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«La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto.le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale.»

connessioniprecarie online, 3 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Qualunque potere non usi tu stessa sarà usato contro di te». Sulla pagina facebook Black Protest International queste parole di Audre Lorde accompagnano le ragioni delle donne polacche che oggi, lunedì 3 ottobre, scioperano contro la legge sull’aborto attualmente in discussione nel parlamento del loro paese.

Il significato della legge, che mira a eliminare anche le ultime eccezioni a una normativa già estremamente restrittiva, è chiaro: ciò che si discute nel parlamento polacco sono le condizioni politiche della subordinazione e dello sfruttamento di milioni di donne, il cui destino di «macchine da riproduzione» dovrebbe essere sancito per legge.

Un nuovo e più rigido «Ordo iuris», per riprendere il nome del gruppo che ha promosso l’iniziativa legislativa, deve essere organizzato a partire dal comando istituzionalizzato sul corpo delle donne. La #blackprotest, perciò, va ben al di là della rivendicazione di un diritto individuale alla scelta: facendo dello sciopero lo strumento della loro protesta, le donne polacche ambiscono a far valere il potere che esercitano nella produzione e riproduzione contro un ordine che pretende di usare quel potere contro di loro.

Lo scontro in atto in Polonia supera i confini nazionali. È certamente vero che la proposta di legge è avanzata e sostenuta da un governo di destra, che sta sovvertendo ogni procedura democratica, e in un contesto peraltro segnato dall’oltranzismo cattolico. Ed è altrettanto vero che, come sta avvenendo anche con il migration compact, il governo polacco non perde l’occasione di accentuare il suo attrito con l’Unione Europea, il cui parlamento ha criticato la proposta di legge considerandola una violazione delle fondamentali garanzie di libertà.

Tuttavia, anche questa politica nazionalistica e ultraconservatrice deve essere letta nella più vasta cornice delle politiche neoliberali poste in essere dall’Europa e dai suoi Stati. Come la libertà di muoversi, così anche la libertà di scegliere autonomamente sul proprio corpo va governata e, se necessario, repressa affinché sia funzionale agli imperativi della produzione e riproduzione sociale. Le donne polacche sono libere di accettare uno sfruttamento pari o più intenso rispetto a quello degli uomini, ma non sono libere di decidere su se stesse e sul proprio corpo né quindi di mettere in questione il dominio maschile.

La maternità diventa così una coazione sociale restando al contempo una responsabilità completamente individuale, come dimostra la pesantissima pena che sarebbe comminata alle donne che abortiscono, nel caso in cui la legge fosse approvata.

Come il Piano italiano per la fertilità – l’altra faccia dei ripetuti attacchi alla legge 194, che pure formalmente ancora garantisce il diritto di abortire – la legge polacca mira a neutralizzare gli effetti socialmente sovversivi del rifiuto della maternità come destino. Questo rifiuto le donne polacche lo hanno espresso in molti modi: non solo attraverso interruzioni ‘clandestine’ della gravidanza, praticate in Polonia nonostante le restrizioni imposte dalle normative statali oppure all’estero, ma anche attraverso la migrazione, che ha drasticamente trasformato le tradizionali forme patriarcali di organizzazione sociale, in primo luogo la famiglia, e che ha permesso alle donne di sottrarsi alla loro coazione.

L’abolizione e penalizzazione dell’aborto che questa legge vuole introdurre mirano quindi a restringere questi spazi di libertà femminile. Ciò non significa evidentemente un «ritorno tra le mura domestiche» delle donne polacche, il cui lavoro continuerà a essere essenziale alla produzione di ricchezza almeno quanto il loro salario – e le loro rimesse, nel caso delle donne migranti – continuerà a sostenere la riproduzione delle loro famiglie.

Il punto è semmai riaffermare la maternità come baluardo simbolico del dominio maschile e come fulcro della riproduzione dei ruoli e delle autorità di cui il neoliberalismo si alimenta. La dimensione di questo patriarcato neoliberale, assieme ai movimenti delle donne per sottrarsi alla sua presa, conferiscono a questa protesta un significato transnazionale, testimoniato dalla sua diffusione in decine di città europee: mentre le donne migranti provenienti dalla Polonia hanno la pretesa di far sentire la loro voce anche al di là dei confini, la #blackprotest riguarda la possibilità per tutte le donne, in ogni parte d’Europa, di rifiutare il comando neoliberale sul loro corpo.

In questo modo, lo sciopero diventa una pratica femminista in cui le donne esprimono un triplice potere, come donne, precarie e migranti, facendo valere politicamente la loro condizione specifica contro l’ordine globale del patriarcato neoliberale. Lo sciopero diventa una pratica femminista perché aspira a interrompere la produzione e riproduzione sociale a partire dal protagonismo di coloro che ne sono il pilastro.

Oggi le donne polacche non andranno al lavoro, sfidando tutti i limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero e dalla loro quotidiana precarietà: le insegnanti e le docenti universitarie sospenderanno le lezioni, le madri non porteranno i bambini a scuola per consentire alle maestre che non possono scioperare di non lavorare, le precarie chiederanno il permesso speciale per donare il sangue in modo da potersi astenere dal lavoro o prenderanno un giorno di ferie.

L’importanza e la dimensione di massa della protesta – cominciata con una manifestazione dei 30mila donne a Varsavia nel mese di marzo – sono tali da aver obbligato alcune imprese a riorganizzare il lavoro affidando i turni di lunedì ai soli uomini, mentre il Teatro nazionale di Varsavia chiuderà i battenti e in quello Breslavia le cassiere saranno sostituite nelle loro mansioni dagli uomini.

I limiti oggettivi alla partecipazione saranno superati dando a tutte le donne la possibilità di manifestare in modo simbolico, lavorando con un nastro nero – che richiama il colore scelto per contrassegnare questa lotta e la sua rabbia – o diffondendo sui social network immagini accompagnate dall’hashtag ormai globale #CzarnyProtest. Alla fine della giornata, in settanta città polacche sono organizzate manifestazioni di piazza per dare a questa mobilitazione di massa la sua massima visibilità.

Non si tratta però soltanto di un’astensione dal lavoro produttivo: l’invito a interrompere ogni attività domestica e di cura, l’appello rivolto agli uomini a prendere parte a questa protesta facendo tutto ciò che è necessario per consentire alle donne di esserne protagoniste rompono il confine tra il pubblico e il privato e sovvertono la divisione sessuale del lavoro che lo sostiene.

Questo sciopero è uno sciopero sociale perché le donne che lo stanno mettendo in pratica rifiutano contemporaneamente la doppia subordinazione e lo sfruttamento che la produzione di ricchezza e la riproduzione della società impongono loro. Per questa ragione, lo sciopero delle donne polacche è uno sciopero politico: esso non difende le prerogative di una categoria, ma rompe gli assetti tradizionali dell’organizzazione sindacale del lavoro per far valere un rifiuto radicale della subordinazione e dello sfruttamento, come pure di ogni tentativo di criminalizzare quel rifiuto.

Esso non sopprime la differenza specifica delle donne in un generico appello all’unità, ma la afferma e in questo modo punta al cuore dell’ordine neoliberale e delle politiche che lo sostengono. Anche per questo, lo sciopero chiama in causa gli uomini: anziché difendere il loro privilegio, se davvero vogliono rovesciare sfruttamento e oppressione dovrebbero riconoscere la natura patriarcale dell’ordine neoliberale di cui essi stessi sono agenti e quindi scegliere da che parte stare.

Oggi in Polonia le protagoniste dello sciopero sono le donne. Ed è in un certo senso ironico che un governo che sta sistematicamente respingendo profughi e migranti si trovi in casa una protesta che assume il modello della «giornata senza di noi» inaugurata dai migranti latini negli Stati Uniti. Attraverso lo sciopero, queste donne si stanno riprendendo il potere che vuole essere usato contro di loro e sfidano i confini fisici e simbolici che sostengono la loro subordinazione come donne, precarie e migranti.

La valenza di questo sciopero non può risolversi in una giornata ma deve diventare parte di un progetto. Esso attraversa i confini, esprime un rifiuto di massa delle condizioni politiche che obbligano le donne alla subordinazione, ambisce a far valere il potere di una parte della società contro il suo ordine complessivo. Per tutto questo, lo sciopero delle donne polacche indica la direzione per ogni progetto di sciopero che abbia la pretesa di essere sociale e di sovvertire il presente.

«La commissione sulle diacone potrebbe segnare anche la rottura di tre assordanti silenzi che soffocano le chiese da decenni». La

Repubblica, 24 settembre 2016 (c.m.c.)

Ha iniziato i propri lavori questa settimana la commissione istituita da papa Francesco sul diaconato femminile: atto interno alla vita della chiesa ma cruciale per la fisionomia del cattolicesimo romano del secolo XX.

La commissione, per certi versi, ha un compito “facile”: deve suggerire solo quando e come “restaurare” un ministero femminile attestato nel Nuovo Testamento, là dove Paolo saluta la greca Febe, “diacono della chiesa di Cencre”. “Diacono”, non “diaconessa”, come si farà al concilio di Nicea, indicando figure che non avevano ricevuto l’imposizione delle mani.

Nella fluida situazione della prima comunità neotestamentaria c’è dunque un appiglio lessicale e teologico: che non basterà a chi sta cercando di creare la “maggioranza ostile” al papa che è loro mancata in materia matrimoniale.

Tutti, per altro verso, sono consapevoli che una “restaurazione” del diaconato potrebbe ridursi ad una operazione sterile. Il concilio Vaticano II “restaurò” ad esempio il diaconato permanente, come ministero di una chiesa serva e povera che scioglieva il nesso fra celibato e ministero affermatosi solo alla fine del primo millennio. L’esito è stato modesto: il diacono è rimasto l’unico ministro sposato della chiesa latina (fino alla decisione di Benedetto XVI di ammettere preti e vescovi sposati, ma solo se provenienti dalla chiesa anglicana) e s’è ridotto al ruolo di un chierichettone nella liturgia e di capufficio dei volontari fuori da essa.

La “restaurazione” del diaconato femminile (dunque di “diacone” ordinate e/o di “diaconesse” prive dell’imposizione delle mani) potrebbe fare la stessa fine: una onorificenza per suore e per nonne, senza impatto sulla riforma e sulla missionarietà della chiesa.

Eppure la commissione sulle diacone potrebbe segnare anche la rottura di tre assordanti silenzi che soffocano le chiese da decenni.

Il primo è il silenzio sul sacerdozio che tutte le donne e tutti gli uomini battezzati hanno già: quello che la chiesa latina chiama sacerdozio comune (in opposizione al sacerdozio ministeriale che viene dal sacramento dell’ordine). La stantia cultura che rivendicava la promozione dei “laici” — sudditi desiderosi di essere mobilitati e promossi — che si è rigenerata nell’attivismo e nel clericalismo dei movimenti, non è ancora stata scalzata da una teologia sulla dignità di quelli che il codice di diritto canonico chiama Christifideles. Se santa Febe facesse un miracolo, la commissione o un sinodo sul ministero potrebbero essere l’occasione per interrogarsi su questo.

L’altro riguarda il ripensamento teologico di una espressione — in persona Christi — grazie alla quale la cultura della subordinazione femminile del mondo antico ha vinto la concezione cristiana del battesimo in Cristo nel quale non c’è più “né maschio né femmina”. Molte chiese si sono liberate da quel paradigma alla fine del secolo XX ordinando pastore, prete e vescove cristiane in possesso dei doni di Dio necessari alla santità di una comunità: la chiesa cattolica reagì alla accelerazione con una chiusura che voleva essere “definitiva” e dichiarando nel 1994 che il tema era “indisponibile” alla chiesa.

La successione apostolica al maschio-Gesù degli apostoli- maschi vincolava la capacità di agire in persona Christi a un solo genere: come se la mascolinità di Gesù non fosse una componente necessaria alla verità dell’incarnazione, ma un privilegio sessista. Ciò che è normativo di Gesù non è la sua mascolinità dichiarata dalla nudità della croce (il velo del crocifisso serve a nascondere la circoncisione non il sesso): ma la croce e la morte di croce alla quale ogni cristiano, maschio o femmina, è unito nel battesimo trinitario. Portare le donne nella sfera dell’unico ordine sacro romperebbe una reticenza e ristabilirebbe un equilibrio necessarissimo alla cristologia.

Il terzo silenzio con cui la commissione sul diaconato femminile si misura è quello sul sacerdozio ministeriale maschile ora in essere, prigioniero di un misero duello di retoriche celibatarie e anticelibatarie. Oggi in larghe parti della chiesa si vive una alternativa fra celibato ed eucarestia: perché in assenza di celibi da ordinare, si condannano le comunità a vivere senza eucarestia: una alternativa in cui un naso sano sente odore di zolfo. E che va affrontato senza furbizie e senza superficialità: non dal papa solo, ma dai vescovi che non possono nascondersi dietro un dito.

I non pochi nemici di Francesco, giovani o vegliardi, non sono contrari a che questa discussione si apra: sperano l’arcipelago antibergogliano si palesi, man mano che si avvicinano le due scelte — la nomina dell’arcivescovo di Milano e del vicario di Roma — dalle quali dipenderà non solo il futuro conclave, ma anche l’unità presente d’una chiesa. Che il papa chiama a non essere una federazione pelagiana di attivismi, ma una comunione di quelli che il Vangelo definisce “servi inutili”, e che sono gli unici indispensabili.

«La femminilizzazione della sfera pubblica, può comportare l’attenuazione e perfino la scomparsa del conflitto tra i sessi. Lascia aperto il dubbio che finisca per essere invece la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica»

Comune.info,11 settembre 2016 (c.m.c.)

Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili — l’economia, la politica, la scienza, ecc.— faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella “naturale” o “divina missione,” che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine,» oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalla mura domestiche.

Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica — quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.

Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il sole24ore, non c’è giorno che non si elogi il “valore D,” il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di “supermamme,” capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera.

Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarietà, «quel profondo, benché irrazionale istinto» — come ha scritto Virginia Woolf— a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, provoca «la massima soddisfazione,» rende la mente «fertile e creativa.» Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco, o per nulla indagate dal femminismo, queste zone più intime del rapporto tra i sessi, ricompaiono oggi, deformate, sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale.

Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnate come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come «fuga dal femminile» screditato, oggi è il femminile stesso – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale, e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile alla cultura maschile.

Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi, e come nell’illusione amorosa, fa balenare la possibilità di una ‘tregua.’ Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu nel suo libro, Il dominio maschile (Feltrinelli 1998), la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica.

Quella che vediamo oggi sulla scena pubblica è una situazione molto diversa, si potrebbe dire capovolta, rispetto agli anni Settanta, e molto lontana dai cambiamenti che si prospettava il femminismo, sia riguardo al rapporto uomo-donna, sia riguardo ai legami da riscoprire tra ‘personale’ e ‘politico.’

Il corpo, e tutte le vicende che lo attraversano —nascita, morte, sessualità, maternità, malattia, invecchiamento, ecc— non è più il rimosso della sfera pubblica, la parte, pur essenziale, dei bisogni e dei comportamenti umani che è stata svalutata, perché più vicina alla natura, a pulsioni incontrollabili, consegnata al sesso femminile come destino, sottoposta a un potere patriarcale più feroce e illimitato di quello pubblico.

Particolarmente sovraesposto è il corpo femminile, come corpo vittima di violenza manifesta e psicologica — stupri, maltrattamenti, omicidi domestici, molestie, finalmente denunciati dalle donne stesse —, ma anche come corpo al centro di forme di prostituzione più o meno esplicite: corpo mercificato, usato come ‘risorsa,’ ‘capitale’ che le donne impugnano a proprio vantaggio, scambiandolo con carriere, denaro, successo.

Nasce allora spontanea una domanda provocatoria: i corpi femminili che vediamo muoversi nel luogo da cui sono stati a lungo banditi sono corpi liberati o corpi prostituiti? Sono donne che si sono riappropriate della propria vita, sciogliendola da un ‘destino naturale’ e disponendone liberamente, o sono schiave volontarie, donne che decidono di impugnare attivamente e nel proprio interesse quella che è stata storicamente la condizione del loro asservimento: il corpo oggetto, messo al servizio dell’uomo? La richiesta di ‘doti femminili,’ come ‘valore aggiunto,’ viene oggi dagli ambiti più diversi e più imprevedibili della società maschile — dall’industria dello spettacolo e dalla pubblicità, ma anche dall’economia, da una politica sempre più mediatica. Non meraviglia che siano le donne stesse a decidere di ‘usarle,’ ‘metterle al lavoro,’ ricavarne un beneficio.

A prendere rilievo sono i due attributi del ‘femminile,’ considerati a lungo ‘naturali’: la seduzione e la maternità. Se nel primo caso è più facile lo slittamento verso forme vicine alla prostituzione, a cui rimandano in parte le figure delle ‘escort,’ delle ‘veline,’ delle ‘donne immagine,’ nell’altro, quello che ha a che fare con la produzione e che valorizza le capacità relazionali, la flessibilità, le competenze ‘domestiche’ femminili, la retorica del materno impedisce di vedere l’aspetto di subalternità, di messa a servizio, che conferma, nella vita pubblica, il destino famigliare della donna, quel lavoro gratuito di cura, gratuito e invisibile perché confuso con l’amore. Non si esce, in entrambi i casi, da una soggettività femminile vista come ‘oggetto,’ merce preziosa, che resta, nonostante l’uso che oggi tendono a farne le donne stesse, in una posizione di asservimento rispetto al sesso dominante.

Femminilità al lavoro

Mentre il privato avanza minaccioso a minare le istituzioni della vita pubblica, nell’ambito lavorativo la presenza femminile, il sapere maturato in quel luogo ‘altro’ dalla polis che è la casa, appare imprevedibilmente come la via d’uscita alla crisi di un sistema produttivo rimasto storicamente il caposaldo del dominio maschile. La «potenza dell’amore» e la «coercizione al lavoro,» dopo essersi fatte a lungo la guerra, sembrano oggi destinate a un ideale ricongiungimento, per effetto della rivoluzione che sta attraversando l’economia e per l’opportunità che essa potrebbe offrire alle donne di far riconoscere il valore del talento femminile, a lungo ignorato. «Professionalità sensuale,» «intelligenza emotiva,» «pensiero emozionale,» sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore —armonia di nature opposte e complementari— , quando si trasferisce dalla relazione di coppia all’ambito lavorativo.

Il mito dell’interezza, che accompagna da sempre la cultura maschile, come nostalgica immaginaria riparazione a tutti i dualismi che ha prodotto, a partire dal diverso destino riservato a uomini e donne, viene oggi reclamato da versanti apparentemente opposti: da un lato, la centralità che stanno prendendo nel sistema produttivo le relazioni e i servizi alla persona, e di conseguenza il corpo, la dimensione affettiva e sessuale; dall’altro, l’affermarsi di un “desiderio” femminile che rifiuta l’alternativa tra la cura dei figli, della casa, e la volontà di «stare nel mondo,» che pensa di poter fare dell’esperienza della quotidianità «una leva per cambiare il mercato del lavoro.»

Il venir meno dei confini tra la casa e la pòlis sembra aver aperto il campo ad una ambigua ‘femminilizzazione’ dello spazio pubblico, e ad una non meno ambigua mercantilizzazione della vita intima. Se la precarizzazione, la perdita di diritti e garanzie certe, la pluralità imprevedibile delle occupazioni, fanno apparire il tempo di lavoro sempre più pervasivo e soffocante, e il capitalismo globale “un vampiro,” l’ingresso delle donne in ruoli manageriali di grandi aziende accende al contrario la speranza di poter ridefinire con un segno proprio poteri e regole organizzative della produzione, tradizionalmente riservati agli uomini.

Una volta cadute le barriere che hanno tenuto le donne, e tutto ciò che dell’umano è stato identificato col loro destino, confinati in una sorta di natura immobile, ignorata per quanto essenziale alla conservazione della specie, era inevitabile che la “differenza femminile” si mostrasse in tutta la sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettate e poste al servizio dell’uomo, manodopera di riserva subordinata alle necessità del ciclo produttivo, libertà e creatività esaltate nell’immaginario e storicamente insignificanti.

