altro segnale inequivocabile delle forze reazionarie. Berlinguer torna a chiedere un mutamento di linea e gruppo dirigente della DC, rilanciando la prospettiva di un governo “di svolta democratica”. La strategia della tensione, intanto, è in pieno sviluppo: in agosto c’è la strage dell’Italicus.
Al XIV congresso (1975), Berlinguer precisa che il compromesso storico è una strategia di ampio respiro, non riducibile alla richiesta di partecipazione comunista al governo; è “un più avanzato terreno di lotta” e “una sfida” alle altre forze democratiche. In sostanza, è una proposta volta a superare la conventio ad excludendum ai danni del PCI. Se la DC si rivela del tutto ostile alla proposta berlingueriana, non di meno lo sono le BR, che nella loro prima risoluzione strategica condannano il compromesso storico senza mezzi termini. Ma soprattutto sono ostili gli Stati Uniti, che con Kissinger ribadiscono il loro veto ad un’eventuale ingresso al governo del PCI, ormai plausibile dopo la grande avanzata elettorale delle Amministrative del ’75.
Nella DC, intanto, il gruppo dirigente è cambiato, e nuovo Segretario è Zaccagnini, più aperto ad un dialogo coi comunisti. Alla vigilia delle elezioni del 1976, Berlinguer rilancia la proposta di “un governo di unità democratica”, una sorta di Große Koalition che comprenda “tutti i partiti democratici e popolari compreso il PCI”, invitando l’elettorato ad indebolire la DC. Quest’ultima, dal canto suo, rispolvera il vecchio anticomunismo, chiamando a raccolta grande capitale e Chiesa. A pochi giorni dal voto, Berlinguer afferma che in Italia si deve costruire “il socialismo nella libertà”, ciò per cui si sente “più sicuro nel blocco occidentale e dunque nell’ambito della NATO” – un’affermazione piuttosto discutibile, che Berlinguer tempera aggiungendo che “di qua, all’Ovest, alcuni non vorrebbero nemmeno lasciarci cominciare a farlo [il socialismo], anche nella libertà”.
Le elezioni però si concludono con “due vincitori”: il PCI, che giunge al 34.4%, e la DC, col 38.7%. Per la prima volta un comunista – Ingrao – è eletto presidente della Camera, e al PCI vanno anche le presidenze di varie commissioni parlamentari. Il governo, invece, è un monocolore democristiano guidato da Andreotti, che si regge sulle astensioni di PSI, PSDI, PRI, e su quella – determinante – del PCI: è il governo “della non sfiducia”. Cominci quindi l’esperienza della “solidarietà nazionale”. La DC, in questo modo, cerca di “guadagnar tempo concedendo il meno possibile” (Valentini). Per i comunisti, “è un accordo provvisorio suggerito dalla gravità della situazione” (Fiori).
L’Italia infatti è in balia della crisi economica, a cui il governo cerca di riparare con una serie di pesanti misure antinflazionistiche, che anche il PCI sostiene. Per Berlinguer, tuttavia, la soluzione sta in una politica di austerità, che sia al tempo stesso portatrice di “un nuovo tipo di sviluppo economico e sociale” e di un mutamento della direzione politica del Paese. Occorre – dice – “un nuovo meccanismo di sviluppo”, basato su lotta gli sprechi, programmazione economica, nuove politiche per scuola, trasporti e sanità, affinché migliori la qualità della vita e si inseriscano nella società “elementi di socialismo”. Al tema dell’austerità, il PCI dedica anche un importante convegno, concluso da Berlinguer, che ricollega la sua proposta di politica economica ad un quadro di rapporti internazionali che non possono più basarsi su quello sfruttamento delle risorse del Terzo mondo che consente l’iper-consumo dei paesi a capitalismo avanzato. Tuttavia, il sostegno del PCI alle misure antinflazionistiche comincia a ingenerare nei settori popolari notevoli perplessità, su cui fanno leva il PSI di Craxi, la UIL, la CISL, cavalcando strumentalmente anche le critiche dei gruppi extraparlamentari.
