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A Verona è in corso il Congresso mondiale delle famiglie, espressione degli esponenti della più retriva e arcaica concezione patriarcale della famiglia, che vede anche la partecipazione di rappresentanti istituzionali, Matteo Salvini in testa.

Contemporanemente e in contrapposizione si svolge una tre giorni di mobilitazioni transfemmministe organizzata da «Non una di meno» per ribellarsi all'idea di famiglia patriarcale eteronormata, che riproduce un modello sociale gerarchico e sessista, propagandata dal Congresso. Oggi si è svolto un enorme corteo, appassionato e rigoroso controcanto, di oltre 100.000 persone provenienti da tutta Italia.

Parlare di famiglie oggi non può prescindere né dall'esperienza femminista né dalle drammatiche condizioni sociali ed economiche in cui molte di esse si trovano. A quest'ultimo proposito le parole (qui sotto riportate) di Viola Carofalo, portavoce di Potere al Popolo, diramate dai social network, sono una replica semplice ma chiara ai discorsi falsi, stereotipati e degradanti che sono emersi in questi giorni dal congresso.

Io lo vorrei fare un bel Congresso sulla Famiglia
di Viola Carofalo

Se Potere al Popolo! avesse i soldi, gli agganci, le coperture mediatiche di questi ricchi retrogradi, di questi corrotti politici, di queste fondazioni di miliardari che si stanno incontrando oggi a Verona, metterebbe su un bel congresso.

Chiameremmo la signora Anna, e ci faremmo dire come fa a portare avanti la sua famiglia a Napoli con tre figli e il solo stipendio del marito, muratore a nero.

Chiameremmo Giancarlo, e ci faremmo dire com'è essere papà di un bimbo con il tumore in Calabria, e dover fare avanti e indietro con il Nord perché gli stessi soggetti che ora discutono di famiglia hanno smantellato la sanità pubblica, soprattutto al Sud, per fare un favore ai loro amici delle cliniche private.

Chiameremmo Nicoletta che fa i salti mortali in Veneto per risparmiare sulla spesa di una famiglia di quattro persone ma i soldi per l'acqua in bottiglia li spende sempre da quando sua nipote piccola ha avuto un tumore e ha incominciato a informarsi sui PFAS...

Chiameremmo Giulia che nella periferia di Milano ha un figlio disabile e pochissimo aiuto da parte dello Stato, perché le famiglie piacciono solo quando non danno problemi, e per il resto affidati a Dio.

Chiameremmo Moussa che la sua famiglia la ama, ma ce l'ha ancora in Mali in una zona di guerra, e non può venire qui per le leggi di chi non vuole gli aborti ma affonderebbe volentieri i barconi, mentre Moussa lavora 10 ore al giorno in un magazzino in Emilia per fargli fare una vita decente.

Chiameremmo Maria che occupa una casa a Roma, in una palazzina insieme ad altre famiglie, di tutte le nazioni, e ci faremmo raccontare come si danno una mano a vicenda, come ci si tiene i figli l'un l'altro quando si deve lavorare, come tutto si mischi e non sia più importante sapere chi appartiene a chi, perché alla fine siamo uomini e donne, bambini di questa città, di questo paese, della grande famiglia umana.

Ecco, noi faremmo un Congresso così, dove non si parlerebbe di cazzate medievali, ma di problemi concreti, di soluzioni concrete, della vita della maggior parte delle famiglie italiane, che oggi è difficile, proprio a causa di chi è ricco e comanda, e di noi non se ne frega.

Oggi saremo a Verona a dire questo. Non solo a rispondere colpo su colpo a questo oscurantismo, che fa tornare indietro la mentalità del nostro paese. Ma a dire: non ci fregate, il vostro trucco è vecchio: cercare di cambiare il senso comune per incassare consenso anche se la vostra politica non sta risolvendo un problema che sia uno....

Non ci fregate, noi vi incalzeremo: su lavoro, diritti, redistribuzione della ricchezza, sull'emigrazione dei nostri giovani. A questo dovete rispondere. E Dio non vi aiuterà di certo!

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Oggi eddyburg.it non verrà aggiornato. Aderiamo allo sciopero indetto da «Non una di meno», in risposta a tutte le forme di sfruttamento e violenza che colpiscono le vite delle donne, delle persone trans e intersex, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini. Qui il testo dell'appello.

Insieme al ginecologo congolese Mukwege, la giovane è stata premiata per la lotta allo stupro come arma di guerra. Ex schiava dell’Isis dopo l’occupazione di Sinjar, è da anni il volto del suo popolo e del genocidio che ha subito.

Il premio Nobel per la Pace 2018 è stato assegnato questa mattina a Nadia Murad e Denis Mukwege, giovane yazida ex schiava dell’Isis in Iraq la prima e ginecologo congolese il secondo, per il loro impegno contro l’utilizzo dello stupro e della violenza sessuale come arma di guerra.

Nadia è da anni il volto del genocidio subito dal popolo yazidi in Iraq per mano dello Stato Islamico. Una volta liberatasi dalla schiavitù, è divenuta la voce delle donne, i bambini e gli uomini yazidi uccisi e seviziati dall’Isis negli anni dell’occupazione dell’ovest dell’Iraq. Ha parlato ai parlamenti occidentali, all’Onu e all’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione nel 2016 insieme a Lamia Bashar, un’altra giovane yazidi scappata dalla prigionia. Dal settembre 2016 Murad è ambasciatrice dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta.

La sua storia è la storia di migliaia di donne, adolescenti e bambini yazidi, fatti prigionieri nell’agosto 2014 dopo l’assedio brutale della loro terra, Sinjar. Dopo la fuga dei peshmerga del Kurdistan iracheno, lo Stato Islamico è entrato nei villaggi, ha ucciso almeno 3mila uomini e reso schiave 6mila donne, mentre migliaia di yazidi trovavano rifugio nel monte Sinjar.Completamente assediato dallo Stato Islamico, nella caldissima estate irachena, il monte si è trasformato in una trappola fino alla liberazione: senza cibo né acqua, gli yazidi fuggiti sono stati portati in salvo dall’intervento delle unità curde siriane delle Ypg e del Pkk.

Solo nel 2015 Sinjar è stata liberata dal giogo islamista. I sopravvissuti, tornati dai campi profughi del Kurdistan iracheno, hanno trovato solo macerie e innumerevoli fosse comuni. Ma il genocidio non si arresta: sarebbero anche migliaia le donne prigioniere dello Stato Islamico.

Nei suoi anni da ambasciatrice del suo popolo, Nadia Murad ha raccontato la schiavitù. Rapita il 3 agosto 2014, nel villaggio di Kocho a Sinjar, è stata venduta come schiava sessuale dagli uomini dell’Isis a Mosul, passando di mando in mano, sottoposta a continui stupri e abusi. Nel novembre 2014 è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di una famiglia irachena.

Al mondo Nadia chiede da anni di intervenire, davvero. Se nel 2014 il dramma yazidi fu la giustificazione dell’allora amministrazione Obama per lanciare i primi raid aerei in Iraq contro lo Stato Islamico, non è seguita alcuna azione concreta per la loro tutela. Nessuna protezione internazionale. L’unico sostegno concreto è arrivato prima nei campi profughi in Kurdistan iracheno da parte di organizzazioni umanitarie, e poi dalle unità curde legate al Pkk che hanno attivamente partecipato alla liberazione di Sinjar e ispirato la formazione di unità di difesa yazidi nel territorio nord-ovest iracheno.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

NENAnews, 1

«Dopo aver visitato 8 campi nelle province irachene di Ninive e Salahddin, l’ong denuncia “uno sfruttamento sessuale straziante”. A pagare il prezzo più alto sono le donne sospettate di avere legami con lo Stato Islamico. A compiere gli abusi sono le forze di sicurezza e i membri delle milizie»

Le donne sospettate di avere legami con lo “Stato Islamico” (Is) sono vittime si sfruttamento sessuale e discriminazione nei campi rifugiati iracheni. A dirlo è Amnesty International (AI) in un rapporto che si concentra su otto campi profughi sparsi tra le province irachene di Ninive e Salahdin, un tempo aree controllate dal “califfato”.Irisultati dello studio della ong inglese sono drammatici: ovunque le donne sono maltrattate. Ma quelle “che si pensa abbiano rapporti con l’Is subiscono un alto grado di discriminazione e varie violazioni dei diritti umani” ha detto Nicolette Waldman, ricercatrice per Amnesty in Iraq. “Quello che per me è stato scioccante – ha aggiunto Waldman – è la violenza sessuale. Abbiamo scoperto che è diffusa e il modo in cui queste donne siano abusate è straziante”.

