loader
menu
© 2024 Eddyburg

"La trappola dei due redditi", un testo americano pre-crisi, mostra come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito stava trascinando la middle class alla bancarotta». il manifesto, 9 marzo 2017 (c.m.c.)

È almeno a partire dalla larga circolazione dei Grundrisse, negli anni ’60 del secolo scorso, che i lettori di Marx hanno cominciato a familiarizzare con il concetto di general intellect. Una stupefacente divinazione del futuro che noi vediamo all’opera sotto i nostri occhi.

Il capitalismo si appropria dei saperi prodotti dall’anonima intellettualità di massa attiva nella società e la trasforma in profitto. Una inedita forma di sfruttamento del “sapere produttivo” che rinnova la l’accumulazione illimitata del capitale. Una immensa massa di lavoro gratuito che alimenta crescenti profitti privati.

Credo che proprio tale acquisita consapevolezza ci consenta oggi di scorgere in più piena luce la parte forse più nascosta della storia umana: il particolare sapere e il lavoro delle donne. Si tratta di un occultamento millenario. Basterebbe pensare al lavoro contadino, vale a dire all’attività produttiva più antica e più lunga della nostra storia. In questa vicenda le donne hanno svolto un ruolo decisivo di cui gli storici non trovano tracce, perché nessun documento l’ha mai registrato se non indirettamente.

Esse, ad es. selezionavano ogni anno le sementi delle piante per ricominciare il ciclo agricolo ed erano le prime a verificare la riuscita della raccolta perché, per la divisione del lavoro interna alla famiglia, erano poi loro adibite alla cucina. Era il loro parere, dato ai mariti o ai figli coltivatori, che orientava il progressivo miglioramento genetico delle piante e del modo di coltivarle. E naturalmente tale specifica attività non le sottraeva al loro mestiere più antico: produrre prole, allevarla, portarla alla condizione di forza-lavoro. Anche questo un sapere molto speciale, raffinato nel corso dei secoli.

L’avvento del capitalismo fa emergere il lavoro nascosto delle donne, con lo sfruttamento pieno in fabbrica. E’ una pagina storica ben nota. Ma è anche ben noto che dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo sino ad oggi il lavoro della donna, in fabbrica o in ufficio, non ha mai sostituito – se non in parte e per le classi sociali alte – l’antico lavoro domestico, fondato sui saperi vernacolari trasmessi da madre in figlia. Un sapere non codificato, che ha radici antropologiche profonde, spesso non surrogabile e insostituibile. Ad esso, è il caso di notare, è affidata la riproduzione della forza lavoro maschile oltre che della propria. Gli uomini ( e le donne) si possono presentare ogni giorno in fabbrica o in ufficio perché questo sapere sempre all’opera prepara le retrovie del lavoro produttivo. E’, potremmo dire, il general intellect femminile senza il quale il capitale non potrebbe alimentare la sua insonne bulimia.

Allevare i figli, cucinare, pulire la casa, aggiustare i letti, fare il bucato, lavare i piatti e altre attività pulviscolari hanno continuato a gravare sulle figure femminili aggiungendosi al lavoro subordinato. Un doppio lavoro (oggi attenuato nelle giovani coppie) che costituisce un gravame specifico delle donne nelle società capitalistiche contemporanee. Un fardello aggravato dal fatto, ben noto, che il lavoro domestico è fra i più ripetitivi e frustranti della vita sociale. Mentre, a dispetto dei due lavori svolti, è stupefacente constatare come la condizione complessiva della famiglia operaia abbia di poco migliorato il suo stato laddove il welfare non viene in soccorso. Alla “commercializzazione della vita intima” è corrisposto un allungamento del tempo di lavoro familiare, ma non un incremento significativo del reddito.

Due autrici americane, cinque anni prima della recente Crisi, hanno potuto scrivere un testo rivelatore del modo con cui il capitalismo americano aveva assorbito l’intero lavoro familiare, senza ripagare con un reddito adeguato. Elizabeth Warren e Amelia Tyagi, in The Two Income Trap (New York, 2003), la trappola dei due redditi, hanno mostrato come il lavoro della moglie, in aggiunta a quello del marito, stava trascinando - per la necessità della donna di monetizzare tutti i lavori svolti prima da lei - la middle class nella bancarotta. Come nella Gran Bretagna del XIX secolo, descritta nel Capitale di Marx, il capitalismo fagocitava l’intera famiglia nella macchina produttiva e gli prendeva l’intera vita.

A fronte di queste considerazioni oggi si può tornare a riflettere sulle differenze tra il movimento femminista degli anni ’70-80 e quello delle ragazze di oggi impegnate sul territorio universale del lavoro per abbracciare quello del genere. Forse allora si trattava di un passaggio necessario, al fine di scoprire più profondamente la specificità femminile, ma esso non ha saputo legare questo versante del corpo, oltre che antropologico, a quello sociale, più facilmente traducibile in progetto e politico. Oggi il movimento Nonunadimeno, che si presenta anche con uno sciopero, cioè con la volontà di colpire il potere capitalistico, appare come l’avanguardia di un’altra possibile storia.

«New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti». il manifesto,

Scoccata la mezzanotte, nei social già era chiaro che questo #lottomarzo sarebbe stato anche in Italia una irruzione straordinaria di lotta e gioia della politica, di passione com/movente.

Il feminiStrike globale, che ha reso questo 8 marzo una giornata di lotta senza precedenti, di ridefinizione stessa della forma-sciopero, riafferma la potenza della marea partita dalle donne argentine di Ni una menos. Chissà se al New York Times hanno già annoverato questo movimento femminista globale tra le potenze mondiali, come fecero per il movimento dei movimenti.

Credo che il movimento dei movimenti delle donne oggi sia la forza politica che può agire la rottura in e con questo presente, affermandosi come soggetto radicalmente altro dal dominio capitalistico e patriarcale: ha preso corpo in Brasile nella lotta delle lavoratrici domestiche, negli Usa contro il sessismo di Trump, in Polonia contro il tentativo di rendere reato penale l’aborto, fino allo sciopero globale, sociale e politico, delle donne convocato per questo 8 marzo in più di 40 paesi.

Ieri anche dentro e fuori il Parlamento europeo a Bruxelles dibattiti, flash-mob e interruzione dei lavori. Una marea ha invaso tantissime città europee e non sono elencabili le tantissime manifestazioni in Italia: più di trentamila persone solo a Roma.

In Italia la marea aveva già portato in piazza il 26 più di 200.000 persone, dato vita ai tavoli di Roma e Bologna, al piano femminista contro la violenza e agli 8 punti per l’8 marzo, con la proclamazione dello sciopero femminista e dai generi, dal lavoro produttivo e riproduttivo. Una marea che sta cambiando ciascuna di noi, che ha fatto irruzione nella quasi totale assenza di conflitto sociale, connettendo lotte, desideri, bisogni, nel vuoto di parola, di senso e consenso di una politica ancora molto patriarcale, nei contenuti e nelle forme, anche a sinistra.

Una gioia potente, che può rivoluzionare lo spazio europeo e fare la differenza.

La straordinaria forza di questo movimento è anche nella capacità di leggere criticamente il presente, mostrando l’intersezione fra diverse forme di disciplinamento e dispositivi governamentali (come quelli neoliberisti, patriarcali, eteronormativi, razzisti) nell’estrarre valore dall’intera vita. Ed è proprio la femminilizzazione come messa al lavoro dell’intera vita di donne e uomini agita dal dominio neoliberista che ha reso oggi evidente come da una posizione femminista si possano produrre pensiero e pratiche politiche per tutte/i: soggetti-non-donna, queer, trans che si riconoscono nelle differenze e nella posizione femminista.

Il reddito di autodeterminazione, che ha una lunga genealogia femminista, è una proposta in cui si riconoscono oggi donne e uomini interamente «messi a valore» dalla femminilizzazione del lavoro neoliberista. Reddito di autodeterminazione come reddito di base incondizionato, reddito che reclamiamo come riconoscimento della vita attiva produttiva e riproduttiva e del diritto all’esistenza. Una «utopia concreta» che racconta anche quanto sia indispensabile il pensiero politico femminista per rivoluzionare lo spazio europeo e ripensare l’idea stessa di cittadinanza, oltre il familismo e il lavorismo che la connotano negli Stati nazione, oltre i dispositivi di inclusione ed esclusione, nello «smascheramento» della qualità borghese e neutro-maschile del «cittadino» oggi rimossa nei tanti cittadinismi di ritorno.

Una proposta che ci rinvia intera la necessità di rompere e rivoluzionare questa Ue fondata sul neoliberismo, che stenta perfino a riconoscere il reddito come strumento di redistribuzione. Certo, se partiamo dal disastro italiano, rappresentano passi in avanti anche la risoluzione del Pe del 2010 sul reddito minimo (equivalente almeno al 60% del reddito mediano) come misura di contrasto alla povertà, o la risoluzione approvata lo scorso gennaio sul «social pillar» in cui si «invita la Commissione e gli Stati membri a valutare i regimi di reddito minimo nell’Ue, anche esaminando se tali regimi consentano alle famiglie di soddisfare le loro esigenze». Ma è evidente che non solo il riconoscimento di reddito per l’autodeterminazione, ma perfino di un reddito minimo è incompatibile con l’attuale architettura Ue disegnata dai Trattati e dai patti di stabilità.

Peraltro, i lavori e gli studi prodotti dalla Commissione Femm del Pe così come dal Gendermainstraming Network (ogni Commissione del Pe ha una responsabile del gender impact dei suoi lavori) dimostrano come l’Ue sia lontana non solo da essere uno spazio di autodeterminazione per donne e uomini, ma perfino da una reale gender-equality. Come riporta Differences in men’s and women’s work (studio del 2016 per Femm), il gender pay gap medio dell’Ue si attesta intorno al 16.4%, ma il gender overall earnings gap arriva al 41,1%. Le donne sono la gran parte del part-time non volontario e il gender-pension gap è al 40,2%.

La disuguaglianza economica continua ad essere una forma di violenza diffusa nello spazio europeo. Peraltro nella Ue in cui una donna su quattro ha subito violenza fisica, 14 SM su 28 (ormai 27) non hanno ancora ratificato la Convenzione di Istanbul.

Per uno spazio europeo libero da ogni forma violenza contro le donne occorre davvero che la marea femminista si aggiri per l’Europa.

a Repubblica, 8 marzo 2017

Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”.

Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica. La storiografia l’ha strumentalizzata, la letteratura l’ha trasfigurata e tradita: scienziata punita per le sue scoperte, eroina protofemminista, martire della libertà di pensiero, illuminista e romantica, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. Ma Ipazia non era nulla di tutto questo.

Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione (diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata. Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico ( demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” ( idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’”educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».

Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide.

Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.

Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino.

Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.

«Lotto marzo. Le donne chiedono il reddito di autodeterminazione. Un welfare per tutte e tutti. Lo sciopero proclamato dalle donne rende visibile il taglio verticale del potere neo-capitalistico. Che si fa forte del patriarcato per dominare la vita».

il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)

Oggi, 8 marzo 2017, le donne scioperano, non sono in festa. “Se la mia vita non vale, io non produco” è lo slogan chiave della giornata che invita allo sciopero. Perché non c’è nulla da festeggiare, c’è molto contro cui lottare, molto da cambiare.

Lotto marzo, appunto, come dice l’invenzione felice di NonUnaDiMeno, l’insieme di gruppi, associazioni, femminismi diversi (le sigle originarie sono D.I.R.E, Udi, e coordinamento dei collettivi romani) che dal settembre scorso hanno dato vita al nuovo movimento. E alla entusiasmante manifestazione del 26 novembre 2016. 200.000 in strada a Roma, un corteo che accoglieva anche tantissimi ragazzi e uomini, la più grande manifestazione di movimento vista in Italia negli ultimi anni. Una scelta vitale, di notevole forza politica, che va oltre differenze e contrapposizioni troppo presenti anche nei femminismi. È stata la violenza maschile contro le donne, il ripetersi di femminicidi feroci a spingere a unirsi, a lottare insieme. A cercare la strada e la forza per ribaltare un potere che agisce sulle vite singole, fino ad armare la mano di un uomo che non sopporta di essere abbandonato. È un nuovo rischio, che minaccia le donne proprio perché sono libere. Perché possono e vogliono decidere di sé. Per questo lo sciopero è globale, un movimento internazionale che attacca alla radice il potere. Il potere del neocapitalismo che, lungi dal modernizzarsi, ha assunto il patriarcato come una propria articolazione.

La prima volta era successo in Polonia, il Black Monday del 3 ottobre 2016. Vestite di nero le polacche si sono fermate, per lottare contro la completa abolizione della possibilità di aborto. Se le donne si fermano, si ferma tutto. E con loro gli uomini, che le hanno aiutate, e in parte sostituite. In Argentina, da dove viene NiUnaDeMenos, è stato un mercoledì nero il 17 ottobre, dopo che Lucia Pèrez, 16 anni, è stata violentata, torturata e uccisa a Mar de Plata. Infine il 21 gennaio 2017, già dopo la proclamazione dello sciopero globale delle donne per l’8 marzo, la Women’s March on Washington. Una mobilitazione imponente, un milione solo negli Usa, due milioni nel mondo. Contro Trump, cioè contro il potere machista, razzista, sessista, classista.

Come ha detto Angela Davis: «Questa è una marcia di donne e questa marcia delle donne rappresenta la promessa del femminismo contro i funesti poteri della violenza di stato. Ed è il femminismo inclusivo e intersezionale che invita tutte noi a unirci alla lotta di resistenza al razzismo e allo sfruttamento capitalistico». Qui si radica lo sciopero. Globale. Dall’Argentina, che lo ha proclamato per prima, agli Stati Uniti, dalla Svezia al Togo, dalla Turchia all’Italia. Da cosa si sciopera? Si sciopera dal lavoro. Da tutte le forme di lavoro. Questo è punto cruciale, che riguarda tutte. E tutti. Si sciopera nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nei supermercati, negli asili, nelle case, nelle scuole, nelle cucine, nelle strade. Nessuno più delle donne può dire cosa è il lavoro oggi. Il lavoro spezzato, frammentato, svalorizzato. In mille operazioni che dequalificano, immiseriscono anche il lavoro per il quale è richiesta la massima competenza. Quella per la quale si sono accumulati saperi. La cura, il lavoro che avviene prima di tutto dentro la casa, richiede competenze plurali e delicati, capaci di attenzione gestione, relazione. Da sempre svalorizzato tanto da essere gratuito, quando viene esternalizzato, venduto sul mercato, lì dove avrebbe innalzato il Pil, viene sminuito, reso servizio a bassa densità. Umiliato. Precarizzato. Pagato coi voucher. Come i mille lavori disprezzati, inseguiti e faticosamente messi insieme, ora su ora, giorno su giorno. In un puzzle senza forma, angoscioso e debordante.

Per questo le donne chiedono il reddito di autodeterminazione. Perché la precarietà è insopportabile. E una redistribuzione del reddito necessaria. Un welfare per tutte e tutti, chiedono. Lo sciopero proclamato dalle donne rende visibile il taglio verticale del potere neo-capitalistico. Che si fa forte del patriarcato per dominare la vita. Fin nelle pieghe prima nascoste e ora visibili, in piena luce. Proprio perché la libertà delle donne ha rotto la divisione tra privato e pubblico, la famiglia non è più quello spazio di potere riservato anche all’ultimo degli uomini, in cui nell’ombra si riproduceva l’esistenza. Lo sciopero, dice il manifesto «per uscire dalle relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà… per avere un salario minimo europeo, perché non siamo disposte ad accettare salari da fame, né che un’altra donne, spesso migrante…sia messa al lavoro in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». E ancora si sciopera «perché vogliamo essere libere di muoverci e restare». Contro le frontiere per le/i migranti, contro il razzismo. E si sciopera per la formazione, per cambiare la cultura che sostiene la violenza. E soprattutto si sciopera «perché la risposta alla violenza è l’autonomia delle donne». Non sono vittime, le donne che scioperano. Sono donne libere. Con l’invito ad astenersi dal lavoro, obbligano tutti a pensare cosa sia il lavoro. Anche chi ha ritenuto che uno sciopero non può essere politico. E chi lavora si muove solo per difendere i propri diritti. E il diritto a vivere?

La posta in gioco è molto alta. Judith Butler la chiama «alleanza dei corpi». Lo abbiamo visto nelle strade, in diversi continenti, in questi mesi. In quelle foto dall’alto, straripanti. Questo è in campo oggi, otto marzo 2017. La potenza di corpi alleati tra loro, che non si nascondono, che si mostrano, non irreggimentati in discipline e totalizzazioni. Che partono da sé, perché solo questo sé corpo-mente hanno a disposizione. E non vogliono cederlo. Sono tempi in cui si ragiona e si discute di popolo, e di populismi. Si costruisce un nuovo popolo. Ricco di differenze, pieno di speranze di trasformazione. Guidato dalle donne.

«». connessioni precarie, 7 marzo 2017 (c.m.c.)

«Pubblichiamo sul nostro sito ‒ e in contemporanea su EuroNomade.info ‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia chiamiamo "inchiesta militante", all’interno del Colectivo Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón.

Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati, collettivi di migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe complesse dell’economia popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia popolare, offre una prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario ripensare radicalmente questa pratica politica al di là dei confini del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta avvenendo in tutta l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che sono strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne.

La convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come in Italia ‒ una tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un «monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità di convocazione, ma anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo sciopero anche al di là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni.

Lo sciopero è considerato da Véronica come un salto: esso ha imposto di andare al di là di semplici rivendicazioni rivolte alle istituzioni, per porre con la forza di un movimento di massa l’ambizione a una trasformazione radicale. Il salto dello sciopero mette in campo un femminismo che rompe con ogni discorso identitario per diventare pratica di massa e moltitudinaria, capace di connettere lotte diverse attraverso i confini e a partire dal protagonismo delle donne. Attraverso lo sciopero, le donne si sono affermate come soggetto politico e, così facendo, hanno reso lo sciopero una pratica disponibile per molti altri soggetti, hanno ridato vigore alle lotte di chi, come i migranti, negli ultimi anni ha utilizzato lo sciopero politicamente.

In Argentina i migranti, uomini e donne, non solo incroceranno le braccia l’8 marzo, ma hanno già convocato "una giornata senza di noi" contro le nuove politiche migratorie del governo Macri. La sfida lanciata dall’8 marzo – indicato come "il primo giorno della nostra nuova vita" ‒ è di dare continuità e una prospettiva organizzativa all’impressionante e inattesa forza messa in campo dallo sciopero sociale e transnazionale delle donne».

Verónica, come descriveresti l’inizio dell’esperienza di NiUnaMenos? Quali sono stati i momenti più significativi per il suo consolidamento e la sua accelerazione?
«Seppure molto vicina, non sono parte del gruppo originario di NiUnaMenos. Posso però parlare di NiUnaMenos come fenomeno sociale che, come tale, appare con le due grandi manifestazioni del 3 giugno 2015 e 2016. Un vero e proprio straripamento che nessuno si aspettava. È stata impressionante la connessione che si è data, totalmente inattesa per le stesse organizzatrici. Il 3 giugno 2015 era impossibile arrivare alla piazza perché la mobilitazione era completamente disorganizzata, del tutto anomala.

«La stessa cosa è accaduta l’anno seguente e la piazza ha tolto ogni dubbio sul carattere di massa della mobilitazione. Posso dire di più sul «salto», la trasformazione che si è imposta il 19 ottobre, quando è stata lanciata per la prima volta la idea dello sciopero delle donne. Lo sciopero del 19 segna già un cambiamento per il tipo di appello e mobilitazione, ancora una volta di massa, e per il fatto che a scatenarlo è l’omicidio cruento di Lucía Pérez, un omicidio che si è consumato nello stesso momento in cui 70.000 donne erano riunite nell’incontro nazionale di Rosario. La sovrapposizione di questi due eventi ci dice molto sulla dimensione di massa e sulla trasversalità che ha avuto la mobilitazione del 19 ottobre.