La riflessione prodotta dal femminismo sulle esperienze lavorative di donne di età e collocazione sociale diversa hanno oscillato, non a caso, tra marcare il “vantaggio,” il “di più” di competenza che verrebbe oggi al femminile dalla nuova economia, e ammettere invece la deriva verso forme di autosfruttamento, estese alla vita intera. L’Eros, che insieme alle donne e alle attitudini un tempo nascoste nel privato si fa strada dentro le rigide, impersonali impalcature delle organizzazione del lavoro, conserva il suo volto duplice trasferendosi contemporaneamente in “lavori marchetta” e in materia emozionale, creativa, per forme inedite, armoniose, di un potere non più separato dalla vita.

Se c’è chi cerca di svincolarsi dal coinvolgimento eccessivo, scegliendo lavori che non offrono «possibilità di grande soddisfazione,» e tanto meno conferme identitarie, altre fanno dell’azienda il luogo tanto atteso della «costruzione di sé,» di una affermazione di esistenza, prima ancora che di riuscita professionale: Si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa corporeità, ammiccante e sorridente.

E’ possibile che si vada creando un contesto prostituzionale allargato, legato al fatto che, quando l’attività relazionale tende a prendere il sopravvento, il soggetto debba anche lasciare agire, usare, sfruttare le capacità del corpo e la mimica della profferta sessuale … Nei lavori atipici la componente personale e relazionale ha un peso sempre più importante, sia nel contesto del lavoro che nella relazione contrattuale col padrone. Debbo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro.

La discussione che riguarda le donne e il lavoro, da qualunque parte venga fatta, non riesce a sottrarsi al binomio uguaglianza/differenza, che ha contagiato anche parte del femminismo, nonostante si sia affermata da tempo la consapevolezza che si tratta di un falso dilemma imposto dal potere maschile. Se è stato facile, per la generazione degli anni ’70, prendere distanza da un’idea di emancipazione che andava a confondersi con modelli virili, più tortuoso e tuttora incerto si è dimostrato il processo di liberazione che avrebbe dovuto criticare ogni forma di dualismo, di complementarietà, di riunificazione degli opposti.

Colpisce il fatto che siano proprio le donne, nel momento in cui si sfrangiano e si eclissano le identità e le appartenenze di ogni tipo, a impugnare, come rivalsa o affermazione di autorevolezza, una ‘natura’ o un ‘genere’ femminile usati dalla civiltà dell’uomo per tenere le donne in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica. Ma forse sta proprio in questa “incongruenza” uno dei nodi irrisolti della questione dei sessi. D’incongruenze e contraddizioni sono piene, non a caso, le analisi che più esplicitamente si sono poste l’obiettivo della «valorizzazione delle differenze di genere.»

La conciliazione di amore, cure materne e lavoro, la ricerca dell’interezza della persona, nonostante le evidenti ricadute “ancillari,” sia nel privato che nel pubblico, continua a essere perseguita dalle donne stesse, incuranti delle fatiche e delusioni a cui vanno incontro. All’accanimento nel volere che sia riconosciuta l’ “autorevolezza” femminile anche in ambito produttivo, fa riscontro la messa in ombra del potere, ancora saldamente in mano maschile, e degli interessi economici dominanti.

Ma è solo il bisogno di essere amate, l’attesa di una contropartita affettiva, a tenere le donne ancorate al sogno di una «armoniosa famiglia integrata»? Nel capovolgimento delle parti, non è forse una femminile onnipotenza -accedere al potere pubblico senza rinunciare a quello privato, seduttivo e materno- che inconsciamente le donne desiderano e gli uomini temono?

L’interrogativo si potrebbe formulare anche in un altro modo. Se oggi è il sistema produttivo, la nuova economia, ad aver bisogno del “valore D,” come vanno ripetendo da tempo i giornali della Confindustria, perché le donne in carriera notano tanta resistenza dei loro “capi” a riconoscere l’apporto creativo a un migliore funzionamento dell’azienda che esse possono dare? Perché prevale la tendenza a “usare” la loro dedizione materna, la “sovrabbondanza” del loro impegno lavorativo, come avviene per quel ‘dono d’amore’ che è, nella famiglia, il lavoro di cura?

E’ come se ci fosse, dentro l’economia capitalista, un residuo patriarcale che ne frena lo sviluppo: i dirigenti, coloro che hanno il potere di decidere avanzamenti di carriera, definire i criteri di valutazione, sono innanzitutto uomini, che non hanno alcun interesse a lasciarsi crescere al fianco, nei luoghi storici della loro autonomia, una potenza femminile più libera e più forte di quella conosciuta nel privato.

Oggi, pur restando ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere ‘competenze’ femminili, capacità relazionale, flessibilità, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale. Alla ‘differenza’ femminile si aprono territori inaspettati, ma ancora una volta può fare la sua comparsa solo come ‘risorsa,’ ‘merce preziosa,’ ‘valore aggiunto’ e complementare di un ‘intero’ che non cambia volto, mentre potenzia, nella riunificazione dei due rami della specie umana, le sue capacità.

La scena pubblica viene a prendere la figura di un doppio, l’uomo-femmina, da sempre presente nei miti della cultura maschile, come ricomposizione armoniosa di ciò che la storia ha separato e contrapposto secondo un preciso ordine gerarchico. Il corpo femminile, nella sua duplice valenza — erotica e materna— entra prepotentemente nell’economia e nella politica, dalla televisione al mercato pubblicitario, dai Palazzi del potere alla produzione industriale.

Con un’unica differenza: mentre il corpo nudo della ‘donna-immagine,’ della ‘escort’ o della ‘velina,’ provocano sussulti di indignazione, non accade altrettanto per l’uso, a costo zero, che il potere aziendale fa delle ‘doti materne’ – cura dei rapporti interpersonali, fluidificazione dei contrasti, dispensa di affetti e di attenzione.

Contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio di molte donne di conciliare maternità e lavoro, il “doppio sì” di cui parla il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano nel Quaderno di Via Dogana 2008. La ‘cura,’ che le donne prodigano gratuitamente all’interno delle case, svalutata per la contaminazione col corpo e con la dipendenza, con i bisogni essenziali della persona, cambia segno, diventa il valore sulla base del quale rivendicare il part-time come «gesto di libertà femminile,» «autodeterminazione dei tempi di lavoro.»

Il paradosso del femminile, già descritto lucidamente da Virginia Woolf come «insignificanza storica ed esaltazione immaginativa» delle donne, prende nuovi nomi ma non cambia nella sostanza. Una nuova forma di emancipazione, scoppiettante di promesse, rivincite, privilegi inaspettati, viene a prendere il posto delle «oscure carriere» che la Woolf aveva previsto per le generazioni future di donne impegnate nella vita pubblica. Allo sforzo di somigliare all’uomo si sostituisce una strada più facile e più rapida, incoraggiata a quanto sembra da entrambi i sessi: valorizzazione delle attrattive che l’uomo ha visto nel corpo femminile e che, cadute alcune barriere di controllo patriarcale e di pudore, possono essere oggi impugnate dalle donne stesse come ‘rivalsa’ e come ‘capitale’ da far fruttare sul mercato del denaro e del successo.

Lo scambio sessuo-economico, venuto alla ribalta con le vicende berlusconiane, è solo l’aspetto più vistoso di un processo che vede il corpo, la sessualità, ma anche la maternità, emanciparsi in quanto tali. La donna celebra il suo ingresso nella polis come ‘genere’ portatore di ‘valori’ divenuti indispensabili, ma pur sempre ‘aggiuntivi.’ Il bisogno di migliorare i profitti si viene a sposare con quel desiderio di maternità «inscritto nel corpo e nella mente delle donne.»

L’ondata di critiche e di appelli, che giustamente si sono alzati contro il sessismo di Stato e contro la misoginia diffusa nei media, rischia dunque di far passare in ombra una ‘conciliazione’ senza conflitti tra la forza lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere patriarcale e capitalistico. Amore e lavoro, riunificati nello spazio pubblico, possono far calare di nuovo sulle coscienze il lungo sonno che ha impedito fino alle soglie della modernità di sottrarre alla natura il dominio di un sesso sull’altro.

Riportare alla maternità – come tempo da dedicare a un figlio e piacere di vederlo crescere – la mole di lavoro senza sosta che comporta la quotidiana vita famigliare, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati e adulti perfettamente sani, avvezzi ad avere chi si preoccupa del loro buon vivere, significa, di fatto, lasciare che continui a pesare essenzialmente sulle donne la responsabilità delle condizioni indispensabili per la continuità della vita, confermare la loro ‘natura’ salvifica e la loro complementarietà rispetto a un modello dominante maschile a cui si chiede solo di farsi più attento ai desideri dell’altro sesso.

Tornare a nominare, come è stato fatto da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo, nel momento in cui le case si riempiono di collaboratrici domestiche e di ‘badanti’ straniere. Ma se si prende in mano un volantino di quegli anni, ci si può accorgere facilmente che la monetizzazione, là dove lo consentono le condizioni sociali, di una parte di lavoro domestico non ha sciolto né l’intreccio di lavoro e di affetti, né la svalutazione che porta ad assegnare la ‘cura’ alla parte svantaggiata della popolazione, né la convenienza per il capitalismo di avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro dell’etica pubblica e della responsabilità politica.

«Secondo l’Istat, 800 mila donne, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere».

Il Fatto Quotidiano online, blog lettori, 5 settembre 2016 (c.m.c.)

La sgangherata campagna per il Fertility Day promossa dal Ministero della Salute, ha però avuto il pregio di sollevare l’attenzione sulla condizione femminile in Italia, dal punto di vista sia lavorativo che “riproduttivo”. Innanzitutto, alcuni dati.

Nel 2015 sono state registrate circa 488mila nascite, quindicimila in meno rispetto al 2014. Si tratta del minimo storico mai raggiunto dallo Stato italiano. Per trovare dati simili bisogna tornare al 1917-18, quando una buona fetta di popolazione maschile in età fertile era al fronte, nelle trincee. È anche vero che l’età del concepimento si sposta sempre più avanti: l’Italia è il Paese con le mamme più vecchie d’Europa. Per dire: in Romania le neo-mamme over 35 sono il 10,9%, in Italia il 34,7%. In Liguria, Lazio, Sardegna un bambino su dieci nasce da mamme ultraquarantenni.

I numeri vanno tutti nella stessa direzione: l’Italia è il terzultimo Paese europeo per numero di donne occupate, davanti alle sole Grecia e Macedonia. In Italia lavora solo il 57% delle donne tra i 25 e i 54 anni e la media è di 1,3 figli per coppia.

Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31mila.

In Svezia le donne che lavorano sono l’83% e la media-figli sale a 1,9. Il motivo è piuttosto semplice: il lavoro della donna porta alla coppia uno stipendio in più. E se lavori e decidi di fare un figlio è perché hai un sistema di welfare che ti permette di conciliare i tempi della famiglia con quelli della professione.

Analizzando gli investimenti statali, la spesa pubblica per la famiglia, pari a 16,5 miliardi, spiegano gli autori di uno studio curato dall’Ufficio studi di Confartigianato, è appena l’1% del Pil, a fronte degli interventi per gli anziani che, tra pensioni e spesa per la salute, corrispondono al 20% del Pil. In pratica, per 1 euro speso a favore della famiglia se ne dedicano 20 agli over 65.

Il basso livello di spesa per la famiglia colloca l’Italia al 22° posto tra i Paesi Ue per la quantità di risorse dedicate a questo capitolo di interventi pubblici che, nella media dei Paesi europei, si attesta all’1,7% del Pil. Al contrario, la spesa pubblica per anziani in Italia supera del 4,9% la media europea che si attesta ad una quota pari al 15,1% del Pil.

L’esigua quantità di spesa pubblica in servizi per la famiglia incide negativamente sulla natalità e penalizza l’occupazione femminile. Secondo lo studio di Confartigianato, infatti, per le donne tra 25 e 44 anni senza figli il tasso di attività lavorativa è dell’82,1%, ma scende al 63% per le donne della stessa età con figli, con un gap di oltre il 19%. Segno che lo Stato non offre quei servizi che consentono alle madri di conciliare il lavoro con la cura della famiglia. E per la cura dei figli le donne si affidano soprattutto a reti di aiuto informale con il 51,4% dei bambini con meno di due anni accudito dai nonni, mentre il 37,8% frequenta un asilo nido. La baby sitter viene scelta come modalità di affido prevalente soltanto dal 4,2% delle madri lavoratrici. L’arrivo di un figlio costa il posto di lavoro a un’italiana su due.

Secondo l’Istat, 800 mila donne, con l’arrivo di un figlio, sono state costrette a lasciare il lavoro, perché licenziate o messe nelle condizioni di doversi dimettere. A subire più spesso questo trattamento, non sono le donne delle generazioni più anziane ma le più giovani, le residenti nel Mezzogiorno (10,5 per cento) e le donne con titoli di studio basso (10,4). Una volta lasciato il lavoro solo il 40,7 ha poi ripreso l’attività, con delle forti differenze: su 100 donne licenziate o indotte a dimettersi riprendono a lavorare 15 nel Nord e 23 nel Sud.

In un paese come il nostro, già segnato da una bassa occupazione femminile un nuovo, possibile anticorpo alla “resa” delle donne è la riforma del welfare aziendale introdotta dalla Legge di Stabilità, ora in attesa del decreto attuativo.

Al contrario che in Italia, la Francia è la patria delle mamme-lavoratrici in Europa. Oltralpe il 74% delle madri con figli sotto i 15 anni ha un lavoro e il Paese vanta il tasso di natalità più alto: 2,1 figli per donna ed è al quarto posto nella classifica della Cnn dei Paesi dove è più facile vivere da mamma e papà.

Su otto Stati recensiti dal network americano, sette (l’ottavo è il Canada) si trovano in Europa: Islanda, Svezia, Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Finlandia e Norvegia.
In Islanda lavora l’85% delle madri con figli sotto i 15 anni, e in Danimarca l’84%, dove la spesa per le famiglie è l’8,6% e la legge prevede 6 mesi al 100 per cento dello stipendio, in Norvegia 10 mesi al 100 per cento oppure 12 all’80 e vi è una percentuale di 1,8 figli per donna.. Dove esiste il congedo per padri, circa l’85 per cento dei neopapà ne usufruisce.

Tutti questi Paesi sono accomunati da un welfare molto attivo e attento a permettere alle famiglie a trovare un nuovo equilibrio vita-lavoro dopo l’arrivo dei figli e, non a caso, lì si fanno più figli. Al sud Italia la dinamica occupazionale è peggiore che al nord. E’ sempre stato così, però ora è ancora peggio.

Qui, a fronte di uomini capifamiglia che hanno perso il lavoro e che si sono ritrovati costretti a casa, ci sono state parecchie donne che si sono messe alla ricerca di un lavoro al posto del marito o del compagno per far fronte alle gravi criticità familiari. Sono infatti aumentate le donne capofamiglia occupate che si sono accontentate di qualsiasi tipo di lavoro pur di garantire un reddito per la famiglia. Aumento delle occupate immigrate, maggiore permanenza sul lavoro delle ultracinquantenni e riattivazione nella ricerca del lavoro da parte delle donne del sud spiegano quindi la maggiore tenuta dell’occupazione femminile . Anche se le donne hanno pagato un prezzo a tutto ciò: il peggioramento della qualità del lavoro.

Quello della sovra-istruzione è un altro fenomeno che purtroppo è anche aumentato e non solo al Sud. Laureate che risultano occupate ma che svolgono impieghi per cui la laurea non è affatto necessaria. Inoltre, sono diminuite le professioni tecniche e cresciute quelle non qualificate. E poi è letteralmente esploso anche il part-time involontario.

In questa situazione vi è un segmento anagrafico che sta peggio ed è quello delle giovani, fino a 34 anni di età. Per loro il calo dell’occupazione è continuo dall’inizio della crisi. In questo senso sono colpite come i loro coetanei maschi, e in alcuni casi di più.

«Quando si parla di fertilità e crescita, o decrescita, demografica,non è, o non solo, un esercizio di buona volontà, come vorrebbe la pubblicità-regresso del governo, o quello delle politiche sociali inesistenti, come vorrebbe chi la contesta».

Internazionale online, 1 settembre 2016 (c.m.c.)

In un’Italia sommersa dalle immagini di valanghe di rovine e di cadaveri, che vengano da Amatrice o da Aleppo (nessuno l’ha notato, ma sono pressoché sovrapponibili). In un’Italia ossessionata dalla fobia dei migranti, che non si sa mai dove mettere e che sarebbero l’unica garanzia contro la crescita zero, demografica ed economica. In un’Italia massacrata da una crisi economica senza uscita, dove i diritti sociali sono carta straccia, il welfare è un vago ricordo e la precarietà è diventata una forma di vita.

In un’Italia depressa, ansiosa e rancorosa, dove la politica non offre più canali positivi all’insoddisfazione sociale. In un’Italia che puzza di vecchio, per la senescenza delle idee e per la depressione delle energie più che per l’età media della popolazione. In un’Italia dove sembra che più nulla di pubblico possa essere detto nella lingua materna, il governo lancia una campagna pubblicitaria per un “Fertility Day” che fa venire voglia ai pochi che ci viviamo ancora di fare le valigie, altro che allestire culle con trine e merletti.

Ci vogliono riportare agli anni cinquanta, paventano molte reazioni femminili sui social. Sì e no. È vero che la tipa (triste) con la clessidra in mano della prima cartolina pubblicitaria ricorda le ragazze (allegre) con la bottiglia di Coca-Cola in mano del decennio del boom, ma l’intera serie delle cartoline ministeriali va a pesca nell’immaginario di parecchi decenni, compreso quello attuale. Evoca l’imperativo fascista di fare figli degli anni venti e trenta, tanto per cominciare: dato che siamo in Italia, dove il fascismo è sempre endemico, si va sul sicuro.

Ma strizza l’occhio allo slang della sinistra radicale, con lo slogan “la fertilità è un bene comune”. E solletica l’etica neoliberale, col riferimento alla “creatività” delle generazioni precarie. Che volete di più da una campagna ministeriale? L’agenzia di comunicazione che l’ha prodotta deve averci pensato su bene. Col risultato di mandare in bestia tutte, e molti: c’è un troppo che storpia, e suona più o meno come una presa per i fondelli. Un messaggio di pedagogia autoritaria camuffato da pedagogia auto-imprenditoriale, in perfetto stile neolib-neocon. Troppo smaccato: perfino Renzi ha dovuto prenderne le distanze.

Epperò dev’essere vero che ogni società ha il governo che si merita. Perché le reazioni contro la pubblicità-regresso riescono a essere a loro volta non meno regressive del messaggio ministeriale. Si va dalle proteste, alla Saviano, contro l’uso statuale della fertilità come “bene comune”, che sarebbe lesivo della sua intangibilità individuale e privata, alle sollevazioni femministe contro l’ingiunzione a procreare in un paese in cui tutto, dalla disoccupazione ai bassi stipendi e dalla precarietà alla mancanza degli asili nido, fa ostacolo al desiderio di maternità.

Su tutto domina un linguaggio statistico-economico che con la lingua del desiderio ha pochissimo a che fare: è vero, il problema c’è, in Italia il tasso di natalità è troppo basso, il paese invecchia, i giovani tardano a farsi una famiglia, le donne non ce la fanno a tirare avanti lavoro (quando c’è, ma non c’è) e figli, ci vogliono politiche per la famiglia non campagne pubblicitarie a effetto… Ma siamo sicure?

Tanto per cominciare, il problema della bassa crescita, o della decrescita, demografica è un classico problema che andrebbe affrontato in termini globali e non nazionali. E in termini globali, notoriamente, il problema non c’è, semmai c’è il problema opposto. Che l’Italia, e l’Europa tutta, invecchino e mettano al mondo pochi bambini non è solo un effetto della crisi economica e dello smantellamento del welfare: è anche un effetto dei muri che si alzano, dell’arroccamento xenofobo e razzista, di politiche dell’immigrazione ossessionate dalla sicurezza e senza alcuna sensibilità demografica, di politiche militari incuranti della vita che nasce e cresce oltreconfine, per tacere di altri fattori culturali che pesano come macigni, dalla crisi dell’idea di futuro al declino dell’egemonia occidentale.