Una donna, citata nel rapporto, denuncia: “Non possiamo restare da sole fuori il campo, non è sicuro per noi. Ma in realtà è lo stesso anche dentro. Nessun posto è sicuro”. Dallo studio di AI emerge che a compiere gli abusi sono le forze di sicurezza a protezione dei campi e i membri delle milizie. Una accusa grave, ma che al momento il governo iracheno preferisce non commentare.

Secondo alcune ong che lavorano in Iraq, le donne che hanno mariti e padri morti o dispersi sono quelle più costrette a matrimoni forzati o a subire violenza. Particolarmente grave è anche la situazione di chi è analfabeta e non sa come ottenere documenti d’identità per accedere ad aiuti governativi o cibo. “La loro vulnerabilità li rende vittime di sfruttamento umano” ha detto Karl Schembri, consigliere regionale del Medio Oriente del Consiglio rifugiati norvegese.Condizioni di vita inaccettabili che però, sostiene AI, potrebbero peggiorare a causa della crisi economica che vive l’Iraq: le autorità irachene affermano che sono necessari soltanto 88 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese. Una cifra che è di gran superiore a quella che è stata promessa o data dai donatori internazionali.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Eddyburg

8 marzo2003 – Oggi è una festa, ma la sua radice è un dramma, e la sua storia è quella di una lotta. Forse vittoriosa. Era l’8 marzo 1908 quando nella fabbrica Cotton, a Chicago (USA), occupata dalle operaie tessili in sciopero, scoppiò un incendio. 129 donne, operaie, morirono. Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna.

Due anni dopo, a Copenhagen, in un incontro internazionale si decise di dedicare quel giorno alla Festa internazionale della donna. Da allora, l’8 marzo si è intrecciato alla vicenda del progressivo affrancamento delle donne dalle condizioni imposte alla loro umanità e dignità dall’altro sesso (e più precisamente, dalle regole dei sistemi economico-sociali che si sono succeduti nei secoli).

È una festa quindi, quella di oggi, che sollecita a riflettere in molte direzioni. Perché è nelle molte direzioni che il progresso economico, politico, sociale e culturale ha percorso nel secolo scorso che il movimento delle donne ha dato il suo contributo: non solo all’affermazione dei diritti di un genere maggioritario me emarginato, ma a quello della società nel suo insieme. ”Che ‘a piasa, ‘a tasa e ‘a staga a casa”, è il vecchi detto veneto: se avesse accettato questo tabù posto al suo ruolo (piacere, tacere, fare la casalinga) molte delle conquiste di cui oggi tutti ci gioviamo non sarebbero state raggiunte (o lo sarebbero stato molto molto più tardi). Vogliamo ricordarne alcune?

Il suffragio universale, che ha reso la democrazia lo strumento realmente utilizzabile per basare il governo sulla volontà del popolo: il migliore degli strumenti fin qui inventati dall’uomo, nonostante i suoi difetti. Condizioni di lavoro migliori per tutti nelle fabbriche, nelle campagne, negli uffici, ottenuti grazie all’ingresso delle donne nelle vertenze sindacali. I nuovi diritti civili di tutti i soggetti, maschi e femmine, raggiunti nel nostro paese grazie alle grandi battaglie per la liberazione della donna degli anni Sessanta e Settanta. E l’odierna campagna mondiale per la pace, che si ricollega alle infinite manifestazioni animate dalle donne (quasi geneticamente ostili a tutto ciò che minaccia la specie) in tutto il corso del secolo che sta alle nostre spalle.

Poiché sono urbanista, voglio ricordare il contributo che diede il movimento delle donne, negli anni Sessanta, all’introduzione anche in Italia di uno strumento essenziale per rendere più vivibile la città: gli standard urbanistici. In quegli anni era forte la rivendicazione organizzata, soprattutto delle associazioni delle donne, per ottenere più spazio nelle città per gli asili, il verde, le scuole: come strumento per essere sollevate dall’obbligo del lavoro casalingo, come tensione a uscire dalle mura domestiche e impadronirsi della città. La rivendicazione condusse a stabilire, per legge (765/1968), che i piani urbanistici dovevano riservare, per ogni abitante, un certo numero di metri quadrati nella città a spazi pubblici e di uso pubblico. Naturalmente non basta una soglia quantitativa per migliorare la città e renderla più vivibile. Serve – una volta raggiunto quell’obiettivo - il lavoro degli urbanisti, e quello degli amministratori; servono l’elaborazione e l’attenzione della cultura e della politica, che alimentano e sorreggono gli operatori sul campo.

Il lavoro di questi attori non si è sempre diretto nella direzione giusta, né sempre con la necessaria intelligenza e determinazione. Spesso, troppo stesso gli standard sono stati considerati un mero adempimento burocratico, e non un primo passo verso la progettazione di una città radicalmente diversa da quella attuale. Spesso gli standard sono stati utilizzati come pedaggio da pagare (più scarsamente possibile) per uno sviluppo urbano misurato in termini di cubature edificabili.
Spesso, non sempre. E uno degli auguri che vorrei fare oggi a tutte le donne (e a tutti gli uomini) è che gli esempi positivi si moltiplichino e si generalizzino. Che le conquiste quantitative strappate nei decenni trascorsi non vengano tradite, ma tradotte nella qualità di una città finalmente resa amica delle donne e degli uomini.
L’altro augurio nasce da questi giorni, in cui governi inetti minacciano di gettare il mondo nell’abisso di una guerra targata USA. Queste tre lettere ci spingono oggi a ricordare che la festa di oggi esprime anche la solidarietà con le 129 donne che, quasi un secolo fa, morirono negli USA per i loro e i nostri diritti. Mimosa e pace, sulle due sponde dell’Atlantico, come un arcobaleno.

Corriere della sera, 27sima ora

Sono per oltre il 70% italiani, tra il 30 e i 50 anni, gli uomini accusati di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, stalking, femminicidio. Oltre il 48% sono mariti, fidanzati o persone che fanno parte del contesto familiare. Anche o soprattutto per questo, 1 denuncia su 4 viene archiviata ed una percentuale variabile - ma comunque significativa - di dibattimenti si conclude con una assoluzione (dal 12,6% del distretto di Trento fino al 43,8% dei casi nella provincia di Caltanissetta).
27sima ora

È questo uno dei motivi principali per cui, nonostante il numero resti elevato, si è registrato negli ultimi mesi un calo delle denunce per maltrattamenti: come ci racconta la cronaca, sono molte le donne che decidono di non denunciare per timore di non essere adeguatamente protette e forse, ancora, per la paura di essere giudicate. La relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio sottolinea la inadeguatezza dell’Italia anche solo nel fornire i dati richiesti dalla Convenzione di Istanbul, non essendo previsto un reato di “femminicidio” e nemmeno – fino al luglio 2015 - un sistema integrato di raccolta e di elaborazione dati.

Solo il 36% degli uffici giudiziari lavora in rete e la mano destra non sa cosa fa la sinistra: il tribunale civile non comunica con quello penale e viceversa, ed accade così che un padre condannato per violenze domestiche venga definito “adeguato genitore affidatario” da quello civile, permettendo che il bambino continui a subirne i comportamenti, con il supporto di CTU (Consulenti Tecnici d’Ufficio) e Servizi Sociali. Sono molte (ma non sappiamo quante) le madri che rinunciano a proseguire nelle denunce per timore di essere giudicate alienanti e vedersi sottrarre i figli invece di poterli proteggere.