«L’aspetto importante di questa giornata è che con la parola sciopero abbiamo connesso la violenza maschilista alla trama economica, politica e sociale. Mi pare che con questo tipo di connessione si superano due questioni. Da una parte, il ruolo della donna esclusivamente come vittima, con tutta quella sorta di architettura che, di volta in volta, si costruisce intorno al femminicidio, a un linguaggio che parla solo di dolore, di vittima e di assassinio. Se l’essere riuscite a imporre la parola femminicidio è stato un trionfo rispetto alla cronaca dei crimini passionali, si corre però il rischio di sostenere una narrazione dominante di violenza e di vittimizzazione. L’appello allo sciopero opera una torsione di questa narrazione, per mescolare la questione del lutto e della rabbia con la potenza che si dà nello stare insieme nelle strade».

Prima di parlare dello sciopero dell’8 marzo. Come hai detto NiUnaMenos ha travalicato, fin dall’inizio, ogni aspettativa… Da questo punto di vista, che relazione vedi con gruppi e reti organizzate?
«Credo che l’interessante di NiUnaMenos come parola d’ordine, come movimento che raggiunge una trasversalità impressionante, come fenomeno sociale è che riesce a catalizzare una rabbia e delle narrazioni che nominano una nuova forma di violenza nei territori. Ciò che da un po’ di tempo stiamo chiamando una nuova conflittualità sociale ha un asse specifico nella violenza contro il corpo delle donne. Queste mobilitazioni di massa mostrano il tentativo di connettere la specificità della violenza sulle donne con altre forme di violenza, dando conto di un nuovo tipo di guerra nei territori. Rita Segato le chiama «guerre contro le donne». L’interessante qui è mostrare come questa guerra contro le donne fa sì che un femminismo popolare, di massa, che vive nelle strade si trovi obbligato a connettere la violenza contro le donne con altre forme di violenza. In questo modo si toglie dal centro il discorso specifico di genere. Mi sembra che in Argentina sia la prima volta che il femminismo, i suoi discorsi e le sue narrazioni si connettono con un’esperienza più popolare, più di quartiere, più di strada.

«In generale c’era una resistenza all’uso della parola «femminista» perché la si circoscriveva a una tradizione liberale o accademica. C’erano in Argentina un sacco di lotte che riguardavano le donne, che però non si riconoscevano come lotte femministe e, come ho detto, molte volte c’è stato un pregiudizio rispetto al termine «femminismo». Negli ultimi due anni mi sembra che stiamo assistendo alla riappropriazione dei discorsi e delle esperienze femministe. Ed è molto interessante vedere come in America Latina sta circolando una discussione molto profonda intorno a cosa significa un femminismo popolare, un femminismo comunitario, un femminismo che si lega alle lotte territoriali, alla difesa della vita e delle risorse naturali… E qui confluiscono tutta una serie di lotte che hanno al proprio centro le questioni del territorio e della violenza. La questione fondamentale è che il femminismo produca connessioni e si traduca in un’istanza espressiva di questo tipo di conflittualità».

Che cosa distingue questo movimento dalle lotte per l’estensione dei diritti portate avanti dalle organizzazioni LGBT, che pure hanno ottenuto dei risultati durante i governi Kirchner?
«Credo che in questo momento ci sia qualcosa nel movimento delle donne che sta andando oltre le rivendicazioni puramente identitarie. In un certo senso si tratta di quello che Angela Davis ha chiamato intersezionalità, una parola che risuona molto oggi in America Latina e che per me è più interessante delle rivendicazioni di tipo identitario e della forma in cui queste rivendicazioni hanno espresso domande che poi si sono tradotte in leggi che certamente sono significative, però mi sembra che oggi il movimento vada oltre un’agenda di richieste in chiave identitaria. E non si esaurisce in una serie di richieste puntuali alle istituzioni. Certamente abbiamo una serie di domande e rivendicazioni concrete, per esempio un maggior reddito per garantire una maggiore autonomia economica per le donne in un contesto di violenza; certamente ci sono proteste contro la politica razzista e conservatrice di vari governi in America Latina, però mi sembra che si sta dicendo che esiste un «oltre» rispetto a queste rivendicazioni e non è ancora molto chiaro che cosa sia questo oltre.

«Siccome non si traduce nel linguaggio delle richieste o rivendicazioni, è un linguaggio che dobbiamo inventare per dire che cosa significa politicamente questa trasformazione più radicale. C’è un altro tema che mi pare interessante pensare. Si parla molto nel continente della fine del cosiddetto ciclo dei governi progressisti e di una svolta conservatrice e di destra. Mi pare che i punti nodali che sta ponendo il movimento delle donne offrano dei vettori di analisi che indicano anche un’altra agenda politica che non è solo quella del cambiamento elettorale, ma che invece sta pensando più in chiave sociale, di come si è acutizzato lo sfruttamento del lavoro, come si è data la finanziarizzazione dell’economia popolare, qual è il legame tra economia e violenza nei territori, ecc. Mi sembra che questo movimento sta dando alla luce una prospettiva più complessa…»

Potremmo dire che il movimento delle donne sta ponendo una discussione che va ben oltre il dibattito kirchnerista /antikirchnerista?
⋄Esattamente. E credo che ci immetta in un contesto che non è quello della depressione perchè è terminata l’epoca dei governi progressisti, quando arrivavano risorse dallo Stato, è un altro il tipo di dibattito che si pone. Si è mosso profondamente l’asse, e lo ha mosso un soggetto che nessuno pensava potesse attuare un così grande spiazzamento, in una forma così moltitudinaria».

Tornando al «salto» dello sciopero… Se l’opposizione allo stupro e al «femminicidio» permette di tenere insieme forze molto diverse, che possono convergere su una questione così essenziale, nel momento in cui si è articolato il problema della violenza come questione non solo femminile ma sociale, che riguarda precarietà, sfruttamento, regime dei confini, devastazione ambientale, ecc. sono emerse delle differenze all’interno del movimento legate, per esempio, a diverse ‘tradizioni politiche’ o alle identità e programmi delle strutture organizzate? Come avete governato le differenze di posizione emerse con la dichiarazione dello sciopero?
«Come prima cosa direi che a NiUnaMenos si è aggiunto VivasNosQueremos, che è una parola d’ordine che viene dal movimento delle donne in Messico e che cerca di pensare che non si tratta solo di morte, ma anche di come vogliamo vivere. E qui mi sembra che si apra un’interlocuzione con l’America Latina. Poi chiaramente il tema dello sciopero è un ulteriore gradino che sicuramente mette molta più gente a disagio. E questo si vede nella forma in cui i media hanno ripreso una parte del discorso di NiUnaMenos perché la narrazione della vittimizzazione li metteva abbastanza a loro agio, perfino i media mainstream, e questo è un elemento che sicuramente ha giocato un ruolo nell’impatto iniziale di NiUnaMenos. Inoltre, il discorso della vittimizzazione è quello che oggi cerca di riconvertirsi nella logica «punitivista». È un’altra delle forme possibili di appropriazione o di cattura in cui si rischia di incorrere quando si parla solo di femminicidio. È la deriva della traduzione in termini securitari ‒ o nell’agenda della destra ‒ delle questioni portate avanti dal movimento delle donne.

«Non meno importante è il fatto che lo sciopero, oltre a spiazzare la questione della vittimizzazione, rivendica che qui c’è un movimento di donne che è un soggetto politico e che come tale sta imponendo una discussione trasversale sia a livello della società nel suo complesso, sia all’interno delle organizzazioni sociali. La questione dello sciopero ha prodotto dibattiti molto interessanti, però anche controversie e polemiche molto accese con i sindacati, per esempio. Lo stiamo vedendo nell’organizzazione dell’8 marzo. I sindacati, da una parte, mettono in discussione la legittimità del movimento delle donne per parlare di sciopero, perché avvertono che c’è qualcosa intorno alla disputa sul monopolio di questo strumento politico che li indebolisce. Però, dall’altro, emerge una chiara questione generazionale perché quella che è sentita come una minaccia dalla cupola, dalle giovani militanti donne del sindacato è vista come la possibilità di una confluenza tra la loro militanza sindacale e la loro militanza come donne.

«Di fatto, ed è un dato abbastanza impressionante, negli ultimi mesi c’è stata una quantità di giovani donne elette come delegate sindacali che hanno portato dentro al sindacato l’agenda di genere e per molte di queste il 19 ottobre è stata la prima esperienza nelle strade come donne sindacaliste. Questo significa che si è aperta una discussione che non si esaurisce nel modo in cui molti sindacalisti vorrebbero risolverla, vale a dire, sostenendo, per esempio, «da questo momento è politicamente corretto avere nell’organizzazione una segretaria di genere femminile…», quando invece la dinamica del movimento delle donne sta dicendo «no, ciò che reclamiamo non riguarda una segretaria di genere, si stanno ponendo discussioni in maniera trasversale alle stesse organizzazioni».

Negli ultimi mesi si sono date alcune mobilitazioni particolarmente forti. Da una parte, a seguito dei licenziamenti in ambito statale e in particolare nei Ministeri di Educazione e di Scienza e Tecnica. Dall’altra, le grandi manifestazioni intorno alla questione dell’emergenza sociale. Che tipo di ruolo hanno giocato queste mobilitazioni nella dichiarazione dello sciopero dell’8M? Vedi una relazione con queste mobilitazioni? Anche perché in queste lotte, se sei d’accordo, abbiamo assistito a un nuovo protagonismo delle donne che generalmente restava un poco coperto dalle logiche sindacali più classiche…
«Mi sembra che il 19 ottobre e oggi l’idea di sciopero posta dal movimento delle donne ci obbliga a una ridefinizione e soprattutto a un ampliamento dell’idea di sciopero perché si includano esplicitamente le donne dell’economia informale, dell’economia popolare, oltre a fare riferimento alla politicizzazione del lavoro domestico, riproduttivo, di cura. Si assume una mappatura del lavoro che almeno in America Latina ‒ dove la discussione sull’economia popolare è abbastanza importante ‒ si caratterizza per una forte eterogeneità.

«L’ampliamento dell’idea di sciopero credo interpelli questi settori del lavoro, ovvero è necessario chiedersi come uno sciopero possa contenere al suo interno realtà del lavoro così eterogenee. Per esempio, ci diceva una donna cartonera[2]: «se io non lavoro un giorno non mangio, perché il mio sostentamento è garantito dal lavoro di tutti i giorni». Come è possibile pensare che quest’aspetto non sia una debolezza di questo settore ‒ che visto da questa prospettiva non riuscirebbe a prendere parte allo sciopero ‒ ma piuttosto una specie di sfida alla stessa idea di sciopero, che deve essere capace di contenere questo tipo di realtà? Quindi lo sciopero è anche uno strumento capace di politicizzare figure del lavoro molto diverse però anche molto trasversali. La discussione intorno all’economia popolare, la sua relazione con i sussidi statali, con l’eredità del movimento piquetero[3], ecc. è qualcosa che si può vedere in tutta la sua complessità alla luce dello sciopero.

«Mi sembra che sia possibile una riconsiderazione del lavoro in chiave femminista e questo a partire dal 19 ottobre. «Il primo sciopero contro Macri lo facciamo noi donne»: questa parola d’ordine è stata molto forte il 19 ottobre. E l’8M sarà il secondo sciopero che facciamo, mentre nel frattempo tutte le centrali sindacali minacciano scioperi che però non fanno mai! La forza dello sciopero, quindi, chiama in causa la situazione argentina più congiunturale ‒ ciò che significa il governo neoliberale e conservatore ‒, però anche, più specificamente, le centrali sindacali che stanno chiaramente agendo sul terreno della negoziazione delle misure di austerity. E l’altro punto molto interessante e, credo, abbastanza sorprendente, è come l’idea di sciopero abbia avuto un’eco transnazionale, regionale e non solo regionale».

Tornando per un momento alla questione sindacale. Come hai accennato, ridefinire lo sciopero come pratica politica femminista significa anche sottrarlo al «monopolio sindacale». Alla fine, i sindacati argentini hanno dovuto dichiarare la loro adesione formale. Puoi dirci come avete articolato il rapporto con i sindacati, che tipo di difficoltà avete incontrato e come siete arrivate a questo risultato?
«Come prima cosa bisogna sottolineare che l’esigenza di un pronunciamento delle centrali sindacali esce da un’assemblea convocata da NiUNaMenos, che è stata un’assemblea moltitudinaria, con organizzazioni, movimenti sociali, gruppi culturali, ecc. Dalla stessa assemblea sorge la necessità di interpellare i sindacati.

«Da lì si apre tutto un processo di negoziazione che ancora stiamo attraversando e che ha a che vedere con la discussione intorno a quali sono gli attori legittimi per convocare lo sciopero, e la discussione continua a essere aperta… Però, come accennavo, questo processo evidenzia anche lo sfasamento generazionale all’interno del sindacato, le diverse esperienze militanti con cui le giovani arrivano al sindacalismo e la capacità della dirigenza sindacale di essere più o meno aperta all’emergenza di questi nuovi quadri giovani. È una disputa molto forte. Rispetto allo sciopero delle donne i sindacati attuano una sorta di duplice strategia: da un lato, assumono il discorso dello sciopero come strumento molteplice per diluirlo e non per potenziarlo come, al contrario, facciamo noi. Quindi, per esempio, ti dicono che sarebbe lo stesso dire «giornata di lotta», però noi sappiamo che non si tratta della stessa cosa. Dall’altro, cercano di imporre l’idea dello sciopero come misura che possono convocare solo loro in quanto sindacati.

«Mi sembra che tra questi due poli si sia aperta una tensione in queste settimane e si tratta di una tensione ancora molto attiva. In ogni modo, è un evento storico che i tre sindacati aderiscono insieme a uno sciopero che ha al proprio centro le questioni di genere. Ed è anche la prima volta, secondo quello che ci dicono le compagne, che si dà questo livello di discussione dentro al sindacato a partire dal movimento delle donne. È anche interessante come si stia producendo un nucleo di riflessione femminista sul tema del lavoro».

L’appello internazionale per lo sciopero dell’8 marzo fa espressamente riferimento alle politiche dei confini e alla condizione delle donne migranti. In che modo NiUnaMenos ha articolato il proprio discorso? Esistono percorsi di organizzazione per lo sciopero insieme alle donne migranti?
«Ci sono molte compagne di diversi collettivi e reti migranti che stanno partecipando nell’organizzazione dello sciopero. Inoltre la questione del lavoro migrante è fondamentale in questa mappatura del lavoro in chiave femminista, di questi lavori permanentemente invisibilizzati, oltre che femminilizzati. Tutto questo è molto presente. L’altro punto è che ‒ in Argentina in particolare, però potremmo parlare a livello continentale ‒ con l’apertura del primo centro di detenzione per migranti nel settembre scorso e l’ultima riforma per decreto del governo di Macri, che riduce le possibilità di soggiorno dei migranti, ci troviamo di fronte a politiche concrete di criminalizzazione. Quindi la dinamica di connessione con i lavoratori migranti è molto importante per costruire lo sciopero. Inoltre, proprio in questi giorni, i collettivi migranti hanno lanciato uno sciopero per il 30 marzo.

«C’è qualcosa di questa apertura dell’idea di sciopero che comincia a essere riappropriata anche da altri collettivi e da altre esperienze. E da questo punto di vista, la questione migrante parla un linguaggio che connette lo spazio regionale latinoamericano e per questo esce dalle dinamiche nazionaliste cui, tradizionalmente, fanno riferimento molte organizzazioni sociali».

Che cosa significa convocare uno sciopero che è uno sciopero sociale e transnazionale? Sociale perché impone una trasformazione radicale della società e transnazionale perché aggredisce questioni che non sono vincolate alle politiche dei singoli Stati ma attraversano i confini… Che cosa pensi di questa prospettiva e come cambia per voi il significato dello sciopero nel momento in cui sono le donne a rivendicare questa pratica in una prospettiva esplicitamente globale? Quali prospettive apre questa dimensione dopo l’8 marzo?
«È proprio questa potenza che è stata sorprendente, imprevista e che al tempo stesso esprime una forza che dobbiamo chiederci come sostenere. Perché è un tipo di connettività transnazionale che già dal 19 ottobre si è rivelata molto efficace nel tradurre una serie di domande fatte con un linguaggio molto diverso. Per esempio, lo sciopero in Paraguay ha una forte componente impegnata nella lotta contro l’avvelenamento da agro-tossici, quindi parte da una domanda di salute e dal ripudio delle multinazionali che ci stanno avvelenando.

«In Honduras e Guatemala lo sciopero ha a che vedere fortemente con la discussione sul femminicidio e sul territorio in relazione alle miniere multinazionali che stanno uccidendo i leader contadini e indigeni. In Brasile è legato alla protesta contro la chiesa evangelica e la sua offensiva contro l’autonomia delle donne sul loro corpo. Questa capacità di connessione, ripercussione e traduzione messa in campo dallo sciopero lo rende una misura molto elastica, cioè capace di contenere tutte queste domande, senza però diluirle in una dimensione globale astratta. Però questa stessa capacità di traduzione e di elasticità apre una domanda su come ci organizziamo: cosa facciamo il giorno dopo? Nell’appello abbiamo detto che l’8 marzo è il primo giorno della nostra nuova vita… è un movimento che dice che vuole cambiare tutto e credo che questo «voler cambiare tutto» esprime esattamente la capacità di politicizzare tutti questi temi.

«Lo sciopero deve essere uno strumento e un linguaggio capace di dar conto di tutte queste dimensioni della vita, della riproduzione della vita e del rifiuto del suo sfruttamento. Quindi qui gioca questa sorta di versatilità che può connettere a livello globale e che lascia aperta la domanda intorno a che cosa significa il movimento delle donne come soggetto politico: quali sono le sue forme di organizzazione? Che cosa significa questa eterogeneità quando riempie le strade? Che cosa si tesse tra una mobilitazione e l’altra? Penso che le mobilitazioni di piazza siano molto importanti però lasciano aperta la domanda su come tutto questo si strutturi nella lotta quotidiana per cambiare radicalmente le nostre vite».

[1] Verónica Gago, La razón neoliberal. Economías barrocas y pragmática popular, Buenos Aires, Tinta Limón, 2014.
[2] Con cartoneros ci si riferisce alle donne e agli uomini che raccolgono i rifiuti riciclabili.
[3] Movimento dei disoccupati che si consolidó in Argentina durante le politiche neoliberali degli anni Novanta. Cfr. Colectivo Situaciones, Piqueteros. La rivolta argentina contro il neoliberalismo, Roma, DeriveApprodi, 2003.