In secondo luogo, il calo della fertilità non è attribuibile solo a ostacoli di natura economica. Non si può affrontare il tema come se il desiderio di maternità fosse un dato certo, ostacolato dalla mancanza di reddito, sussidi e strutture. Un lavoro fisso, uno stipendio e un asilo nido sotto casa di certo incoraggiano a mettere al mondo un figlio più di quanto scoraggino la disoccupazione, il precariato e l’assenza di incentivi, ma poi, anzi prima, c’è dell’altro.

C’è la logica, e l’ambivalenza, del desiderio, che non è mai un dato certo: c’è e non c’è, ci può essere e può non esserci, va e viene, può imporsi e può fallire, senza per questo diminuire la pienezze della vita di una donna. C’è la logica, e la fragilità, delle relazioni fra i sessi scosse dalla fine del patriarcato, che si ripercuote per vie spesso insondabili sull’infertilità delle coppie. Ci sono le incertezze dell’identità sessuale, il gender trouble che non si sa perché siamo tutte pronte a rivendicare come fattore di libertà ma non sempre facendoci carico del trouble che comporta anche sul piano procreativo. C’è la logica imprevedibile della sessualità, che ha che fare con le ragioni dell’inconscio e non con la contabilità della spesa sociale. C’è la logica più prevedibile ma tutt’altro che certa delle tecnologie riproduttive che l’infertilità ambirebbero a risolverla. E c’è, su tutto, la libertà di non fare figli, che nel femminismo abbiamo guadagnato come libertà di grado non inferiore a quella di farli.

Quando si parla di fertilità e crescita, o decrescita, demografica, il catalogo è questo, non, o non solo, quello di un esercizio di buona volontà, come vorrebbe la pubblicità-regresso del governo, o quello delle politiche sociali inesistenti, come vorrebbe chi la contesta. È il catalogo che fu scoperchiato, agli albori del femminismo, dalla pratica dell’autocoscienza, una pratica che ci insegnò fra l’altro, vorrei dire a Roberto Saviano, come si rende politico un problema personale senza per questo renderlo disponibile a imposizioni statuali. È quel catalogo che va ripreso in mano contro l’album delle cartoline ministeriali: a patto di non pararsi, questo invece vorrei dirlo alle giovani amiche femministe, dietro una retorica di auto-vittimizzazione economica che non aiuta l’economia del desiderio.

«È inaccettabile che una società politica che non ha mai compreso e riflettuto sui cambiamenti avvenuti nella vita delle donne, e quindi di tutti, entri nel merito solo per stigmatizzarlo. E per ricondurre le donne al loro essere corpo e natura».

Il manifesto, 2 settembre 2016
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Ora che Renzi ha detto in una intervista a radio RTL 102.5 «non ne sapevo niente», il flop del fertility day sembrerebbe definitivo. Il sito è collassato, le cartoline non sono più accessibili, solo la ministra della Salute Beatrice Lorenzin si ostina a dare appuntamento al 22 settembre, la data fatale.

Ma a parte Matteo Renzi, sempre pronto ad allontanare da sé tutto quello che profuma di fallimento, non si può proprio tacere sullo stile, sul modo di raccontare e comunicare un tema che potrebbe perfino avere qualche interesse. Anche se non si capisce perché lo si debba chiamare fertilità, e non parlare di una più complessa e articolata educazione sessuale. Non sono i punti di informazione-conoscenza a essere offensivi. Lo sono le immagini, lo sono le parole. A cominciare dal lezioso cuoricino rosa, penetrato dallo spermatozoo-fumetto, trasposizione bamboleggiante dei crudi fotogrammi della fecondazione artificiale, allusione senza ironia, neanche un’eco del viaggio avventuroso raccontato da Woody Allen travestito da spermatozoo in «Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere» (1972).

E se buona parte della responsabilità appare di chi ha ideato la campagna di comunicazione, c’è da chiedersi qual è stata la commissione. Ho letto il “Piano Nazionale della fertilità”, rintracciabile sul sito del Ministero della Salute, http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2367_allegato.pdf, elaborato da un folto gruppo di esperti, che si raccomanda che «il messaggio da divulgare non deve generare ansia per l’orologio biologico che corre».

Peccato che l’immagine clou della campagna sia un’enorme clessidra in primo piano, una giovane donna che si tiene il ventre con una mano, e lo slogan: «La bellezza non ha età, la fertilità invece sì». Che sembra ideato da un team di untori, pronti a spargere l’ansia e la paura ovunque. Ma dove si rivela del tutto l’ideologia che sottintende a questi messaggi è in «fertilità bene comune», o il definitivo «prepara una culla per il tuo futuro», primo piano di una pancia femminile appena piena, con l’universale gesto della mano che la sostiene, quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca, per intenderci.

Sono testi, tra parole e immagini, che operano una completa trasposizione del corpo femminile, che viene definitamente assunto come culla naturale, non più parte di quella persona che è la singola donna, ma che lo restituiscono alla comunità. A cui la libera volontà della singola lo vuole sottrarre.

L’elemento pericoloso è che a questa conclusione si arriva dopo una perlopiù corretta esposizione, utilizzando le serie statistiche fornite dall’Istat. È della donna italiana contemporanea di cui si parla: quella che studia a lungo, che è più istruita degli uomini, che coltiva e persegue progetti di parità, di realizzazione di sé, di libertà. Eppure si conclude: «Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, pero, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternita?».

È inaccettabile che una società politica che non ha mai compreso e riflettuto sui cambiamenti avvenuti nella vita delle donne, e quindi di tutti, entri nel merito solo per stigmatizzarlo. E ricondurre le donne al loro essere corpo e natura. Non è una tendenza isolata. La libertà delle donne suscita inquietudini profonde, se il premier francese Manuel Valls, per sostenere che le occidentali si spogliano perché sono libere, non ha trovato nulla di meglio che dire che la Marianna, il simbolo della Francia, è a seno nudo perché «lei nutre il popolo».

Inquietudini e rovesciamenti che investono in pieno la cultura che un tempo si definiva progressista. E soprattutto mettono a dura prova i femminismi. Sono molte le femministe che sostengono che l’essere madri è assecondare la natura autentica della donna, il suo essere corpo. Un ribaltamento di tutte le battaglie fatte. E se perfino Renzi riesce a dire che per favorire la fertilità occorrono interventi di sostegno sociale, non farsi ricacciare nella natura riguarda tutte. E tutti, perfino.

C'è un giudice a Parigi: «un grave attentato, manifestamente illegale, alle libertà fondamentali che sono la libertà di spostarsi, la libertà di coscienza e la libertà personale».

Il manifesto, 27 agosto 2016

Dopo le polemiche dei giorni scorso il Consiglio di stato francese si è pronunciato ieri contro il provvedimento anti-burkini di Villeneuve-Loubet, uno dei circa 30 comuni francesi che avevano vietato di indossare sulle spiagge il costume integrale islamico.

La decisione è stata presa dai tre giudici del collegio esaminante e dispone l’annullamento dell’ordinanza del Tar di Nizza che convalidava quella del comune della Costa azzurra. A Villeneuve-Loubet, indossare abiti religiosi in spiaggia è di nuovo autorizzato a partire da ieri. Tutto questo dopo l’irruzione dei poliziotti che avevano intimato a una donna di togliersi il burkini; un’immagine che nei giorni scorsi aveva fatto il giro del mondo.

Negli altri comuni che hanno adottato la stessa decisione - una trentina - i divieti restano in vigore fin quando non saranno contestati davanti alla giustizia. La presa di posizione di ieri potrebbe portare all’annullamento di tutti gli altri divieti ancora esistenti.

Come sottolineato dal sito di Le Monde, quella del Consiglio di Stato è una decisione di principio che non mancherà di essere estesa a tutti gli altri casi in cui verrà fatto ricorso. Il collegio di tre giudici ha infatti sottolineato che l’ordinanza contro tenute da bagno «islamiche» rappresenta «un grave attentato, manifestamente illegale, alle libertà fondamentali che sono la libertà di spostarsi, la libertà di coscienza e la libertà personale».

« La Repubblica, 26 agosto 2016 (c.m.c.)

Oggi, a metà agosto 2016, leggo che sono già 2500 i migranti annegati nel Mediterraneo tra gennaio e maggio, un terzo in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E leggo anche che da gennaio in Francia sono morte 68 donne, uccise dai loro compagni o dai loro ex senza che la notizia finisse mai in prima pagina, giusto un caso di cronaca come tanti. Queste statistiche, che sembrano avere in comune soltanto la morte di esseri umani e l’indifferenza, l’accettazione fatalista che essa provoca, mi sono tuttavia parse, in maniera intuitiva, meritevoli di una riflessione.

In quanto donna che sa quanto sia stato lungo il cammino fatto per ottenere l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, che si è rallegrata di vederla figurare tra i “principi fondamentali” dell’Unione Europea, mi sento spesso preda di turbamenti, e scoraggiata. Ci si dice, dati alla mano, che le ragazze hanno un tasso di successo scolastico superiore a quello dei ragazzi, che svolgono ogni professione, che sono “presenti” dappertutto, come se ancora non si trattasse di qualcosa di scontato.

Ma presenti quanto, come? Queste giovani donne con più titoli di studio dei loro colleghi scompaiono per incanto prima di varcare la soglia degli uffici dirigenziali, nelle imprese, in politica, nei consigli di facoltà, nelle giurie letterarie. La lista è lunga. Quanto a quelle che, in maniera comparabile agli uomini, sono riuscite a realizzarsi come ministre, artiste, scrittrici, registe, umoriste, imprenditrici, arriva sempre un momento in cui tutte, chi più chi meno, provano l’impressione confusa di non essere considerate nei rispettivi ambiti “legittime” o “credibili” quanto i loro omologhi maschili, spesso a causa dei modi accondiscendenti, dell’eccessiva confidenza, nonché talvolta della violenza verbale cui sono esposte. Una violenza verbale che risulterebbe scandalosa se a farne le spese fosse un uomo, una violenza che riduce le donne ai loro corpi, le essenzializza.

Edith Cresson, la sola donna che finora abbia ricoperto l’incarico di primo ministro in Francia, constatava: «Se un uomo urla davanti all’Assemblea nazionale si dice: che oratore! Se a farlo è una donna si dice: guarda che isterica!». Non sopportando di essere vittimizzate, il più delle volte queste donne, e ne faccio parte anch’io, oppongono alle aggressioni la loro calma e la loro forza. Ma non fraintendiamoci: ciò che davvero sottintendono questi attacchi è la “normalità” implicitamente riconosciuta del potere maschile, nella sfera pubblica ma anche in quella privata.

Una normalità che autorizza l’accondiscendenza e le frasi umilianti, ma anche — derivanti da un’identica sensazione, dalla convinzione di poterlo fare — i palpeggiamenti, gli stupri e le violenze coniugali. Una normalità che comporta il silenzio di chi la subisce, e l’indifferenza dei media. Per fare i conti con questa realtà abbiamo avuto bisogno che, 13 anni fa tra qualche giorno, morisse un’attrice celebre, Marie Trintignant, per le percosse del suo altrettanto celebre compagno, il cantante Bertrand Cantat: non c’è donna che sia al riparo dalla violenza fisica maschile, fino a morirne.

Qual è il legame tra quanto di peggio possa capitare a una donna — questa espressione estrema di un’egemonia maschile manifesta e condivisa — e i naufragi di migranti nel Mediterraneo? Cercando di vederci più chiaro su quanto mi è venuto da collegare intuitivamente, direi che in gioco c’è il posto delle donne all’interno di un’Europa che si sta via via trasformando in una fortezza. A nessuno sfugge il ripiegamento dei Paesi europei sulle proprie identità nazionali, né il fatto che i migranti vengano percepiti nel migliore dei casi come un “problema”, nel peggiore come un “pericolo”.

Ora, nella Storia il nazionalismo è sempre stato accompagnato da valori virili, in primo luogo quello dell’autorità. Il richiamarsi a un ordine “naturale” e il ritorno alla tradizione, qualunque essa sia, sono sempre andati a svantaggio delle donne, in un modo o nell’altro. Alcune conquiste sono fragili: lo è il diritto alla contraccezione, lo è il diritto all’aborto. E aggiungerei anche il matrimonio omosessuale, a sua volta accusato da chi gli si oppone di essere contro-natura.

Assisto all’avanzata di questa ideologia conservatrice e intollerante giorno dopo giorno. Anche la cronaca francese di questi giorni me ne offre un esempio, insidioso e ingannevole: il divieto di indossare il burkini, emanato e difeso da sindaci — maschi — che lo giustificano adducendo, tra i vari pretesti, anche quello del femminismo, ergendo insomma il bikini a vessillo della nostra libertà.

L’inganno sotteso è quello di avallare in nome della libertà delle donne un tipo di provvedimento che conduce all’esatto contrario, dal momento che proprio a delle donne impedisce di vestirsi come vogliono nello spazio pubblico di una spiaggia. Il provvedimento ha suscitato un dibattito nazionale, cosa che apparirebbe surreale se non fosse evidente che si tratta di un’altra zuffa per il controllo del corpo femminile: è questo il punto a cui siamo nel 2016.

Non posso terminare questo mio breve contributo alla celebrazione di quel manifesto di Ventotene che ha gettato le fondamenta dell’Unione Europea se non auspicando l’avvento di un’Europa sociale e aperta, rivolta verso il mondo, un’Europa che sia la migliore garante della libertà delle donne.

« Il problema allora non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane». Articoli di Bia Sarasini e Michela Marzano,

il manifesto e la Repubblica, 19 maggio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto
LAICITà CHE ASSOMIGLIA AL FONDAMENTALISMO
di Bia Sarasini

È il corpo delle donne il nervo scoperto toccato dal divieto del burkini sulle spiagge francesi. Nudo o coperto, chi ha l’autorità di decidere? Ho letto incredula la dichiarazione del primo ministro francese Manuel Valls: «Non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». Perché non si tratta di una moda, ha detto, bensì dell’affermazione di un progetto basato sull’asservimento della donna. Trovo sorprendente che sia così difficile soffermarsi a pensare che una decisione presa da chi rappresenta la Repubblica, non sia molto diversa da quella di chi impone per legge il velo, la copertura totale.

Si tratta di un potere che decide come deve essere, come si deve presentare il corpo di una donna. E se Paolo Flores è coerente con le proprie posizioni, nello scrivere, che «la proibizione del burkini è una giusta protezione dei principi di laicità», mi stupisce che chi si dichiara femminista, come Lorella Zanardo, consideri opportuno e necessario, e proprio per le donne, il divieto.

Nessuno ha diritto di dire a una donna come si deve vestire, o svestire, non è questo abbiamo sempre detto, noi femministe? I codici vestimentari, i codici del corpo, tutti, sono delle trappole che imprigionano le donne. Non lo aveva ben spiegato la grande scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi, che in “L’harem e l’occidente (Giunti Astrea) ci aveva svelato la tortura della taglia 42 (peraltro ora ulteriormente diminuita)? : «Fu in un grande magazzino americano”scrive, “nel corso di un fallimentare tentativo di comprarmi una gonna di cotone, che mi sentii dire che i miei fianchi erano troppo larghi per la taglia 42. Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine di bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti quali l’Iran, l’Afghanistan o l’Arabia Saudita”. Un’affermazione forte e provocatoria, a mio parere l’unico quadro concettuale che permetta di ragionare a mente aperta e lucida sul nodo intricato che il burkini e le donne che lo portano ci costringono a guardare.

Perché si tratta di carne viva, non è un gioco di parole, provoca sussulti e reazioni. Quali? Che cosa è esattamente in gioco? La libertà di chi? Se si tratta della libertà delle donne musulmane, come i sostenitori del divieto affermano, a mia volta non ho dubbi. Meglio che entrino in acqua, che nuotino, che facciano sport, come vediamo alle Olimpiadi in corso, con una tenuta che risulti compatibile ai loro principi, al loro mondo, piuttosto che stiano ferme, chiuse, prigioniere. Muoversi è acquisire forza, determinazione, provare piaceri e soddisfazioni. La libertà delle donne è una costruzione, una trasformazione. Meglio che vadano a scuola, piuttosto che tenute in casa, perché la legge proibisce il velo che la famiglia e la religione impongono, come è in vigore Francia.

Sembrerebbe questa la molla che ha ispirato l’australiana di origine libanese Aheda Zanetti, che nel 2003 voleva qualcosa che permettesse a sua nipote di giocare a netball, a ideare il burkini, il nome è suo. Costume messo in commercio nel 2007, e che finora circa 700.000 pezzi nel mondo in varie versioni, da quella più aderente a quella più larga, a prezzi che in questo momento sul sito della stilista variano dai 35 ai 143 euro. Compromesso, minor danno? A me sembra una strada praticabile, di fatto il proibizionismo impedisce ad alcune donne di godere del diritto-libertà di stare sulla spiaggia e fare il bagno.

E se la libertà fosse quella degli uomini di avere a disposizione sulle spiagge corpi semi-nudi di cui bearsi senza ostacoli, come del resto capita negli sport, con telecamere che indugiano del tutto inutilmente, rispetto all’azione atletica, su cosce, culi, pube? O ancora, è in gioco la libertà delle donne di mostrarsi o no allo sguardo maschile? E che ne è della libertà delle donne di essere come desiderano essere, oltre quello sguardo, quei custodi che si arrogano il diritto di parlare a loro nome? Qual è il codice libero da quello sguardo dominante? Arduo rintracciarlo, nel libero-liberista mondo dell’unico mercato. E quanto alla laicità, che laicità è se si trasforma in fondamentalismo?

Non si tratta di confondere libertà e sottomissione. Conosciamo i codici, le leggi, i modelli culturali che costringono le donne a vite senza respiro e senza luce. Li combattiamo. Il primo passo è ascoltare le donne, quelle che scelgono di abbigliarsi in quel modo che tanto ci infastidisce e ci turba. Nulla mi sembra più liberatorio che guardarsi da vicino, le une e le altre, gli altri forse, senza schermi, su una spiaggia. Ti guardo, mi guardi. Ci guardiamo. Sono i divieti che creano distanze, barriere, abissi. Perché impedire che lo sguardo reciproco conduca al libero pensiero, alle libere scelte?

La Repubblica

BIKINI, BURKINI E SENSO DEL PUDORE
di Michela Marzano

Una bomba atomica sociale. Fu questo l’effetto che, nel luglio del 1946, provocò il primo bikini moderno indossato a Parigi, e così chiamato dall’inventore in onore dell’atollo del Pacifico in cui pochi giorni prima era stato fatto esplodere, appunto, un ordigno nucleare. Una bomba atomica sociale, dicevo. Anche quando, negli anni Sessanta, il bikini trovò infine la propria consacrazione sulle spiagge della Costa Azzurra. E cominciarono a essere sempre più numerose le donne felici di seguire l’esempio di Brigitte Bardot. A chi appartiene d’altronde il corpo delle donne se non a loro stesse? Non è forse loro, e solo loro, la scelta di mostrarsi o di coprirsi?