Tutto questo viene perfettamente fotografato dalla Rassegna Stampa che curo del primo mese del 2018. Sono 4 italiani e 1 cinese gli autori dei 5 femminicidi accertati compiuti a gennaio. Si chiamano Fabrizio Vitali, che ha ucciso una ragazza nigeriana all’interno di un albergo in provincia di Bergamo; Pasquale Concas, che – dopo aver già scontato una pena di 23 anni per l’uccisione di una donna – è tornato ad uccidere a Modena, dove ha gettato una giovane ungherese lungo i binari ferroviari; Gabriele Lucherini, accusato dell’omicidio preterintenzionale della compagna, che lo aveva riaccolto in casa, a Novara, dopo averlo già denunciato per maltrattamenti; Davide Mango, che a Caserta ha ucciso la moglie sparando all’impazzata e ferendo altre cinque persone. Potrebbe essere italiano anche l’assassino di Lin Suqing, la prostituta cinese trovata imbavagliata e seminuda in un appartamento in provincia di Salerno. Wu Yongqin, invece , che ha ucciso la moglie e un bimbo di tre anni nel loro appartamento a Cremona, è di origine cinese, anche se viveva in Italia da ormai 15 anni. Fino al 30 gennaio, è lui l’unico autore “straniero” di femminicidio: ha ucciso altri cinesi.
Il 31 gennaio viene ritrovato il cadavere di Pamela Mastropietro, una 18enne con problemi di droga, il cui corpo è stato smembrato e abbandonato all’interno di due valigie. Un delitto orribile con una vittima giovane e bella. Fermato, la sera stessa del ritrovamento, un pusher nigeriano, il cui nome – Innocent - stride terribilmente con il resto della vicenda . Ignorando le grida di difesa di Innocent e le indagini ancora in corso, intorno alla tremenda sorte di Pamela si crea più di un fronte: si parla di immigrazione, di stranieri che odiano le donne, di razzismo, di politica che non ha controllo o di partiti che favorirebbero questi drammi, arrivando al fanatismo e alla vendetta. L’uccisione della ragazza fuggita dalla comunità di recupero viene definita - prematuramente e inopportunamente - “femminicidio” (se la ragazza è morta di overdose non si può dire “uccisa in quanto donna”) e diventa pretesto per battaglie politiche, proclami ideologici e sparatorie razziste. Niente di nuovo, insomma.

Così come niente di nuovo, purtroppo, rivela la rassegna stampa delle aggressioni subite dalle donne e quella degli episodi che vedono coinvolti i bambini, utilizzati spesso come strumento di ricatto: dal padre separato che strappa il figlio dalle braccia della mamma a Salerno a quello che si barrica in casa con un neonato a Catania, dall’avvocato di Torino che ha abbandonato il bimbo sul balcone a quello che fugge con la figlia a Latina, dai tanti che picchiano la mamma davanti ai bambini (a Padova come a Foggia, ad Ancona come a Trieste e in tutto il resto della penisola) a quelli che minacciano di uccidere o sfregiare i figli (a Firenze, Mantova, Savona eccetera).

E ancora nulla di nuovo sembra esserci nella diffidenza con cui persino alcune madri accolgono le denunce delle figlie, negli attacchi che riceve chi denuncia pubblicamente, fino agli schieramenti di incomprensibile difesa nei confronti degli uomini maltrattanti.

Ma oltreoceano la Giudice Rosemarie Aquilina fa qualcosa di nuovo, gettando con disprezzo la memoria del medico pedofilo Larry Nassar, condannandolo a ben 175 anni di prigione ed invitando le donne a «tornare del mondo e fare cose meravigliose».

Nel nostro piccolo, anche noi italiani registriamo qualche timido segnale di cambiamento: due giornali locali (della provincia di Trapani e di Reggio Calabria) hanno deciso di pubblicare la foto degli uomini violenti. Matteo Foggia e Ion Marian Raulet, hanno così goduto inaspettatamente del loro momento di notorietà per aver picchiato le rispettive compagne. Al posto delle banali foto di agenzia che generalmente ritraggono anonime volanti, finalmente in primo piano i volti di due uomini maltrattanti, con nomi, cognomi e curriculum. A fargli compagnia, le foto di Massimo De Angelis, l’insegnante “innamorato” della studentessa quindicenne, e quelle del magistrato destituito Francesco Bellomo, inventore del “dress code” per diventare giudice. Ne mancano ancora tante, ma confidiamo nello spirito emulativo.

La vera differenza, infatti, la fanno le vere denunce: quelle con nomi e cognomi, quelle che mostrano le facce, quelle che pretendono davvero che chi ha sbagliato paghi e sia di monito a tutti gli altri, quelle che vogliono che sia il colpevole ad essere giudicato con disprezzo, e non chi ha subito. Sarebbe bello, in questo mese di febbraio, poter segnalare la novità di un sostegno totale ed incondizionato alle donne che decidono di denunciare, a cominciare dalle madri per finire agli organi di polizia e giudiziari: scoprire insomma il vero e profondo cambiamento di un paese.

Articolo tratto qui da Corriere della Sera, 27sima ora. dove è raggiungibile

Internazionale online,

Si avverte un certo attrito fra le femministe più giovani e quelle più vecchie, provocato dalla recente comparsa dei movimenti #metoo e Time’s up e dalle reazioni negative di Catherine Deneuve e di Germaine Greer. Ho sentito donne mature che non capiscono perché una ragazza abbia definito la sua esperienza con l’attore Aziz Ansari come la notte peggiore della sua vita, e ho sentito donne giovani chiedere alle più anziane di farsi da parte o di tenere la bocca chiusa.

È sempre preoccupante quando gruppi di donne si contrappongono tra loro o si scagliano a vicende calunnie e sospette. Il momento che stiamo vivendo mi sembra decisivo: oggi le donne gridano “siamo incazzate nere e non ne possiamo più!”, e io non ho tempo per chiunque si metta in cattedra dicendo che ai suoi tempi era perfettamente capace di badare a se stessa. Un atteggiamento che nasce da un senso di vergogna e quasi di negazione, come se si dicesse “le botte non mi hanno fatto niente”.

Ondate naturali

Tuttavia questo gap generazionale non è una novità: ogni ondata di femminismo ha visto figlie schierarsi contro le loro madri spirituali e politiche, o in certi casi anche biologiche. Scriveva Rebecca Walker, figlia di Alice Walker e femminista della terza ondata, nell’ormai lontano 1995: “Le giovani femministe si accorgono di badare a come parlano per non turbare le anziane madri femministe. C’è senz’altro un divario tra le femministe che si considerano appartenenti alla seconda ondata e quelle che si definiscono della terza”.

Il mio femminismo si è formato verso la fine degli anni settanta, quando le mie eroine punk erano le Raincoats and Poly Styrene, e poi nei primi anni ottanta, all’università, dove leggevamo Kate Millett, Sylvia Plath, Audre Lorde e Charlotte Perkins Gilman.

Eravamo decisamente antiglamour, ferocemente polemiche e un po’ puritane. Per forza: avevamo letto Contro la nostra volontà di Susan Brownmiller, che nel 1975 definiva la cultura dello stupro “un processo consapevole di intimidazione per mezzo del quale tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura”.

Le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia

La generazione seguita alla mia, quella degli anni novanta, mi ha provocato un bel po’ di confusione. Mentre un tempo, nella mia classe di letteratura femminista, buttavamo nella spazzatura Histoire d’O, le femministe della terza ondata non trovavano niente da ridire sui club di spogliarello e sulla pornografia, non avevano peli sulla lingua e non si lasciavano intimidire. Però hanno anche dovuto fare i conti con la cultura del “nuovo maschio”.

Certe volte somigliavano alla cool girl poi descritta da Gillian Flynn nel suo L’amore bugiardo, che, pur di ottenere l’approvazione dei maschi, emulava i rozzi comportamenti di certi uomini. Mi restava il dubbio. Magari quello era un femminismo nuovo e io ero una moralista. O magari era un’altra ondata di riflusso.