Due storie raccontate da Michela Bompani e Lucia Serranò dalle rispettive sezioni locali di Genova e Firenze de

la Repubblica. 7 marzo 2017 (p.d.)

la Repubblica online, ed Genova

LIGURIA, OSPEDALI E UFFICI
"VIETATI" ALLE DONNE COL BURQA
di Michela Bompani
L'ingresso negli ospedali liguri, ma pure negli uffici pubblici regionali sarà "vietato" alle donne che indossano il burqa. Lo annunciano il presidente della Regione, Giovanni Toti, Forza Italia, e l'assessora regionale alla Salute, Sonia Viale, leghista, anticipando il contributo di una delibera che sarà votata dalla giunta venerdì. "L'8 marzo è una buona occasione per dire che il burqa è il simbolo della sottomissione della donna all'uomo - dice Toti - ed è una buona occasione per ribadire che bisogna rispettare in Italia le regole minime di uguaglianza tra uomo e donna". E l'assessora Viale ribadisce: "Le persone che chiedono assistenza devono essere riconoscibili anche per facilitare gli interventi degli operatori". Immediato il sostegno del leader della Lega Nord, Matteo Salvini: "Nel diluvio di chiacchiere inutili che accompagna la Festa della donna, questa è una iniziativa concreta per la tutela della libertà, della dignità, dell'indipendenza e della sicurezza delle donne".
Bufera immediata, nelle file dell'opposizione in Regione: "Discriminatoria e incostituzionale la delibera della Viale - attacca Alice Salvatore, portavoce regionale M5S - che, invece di estendere i diritti delle donne, li riduce ulteriormente. Un pessimo segnale, alla vigilia dell’8 marzo, che offende tutte le donne". E aggiunge: "Fa inorridire l'idea che nel 2017 si tenti di impedire alle donne l’accesso alle cure sanitarie essenziali solo ed esclusivamente per i vestiti che indossano. Questa delibera non è altro che l’ennesimo atto di propaganda demagogica già andato in scena in Veneto e in Lombardia. Un provvedimento che viola palesemente l’articolo 3 della Costituzione e andrà incontro a una inevitabile bocciatura da parte della Corte Costituzionale". E Salvatore coglie l'occasione, proprio alla vigilia dell'8 marzo di ribadire: “Se vogliamo parlare di discriminazioni, pensiamo a quelle, troppe, di cui sono vittime le donne, che ancora scontano un gap importante sul lavoro e sulle retribuzioni e che continuano ad essere oggetto di violenze, soprattutto domestiche”.
L'assessora Viale rivendica: "Disporre il divieto d'ingresso nelle strutture sanitarie per le persone che indossino il burqa significa per la Regione Liguria assumere una misura fortemente anti-discriminatoria a difesa della libertà delle donne. Il nostro obiettivo è dire un chiaro no a quella che è la discriminazione simboleggiata dall’utilizzo del burqa. È un tema che deve essere portato all’attenzione della comunità ligure: le discriminazioni attuate attraverso la copertura del volto e del capo della donna sono l’anticamera di quello che non vogliamo. L’8 marzo è un simbolo di libertà della donna di scegliere come muoversi e come operare. Il burqa, al contrario, è simbolicamente l’atto di discriminazione sessuale più palese e maggiormente indice di fanatismo che si ritrova in alcuni paesi in cui la democrazia è dimenticata”.
Anche il Pd attacca la Viale: "Tutti hanno diritto a essere curati, indipendentemente dalla religione che professano e da come si vestono. Se si vuole aprire una discussione sul burqa, iniziare dagli ospedali è la cosa più sbagliata che ci sia - dice la capogruppo Pd in Regione, Raffaella Paita - parliamo di discriminazione: un tema rispetto al quale la giunta Toti si è distinta per essersi dimenticata di chiedere i fondi al governo. Gli stranieri in Italia sono 5 milioni, quasi il 10%. Molti sono musulmani. Una Regione seria affronterebbe queste vicende aprendo un dialogo con queste comunità, utilizzando mediatori culturali e stimolando una riflessione con la parte più moderata e avanzata. Infine una domanda: se si presenta al pronto soccorso una donna in pericolo che indossa il burqa, cosa fa il medico, le dice di andare a curasi altrove?"

la Repubblica online, ed Firenze
PRATO, OPERAIA CINESE MUORE

NEL CAPANNONE:
INCHIESTA SU
FABBRICA DORMITORIO
di Lucia Serranò
Un capannone-dormitorio con decine di operai stipati nello spazio di pochi metri, in precarie condizioni igieniche e di sicurezza. E una donna chiusa in bagno, col capo reclinato e gli occhi sbarrati. Indagini sono state avviate dai carabinieri di Prato, coordinati dalla Procura, sulla fine di una cittadina cinese di 50 anni, irregolare in Italia, trovata morta ieri mattina in un maglificio gestito da un connazionale a Carmignano (Prato). Una morte legata a cause naturali, secondo il medico legale, ma avvenuta in un contesto (dormitori, abusi edilizi, norme sulla sicurezza non rispettate) tale da imporre accertamenti e verifiche a tappeto. Si lavora, in particolare, per chiarire se la donna fosse costretta a turni massacranti o comunque incompatibili con le sue condizioni di salute.
In attesa dell'autopsia, prevista nei prossimi giorni, la Procura ha intanto aperto un fascicolo per l'ipotesi di reato di omicidio colposo, a carico di ignoti. Il titolare della ditta è stato denunciato per l'impiego di manodopera clandestina, mentre il capannone è finito sotto sequestro.
L'allarme è scattato ieri mattina. Sono stati alcuni operai a sfondare la porta del bagno e a scoprire il corpo senza vita: il personale del 118 è arrivato nel giro di pochi minuti, ma non ha potuto far altro che constatare il decesso. Sul posto sono quindi iniziati gli accertamenti dei carabinieri della stazione di Poggio a Caiano e del nucleo investigativo di Prato, seguiti poi da quelli del medico legale, che ha escluso l'ipotesi di una morte violenta (sul corpo nessun segno di violenza). In breve, però, è emerso uno scenario di forte degrado e illegalità. Lungo l'elenco di violazioni messe nero su bianco dalla polizia municipale e dai tecnici della Asl, intervenuti per un sopralluogo. Proprio sulla base della serie di irregolarità la Procura diretta da Giuseppe Nicolosi ha quindi deciso di approfondire il caso e disposto indagini a tutto campo. Nei prossimi giorni saranno ascoltati i sei operai trovati durante i primi controlli, ma si cercano anche gli altri lavoratori: la loro testimonianza potrebbe infatti risultare decisiva per ricostruire con precisione la catena di comando della ditta e le eventuali responsabilità del titolare.
Quella di ieri mattina è solo l'ultima morte "sospetta" registrata negli ultimi anni nei laboratori e nelle ditte di pelletteria gestite da cittadini cinesi in provincia di Prato. Come nel gennaio del 2016, quando la polizia ritrovò il cadavere di un operaio di 49 anni nel corridoio di una ditta di confezioni. Anche in quel caso le indagini accertarono che l'uomo viveva a pochi metri dal luogo di lavoro, ma la morte fu attribuita esclusivamente a cause naturali. Nel luglio scorso, invece, un cittadino cinese di 62 anni perse la vita in un magazzino nella Chinatown pratese, probabilmente folgorato dall'elettricità nel corso di un intervento su un generatore.

Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi».Articoli di Geraldina Colotti, Lea Melandri, Alberto Leiss.

il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)

LAVORO SALUTE DIRITTI
LE MATRIOSKE IN NERO E FUCSIA ALL'ATTACCO.
di Geraldina Colotti

Matrioske in nero e fucsia mobilitate in tutta Italia per lo sciopero globale. Ieri, a Roma e nel Lazio, tre le iniziative di avvicinamento all’8 marzo, giornata dell’astensione globale da ogni attività produttiva e riproduttiva indetta dal movimento Non una di meno. Le matrioske si sono fatte sentire davanti all’ospedale Grassi di Ostia, al Policlinico di Tor Vergata e al Policlinico Umberto I. Tre momenti coordinati per evidenziare il nesso tra salute, lavoro, autodeterminazione femminile e formazione di genere. Con l’hashtag #saluteliberatutte.

«Acqualuce deve riaprire. Zingaretti, che aspetti?» hanno gridato le donne davanti al Grassi di Ostia. Un’iniziativa contro la violenza ostetrica. «Questa era l’unica casa di maternità pubblica, è stata unaugurata l’8 marzo del 2009, ma è rimasta chiusa – spiega al manifesto Mirta, di Freedom-Non una di meno -. Nonostante gli impegni presi dai presidenti della Regione Lazio, prima Polverini poi Zingaretti, non sono mai state assunte ostetriche. In tutta evidenza, il diritto alla salute è garantito dal diritto al lavoro. Abbiamo organizzato un piccolo corteo interno, ricevendo l’appoggio degli operatori. Le donne devono poter scegliere il parto in casa maternità, assistito da ostetriche. Le principali evidenze scientifiche dicono sia una scelta sicura che produce migliori risultati di salute per la donna e per la persona che nasce». Tantopiù che la sentenza Ternovsky della Corte europea dei diritti umani, del 2011, «impone agli Stati membri di garantire la libertà di scelta delle donne rispetto al luogo del parto».

Punti rivendicati dal Tavolo Salute e Autodeterminazione, uno degli 8 discussi dal movimento in due grosse assemblee nazionali. Il nesso salute-lavoro è emerso anche dall’iniziativa che si è svolta davanti al Policlinico di Tor Vergata, «con una duplice richiesta – spiega Simona -: l’apertura di un reparto di ginecologia e maternità, e l’assunzione di solo personale laico negli ospedali pubblici. Questo garantisce sia i diritti che il lavoro per tante persone formate che però sono disoccupate o precarizzate dalla sanità nazionale e regionale. La risposta alla violenza è l’autonomia delle donne».

Al policlinico Umberto I, le donne della rete Io decido – lavoratrici e studentesse della Sapienza – hanno distribuito volantini e sono state ricevute dal Direttore generale. «È inconcepibile – spiega Ambra, di Io decido – che in una università come La Sapienza non vi siano sportelli antiviolenza e consultori autogestiti. E che a Roma vi sia una percentuale sempre più alta di obiettori di coscienza nelle strutture pubbliche. Al Policlinico Umberto I, la questione principale è il Repartino che funziona al minimo per mancanza di personale non obiettore. E conserva una parziale attività solo per la protesta degli scorsi anni agita dalla rete Io Decido».

Le studentesse hanno organizzato la settimana «Sui generis», lezioni universitarie autogestite che sono state riprese anche dai ragazzi, presenti ieri all’iniziativa con i cartelli per il pieno accesso alla Ru486 e all’aborto libero, sicuro e gratuito. Lezioni «su concetti base dello sciopero dall’attività riproduttiva, che non significa l’astensione dal sesso, ma dal lavoro di cura, da quello domestico».

Dalla gran Bretagna, Payday/ Refusing to Kill – una «rete internazionale multirazziale di uomini etero e queer, compresi i trans, che lavora con lo Sciopero globale delle donne» – ha invitato gli uomini ad appoggiare lo sciopero dell’8 marzo, le campagne e la resistenza delle donne. Intanto, i paesi che aderiscono, dai cinque continenti, sono già 48. Dalla Colombia, hanno comunicato la propria partecipazione anche le guerrigliere delle Farc, impegnate in un difficile processo di smobilitazione. Insieme in tutto il mondo – dicono – «per costruire alternative all’attuale crisi capitalistica coloniale, che approfondisce le violenze patriarcali evidenziati dagli tassi di femminicidi in America latina e nel mondo, dalle espulsioni forzate, dalle guerre, dalle morti per gli aborti insicuri, dalla subordinazione e discriminazione delle donne nella partecipazione politica».

Anche le donne curde hanno inviato un comunicato di adesione intitolato «Facciamo del Ventunesimo Secolo il Secolo della Liberazione delle Donne» e firmato Jin Jiyan Azadî – Donne Vita Libertà. «Il nostro secolo – scrivono – può diventare il secolo nel quale la liberazione delle donne si realizza. Il sistema mondiale patriarcale e capitalistico attraversa una profonda crisi strutturale. Dobbiamo sfruttare queste storiche opportunità». Scrivono le femministe dal Venezuela: «Di fronte all’attacco patriarcale e neoconservatore nella regione e nel mondo, il movimento delle donne indica un’alternativa globale per tutti i popoli».

Secondo dati del Censis e dell’Ocse, l’Italia è la peggio piazzata in Europa per superare le differenze di genere. Gli uomini italiani dedicano in media solo 100 minuti al giorno per aiutare le donne nei lavori domestici: appena un po’ di più dei turchi, dei portoghesi e dei messicani… Le donne percepiscono salari inferiori agli uomini sia nel settore privato (meno 19,6%) che nel pubblico (meno 3,7%). Nel 2016, l’Italia è risultata all’ultimo posto in Europa per occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni (prima la Svezia e ultima la Grecia). Per assolvere ai loro molteplici compiti, le donne accettano più degli uomini il part time involontario (60,3%, Italia terza dopo Grecia e Cipro).

Non una di meno ha come obiettivo quello di stendere un Piano femminista nazionale contro la violenza di genere che abbracci tutti temi che la sottendono ed eviti «ogni intervento di tipo repressivo ed emergenziale». Scioperiamo – dicono – «per un reddito di autodeterminazione, per resistere al ricatto della precarietà, per un salario minimo europeo, perché nessuna donna, spesso migrante, sia messa al lavoro nelle case in cambio di sotto-salari e assenza di tutele». Libere di scegliere, pronte a reagire. È la consegna per l’8 marzo alle 10 presso la Regione Lazio, a Garbatella. In piazza per la Salute, l’Autodeterminazione e il Lavoro. Poi, alle 17, tutte al corteo al Colosseo.

NON UNA DI MENO RINNOVA
LA NOSTRA RIVOLUZIONE
di Lea Melandri

«Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente

Nel corso del mio lungo impegno nel movimento delle donne ho visto molte manifestazioni di piazza, le ho attese a lungo, vi ho preso parte con entusiasmo e ho sperato ogni volta che potessero avere continuità. Di quella che sta per invadere le città, da noi come in altri paesi del mondo – Non Una di Meno – dirò che cosa ha di particolare rispetto alle precedenti, e perché la considero una ripresa della rivoluzione culturale, o di quel salto della coscienza storica, che è stato il femminismo degli anni Settanta.

Allora come oggi si è trattato di un movimento internazionale: una generazione giovane che compariva, “soggetto imprevisto” sulla scena pubblica, abbandonando la “questione femminile” – lo svantaggio delle donne, la loro cittadinanza incompiuta, ecc. – per un’analisi del rapporto di potere tra i sessi, le problematiche del corpo, sessualità,maternità, aborto, considerate “non politiche”, per interrogare l’ordine esistente nella sua complessità. Negli slogan “il personale è politico”, “modificazione di sé e del mondo”, c’era la sfida, la protesta estrema di una inedita cultura femminista che – come scrisse Rossana Rossanda – si poneva «come antagonista, negatrice della cultura altra»: «Non la completa, la mette in causa».

Le esigenze radicali, che allora si rivelarono impossibili per ostacoli esterni ed interni al femminismo stesso, ricompaiono oggi, come spesso accade, in una situazione mutata e nel protagonismo di una generazione che, a differenza della nostra, non è “contro” le donne che l’hanno preceduta e in qualche modo fatta crescere.

Nei report usciti dalle affollatissime assemblee bolognesi del 4/5 febbraio, il richiamo al femminismo, alle sue pratiche e all’autonomia con cui ha dato vita ad associazioni, consultori, centri antiviolenza, interventi formativi nelle scuole, è ricorrente. Sia per quanto riguarda i media e la necessità di un «osservatorio indipendente», sia in riferimento ai consultori autogestiti nati nella prima metà degli anni Settanta per iniziativa dei gruppi di Medicina della donne e poi istituzionalizzati nel 1975. Con il timore che la stessa sorte possa toccare ai centri antiviolenza: «…i consultori devono tornare a essere aperti e accoglienti, liberi e gratuiti, diffusi nel territorio….Vogliamo vivere i consultori come luoghi di aggregazione e centri culturali (…) capaci di accogliere e riconoscere le molteplici identità di genere che un individuo può sperimentare …».

Data la giovane età, della storia del femminismo le nuove generazioni conoscono poco, ma sanno che da quella radice vengono le loro consapevolezze, la libertà e la forza collettiva che le ha fatte incontrare in tante e così inaspettatamente.

Benché partito sull’onda di una rivoluzione che avrebbe dovuto investire il patriarcato e il capitalismo, liberare dai modelli interiorizzati del maschile e del femminile, sovvertire la divisione sessuale del lavoro, la politica separata, nel momento della sua diffusione il femminismo si è fatto quasi fatalmente, data l’ampiezza dei suoi temi, frammentario. Le manifestazioni che si sono succedute nel tempo hanno sempre avuto un tema specifico -la legge 194, la violenza domestica, ecc.

Lo Sciopero internazionale delle donne dell’8 marzo 2017 in Italia sembra averne ricomposto tutte le anime, in una visione di insieme che va dall’autodeterminazione sessuale e riproduttiva alla precarietà del lavoro, dal partire da sé come pratica di presa di coscienza ai problemi riguardanti le migrazioni, dal femminicidio alla violenza maschile vista come “fenomeno culturale”, dal sessismo al razzismo, all’omofobia. La ricerca dei nessi tra sessualità e politica, tra patriarcato e capitalismo, che già compariva nei volantini degli anni Settanta, ma che era sembrata a lungo come l’Araba fenice, negli “8 punti” con cui da Bologna è partita la decisione di riscrivere il “Patto straordinario contro la violenza sessuale e di genere”, ha trovato per la prima volta concretezza e radicalità nel tenere insieme obiettivi e lavoro sulle vite singole.

La violenza maschile nelle sue forme più selvagge e criminali si può dire che ha fatto da catalizzatore nel collegare i molteplici aspetti di un dominio che attraversa le vicende più intime così come i poteri e i linguaggi delle istituzioni pubbliche, e che paradossalmente proprio negli interni delle case, dove si intrecciano perversamente amore e violenza, rivela la sua «normalità».

Se le donne sono state per secoli un corpo a disposizione di altri, l’8 marzo – come si legge nel documento Ni Una Menos delle donne argentine, da cui è partito il Paro Internacional De Mujeres, sarà il primo giorno della loro «nuova vita» e il 2017 «il tempo della nostra rivoluzione».

SCIOPERO DELLE DONNE
( E NOI MASCHI?)

di Alberto Leiss

«In una parola. Possiamo aderire in molti modi: incrociando le braccia per pura solidarietà, occupandoci dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Altrimenti impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a identificarci».

Domani è l’8 marzo e quest’anno c’è una novità. Molte donne in tutto il mondo pronunciano una parola che fa parte della storia del movimento operaio: sciopero! In Italia firma la dichiarazione di sciopero generale il movimento Non una di Meno, che – formato da soggetti diversi, dalla rete dei centri antiviolenza Dire, alla storica Unione donne in Italia (Udi) alla galassia romana Io decido – ha già dato vita alla grande manifestazione romana del 26 novembre scorso e a due assemblee nazionali a Roma e a Bologna.

Questo giornale ha già raccontato le caratteristiche e i contenuti di uno sciopero che si propone di coinvolgere sia il lavoro produttivo, sia il lavoro di cura che soprattutto le donne continuano a fare.

La reazione contro la violenza maschile si carica di protesta contro un intero sistema economico e sociale che rende in modo violento precaria la vita soprattutto delle (e dei) giovani, e che non elimina ancora troppi svantaggi per le donne, nonostante la forza e la libertà conquistata e ereditata dalla rivoluzione femminista.

La scelta di rilanciare una forma di lotta che rievoca apertamente le origini dei movimenti antagonisti di un altro tempo – qualche giornale ha ricordato come una enorme e pacifica manifestazione di donne russe avesse aperto le giornate della Rivoluzione sovietica (poi rovinata dai maschi) un secolo fa – secondo me non va confusa con un eccesso di nostalgia o di ideologia. C’è qualcosa di profondamente vero nell’idea che si debba in qualche modo ricominciare da capo per conquistare nuove libertà, per reagire a nuove sopraffazioni, e che un movimento mosso da queste ambizioni, sentimenti, desideri, per vincere debba assumere una dimensione globale.

In un momento in cui sembra prevalere ovunque lo spirito di scissione e di contrapposizione, anche intorno allo sciopero delle donne non sono mancate le polemiche. Ma è davvero possibile – dice una “madre di famiglia” – “astenersi”, sia pure per una sola giornata (ma quanto sono lunghe in certe situazioni 24 ore!) dall’accudire un bambino piccolo o un anziano malato? E che senso ha – dice un altro (sindacalista) – rinunciare a ore di stipendio per obiettivi un po’ vaghi come combattere la violenza maschile? E perché Non una di Meno – scrive su facebook la mia amica Isoke – non ha affrontato con la forza necessaria la violenza della tratta delle straniere costrette a prostituirsi?

Opinioni e dubbi forse fondati. Ma in me prevale l’aspettativa: domani scatterà una scintilla capace di illuminare un’altra scena per quella cosa che chiamiamo politica? E saranno le donne a accendere questa luce?

Lo sciopero – si legge nel blog di Non una di Meno – è “sciopero dei generi” e “sciopero dai generi”. Non solo una “mobilitazione di massa”, ma anche una “mobilitazione” per una trasformazione personale. Un invito a riconoscere e scartare gli stereotipi che una cultura millenaria ci cuce addosso.

Noi maschi possiamo aderire in molti modi. Incrociamo le braccia per pura solidarietà, un sentimento che andrebbe riscoperto. Occupiamoci – per un giorno – dei bambini e dei nonni poco autosufficienti. Se non possiamo fare questo, impegnamoci almeno in un esperimento mentale: proviamo a metterci nei panni di quella ragazza che si è laureata a pieni voti, ha fatto il master, ha già scritto pagine geniali, o prodotto filmati esteticamente perfetti, ma trascorre i suoi giorni obbligata a dare consigli stupidi ai clienti di un call-center. E magari alla sera viene maltrattata dal fidanzato.

Non verrebbe in mente anche a noi di proclamare uno sciopero generale?

. MicroMega online, 6 marzo 2017 (c.m.c.)

Lo avevano detto che la manifestazione del 26 novembre scorso contro la violenza maschile sulle donne non sarebbe stata che una tappa di un percorso più ampio e ambizioso. E le donne del movimento “Non una di meno” sono di parola: quella promessa trova infatti oggi conferma e nuovo slancio con lo sciopero generale indetto per l’8 marzo sotto lo slogan: “Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!”.