La storia della progressiva conquista della libertà e dell’autonomia femminili è nota a chiunque. Esattamente come sono note le periodiche polemiche sulla linea sottile che separa la libertà individuale dal conformismo sociale, l’autonomia personale dalla sottomissione alla moda. C’è sempre chi si erge a difensore della possibilità, per ogni donna, di gestire come vuole il proprio corpo e la propria immagine e chi, sottolineando l’impatto che le norme sociali hanno sulle attitudini e i comportamenti individuali, sottolinea invece la nuova forma di “servitù volontaria” cui si sottoporrebbero da anni le donne per corrispondere agli stereotipi di femminilità e di seduzione. Ma si può applicare questa griglia di analisi anche alle recenti polemiche scoppiate in Francia sul burkini, e alla conseguente decisione presa da alcuni sindaci di vietarne l’utilizzo in spiaggia? Siamo di fronte a una nuova bomba atomica sociale oppure la categoria della libertà, questa volta, è insufficiente a capire quello che sta accadendo?
Non è facile per chi vive in Francia da anni - e ha assistito dapprima in maniera distratta, poi in modo sempre più interrogativo, alla trasformazione progressiva di un certo numero di usi e costumi - schierarsi con chi è favorevole al divieto di andare in spiaggia con un burkini in nome dell’uguaglianza uomo-donna (perché sono sempre e solo le donne a doversi coprire?) oppure con chi è contrario al divieto in nome della libertà femminile (non spetta forse alle donne decidere se mettersi un bikini o un burkini?). E questo non solo perché non c’è vera libertà senza uguaglianza e viceversa - come sa bene chiunque si interessi alle condizioni che permettono alla libertà di esprimersi - , ma anche perché sia la libertà sia l’uguaglianza sono valori che, una volta contestualizzati, riflettono inevitabilmente le contraddizioni della società in cui si vive.
Quella Francia in cui, fino a qualche anno fa, era impensabile ascoltare il racconto di una ragazza musulmana che, una sera di Ramadan, viene apostrofata da un gruppo di ragazzi perché porta il rossetto: “Sorella! Non sai che non ci si mette il rossetto quando è Ramadan?” Quella Parigi in cui, fino a pochi mesi fa, era inconcepibile immaginare che in Università alcuni studenti spiegassero che è giusto che un ragazzo non stringa la mano di una ragazza (per pudore? per rispetto?) e che ogni donna degna di questo nome non giri da sola per strada e si copra integralmente - “un fratello non può accettare che la sorella non sia velata senza perdere l’onore!”.
L’editore egiziano Aalam Wassef ha recentemente chiesto agli Occidentali di non essere naïfs quando si tratta di discutere del significato del burkini e di non dimenticare che l’Islam non può ridursi alla visione integralista dei Salafiti. Portare il burkini, per Wassef, non sarebbe una prova di libertà, esattamente come vietarne l’uso non sarebbe una forma di islamofobia. Anche semplicemente perché ci sono tante donne musulmane che vorrebbero avere la possibilità di indossare un bikini, e sarebbe quindi estremamente difficile aiutarle a esercitare questo tipo di libertà se, arrivando in spiaggia, incontrassero gruppi salafiti pronti ad apostrofarle: “Sorella! Non sai che anche in spiaggia una donna si deve coprire?”.
Ogni essere umano, spiegava il padre del liberalismo John Stuart Mill, ha come vocazione quella di essere libero. E sarebbe un crimine contro l’umanità non rispettarne l’autodeterminazione. Anche la libertà, però, ha i suoi vincoli. E finisce laddove, in suo nome, la si cancella, visto che non può essere in nome della libertà che ci si ritrova poi in una situazione di servitù o sottomissione. Il problema allora, nel caso del burkini, non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane. Cosa le spinge o meno a coprirsi? La paura del giudizio o delle sanzioni da parte dei familiari? I precetti religiosi? Il desiderio di opporsi ai valori occidentali? Il pudore? Certo, la libertà individuale è sempre sacra. Ma non ha ragione anche Lacordaire quando, nel XIX secolo, ci ricorda che “tra il forte e il debole è la libertà che opprime e la legge che affranca”?

«Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa». Il manifesto, 4 agosto 2016

E siamo a settantasei. 76 donne uccise, finora in Italia, nelle forme più varie ed efferate, dagli uomini che avevano scelto. Per una breve storia, un incontro, o anche per tutta la vita. L’ultimo episodio è successo in provincia di Caserta, dove Nicola Piscicelli ha assassinato con 12 coltellate alla schiena la moglie Rosaria Lentini. Nel frattempo è morta Vania Vannucchi, 46 anni, a cui ha dato fuoco un collega, infermiere come lei, che non rassegnava a essere mollato.

Anche se nega, ha moglie e figli, ma non sa giustificare l’ustione al braccio. Colpisce il fuoco, un sistema facile per togliere la vita, basta un liquido altamente infiammabile e un accendino. «È stato un raptus» ha detto Piscicelli, nel consegnarsi alla polizia. «Spero che non si usino più, raccontando queste storie, termini ambigui e giustificatori come raptus, gelosia, disagio, rifiuto. Sono solo squallidi criminali e schifosi assassini» ha scritto il presidente del Senato Piero Grasso nella sua pagina fb. Parole forti di un uomo, che si rende conto di quanto la cultura maschile, anche quando non vuole, attenua e occulta la gravità e il senso dei gesti compiuti.

Parole ancora più forti le ha dette papa Francesco, qualche giorno fa, sull’aereo di ritorno da Cracovia. «A me non piace», ha detto, «parlare di violenza islamica, perché tutti i giorni quando sfoglio i giornali vedo violenze, quello che uccide la fidanzata, un altro la suocera, questi cattolici battezzati sono violenti cattolici e se parlo di violenza islamica devo parlare di violenza cattolica». I violenti cattolici, i violenti occidentali sono quelli che uccidono le loro donne.

Se con queste parole Bergoglio mette fine alla millenaria complicità del cattolicesimo con il potere maschile sulle donne, nella famiglia, l’equivalenza da lui enunciata tuttora non appare limpida a tutti, e tutte. Chi sgozza un prete sull’altare sembra più violento di chi colpisce la moglie 12 volte con il coltello. Sembrerebbe che l’amore, la passione, la gelosia rendano tutto più comprensibile, perfino irrilevante a leggere tante cronache in cui delitti efferati scivolano via come se nulla fosse. Eh no, dice il Papa, con un intervento che avrà un gran peso, è la stessa violenza di chi uccide in nome di Dio.

Cito il Papa non per particolare venerazione, ma perché incide nel cuore di quella visione che regge il sistema che attribuiva ai maschi un potere sulle donne. Anche i più miserabili, quelli agli ultimi gradini della scala sociale, spettava almeno una donna. Nessuno avrebbe sindacato su come la trattava. La benevolenza dipendeva solo da lui. Mostrano a tutti, le parole di Francesco, che quel sistema è destabilizzato fin dalla radice. «Non c’è più religione», è una battuta fin troppo facile che coglie una sostanziale verità, dice il sommovimento che ha investito gli uomini, che non capiscono più il mondo in cui vivono. Da padroni che erano si trovano privi di tutto, compreso il premio promesso.

Gli omicidi di questi anni non hanno più nulla a che fare con l’antico delitto d’onore, pratica inserita con piena legittimità nell’ordine riconosciuto del patriarcato.

Ora chi uccide difende un sé maschile smarrito in un mondo incomprensibile, in cui non c’è più un posto predeterminato dalla nascita, perché ti capita di essere maschio. Per questo è importante quello che dicono gli uomini, o non dicono, il lavoro iniziato da alcuni per dipanare la fitta trama delle complicità e delle omissioni. Non tutti uccidono, o stuprano, o picchiano. Troppi provano gusto a denigrare le donne in quanto tali, si divertono a farlo o a vederlo fare. La radice è la stessa, anche se l’azione è diversa.

Quanto alle donne, la loro autonomia è un fatto reale, di popolo. Riguarda tutte, non poche signore delle élite, questa massa indica la forza del cambiamento. E per quanto riguarda i pericoli reali, ci sono tutti gli strumenti. Le leggi, che non bastano se non c’è l’educazione, la prevenzione. Ci sono i centri anti-violenza.

Perché si tagliano i fondi? La ministra Maria Elena Boschi ha convocato un summit per l’8 settembre. Ma non ci vuole un summit speciale, per ri-finanziare i centri. O è solo propaganda?

«». La Repubblica, 8 maggio 2016 (c.m.c.)

NEL GIORNO della festa della mamma è bene ricordare che le mamme italiane sono insieme tra le più denigrate per quanto succede ai loro figli (dall’accusa di mammismo che impedirebbe ai figli di diventare autonomi, a quella di narcisismo se appena distolgono lo sguardo da quello che viene loro assegnato come compito principale, se non esclusivo) e le meno sostenute nella vita quotidiana.

Il Rapporto di Save the Children reso pubblico qualche giorno fa — “Le Equilibriste, da scommessa a investimento: maternità in Italia” — riprende e allarga quanto era già emerso dal rapporto “Come cambia la vita delle donne”, una delle ultime fatiche curate per l’Istat da Linda Laura Sabbadini e dalle sue collaboratrici.

In Italia ci sono oltre 4 milioni e mezzo di donne che vivono con figli dagli 0 agli undici anni, ovvero con un’età che richiede ancora una forte intensità di cura e presenza. Sono le donne che fanno più fatica a stare nel mercato del lavoro proprio per il carico di lavoro non pagato e più in generale delle responsabilità di cura e supervisione genitoriale loro attribuite in modo quasi esclusivo. In tutte le fasce di età, e soprattutto tra i 30 e i 49 anni, infatti, il tasso di occupazione delle donne che vivono da sole è simile a quello degli uomini. Ma a differenza di quanto avviene ormai da decenni negli altri Paesi sviluppati, già il vivere in coppia provoca una diminuzione.

La diminuzione, quindi la distanza rispetto ad un tasso di occupazione maschile che non è certo tra i più alti in Europa e nell’Ocse diviene molto marcata quando si tratta di madri: 35 punti di differenza per le 25-29enni, 34 punti per le 30-34enni, in aumento per ogni figlio aggiuntivo.Simmetricamente, cresce il distacco dagli uomini, dai padri, nel carico di lavoro non pagato. Nelle coppie le donne fanno il 76,5% di tutto il lavoro famigliare, una percentuale di poco inferiore a quella rilevata nel 2003, senza molte differenze tra chi ha e chi non ha figli. Ciò significa che, a fronte dell’aumento del lavoro famigliare dovuto alla presenza di figli, una volta divenuti padri gli uomini, nel migliore dei casi, ne fanno qualche mezzora in più, ma non modificano la propria quota complessiva.

Ciò spiega il divergente comportamento di madri e padri nel mercato del lavoro, con conseguenze su redditi personali, carriere, contributi pensionistici e futuro ammontare delle pensioni, asimmetrie nei rischi economici e organizzativi in caso di rottura di coppia. Le madri separate e divorziate, infatti, da un lato sono a rischio di caduta in povertà, dall’altro devono essere disponibili a stare (o rientrare) nel mercato del lavoro in maggior misura di quelle ancora in coppia, nonostante debbano per lo più far fronte da sole, senza alcun contributo del padre, anche al lavoro familiare legato alla presenza dei figli.

Il tutto in una situazione in cui l’offerta di servizi per l’infanzia e di scuole a tempo pieno, già non generosissima e fortemente diseguale sul territorio nazionale, si è ridotta e/o è diventata più costosa, rendendone difficile l’accesso ai ceti più modesti e in cui la precarietà del lavoro rende particolarmente vulnerabili le madri.Si spiega così come mai l’Italia sia solo al 111 posto su 145 Paesi nel Rapporto globale sulla disparità di genere per quanto riguarda l’accesso al lavoro remunerato.

Naturalmente esistono forti differenze e diseguaglianze tra madri: tra chi ha una istruzione elevata (laurea) e chi una bassa (scuola dell’obbligo), tra chi vive nel Centro-Nord e chi vive nel Mezzogiorno. Secondo il Rapporto di Save the Children, tenendo conto di indicatori diversi (tassi di occupazione, servizi, divisione del lavoro famigliare), la regione più “amichevole verso le mamme” risulta essere il Trentino Alto Adige, seguito nell’ordine da Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Piemonte e poi dalle altre regioni del nord, che mostrano in generale condizioni più favorevoli alla maternità. In fondo alla classifica è la Calabria, preceduta di poco da altre regioni del Mezzogiorno come Puglia (16), Basilicata (17), Sicilia (18) e Campania (19).

Anche rispetto alla maternità, quindi, le disuguaglianze sociali e territoriali disegnano un’Italia in cui le chance di vita e i gradi di libertà nell’utilizzarle sono più accentuate di quanto non sarebbe accettabile in un Paese democratico. Non deve perciò stupire che oggi siano proprio le regioni meridionali, che tradizionalmente avevano tassi di fecondità più alti di quelli del Centro-Nord, a contribuire in maggior misura al bassissimo tasso di fecondità rilevato nel nostro Paese.

Per festeggiare davvero le mamme, più che una festa simbolica e zuccherosa una volta all’anno, occorrerebbe ampliare i loro gradi di libertà e non costringere le donne, specie quelle più svantaggiate, nella alternativa maternità o lavoro di sapore ottocentesco.

per la democrazia, e alla scarsa attenzione al problema da parte della sinistra. Rifondazione.it newsletter, 24marzo 2016)


Sonosolita dire da un po’ che se il femminismo non cerca trova altri punti di partenza, non può resistere alla recente, non ancora del tutto consolidata,vittoria del Patriarcato; ma che ciò non blocca la crisi capitalistica, la qualeanzi, con l’appoggio del “patriarcato gentile” va sempre più non già verso l’uscitadalla crisi, con una nuova gloriosa socialdemocrazia, detta pure“riformismo”, bensì a capofitto nella barbarie che ha il nome proprio di“guerra”.
Vogliocercare di spiegarmi bene: che cosa sia il patriarcato è noto e qui non ho da inventare nulla. Che il patriarcato stia vincendo si vede dall’ininterrottoe non risolutivo dominio della finanza in economia. Che la sua incipiente“vittoria” sia una sciagura, si vede dalle vicende greche; dallaperdita di significato della parola “classe”; dalla trasformazionedel sindacato in corporazione (cioè dal “progresso” verso il Feudalesimo!), dall’emergere di una emancipazione ottusamentemimetica, che produce persino le ragazze “bulle”, nonché le ministre adoranti, come quelle del governo Renzi o le parlamentari come la Moretti chesvolgono benissimo la parte di altoparlante del “capo”. E mi spiace molto didover mettere in elenco pure la vicesegretaria nazionale del Pd, che è una donnaintelligente, la quale non può non capire quel che fa.
Citroviamo dunque in una fase - che non credo sarà lunga, ma non è nemmeno un attimo fuggente - di regresso e di caduta. Da qualche tempo, sia purein modo apparentemente casuale emergenziale e non organizzato, nè analizzato a dovere, si palesano alcune “maglie rotte” nella rete della barbarie del capitalismoin crisi strutturale globale e -credo- finale (crisi, non crollo). Mentre ciòsuccede, sembra che ciò che viene chiamato “sinistra” non se ne accorga nemmeno, non ne abbia coscienza e provi a fare del riformismo,senza nemmeno riuscire, proprio nei paesi dove la socialdemocrazia europeafu più gloriosa e consolidata, a contenere le crescenti spinte razziste, guerrafondaiee neocolonialiste, cioè fascisteggianti.
Collocoqui il fenomeno che chiamo “patriarcato gentile”, cioè quello “di sinistra”, che usa persino a volte il linguaggio inclusivo, dice “ministra” o“sindaca”, che non dice più “porca Eva”, anzi persino avanza analisisulla “democrazia imperfetta per le donne”. Qui è il possibile aggancio nuovo. Prendo in considerazione una dichiarazionedelle N.U. (da alcuni decenni si chiamano Nazioni Unite e non più ONU) fontenon sospetta di posizione preconcetta progressista, ma abbastanza attendibile,che suona: “Le donne sono ormai stabilmente la maggioranza della popolazionedel pianeta e di ogni paese che lo compone e occupano ovunque gli stratipiù modesti”. Se volessi tradurre subito in politichese sinistrese direi:dunque noi donne siamo il nuovo proletariato mondiale o almeno la sua stabilemaggioranza.

Milimito ad osservare che se le donne sono ormai la stabile maggioranza della popolazione,“una democrazia imperfetta per le donne” è “una democrazia imperfetta” e basta. Toccherebbe a tutte e tutti rispondere correttamenteal conseguente “che fare?” A destra si accetta sia pure di malavogliae col contagocce di mollare un po’ di potere (bisogna dire che socialmente la destrane ha di più e il sacrificio é minore). Ma a “sinistra” il niente. Nonsono disposta a considerare “sinistra” una cosa così. Ripartiamoin ogni circostanza col ricordare che noi siamo la maggioranza e che chi non loriconosce, non può di conseguenza dichiararsi se non conservatoreo addirittura reazionario. E avanti tutta!

Silvia Truzzi intervista Luciana Castellina: «Dagli attacchi alla Meloni e alla sua gravidanza,a quelli della Bedori. Eppure siamo alsettantesimo dal suffragio universale. Oggi il problema è un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa». Il Fatto quotidiano, 21 marzo 2016

Abbiamo rincorso Luciana Castellina per gli aeroporti di Roma, Atene e Parigi. Alla fine l’abbiamo trovata Oltralpe, a casa di Ginevra Bompiani, scrittrice ed editrice di Nottetempo. Parliamo di donne e politica nella settimana della polemica su Giorgia Meloni, candidata sindaco in dolce attesa.
Cosa pensa della decisione di candidarsi nonostante la gravidanza? E delle reazioni maschili?
Non mi è piaciuto affatto che a criticare la Meloni per la sua scelta sono stati solo gli uomini: che stiano zitti. Sa perché le donne non si sono azzardate a dire nulla? Perché sanno che è una decisione personalissima. Sono tante le donne che fanno figli e continuano a lavorare. Abbiamo ministri, in tutti i Paesi, che hanno avuto bimbi durante il loro mandato. Fare il sindaco è un lavoro impegnativo ma non credo non si possa avere il tempo di allattare! Io con la Meloni ce l’ho per ragioni molto più serie, perché è una fascista, è sguaiata e ha posizioni politiche per me inaccettabili
Interviene Ginevra Bompiani: “È una furbetta la Meloni, altroché. A me non piace affatto. Sta usando strumentalmente la gravidanza per avere consenso. Basta vedere co-me e dove l’ha annunciata: dal palco del Family day”.

In tanti han
no criticato
l’annuncio
 fatto in quel
 contesto: non
 si può dire “proteggiamo i bambini” e poi utilizzarli o dare l’impressione di farlo. La stessa Meloni all’inizio aveva indicato nella gravidanza un ostacolo alla candidatura.
Sull’annuncio al Family day ono perfettamente d’accordo con Ginevra: mi ha dato molto fastidio. Ma la scelta di candidarsi resta sua. Io ho lavorato fino al momento del parto e non avrei accettato da nessuno imposizioni in questo senso.

Patrizia Bedori, rinunciando a correre per Palazzo Marino a Milano, ha detto di essere stata insultata perché non avvenente. Stessa cosa pare essere capitata alla segretaria di un circolo Pd di Bologna. Per anni si è detto che Berlusconi candidava solo belle ragazze, ma qui parliamo di mondi che dovrebbero avere tutt’altra cultura. Questo modo di guardare le donne ha contagiato un po’ tutti?
Ma certo che il contagio c’è stato: una bella ragazza ha più chance perché non importa quello che pensa o quello che sa, importa che sia carina. La Bedori ha ragione da vendere. È un insulto a tutte le donne. A nessuno viene mai in mente di dire che questo o quel politico è brutto: e dire che di Adoni ce ne sono pochi, sono quasi tutti bruttissimi.

L’obiezione che potrebbero fare a lei è: “Facile dirlo da parte di una donna straordinariamente bella”.
Mi offenderebbe terribilmente se qualcuno mi dicese che ho fatto o scritto delle buone cose perché avevo le gambe dritte. E ribadisco: mai che si pensi a queste sciocchezze per i maschi.

Quest’anno ricorrono i settant’anni del suffragio universale. Lei non ha votato al Referendum del ‘46, ma si ricorderà certamente il clima di quel momento storico. Il bilancio che ne fa dopo tanti decenni?
Mi ricordo l’emozione di mia nonna. Per lei era un fatto rivoluzionario, sconvolgente. Per mia madre già meno: faceva coincidere questa cosa con la caduta del Fascismo. Allora ci fu un acceso dibattito all’interno del Pci. Tanti dicevano “per carità, le donne vanno in chiesa a confessarsi e i preti le faranno votare per la Dc. Perderemmo un sacco di voti”. Poi arrivò Togliatti che disse: “Ma che siete matti? È molto più importante che le donne possano votare, che diventino soggetti consapevoli della vita sociale”. Fu una vera battaglia. Questo per dire che nel ’46 perfino nel Partito comunista il suffragio universale era in discussione. La battaglia delle donne è una delle poche che abbiamo vinto: oggi non potremmo mai dire a una ragazza che ha meno diritti di un ragazzo.