Più conoscenza e più ansia

Le mie figlie, ora ventenni, appartengono alla quarta ondata. A scuola hanno fondato un circolo femminista, a 15 anni sono andate a sentir parlare Malala Yousafzai, e siccome sono cresciute online, hanno avuto accesso a tutto un mondo di conoscenza e di esperienza. Non mi vergogno di ammettere che da loro ho imparato varie cose. La loro generazione mi sembra istintivamente più a suo agio con l’intersezionalità, e mi ha insegnato a usare termini come “non binario” e pronomi neutri ben prima che quel modo di parlare fosse adottato da un pubblico più vasto.

Però le mie figlie, per via dei selfie e di Instagram, sono anche più ansiose riguardo al loro aspetto esteriore di quanto lo fossi io, e si assoggettano a standard più elevati di cura della persona e di bellezza.

Noi degli anni settanta eravamo piene di peli e puzzavamo un po’, ma non importava, mentre le attuali pretese nei confronti delle donne mi sembrano impegnative fino allo sfinimento. Sono rimasta allibita leggendo su un giornale che le giovani non vanno neanche a farsi il pap test se prima non si sono fatte la ceretta. Ricordo che ai miei tempi il sottoporsi a un esame interno mi sembrava un rito di passaggio femminista. Non vergognarsi di mostrare quella parte del nostro corpo a un medico era un segno di liberazione, simile al suggerimento di assaggiare il proprio sangue mestruale, lanciato da Germaine Greer.

Ma allora era allora e oggi è oggi e siamo ancora tutte nella stessa barca. A volte non mi ricordo bene a quale ondata o a quale generazione appartengo. Penso di essere una baby boomer, il che significa che potrei facilmente aggiungermi a quelle che oggi liquidano cinicamente le millennial. Invece non voglio farlo. Le ascolto, e le trovo formidabili. Vi sembrerà una sdolcinatezza, ma io preferirei far confluire tutte le ondate in un grande oceano.
(Traduzione di Marina Astrologo)

Questo articolo è uscito sul settimanale New Statesman. Esso è raggiungibile qui: Il femminismo è un oceano di donne diverse

la Stampa
«Il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth: non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini»
Nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Lo affermano le Nazioni Unite, secondo cui si è difronte al «più grande furto della storia». Secondo i dati raccolti dall’organizzazione, non vi sono distinzioni di aree, comparti, età o qualifiche. «Non esiste un solo paese, né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini», ha detto il consigliere delle Nazioni Unite Anuradha Seth. Il divario salariale non ha una o due cause, ma è dovuto all’accumulo di numerosi fattori che includono la sottovalutazione del lavoro delle donne, la mancata remunerazione del lavoro domestico, la minore partecipazione al mercato del lavoro, il livello di qualifiche assunte e la discriminazione. Pertanto, le donne guadagnano meno in generale perché lavorano meno ore retribuite, operano in settori a basso reddito o sono meno rappresentate nei livelli più alti delle aziende. Ma anche, semplicemente, perché ricevono in media salari più bassi rispetto ai loro colleghi maschi per fare esattamente lo stesso lavoro. Nel complesso, la stima dell’organizzazione è che per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna in media 77 centesimi.

Le differenze tra paesi, tuttavia, sono importanti. Tra i membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), vi sono paesi con una differenza inferiore al 5% come Costa Rica o Lussemburgo e altri fino al 36% come la Corea del Sud. I confronti sono complicati, dal momento che i numeri cambiano a seconda della fonte e della metodologia. In Spagna, ad esempio, il divario è dell’11,5% secondo i dati del 2014 utilizzati dall’Ocse, e del 24% secondo i dati di un rapporto pubblicato un anno fa dal sindacato Ugt. Secondo i più recenti calcoli dell’Ocse, in Giappone il divario è del 25,7%, negli Usa del 18,9%, nel Regno Unito del 17.1%, in Germania del 15,7%. La differenza di salario tra uomini e donne si amplia generalmente in relazione all’età, soprattutto quando le donne hanno figli. Secondo recenti stime, con ogni nascita le donne perdono in media il 4% del loro stipendio rispetto a un uomo; per il padre il reddito aumenta invece di circa il 6%. Ciò dimostra, afferma Seth, che buona parte del problema è il lavoro familiare non retribuito che le donne continuano a svolgere in modo sproporzionato.

Nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale, ad esempio, il divario retributivo di genere è pari rispettivamente al 31% e al 35% per le donne con figli, rispetto al 4% e al 14% per le donne che non hanno figli. Nonostante l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro negli ultimi decenni, il numero di donne attive resta molto inferiore a quello degli uomini; inoltre, in molti casi le donne lavorano meno ore. Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) del 2015, il 76,1% degli uomini in età lavorativa fa parte della popolazione attiva, mentre la percentuale è del 49,6% nel caso delle donne. Al ritmo attuale, avverte l’Onu, ci vorranno più di 70 anni per porre fine al divario salariale tra uomini e donne.
Nigrizia, 6 gennaio 2018. Drammatico il divario tra ricchi e poveri nel Continente antico, massimo in Nigeria e in Sudafrica. Che fare per superarlo, secondo la rivista dell'Onu. Africa Renewal, che spiega come il promuovere l’uguaglianza di genere, anche nella gestione del potere, giovi alla società e all’economia

Quanto la ricchezza dell’Africa sia sempre più concentrata nelle mani di pochissime persone è stato esaminato tre mesi fa dal Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), che in un dettagliato studio ha evidenziato l’enorme divario tra ricchi e poveri nel continente. Tra i dati salienti da segnalare, il primato del Sudafrica, che oltre a essere l’economia più sviluppata dell’Africa è anche quella con il più alto livello di disuguaglianza di reddito al mondo. Ed appare, inoltre, che tra i 19 paesi nei quali si registra la maggiore disparità a livello globale, ben dieci sono in Africa subsahariana. Tra questi figurano Botswana, Namibia e Zambia.

Senza tralasciare la profonda disparità che affligge la Nigeria, monitorata nel maggio scorso da uno studio di Oxfam, dal quale emerge che nel 2017 la scala della disuguaglianza nel paese africano ha raggiunto livelli estremi. Come dimostra il fatto che le cinque persone più ricche della nazione detengono una ricchezza complessiva di 29,9 miliardi di dollari, che equivale all’intero bilancio della Nigeria nel 2017.

Tutti questi dati convergono sull’urgenza di combattere la disuguaglianza, alla quale la rivista quadrimestrale Africa Renewal, edita dalla sezione africana del dipartimento delle Nazioni Unite per l’informazione pubblica, ha dedicato il suo nuovo numero.

Nel descrivere lo scenario, il magazine specifica che i paesi dove la disuguaglianza di reddito è più elevata sono principalmente quelli dell’Africa meridionale e centrale, mentre le cause alla base della disparità sociale raramente sono le stesse da un paese all’altro. Tra i fattori primari che influenzano le disuguaglianze sono inclusi l’accesso limitato a capitali e mercati, sistemi fiscali ingiusti, eccessiva esposizione a determinati mercati vulnerabili alle oscillazioni delle materie prime, corruzione dilagante e cattiva gestione delle risorse pubbliche.

Cose da fare

Dalla lettura dei vari approfondimenti contenuti nella pubblicazione si evince, che per affrontare una sfida di simili dimensioni è necessario fornire risposte multiple. Qualunque sia la storia e le dinamiche economiche di ogni singolo paese, alcune misure si sono già rivelate particolarmente proficue nel ridurre le disuguaglianze nella macroregione.