«Constatiamo ogni giorno quanto la violenza sia fenomeno strutturale delle nostre società, strumento di controllo delle nostre vite e quanto condizioni ogni ambito della nostra esistenza: in famiglia, al lavoro, a scuola, negli ospedali, in tribunale, sui giornali, per la strada… per questo – spiegano le promotrici – il prossimo 8 marzo sarà uno sciopero in cui riaffermare la nostra forza a partire dalla nostra sottrazione: una giornata senza di noi».

Accogliendo l’invito a organizzare uno sciopero internazionale lanciato dalle donne argentine, la rete “Non una di meno” ha fatto quindi appello a tutti i sindacati per una giornata di mobilitazione nazionale. Cgil, Fiom, Cisl e Uil non hanno accolto la richiesta. Ma lo hanno fatto alcuni sindacati di base che hanno dunque indetto uno sciopero generale di 24 ore (Usi, Usb, Cobas, Slai Cobas per il sindacato di classe, Confederazione dei comitati di base, Sial Cobas, Usi-ait, Sindacato generale di base; la Flc-Cgil - lavoratori settore della scuola pubblica e privata - ha indetto 8 ore di sciopero).

La copertura sindacale dunque c’è: in ogni luogo di lavoro, a prescindere che si appartenga o meno a un sindacato, si possono incrociare le braccia come forma di protesta contro la violenza sulle donne in tutte le sue forme.

Otto i punti intorno ai quali il movimento “Non una di meno” – composto dalla Rete IoDecido, da D.i.Re-Donne in rete contro la violenza e dall’Unione donne in Italia – chiama alla mobilitazione:

contro la trasformazione dei centri antiviolenza in servizi assistenziali («i centri sono e devono rimanere spazi laici ed autonomi di donne, luoghi femministi che attivano processi di trasformazione culturale per modificare le dinamiche strutturali da cui nascono la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere»);

per la piena applicazione della Convenzione di Istanbul contro ogni forma di violenza maschile contro le donne;

per l’aborto libero, sicuro e gratuito e l’abolizione dell’obiezione di coscienza;

per rivendicare un reddito di autodeterminazione, per uscire da relazioni violente, per resistere al ricatto della precarietà;

contro la violenza delle frontiere, dei Centri di detenzione, delle deportazioni che ostacolano la libertà dei migranti e delle migranti;

affinché l’educazione alle differenze sia praticata dall’asilo nido all’università («per rendere la scuola pubblica un nodo cruciale per prevenire e contrastare la violenza maschile contro le donne e tutte le forme di violenza di genere»);

per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti («perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività»);

contro l’immaginario mediatico misogino, sessista, razzista e che discrimina lesbiche, gay e trans.

Una piattaforma di rivendicazioni che costituisce un assaggio di ciò che sarà il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne su cui il movimento sta lavorando già da qualche mese.

Tantissime le iniziative previste per l’8 marzo: l’elenco completo e in continuo aggiornamento si trova sul sito nonunadimeno.wordpress.com. A Roma, tra le altre cose, alle 17 è prevista una manifestazione con partenza dal Colosseo.

Ma le braccia, quel giorno, non verranno incrociate solo in Italia: sono 40 i paesi che, sull’onda delle proteste che si sono dispiegate nel mondo intero nell’arco del 2016, hanno accolto l’invito delle donne argentine.

In prima linea gli Stati Uniti, dove lo sciopero – a solo un mese e mezzo dal corteo anti-Trump che il 21 gennaio scorso ha visto sfilare per le strade della capitale mezzo milione di donne – ha incassato il sostegno di un ampio ventaglio di realtà (femministe, afroamericane, lgbt eccetera) nonché di personalità del calibro di Angela Davis e Nancy Fraser.

E non è un caso che sia in primo luogo alle donne statunitensi che, a pochi giorni dallo sciopero, abbiano pensato di rivolgersi le donne polacche, le quali per prime hanno sperimentato, con il Black Monday dell’ottobre scorso, la forza di uno sciopero globale delle donne. La loro lettera (di cui in calce trovate una nostra traduzione) è il grido di allarme di chi già da più di un anno sperimenta sulla propria pelle scelte politiche scellerate. Ma è anche un messaggio di speranza che dice a tutte le donne del mondo: le vostre paure sono fondate, ma non siete sole.

Alle donne d’America e di tutto il mondo: un avvertimento
e un grido di battaglia dalla Polonia

Noi donne polacche abbiamo assistito con una nauseante sensazione di familiarità all’emergere della più grande minaccia alla democrazia americana, nella persona di Donald Trump. Mentre ci avviciniamo all’8 marzo, giorno del nostro sciopero internazionale contro il ridimensionamento dei diritti delle donne, vogliamo condividere con voi qual è la posta in gioco, dalla prospettiva di un paese in cui un governo Alt-Right [1] è al potere da più di un anno. Care donne americane e di tutto il mondo le vostre paure sono fondate. Ma non siete sole.

L’8 marzo sarà il nostro secondo momento di protesta contro la tossica relazione nella quale il nostro attuale governo sta cercando di forzare le donne polacche. Il nostro primo sciopero è stato il Black Monday, nell’ottobre dello scorso anno, quando abbiamo inondato le strade con i nostri ombrelli neri in difesa dei nostri diritti riproduttivi. Proprio come Donald Trump, che nel suo primo giorno da presidente ha imposto il “bavaglio globale” alle ong che sostengono i diritti riproduttivi delle donne, il governo polacco ha iniziato il suo mandato con il tentativo di criminalizzare quelle poche eccezioni alla nostra già restrittiva legge anti-aborto. Non potevamo permettere e non abbiamo permesso che questa proposta passasse.

Da allora abbiamo visto che la strategia di un governo che inizia attaccando i diritti delle donne prosegue inserendo nazionalismo e demonizzazione dei migranti nei libri di storia degli studenti. Abbiamo visto che una presidenza che inizia facendo passare le redini della vita delle donne nelle mani delle autorità prosegue rimuovendo le tutele all’ambiente in pericolo.

Abbiamo anche sperimentato che quando un uomo eletto per rappresentare un’intera nazione volta le spalle alle donne, velocemente fa lo stesso con i media e i tribunali. Quando un bullo detiene un grande potere politico, le conseguenze sono quelle che vediamo in Polonia oggi: una corte costituzionale storpia, un sistema educativo immerso nel caos, un paese soffocato dallo smog, dove foreste e alberi urbani vengono sconsideratamente abbattuti, dove i media indipendenti sono indeboliti da sanzioni economiche e i mezzi di comunicazione pubblici sono trasformati in una macchina di propaganda del governo. Quello che era cominciato con una pugnalata ai nostri diritti riproduttivi è andato avanti attaccando molto di ciò cui, in quanto società moderna, avevamo più a cuore. Questi cambiamenti in Polonia sono avvenuti molto velocemente. Potrebbe accadere lo stesso negli Usa.

Per la verità, potrebbe accadere lo stesso in molte parti del mondo. Ci rendiamo conto che le politiche occidentali hanno oltrepassato il limite di tolleranza sociale rispetto alla disparità di reddito e alla corruzione. Cambiamenti sono inevitabili ed è certo che tutti ci troveremo di fronte un turbolento periodo di trasformazione. Ma non dobbiamo permettere che il fascismo e altri errori del passato siano presentati come soluzioni alle sfide di oggi. È nostra incrollabile convinzione che i diritti delle donne sono diritti umani. E un futuro costruito sulla democrazia, che implica il rispetto di tutti i diritti umani, è l’unico al quale prenderemo parte.

Ventotto anni fa, con Solidarność abbiamo portato la democrazia in Polonia dopo decenni di occupazione comunista. L’8 marzo, un giorno senza donne, ispirato al nostro Black Monday, sciopereremo di nuovo in solidarietà internazionale per difendere questi valori.

Sciopereremo con voi in quanto donne del 99%. In quanto madri, vedove, sorelle, figlie e leader della rivoluzione per un futuro inclusivo e sostenibile per tutti: quello in cui la notevole connettività della tecnologia può diffondere saggezza e cooperazione più velocemente e più lontano di false verità e odio. Un mondo in cui il valore degli esseri umani è basato su ciò che conoscono, su ciò che sanno fare e sul contributo che possono dare, non sul loro genere, sul loro luogo di nascita o sul loro dio. Una società in cui la mano invisibile dei valori democratici garantisce l’eguaglianza di tutti. Scioperiamo contro l’oppressione, nel nome di un nuovo progresso, dei diritti umani faticosamente conquistati da coraggiosi uomini e donne del passato. Ci impegniamo a prendere parte attiva nella creazione di un nuovo equilibrio, che emergerà dalle crisi odierne su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Per far capire l’impatto del nostro incontro globale, proponiamo di contarci. Scopriamo e lasciamo che gli altri scoprano quanto grande è la forza del nostro movimento. Contiamoci! Indipendentemente se abitiamo in una grande città o in un piccolo villaggio, se viviamo in Europa, America, Africa o Asia, se saremo in grado di partecipare a qualche dimostrazione pubblica o meno. Se condividi l’idea di un nuovo futuro interconnesso basato sull’uguaglianza democratica per tutti, allora per favore prendi il tuo numero.

Al link www.CountMeIn.pl ti sarà dato un numero di identificazione unico nel movimento globale delle donne per la democrazia. Usalo! Mostralo l’8 marzo e ogni volta che hai bisogno di sfidare un’ingiustizia, di denunciare un abuso, di elogiare una collaborazione, o di chiamare aiuto. Mostralo online e ovunque tu possa farlo in sicurezza. Usalo per costruire sostegno per un futuro di cui tutti possiamo essere fieri. E prendi il tuo numero così da non sentirti sola. Perché non lo sei.

Firme

Kongres Kobiet – Poland's Congress of Women (www.kongreskobiet.pl) International Women’s Strike – Poland (www.parodemujeres.com)
Lilja Ólafsdóttir e Gudrún Hallgríms­­dóttir, tra le organizzatrici dello sciopero delle donne islandese del 1975, entrambe fanno parte del movimento femminista Redstockings Guðrún Jónsdóttir, una partecipante allo sciopero islandese del 1975, attualmente attivista di Stigamot, organizzazione che lotta contro gli abusi sessuali sulle donne
Wysokie Obcasy – settimanale polacco che si occupa di questioni relative alle donne (www.wysokieobcasy.pl ) Gazeta Wyborcza – maggiore quotidiano polacco liberale (www.wyborcza.pl)

NOTE

[1] Abbreviazione di Alternative Right, termine coniato dal suprematista bianco Richard Bertrand Spencer per indicare un insieme di idee di estrema destra incentrate sull’"identità bianca" e sulla conservazione della “civiltà occidentale”. Uno dei megafoni mediatici dell’Alt-Right è il sito Breitbart News di cui il neo capo stratega della Casa bianca, Steve Bannon, è stato direttore esecutivo.

. La Repubblica, 3 marzo 2017

INCROCERANNO le braccia in ufficio e a casa: astensione dal lavoro, ma anche stop alle lavatrici, niente spesa e figli portati a scuola dai papà. Sarà un 8 marzo di lotta, non più puramente celebrativo. Ma lo sciopero delle donne, proclamato “dal basso”, manda già in tilt i sindacati confederali, con Susanna Camusso della Cgil che ricorda: «L’astensione dal lavoro non è solo un atto simbolico». Lo sciopero di genere, che arriva per la prima volta in Italia sull’onda della mobilitazione internazionale, partita in Polonia e Argentina e rilanciata dalla Women March di Washington, da noi fa già discutere.

A promuoverlo è la rete femminista “Non una di meno”, che ha portato in piazza lo scorso novembre 250mila donne contro la violenza. I sindacati di base (Usi, Usb e Cobas) hanno proclamato l’astensione per 24 ore, la Cgil fatica a discostarsi ma si sfila dallo sciopero generale. La rete femminista aveva chiesto questo ai confederali. Cisl e Uil non hanno risposto, Camusso, alla guida della Cgil, lo ha fatto con una lettera: «Sono solidale, vi esprimo affetto e rispetto, parteciperemo alle iniziative — scrive — ma lo sciopero non è solo un atto simbolico, ma la determinazione di rapporti di forza che si realizzano in presenza di ampia partecipazione ». Perciò il sindacato è pronto a proclamarlo laddove «abbia possibile concretezza». Non a caso sciopereranno le insegnanti e le educatrici degli asili, non le operaie: la Flc-Cgil ha proclamato 8 ore di astensione, la Fiom no. «L’80% della nostra categoria è donna e siamo educatori: abbiamo due volte ragione per aderire», afferma la segretaria nazionale della scuola Francesca Ruocco. Anche nei singoli luoghi di lavoro sarà possibile l’astensione, «col consenso delle lavoratrici », precisa Camusso. Ma niente sciopero generale.

È il nodo di questa mobilitazione: è possibile uno sciopero di genere, fuori da categorie e rivendicazioni contrattuali? Per le donne del movimento sì. «La natura politica di questo sciopero è l’opposizione alla violenza contro le donne in ogni forma », spiega Paola Rudan. «I confederali non hanno saputo cogliere la sfida, è una scelta miope: questo è uno sciopero politico, sociale. La copertura c’è, tutte le donne potranno farlo», contesta Tatiana Montella, voce di “Io decido”, la rete romana che sta nel movimento con l’Udi e i centri anti-violenza. Anime diverse di un nuovo e altro femminismo che avanza, con tanti distinguo, pure sulle mimose. «Noi le offriamo dal ‘44 e lo faremo anche quest’anno — spiega Laura Piretti, responsabile Udi — Aderiamo allo sciopero, anche se avremmo preferito che passasse l’idea delle donne che si fermano, che si sottraggono per un giorno o un minuto a questa società violenta».

La mobilitazione sarà internazionale, dalle donne polacche che protestano contro un disegno di legge che vieta l’aborto alle argentine già scese in piazza lo scorso ottobre per Lucia Pérez, stuprata e uccisa, sino all’appello sul Guardian, firmato anche dall’attivista Angela Davis. C’è prudenza sui numeri. Ma c’è già chi, come l’azienda dei trasporti di Bologna, annuncia possibili disagi. Da Palermo a Milano, saranno centinaia le iniziative, con cortei in tutte le città. A Roma si partirà con un presidio in Regione sul diritto alla salute, altrove si manifesterà davanti agli ospedali per il diritto all’aborto. E c’è chi invita a sospendere «le attività riproduttive»: non solo le pulizie di casa, ma anche i rapporti sessuali. Uno dei tanti modi per dimostrare che «se le donne si fermano, si ferma anche il mondo».

«I vescovi e la ministra contro le assunzioni Ma altre regioni sono pronte a seguire il Lazio»A una buona azione corrisponde subito una cattiva reazione... reazionaria.

la Repubblica, 23 febbraio 2017

Prima la Cei, poi la ministra alla Sanità. Sul concorso del San Camillo di Roma per l’assunzione di due ginecologi obiettori di coscienza piovono le critiche del Vaticano e del governo. «Si snatura l’impianto della 194 che non aveva l’obiettivo di indurre all’aborto ma prevenirlo. Predisporre medici appositamente a questo ruolo è una indicazione chiara», dice don Carmine Arice, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei. Beatrice Lorenzin, che ieri era a Bruxelles e che qualche mese fa era intervenuta alla Camera sullo stesso tema parlando di modalità di reclutamento discriminatoria, ha aggiunto: «È evidente che abbiamo una legge che non prevede questo tipo di selezione. Dà invece la possibilità, qualora una struttura abbia problemi di fabbisogno, per quanto riguarda singoli specifici servizi, di poter attingere anche in mobilità da altro personale. Tra l’altro quando si fanno assunzioni e concorsi non mi risulta che ci siano parametri che vengono richiesti».

Quello che ha fatto il Lazio viene osservato con interesse dalle altre Regioni, in particolare quelle in difficoltà ad assicurare l’interruzione volontaria di gravidanza per carenza di non obiettori. «Non sono convinto della tenuta giuridica dell’atto, che probabilmente sarà impugnato. Ma se si dimostrasse legittimo seguiremmo di sicuro la stessa strada», dice Baldo Guicciardi, assessore alla Salute della Sicilia. Apertura anche dal Molise, che ha il record di obiettori (più di 9 su 10). «Abbiamo 312mila abitanti e per ora con un medico strutturato rispondiamo alla domanda — spiega il presidente Paolo di Laura Frattura — Se però ci trovassimo in difficoltà, il concorso potrebbe essere una strada». Dalla Puglia sono più scettici. «Assunzioni con quei presupposti non si possono fare. La soluzione sta nel convenzionarsi con specialisti esterni non obiettori. Grazie a loro per ora sopperiamo alle carenze». La posizione è simile a quella delle Marche, mentre dalla Basilicata fanno sapere che in questo momento non c’è spazio per le assunzioni, vista la crisi del sistema sanitario: «E poi avremmo più bisogno di anestesisti ». L’assessora toscana Stefania Saccardi, invece, non pensa al concorso dedicato perché «i nostri dati sono buoni, abbiamo abbastanza non obiettori e gli aborti sono in netto calo». Dalla Lombardia invece arriva un forte no della Lega all’idea del Lazio. Il sindacato dei ginecologi, la Fesmed, non critica l’impostazione del concorso. «Quello si può fare in quel modo — dice il presidente Giuseppe Ettore — Ma dopo, se chi ha vinto cambia idea è impossibile allontanarlo come minaccia di fare il Lazio, perché quel professionista ha diritto di diventare obiettore quando vuole. Un giudice gli darebbe ragione».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Il governo: “È evidente che abbiamo una norma che non prevede questo tipo di selezione”

Senza tregua persistono nella loro imbecillità i membri del sesso strutturalmente debole. Soprattutto quelli di loro che hanno più facile accesso ai mass media.

il manifesto, 12 febbraio 2017

Abbiamo mai visto un titolo di quotidiano che abbia definito, che ne so, «pisello al dente» un qualunque signore impelagato in vicende politiche con risvolti penali, magari con qualche intreccio rosa?

E appena formulata la domanda, subito trovo una prima risposta, perché di fatto, nessun uomo, almeno in Italia risulterebbe veramente umiliato da un epiteto del genere. E di conseguenza, non è attraverso gli epiteti sessuali che si attacca un uomo politico. Loro, il genere maschile etero, non hanno lo stigma della puttana che li insegue da vicino, come capita sempre a ogni singola donna, tanto più se hai l’ardire di essere una donna pubblica. Addirittura una sindaca.

Hanno provato di tutto, per colpire Virginia Raggi. Bambolina, fatina. Ora che le voci sulle sue relazioni sentimentali si levano più alte, ecco il titolone di Libero. Una donna inchiodata al suo sesso. Non molto diverso dai tanto deprecati social, mi sembra. Giornali splatter che trasudano sessismo, si fanno portavoce della più odiosa misoginia. Puro stile Trump. Nessuno sembra interessato a capire chi sia, Virginia Raggi, donna a miei occhi imperscrutabile, dai comportamenti che oscillano tra la sfida della dura, che tira dritto, al mostrarsi fragile, e per questo seduttiva.

Intendiamoci. L’operato di Raggi è più che discutibile, e non solo per gli aspetti di abuso di ufficio su cui le indagini sono in corso. Ma critiche politiche, vi prego, alla sindaca di Roma.

Battute da spogliatoio, da maschi che si fanno tronfi della loro miseria, basta. E su questo non c’è altro da dire.

Fra un mese. Le donne di 22 paesi unite in un 8 marzo di lotta «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare». Articoli di Geraldina Colotti e Bia Sarasini,

il manifesto, 7 febbraio 2017

NON UNA DI MENO:
«SIAMO PRONTE A BLOCCARE IL PAESE»
di Geraldina Colotti

Sul pullman che da Roma ci porta a Bologna, l’età media non supera i 25 anni, con qualche punta verso il basso o verso l’alto: si va dai piccolissimi che impongono a tutte di rispettarne il sonnellino, a qualcuna più avanti con gli anni. Sui piccoli schermi compaiono le immagini di Zootropolis, il nuovo cartone animato targato Disney che ha per protagonista una coniglietta-poliziotta. «Ma è ’na guardia», esclamano in molte, e parte un coro di «buuh». Sul pullman stracolmo, tutte realtà autogestite, centri sociali, sindacaliste di base o centri anti-violenza che lavorano con le migranti. Marta prende il microfono e dispensa le informazioni di viaggio e gli appuntamenti che ci attendono…

All’università di Bologna, la partecipazione ai tavoli è maggiore di quella di Roma, il giorno dopo la grande manifestazione del 26 novembre, che ha portato in piazza oltre 200.000 persone. Allora, si era più di 1200, in questo fine settimana, circa 2000. Gli 8 tavoli tematici sono gli stessi stabiliti a Roma: Piano Legislativo e Giuridico; Lavoro e Welfare; Educazione alle differenze, all’affettività e alla sessualità: la formazione come strumento di prevenzione e di contrasto alla violenza di genere; Femminismo migrante; Sessismo nei movimenti; Diritto alla salute sessuale e riproduttiva; Narrazione della violenza attraverso i media; Percorsi di fuoriuscita dalla violenza. La discussione – a volte animata ma inclusiva – si protrae anche oltre «l’allarme» di chiusura, annunciato ossessivamente dagli altoparlanti dell’istituto alle 18.