Sulle quote rosa le posizioni sono molto diverse anche tra le stesse donne. C’è chi dice: è un modo per ghettizzarci e “Non mi sento rappresentata da una donna solo perché è donna”. Ma l’obiezione è ragionevole: se non colmiamo questo divario “ex legge” le cose resteranno così per sempre. Lei, che è stata parlamentare sia a Roma che a Strasburgo, quale posizione sposa?
L’idea stessa che sia una quota minoritaria e non al 50 per cento è un modo per rendere legale l’inferiorità delle donne: lo trovo molto umiliante. Ciò detto, ci sono momenti in cui si fanno anche battaglie tattiche. E siccome i simboli contano molto, vedere un po’ di donne nei cda di importanti società aiuta l’immaginario. E di questo c’è bisogno. Dunque vanno bene le quota rosa, provvisoriamente, ma sempre continuando a dire che la quota resta minoritaria.

Il governo Renzi è stato inaugurato all’insegna della parità: otto ministri, otto ministre. Basta?
Il punto che interessa le donne è che i governi facciano scelte che tengano conto delle caratteristiche e delle necessita delle donne nell’organizzazione sociale, soprattutto nel mondo del lavoro. Una donna che entra in un’organizzazione completamente basata sulla cultura maschile non serve a nulla. Però resta l’importanza del simbolo.

La presidente della Camera insiste molto sulla questione linguistica. L’anno scorso, in occasione dell’otto marzo, Laura Boldrini scrisse una lettera ai parlamentari chiedendo che negli interventi in aula le cariche e i ruoli istituzionali venissero richiamati nelle forme corrette, secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono. Lei cosa ne pensa?
Io faccio parte di una generazione per cui non è naturale declinare le parole al femminile. Ma è colpa mia. Torniamo al valore simbolico delle cose: pensi a quanto è stato importante negli Stati Uniti che si cominciassero a vedere facce nere in posti di potere e nelle istituzioni. La stessa cosa vale per gli interventi della Boldrini sull’immagine della donna nelle pubblicità: fateci vedere qualche maschio che fa il bucato, lava i piatti e serve a tavola.

Qual è stata la battaglia più importante vinta dalle donne in questi settant’anni?
Capire che il nostro scopo non doveva essere diventare come gli uomini. Sembra una banalità, ma per arrivarci io ci ho messo un sacco di tempo. Ho vissuto a lungo come una frustrazione il fatto di essere donna. Come una specie di handicap. C’era, da parte degli uomini, una diffidenza preconcetta che oggi in larga parte non c’è più. Era il riflesso del nostro sentirci inferiori. Ora il problema non è più questo. Ma un’organizzazione della società ancora basata sul fatto che le donne per lavorare e avere una vita privata devono fare una fatica mostruosa. Mi colpisce sempre la percentuale delle donne manager: quelle che hanno figli sono il 35% contro il 95% dei loro colleghi maschi. Come dire: si può accedere a posizioni importanti, ma rinunciando a qualcosa d’importantissimo.

A proposito delle polemiche provocate dagli strumentali attacchi dei campioni del maschilismo italiano (B&B) a Meloni una riflessione che ricorda, ai più vecchi, temi degli anni 60 del secolo scorso. LaRepubblica, 16 marzo 2016

PER le donne sembra non ci sia mai il momento giusto per dedicarsi al lavoro, alla politica, all’impegno sociale, al perseguimento di un interesse. Se non hanno figli potrebbero tuttavia averne in un prossimo futuro; quindi sono considerate un rischio per i datori di lavoro. Se ne hanno di piccoli, sono inaffidabili perché devono occuparsi di loro. Se ne hanno di adolescenti, è bene che non li perdano di vista perché potrebbero mettersi nei guai.

Gli uomini invece no, possono dedicarsi anima e corpo al lavoro, alla politica, o a qualsiasi altro interesse, anche se hanno figli. Forse è per questa visione ottocentesca condivisa ancora da troppi uomini italiani, specie a capo di aziende o in politica, che l’organizzazione del lavoro è così ostile alle mamme lavoratrici, si investe così poco nei servizi, gli orari delle organizzazioni politiche e sindacali sono così difficili da conciliare con la vita e le responsabilità familiari, per le donne e per gli uomini. Se anche i padri si occupassero di più dei figli, forse penserebbero a modelli organizzativi più ragionevoli. Avviene già in altri paesi, dove non a caso si vedono anche più donne, anche mamme, in politica e a dirigere aziende. E dove i padri prendono qualche mese di congedo per stare con i figli piccoli.

In Italia invece c’è chi, non avendo mai lontanamente pensato di fare una cosa del genere e neppure, avendone il potere (da premier, oltre che come capo di aziende), ha mai fatto nulla per facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare, si permette di dare consigli su come dovrebbe comportarsi una vera madre. Tra l’altro, sembra che ogni figlio di donna in politica (o comunque in carriera) nasca orfano di padre. La presenza di questi non è prevista come adeguato sostituto della madre nelle ore o giorni in cui questa non potesse essere accanto al piccolo. Quanto al congedo di maternità, evocato da Berlusconi come impedimento alla candidatura di Meloni, è un diritto duramente conquistato dalle donne lavoratrici, per proteggerne la salute, dare loro tempo con il neonato, non esporle al rischio di licenziamento. Ma non le esime, per lo più, dal lavoro domestico e dalla cura dei figli, se ne hanno già altri. E molte libere professioniste o artigiane, per necessità o scelta, non abbandonano del tutto il lavoro anche durante il congedo. Ho il sospetto che lo stipendio da parlamentare, ma anche da sindaco di una grande città, consenta di delegare ad altri il lavoro domestico e anche parte della cura del neonato, a differenza di quanto avviene per molte madri lavoratrici. Decidere di assumere un impegno gravoso durante la gravidanza e dopo il parto può essere una scelta che si può o meno condividere individualmente, non da impedire o dichiarare impossibile.

È vero che la prima ad alludere ad una incompatibilità tra maternità imminente e candidatura a sindaco era stata proprio Giorgia Meloni, quando ha utilizzato il palcoscenico del Family day, con i suoi slogan sulle nette distinzioni tra padri e madri, per annunciare di essere incinta. È probabile, tuttavia che, al netto della strumentalizzazione della circostanza per accreditarsi in quell’elettorato, Meloni si riferisse a un suo personale, comprensibile, desiderio di godersi gravidanza e primi mesi di vita del bambino, senza imbarcarsi in una impresa indubbiamente faticosa, non ad una impossibilità, o incapacità a tenere insieme le due cose. E in effetti, anche prima di decidere di candidarsi, non ha smesso neppure un giorno la propria attività politica, dando anche più di un indizio che, forse, era stata troppo precipitosa nel chiamarsi fuori. Chissà se gli interessati consigli che sta ricevendo dai suoi (ex?) alleati, così intrisi di antichi stereotipi di genere, non la facciano guardare con maggiore spirito critico alle sue battaglie contro “la teoria gender”.

Una festa per la metà dell'umanità largamente incolpevole di ciò che l'altra metà ha combinato, rendendo invivibile e disumano il pianeta nel quale insieme viviamo. Il manifesto, 8 marzo 2016

Non c’è molto da festeggiare, e molto per cui lottare, in questo 8 marzo 2016. Questa ai miei occhi la sintesi di un anno complesso e di una scadenza che ritorna politica, dopo anni di allegre feste popolari tra amiche. Un appuntamento che cade in un momento in cui non solo i temi e le questioni aperte dalle donne e dai femminismi sono al centro della politica, per tutte e tutti, ma soprattutto delle femministe risultano fondamentali le chiavi di lettura, le interpretazioni, spesso le più incisive per comprendere un mondo sempre più caotico.

Un’efficacia che va perfino al di là della consapevolezza delle femministe, una consapevolezza necessaria, per dare senso alla forza sedimentata in anni di lavoro e di politica. Dalla piazza di quarant’anni fa, le manifestazioni dell’8 marzo 1976 sono state le più imponenti del femminismo degli anni Settanta. Lì apparvero le streghe tornate a far tremare il patriarcato, oggi le femministe possono rompere gli schemi in cui viene codificato lo scontro sociale in epoca neoliberista.

Ricordiamo tutti e tutte la Sylvesternacht di Colonia, l’allarme del capodanno dei molestatori. La montatura mediatica – come si è accertato mano mano – costruita intorno al preteso attacco deliberato alle donne occidentali da parte di uomini “Nordafricani e arabi”, si è accompagnata alla domanda accusatoria ripetuta da varie parti: dove sono le femministe? Che sarebbero colpevoli di rompere il fronte dell’Occidente, di rinunciare a difendere la propria solidarietà. Mentre è vero il contrario. È solo la cultura politica delle femministe, che permette di decodificare la trasversalità della violenza maschile senza cedere ai buoni sentimenti, alla solidarietà senza giudizio. Non occorre essere accomodanti con gli uomini, mussulmani e non. La critica radicale del patriarcato non ha indulgenze per nessuno, e proprio per questo è uno strumento efficace per spezzare la propaganda della “guerra di civiltà”. È una specie di bisturi politico, che taglia alla radice l’asse “noi e loro”. Per questo è così avversato.

Altrettanto colpevoli sarebbero le femministe italiane, almeno quelle che non si accodano al proibizionismo universale contro la “maternità surrogate”, o meglio Gpa, gravidanza per altri. Non perché si sia cieche verso lo sfruttamento, categoria improvvisamente comparsa nel dibattito politico dopo essere stata cancellata da qualunque altro contesto, di lavoro per esempio. Ma nelle pratiche femministe si impara ad ascoltare, guardare con i propri occhi, prendere atto che le persone coinvolte hanno molto da dire, che non coincide con i giudizi tranchant. Soprattutto le femministe hanno molto da dire sulle famiglie, che spesso sono gabbie terribili, e che se sono belle non hanno molto a che fare con le tradizioni e i ruoli imposti. E lo sfruttamento contro il quale lottare, non può essere confinato alla sfera della riproduzione.

Che non è, non può essere l’unico elemento per cui parlare in nome delle donne. Le donne non coincidono con l’essere madre. La maternità oggi è una scelta, perfino nei mondi che ci ostiniamo a pensare arcaici. L’essere madre non definisce la soggettività di una donna. Sia quando lo è che quando non lo è. Così si scopre che i cambiamenti reali - in effetti oggi le donne nel mondo fanno meno figli di un tempo, e anche per le madri l’arco di tempo in cui effettivamente ci si occupa dei figli è relativamente breve, in vite sempre più lunghe – fanno a fatica a entrare nella mente di ciascuno. Gli ideali si rifanno al passato, e il presente viene percepito come disordine, confusione. Un bel terreno di lotta.

Certo, il 2016 potrebbe essere l’anno in cui Hillary Clinton diventerà finalmente presidente degli Stati Uniti. E una governante di alto livello, anche se conservatrice come Angela Merkel, rischia la sua notevole forza politica per un’impopolare posizione di accoglienza nei confronti dei rifugiati. Il quadro del potere, e soprattutto del potere simbolico, è mosso, articolato. Il governo italiano è pieno di donne importanti. A gestire una guerra è una donna, Roberta Pinotti, e le riforme hanno nomi di donna, Maria Elena Boschi e Marianna Madia.

Cambia qualcosa? Si potrebbe dire che più ci sono donne visibili e potenti, più diventa chiaro che la parità è un obiettivo necessario eppure fasullo. Un trucco da agitare, se non diventa vera equità sociale. A che serve il 50e50, se il welfare viene smantellato? Se l’aborto incontra un’obiezione di coscienza quasi al 70 per cento, rendendo a volte inevitabile il ricorso al mercato clandestino, salvo poi essere multate, le donne, per questa illegalità? E se le madri singole non hanno i supporti necessari non possono che risultare quello che sono: le più povere, in tutti gli indici di povertà.

Per questo i femminismi sono più vitali che mai. Essere donna è sempre l’occasione di una presa di coscienza, dell’occasione di diventare una soggettività attiva, politica. Un accumulo di forza da spendere. Per sé, per il mondo, per la propria libertà, per la libertà di tutte e tutti.

«Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo».

La Repubblica, 5 marzo 2016

La conquista del diritto di voto è stata per le donne di gran lunga più difficile che per ogni altra fetta di popolazione, non solo in Italia. Come Natalia Aspesi ha scritto su Repubblica introducendo il film Suffragette, la lotta per il suffragio è stata lunga e dura, in tutti i paesi, anche quelli di storia liberale come l’Inghilterra, o quelli che nacquero sul consenso elettorale e l’eguaglianza, come gli Stati Uniti. È quindi giusto dire che il decreto legislativo più rivoluzionario che ha avuto l’Italia fu quello a firma De Gasperi- Togliatti che in data 31 gennaio 1945 riconobbe il diritto delle donne al voto, anche se non all’eleggibilità, una discriminazione che sarebbe caduta di lì a poco: ventuno furono le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente.

Quello suffragista fu il primo movimento globale, la prima forma di mobilitazione rappresentativa che conquistò legittimità mediante l’opinione e grazie a celebrità intellettuali che associarono il loro nome alla causa. Harriet Taylor e il marito, John Stuart Mill, furono tra i primi europei a collaborare al movimento, raccogliendo finanziamenti e scrivendo proclami. Chi come Mill o il nostro Salvatore Morelli provarono ad avanzare proposte di legge in tal senso trovò in parlamento un muro: la proposta di Mill ottenne una settantina di voti, quella di Morelli non venne neppure discussa.

Certo, vi erano state, anche in Italia, proposte per concedere alle donne il diritto di voto amministrativo: ci provò Minghetti appena dopo l’unità, e poi il sindaco di Firenze, Peruzzi, la cui moglie aveva anche organizzato un salotto di discussione per preparare l’opinione suffragista. Tra gli invitati vi era il giovane Vilfredo Pareto, allora un sostenitore radicale del suffragio femminile (e della rappresentanza proporzionale!) e ammiratore del Subjection of Women (La servitù delle donne) di Mill che Annamaria Mozzoni tradusse in italiano nel 1870. Ma seppure moderata (e reiterata altre volte fino all’avvento del fascismo), la proposta del voto amministrativo non decollò.

Quale la ragione di tanta ostilità? L’argomento più usato, un pregiudizio radicato da secoli, era quello dell’impossibilità della donna di sviluppare ragionamenti di giustizia perché incapace di giudizi di imparzialità. Destinata dalla natura a procreare e prendersi cura della specie, l’intelletto femminile era portato a comprendere l’utile vicino e l’interesse parziale della sua famiglia, non quello lontano e generale. La donna era votata all’economia domestica quindi; quella politica era privilegio dei figli, dei mariti e dei padri.
Quando questa idea così radicata nella cultura occidentale entrò in crisi? Questa domanda consente di mettere a fuoco la portata rivoluzionaria del suffragismo. Fu la trasformazione del voto da funzione (in difesa di interessi) a diritto della persona la chiave di volta. Infatti, se la rappresentanza deve essere espressione degli interessi che gli eletti svolgono con libero mandato e competenza, perché il suffragio universale? James Mill, il teorico del governo rappresentativo, scrisse negli anni Trenta dell’Ottocento che siccome ogni interesse riflette quello degli altri, sembra ragionevole che il voto del capofamiglia porterà in Parlamento anche le esigenze dei componenti della famiglia, per cui non serve che i giovani maschi e le donne votino. Fino a quando il voto fu inteso come funzione e non come diritto di sovranità, l’esclusione delle donne fu ritenuta funzionale alla loro vocazione di cura e giustificata con l’argomento della rappresentanza surrogata.
Il Settecento radicale - l’illuminismo francese - fu lo spartiacque. Quando il voto, a partire da Rousseau, divenne la “volontà” del sovrano come libertà di darsi leggi, allora il non voto parve subito segno di assoggettamento. Mary Wollstonecraft volse questo argomento contro Rousseau stesso, il quale aveva escluso le donne dalla città mostrando quanto il pregiudizio potesse contro la logica. Ma con la Rivoluzione francese, il mutamento del paradigma della legittimità politica fu radicale. Di qui si fece strada l’idea che il governo fondato sul consenso elettorale non era semplicemente rappresentativo degli interessi, ma costituzione di libertà. E nel 1792 Olympe de Gouges presentò al governo rivoluzionario una Déclaration des droits de la femme nella quale venivano richiesti per le donne tutti i diritti civili e politici.
Siccome il voto è potere, non potersi difendere da esso godendo di un potere eguale si traduce nel sottostare a un potere arbitrario. In questa nuova concezione del voto è radicata l’idea della designazione elettorale diretta da parte dei singoli, in quanto non parte di gruppi, ceti o classi; non perché portatori di specifici interessi da difendere: ecco l’argomento rivoluzionario dell’idea del suffragio come diritto individuale nel quale si inserisce il suffragismo. Un movimento che cominciò proprio insieme all’idea del cittadino come parte uguale della nazione, sede del popolo sovrano. Ecco perché la decisione che la Consulta prese nel 1945 approvando l’estensione del diritto di voto ai cittadini e alle cittadine, “senza distinzione”, fu rivoluzionaria e coerentemente democratica.
Ricordiamolo tutti e tutte, non solo il prossimo 8 marzo, che la democrazia repubblicana e il maggior potere del popolo li abbiamo conquistati grazie all'apporto tenace e continuo delle donne capaci di lottare.

La Repubblica, 3 marzo 2016

IL CINEMA propone gli albori delle mobilitazioni per il suffragio femminile attraverso il protagonismo militante di donne che hanno cambiato la storia. Il diritto di voto è un lungo cammino attraverso il Novecento, una tensione verso traguardi e obiettivi lontani. Per le donne è una sfida continua che si rinnova negli angoli più diversi del pianeta dove quel diritto non viene riconosciuto.

Nell’Italia piegata dal fascismo e dal conflitto mondiale il primo voto femminile cade nel marzo di 70 anni fa, nelle elezioni amministrative che inaugurano la partecipazione politica del dopoguerra. A più di dieci mesi di distanza dalla liberazione del 25 aprile 1945 la cifra della democrazia passa per l’inclusione di tanti con il conseguente allargamento delle basi di legittimazione della Repubblica. Il diritto di voto diventa un grimaldello che segna l’inizio di una nuova stagione, l’avvio di una fase costituente sotto tanti punti di vista (materiali, spirituali, istituzionali). Nel riconoscimento di un diritto individuale si saldano strategie e processi di lungo periodo: la ricerca di forme di partecipazione, l’avvio di possibili esperienze collettive, le opzioni sulle scelte fondanti di chi voleva cambiare rotta. La Repubblica diventa lo spazio per le nuove strategie di cittadinanza: per la prima volta si può pensare o tentare di diventare cittadine.

Una successione di 5 domeniche (10, 17, 24, 31 marzo e 7 aprile 1946) compone la prima tornata amministrativa dell’Italia liberata. La seconda qualche mese dopo, tra ottobre e novembre. In mezzo tra i due appuntamenti il referendum del 2 giugno, la scelta tra monarchia e repubblica e la contestuale elezione dell’assemblea costituente. Il voto per i comuni è quindi un passo verso il suffragio. La prima tornata nelle domeniche di 70 anni fa prevede il voto in 5722 centri (quasi l’80 per cento dei comuni del Nord, più dell’84 del Centro e quasi il 74 per cento di quelli del Sud); sono chiamati alle urne quasi 20 milioni di elettori, in maggioranza donne (quasi un milione più degli uomini). L’affluenza supera di poco l’82 per cento. È un successo diffuso, un fiume di partecipazione che unisce il paese in un clima di festa.