La rottura tra questi ultimi – e il movimento del ’77 – e la “sinistra storica” è sancita drammaticamente dagli scontri che avvengono tra studenti e servizio d’ordine della CGIL, allorché Lama tenta di tenere un comizio all’interno dell’Università di Roma occupata. Il PCI, dunque, è in difficoltà, in qualche modo “accerchiato”, senza una precisa collocazione, non più all’opposizione ma neanche al governo. Tuttavia – dirà Chiaromonte – la strada era quasi obbligata, cosicché si decide di andare avanti, verificando fino in fondo le possibilità esistenti. Si chiede agli altri partiti un “accordo programmatico”, ma si ottiene solo una mozione comune. Le resistenze istituzionali e politiche al cambiamento costituiscono dunque una sorta di “muro di gomma”.
A questo punto, mentre la situazione sociale si aggrava sempre di più e monta la protesta operaia, il PCI prende le distanze dal governo, che – perso anche l’appoggio del PRI – si dimette. Seguono due mesi – i primi del “terribile 1978” – di convulse trattative, incontri, contatti. Per due volte Berlinguer e Moro si incontrano segretamente. Il Segretario del PCI chiede a Moro di fare opera di mediazione come fece per il centrosinistra, per passare “dalla democrazia difficile alla democrazia compiuta”; il leader democristiano, infine, accetta di sostenere l’ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Si va quindi all’incontro ufficiale tra i due partiti, ma alla fine la nuova lista dei ministri proposta da Andreotti è molto simile alla precedente, e non si accolgono le novità chieste dai comunisti. Il gruppo dirigente del PCI è incerto sul da farsi, ma il giorno stesso in cui il nuovo governo deve presentarsi alle Camere, Moro viene rapito dalle BR.
Il rapimento e la morte di Moro sono la “pietra tombale” del compromesso storico (Barbagallo). Esso, pur rappresentando “una strategia di transizione” (Vacca), finisce col trovare la sua unica espressione concreta in un’esperienza molto parziale, profondamente segnata dalla drammaticità della situazione. Nei mesi successivi, nonostante l’approvazione di alcune importanti riforme (legge 180, aborto, equo canone, servizio sanitario nazionale), il PCI si rende conto – come dice Amendola – di fare “la guardia a un bidone vuoto”, cosicché all’inizio del ’79 decide “il disimpegno” dalla maggioranza. È la fine della politica di solidarietà nazionale, ma anche un colpo mortale per la strategia del compromesso storico nel suo complesso, nonostante le trattative continuino ancora per tutto l’anno. Nel 1980, infatti, Berlinguer lancia la parola d’ordine dell’alternativa democratica, aprendo una nuova fase in cui i problemi della riforma della politica e della qualità dello sviluppo saranno al centro della sua riflessione.
Sul significato del compromesso storico – e in particolare della “solidarietà nazionale” – ha scritto G. Chiaromonte: “Cercammo di portare al più alto livello di coerenza e concretizzazione la grande svolta avviata, nel 1944, da Togliatti, nel senso di uno sviluppo del PCI da partito di denuncia, di propaganda, di testimonianza, a partito che fa politica, che lotta per avviare a soluzione i problemi delle masse e del paese, a partito di governo. Non potevamo tirarci indietro”. D’altra parte, quella della “solidarietà nazionale” fu “un’esperienza drammatica e alla fine perdente”.
Essa scontò una serie di limiti non secondari: in primo luogo il gruppo dirigente comunista peccò di verticismo e politicismo, nel senso che ridusse quella che era una strategia di portata “storica” – e che richiedeva un forte e costante protagonismo di massa – a una serie di incontri, contatti, trattative, che finirono per sfiancare il PCI e logorarlo proprio sul piano dei rapporti di massa, anche a causa delle eccessive mediazioni cui il Partito si sottopose. In questo, i comunisti – e Berlinguer in particolare – peccarono anche di ingenuità nei confronti della DC, cosa che essi stessi riconosceranno.