Alla plenaria – aula magna stracolma e diretta streeming per chi si trova sopra in un’altra sala – si presentano le sintesi dei tavoli, temi e proposte per lo sciopero globale dell’8 marzo: astensione da ogni attività produttiva e riproduttiva e anche dal consumo. Uno sciopero generale di 24 ore, «dentro e fuori i luoghi di lavoro; per le precarie, le occupate, le disoccupate e le pensionate; le donne senza salario e quelle che prendono un sussidio; le donne con o senza il passaporto italiano; le lavoratrici in proprio e le studentesse; nelle case, per le strade, nelle scuole, nei mercati, nei quartieri».

La sfida politica del «nuovo sciopero femminista» è stata lanciata anche ai sindacati. Quelli di base, come Cobas e Usb, hanno aderito, ma è in corso la discussione per far convergere sull’8 marzo, come vorrebbero le donne, anche la seconda data di astensione dal lavoro nel comparto scuola, stabilita per il 17, di cui si condividono i contenuti. Molte, infatti, le proposte provenienti dal tavolo su Educazione e formazione. L’educazione di genere, necessaria a tutti i livelli del percorso scolastico, «non è una materia, ma una postura politica e culturale per prevenire la violenza maschile». Per l’8 marzo, si porteranno «le lezioni in piazza», per denunciare la violenza sistemica del patriarcato, quella del capitalismo e del neocolonialismo, per «costruire ponti e non frontiere».

Impossibile dar conto della pluralità di percorsi e di voci che cercano tonalità comuni, ri-nominando antichi nodi e nuovi problemi in un’ottica femminista. Radicale la critica al cosiddetto sistema dell’accoglienza, basato su logiche securitarie e sulle deportazioni. L’orizzonte è quello di un mondo senza permessi o respingimenti, la barra viene posta in alto ma gli obiettivi sono concreti: cittadinanza, permesso senza condizioni e condizionamenti familiari per le migranti, adempimento degli obblighi stabiliti dalla Convenzione Oil per le lavoratrici domestiche, abolizione dell’«obiezione di coscienza» in ospedali e strutture pubbliche, rilancio politico dei consultori…

«Con o senza sindacati, bloccheremo il paese. Non un’ora di meno», si è detto nelle conclusioni, comunque in divenire: perché il percorso non si ferma all’8 marzo. L’appuntamento sarà per il 22 e 23 aprile a Roma. L’obiettivo è quello di far convergere pratiche e riflessioni nella stesura di un Piano femminista antiviolenza da presentare alle istituzioni. Un nuovo movimento connesso a livello internazionale. Allo sciopero, che ha preso avvio dalla proposta delle donne argentine, a ottobre dell’anno scorso, hanno già aderito oltre 30 paesi. Nel solco delle polacche, che hanno innescato il movimento, le argentine hanno scelto il nero per riconoscersi. In Italia, per lo sciopero e per i percorsi che lo prepareranno nei territori, i colori saranno due: il nero e il fucsia. «Da marea a oceano. Siamo tempesta. E nessuno scoglio ci potrà fermare»


DONNE IN SCIOPERO,
DENTRO E FUORI LE MURA DOMESTICHE
di Bia Sarasini


Sarà un gran giorno, l’8 marzo 2017. Sulla base dello slogan “Se la mia vita non vale, io sciopero” in ben 23 paesi, compreso il nostro, è indetto un “sciopero delle donne”. Uno sciopero che non è solo simbolico, ma reale. L’obiettivo è fermare tutto, bloccare il Paese.

In Italia e non solo. Di questo hanno parlato le duemila donne riunite in assemblea a Bologna, lo scorso weekend, convocate da NonUnaDiMeno, il coordinamento di collettivi e organizzazioni che già il 26 novembre ha portato almeno 400.000 donne a manifestare a Roma contro la violenza maschile. Ma ci saranno ben 22 paesi in sciopero, l’8 marzo. Tutto parte dall’Argentina, ultimi ad aderire gli Stati Uniti, sulla spinta della “Women’s March on Washington” del 26 gennaio scorso. Un appassionato confronto, a Bologna, sui temi della violenza contro le donne, si è preparato il piano-antiviolenza, e sui temi dello sciopero. Cosa vuol dire scioperare? Chi partecipa, come si indice?

E se va notato, ancora una volta, che l’informazione mainstream ha mancato un evento politico di prima grandezza – del resto anche la marcia statunitense è stata attivata dai social, non da tv e da carta stampata – sarebbe un peccato che la sottovalutazione mediatica trascinasse con sé anche una sottovalutazione politica. Cosa è questo sciopero? Come si mette in pratica?

Bisognerà ricordare che in Polonia, nel “black monday” del 3 ottobre 2016, nella loro azione contro la minaccia di una legge che vietasse del tutto l’aborto, le donne polacche dissero: se ci fermiamo noi si ferma tutto. Come è effettivamente è successo. Questo vuol dire sciopero delle donne, in un mondo in cui il lavoro si è completamente trasformato. Mettere tutti in condizione di guardare cosa è il lavoro, oggi. Chi più di una donna sa che il lavoro è precario, sfaccettato e spezzettato, e investe direttamente la vita? Chi può saperlo meglio di chi è stata obbligata da sempre al lavoro di cura, per di più gratuito?

C’erano molti uomini, perlopiù ragazzi ovviamente, all’assemblea. Alcuni provenienti dal mondo queer, perché lo sciopero è anche uno sciopero dai generi, dagli stereotipi e dai ruoli obbligati. Uno dei modi per metterlo in pratica sarà il kindergarten gestito dai compagni, un accudimento dei bambini già messo in pratica durante l’assemblea. Ma lo sciopero, è stato ripetuto in tanti interventi, è sospensione, astensione. Blocco delle attività. Di tutti i tipi. Per esempio dall’insegnamento ma anche dal portare i bambini a scuola. Con l’attivazione di fondi di solidarietà, per permettere a tutte di scioperare. E qui sta il nodo centrale. Per astenersi dal lavoro, per chi lavora a contratto, occorre che lo sciopero sia indetto. Erano presenti molte sindacaliste, soprattutto Usb e Cobas, anche se non mancavano iscritte alle confederazioni, soprattutto Fiom. C’è una forte pretesa di attenzione, da parte dell’assemblea, rivolta a tutte le sigle sindacali. Come è giusto, si tratta della più importante manifestazione politica sul lavoro prevista nei prossimi mesi.

La scelta è stata di non mobilitarsi per una manifestazione nazionale. Si sciopererà insieme nelle città. Per bloccarle. Contro la violenza maschile, contro il neocapitalismo che di questa violenza è permeato, contro il dominio che entra nelle pieghe della vita quotidiana. In Italia contro il jobs act, contro la cancellazione dei diritti. Fondamentale è riconoscere che sono le donne a guidare la lotta per un lavoro diverso, oggi. L’esperienza diretta, nella propria vita, della violenza e dell’ingiustizia è forza viva, trascinante. Il coraggio è ascoltarla.

<

Le donne con il loro impegno nel costruire nuove forme di organizzazione e aggregazione, sono in prima linea nel tracciare la via verso il raggiungimento di una piena cittadinanza».

reset, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

Una ragazza vestita di rosso che viene investita in pieno dai lacrimogeni, durante le proteste di Gezi Park, in Turchia, nel 2013; la giovane manifestante col reggiseno blu picchiata dai poliziotti, durante gli scontri in Piazza Tahrir al Cairo. Queste immagini, dopo aver fatto il giro del mondo, sono divenute simboli delle rivolte che hanno animato il Medio Oriente e il Nord Africa, a partire dal 2009, con le proteste del movimento dell’Onda Verde in Iran, poi in maniera sempre crescente durante le sollevazioni popolari della cosiddetta “Primavera Araba”, fino ad arrivare alle manifestazioni del 2013 in Turchia.

Questi scatti fotografici sono entrati a far parte dell’immaginario collettivo internazionale, tramutando le ignare giovani protagoniste in icone del proprio tempo. Quanto è stato immortalato in quei fotogrammi, infatti, rappresenta esattamente la cifra dei cambiamenti e delle trasformazioni socio-politiche avvenute negli ultimi anni nella regione mediorientale: il ruolo e la presenza femminile e giovanile in prima linea all’interno di quei movimenti di contestazione e dissenso politico che hanno sfidato e, in qualche misura, sovvertito l’ordine politico costituito di alcuni paesi dell’area.

Questa nuova soggettività politica della donna deve, tuttavia, essere messa in relazione con la lunga storia di lotte e movimenti femministi di cui è stata testimone la regione mediorientale. Infatti, sebbene la condizione delle donne nei paesi arabo-musulmani venga per lo più descritta in Occidente, attraverso narrazioni mediatiche generalizzanti, come immobile e retrograda, occorre sottolineare invece che l’attivismo delle donne nei paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa) risale alla fine dell’800 e si interseca con la costruzione degli Stati-Nazione nel corso del ‘900, attraverso una storia fatta di percorsi plurali e di differenti anime: dai gruppi che adottano un approccio “secolare” che riconduce la religione alla sfera privata, a quelli che, invece, la pongono al centro delle rivendicazioni di uguaglianza, considerandola il principale strumento per reclamare e ottenere diritti.

Lo studio dell’evoluzione nel tempo dei movimenti femminili suddetti e della loro relazione con l’attivismo femminile attuale è stato il motore che ha portato avanti la ricerca di due studiose italiane, Renata Pepicelli, docente presso l’Università LUISS Guido Carli e l’American University of Rome, e Anna Vanzan, dell’Università degli studi di Milano. È appena stato pubblicato, infatti, sul numero 1/2016 della rivista “Afriche&Orienti” il dossier, da loro curato, “I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente: percorsi e generazioni ‘femministe’ a confronto”.

Il volume raccoglie al suo interno diversi saggi che, attraverso approcci diversi, raccontano le esperienze dei movimenti femminili in Marocco, Tunisia, Egitto, Iran e Turchia, ponendo l’accento sia sugli obiettivi comuni, sia sulla pluralità dei percorsi che caratterizzano le rivendicazioni delle donne nei diversi paesi. Oltre a Renata Pepicelli e Anna Vanzan, sono autrici dei saggi anche tre studiose che vivono, fanno ricerca e insegnano sulle rive nord e sud del Mediterraneo: Maryam Ben Salem, docente all’Università di Sousse e ricercatrice del CAWTAR (Center of Arab Woman for Training and Research); Mulki al-Sharmani, dell’Università di Helsinki; e Leila Şimşek-Rathke dell’Università di Marmara, Istanbul.

Attraverso approcci diversi, basandosi su metodologie storiche e sociologiche, le ricercatrici descrivono l’utilizzo, da parte delle giovani donne, di nuovi modelli di attivismo di cui sottolineano gli elementi di frizione, influenza e tensione in relazione a quelli usati dalle generazioni precedenti. Infatti, il filo conduttore che tiene insieme i diversi saggi è il tema del confronto tra differenti generazioni di attiviste e diverse forme di azione politica delle donne. Un confronto che a volte si caratterizza per elementi di continuità, a volte di rottura.

Ciò che emerge dalle ricerche contenute in questo volume è la diffusa e generale difficoltà per le nuove generazioni di ritrovarsi all’interno di un discorso femminista “tradizionale”. Infatti, secondo Renata Pepicelli, durante il periodo delle recenti proteste «una nuova generazione di attiviste è emersa al di fuori dei tradizionali spazi di azione delle organizzazioni femministe storiche»: il femminismo non costituisce più la principale identità militante di queste giovani, ma, piuttosto, un’identità tra molte altre.

Le loro rivendicazioni di genere sono, infatti, calate in una più ampia cornice di rivendicazioni di democrazia, libertà e giustizia. Come descrive Anna Vanzan nel suo saggio, durante la recente ondata rivoluzionaria che ha sconvolto la regione mediorientale «le donne, nonostante la loro cruciale presenza nelle piazze e nelle fasi della transizione, sembrano partecipare soprattutto come cittadine, ovvero senza articolare le proteste in una vera e propria cornice di genere».

In questo momento storico di transizione e cambiamenti, le donne sembrano aver momentaneamente accantonato le istanze femministe, per dare, invece, la priorità a obiettivi politici e sociali che riguardano l’intera società in cui esse vivono. Come afferma una giovane attivista marocchina, durante un’intervista, alla Prof.ssa Pepicelli: «non abbiamo bisogno di domandare, di scrivere, di trattare la donna in un contesto a sé stante, separato dalla società. Quando si dice democrazia automaticamente si parla di cittadini, donne e uomini, tutti uguali davanti alla legge».

Quello che è certo, dunque, è che le donne con il loro impegno nel costruire nuove forme di organizzazione e aggregazione, sono in prima linea nel tracciare la via verso il raggiungimento di una piena cittadinanza.

«La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa "come questione strutturale" in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, "strumento primario di violenza", uno dei nodi globali». il manifesto, 4 febbraio 2017 (c.m.c.)

Il movimento delle donne verso lo sciopero globale. Per arrivare all’8 marzo – quando ognuna si asterrà da ogni attività produttiva e riproduttiva, reinventando nuovamente la formula proposta dalle argentine e, prima, dalle polacche -, si moltiplicano i momenti di confronto. Oggi e domani, le donne che hanno manifestato a Roma il 26 novembre al grido di «Non una di meno» (oltre 200.000 persone in piazza) si riuniscono a Bologna per discutere e rilanciare le proposte degli 8 tavoli tematici: Lavoro e Welfare, Femminismo migrante, Diritto alla salute sessuale e riproduttiva, Educazione e formazione, Percorsi di fuoriuscita dalla violenza, Sessismo nei movimenti, Narrazioni della violenza attraverso i media, Piano legislativo e giuridico: verso un Piano femminista contro la violenza.

Come si può interrompere e sovvertire ogni attività produttiva e riproduttiva? Quali pratiche possono esprimere il rifiuto dei ruoli imposti dal genere, il rifiuto di ogni forma di violenza contro le donne e della loro oppressione, dentro e fuori i luoghi di lavoro? Allo sciopero globale hanno aderito già 30 paesi. All’indomani dell’insediamento di Trump negli Usa, milioni di donne sono scese in piazza per manifestare «contro il volto patriarcale e razzista del neoloberismo americano».

Un inedito ciclo di lotte femministe si sta «facendo largo nel mondo»? Venerdi sera, a Roma, nello spazio autogestito Communia, in tante ne hanno discusso con Celeste, Magda ed Eleonor, provenienti dall’Argentina, dalla Polonia e dalla Finlandia (Eleonor, di origine etiope-eritrea).

La violenza (violenza patriarcale ed economica imposta dal sistema capitalista) va intesa «come questione strutturale» in cui emerge il tema dei confini e delle frontiere, «strumento primario di violenza», uno dei nodi globali. E così, anche Al tavolo sul Femminismo migrante è emersa la necessità di «fare una critica radicale al sistema di “accoglienza” (dagli Hotspot agli Sprar) ed espulsione», basato su una logica violenta «di potere e privilegio», che spesso nella materialità si riduce a esercitare controllo e repressione: «un sistema che priva le donne migranti della propria libertà e autodeterminazione».

E anche la civilissima Finlandia – dice Eleonor – messa alla prova di massicce richieste di asilo si chiude, stringe le maglie della legge e non accoglie i rifugiati. Inoltre, in Finlandia, «il livello della violenza domestica contro le donne è molto alto anche se poco percepito. E le donne nel lavoro, vengono pagate meno». Il diversity management – se n’è discusso al tavolo Lavoro e welfare – «è ormai un meccanismo di valorizzazione e messa a produzione delle soggettività stesse». Quanto alla violenza domestica, fra le proposte del tavolo su Piano legislativo e giuridico, c’è «l’urgente necessità di una modifica legislativa che introduca la violenza intra-familiare quale causa di esclusione dell’affido condiviso e il divieto di mediazione nei casi di violenza intrafamigliare».

Ma poi: come intendiamo noi occidentali il femminismo «in relazione alle donne immigrate nel nostro paese e in Europa?» Che uso facciamo dei termini «a partire dal nostro posizionamento privilegiato»?

Le donne immigrate sono anche europee, provenienti dai paesi dell’est. Magda, che ha messo in moto il primo sciopero globale intercettando un sentire diffuso, racconta la lotta delle donne polacche intorno alla legge sull’aborto che le destre vorrebbero ulteriormente peggiorare: «Nel periodo comunista – dice – l’aborto era un diritto pienamente garantito. Dopo l’89 è diventato il primo bersaglio della chiesa cattolica. Nel ’95, la legge è stata peggiorata e l’aborto limitato solo a pochissimi casi. Una soluzione di compromesso da cui ora ci tocca ripartire. Nel socialismo le donne avevano la parità totale e piena occupazione. Solo che, dopo aver guidato il trattore, tornavano a casa a fare il doppio lavoro».

Un'occasione per dire che la sbarra va posta sempre in alto: verso il sovvertimento complessivo dei rapporti di potere. «Perché ad ogni femminicidio il patriarcato si rifonda», dice Celeste, raccontando il percorso in crescendo del movimento delle donne argentine.

Dalle donne degli USA e del mondo la prima risposta di massa al trumpismp. Articoli di Geraldina Colotti, Bia Sarasini, Marina Catucci. Presenti anche i maschi e altre minoranze.

il manifesto, 22 gennaio 2017


WASHINGTON È ROSA:
IN 600MILA SFIDANO TRUMP
di Marina Catucci
Stati Uniti. Donne, uomini, etero, gay, bianchi, neri alla Women’s March. «La resistenza comincia oggi», lo slogan di un corteo senza fine. Non solo la capitale: cortei anche nel resto degli States a Boston, New York, Chicago, Los Angeles. Una manifestazione lunghissima, incredibilmente numerosa, una città invasa di berretti rosa, simbolo de facto di questa marcia storica che ha invaso Washington ed è stata presente a New York, Chicago, Los Angeles, Boston ma anche a Sidney, Tokyo, Parigi.

La Women’s March, nata dall’idea di un gruppo di donne hawaiane due giorni dopo l’elezione di Trump, in poco tempo ha raggiunto una dimensione tale da non poter essere ignorata ed ha attratto l’adesione di praticamente tutte le associazioni americane che si occupano di diritti civili.

«Ogni volta che si fa un corteo serve un permesso del comune, per ogni gruppo che aderisce al corteo – dice Tim, 62 anni che lavora al comune di Washington ed è sceso a manifestare alla Women’s March – Questa volta abbiamo rilasciato più di 100 permessi».

Nella sola Washington, dove si aspettavano 200mila persone ne sono arrivate più del doppio, si parla di una folla di quasi 600mila composta da donne, uomini, americani, stranieri, etero, gay, tutti a dire che la resistenza comincia ora, che i diritti delle donne sono diritti civili e come tali verranno difesi.

«Sono ebrea ed ho 78 anni – dice Ruth – I miei genitori sono scappati dalla Germania nazista, io ho vissuto gli anni ‘50. Tesoro, quando vedo un fascista e un misogino lo riconosco, e lo combatto».

Per raggiungere il comizio che ha preceduto l’inaugurazione l’unico mezzo era arrivarci a piedi, le metropolitane, con i treni e le piattaforme stracolme di gente, non si fermavano alle fermate più vicine il concentramento in quanto la zona non poteva più accogliere altre persone.

Per cui una fiumana di gente rimasta a piedi ha composto svariati cortei di fatto che da vari punti, ben lontani da dove si sarebbe tenuto il comizio, è confluita nella zona prevista, senza poter arrivare nemmeno minimamente vicino al palco.

Sullo stage si sono alternati vari personaggi davanti all’immensa folla festante in modo liberatorio dopo la pesantezza della giornata precedente.