Le cronache locali raccontano il nuovo inizio: «La presenza di queste donne, madri, vecchie, suore, operaie e contadine dinanzi ai seggi ove vengono per la prima volta a fare uso del più alto diritto civile e ad affermare la vera appartenenza al corpo sociale, ha consigliato gli spiriti a un rispetto quasi religioso del luogo e delle persone. Le donne sono state la grande novità di queste elezioni: popolane e signore, vecchie e giovani, sole o in compagnia. Parecchie mogli hanno potuto dividere con il marito l’attesa e poi l’emozione del voto; si sono viste giungere intere famiglie, magari divise nei pareri ma a braccetto.
Anzi l’elemento femminile è accorso per primo davanti alle sezioni. Molte donne uscite dalle chiese dopo la prima Messa si sono recate subito a votare per poter tornare a casa ad accudire alle faccende domestiche. Non sono mancate le donne con il bambino in braccio. Il piccolo intruso è stato causa di un certo imbarazzo quando la mamma ha dovuto entrare nella cabina». Tra gli eletti una giovane sindaco nel comune di Massa Fermana. Molti anni dopo ha scritto senza retorica della sua esperienza di amministratrice e di un’Italia in divenire: «Trattandosi di un piccolo comune povero, bisognoso di tutto, da tutti dimenticato, da Dio e dagli uomini, ho dovuto farmi carico di grossi problemi quali le strade, le fogne, le scuole, le case, l’acqua, la luce. Dico senza presunzione farmi carico perché tutte le fatiche dell’amministrazione ricadevano, quasi esclusivamente sulle mie spalle. Rimboccandomi le maniche sono riuscita a risolvere molti problemi urgenti. Questo è il mio curriculum». Un lascito prezioso quel «farsi carico», frutto delle scelte dei partiti di massa vogliosi di radicarsi e rafforzarsi nella nascente democrazia (Togliatti e De Gasperi su tutti), delle aperture interessate della Chiesa e soprattutto della spinta di organizzazioni femminili da mesi impegnate nella campagna per ottenere il diritto di voto.

La premessa di un lungo dopoguerra è ben racchiusa nelle riflessioni autobiografiche che Norberto Bobbio ha dedicato alle origini della democrazia italiana venti anni fa, in occasione del cinquantenario del 1946: «Quando votai per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile ’46 avevo quasi trentasette anni. L’atto di gettare liberamente una scheda nell’urna senza sguardi indiscreti, un atto che ora è diventato un’abitudine, apparve quella prima volta una grande conquista civile che ci rendeva finalmente cittadini adulti. Rappresentava non solo per noi ma anche per il nostro Paese l’inizio di una nuova storia».

Intervista di Eliana Gilet all'attivista femminista Silvia Federici, raccolta in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. La pubblichiamo su eddyburg anche in preparazione dell'8 marzo,

Comune.info, newsletter, 29 febbraio 2016

Il capitalismo si è costruito sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura ma non è stato capace di superare l’ultima frontiera: produrre la vita al di fuori del corpo della donna. Lo ricorda, in questa lunga e densa intervista, Silvia Federici. Ci hanno convinto che la produzione è un fine in sé, che non ha rivali in termine di valore e pertanto la vita deve esservi sottomessa. Questa mostruosità ha permeato anche tutti noi, l’abbiamo interiorizzata, così riduciamo l’importanza del tempo e del rapporto con gli altri. Nella violenta offensiva contro la gestione comunitaria della terra, poi, l’attacco alle donne è fondamentale perché sono loro che tengono unita la comunità, che difendono più direttamente la vita e sono investite dal processo che la riproduce

Dove sono le donne nella lotta di classe? Per Silvia Federici la chiave per questa risposta si trova nella divisione del lavoro e nel “grande territorio di sfruttamento” che è il lavoro domestico. “Il capitalismo – dice – si è appropriato del lavoro non retribuito, ha costruito sé stesso sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura. Tuttavia non è un lavoro marginale bensì il più importante, soprattutto perché produce la capacità delle persone di poter lavorare”

L’opera fondamentale della Federici si intitola Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, pubblicata nel 2004. In questo testo realizza uno studio storico sulla “caccia alle streghe” che ha inizio nel XV secolo quando l’Europa, alle origini del capitalismo, frazionò le terre comunali trasformandole in proprietà individuali che vennero concesse agli uomini. In quell’occasione, la coltivazione per la sussistenza fu separata dalla coltivazione per il mercato, le donne vennero relegate in secondo piano e sui loro corpi furono ingaggiate le battaglie che portarono molte di loro sul rogo, soprattuto le anziane depositarie di saperi e di cultura.

A Silvia Federici si mescolano un po’ le parole: “Quando sono stanca, parlare in spagnolo non è facile” dice, però fa questo sforzo, attenta alla prima domanda.

C’è una spiegazione storica per l’aumento della violenza contro la donna?

«È importante riconoscere che in questa società la violenza è sempre stata presente in forma potenziale nella relazione tra uomini e donne. Molte donne vengono picchiate se non hanno preparato da mangiare, a molte viene detto che non devono uscire la sera, che devono rimanere in casa e accudire i loro figli, è parte delle regole del lavoro domestico. Credo però che dietro all’aumento di questa violenza ci siano molte ragioni.

«La prima è la ricerca di autonomia, il rifiuto di eseguire quelle attività che tradizionalmente hanno sempre fornito agli uomini. La ricerca di indipendenza avvicina le donne al pericolo: ad esempio, con l’immigrazione che espone le donne alla violenza delle autorità di frontiera; o nel lavoro domestico presso persone che non conoscono e dove vengono maltrattate. Questo non significa che le donne devono rimanere a casa, ma vuol dire denunciare una situazione in cui per raggiungere l’indipendenza economica sono soggette a grandi rischi nell’ambito del lavoro

«In secondo luogo, penso che le donne sono state e sono coinvolte in molte lotte, tanto che la violenza non proviene solamente dai singoli uomini ma è violenza di Stato e dei gruppi paramilitari (Federici si ferma su questo punto del suo discorso che, dice, non è secondario). Le donne hanno difeso un uso non commerciale della ricchezza della natura perché hanno un concetto diverso su ciò che è prezioso. Cos’è che dà sicurezza? Non hanno fiducia nel denaro, bensì nella sicurezza di avere animali, mucche, alberi. Contro di loro c’è violenza perché sono le protagoniste di tante lotte».

Si può tracciare un collegamento tra le violenze del Medioevo e quelle attuali?

«Negli ultimi due decenni si è verificata una nuova forma di ciò che Marx ha definito “accumulazione primitiva o originaria”: una nuova fase di smisurato ampliamento del mercato globale, per il quale è necessario trasferire e distruggere molte comunità. Vengono attaccate le terre comunali ma anche le relazioni prodotte dalla gestione comunitaria della terra. L’attacco alle donne è fondamentale oggi, così come lo è stato nei secoli XVI e XVII: perché sono le donne quelle che tengono unita la comunità, sono le donne che sono coinvolte nel processo di riproduzione, sono loro che difendono in maniera più diretta la vita delle persone.

«Colpire le donne è colpire la comunità. Pensa a questo: l’accusa di stregoneria è perfetta per disintegrare una comunità, per quanto è una teoria che mi piacerebbe comprovare maggiormente. Si basa sul principio del nemico interno: quella che sembra una vicina, di notte si trasforma, in una riunione mostruosa, assieme ad altre come lei. È un modo per instaurare la paura di relazionarsi con altre donne: pertanto ha distrutto la solidarietà, perché venivano obbligate a denunciare le altre».

Cos’è che ha generato questa nuova fase della produzione capitalistica volta ad alimentare il mercato finanziario?

«Mi sembra importante sottolineare un altro problema: proprio su questi temi, ci hanno fatto un lavaggio del cervello, ci hanno convinto che la produzione è un fine di per sé, che nulla la equivale in termini di valore, che la saggezza è sottomettere la vita umana alla produzione.

«È uno dei principi fondamentali del capitalismo e in base ad esso tutto è legittimo: l’omicidio, la rapina, la guerra. Tuttavia questo ha permeato anche la nostra personalità, lo abbiamo interiorizzato. Sono molti anni che sento che il mostro è dentro noi stessi: si tende, ad esempio, a ridurre il tempo che di dedica all’amicizia, all’amore, all’incontro.

«Raúl Zibechi mi ha detto che il tempo condiviso è un elemento chiave nelle comunità zapatiste. Mi sembra fondamentale e allo stesso tempo tanto difficile, perché dobbiamo cambiare noi stessi, convincerci che una delle ricchezze più grandi è il rapporto con gli altri. E che uno dei compiti più importanti è sviluppare la nostra personalità. Viene attribuito valore a un telefono nuovo, ma non alla capacità degli esseri umani di essere più solidali, di non essere ostili, di non trattare gli altri come nemici. Non viene attribuito valore allo sviluppo della capacità di comprensione, di compassione ed empatia con tutto il resto.

«Nel capitalismo la collaborazione è importante solamente quando serve a produrre qualcosa che si può commercializzare: è per questo che abbiamo bisogno di un cambiamento di soggettività. In una villa di Buenos Aires ho incontrato delle donne che mi hanno colpito per la loro grande personalità. Hanno fatto assemblee e discusso su ciò di cui avevano bisogno: avere illuminazione nel quartiere, asfaltare la strada perché non si riempia di fango quando piove. Questo ha significato molto lavoro, ma soprattutto tante decisioni. Quando ti muovi al di fuori della logica dello Stato e del mercato, tutto diventa un rischio. Tutto è rischio.Bisogna valutare bene quello che è importante e quello che non lo è, e questo è un criterio che si elabora assieme agli altri. Può essere definito solo a partire da una rapporto di solidarietà».

Le nuove forme di resistenza passano attraverso l’incontro?

«Il concetto di creare il comune significa anche ricostruire il tessuto delle nostre società. Ognuna delle ondate di espansione capitalista ha distrutto le relazioni di fiducia, di conoscenza e la prossimità. Per esempio, negli ultimi 30 anni, negli Stati Uniti la ristrutturazione del territorio ha distrutto tutte le comunità industriali del nord-est. Comunità dove le persone avevano lavorato per anni e avevano costruito forme di contropotere perché si conoscevano e sapevano che quando c’era uno sciopero il tuo vicino era al tuo fianco, ti avrebbe sostenuto. Tutto è stato distrutto.

«Perché oggi è così facile espropriare, gentrificare? Perché non c’è nulla che unisca le persone ai luoghi. Ci sono città americane dove la tutta popolazione è nuova. Non si conoscono e quindi non hanno capacità di resistenza. La gente non è pazza. Non si può resistere all’oppressione e alla dominazione se non si ha fiducia che gli altri lottino assieme a te».

Potresti fare alcuni esempi su dove vedi questa resistenza?

Ci sono molti modi e non tutti sono ugualmente efficaci. Uno di questi implica la creazione di forme di riproduzione fuori dal mercato. Quando iniziamo a stare assieme e a pensare di costruire qualcosa in comune è chiaro che la maggioranza delle persone vive inserita in una rete di relazioni capitalista e all’inizio non può sapere se quello che sta facendo è capitalista o anticapitalista, se crescerà o cambierà.

«Tuttavia è chiaro che noi non possiamo resistere se non cominciamo a ricostruire questa rete di relazioni, che è il tessuto della nostra vita, a costruire relazioni che ci danno sostegno, solidarietà, fiducia. Opporsi alla militarizzazione della vita, alla disoccupazione, all’impoverimento intellettuale o morale: è questa, oggi, la problematica comune. Penso anche agli studenti e alla privatizzazione della conoscenza, resistere contro la mercificazione della conoscenza, che costringe ad indebitarsi per studiare.


Né la terra, né le donne siamo territorio di conquista. Una scritta delle Mujeres Creando boliviane

«Le lotte contro l’espropriazione della terra sono tra le più importanti. Quando le grandi imprese di sementi, le società dell’agrobusiness, controllano le terre del mondo e noi non abbiamo nessun rapporto con quanto mangiamo, non abbiamo nessun rapporto con la natura, allora siamo come animali ingabbiati nelle città. So che alcuni economisti marxisti, celebrano la città come il luogo delle grandi relazioni. La città, tuttavia, è una realtà sociale che dipende molto dalla campagna. Quando non si controlla niente della campagna, dei boschi, della costa, dei mari, si è completamente vulnerabili verso ciò che viene imposto. Non abbiamo nessun controllo. Ed è questo che accade. E poi c’è la questione indigena, della quale non voglio parlare perché non la conosco bene».

Quali sono gli effetti di questa fase globale sui nostri corpi?

«Il corpo della donna viene sempre di più trattato come una macchina. Un esempio sono gli uteri in affitto: le donne che vengono fecondate non vengono trattate come madri dei bambini che stanno procreando. Nei contratti che firmano, viene loro proibito di sviluppare affetto per quel bambino che partoriranno. Un altro attacco è legato alla cosmesi. Nel movimento femminista le donne hanno lottato contro l’estetica come disciplina, che è stata usata per dividere le donne: questa commercializzazione del corpo della donna sta facendo il suo ritorno.

«Penso però che sia nel campo della salute dove tutto ciò diventa più evidente. Quando scopri di avere una malattia grave, tutto diventa terribile se non hai accanto una comunità che può aiutarti a capire cosa sta succedendo, a pensare ai diversi tipi di terapia, ad accompagnarti dai medici. Se non hai questa comunità, sei perduta. Il protocollo medico contro il cancro ha una concezione militare della terapia: si combatte il cancro, si distrugge, lo si attacca, e in forma molto traumatica. Il cancro al seno è un esempio paradigmatico di come vengono imposte terapie che non prendono in considerazione quello che le donne provano, le loro paure, la possibilità di cure alternative. Negli Stati Uniti si formano gruppi di donne affette da cancro al seno che si riuniscono per darsi sostegno. Questo mi sembra indicativo del grado di isolamento esistente in questa società. L’isolamento è pericoloso perché ti indebolisce: indebolisce te e la tua capacità di resistenza. Spesso dico che il corpo della donna è l’ultima frontiera del capitalismo. Produrre vita al di fuori del corpo della donna è l’ultima frontiera che il capitalismo non è stato capace di oltrepassare».

Qual è il ruolo della memoria storica in tutto questo?

«Mi sembra importante stabilire, a differenza della teoria dominante, che il capitalismo ha prodotto povertà, non ricchezza. Almeno per noi c’è stato un impoverimento. Abbiamo perso il nostro rapporto con la natura. Come potevano i polinesiani navigare senza strumentazioni ma solo con la conoscenza che il loro corpo aveva del movimento delle onde? Non lo posso sapere: abbiamo perso il rapporto con il nostro corpo e con gli altri. Il capitalismo ci ha rinchiusi in queste cose piccole, isolate, in questa paura degli altri. L’impoverimento ha le sue radici nel non essere capaci di comprendere ed apprezzare la ricchezza della relazione con gli altri. Non solo questo: l’impoverimento ha le sue radici anche nell’aver perso la capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande che il singolo individuo. Questo tema è un’ossessione per me. Ci hanno confinati in cose tanto piccole.

«Il capitalismo è iniziato con la recinzione dei campi per espellere i contadini, ma anche per recintare le persone. Hanno tagliato la relazione con la natura, hanno tagliato la relazione con gli altri. Hanno tagliato la relazione con il nostro corpo: mi riferisco a questa forma di autodisciplina del distacco, questo processo di estraniamento dal proprio corpo.

«Questo è impoverimento: quando ci si sente una cosa piccola, isolata e non parte di qualcosa di più grande, di una storia. È importante capire che molte persone si sentono connesse con un insieme di relazioni che va oltre la loro stessa vita, che nella fine della loro vita non vedono la fine di tutto, che vedono la propria vita continuare in quella degli altri. Questo significa sentirsi parte di qualcosa di più grande. Quando si ha paura degli altri, quando non si è capaci di apprezzare e capire la ricchezza del rapporto con gli altri, allora sì che si è poveri».

Silvia Federici è nata 1942 a Parma ma ha vissuto e insegnato negli Stati Uniti, dove è molto nota come attivista femminista marxista. Ha però lavorato in Nigeria per molti anni ed è stata cofondatrice della Committee for Academic Freedom in Africa. Fa parte, tra le molte altre cose, del Midnight Notes Collective. Questa intervista è stata realizzata in occasione del Congreso de Comunalidades che si è tenuto a Puebla, in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. È stata inizialmente pubblicata su Desinformemonos e poi ripresa anche da Brecha

Un graffiante e argomentato documento femminista di Alessandra Bocchetti, Ida Dominijanni, Bianca Pomeranzi, e Bia Sarasini squaderna questioni drammaticamente aperte delle civiltà contemporanee.

L'internazionale online, 3 febbraio 2016

Una mano nera si allunga sotto le gambe inguainate in un collant bianco di Angela Merkel fino a toccarle il sesso; la parte superiore del suo corpo è ancora coperta da una delle sue ben note giacche colorate, ma ormai, questo vuole dire l’immagine, la regina è nuda, messa in scacco dall’intrusione molesta dell’uomo nero. È il disegno pubblicato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung a commento e sigla dei fatti di Colonia. Al sessismo degli “uomini neri” che la notte di Capodanno hanno molestato le “donne bianche”, gli “uomini bianchi” rispondono con lo stesso sessismo contro la loro cancelliera.

Risposta oscena ma, nel suo estremismo, veritiera. Che avesse ragione Michel Houellebecq, nel suo pur assai misogino Sottomissione? Gratta l’odio dei maschi europei verso gli invasori islamici, e ci troverai l’invidia. L’invidia per la sottomissione delle donne di cui gli invasori, al contrario degli invasi, possono ancora godere. Un’invidia esattamente speculare a quella degli invasori per la libertà sessuale femminile di cui possono disporre gli invasi, facilmente intuibile sotto quel “desiderio d’occidente” che ha spinto gli aggressori della notte di Colonia a mimare a modo loro, violentemente, l’allegro e alcolizzato godimento che impazza in quella come in tante altre città europee a capodanno.

Dall’11 settembre in poi, dovremmo averlo capito una volta per tutte dalla scenografia hollywoodiana di quei due aerei che infilzarono le torri gemelle e stuprarono Manhattan (anche allora, guarda caso, si ricorse alla metafora dello stupro), gli atti di violenza e di terrore che in occidente vengono interpretati come se provenissero dall’altro mondo sono intrisi di tracce, tecniche, usi e costumi che provengono dal nostro. Altro che il ritorno delle tribù che qualcuno ha voluto vedere in azione a Colonia: la “superiorità” dell’occidente è dura a morire, e se non fa più ordine nel mondo reale detta ancora legge nell’immaginario globale. Gli “altri” vi si specchiano, anche quando le fanno violenza.

Fatti

Nel gioco degli specchi i fantasmi, si sa, sono di casa. E forse è per questo che sulla piazza di Colonia hanno preso forma e consistenza molto più rapidamente dei fatti reali. Sui quali c’è ancora, un mese dopo, parecchia nebbia. Di che cos’è accaduto quella notte sappiamo l’essenziale, ma parecchi particolari non secondari non li conosciamo e probabilmente non li conosceremo mai.

Un branco di giovani uomini, forse cinquecento forse mille, “di aspetto arabo e nordafricano”, ubriachi e assembrati dentro la stazione, si è riversato a gruppi nella piazza del Duomo circondando, derubando, palpeggiando e molestando pesantemente un centinaio di donne bianche perlopiù tedesche, da sole o in coppia con un’amica o con un uomo o in gruppo, il tutto nella completa passività della polizia che è stata a guardare senza rendersi conto di quello che stava accadendo, e comunque incapace di impedirlo.

Le ricostruzioni, basate sulle testimonianze femminili e sui rapporti della polizia medesima, descrivono dettagliatamente le molestie e le ruberie subite dalle donne; alcune vittime raccontano di aver temuto di rimetterci la pelle. Restano però aperti molti buchi. Chi erano, da dove provenivano, come erano arrivati lì quegli uomini, e perché li si era lasciati riunire nella stazione? Se erano tutti “di aspetto arabo e nordafricano”, come mai tra i 31 fermati per aggressione e rapina figurano anche uno statunitense e tre tedeschi? Erano anche loro nordafricani trapiantati negli Stati Uniti e in Germania, o la loro presenza segnala che bisogna andarci piano con le identificazioni fatte sulla base del colore della pelle?

Tra quei 31 fermati, 19 sono richiedenti asilo, e di questi uno solo è sospettato di molestie; secondo una testimonianza raccolta dal New York Times, inoltre, quella notte una turista statunitense è stata salvata da un cordone di siriani richiedenti asilo; qualche giorno dopo alcune centinaia di rifugiati siriani hanno manifestato contro la violenza, il razzismo e il sessismo. Questi numeri giustificano la messa in stato d’accusa della politica sui rifugiati di Merkel?