Tra queste, vengono elencate l’aumento della produttività tra i piccoli agricoltori, la garanzia per le donne dell’accesso alle risorse produttive necessarie alla sicurezza alimentare delle famiglie, la riduzione del favoritismo nelle opportunità economiche, la promozione della manodopera intensiva nelle industrie, la fissazione di salari minimi, il potenziamento della lotta all’evasione fiscale per impedire ai ricchi di evadere le tasse, l’aumento delle imposte dirette, l’incentivazione di investimenti nell’istruzione e nell’agricoltura, oltre all’introduzione di incisivi programmi di protezione sociale per porre fine alle forme di esclusione.

Nondimeno, è importante promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile. Lo dimostra il fatto che la disuguaglianza di genere incide sul 6% del Pil dell’Africa subsahariana, mettendo a repentaglio gli sforzi del continente per lo sviluppo umano inclusivo e la crescita economica.

Il reddito familiare favorisce in modo sproporzionato i maschi adulti, mentre la discriminazione di genere è acuta ed endemica. Una delle analisi contenute nella rivista correla l’uguaglianza di genere con lo sviluppo umano rilevando che Maurizio e Tunisia hanno bassi livelli di uguaglianza di genere e alti livelli di sviluppo umano. Al contrario, Ciad, Mali e il Niger hanno alti livelli di disuguaglianza di genere ma bassi livelli di sviluppo umano.

Ne consegue che gli uomini sono indicati come i principali responsabili dei problemi economici dell’Africa. E inoltre è anche evidenziato che quando a livello decisionale c’è una maggioranza femminile, c’è meno corruzione. Fino ad oggi, però, non si è sufficientemente incoraggiato l’aumento della presenza di donne nella governance africana.

il manifesto

Il movimento Ni Una Menos, che da due anni solca le strade di mezzo mondo, ha conosciuto anche l’adesione italiana. Sorto come una delle sorprese più vitali del 2016, quando per la prima volta il 26 novembre il progetto Non Una Di Meno ha esordito in piazza a Roma insieme a migliaia di donne, si è poi consolidato attraverso assemblee regionali e cittadine che hanno lavorato alacremente lungo tutto il 2017. Tavoli di lavoro per temi e la preparazione del grande sciopero globale organizzato per l’8 marzo, l’intento iniziale è stato rispettato: il Piano femminista antiviolenza contro la violenza maschile, nelle sue 57 fitte pagine, è stato presentato non più di un mese fa, alla vigilia del secondo appuntamento romano per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

In principio con la collaborazione tra Di.Re, Udi e la rete Io Decido, Non Una Di Meno ha raccolto da subito il consenso di molti collettivi e gruppi che si sono riconosciuti nel denominatore comune della libertà femminile per fare arretrare la miseria del vittimismo in tema di violenza maschile contro le donne. Ma, soprattutto il riconoscimento del confrontarsi tra pratiche diverse, diventando «casa delle differenze», ha segnato il punto di una serie di battaglie. Prima fra tutte quella di collocarsi nell’ambito internazionale, globale di un femminismo che trova la sua rigenerazione non azzerando ciò che è stato ma augurandosi di trovare maggiori intersezioni possibili.

Leggendo il Piano antiviolenza si scopre un documento politico capace di fotografare il presente e la sua complessità: tra lavoro, scuola, welfare, ambiente e tanto altro, seguendo il saldo protagonismo delle donne che non cede mai il passo all’automoderazione e alla convenienza partitica ma interroga costantemente i guadagni del femminismo per fare circolare una scommessa di civiltà. Per tutte e tutti.

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SINTESI DEL PIANO FEMMINISTA
CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE
E TUTTE LE FORME DI VIOLENZA DI GENERE
21 novembre 2017
Dopoun anno che ha visto al lavoro decine di assemblee in circa 70 città, dopo 5incontri nazionali, dopo lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo scorso,Non Una di Meno presenta il Piano femminista contro la violenza maschile e digenere, un documento di analisi e proposte che porterà in piazza il 25novembre, a Roma, in occasione della manifestazione nazionale per la giornatainternazionale contro la violenza sulle donne.
IlPiano si basa sul presupposto che la violenza maschile contro le donne èsistemica, attraversa cioè tutti gli ambiti delle nostre vite e si fonda sucomportamenti radicati. È implicita nella costruzione e considerazione socialedel maschile e del femminile, per questo parliamo di violenza di genere. Non puòessere superata nell’ottica dell’emergenza, né se viene considerata unaquestione geograficamente o culturalmente determinata.
IlPiano è un documento di proposta e di azione, frutto della scrittura collettivadi migliaia di donne e soggettività alleate, che parte dalla messa in comune diesperienze e conoscenza, parte cioè dalla resistenza individuale e collettivaalle molteplici forme della violenza maschile e di genere. Si basa su unametodologia intersezionale, che intende cioè analizzare le forme di oppressioneche si innestano sulle differenze sociali, di origine, di classe, di identitàdi genere e sessuale, abilità e età.
Perscrivere il Piano, 9 Tavoli hanno lavorato sia a livello locale che nazionale.Per contrastare la violenza maschile e di genere nella sua complessità, Non Unadi Meno promuove azioni che si differenziano in modo sostanziale da quelle elaboratefinora dal Governo.
# LIBERE DI EDUCARCI.
Il femminismo si fa (a) scuola

Scuola e università sono luoghi primari di contrasto alle violenze di genere.Per questo chiediamo:
- formazione in materia di prevenzione della violenza di genere, mediazione deiconflitti ed educazione alle differenze per insegnanti, educatori ededucatrici;
- revisione dei manuali e del materiale didattico adottati nelle scuole di ogniordine e grado e nei corsi universitari, perché la scuola non contribuisca piùa diffondere una visione stereotipata e sessista dei generi e dei rapporti dipotere tra essi;
-abolizione della Legge 107/15 e della riforma Gelmini e apertura di unprocesso dal basso di scrittura delle riforme di scuola e università, chepreveda anche la rimodulazione dei contenuti e dei programmi;
- finanziamenti pubblici e strutturali per i settori settore dell’educazione,della formazione e della ricerca, dal nido all’università.

# LIBERE DI (AUTO)FORMARCI EDI FORMARE.
Costruire e condividere saperi contro la cultura della violenza.

Per prevenire la violenza di genere è fondamentale un tipo di formazionepermanente e multidisciplinare, che consenta di monitorare il fenomeno in tuttele sue sfaccettature e sui vari livelli di intervento per il sostegno alledonne. Per questo vogliamo:
- Formazione delle operatrici curata dei Centri Antiviolenza (CAV), che hannouna mission specifica basata sul diritto di scelta, consenso eautodeterminazione delle donne;
- Formazione delle figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscitadalla violenza delle donne, come insegnanti, avvocati e avvocate, magistrati emagistrate, educatori ed educatrici ecc.);
- Formazione a chi lavori nei media e nelle industrie culturali, per combatterenarrazioni tossiche e promuovere una cultura nuova;
- Formazione nel mondo del lavoro contro molestie, violenza e discriminazionedi genere, con l’obiettivo di fornire strumenti di difesa e autodifesa adeguatied efficaci.

# LIBERE DI DECIDERE SUINOSTRI CORPI.
Consideriamo la salute come benessere psichico, fisico, sessuale e sociale ecome espressione della libertà di autodeterminazione.