«Siete tantissimi, siamo tantissimi – ha detto Michael Moore evidentemente emozionato – ed ora bisogna continuare. Io, non ci crederete, sono un uomo timido, quando ho cominciato a fare ciò che faccio, in Michigan, avevo bisogno di ore per vincere la timidezza, e questo è ciò che ora dovremo fare tutti quanti, anche voi, è importante vincere le proprie resistenze e mettersi un gioco. In special modo politicamente: entrare nel gioco politico locale, la politica locale è fondamentale, difendete il vostro quartiere, la vostra città, questo difenderà il paese».

Uno degli interventi più applauditi è stato quello della giovanissima Sophie Cruz, 8 anni, diventata famosa quando, durante la visita del papa a Washington nel 2015, era riuscita a scivolare tra le transenne, abbracciarlo e consegnargli a una lettera scritta a mano con un appello per la riforma dell’immigrazione, in quanto i suoi genitori sono illegali.

La paura personale di Sophie per la deportazione dei suoi genitori l’ha resa una delle voci più giovani del movimento di riforma dell’immigrazione. La leader femminista Gloria Steinem ha descritto la mobilitazione in tutto il mondo come «il rialzo del rovescio della medaglia: si tratta di una iniezione di energia e di democrazia, come non ho mai visto nella mia vita, una vita molto lunga».

«A volte dobbiamo mettere i nostri corpi fisicamente là dove sono le nostre convinzioni – ha aggiunto – in special modo ora, con Trump che è un presidente impossibile».

Il colpo d’occhio che si vedeva per le strade di Washington era quello di un fiume rosa, formato principalmente dai cappellini di lana con le orecchie da gattino, pussy in inglese, o vagina, in riferimento a uno dei peggiori commenti di Trump riferiti alle donne. Moltissimi uomini si sono presentati con questo cappello, fieramente.

«Questo l’ha fatto mia moglie – dice Mitch, 35 enne della Virginia – È un simbolo fantastico anche perché fatto a mano, così come questa nazione, fatta dalle mani degli americani, quelli che sono in piazza oggi è che saranno in piazza per i prossimi 4 anni, se necessario anche tutti i giorni».

Gli slogan che risuonavano più frequentemente non è di timore, come invece nelle manifestazioni precedenti, ma di lotta. «La resistenza comincia», hanno detto tutti gli speaker dal palco .

«La resistenza comincia», ha detto l’attrice Ashley Judd, prima di cominciare il suo discorso sul significato dell’essere una donnaccia, una nasty woman, cattiva, così come Trump si era riferito ad Hillary Clinton durante un dibattito. «Io sono una nasty woman – ha affermato – ma ora vi dico cosa non fa una nasty woman», ed ha continuato elencando tutte le malefatte dei componenti del gabinetto di Trump, interrotta continuamente dal boato della folla che a quel punto era incontenibile e si espandeva in tutte le vie intorno la piazza.

«Manifestanti, non fate errori – ha detto dallo stesso palco l’attrice America Ferrera – Tutti noi, ognuno di noi, siamo tutti sotto attacco. La nostra sicurezza le libertà sono in estremo pericolo». Il messaggio di Ferrera era palpabilmente ricevuto, molti nel corteo indossavano sombreri, simboli nativi americani, magliette di Black Lives Matter.

Quando arriva l’ora della partenza del corteo in realtà il corteo è cominciato da un pezzo, le persone non hanno mai smesso di sfilare, ci sono manifestanti in ogni via di Washington.

«Chissà che twitterà oggi Trump – dice Ira, afro-americana – Forse farà finta di niente, ma è qua a Washington, se ha delle orecchie ci sente». Ignorare questa folla sarà difficile, Trump potrà provarci ma dovrà fare grossi sforzi, nessuno sembra intenzionato a restare a casa e tranquillamente guardarlo fare a pezzi i diritti civili.

UOMINI CHE MARCIANO
CON LE DONNE
di Marina Catucci

Tante donne, ma anche tantissimi uomini hanno partecipato ieri alla Women’s March: «È solo questione di tempo – dice Sam, giovane padre che indossa il berretto rosa e il rossetto mentre spinge il passeggino – Io sono un uomo bianco eterosessuale, la specie più protetta, ma ho portato qua mio figlio per insegnargli a rispettare le donne e per fargli capire che, se a una parte della società tolgono dei diritti, siamo tutti in pericolo».

UN PROGRAMMA POLITICO
CHE PARLA A TUTTE E A TUTTI
di Bia Sarasini

Sono centinaia di migliaia le manifestanti che, insieme a tantissimi uomini, si sono riversate per le strade di Washington, rispondendo all’appello della Women’s march contro Donald Trump. Si sono superate così le più rosee previsioni della vigilia, che stimavano 200.000 persone. Mentre altre centinaia di migliaia si sono radunate in altre città degli Stati Uniti, come Boston, ma anche nel resto del mondo. Una marcia che è stata caratterizzata da un programma politico inedito, che dai diritti delle donne si allarga e include tutte le minoranze.

Tutti coloro che sono oggetto di ingiustizie sociali minacciati dal feroce populismo di Trump.

Un atto esemplare della politica femminista di nuova generazione, che forte di una mobilitazione femminile travolgente parla a tutte e tutti. La marcia, dice il testo «è un movimento guidato da donne che porta nella capitale persone di ogni genere, razza, cultura, appartenenza politica, per affermare la comune umanità e un messaggio di resistenza e auto-determinazione».

«Raccogliamo l’eredità – prosegue l’appello – dei movimenti suffragisti e abolizionisti, dei diritti civili, del femminismo, dei nativi americani, di Occupy Wall Street», si riconoscono, tra le altre, leader come bell hooks, Gloria Steneinem, Betha Caceres, Audre Lourde, Angela Davis.

Al centro le differenze economiche, le differenze tra le donne di colore e quelle bianche, le disparità economiche tra razze e sessi. E si sostiene la libertà riproduttiva, e la libertà di scegliere il genere, e i diritti lgbtq.

Ma non solo. «Riconosciamo – scrive il documento – che le donne di colore sostengono il maggior peso del lavoro di cura, in patria e nel mondo globale. Sosteniamo che il lavoro di cura è lavoro, un lavoro quasi tutto sulle spalle delle donne, in particolare donne di colore».

Inoltre il testo sostiene un’economia giusta, trasparente e equa. E sostiene che tutti i lavoratori, compresi i lavoratori domestici e i contadini, hanno il diritto di organizzarsi e di lottare per un salario equo, compresi gli immigrati senza documenti.

«Crediamo – scrivono – che migrare è un diritto umano e che nessun essere umano è illegale».

Un programma ampio, complesso, che è una grande novità politica. Dal classico «i diritti delle donne sono diritti universali», si fa programma politico generale che guarda a tutta la società e propone un’alleanza a tutte le minoranze minacciate dal nuovo presidente. In tutto il mondo.

Il contrario del radical chic. Hanno partecipato attrici come Scarlett Johansson, Ashely Judd, ma anche una delle madri del femminismo come Gloria Steinem, il super-attivista Michael Moore.

E non è mancata l’irriverenza femminista, il pussy-hat (pussy sta per vagina), il cappello rosa sfoggiato dalle manifestanti, che è servito a raccogliere i fondi necessari.

IN MARCIA NEL MONDO
CONTRO IL TRUMP-MACHISMO
di Geraldina Colotti

Lo sfacciato maschilismo del neo presidente Usa ha unito le donne di tutto il mondo, che ieri hanno manifestato in oltre 600 piazze dei cinque continenti. Ad accompagnarle, le comunità Lgbt, quelle per i diritti civili e molti uomini, che hanno sfilato in ogni paese, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America latina all’Europa. La «Women’s march» contro le discriminazioni di genere ha portato in piazza milioni di persone: a Parigi, a Berlino, a Roma, a Pristina (in Kosovo), a Buenos Aires, ad Accra (in Ghana), a Nairobi (in Kenya, dove si trovano le «radici» di Obama). Sono arrivate immagini persino dall’Antartico.

Milioni di berretti rosa, per riprendere i simboli lanciati dalle statunitensi, hanno unito la protesta contro le discriminazioni di genere a quella per la difesa dei diritti globali. Molti anche i cartelli contro la repressione e il militarismo, in una gara di creatività stimolata dal grottesco personaggio Trump.

Trump, «You are not my president», dicevano i cartelli in Australia e in Nuova Zelanda, moltiplicando il grido delle donne statunitensi. Migliaia di persone hanno sfilato a Sydney e a Melbourne, a Wellington e Auckland. In Sudafrica, qualche centinaia di persone ha marciato a Durban per dire che «nella nostra America, siamo tutti uguali».

A Parigi hanno sfilato almeno 7.000 persone chiedendo «respect pour les femmes américaines»: rispetto

per le donne americane, ferite dalle dichiarazioni e dai comportamenti del miliardario Usa. Marce di protesta anche in altre città francesi, e cartelli di solidarietà per «le sorelle nere, lesbiche e trans che dovranno vivere per quattro anni con un presidente che avversa i loro diritti e la loro esistenza».

Ad Amsterdam, circa 4.000 persone si sono scambiate «coccole gratuite» (free Hugs) davanti al consolato Usa. Alcuni hanno innalzato cartelli contro «l’odio, il razzismo, il sessismo e la paura», altre pancarte dicevano «Make America sane again», invitando l’America a tornare alla ragione. E ancora: «Donne, non oggetti», uno degli slogan della pagina Facebook da cui è partita la protesta delle donne statunitensi. Tra le «perle» vomitate da Trump nei mesi di campagna e prima, c’è stata infatti anche quella secondo cui «le donne sono dei begli oggetti», da prendere per la vagina.

A Ginevra, circa 2.500 manifestanti di ogni generazione hanno sfidato il freddo per gridare: «Ponti e non muri», per rivendicare la disobbedienza («la resistenza è un dovere quando l’ingiustizia diventa legge»), o per ricordare che «il cambiamento climatico è reale». A Berlino, i dimostranti (circa 700) si sono ritrovati davanti alla porta di Brandeburgo, di fronte all’ambasciata Usa, per gridare «Il popolo unito non sarà mai battuto». A Praga, il giovane cantautore Adam Misik, idolo dei giovanissimi, ha cantato «Let It Be», dei Beatles, ripresa da circa 300 manifestanti. E a Lisbona, diverse centinaia di persone, statunitensi e portoghesi hanno gridato davanti all’ambasciata Usa che «Trump è una vergogna per l’America» e «No alla violenza sulle donne». Dello stesso tenore le manifestazioni a Barcellona.

A Roma, oltre 500 le manifestanti che si sono ritrovate davanti al Pantheon insieme a numerosi uomini: per condividere i temi della «Women’s march», per dire «no alla guerra» (rete Wilpf), e ribadire il No alla violenza sulle donne, che ha di recente portato in piazza oltre 200.000 donne. Un movimento globale, che sta unificando i contenuti forti di un nuovo mondo in cammino, provando ad amplificare la voce di tutti i sud del mondo.

Anticipato dallo sciopero generale delle donne polacche, lo sciopero globale ha spinto tutte ad astenersi da ogni tipo di attività: in un’azione mondiale che ha raccolto la proposta delle donne latinoamericane, iniziata dalle argentine. Un’iniziativa che si ripeterà per l’8 marzo al grido di «Non una di meno» e che – per l’Italia – porterà a una nuova tappa il lavoro dei tavoli tematici nati dal 26 novembre e dal prossimo appuntamento di Bologna, il 4 e 5 febbraio.

Le donne latinoamericane sono state presenti anche ieri, coniugando i temi di genere a quelli della dignità, del lavoro, dei diritti umani e dell’antimperialismo. In Argentina, la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri, che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti. Si è manifestato anche contro la visita del presidente messicano Peña Nieto e contro le basi militari Usa, già decise da Macri e Obama e di certo confermate da Trump.

«Dobbiamo chiederci se capiamo chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile. Siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici quelle donne? Le riconosciamo soggetti di trasformazione?»

comune-info, 18 dicembre 2016 (c.m.c.)
Come abbiamo visto in occasione della splendida manifestazione del 26 novembre a Roma e nel dibattito del giorno successivo, tra i moltissimi gruppi e associazioni di donne in lotta per denunciare le violenze subite dalle donne ovunque nel mondo, è emerso quest’anno anche il drammatico tema delle violenze e degli abusi che le migranti richiedenti asilo sono costrette a subire nelle loro tremende odissee.

Si tratta infatti di una questione centrale per le femministe di oggi, come dice in questo appello Helen Pankhurst, nipote della celebre suffragetta Emmeline:

«Quando la situazione di una donna è così disperata che è costretta ad impegnarsi in ‘sesso di sopravvivenza’ per garantirsi una protezione maschile per il suo viaggio, questa è una questione femminista. Quando una donna è costretta ad arrancare per centinaia di miglia a piedi, pesantemente incinta e con bambini malnutriti in braccio, questa è una questione femminista… quando le donne abortiscono sul ciglio della strada in un paese sconosciuto; quando le madri sono costrette a mandare i propri figli non accompagnati sui gommoni nel buio, per niente sicure di poterli rivedere vivi; quando le donne che stanno raggiungendo il Regno Unito sono maltrattate e umiliate, o detenute durante la gravidanza per il reato di richiedere asilo: queste sono questioni femministe. Urgenti, disperate, scandalose questioni femministe. E, come femministe, dobbiamo agire».

Non c’è alcun dubbio, siamo di fronte a una delle più drammatiche questioni femministe della nostra epoca. Ma c’è un grande pericolo nella costruzione e nella narrazione della categoria “migrante”, assurta nel bene e nel male a centro di ogni discorso politico, culturale, mediatico, antropologico, quasi fosse uno schermo nero, un black mirror utile a coprire qualsiasi finzione o distorsione della realtà, in un senso e nel senso opposto.

Su una sorta di video eternamente acceso, scorrono a ritmo continuo fuggevoli immagini di donne, uomini, bambini che perdono la loro corporeità, la loro verità, per entrare a far parte di una rappresentazione che si confonde con mille altre cui assistiamo dalle nostre case. La popolazione migrante diventa così un teorico “insieme” reso compatto e inconoscibile dalla spettacolarizzazione che ce la offre in pasto, stimolando secondo i casi indecenti rifiuti o lancinanti sensi di colpa.

Quando poi nelle piazze, negli alberghi, nei paesi sperduti entrano in scena i corpi veri e l’insieme inizia a sciogliersi, allora appare un mondo di soli uomini che “fanno paura” perché appaiono “troppo giovani, troppo alti, troppo forti”, grazie a un immaginario regressivo che divide il mondo tra noi e loro, i “minacciosi altri” da cui difendere le “nostre donne”, che invece nella realtà sappiamo essere esposte alle violenze di partner autoctoni. Ma dove sono le tante donne che in tv abbiamo visto sbarcare dalle navi, stanche, spaurite, avvolte nelle gellabie, spesso con i bambini stretti in braccio? Che cosa accade dopo lo sbarco, perché sembrano quasi svanire nel nulla?

È un fenomeno inquietante: la presenza delle donne migranti nelle nostre città e nei nostri territori viene resa invisibile da quei dispositivi ufficialmente destinati a “proteggerle”, che nei fatti le sottraggono immediatamente alla vista ricoverandole in centri impenetrabili. Ci rendono così impossibile monitorarne le condizioni, il rispetto dei diritti, la regolarità delle procedure, e soprattutto ci impediscono il contatto, l’inizio di un dialogo, il loro riconoscimento come persone.

Tuttavia l’inconoscibilità dei soggetti migranti, e in particolare delle donne, viene prodotta anche dall’opacità della stessa categoria “migrante” che cancella e appiattisce le differenze con una forzata universalizzazione. Chiediamoci allora se sappiamo metterci davvero in gioco rovesciando la comune percezione di questa realtà anche dentro di noi. Dobbiamo chiederci se capiamo davvero chi sia la donna che l’etichetta di migrante rischia di renderci indecifrabile.

Una prima cancellazione riguarda la consapevolezza della ricchezza culturale dei paesi d’origine dei richiedenti asilo. Dire migranti per una troppo grande quantità di persone in Occidente significa ormai pensare a qualcosa di nebuloso senza storia e senza cultura, e senza differenze. Un’ignoranza che impedisce di leggere la realtà, fra l’altro cancellando anche la memoria di un femminismo non occidentale di antica data (risale al 1944 il primo Congresso femminista arabo organizzato da Hodā Shaʿrāwī, egiziana, pioniera del movimento femminista egiziano e arabo).

Queste nuove presenze in parte ci disorientano e la difficoltà di entrare con loro in un vero rapporto ci spinge a cristallizzarle nel momento dell’esodo, senza vedere il prima e soprattutto il dopo della loro vicenda. Eppure la rottura dell’ordine che queste donne sperimentano nell’esilio, rischiando violenze, abusi e persino la morte, esprime un’eccedenza sovversiva rispetto alla norma omologatrice del mondo globalizzato, come dice Lidia Curti :

«L’oscillazione delle identità e dei linguaggi spezza la compattezza della parola "migrante", una superficie che rischia di essere impenetrabile, limita esseri pur complessi e mutevoli a un solo momento, cristallizzati nel passaggio tra origine e destinazione, nella fuga come in un fermo immagine. Senza più movimento o differenziazioni […] È anche soggetto politico non univoco che parla contro la violenza arbitraria della legge e di quella nascosta nelle pieghe della vita quotidiana, un soggetto politico che mette in questione il nostro concetto di modernità».

Allora la domanda da porci in particolare adesso, rispetto alle migranti che arrivano da noi in questa fase storica, è se siamo in grado di capire di che cosa sono portatrici. Non sono solo persone che hanno attraversato tutti gli orrori possibili, sono anche e soprattutto soggetti di autotrasformazione e trasformazione. Hanno compiuto un viaggio nell’altrove, un viaggio nel futuro che mette in discussione le nostre regole, il nostro concetto di modernità, il nostro femminismo, la nostra idea di democrazia, così carente da molti punti di vista.

Sempre secondo Curti:«La migrante ha costante coscienza di sé, di ciò che è e di ciò che diviene. La nuova appartenenza richiede un passaggio interiore tra quello che è e ciò cui aspira – o deve aspirare – ad essere. Ella è uno spazio di differenze, un soggetto molteplice, la cui voce richiede ascolto attento alle pieghe della sua condizione e non la sommaria rappresentazione che la parola evoca: l’identità migrante è instabile, fluida, ricca di ibridità».

Quindi non si tratta solo di denunciare e svelare le violenze dei nostri meccanismi occidentali ai loro danni, dobbiamo anche e soprattutto costruire il terreno di confronto e disponibilità al nostro stesso, profondo mutamento. Dobbiamo rompere quella categoria compatta come un muro che cancella le individualità, le soggettività, le storie, sviluppando un progetto che non finga un’inesistente identità fra noi, diverse per status, colore, origine, e non ancora ibridate dalla sperata mescolanza, ma metta in luce ciò che realmente ci accomuna, l’essere tutte – noi e loro – corpo estraneo e straniero nell’ordine patriarcale.

Solo accettando il mutamento che ci mette in discussione e rompe tutte le categorie, potremo forse riuscire a far emergere le voci e la forza delle donne migranti come soggetti autonomi che stanno mutando se stesse, il luogo dell’origine e quello di destinazione.

Proviamo allora a uscire dalle generalizzazioni e dalle categorie per trovare insieme strade di libertà alla ricerca di una nuova cittadinanza «che prescinda dalla nazione e si riferisca ad affiliazioni diverse. Si può pensare a un movimento sociale, culturale o politico; un evento congiunturale; un’aura affettiva; una localizzazione geografica diversa da quella tradizionale, che tenga conto delle complesse intraetnicità che coinvolgono il nostro rapporto con l’altro e dell’altro con noi», suggerisce Lidia Curti, e questa credo sia la direzione verso cui potremmo muoverci come femministe oggi.

«Non una di meno. Dal movimento delle donne un percorso che sfida lo status dei maschi e chiede un cambiamento radicale. Intrecciato alla difesa di reddito, lavoro, ambiente, immigrati».

il manifesto, 1° dicembre 2016 (c.m.c.)

Viviamo da tempo, e sempre di più, in un regime di ricatto continuo, a cui rischiamo di assuefarci. Facciamo alcuni esempi.