Ancora. La polizia, pur in stato di allerta contro il rischio di attentati, si è rivelata del tutto impotente a contenere e disperdere il branco di aggressori, e ha taciuto l’accaduto per quattro giorni, come pure la tv pubblica tedesca. Questa impotenza e questo silenzio si devono a una pruderie “politicamente corretta” a favore dei migranti, come s’è urlato in Germania e in Italia? O piuttosto alla sottovalutazione della violenza sessuale in un paese dove una donna su tre dice di averla subita da uomini che per il 70 per cento non sono arabi ma tedeschi, e in cui la notte di capodanno, come durante l’Oktoberfest, si chiude un occhio di fronte a qualche palpatina?

Infine ma non ultimo: violenze analoghe si sono verificate in contemporanea, quella stessa notte, in altre città tedesche e in Svezia, in Finlandia e in Austria, e questo fa legittimamente sospettare che si sia trattato di una provocazione concertata – un sospetto che a un certo punto è diventato una certezza, sparata sui giornali in prima pagina in Germania e in Italia, per poi essere smentita il giorno dopo. Possibile che i potenti mezzi dell’intelligence tedesca ed europea non sappiano rispondere sì o no a questo sospetto, pure cruciale per valutare l’entità dell’accaduto? Di nuovo: minimizzano per fare un piacere alla politica d’integrazione di Merkel, come sostiene l’opinione di destra? O perché considerano l’accaduto bagatelles pour dames, com’è lecito supporre?

Fantasmi

Non avremo mai risposta a queste domande, per la ragione molto semplice che la notte di Colonia ha ottenuto l’effetto che doveva ottenere a prescindere dallo svolgimento dettagliato dei fatti. E l’effetto consiste in una rapida e potente mobilitazione dell’immaginario europeo, nonché di quello islamico, in materia di sesso e razza: due fattori che quando si intrecciano, e oggi sulla scena globale si presentano sempre intrecciati, sono capaci di produrre miscele esplosive.

Sul versante islamico, ci auguriamo che non faccia testo la convinzione dell’imam di Colonia che le donne, quella notte, le molestie se le sono cercate, coperte com’erano più di profumo che di abiti: ma certo le sue dichiarazioni “estreme” la dicono lunga sul regime del dicibile che autorizza quella che dovrebbe essere una guida spirituale a istituzionalizzare la segregazione femminile (e del resto, come scandalizzarci? Quante volte il “se l’è cercata” giustifica tuttora, da noi, la violenza sessuale?).

Sul lato occidentale, l’antico fantasma coloniale della mano nera che violenta la donna bianca, ben rappresentato dal disegno del Süddeutsche Zeitung, è tornato a materializzarsi, aggiornato, in un’Europa ossessionata da frontiere vacillanti, migrazioni incontenibili, calo della natalità, pericolo terrorista, declino economico, impotenza neoliberale, fallimento politico.

L’aggiornamento del fantasma coloniale significa, in questo quadro, il suo automatico reclutamento nel presunto “scontro di civiltà” in corso. L’uomo nero diventa l’islamico che inferiorizza le donne, proprie e altrui, e attraverso l’attacco alle donne bianche attacca l’intera civiltà occidentale, che invece le donne le ama, le emancipa, le libera, le tutela con i diritti, le presidia con i “suoi” uomini, pronti a scendere in campo a difesa delle “loro” donne.

Ne consegue l’arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici: quelle che ad arruolarsi non ci stanno, quelle che sulla civiltà occidentale e sul suo amore per le donne nutrono qualche dubbio, quelle che la violenza contro le donne la vedono anche in occidente e non solo in Medio Oriente, quelle che sulla difesa dei “loro” uomini avanzano qualche sospetto, quelle che nei confronti delle donne musulmane non ergono il muro dei diritti conquistati o la montagna dei vestiti comprati agli ultimi saldi, ma lanciano il ponte di una tessitura comune della libertà femminile.

Noi femministe, in sostanza, iscritte d’ufficio al fronte nemico dell’ipocrisia “politicamente corretta” verso il fanatismo islamico. Salvo ritrovarsi poi, i nostri accusatori, con le statue del Campidoglio coperte in omaggio al presidente iraniano Rohani per decisione di stato o di governo.

Streghe

“Dove sono le femministe?”. Quando ancora le notizie da Colonia arrivavano goccia a goccia, è partita la caccia alle streghe. Trovato il colpevole numero uno, l’uomo nero, la grancassa mediatica, maschile e femminile, è partita alla ricerca della colpevole numero due, la femminista bianca. Rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende?) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini su qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”.

Le femministe, nel frattempo, a Colonia erano già per strada, a manifestare contro il sessismo e contro il razzismo insieme. E ovunque, in Europa e fuori dell’Europa, erano all’opera per fare il contrario dei talk show e della stampa generalista: capire una situazione nuova e complicata e interpretarla non istericamente, due cose che l’isteria massmediatica non contempla.

E parlavano ovunque potessero, cioè fuori del circuito ufficiale dell’informazione che non le interpella in modo da poterle accusare di stare in silenzio, di essersi dileguate, di non esistere, di avere perso. Parlavano e dicevano quello che ovunque, a est a ovest, a nord e a sud, vanno dicendo dall’11 settembre in poi: che non si lasciano arruolare in nessuno scontro di civiltà per la buona ragione che le civiltà in questione sono entrambe marcate dal patriarcato, entrambe fratturate al loro interno dalla contraddizione fra i sessi ed entrambe segnate, positivamente, dal conflitto tra i sessi innescato dalle donne.

Ragion per cui la trave nell’occhio dell’altro non ci esime dal guardare la pagliuzza nel nostro. E l’orgoglio per le nostre conquiste di donne occidentali non ci esime dal riconoscere le battaglie di libertà delle donne non occidentali.

Monopòli

Non c’è il monopolio islamico della violenza e dell’inferiorizzazione femminile. E non c’è nemmeno il monopolio occidentale e democratico della libertà femminile.

Le molestie della notte di Colonia evocano a tutte noi situazioni molto familiari. Gli sguardi eccitati e fra loro complici degli uomini che tuttora si ritrovano da soli nei bar dei nostri paesi. I branchi di giovani maschi che molestano le studentesse, e talvolta le stuprano, nelle nostre scuole. Il senso di insicurezza e vulnerabilità che ci accompagna specialmente la notte per strada, come una seconda pelle. I racconti di stupri, violenze, femminicidi che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. I fraintendimenti maschili sulla disponibilità sessuale femminile che riempiono la posta del cuore dei nostri settimanali.

Potremmo continuare ma non serve: la violenza di uomini contro le donne è, purtroppo, uno dei pochi esempi di comportamento universale che il mondo globale ancora conosce. E non diminuisce ma tende addirittura ad aumentare nei paesi dove l’emancipazione femminile è più consolidata. La hybris maschile non si ferma davanti ai diritti costituzionalmente garantiti, alla parità di genere, alla cittadinanza, all’attività lavorativa e al protagonismo politico delle donne: al contrario, sembra che se ne alimenti, forse perché ne ha paura.

Questo significa che non c’è nessuna parentela automatica, nessun rapporto di causa-effetto tra la civiltà occidentale e la libertà femminile. La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale.

Le democrazie contemporanee registrano a fatica questa conquista, traducendola e spesso tradendola nel linguaggio della parità e dei diritti. Ma tra la libertà femminile e gli ordinamenti occidentali resta aperta una tensione: la libertà femminile resta affidata in primo luogo alle donne stesse, alle loro lotte e alla loro autonomia. Men che meno è possibile identificare la libertà femminile con la libertà di mercato o con un non meglio precisato “stile di vita occidentale”, come l’ideologia neoliberale martellante ci invita a fare dalle colonne dei principali giornali italiani.

Vestirsi o andare al cinema e in discoteca a proprio piacimento sono certo cose piacevoli e irrinunciabili, ma possono sottintendere condizioni di dipendenza dal mercato, dal denaro, da canoni imposti, dallo sguardo altrui che hanno poco a fare con la libertà esistenziale e politica che abbiamo guadagnato con il femminismo. L’occidente non è l’Eden della libertà femminile: ed è solo assumendo questa posizione critica nei confronti della “nostra” civiltà che possiamo sporgerci su altri mondi, o sull’impatto di altri mondi con il nostro.

Differenze

Quando diciamo o scriviamo queste cose, alcune amiche ci rimproverano di usare il patriarcato come categoria universale indifferenziata, finendo col fare di ogni erba un fascio senza vedere che il patriarcato si intreccia con differenti sistemi di dominio, si cristallizza in differenti gradi di oppressione femminile e di sopraffazione maschile, domanda differenti strategie di lotta. Non è così. Siamo ben consapevoli, tristemente consapevoli, che oggi la radicalizzazione politico-religiosa peggiora la vita delle donne nei paesi islamici, legittimando su base ideologica il dominio maschile.

Siamo consapevoli che la violenza sulle donne è diventato per il gruppo Stato islamico e per Boko haram uno spietato carosello pubblicitario, che sulle donne di piazza Tahrir si è scaricata la frustrazione maschile di una rivoluzione perdente, che in paesi come l’Afghanistan taliban le donne sono di nuovo costrette a una segregazione che sembrava essere stata superata. E sappiamo di essere inadeguate di fronte a questi come ad altri effetti delle guerre e del disordine mondiale di oggi, perché le guerre impediscono in radice quella pratica di relazione con l’altra che nella politica delle donne è irrinunciabile e che l’indignazione e gli attestati di solidarietà, per quanto urlati, non possono sostituire.

Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza. Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti. Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.

Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica. Laddove si creano ghetti di soli maschi, che siano islamici o no, il pericolo del branco è sempre in agguato. Laddove si organizzano e si tollerano tratte femminili, la prostituzione e il suo sfruttamento sono garantiti. E tuttavia, ci sarà pure da riflettere di fronte al fatto che è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale.

Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.

Questa almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.

Cori noir

È bastata l’aggressione di una notte a Colonia e nelle altre città coinvolte per trascinarci in un baleno tutte, occidentali e nordafricane, nella casella delle vittime designate, pericolanti e perdenti del supposto “scontro di civiltà” in atto. Ma la vittimizzazione delle donne è una delle più frequenti strategie del loro addomesticamento: serve a nascondere e a deprimere la soggettività femminile e le pratiche sociali, politiche, artistiche in cui si esprime.

Ovunque oggi, in un quadro planetario attraversato da faglie, guerre e mutamenti inediti, le donne lottano per la propria libertà, ovunque aprono conflitti con l’altro sesso, ovunque escono dagli schemi imposti, ovunque tradiscono le ingiunzioni normative sulla loro esistenza, ovunque intrecciano relazioni con donne di cultura e provenienza diverse. Questo “ovunque” vale da mezzo secolo in qua, lo ricordiamo a quanti sui mezzi d’informazione ci danno per morte e per sconfitte ogni volta che possono, nelle democrazie occidentali. Ma vale oggi, in primo luogo, per il mondo musulmano.

Lo sappiamo da analiste competenti, che inascoltate ci spiegano le differenze, le articolazioni, le combinazioni tra legge religiosa e leggi statuali interne a quel mondo, e le connesse differenze nella condizione, nella soggettività e nella rivolta femminili. Lo sappiamo dalle migranti che incontriamo nella nostra quotidianità, dalle storie che ascoltiamo nei centri antiviolenza a cui le più sfortunate si rivolgono per trarne la forza di ribellarsi a un padre o a un marito o un fratello, dalle testimoni sopravvissute alle guerre, dalle protagoniste delle rivolte.

Lo sappiamo dai racconti delle scrittrici, dalle opere delle artiste, dai film delle registe, dal pensiero delle filosofe, dalle letture del Corano delle teologhe. E sappiamo anche che la strada della libertà delle donne musulmane non passa sempre né necessariamente per la loro occidentalizzazione, vale a dire per un’emancipazione laica, giuridicamente assistita dalla sintassi dei diritti e dalla retorica della parità, e tanto ribelle all’ingiunzione a velare il corpo femminile quanto obbediente all’opposta ingiunzione a scoprirlo.

Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.

C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.

Nel mondo globale la legge del padre, che nella modernità ha assicurato il suo supporto simbolico agli ordinamenti politici e statuali, non fa più ordine. In questo disordine si aprono molti varchi per atti di violenza maschile nostalgici e reazionari, ma se ne aprono altrettanti per costruire pratiche di libertà femminile e reti di relazione tra donne, che tradiscono l’appartenenza a questa o quella civiltà e ai rispettivi feticci e inventano forme inedite di politica basate sullo scambio, il conflitto e la mediazione tra esperienze, storie, radici, orizzonti di senso differenti.

Bocche velate

L’ascolto dell’altra e dell’altro, della sua esperienza e della sua storia, delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi traumi e delle sue risorse, è una condizione necessaria per ritessere la trama della civiltà in una direzione opposta allo scontro tra le civiltà. Non ci aiuta e anzi ci è di ostacolo, in questo, il frastuono della macchina mediatica italiana, tutta programmata non per ascoltare ma per urlare.

Abbiamo già detto della caccia alla strega femminista che è scattata subito dopo i fatti di Colonia, una strega accusata, senza essere interpellata, di silenzio colpevole, di connivenza con l’ipocrisia favorevole ai migranti politicamente corretta, di usare due pesi e due misure contro gli uomini di casa sua e contro gli stranieri. Ma non è un problema che nasce a Colonia: questo schema si ripete, insopportabilmente uguale, a ridosso di qualunque evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi. La molla che scatta è sempre la stessa, il tentativo di liquidare il femminismo e le femministe decretando che hanno perso e distorcendone o sminuendone le posizioni.

La futilità programmatica che non da oggi caratterizza buona parte del giornalismo italiano si fa, quando c’è di mezzo il femminismo, più approssimativa e grossolana. Come se parlando di donne tutto fosse lecito, come se la cronaca non avesse precedenti, come se la parola femminile non contasse niente, come se le posizioni politiche e culturali femministe non avessero il diritto alla distinzione, all’analisi, alla discussione che si riserva alla chiacchiera maschile: e soprattutto come se non esistessero nella loro autonomia, ma solo come appendici subalterne della sinistra e della destra, o comunque di schieramenti e conflitti disegnati altrove.

Un immaginario misogino, maschile e femminile, prende così il posto dell’analisi della realtà. E la delegittimazione del femminismo diventa una posta in gioco, nient’affatto secondaria, di qualunque “guerra culturale”: accompagnata, va da sé, dalla promessa che ci penseranno i “nostri” uomini, d’ora in poi, a difenderci da quello che non siamo in grado di contrastare noi.

Questa prassi corrente dei mezzi d’informazione mainstream non è meno violenta delle mani maschili che si sono infilate sotto i vestiti delle donne la notte di Colonia. E dice, torna a dire, che ogni qual volta è sotto attacco il corpo femminile, è la parola femminile il vero obiettivo, la vera minaccia, il target da abbattere: qui, nell’occidente della libertà di espressione, non lì, nel Medio Oriente delle bocche velate. Abbiamo scritto questo testo per mostrare che quella parola è viva e non si lascia silenziare.

Qui è possibile scaricare il pdf di questo articolo. Qui c’è la traduzione in inglese.

Prime adesioni: Maria Luisa Boccia, Maria Rosa Cutrufelli, Elettra Deiana, Sara Gandini, Diana Sartori, Tamar Pitch, Chiara Zamboni, Luana Zanella, Edda Billi, Maria Brighi, Paola Mastrangeli, Rosanna Marcodoppido, Marinella Perroni, Ilaria Fraioli, Carlotta Cerquetti, Giovanna Borrello, Sandra Macci, Daniela Dioguardi, Vittoria Tola, Susanna Menichini …

Verità nascoste, si chiama la rubrica settimanale della giornalista Sarantis Thanopulos. Il modo di considerare le donne e i migranti è un utile strumento per comprendere la gravità del virus chiamato odio per il diverso. Il manifesto, 23 gennaio 2016

Riss, nuovo direttore di Charlie Hebdo, settimanale satirico solito sostare nella provocazione, a volte con successo altre no, rischiando l’offesa pura, ha disegnato una vignetta che ha creato un’ondata internazionale di indignazione. La vignetta mostra, in un angolo, il corpo inanimato del piccolo Alyan: il bambino siriano annegato lo scorso Settembre vicino alle coste turche. In alto campeggia la domanda: «Cosa sarebbe diventato il piccolo Alyan se fosse cresciuto?». La vignetta, raffigurante Alyan uomo adulto con la faccia di maiale che rincorre una donna, reca in basso la risposta: «Palpeggiatore di natiche in Germania».

La vignetta per alcuni è un’istigazione all’odio razziale, altri la giudicano irrispettosa, cinica, disgustosa. Quando morì Alyan, Riss disegnò Cristo che camminava sulle acque mentre il bambino annegava. La didascalia: «La prova che l’Europa è cristiana: i cristiani camminano sulle acque, i bambini musulmani affondano». Sarebbe bastato questo precedente per far capire che la satira spietata, senza sconti per nessuno, di Riss, abbia come suo obiettivo il razzismo. Non tanto il razzismo spudorato, esplicito degli sciacalli che vagano in branchi per le strade d’Europa, quanto, piuttosto, quello inconsapevole, ammantato di ipocrisia, di noi tutti.

Il primo, istintivo, bersaglio, è la falsa credenza che i bambini siano innocenti, privi di desideri erotici violenti e di emozioni aggressive. In realtà ciò che li differenzia davvero dagli adulti, è la loro minore capacità di recare danno e il fatto che non sono ancora corrotti dal calcolo, ragion per cui si aprono alla vita con maggiore curiosità, generosità e gusto del rischio.

La santificazione dei bambini migranti morti è insidiosa: sposta nella pietà nei loro confronti i sentimenti di compassione dovuti ai migranti adulti, che, non godendo del privilegio dell’innocenza, possono essere oggetto di reazioni di rigetto globale, che fa di ogni erba un fascio, alla prima occasione disponibile.

Il bersaglio più specifico di Riss, è proprio la separazione tra il bambino buono e l’adulto cattivo. Dietro questa separazione si nasconde il fantasma collettivo della madre virginale amata da un bambino angelico, mai destinato a diventare uomo, se non per sacrificare sulla croce (rappresentazione del corpo materno) il proprio compimento virile. Nel supposto «sfregio alla donna bianca», compiuto da un gruppo di musulmani arrabbiati e ubriachi a Colonia, fa la sua apparizione l’attacco, misto di desiderio e odio, a una madre lontana, inaccessibile.

Nelle reazioni di sdegno dei tanti occidentali, che pensano di agire in difesa delle donne, è presente lo stesso tipo di attacco alla madre oggetto sacro che scoraggia il suo investimento erotico, ma proiettato sul saraceno invasore, stupratore di donne e uccisore di bambini. Bella convenienza avere a portata di mano un «uomo nero» pronto all’uso.

Chi compie atti di violenza contro le donne deve essere sanzionato secondo legge, come autore di un delitto grave e intollerabile.

Questa è la condizione necessaria di ogni processo di incontro e di assimilazione/integrazione reciproca tra culture diverse, perché senza il rispetto della libertà (prima del tutto erotica) della donna, un incontro profondo è impossibile. È, quindi, un bene per tutti la saggezza delle donne che diffidano di chi è più lesto a proteggerle dallo «straniero» che dagli «incidenti domestici».

Difendono il loro diritto di disporre pienamente del loro corpo, non permettono che si trasformi nella bambola di porcellana dell’uomo: oggetto da ammirare e, incidentalmente, rompere.

«Il problema è l’altissimo livello di tolleranza che atti di questo genere suscitano» replica Flinkman. «Ma non direi culturale nel senso di arabo: semmai nel senso di maschile. In Germania, come a Piazza Tahrir, nessuno è intervenuto. È questa accettazione a essere gravissima».