L’obiezionedi coscienza nel servizio sanitario nazionale lede il dirittoall’autodeterminazione delle donne, vogliamo il pieno accesso a tutte letecniche abortive per tutte le donne che ne fanno richiesta;
- Chiediamo la garanzia della libertà di scelta delle donne attraverso lapromozione della cultura della fisiologia della gravidanza, del parto, delpuerperio e dell’allattamento e che la violenza ostetrica venga riconosciutacome una delle forme di violenza contro le donne che riguarda la saluteriproduttiva e sessuale.
- Siamo contrarie alle logiche securitarie nei presidi sanitari: riteniamoinadeguati e dannosi interventi di stampo esclusivamente assistenziale,emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista dellaviolenza come fenomeno strutturale e vogliamo équipe con operatrici esperte
- Vogliamo consultori che siano spazi laici. Politici, culturali e socialioltre che socio-sanitari. Ne promuoviamo il potenziamento e la riqualificazioneattraverso l’assunzione di personale stabile e multidisciplinare. Incoraggiamo l’aperturadi nuove e sempre più numerose consultorie femministe e transfemministe, intesecome spazi di sperimentazione, auto-inchiesta, mutualismo e ridefinizione delwelfare

# LIBERE DALLA VIOLENZAECONOMICA,
DALLO SFRUTTAMENTO E DALLA PRECARIETÀ.
Strumenti economici per autodeterminarci.

Persuperare la violenza di genere nella crisi vogliamo strumenti e misure in gradodi garantire l’autodeterminazione e l’autonomia delle donne, antidoti allaviolenza data da dipendenza economica, sfruttamento e precarietà;
- Chiediamo salario minimo europeo e reddito di base incondizionato euniversale come strumenti di liberazione dalla violenza, dalle molestie e dallaprecarietà.
- Vogliamo un welfare universale, garantito e accessibile, politiche a sostegnodella maternità e della genitorialità condivisa;
- Riaffermiamo l’importanza di costruire reti solidali e di mutuo soccorsocontro l’individualismo e la solitudine
- Nel dare nuovi significati alla pratica dello sciopero, oltre a quellosindacale, rilanciamo lo sciopero globale delle donne come sciopero dei e daigeneri e dal lavoro produttivo e riproduttivo.
# LIBERE DI NARRARCI.
Prevenire la violenza con una narrazione femminista e transfemminista.

I media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenzamaschile contro le donne, per questo vogliamo:
- La produzione di linee guida per narrazioni non sessiste e, dove queste giàesistono, sanzioni per chi trasgredisce
L’eliminazione di tutte le forme di lavoro sottopagato, sommerso e sfruttato dellelavoratrici e dei lavoratori della comunicazione: le narrazioni tossiche sonodovute infatti anche alla ricattabilità di chi lavora nel settore, oltre chealla mancanza di formazione.
- Diffondere narrazioni non tossiche. La violenza è strutturale, nasce dalladisparità di potere, non è amore, è trasversale e avviene principalmente infamiglia e nelle relazioni di prossimità. La violenza avviene anche nella sferapubblica, ma non deve diventare spettacolo. Le donne non sono vittime passive,predestinate, isolate, e chi subisce violenza di genere non ne è mairesponsabile. La violenza non divide tra “donne per bene” e “donne per male”, egli uomini che agiscono violenza non sono mostri, belve, pazzi, depressi.Questi ed altri principi confluiranno in una carta deontologica rivolta aglioperatori ed operatrici del sistema informativo e mediatico.

# LIBERE DI MUOVERCI, LIBEREDI RESTARE.
Contro il razzismo e la violenza istituzionali.

Pratichiamoun femminismo intersezionale che, pur riconoscendo le differenze checaratterizzano le condizioni di ogni persona, sceglie di lottare insieme controla violenza del patriarcato, del razzismo, delle classi, dei confini
- Contro il regime dei confini e il sistema istituzionale di accoglienza,rivendichiamo la libertà di movimento e il soggiorno incondizionato dentro efuori l’Europa, svincolato dalla famiglia, dallo studio, dal lavoro e dalreddito. Vogliamo la cittadinanza per tutti e tutte, lo ius soli per le bambinee i bambini che nascono in Italia o che qui sono cresciute pur non essendovinati. Critichiamo il sistema istituzionale dell’accoglienza e rifiutiamo lalogica emergenziale applicata alle migrazioni
- Siamo contro la strumentalizzazione della violenza di genere in chiaverazzista, securitaria e nazionalista e vogliamo spazi politici condivisi efemministi

# LIBERE DALLA VIOLENZAAMBIENTALE.
Le violenze sui territori colpiscono anche noi.

Ricerchiamoil benessere dei corpi e degli ecosistemi. Definiamo “violenza ambientale”quella che si attua contro il benessere dei nostri corpi e gli ecosistemi incui viviamo, costantemente minacciati da pratiche di sfruttamento biocida
Vogliamo intraprendere un cammino comune a livello transnazionalenell’esercizio e nello scambio di pratiche transfemministe volte alla costruzionedi politiche economiche decolonizzate e di pace, alternative a quelle biocideed estrattiviste del capitalismo neoliberale
Affermiamo la necessità di superare il modello antropocentrico corrente:soggezione, sfruttamento della natura, degli esseri umani e delle altre speciee patriarcato si intrecciano infatti nella concezione delle relazioni comedominio e proprietà proprie di questo modello

# LIBERE DI COSTRUIRE SPAZIFEMMINISTI.
Spazi di autonomia, spazi separati, spazi di liberazione

Per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri è necessario recuperarequartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi gestiti da donne,riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delledonne.
- Riconosciamo e supportiamo la centralità dei Centri Antiviolenza (CAV) qualiluoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui internooperano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processidi trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamichestrutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne
- L’operatrice di accoglienza/antiviolenza è cardinale nel lavoro dei CentriAntiviolenza, e la sua formazione deve essere acquisita esclusivamenteall’interno dei Centri stessi. Il suo operato si fonda nella pratica femministadella relazione tra donne e nel contrasto agli stereotipi e allediscriminazioni di genere.
- I Centri Antiviolenza garantiscono la riservatezza, la segretezza,l’anonimato e la gratuità. Nei CAV viene adottata una metodologia indirizzataall’autonomia e mai all’assistenza, basata sulla relazione tra donne e sullalettura della violenza di genere come fenomeno politico e sociale, strutturalee non emergenziale
La pluralità di azioni necessarie per una concreta ed efficace lotta allaviolenza maschile sulle donne richiede l’impegno di risorse e finanziamentiappropriati e finalizzati al vantaggio delle donne e alla valorizzazione esostegno dei Centri Antiviolenza
- Siamo contrarie all’istituzionalizzazione dei percorsi di fuoriuscita dallaviolenza e ai requisiti minimi così come recentemente in discussione nellaConferenza Stato-Regioni

# LIBERE DI AUTODETERMINARCI.
Per concretizzare percorsi di autonomia e fuoriuscita dalla violenza ènecessario:

Ridurrei tempi della giustizia, anche mediante la previsione di corsie preferenziali,ad oggi inesistenti per i procedimenti civili e scarsamente attuate per iprocedimenti penali;
- In sede penale va contrastata ogni forma di obbligatorietà della denuncia eprocedibilità d’ufficio dei reati – che limiti il diritto di autodeterminazionedelle donne – e l’estensione ai reati di genere di strumenti processuali chedepotenziano i diritti della persona offesa (condotte riparatorie di cuiall’art. 162 ter c.p. dove anziché essere imprescindibile, il consenso dellapersona offesa è irrilevante). Vanno fissati parametri equi, congrui eduniformi per l’offerta reale del risarcimento del danno che non sviliscano lagravità del reato subito e restituiscano dignità e centralità alla donna;
- Recepire la direttiva europea sul risarcimento del danno per le vittime diviolenza, ponendo a carico dello Stato l’anticipazione di tutte le sommedisposte dall’autorità giudiziaria in loro favore sia in sede civile che insede penale, superando la burocratizzazione delle attuali procedure di accessoai fondi già costituiti
- Allargare la tutela del permesso di soggiorno per le donne che subisconoqualunque forma di violenza (art. 18 bis TUIMM), anche episodica e sul posto dilavoro, svincolandolo dal percorso giudiziario/penale, e garantendone l’accessoeffettivo alle donne prive di documenti sul territorio.
- Si chiede alla donna di essere una “brava madre” al di fuori della violenzae, di contro, si considera il padre adeguato anche se violento, in apertaviolazione della Convenzione di Istanbul (Titolo V art. 31). Bisogna superarela cultura giuridica che riconduce la violenza maschile sulle donne alla“conflittualità” di coppia, disconoscendo il fenomeno stesso della violenza esminuendo la credibilità delle donne che la subiscono.
- Introdurre modifiche legislative in materia di affidamento condiviso (artt.337 quater c.c. e ss.), escludendo la sua applicazione in tutti i casi diviolenza intrafamiliare e opponendosi ad altre forme di affidamento, comequello alternato, che causano pregiudizio e svuotamento dei diritti economicidelle donne (la perdita del diritto all’assegnazione della casa familiare e delmantenimento), generando una condizione di dipendenza e subordinazioneeconomica nei confronti degli ex partner come un ennesimo strumento di ricatto;
- Assicurare l’applicazione dei provvedimenti ablativi e/o limitativi dellaresponsabilità genitoriale paterna;
- Rispettare nei casi di violenza il divieto di mediazione familiare e disoluzioni alternative nelle controversie giudiziarie;
- Contrastare l’abdicazione da parte delle e dei giudici minorili e civili allapropria funzione di valutazione e decisione, praticata attraverso la delega difatto alle e ai Consulenti tecnici d’Ufficio e al personale dei servizisociali, e quindi vietare di procedere a valutazione psicologica epsicodiagnostica sulle donne vittime di violenza e sulla loro capacitàgenitoriale, valutazione che dovrebbe essere centrata sulla sola figura paternaevitando l’equiparazione dell’uomo maltrattante alla donna maltrattata;
- Garantire alle ed ai minori una tutela integrata effettiva con lasemplificazione del rilascio/rinnovo dei documenti, nulla osta scolastici,accesso ai servizi di sostegno psicologico e cure sanitarie.