L’abolizione dell’art. 18 rende non solo più facili i licenziamenti; introduce anche nelle aziende un clima di ricatto permanente analogo a quello del lavoro precario. Gli effetti non vanno misurati solo sul numero dei licenziati quanto su quello di morti, infortuni e malattie professionali di chi non può più sottrarsi alle imposizioni della gerarchia.

L’accordo sui profughi tra Unione europea e Turchia espone al ricatto di Erdogan tutti i governi europei che non possono certo sottrarvisi solo tacendo su misure vergognose in tema di democrazia, persecuzione dei curdi o sostegno all’Isis. Quel ricatto continuerà finché si tratteranno i profughi come una calamità e non come una opportunità per ricostituire, con il loro contributo, un diverso ordine sociale.

Il debito degli Stati dopo il «divorzio» tra Governi e Banche centrali ha messo in mano alla finanza internazionale non solo le politiche pubbliche ma anche vita e scelte dei cittadini. Le vicende della Grecia dimostrano che piegarsi una, due, tre o quattro volte non libera comunque dal ricatto, che resta permanente. Lo sperimentiamo anche noi: i rappresentanti dell’alta finanza che ci hanno imposto gli ultimi governi oggi vengono a dirci come dobbiamo votare al referendum per evitare uno sfracello. Il che rende evidente che gli «sfracelli» non dipendono dalle «leggi oggettive» del mercato ma da decisioni politiche; prese però non dai governi, ma da poteri tutt’altro che occulti che li tengono in pugno con il ricatto.

Se i «trenta anni gloriosi» del dopoguerra si erano svolti nel segno della speranza – decolonizzazione, «miracoli economici» e «magnifiche sorti» del socialismo – gli ultimi trenta sono invece dominati dalla paura: di perdere il posto o di non trovarlo mai; di essere invasi da alieni che ci portano via il poco che abbiamo; di un disastro economico che ci riduca tutti in miseria.

La paura si traduce in un ricatto contro cui sembra non esserci difesa: il suo nome inglese è «TINA», There Is No Alternative. Infatti l’alternativa non c’è: la parabola de L’altra Europa, soffocata dai partiti che avrebbero dovuto farla crescere, dopo i fallimenti di Coalizione sociale, Cambiare si può, Alba, Federazione delle sinistre, lista Arcobaleno etc., fa capire che un’epoca si è chiusa e che occorre guardare altrove.

Un’alternativa in realtà già c’è nella testa o nel sentire di milioni di persone: si chiama reddito garantito per sottrarsi al ricatto della precarietà e trasformare il lavoro in attività scelte liberamente; accoglienza e inclusione di milioni di profughi per riconquistare con loro e le loro comunità di origine una prospettiva di pace, democrazia e risanamento ambientale tanto dei nostri quanto dei loro paesi; recupero di un controllo diretto e decentrato sul denaro che serve a far circolare beni e servizi tra le persone, restituendogli il ruolo di bene comune a fianco della terra, cioè dell’ambiente, e del lavoro, cioè del libero impiego delle facoltà umane.

Ma come arrivarci? Forse la strada da imboccare è sotto i nostri occhi. Tanto evidente da non riuscire a vederla, come la lettera rubata di Poe.

A vivere da sempre sotto ricatto, in forme ben più intense di quelle indicate prima, è «l’altra metà del cielo».

Un ricatto radicale, che mette in forse la vita e l’integrità fisica – in un crescendo evidenziato dai femminicidi – di molte, ma che per tutte può significare la perdita non solo di pochi o tanti piccoli benefici, ma soprattutto una condizione sociale considerata «sicura», a cui si sono dovute bene o male adattare, ma che non lascia certo prefigurare il futuro che le aspetta sottraendosi al ricatto, se non quello che tutte insieme sapranno costruire.

È così a tutte le latitudini: sia nei territori della donna «emancipata» – ma non per questo fuori dal dominio di una cultura patriarcale – sia in paesi e comunità dove sottomissione e possesso delle donne vengono resi evidenti anche con i segni esteriori, come il velo, di una condizione subalterna.

Per l’universo maschile capire questa condizione significa vivere in prima persona la consapevolezza che non ci si può sottrarre ai ricatti a cui siamo sottoposti senza mettere a rischio il nostro status, quale che sia, con i tanti o pochi benefici che comporta e le piccole e crudeli forme di potere, sulle donne o su chi sta peggio di noi, che lo accompagnano.

Ma è una strada irrinunciabile per cambiare la società cambiando anche noi stessi e chi ci vive accanto.

Così possiamo compiere un pezzo di strada insieme lungo il cammino che il movimento delle donne sta cercando di percorrere; e accettare serenamente di ritrovarci spesso nella posizione di loro controparte: non meno gravemente di quanto padroni, finanza e governi lo sono per noi.

Nei due giorni che mancano alle urne, dobbiamo raccogliere le forze e le idee per portare al No tutti gli incerti che possiamo. Per poter dire lunedì – comunque vada il referendum – di aver fatto tutto il possibile per salvare la nostra Costituzione da questi lanzichenecchi. Usando l’argomento più semplice e convincente di tutti: la verità». (Marco Travaglio)

Un corteo immenso, di molte generazioni affiancate. È stata una bella giornata di amore, forza e vita , contro violenza e morte, come non si vedeva dagli anni 70 il manifesto, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

«Sì, lo sai, la forza che hai. Sì, lo so, la forza che ho». Dalla testa del corteo della straordinaria manifestazione organizzata ieri a Roma dalla rete Non Una Di Meno era questo lo slogan ripetuto, per dire che – come recitava un altro striscione – «guerriere sempre, vittime mai». O forse non si trattava di uno slogan, bensì erano le voci, le tante voci di numerose generazioni che ieri si sono mostrate, fianco a fianco per dire no alla violenza maschile contro le donne.

E proprio quella forza, inaddomesticata e assertiva, si respirava tra le migliaia di presenze che ieri hanno cominciato a invadere pacificamente piazza Esedra e che hanno sfilato fino a piazza San Giovanni. Non erano lì per rivendicare, ma per dire che – dalle giovani alle meno giovani – sanno di sé. In effetti non è da ieri che lo sanno, sanno quale è il proprio desiderio, quale è il proprio bene senza tutele da parte di uno Stato che decide di proporre un piano antiviolenza senza neppure consultarle e che invece è proprio con quella piazza colma di appassionata radicalità che dovrebbe parlare.

Sanno della loro forza insomma grazie alla fatica, spesso trascurata o ignorata da finanziamenti risicati senza progetti istituzionali lungimiranti, e al lavoro che da anni molte di loro svolgono nei Centri antiviolenza, nei collettivi, nelle associazioni, nei movimenti.

Le parole più utilizzate, presenti nei cartelli, nei visi, negli ombrelli e nelle tele enormi, sorrette da chi si è dato appuntamento a Roma da tutte le parti d’Italia, raccontavano diverse cose. Intanto che il lessico di una grande, potente mobilitazione passa per una reinvenzione del linguaggio.

In parte – si potrà obiettare – una fenomenologia già conosciuta negli slogan più noti come «Io sono mia» – ripetuto più volte e in diversi punti del corteo – oppure «Le strade libere le fanno le donne che le attraversano». D’altro canto invece si è assistito a una presa d’atto che deve molto al femminismo e a ciò che di esso è circolato anche tra le giovani – e giovanissime – generazioni. Non è un fatto anagrafico ma di generazione anche politica che racconta una materialità e un presente davanti a cui porsi in ascolto.

Tra gli striscioni ci sono stati i confronti di questi mesi, e di questi anni, la consapevolezza di una libertà femminile che sa misurarsi con i molti (non moltissimi) uomini presenti ieri in piazza. Anche loro giovani e meno giovani, insieme a bambine e bambini. Sì, perché nel corteo che ha accolto duecentomila anime, per lopiù donne, quelli che brillavano erano almeno due segnali, importanti e ineludibili: il mutamento dell’immaginario a proposito della narrazione della violenza maschile contro le donne di cui farsi carico insieme e le tante generazioni, trasversali, anche negli anni e nelle pratiche.

La grammatica politica che emerge da Non Una Di Meno e nella presenza dei corpi, dei tantissimi colorati e festosi corpi a raccontare che «la libertà delle donne è la libertà di tutti» o che «migliora la vita di tutti». Questo «sommovimento» dei corpi che svettano sulla retorica, capaci di spiazzare per la leggerezza con cui si presentano, l’ha insegnata il movimento degli anni Settanta, lo insegnano quelle che negli anni Settanta e Ottanta ci sono nate e sanno di essere dentro a una storia precisa. Lo sanno sui loro corpi, e dicono «no» a un tentativo di istituzionalizzazione e di stravolgimento della narrazione su quegli stessi corpi.

UDI, La rete DI.RE e Io Decido, le tre realtà che si sono per prime costituite in rete e che hanno dato il via al progetto di Non Una di Meno, hanno chiarito da subito che si sarebbe trattato di un movimento dal basso e così è stato. Un movimento senza sigle di partito, senza patrocini, in cui a sfilare ci sono state almeno quattro generazioni diverse di donne, dalle ragazze che portavano dentro alle fasce i propri bambini piccoli a intere famiglie, arcobaleno e no. Non è decisivo quando alle forme nucleari si preferiscono le comunità politiche.

Attraversando via Cavour, due signore anziane e minute affacciate alla finestra guardano la marea sotto di loro e fanno con le mani il gesto femminista. Prima una, poi anche l’altra prende coraggio. Il «fiume» sotto se ne accorge e cominciano gli applausi. Ma quelle due signore, di cui la foto ora rimbalza sui social, ridevano felici non certo per essere applaudite. Perché sapevano quel che facevano e quel che stava accadendo davanti ai loro occhi. Sapevano forse che le più divertite erano, come recitava un altro piccolo cartello, quelle «nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare».

Ora qualcuno scriverà che si tratta di una rinascita del femminismo, o che finalmente le donne si fanno sentire, che sono tornate. Chissà da dove poi. In realtà la manifestazione di Non Una Di Meno è il frutto maturo di un percorso lunghissimo, che non finirà presto e che domani comincerà la sua seconda fase di discussione attraverso i tavoli. Non finirà, bisogna farsene una ragione.

Il motivo per cui si dovrebbe «tremare» non è allora il «ritorno» delle donne, come delle streghe, ma la consapevolezza, chiara, gioiosa, a tratti commossa che le donne ci sono sempre state. Tremate dunque, tremate. È giusto. Perché le donne non se ne sono mai andate.

«La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale».

connessioniprecarie, 21 novembre 2016 (c.m.c.)

È in corso una sollevazione globale delle donne. Per lo più al di fuori dei circuiti organizzati e riconosciuti, con l’impeto improvviso della loro rabbia e delle loro aspirazioni, con una costante presenza di massa, in luoghi del mondo e in momenti distanti e diversi, le donne alzano la testa e la voce.

Il 26 dicembre 2012 in India, in seguito all’ennesimo stupro di una studentessa, centinaia di migliaia di donne sono scese in piazza per far sentire il proprio urlo di protesta. A febbraio del 2014 in Spagna le donne sono insorte contro il progetto del governo di restringere drasticamente il diritto di aborto, suscitando una mobilitazione transnazionale al loro fianco. Il 3 ottobre 2016 la Polonia è stata scossa dal primo sciopero delle donne contro le politiche antiabortiste di un patriarcato neoliberale che pretende di imporre un comando assoluto sui loro corpi.

Solo due settimane dopo in Argentina e in molti paesi dell’America del sud centinaia di migliaia di donne hanno imbracciato l’arma dello sciopero e si sono riversate nelle strade per far valere la loro presenza e la loro forza collettiva in seguito all’ennesimo, brutale stupro e omicidio di una ragazza che si è vista strappare il futuro da un gruppo di uomini. Proprio in queste ore in Turchia sta montando la protesta contro la proposta di legge volta a legalizzare lo stupro delle bambine attraverso il ‘matrimonio riparatore’.

La violenza sessuale è l’ultima risorsa di cui dispone il patriarcato per conservare con ogni mezzo necessario l’ordine produttivo e riproduttivo della società. In modi diversi e in ogni luogo del mondo, però, le donne si stanno ribellando contro la «cultura dello stupro» che vorrebbe fare dei loro corpi e delle loro vite oggetti pienamente disponibili. Le donne stanno obbligando gli uomini a una presa di posizione chiara, mostrando che la battaglia contro il patriarcato non è una «questione femminile», ma investe l’ordine globale della società.

In questo contesto globale, la manifestazione organizzata in Italia il 26 novembre è un’opportunità che va ben oltre la semplice partecipazione alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. È l’opportunità di produrre uno schieramento a partire dalla rabbia delle donne, dalle loro aspirazioni, dal rifiuto incondizionato della violenza sessuale come espressione più estrema, eppure per niente eccezionale, del dominio patriarcale.

In questo contesto, invocare una manifestazione separatista per proteggere le donne dai maschi violenti o di alcuni che si presume siano pronti a innescare lo scontro di piazza ‒ come alcune hanno fatto in nome di un femminismo di origine controllata ‒ significa rinunciare all’ambizione di obbligare anche gli uomini a una presa di posizione contro l’ordine di cui sono i principali beneficiari, agenti e rappresentanti.

Il problema non è verificare il significato storico e attuale del separatismo, ma di riconoscere la sfida globale raccolta dalle donne che il 26 novembre saranno in piazza. Eppure, mentre alcune pretendono la certificazione del femminismo d’ufficio, altre invocano la protezione delle istituzioni facendone l’unico luogo nel quale si può esprimere la piena cittadinanza delle donne. Il culto delle istituzioni e la paura dell’eventuale antagonismo della piazza ‒ che per loro a quanto pare è più rilevante dell’insubordinazione quotidiana e globale delle donne ‒ hanno così portato alcune donne ad annunciare la loro assenza dalla manifestazione del 26 novembre.

Probabilmente chi ha fatto questa scelta coltiva rapporti con istituzioni diverse da quelle che hanno azzerato i fondi destinati ai centri antiviolenza e ne hanno sgomberati alcuni con la forza, istituzioni molto migliori di quelle che vogliono legalizzare lo stupro in Turchia, istituzioni più democratiche di quelle che hanno risposto coi manganelli alle migliaia di donne scese in piazza in Argentina, istituzioni più giuste di quelle che tutti i giorni, in ogni parte del mondo, mettono sul banco degli imputati le donne che denunciano una violenza subita. La rivendicazione di un’assoluta differenza e la preventiva neutralizzazione istituzionale del 26 novembre non colgono cosa è evidentemente in gioco nella lotta globale che stanno portando avanti le donne.

Quella del 26 novembre non sarà una piazza ‘pura’, priva di contraddizioni, unita da un afflato femminile alla cura, alla relazione e alla non-violenza, ma sarà nondimeno una piazza che punta a coinvolgere in massa le donne per rendere visibile la guerra sessuale che viene quotidianamente combattuta contro di loro.

L’ispirata ricerca dell’autenticità femminile lascia poco spazio a conflitti e contraddizioni, quasi che avere un corpo di donna sia di per sé sufficiente a far valere una differenza politica. Le molte donne che negli Stati Uniti hanno votato Trump nonostante la sua aperta professione di fede maschilista dovrebbero però metterci in guardia contro queste illusioni naturalistiche. Noi sappiamo che non è un’impresa facile creare uno spazio di parola e visibilità per le donne che ogni giorno nelle case, per le strade, sui posti di lavoro fanno esperienza della violenza maschile o della sua costante minaccia, dello sfruttamento e dell’oppressione cui le costringe il regime transnazionale di divisione sessuale del lavoro, dell’ingiunzione al silenzio che impone sulle loro ambizioni l’ordine neoliberale con la sua pretesa di mettere a profitto i loro corpi fertili.

Il risultato del percorso di organizzazione che porterà al 26 novembre non è scritto, ma quel percorso esprime l’urgenza di offrire a tutte queste donne l’occasione di una presa di parola non come vittime, non come cittadine, non come genuine portatrici di valori alternativi ricamati in qualche salotto filosofico, ma come parte attiva di una battaglia per il potere che si combatte sui loro corpi. Queste stesse donne, però, rischiano costantemente di essere messe a tacere anche da chi tratta la violenza maschile come una delle molteplici forme di violenza di genere cui ogni individuo sarebbe costantemente sottoposto per il solo fatto di avere un corpo.

Benché i più avvertiti registrino la differenza tra uno stupro e la «violenza epistemica» subita da chi non si riconosce nei ruoli imposti dall’ordine eterosessuale, la definizione «violenza maschile contro le donne» non è il frutto di un arrendevole cedimento alla «matrice binaria» che regola il rapporto tra i sessi. Essa indica la continua pratica di potere che pretende di ridurre le donne a oggetti pienamente disponibili, a prescindere dal loro orientamento sessuale.

Non si tratta di negare l’esistenza di molteplici forme di discriminazione, né di stabilire un’equazione naturalistica tra il maschio e lo stupratore, ma di riconoscere che ogni volta che una donna è stata picchiata, stuprata e uccisa è stato un uomo a farle violenza. E questa violenza diventa una reazione tanto più feroce quanto più le donne in ogni parte del mondo, nelle più diverse condizioni, individualmente oppure in massa dimostrano di non essere disponibili a subirla docilmente. La violenza sessuale maschile non è la manifestazione contingente di un’astratta norma eterosessuale che agisce indifferentemente su tutti gli individui e che produce le loro differenze. La violenza sessuale maschile è un fatto sociale globale, l’espressione più brutale di un rapporto patriarcale di dominio che, in forme aggiornate all’ordine neoliberale, pretende di assoggettare le donne in quanto donne agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale.

Se il 26 novembre ci offre l’opportunità di far sentire la nostra voce contro questo sistema di dominio, unendoci alla presa di parola di milioni di donne nel mondo, lo scontro che anima siti e social network italiani attorno al suo ‘vero’ significato rischia di oscurare e magari di vanificare quest’opportunità. Non c’è alcuna disponibilità alla discussione e alla contestazione, ma solo fazioni irreggimentate lungo confini tra generazioni e pratiche politiche che poco o niente dicono e permettono di dire alle donne che ostinatamente cercano di dare al proprio corpo e alla propria vita un ruolo e un significato diverso da quelli ai quali le obbliga il patriarcato neoliberale.

Le parti in causa si compiacciono di costituire piccole comunità di eletti a cui è dato decifrare il gergo delle ideologie mainstream (e ormai mainstream indica solamente chi la pensa diversamente da quella o quello che parla o che scrive), identificandosi attraverso un like. Intanto, per fortuna, ci sono moltissime donne che al grido «Non una di meno» stanno creando le condizioni perché il 26 novembre siano protagoniste anche coloro che da quelle comunità sono ben distanti, che non agiscono secondo i canoni certificati della «differenza» o del «genere», ma più ambiziosamente potrebbero infine riconoscersi politicamente a partire dal rifiuto della loro oppressione.

Questo rifiuto, probabilmente, non sarà in grado di esprimere e generare un nuovo ordine simbolico femminile, finalmente pacificato da ogni scomodo antagonismo, e neppure un nuovo universalismo nel quale, in un tripudio pluralistico, molteplici identità equivalenti potranno infine coalizzarsi. Eppure, esso può indicare la strada di una pratica femminista che è tale perché cerca di produrre per tutte le donne la possibilità di far valere politicamente, in un gesto di sovversione, la differenza specifica di cui ogni giorno fanno esperienza a partire dal proprio corpo.

La posta in gioco di questo femminismo possibile senza ipoteche e senza tutele è questa: essere parte di una sollevazione globale delle donne contro la violenza, per una presa di potere e di parola tale da obbligare ciascuno a schierarsi dalla parte delle donne.

«». La Repubblica,

Le pesanti minacce rivolte da De Luca a Bindi rappresentano in modo esemplare il concentrato potenzialmente esplosivo di utilizzo del linguaggio dell’odio e del sessismo. Un concentrato che si ritrova spesso sui social media, ove all’insulto pesante contro le donne, o una donna in particolare, si accompagnano minacce, inviti alla violenza altrui (il più comune è lo stupro, possibilmente di gruppo) e/o all’autoviolenza, al suicidio.

È un tipo di violenza cui sono esposte tutte le donne, a prescindere dal loro ruolo pubblico, come testimoniano anche gli ultimi drammatici fatti di cronaca, ma cui sono particolarmente esposte le donne in politica, a motivo non solo della loro maggiore visibilità, ma del loro trovarsi in un luogo e con funzioni che ancora troppi considerano non di loro pertinenza.