È chiaro però che vi sono anche limiti più profondi. La strategia di incontro con le masse cattoliche – così come era stata impostata da Gramsci e Togliatti – implicava comunque un costante esercizio di egemonia (Vacca); al contrario, nell’esperienza della “solidarietà nazionale” è riscontrabile una notevole carenza di egemonia, sul piano politico, ideale, programmatico. Inoltre l’incontro prefigurato da Togliatti è quello con le masse cattoliche: se nell’immediato dopoguerra questo significava tout court fare i conti con la DC, negli anni ’70 – dopo l’emergere del “dissenso cattolico”, le prese di posizione delle ACLI ecc. – la situazione era ben più ricca e complessa. Al contrario, legittimare la DC come unico rappresentante del mondo cattolico, mirando a una transazione con essa, anziché alla conquista diretta – sul piano politico e ideale – della masse cattoliche, costituì un altro pesante limite. Il voto del 1965-76, peraltro, era stato un voto contro la DC: di qui la delusione di molti e il riflusso successivo, abilmente “cavalcato” dal PSI craxiano e dai vari gruppi estremisti.
L’analisi della DC come partito “a più facce” fu inoltre almeno in parte inadeguata: quello democristiano – cosa che pure in vari momenti si era detta – era il partito della conservazione, nonostante la presenza di una sinistra interna – probabilmente sopravvalutata – ed era il partito che difendeva al meglio gli interessi della borghesia, nonostante la base in parte popolare.
Ma accanto a quelli soggettivi, vi furono anche forti limiti oggettivi: i caratteri e la forza del sistema di potere democristiano, il ruolo negativo di PSI, estremisti e BR, le trame dei servizi, le resistenze dello Stato al cambiamento. La stessa morte di Moro tolse alla strategia berlingueriana il suo interlocutore, il che in qualche modo le impedì di esplicarsi completamente.
Infine, il contesto internazionale. Nel mondo diviso in blocchi, la sovranità limitata non esisteva solo in Cecoslovacchia; e non a caso il PCI lottava per il superamento dei blocchi stessi.
Contro questo muro – e quello delle resistenze conservatrici e reazionarie, dell’anticomunismo eversivo – si infranse il compromesso storico, e cioè l’ultima espressione di quella strategia che ha caratterizzato – nel bene e nel male – gran parte della vicenda dei comunisti italiani.
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Caro Giovanni,
[…].
Mi sono avvicinato alla sinistra comunista 45 anni fa: quando molti intellettuali se ne allontanavano. Gli eventi del 1956 mi sollecitarono a una riflessione profonda, dialettica, nella quale compresi l’inevitabile necessità delle durezze della storia. La mia amicizia con Franco Rodano e i suoi amici (da Filippo Sacconi a Tonino Tatò, da Claudio Napoleoni a Giuliana Gioggi, da Mario Melloni a Ugo Baduel, da Vittorio Tranquilli a Giancarlo Paietta, da Marisa Rodano a Giuseppe Chiarante) mi aiutarono a comprendere quanto fosse stretto il legame tra il dramma e la speranza. Compresi allora perché la prima realizzazione statuale del movimento proletario avesse radici così deboli, e perché la prima rottura rivoluzionaria pretendesse (una volta scongiurata, a Stalingrado, la tragedia dell’annientamento finale dell’umanità) uno sviluppo e un salto di qualità nell’Occidente europeo: compresi allora, di conseguenza, quanto fossero grandi le responsabilità della sinistra europea e, in essa, dei comunisti italiani.