- L’orientamento e l’inserimento lavorativo sono fondamentali per i percorsi diliberazione e autonomia delle donne che fuoriescono dalla violenza, in quantoconsentono la rottura dell’isolamento, la riacquisizione di autostima, lacapacità di riconoscere le proprie competenze, abilità e limiti per assicurarsiuna reale indipendenza, soprattutto dal punto di vista economico.

Pergarantire efficaci percorsi di autonomia lavorativa è necessario:
- Reddito di autodeterminazione per garantire un aiuto concreto che permettauna più veloce fuoriuscita dalla violenza e/o un’efficace prevenzione delrischio di recidiva di maltrattamenti;
- Vietare il licenziamento e prevedere il trasferimento dai luoghi di lavorocon assicurazione di ricollocazione, il diritto alla flessibilità di orario,l’aspettativa retribuita e la sospensione della tassazione per le lavoratriciautonome;
- Modificare il congedo lavorativo per violenza (articolo 24 del D.lgs. n.80/2015) che esclude le lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari enon garantisce l’anonimato. È inoltre necessario diffondere maggiormentel’esistenza di questo strumento presso i datori di lavoro e le sediterritoriali INPS;
Mettere a disposizione per attività di imprenditoria femminile una percentualedei beni commerciali confiscati.

Nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza il “problema della casa” assume unvalore primario, cui bisogna dare risposte adeguate, non episodiche e/oemergenziali
- Prolungare l’ospitalità dagli attuali 3-6 mesi a 12 mesi e conferire al tempodi permanenza una natura più flessibile, in grado di tener conto dellespecificità di ogni donna e del suo percorso;
- Slegare l’ospitalità, l’accoglienza o il trasferimento in altra località dalsistema delle rette dei Servizi Sociali che non devono sostituirsi alle donnedeterminando i loro percorsi di fuoriuscita dalla violenza.
- Ampliare, modificare e applicare su tutto il territorio nazionalel’esperienza della Delibera 163 del Comune di Roma prevedendo che il contributoquadriennale per l’affitto sia destinato anche alle donne uscite da situazionidi violenza; a tal fine è necessario che sia equiparata, per gravità e urgenza,la necessità di fuga dalla casa familiare per sottrarsi a una situazione diviolenza all’essere colpite da una ingiunzione di sfratto, esperimento giàutilizzato con successo in alcuni municipi di Roma Capitale;
Prevedere l’istituzione di un fondo di garanzia che permetta una stipula delcontratto facilitato per le donne, che potrebbero così avvalersi dei CentriAntiviolenza e delle Associazioni che li gestiscono come garanti;
- Assegnare nelle graduatorie per le case popolari massimi punteggi per ledonne che hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza presso i CAV;
- Mettere a disposizione il 10% del patrimonio pubblico per l’implementazionedi case di Semiautonomia gestite da Centri Antiviolenza, e di case con affitticalmierati per donne che escono da situazioni di violenza, da sole o inco-housing, per una durata di 4 anni.

# LIBERE DI DARE I NUMERI
Intendiamocreare mappature, osservatori, banche dati e strumenti di analisi autonomi, pergarantire la diffusione di una consapevolezza del fenomeno della violenzamaschile contro le donne come fenomeno strutturale e non emergenziale.
Daparte degli enti pubblici e privati è necessario organizzare – a tutti ilivelli – banche dati che garantiscano la conoscenza qualitativa e quantitativadi tutte le forme della violenza di genere.
Il documento è tratto dal sito web nonunadimeno, ed è qui raggiungibile nel formato originale

Nigrizia

Non è a Ellen Johnson Sirleaf, prima presidente eletta di un paese africano, la Liberia, che penso, riflettendo sul potere delle donne in Africa. Né a Grace Mugabe, che in Zimbabwe avrebbe voluto succedere al marito Robert alla testa dello Stato. Piuttosto, a tornarmi in mente è una persona incontrata in una township di Pretoria, in Sudafrica. Era anziana, abbastanza perché in tanti la chiamassero gogo, nonna, e si fidassero di lei, al punto da parlarle di qualcosa che, altrimenti, non avrebbero mai ammesso: di avere l’Aids. “Vengono da me - mi spiegò - e non vogliono raccontarlo a nessun altro, ma almeno si lasciano convincere a prendere gli antiretrovirali. Poi sono io che mi siedo a parlare coi loro genitori, che cerco di farli capire”.

A donne come la ‘nonna’ di Pretoria i mezzi d’informazione non dedicano neanche una frazione dello spazio occupato dalle figure femminili più note del continente: in positivo, come Ellen Johnson Sirleaf, o in negativo, come Grace Mugabe. Eppure a volte l’influenza che esercitano nel luogo in cui vivono è capace di portare cambiamenti anche più profondi rispetto al potere comunemente inteso. Lo sa bene Penda Mbow, storica senegalese, impegnata in politica e nella società civile. La incontrai, dopo una serie di attacchi di estremisti in Africa Occidentale, per parlare della crescita del fondamentalismo islamico e delle possibili conseguenze sulla condizione femminile.

Un timore che però, secondo Mbow, non teneva conto della forza sociale delle donne stesse: “Chi ha tentato di confinarle nella sfera privata, di eliminarle, ha fallito”, affermava. E portava ad sempio proprio il Senegal. “Dal punto di vista economico - sosteneva - la donna si è largamente sostituita all’uomo, è il lavoro quotidiano delle donne che permette alle famiglie di sopravvivere di fronte alla crisi economica”. Parole che mi sarebbero tornate in mente qualche giorno più tardi, nel nord del paese, davanti alle socie di una cooperativa femminile che avevano trovato una soluzione alla scarsità di carbone di legna - indispensabile nelle case: ne producevano una nuova varietà, ricavata da piante infestanti comuni nella zona.

Ma il potere di tante donne africane non è solo economico o sociale: il loro contributo dal basso alla politica è altrettanto prezioso. Molte sono, ad esempio, le giovani impegnate nel movimento cittadino per la democrazia Lucha, in prima linea nel rivendicare diritti fondamentali e libertà civili e politiche nella Repubblica democratica del Congo. Micheline Mwendike, non ancora trentenne, ha contribuito a fondarlo: “Lucha (sigla che indica ‘lotta per il cambiamento’, ndr) si fonda sull’uguaglianza di genere. - spiega - Sia uomini che donne fanno tutto, tenendo conto delle competenze di ogni persona, perché pensiamo che ogni congolese abbia qualcosa da offrire”. Certamente, riconosce Mwendike “per ragioni storiche, politiche e culturali, nel movimento oggi ci sono meno donne rispetto agli uomini. Ma una volta diventate attiviste, sono forti, costanti e mobilitano altre persone. Non sono vittime, ma attrici del cambiamento. Sono leader”.