Lo documenta anche una ricerca dell’Unione interparlamentare (che raccoglie rappresentanti di 171 paesi), che segnala come non si tratti solo di minacce e umiliazioni verbali e sotto condizione di anonimato, ma spesso anche di veri e propri attacchi fisici. Fa specie che questa combinazione si trovi in un politico dal ruolo non marginale, visto che governa una regione, che quindi non solo dovrebbe essere capace di un linguaggio più sorvegliato di chi utilizza i social network per dare sfogo alle proprie frustrazioni e di un atteggiamento culturale e morale un po’ più civilizzato rispetto a chi sfoga il proprio livore sui social network.

Eppure, non dovremmo stupirci più di tanto. Non abbiamo dovuto aspettare l’ultima campagna presidenziale americana e Trump per vedere irrompere nel linguaggio politico questo concentrato di odio e sessismo, spesso in combinazione con il razzismo e l’omofobia.

De Luca e le sue esternazioni fuori controllo sono solo la variante “pittoresca” di un fenomeno molto più diffuso, in cui la lunga storia del sessismo in politica e tra i politici (si veda il libro di Filippo Battaglia, Sta zitta e va in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo) trova oggi nuovi sbocchi e legittimazione espressiva nello sdoganamento del linguaggio dell’odio anche in sedi insospettabili, persino nelle stesse aule parlamentari, in primis contro gli avversari politici.

Due politologhe torinesi, Marinella Belluati e Silvia Genetti, analizzando alcuni dibattiti parlamentari dell’ultimo anno, hanno trovato che nel 12,45% degli interventi in aula sono presenti vere e proprie espressioni di disprezzo, insulto, dileggio, squalificazione come esseri umani nei confronti di qualcuno, nella maggior parte avversari politici (negli altri casi nei confronti degli immigrati e degli omosessuali).

E quando l’oppositore attaccato/insultato è una donna, non mancano le venature anche pesantemente sessiste. Lo sanno bene Boldrini e Boschi, oltre a Bindi stessa, che il collega parlamentare D’Anna, di Ala, ha pensato bene di rassicurare dopo le minacce di De Luca con le parole «L’unico nemico dell’onorevole Bindi è madre natura», riecheggiando il non dimenticato insulto di Berlusconi.

Sessismo, razzismo e omofobia non sono automaticamente equiparabili alla violenza. Ma il sessismo, il razzismo, l’omofobia e tutte le forme di squalificazione in nome di una particolare caratteristica, costituiscono l’anticamera dell’odio e della violenza.

Quando si considera qualcuno inferiore, o non legittimato ad essere dove è, il passo verso l’aggressione è breve. Per questo si tratta di un atteggiamento inaccettabile e da fermare sempre, tanto più da parte dei politici in quanto responsabili della costruzione del discorso pubblico.

«». il manifesto, 13 novembre 2016 (c.m.c.)

Da alcuni decenni sono tornate a vedersi, prima nelle grandi città arabe e musulmane, poi anche in quelle europee e occidentali, donne velate come prima si potevano incontrare solo negli angoli più emarginati delle zone rurali.

Anche l’estensione della copertura a cui viene sottoposto il loro corpo, dal chador al niqab, al burka, per finire ai guanti, per impedire ogni possibile contatto con mani estranee, è andata crescendo – ben al di là di quanto possa essere ricondotto anche alla più rigida delle tradizioni – come segno della progressione di un riconquistato dominio dell’uomo sul popolo delle donne; un dominio che i contatti con la cultura occidentale, soprattutto dopo l’esplosione del femminismo negli anni ’70, stavano erodendo poco per volta.

Non era difficile riconoscere in questa inversione di tendenza il segno esteriore della rivalsa di una popolazione maschile, di fronte alla constatazione che né la decolonizzazione dei loro paesi, né la strada di un socialismo sui generis, in gran parte di impronta sovietica, né quella del nazionalismo arabo, e nemmeno quella dell’emigrazione in Europa avevano raggiunto i risultati promessi in termini di emancipazione, di diritti, di benessere.

La strada sbarrata dello sviluppo umano in tanti paesi ex coloniali e in tante comunità immigrate e discriminate stava spingendo, una dietro l’altra, le popolazioni che continuavano a subire il predominio della «civiltà» bianca occidentale a compensare questa loro subalternità imponendo alla «loro» altra metà del cielo, e in forme ben più visibili che non in passato, una subalternità altrettanto se non anche più spietata.

L’origine di questo cambio di rotta è di per sé sufficiente a spiegare, anche se non in modo esaustivo, la condivisione o l’accettazione di questa imposizione da parte di molte donne che indossano con orgoglio questi segni della loro subordinazione come manifestazione del rifiuto di tutto ciò che la «civiltà» occidentale ha cercato di imporre anche a loro.

Il fondamentalismo radicale ha poi fatto di questa riconquista dell’uomo sulla donna il centro della propria ideologia, della propria prassi (fino a giustificare lo stupro e la schiavitù delle donne estranee alle proprie comunità) e anche del richiamo nei confronti di giovani maschi alla ricerca di avventure.

Per questo è già stato rilevato più volte che l’arma principale che può disgregare questa vera e propria minaccia per l’umanità, sia quando assume le forme e la consistenza di uno Stato, di un esercito, di una comunità chiusa, sia quando si manifesta nel moltiplicarsi delle iniziative stragiste in tutto il resto del mondo, non può che essere la decisione delle donne di queste comunità di riprendere in mano il loro destino; ovviamente nelle forme che loro stesse decidono di adottare, anche in considerazione dei pesanti vincoli a cui sono sottoposte, e che non coincidono necessariamente con quelle che molti di noi desidererebbero.

Certamente l’esempio che viene dalle aree liberate della Siria curda come il Rojava, e che non si limita solo alla partecipazione delle donne alla guerra di liberazione, ma investe tutti gli ambiti della vita associata, è quello che a noi risulta più chiaro ed efficace. Ma non è detto che sia il solo e che altre strade non possano essere percorse, senza pretendere che il primo passo in questa direzione sia quello di «togliersi il velo».

Ma che ne è dalle nostre parti? Quelle dell’uomo bianco occidentale? Tanto è facile – o sembra – fare l’antropologia delle altrui culture quanto è difficile riconoscere nella nostra i segni vistosi di processi analoghi, che pure sono sotto gli occhi di tutti. Così, prima ancora di individuarvi una manifestazione del rancore della popolazione bianca declassata dalla globalizzazione contro le rispettive élite, ci si dovrebbe chiedere se l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, come l’«irresistibile» avanzata di tanti movimenti xenofobi e di destra nei paesi dell’Unione Europea, non siano innanzitutto manifestazioni di una rimonta di maschilismo, non nelle forme bigotte e cupe imposte dal fondamentalismo islamico, ma in quelle volgari, sboccate e persino pornografiche che da tempo covano sotto la coltre del cosiddetto «politicamente corretto».

Spiegare la vittoria di Trump o l’avanzata delle destre xenofobe solo come una scelta di classi e ceti «dimenticati» urta innanzitutto con il dato, appurato, che a votare per entrambi non sono solo né principalmente i poveri e i declassati; e che anzi, come nella più classica delle analisi sociali, le adesioni ai loro programmi o, meglio, ai loro slogan, cresce col crescere del reddito e della posizione sociale – non con quello dell’istruzione – anche se sono certamente molto ampie tra le persone, qui soprattutto maschi bianchi, che sono vittime della globalizzazione e che rischiano di restare vittime di questa loro forma di ribellione.

Che l’adesione alle prospettive xenofobe e razziste di questi schieramenti abbia molto a che fare con un desiderio di rivalsa nei confronti delle «proprie» donne, e delle donne in generale, è evidente vedendo che la candidatura alla Casa Bianca di una donna ha creato molta diffidenza in tutti le componenti dell’elettorato statunitense, anche se Hillary Clinton si è giocata la carta del genere solo nella parte finale della sua campagna elettorale. Ma l’indizio maggiore di questa volontà di rivalsa tra l’elettorato maschile di tutte le classi – e anche tra quello femminile che vede nella liberazione della donna dai vincoli patriarcali una minaccia per la stabilità della propria collocazione familiare – è il fatto che a sostegno di Trump siano scesi in campo, come a suo tempo con Berlusconi, i settori più estremisti del fondamentalismo cristiano: soprattutto protestante negli Usa, o cattolico – quello di Comunione e Liberazione, ma non solo – in Italia.

Ma lo stesso succede in molti altri paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est. Non c’è stato un semplice «passar sopra» ai vizi conclamati dei loro leader, bensì il riconoscimento, forse inconsapevole, che l’ostentato maschilismo del leader, e non solo suo, è la conferma della riconquista di un potere maschilista e patriarcale sulle donne, che funziona innanzitutto come risarcimento per la perdita di diritti, di benessere e di potere nella vita «globalizzata». Il senso di questa rimonta del maschilismo è confermata dall’aumento verticale dei femminicidi: il Kukluxklan del maschio che lincia la «propria» donna disobbediente.

Per questo razzismo e maschilismo risultano intrecciati anche nel nostro occidente e l’affermazione di uomini come Trump, o l’avanzata dei suoi omologhi europei recano il segno del ripiegamento verso un fondamentalismo occidentale – dove molta parte del cristianesimo, quella non a caso avversa al magistero ecumenico di papa Francesco, gioca un ruolo identitario fondamentale – nei cui confronti la partita decisiva non si potrà giocare senza una vigorosa ripresa del movimento femminista.

«Perché, si avverte ancora in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privatoLa

Repubblica, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

IL “Gender” è la traccia, nemmeno tanto sotterranea, che tiene insieme molti luoghi dell’opinione, culturale e politica, apparentemente lontani tra loro. È decisamente al centro della campagna elettorale americana, dove le offensive e a tratti violente esternazioni del candidato repubblicano hanno mosso non semplicemente il senso del disgusto, ma la determinazione a reagire.

Il genere conta. Conta anche a guardare la politica americana da parte democratica: perché vi è la possibilità concreta che una donna diventi commander in chief della prima superpotenza. Da un lato le donne sono trattate come “ pussycat” da prendere e usare, secondo una visione del mondo che ci porta molto indietro nel tempo, ai cliché insopportabili dei mad men che come despoti toccano, aggrediscono, usano e promuovono. Dall’altro, sempre più donne, come Michelle Obama, sentono l’urgenza di farsi politiche per ristabilire l’ordine della decenza e della libertà, spiegando dalla tribuna della campagna per Hillary Clinton che non è ammissibile che la vulnerabilità diventi arma di potere nelle mani di un uomo, e che è offensivo per gli uomini che uno di loro li metta tutti insieme nel modello dei “discorsi da spogliatoio”. « Enough is enough » ha scandito Michelle Obama.

Perché il genere produce tanto scompiglio? Perché, dopo decenni di più o meno efficace aggiustamento dei sistemi politici e giuridici alla pratica e alla cultura dei diritti civili, si avverte in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e, soprattutto, nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privato?

Parlando dalla Georgia alcune settimane fa, papa Francesco ha fatto sue le preoccupazioni dei cristiani tradizionalisti che animano ogni anno il Family Day. Anche lui ha chiamato in causa la «teoria del gender», una «colonizzazione ideologica» che tenta di ridefinire i contorni naturali del matrimonio tra uomo e donna, sovvertendo l’ordine delle cose.

Il gender però non è una «teoria», non un’arma polemica da usare contro; è invece una cultura dei diritti civili che mette al primo posto la dignità della persona, nella sua specificità, la sovranità della decisione individuale e della scelta. È una cultura della maturità e della responsabilità, non della ludica irresponsabilità. Il genere mette a dura prova le culture sedimentate di ruoli e valori, non mobilita il mondo delle donne contro quello degli uomini. Critica abiti mentali, ruoli istituzionalizzati e linguaggi, e invita, donne e uomini, a leggerli come indicatori di un mondo gerarchico che offende e svaluta una parte dell’umanità, qui quindi tutta l’umanitá.

C’è bisogno di una cultura di genere, anche perché l’appello ai diritti e all’imparzialità della giustizia non ha da solo avuto la forza di cogliere le specificità delle condizioni di dominio e di violenza, di richiamare l’attenzione sul rovesciamento della diversità sessuale in subordinazione. Il genere consente di recuperare la dignità della donna come persona, senza dover azzerare la sua specificità e senza confinare l’esperienza femminile allo spazio del privato.

Questa categoria ci invita a pensare che l’opposto del truculento mondo da spogliatoio di Trump non è la devozione sacrificale della donna ai ruoli domestici. Aspirare alla Casa Bianca è una delle strade che si diramano dalla cultura del genere; una, non la sola. È la pluralità dei percorsi di vita, la stessa pluralità che ogni persona rivendica, la prospettiva che la cultura dei diritti ha contribuito a consolidare.

Guardare il mondo sociale dalla prospettiva del genere fa vedere e sentire come insopportabile ogni forma di discriminazione e di diseguaglianza, da quella che permane nell’uso ordinario della lingua a quella che si sperimenta nel mondo del lavoro e nella forza degli stereotipi. Anche quando il diritto ha acquistato piena cittadinanza in tutte le pieghe della vita sociale. La cultura del genere può svolgere questo ruolo critico perché fondata sul principio della dignità della singola donna e del singolo uomo. Da questa radice hanno preso forza le parole « enough is enough », scandite da Michelle Obama: non si possono tollerare narrazioni di subordinazione, immagini di donne deboli che l’uomo marchia. La forza della cultura del genere si prova qui.

«Il 3 ottobre a Varsavia e in altre città polacche le donne vestite di nero hanno marciato contro il divieto d’aborto. Respinto il ddl dei teo-con. Governo intimorito dalle manifestazioni oceaniche». Articoli da

ilmanifesto e la Repubblica , 7 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il manifesto

VITTORIA DELLE DONNE.
IL PARLAMENTO BOCCIA
IL DIVIETO TOTALE DI ABORTO

di Giuseppe Sedia

Non ci sarà divieto totale di aborto a Varsavia. Il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, ha bocciato un disegno di legge proposto dal movimento civile teo-con Ordo Iuris per mettere al bando le interruzioni volontarie di gravidanza senza se e senza ma. Già due giorni fa la maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) aveva chiesto di ritirare il provvedimento che era finito sul tavolo di una commissione del Senat, la camera alta polacca.

«Le manifestazioni da parte delle donne ci hanno spinto a riflettere dandoci anche una lezione di umiltà», ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Jaroslaw Gowin, smettendo così le esternazioni del collega degli Esteri Witold Waszczykowski che aveva invece derubricato le proteste a una forma di «happenning». A dire vero, più che di un bagno di umiltà, si tratta di un mero calcolo politico per la dirigenza del PiS, disposta a tutto per prevenire un’emorragia di consensi, ora che il governo procede a ritmo spedito con il suo piano di “orbanizacja” del paese.

È una piccola ma grande vittoria per le migliaia di donne vestite a lutto che hanno inondato le strade dei maggiori centri della Polonia nelle ultime due settimane. Le proteste culminate nel «lunedì nero» segnano invece la sconfitta degli iniziatori della legge, e più in generale, della politica intransigente del governo nei palazzi del potere. Ma il dietrofront del Sejm è anche la testimonianza della débâcle ideologica di Ordo Iuris e della Conferenza episcopale polacca. A nulla è servito lo zelo pro-life nelle zone rurali del paese dei «berretti di mohair», seguaci dell’emittente xenofoba Radio Maryja del pastore redentorista Tadeusz Rydzyk.

La legge del 1993, frutto di un compromesso al ribasso dopo la discesa in campo della Chiesa negli anni della transizione al capitalismo, non sarà dunque stracciata. E per questo che resterà difficile vedere tutto rosa per quelli che sono scesi in piazza ammantandosi di nero per dire «nie» al divieto totale. Gli aborti resteranno infatti punibili con un massimo di 8 anni di carcere per i medici che eseguono l’intervento. Non è prevista invece nessuna pena per le donne che decidono di sottoporsi all’operazione. Su quest’ultimo punto, nemmeno la gerarchia ecclesiastica locale sembra disposta a criminalizzare le donne.

L’attuale legislazione consente di eseguire l’intervento soltanto in tre casi: quando la gravidanza mette a repentaglio la salute della madre, quando il feto è danneggiato, e in caso di stupro. L’ondata di indignazione popolare del «Black Monday» dovrebbe anche distogliere il PiS dall’idea di presentare un proprio disegno di legge sul modello brasiliano che eliminirebbe la possibilità di eseguire l’aborto in caso di malformazioni del feto.

Con il mantenimento dello status quo il turismo abortivo verso Ovest continuerà ad andare a gonfie vele. Un vero e proprio «soggiorno della speranza», spesso in direzione Praga e Bratislava, dove le interruzioni volontarie di gravidanza non sono rimborsate dai servizi sanitari nazionali.

La Repubblica

IL NO DEI POLACCHI AL DIVIETO DI ABORTO
HA VINTO SUIBARBARI

di Andrea Tarquini

Adam Michnik, veterano della lotta non violenta per la libertà del centroest europeo contro l’”Impero del Male”, intellettuale di punta europeo e fondatore diGazeta Wyborcza, non ha dubbi: la rinuncia del governo polacco alla legge antiaborto di divieto totale è una nuova fase del conflitto tra il potere e la società civile, e grande vittoria dei diritti umani e delle donne nell’Europa intera.

Come valuta la situazione, che cosa ha spinto i onservatori del PiS alla svolta?
«Siamo in una nuova fase del conflitto tra potere politico e società civile, la quale è organizzata nel Kod (Comitato di difesa della democrazia, ndr), nei partiti d’opposizione come Platforma o Nowoczesna (I moderni) e in diverse organizzazioni. E specialmente è una grande vittoria del movimento delle donne nel mondo globale contro quella legge assolutamente barbara e anacronista che vietava di abortire anche a donne stuprate, una legge da Medioevo».

Come ha fatto questo eterogeneo movimento a vincere contro una maggioranza assoluta di governo liberamente eletta e così solida?
«Mobilitandosi in ogni città. Nelle piazze come sul web, sui social forum. Lanciando messaggi che hanno convinto donne e cittadini d’ogni opinione politica. È la prima volta che il PiS (il partito di maggioranza,
ndr) capitola. Grazie ai suoi parlamentari convintisi alla fine ad ascoltare il paese reale è stata bocciata la legge voluta dai più oscurantisti, dai falchi della Chiesa, altri grandi sconfitti ».

E adesso come evolverà il confronto politico in Polonia?
«Tre aspetti sono decisivi. Primo, insisto, il conflitto tra il regime autoritario e la società civile e democratica è entrato in una nuova fase, la società civile si è rafforzata. Secondo, è una grande vittoria della civiltà: nella cattolica Polonia le donne hanno conquistato un nuovo ruolo nella politica e nella vita pubblica, contro l’animo del sistema patriarcale. Terzo, ora è chiaro che la maggioranza del PiS non coincide necessariamente con la maggioranza nella società civile».

È rimasto sorpreso?
«Sì. Ora vedremo come la situazione andrà avanti. Il movimento deve continuare a lottare, ma deve stare molto attento: posizioni pro aborto troppo massimaliste spaccherebbero la società, sarebbe un regalo per il governo. Questo governo, come Orbàn in Ungheria, ritiene di essere più forte quando il paese reale si spacca».

Che succede nel mondo del cattolicesimo polacco, che molti accusano di oscurantismo?
«Il cattolicesimo polacco è diviso, anche in seno alla Conferenza episcopale. Vedremo chi vincerà al suo interno, perché finora la prevalenza di linee fondamentaliste ha portato la società verso sempre più secolarizzazione totale, ha indebolito il cattolicesimo».

Qual è il rapporto tra chiesa polacca e papa Francesco?
«Complesso. Per i cattolici fondamentalisti è impossibile contestare apertamente il Papa, eppure nell’episcopato polacco vive forte una eresia nazionalista di fatto anticristiana, come ha scritto Tygodnik Powszechny (il settimanale cattolico liberal di qualità di Cracovia, città di Giovanni Paolo II, ndr). È una sfida al Papa, pericolo mortale per il cattolicesimo in Polonia. Vedremo chi vincerà, io laico da sempre sono a fianco di Francesco. Anche in questo scontro tra Francesco e i nostri vescovi conservatori si è aperta ora una nuova fase».

L’Europa come deve reagire?
«Dico una cosa sola: sono completamente d’accordo con il commissario europeo Timmermans, secondo cui in Polonia la democrazia è minacciata ».

© 2024 Eddyburg