La Repubblica, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Un cancro: le molestie sessuali hanno un meccanismo simile a quello di cellule cancerogene che si aggregano. A scatenare la malattia intervengono fattori diversi ma il risultato è il medesimo: la molestia come tumore sociale, che se non viene fermato in tempo continua a propagarsi. Perché è bene dirlo subito: sbaglia chi pensa che quello che è accaduto a Colonia sia importato, appartenga al solo mondo arabo, un’epidemia importata. È un male che ha radici profonde: e molto complesse».
Non è un caso che Shereen El Feki usi termini medici. L’autrice anglo-egiziana di un saggio molto importante sulla sessualità nel mondo arabo intitolato Sex and the Citadel: Intimate Life in a Changing Arab World (Sesso e la cittadella: la vita intima nel mondo arabo che cambia), è un’immunologa che dopo essersi occupata di Aids ha focalizzato la sua attenzione sul rapporto che il mondo arabo ha con il sesso e ora sta lavorando a un progetto finanziato dalle Nazioni Unite per capire meglio la galassia maschile giovanile in 4 paesi arabi, Egitto, Marocco, Libano e Palestina.

Il suo libro, nel 2013, è stato il primo a citare il termine arabo “taharrush gamea”(molestia sessuale di gruppo) che dopo i fatti di Colonia ha fatto il giro del mondo, quasi si trattasse di un rituale ben definito. Un rituale che avrebbe le sue radici nei fatti di piazza Tahrir al Cairo, dove nel 2011, durante la rivoluzione contro Mubarak, decine di donne che manifestavano subirono violenze sessuali.
«Non abbiamo abbastanza elementi per giudicare cosa è davvero successo a Colonia » precisa El Feki. «Ma se vogliamo paragonarlo con i fatti di Piazza Tahrir, non fosse altro perché è il più studiato, possiamo provare a tracciare un profilo. Lì ci si trovava davanti a giovani uomini che avevano un serio problema con la realizzazione della loro mascolinità: cresciuti in un sistema politico oppressivo, disoccupati e dunque non nelle condizioni di sposarsi e tanto meno di fare sesso. Persone, insomma, impossibilitate a diventare maschi adulti. Questo genere di pressioni porta a grande aggressività verso chi, in una concezione patriarcale, è percepito come più debole: le donne, dunque. Un fenomeno che attraversa tutte le regioni arabe ma non è specificamente arabo, distinzione che va fatta in un’epoca di eccezionalismi legati al mondo islamico».
Al telefono dal Cairo le fa eco Noora Flinkman, attivista dell’associazione egiziana HarrasMap che si occupa di prevenire le molestie sessuali, attiva nel Paese già prima dei fatti di Piazza Tahrir: «Sui giornali europei e sui social si sta facendo molta confusione sul significato di Taharrush gamea: che è il termine arabo per indicare le molestie sessuali di gruppo, non certo un rituale definito, una qualche tradizione culturale. Non che questo renda i fatti di Colonia meno gravi, sia chiaro».
Ok, gli uomini che molestano le donne sono uguali in tutto il mondo: e le molestie non sono una novità, nemmeno in Europa. Ma in Egitto secondo una ricerca pubblicata due anni fa il 99,3% delle donne ha dichiarato di aver subito un qualche tipo di molestia.
Davvero possiamo dire che non c’è una specificità culturale o religiosa? «Il problema è l’altissimo livello di tolleranza che atti di questo genere suscitano» replica Flinkman. «Ma non direi culturale nel senso di arabo: semmai nel senso di maschile. In Germania, come a Piazza Tahrir, nessuno è intervenuto. È questa accettazione a essere gravissima. Ora i giornali scrivono che a Colonia e nelle altre città della Germania è stato tutto preorganizzato, cosa che per ora non siamo in grado di valutare. Una cosa simile è stata detta anche qui, su Piazza Tahrir. Ma la triste verità è che non c’era nemmeno bisogno che quegli atti fossero organizzati: la molestia è considerata talmente normale, che seppure 1 o 5 o 10 agiva con uno scopo altre centinaia li seguivano. Perché sapevano di passarla liscia. La considerano una cosa normale».
Eppure in Egitto le donne scendevano in piazza ugualmente, nonostante le violenze. La percezione dei diritti è dunque così diversa fra uomini e donne nel mondo arabo? «Spesso sì» dice El Feki: «perché le donne arabe oggi hanno molte più opzioni di una volta. Mentre le opzioni degli uomini sono più o meno le stesse dei loro nonni».

Germania. S’infiamma il caso delle molestie sessuali di massa. Il ministro degli Interni accusa la polizia, i media se la prendono con la sindaca Reker, Csu e destra con gli stranieri. E in rete parte l’appello: "Andiamo a difendere le nostre donne"». Il manifesto, 7 gennaio 2016

Il capodanno di Colonia sembra annunciare una catastrofe politica e sociale in tutta la Germania. Cosa sia veramente accaduto è molto poco chiaro. Certo è solo che un elevatissimo numero di donne sono state aggredite, molestate, derubate da folti gruppi di giovani uomini, cui molte testimonianze attribuiscono tratti nordafricani o mediorientali. Certo è anche che le notizie su quanto accaduto sono giunte solo alcuni giorni dopo l’orribile notte di San Silvestro. E, come spesso accade in un quadro indistinto, fioriscono speculazioni e manipolazioni.

Tutti accusano tutti: il ministro degli interni de Maziere accusa la polizia di Colonia, il ministro degli interni del Nordreno-Westfalia la difende, il sindaco di Colonia Henriette Reker, nota per le sue posizioni favorevoli all’accoglienza dei rifugiati, viene accusata da alcuni media di essersi limitata a risibili consigli «antimolestie», la Csu riprende la parola d’ordine dell’estrema destra sulla «stampa bugiarda», sospettata di coprire il ruolo decisivo dell’immigrazione islamica nella diffusione di aggressività nei confronti delle donne. Le quali, stando almeno alle testimonianze selezionate, risultano tutte di impeccabile stirpe germanica. Circostanza improbabile in una popolazione mista come quella di Colonia, ma che diversamente avrebbe complicato il comodo schema del bianco e del nero.

Intanto, col passare dei giorni, nuove denunce piovono sulla polizia, da Amburgo, Duesseldorf, Bielefeld, Francoforte. Immancabilmente gli aggressori parlano un cattivo tedesco con forte accento arabo. Non mancano nemmeno voci, del tutto infondate, secondo cui tra i “fermati” figurerebbero alcuni migranti richiedenti asilo. In realtà allo stato attuale non risultano fermi o arresti.

Intanto sulla rete circolano inviti a recarsi a Colonia «per difendere le nostre donne». «Nostre«, appunto, proprietà del maschio germanico, chiamate a incarnare non la loro libertà, ma i «valori» tedeschi. È da mesi che i media conservatori insistono sul fatto che la prevalenza di giovani maschi di religione islamica tra i rifugiati avrebbe comportato una minaccia per la sicurezza delle donne. Personaggi e forze politiche da sempre attaccati ai tradizionali ruoli dettati dal patriarcato si scoprivano improvvisamente convinti paladini della libertà femminile.

E i fatti di Colonia rappresentano il perfetto coronamento di questa campagna. In un clima in cui la violenza contro gli stranieri cresce in maniera esponenziale gli appelli a «vendicare» le vittime della notte di San Silvestro rischiano di trovare non poco ascolto.

Ma queste minacciose conseguenze non ci esimono dal capire cosa sia veramente accaduto tra la stazione e il duomo della città renana.

Fonti governative e di polizia insistono nel ritenere le aggressioni un disegno organizzativo, se non addirittura una «nuova forma di criminalità organizzata» (questo sostiene il ministro della Giustizia). Sembra che nell’area della stazione di Colonia operassero indisturbate bande di scippatori di origini algerine da tempo residenti in Germania. Può darsi che per San Silvestro queste ed altre bande provenienti da diverse città si fossero concentrate per sfruttare l’occasione della folla in festa. Se è vero che gli aggressori agivano per gruppi di 20 o 40 persone non si può escludere, se non altro, almeno un ampio passaparola.

Ma non è affatto chiaro a quanti gruppi possano essere imputate le aggressioni. Né in quale misura possa esservi stata emulazione alimentata dall’alcol e dalla confusione. Di certo in questa oscurità si moltiplicano ipotesi e supposizioni, circolano veleni e si annidano nuove violenze.

Demistificare l'uso corrente delle parole è un modo per diventare liberi e perciò cambiare il mondo.Un piccolo libro su una parola controversa.

La Repubblica, 20 ottobre 2015
La parola gender divide. Ci sono parole che a forza di essere brandite come manganelli, innalzate come bandiere, finiscono per diventare esse stesse strumenti di aggressione, contundenti, perfino urticanti. Come molte parole straniere, fagocitate da una lingua altra che le assimila senza comprenderle e le utilizza senza spiegarle, esalano un’aura di autorevolezza e insieme di mistero, che ne giustifica l’uso improprio. Oggi può capitare che durante una pubblica discussione sulla scuola un genitore zittisca un docente agitando un foglio su cui c’è scritto “no gender”. Come alle manifestazioni in cui nobilmente si protesta contro le piaghe che minacciano l’umanità: no alla guerra, alla pena di morte, al razzismo. La perentorietà del rifiuto di qualcosa che non si saprebbe (né si intende) definire impedisce l’avvio di qualunque dialogo. Ma di che cosa stiamo parlando?

Lo scontro che negli ultimi tre anni è divampato intorno al gender in Italia (ma anche, in forme simili, in Francia) diventerà oggetto di studi di sociologia della comunicazione e psicologia delle masse. Ci si è riflettuto poco, finora, forse per sottovalutazione — o perché non si è stati capaci di comprendere quale fosse l’oggetto del contendere, né che riguardasse tutti, e non solo gli omosessuali. Chiunque si interessi della circolazione e della manipolazione delle idee non può non restare stregato e insieme spaventato dalla mistificazione perfetta che si è irretita intorno a questa parola, fino ad avvolgerla di una nebbia mefitica. E a occultare il vero bersaglio: la battaglia culturale, ma anche politica e legislativa, per «combattere contro le discriminazioni che subisce chi, donna, omosessuale, trans, viene considerato inferiore solo in ragione del proprio sesso, del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere».

L’ultimo libro di Michela Marzano, Papà, mamma e gender , che esce per Utet, ci spiega come, quando e perché sia potuto accadere che una concezione antropologica sulla formazione dell’identità (sessuale, psichica, sociale) delle persone abbia aperto una “crepa”, una “frattura profondissima” nel nostro paese, e scatenato campagne di propaganda, informazione e disinformazione mai più viste da decenni. Fino a trasformare il gender in uno spauracchio, un fantasma cui chiunque può attribuire — in buona, ma anche in cattiva fede — il negativo delle proprie idee, della propria concezione dell’esistenza, e riversare su di esso pregiudizi, fobie e paure che si agitano nel profondo di ognuno di noi.

Ricordando con Camus che «nominare in maniera corretta le cose è un modo per tentare di diminuire la sofferenza e il disordine che ci sono nel mondo», Marzano assegna al libro innanzitutto questo scopo “didattico” (il volume è corredato di un glossario). Dunque gender è un termine inglese, la cui traduzione italiana è semplicemente genere. È entrato in lingua originale nel sistema della cultura universitaria perché delineava un campo di studi nuovo (gender studies) e perciò bisognoso di un proprio nome. Ma poi ha finito per riassumere l’insieme delle teorie sul genere — estinguendo ogni differenza e sfumatura, anche significativa.

Papà, mamma e gender è un libro smilzo, di agevole lettura, una bussola utile per orientarsi nel magma burrascoso di interventi, argomentazioni, polemiche, molte delle quali vanno alla deriva sulle onde del web. Alla confusione semantica e concettuale del dibattito — che mescola sesso, identità di genere e orientamento sessuale — Marzano oppone spiegazioni essenziali (“l’ABC”) che si potevano ritenere acquisite, e invece si sono scoperte necessarie. Si memorizzi ad esempio questa: «Quando si parla di sesso ci si riferisce all’insieme delle caratteristiche fisiche, biologiche, cromosomiche e genetiche che distinguono i maschi dalle femmine. Quando si parla di “genere” invece si fa riferimento al processo di costruzione sociale e culturale sulla base di caratteristiche e di comportamenti, impliciti o espliciti, associati agli uomini e alle donne, che finiscono troppo spesso con il definire ciò che è appropriato o meno per un maschio o per una femmina ».

È insieme un libro di storia culturale e di cronaca contemporanea, in cui le riflessioni sulla distinzione tra identità e uguaglianza, tra differenza e differenzialismo, si affiancano all’analisi del lessico di una petizione presentata in Senato per sostenere «una sana educazione che rispetti il ruolo della famiglia», le parole di Aristotele, Bobbio e Calvino vengono valutate come quelle di uno spot contro la perniciosa “ideologia gender”. È un libro di filosofia e auto-filosofia (se posso mutuare questo termine dalla narrativa): perché l’autrice non nasconde i propri dubbi (e la critica contro la corrente radicale del pensiero gender) e rivendica l’onestà intellettuale di dire come e perché è giunta a credere a certe cose piuttosto che ad altre. L’esperienza personale — chi siamo, come siamo diventati ciò che siamo — influenza e sempre indirizza il nostro modo di stare nel mondo. «Il pensiero non può che venire dall’evento, da ciò che ci attraversa e ci sconvolge, da ciò che ci interroga e ci costringe a rimettere tutto in discussione».

Gli essenzialisti affibbiano a chi non riconosce il dualismo tra Bene e Male l’etichetta di relativista etico. Ma l’etica non è relativa. Dovrebbe solo essere transitiva. Come Marzano, mi sono chiesta spesso come mai si possa temere che riconoscere ad altri i diritti di cui godono i più (alle coppie omosessuali di sposarsi o di avere e crescere figli) sia lesivo di questi. In che modo il matrimonio tra due persone dello stesso sesso possa sminuire quello di un uomo e di una donna, come una famiglia differente possa indebolire le famiglie cosiddette uguali. Non so rispondermi. Però mi viene in mente il finale visionario de La via della Fame , il romanzo che lo scrittore nigeriano Ben Okri ha dedicato alla propria giovane nazione, tormentata dall’odio, divisa dai conflitti, e incapace di nascere. «Non è della morte che gli uomini hanno paura, ma dell’amore... Possiamo sognare il mondo da capo, e realizzare quel sogno. Un sogno può essere il punto più alto di tutta una vita». Ma ci occorre «un nuovo linguaggio per parlarci ».

Ecco, forse abbiamo bisogno di una nuova parola. Lasciamo gender alle rivoluzioni antropologiche del XX secolo: il riscatto dei lavoratori, delle donne, dei neri, degli omosessuali. Le rivoluzioni sono irreversibili, nel senso che possono essere sconfitte, ma non revocate, e i principi che le accendono non tramontano. Troviamo un’altra parola per «sognare il mondo da capo».

«CERCARE di sfondare il tetto di cristallo non ci salverà». Parola della femminista americana Nancy Fraser, nei giorni in cui persino dalla terra dell’innovazione, la Silicon Valley, arriva l’allarme sessismo. «Lo abbiamo tradito — ci siamo tradite — e non ce ne siamo neppure accorte. Il femminismo è stato rinnegato con campagne social, è diventato mainstream e si è trasformato in brand, come la campagna Lean in di Sheryl Sandberg, direttrice di Facebook. La lotta delle donne si è concentrata sul corpo, l’identità, la conquista dei vertici della società: lavorare per emergere».

Ma acosa serve che poche sfondino il vetro mentre la maggior parte delle donne lavora in condizioni precarie e l’austerity sferra gli ultimi colpi al sistema di welfare? Il femminismo come ancella del neoliberismo è centro d’attrazione dell’indagine di Nancy Fraser. Professoressa di scienze politiche e sociali alla New School, è nota in Italia per le sue riflessioni sul tema della giustizia sociale: quella politica della rappresentanza in un contesto globale, quella economica della redistribuzione e quella culturale del riconoscimento. Su questa giustizia che abbiamo smesso di inseguire Fraser ha scritto Fortune del femminismo: dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista , pubblicato in Italia da Ombrecorte. Temi su cui torna in questa intervista, oltre ad affrontare argomenti legati all’attualità di queste settimane. Come la questione del sessismo nella Silicon Valley, dove una donna manager, Ellen Pao, ha intentato una causa contro la sua ex azienda, il fondo Kpcb: il tribunale le ha dato torto, ma il dibattito è apertissimo.

A proposito di Silicon Valley: per fare carriera e scegliere quando mettere su famiglia, il “benefit aziendale” proposto da Facebook e Apple è congelare gli ovuli. Che cosa ne pensa?

«Quel benefit potrebbe sembrare positivo per le singole donne in un contesto tecnologico che segue ritmi velocissimi e in cui se vieni lasciato indietro per mesi o un anno sei finito. Consente di posticipare la cura dei figli. Ma l’idea “noi adattiamo la famiglia e la riproduzione all’agenda aziendale” in realtà è folle. Le donne possono individualisticamente esserne sollevate, sembrerà che possano avere tutto. Ma di fatto è la biologia che viene sottomessa e piegata al capitalismo delle corporation».

Di recente la direttrice del Fondo Monetario Christine Lagarde ha puntato il dito sulla «cospirazione contro le donne perché non siano economicamente attive». È d’accordo?

«Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo. Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica. Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne. Il suo femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».

Nell’era del welfare state si lottava per l’inclusione delle donne. Ora che il welfare è in crisi, possono essere proprio le donne a salvarlo?

«Nel modello fordista o keynesiano, nel sistema capitalistico organizzato dallo Stato, le donne – almeno nei Paesi ricchi occidentali – erano incluse anzitutto come madri. La famiglia si reggeva sul salario del marito. Ora che il lavoro è precario, per le donne è necessario lavorare. La nuova forma di capitalismo neoliberista non vuole le donne a casa come madri full time, anzi: le vuole lavoratrici, ma con stipendi bassi. Insomma, il passaggio è stato da un modello di svantaggio a un altro modello di svantaggio. Questo mentre il welfare viene tagliato».

Un processo irreversibile?

«Credo che il genio della globalizzazione sia uscito troppo dalla sua lampada per poterlo riportare dentro. Lo Stato di una volta alimentava il sistema di welfare attraverso la redistribuzione fiscale, ora non governa neppure più la propria valuta: guardate la Grecia e l’euro. Ma se in qualche modo democrazia sociale deve esserci oggi, allora deve essere organizzata in un quadro transnazionale o persino globale: le femministe dovrebbero essere in prima linea per imboccare questa strada. Alcuni hanno creduto che proprio l’Ue potesse realizzare una democrazia sociale transnazionale, ma l’Europa sta seguendo la sirena neoliberista. Gli sforzi antiausterity di Syriza e Podemos rappresentano una speranza anche per il femminismo, nel senso che si oppongono al degrado delle condizioni di vita».

Luc Boltanski ieri, Slavoj Zizek oggi, sostengono che fenomeni come il Sessantotto e l’ambientalismo sono stati fagocitati dal capitalismo liberista. Concorda?

«Il capitalismo ha da dato un nuovo significato a questi temi, li ha “corrotti”: lo hanno spiegato in modo esemplare Luc Boltanski ed Ève Chiapello ne Il nuovo spirito del capitalismo , ed è lo stesso argomento che io declino da anni nell’ambito del femminismo. È stato usato per legittimare pratiche “market friendly” che non risolvono i divari. Stessa cosa per il capitalismo “green”. I movimenti sono stati indirizzati su queste chiavi: privatizzare, consumare, individualizzare».

La crisi globale di questi ultimi anni ha cambiato qualcosa?

«C’è stato un frangente in cui è sembrato che l’ordine finanziario e la sua legittimità dovessero collassare, ma oggi non è chiaro se il neoliberismo sia uscito danneggiato dalla crisi oppure no: scoraggia come il capitalismo riesca paradossalmente a trasformare la crisi in opportunità di profitto. La stabilità del neoliberismo come regime è tutta da vedere, i problemi e il peggioramento delle condizioni di vita emergeranno con sempre più prepotenza. Ma anche nell’opporsi al neoliberismo, bisogna emanciparsi dall’approccio neolib. Ad eccezione di Podemos, i movimenti come Occupy che si erano coagulati in un blocco antiegemonico qualche anno fa si sono rivelati effimeri. Questo perché non erano strutturati, erano dominati da una sensibilità neoanarchica».

E allora qual è la ricetta giusta per il futuro?

«Di femminismo e di un’alleanza per la democrazia c’è bisogno più che mai: ma perché siano i popoli e non i mercati a dettare la linea ai governi, dobbiamo abbandonare l’ossessione individualista. E recuperare la solidarietà».

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