Misurai allora, con i miei occhi, quando il comunismo italiano – pur incapace di svolgere pienamente, da solo, un ruolo internazionale all’altezza delle necessità del mondo – avesse contribuito e contribuisse a rendere la società italiana più giusta, più moderna, più ricca, più democratica. Quanto esso (per la presenza di figure come Palmiro Togliatti, e per la sintonia di civiltà che lo legava a figure delle altre sponde) contribuisse a radicare nel paese il senso dello stato, dell’interesse comune, della democrazia. E anche per questa convinzione entrai nel Partito comunista, prima come “indipendente” nelle sue liste poi, scaduto il mandato, come iscritto.
Ho sempre lavorato nel Partito come un membro di un collettivo: un gregario, anzi. Mettendo il mio specifico sapere e saper fare a disposizione di un disegno che condividevo. Solo in casi eccezionali mi è toccato svolgere una funzione di direzione politica: all’inizio degli anni Novanta. In quegli anni ho condiviso la svolta che ci ha portato ad abbandonare le antiche insegne: era una svolta inevitabile, poiché gli errori e i ritardi della sinistra europea avevano permesso che il lascito della Rivoluzione d’ottobre, confinato “in un paese solo”, si disgregasse e l’edificio dell’URSS e del comunismo internazionale tragicamente crollasse.
A mano a mano che la nuova formazione politica si sviluppava mi rendevo conto che il crollo di Berlino, mettendo la parola fine alle speranze nate con la Rivoluzione d’ottobre, rivelava un crollo inaspettato nella struttura stessa della sinistra italiana. Anche noi eravamo stati contagiati dalle malattie che avevamo criticato prima nella DC, poi nel PSI. Una parte molto larga del nostro quadro dalla DC aveva assunto quello che definirei il doroteismo: il privilegio del successo rispetto alla verità, del potere rispetto alla finalità, delle facilità dell’oggi rispetto alle difficoltà del futuro. Del PSI ci ha contagiato (certo marginalmente) la spregiudicatezza nell’asservire a fini di parte interessi comuni, e quella particolare forma di corruzione che in quegli anni esplose.
Furono queste le ragioni sostanziali (in aggiunta al concludersi della mia attività di amministratore locale, e alle particolari inettitudini che dimostrava la sinistra veneziana) che, qualche anno fa, mi hanno indotto a non rinnovare la tessera.
Scusami questa premessa certamente troppo lunga. Ma è la prima occasione che ho di ripensare a un percorso. Essa chiarisce però – mi sembra – le ragioni per cui, come ti dicevo, sono felice della tua candidatura. Mi sembra che essa significhi che è possibile la ripresa di alcune delle speranze smarrite.
La speranza di un ruolo internazionale della sinistra italiana, che si faccia carico in modo costruttivo, “politico”, delle tragedie del nuovo mondo che stiamo scoprendo tra noi e nei continenti (quello in bilico tra distruzione e disperazione), e delle potenzialità del vecchio mondo (un mondo che, con tutti i suoi errori e limiti, abbiamo contribuito a costruire). La speranza di una politica che torni a parlare alle cittadine e ai cittadini, ma a partire dagli ideali, dai principi, dai futuri da costruire insieme, e non dalla vellicazione degli interessi spiccioli. La speranza di un partito che riacquisti le doti della coerenza dei programmi e delle azioni, del rispetto degli altri, del disinteresse personale, e perda la smisurata fiducia nell’immagine che buca lo schermo e nelle parole d’ordine accattivanti (“modernizzazione” è una di queste) ma prive di senso. La speranza di una formazione nella quale la politica e gli altri saperi sappiano dialogare, rispettarsi, alimentarsi a vicenda, senza che la scienza strumentalizzi la politica né ne venga strumentalizzata.
E’ inutile che ti dica quali sono le tue qualità che mi sembrano renderti idoneo al ruolo che in cuor mio ti assegno. Voglio dirti però che il tuo cognome è tra queste, perché è simbolo di una continuità sostanziale con stagioni altissime della nostra storia. […]