Articolo tratto da "Nigrizia" qui reperibile in originale

la Repubblicaevoca «un lungo passato di servaggio femminile di cui solo di recente abbiamo recuperato la consapevolezza, ma ci costringe ugualmente a ricordare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire».

Maria Serena Mazzi, Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo, ( Il Mulino, pagg. 180, euro 14)

«Io t’amaçerò se tu non stai cheta e ferma, e lascimi usare techo a qualunque modo io voglio», ripeteva, tra una percossa e l’altra, un maestro muratore lombardo alla moglie Leonarda, colpevole di non lasciarsi sodomizzare. La frase figura negli atti del processo tenutosi nel 1477 a Firenze, città natale della malcapitata che, dopo tre mesi di matrimonio, aveva cercato rifugio nella casa paterna, sporgendo denunzia contro il marito. Il suo coraggio fu premiato, e i giudici le concessero lo scioglimento del matrimonio: sebbene, sul piano giuridico, l’autorità del marito fosse legge, la sodomia era condannata dalla Chiesa ed era inconciliabile con la procreazione, fine primario dei coniugi. Ma se quella di Leonarda può sembrarci una storia a lieto fine, rimane pur sempre un’eccezione, come ci ricorda Maria Serena Mazzi nelle sue Donne in fuga. Vite ribelli nel Medioevo (Il Mulino, pagg. 180, euro 14).

Dopo avere contribuito con Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento (Il Saggiatore, 1991) allo sviluppo di quegli studi sulla condizione femminile di cui la Storia delle donne in Occidente (Laterza 1990), diretta da Georges Duby e Michel Perrot, costituisce in Europa una consacrazione, Mazzi riprende in mano una tematica che le è cara proponendocene una sintesi eloquente. Per fare uscire dal loro lungo silenzio le donne vissute, tra il XII e il XVI secolo, in una società dove i soli ad avere diritto alla parola erano gli uomini, la studiosa ha infatti raccolto un campionario di storie esemplari che non lascia dubbi sulla durezza della loro condizione subalterna.

Sono storie di ribellione, di fuga, di sconfitte, di punizioni atroci, suddivise in base all’appartenenza sociale – aristocratica, borghese, popolare – e alla diversità dei ruoli – figlie, mogli, madri, religiose. In parte la studiosa ripercorre storie già note, come quella di Cristina di Markyate, figlia di un ricco mercante inglese del XII secolo, che si sottrae a un matrimonio imposto, consacrandosi a Dio, o della sua contemporanea, la belga Juette, che vedova di un marito ripugnante, pur di non risposarsi si fa murare viva. Oppure quella della francese Dhuoda, secondo Gerda Lerner ( The Creation of Feminist Consciusness, Oxford University Press, 1993) la prima scrittrice in Europa a prendere la penna in mano per parlare di sé.

Andata sposa nell’824 a Bernardino di Settimania, un grande signore della Linguadoca, e relegata nel castello di Uzès mentre il marito era ciambellano alla corte imperiale, Dhuoda si vide portar via i due figli ancora bambini e scrisse per il primogenito, che non avrebbe mai più rivisto, un manuale di comportamento. «Quest’opera quando ti sarà giunta inviata dalla mia mano – ella gli scrive, forte della sua autorità materna – io voglio che tu la stringa con amore». Altre, invece, sono testimonianze riemerse di recente dal fondo degli archivi e che, riportando alla luce brevi frammenti di esistenze dimenticate, vengono così ad arricchire l’appassionante casistica di Donne in fuga. Unendo all’autorità della studiosa uno stile elegante e scorrevole, Maria Serena Mazzi sa infatti evocare con efficacia un lungo passato di servaggio femminile di cui solo di recente abbiamo recuperato la consapevolezza, ma ci costringe ugualmente a ricordare che per molte donne il Medioevo non accenna a finire e la fuga continua.

Nell'icona: miniatura medievale raffigurante un marito che picchia la moglie (Zurigo, Zentralbibliothek)

il manifesto

È senza fine, lo strazio della violenza contro le donne. Ieri Lucio Marzo, 17 anni, ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, 16 anni, scomparsa dal 3 settembre. E ha portato i carabinieri nel luogo dove ne aveva nascosto il corpo, sotto alcuni massi. Sempre ieri, è stato denunciato un tentativo di stupro sulle scale del Campidoglio, a Roma. L’aggressore sarebbe un israeliano. La notte precedente ancora a Roma lo stupro di una ragazza finlandese, da un ragazzo del Bangladesh.

Di qualche giorno fa la denuncia delle ragazze americane a Firenze, appena prima la giovane donna polacca stuprata a Rimini. Lo strazio è infinito, mille connessioni che si allargano come onde, dal punto in cui è stata esercitata la violenza. Avranno conseguenze nelle vite di tutte le persone coinvolte. Penso ai genitori di Noemi, alla madre, che non è riuscita a convincerla che quel ragazzo era violento. Non è servita neanche la denuncia che aveva presentato per ottenere l’allontanamento di quel ragazzo dalla figlia, non era stato preso nessun provvedimento.

Le adolescenti sfidano i genitori, la madre in special modo, come fare a proteggerle senza renderle prigioniere? È una domanda che non ha facili risposte. O meglio. Non le ha oggi. Oggi che le ragazze sono libere, nei paesi come nelle metropoli. Oggi che i divieti e le proibizioni non sono più la regola condivisa.

E la libertà – delle donne, delle ragazze – è il punto geometrico del conflitto. La solidarietà, perfino il dolore, sono pieni di ombre, di dubbi. Perché quelle ragazze sono in giro di notte? Perché si fidano di chiunque? Perché si permettono di andare in giro come se fossero dei ragazzi, dei maschi? Si ipotizza che Noemi sia stata uccisa al culmine di una lite.

Sulla sua pagina facebook l’ultimo post fa pensare. L’immagine è il viso di una donna malmenata, a cui qualcuno tappa la bocca. Il testo comincia cosi: «non è amore se ti fa male». Su instagram il profilo è più esplicito: «Il giorno che alzerai le mani ad una donna, quello sarà il giorno in cui ufficialmente non sarai più un uomo». Aveva capito? È stata punita perché voleva la libertà? Un’azione diretta, un atto di guerriglia individuale, lo definisco. Come lo stupro, le aggressioni sessuali. Tentativi di sottomissione, per mantenere l’ordine patriarcale. Contro tutte queste donne che si permettono di aggirarsi libere per il mondo. E per questo è così difficile ascoltarne la voce, a parte la retorica della vittima, che si rivela sempre più finta. Non è solo l’antico gioco delle donne perbene messe contro quelle per male. Il conflitto è a tutto campo, nelle vite private come nello spazio pubblico, nelle forme inedite della vendetta. Anche nella scena mediatica. Che non vuole lasciare la parola alle donne, alla loro visione.

Quel grande interprete del sentimento medio che è Bruno Vespa l’ha detto senza esitazione a Porta a Porta: «La prima vittima è l’Arma». Il corpo delle donne rimane un pretesto. Usato contro i migranti, per legittimare il razzismo. Occultato di fronte alla “grande onta” della perdita di onore maschile. Eppure le femministe lo dicono da sempre. La violenza, lo stupro sono compiuti da uomini. Giovanissimi e anziani, di qualunque nazionalità, colore, religione. Qualunque divisa indossino. Oggi è tempo di dire di nuovo che le donne sono, siamo, libere. Che stiamo nel mondo. Perché non tornare nelle strade di notte, insieme?

«Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne».

il manifesto, 9 settembre 2017

Da una parte l’istituzione per eccellenza, l’arma dei carabinieri, dall’altra due ragazze americane, tra i fumi dell’alcool e della cannabis. Molto chiaro il retropensiero neanche tanto nascosto delle cronache di ieri: si può credere a due così? L’accusa di stupro non sarà stata tutta un’invenzione? E così la macchina dello scandalo mediatico non si è messa in moto subito, qui non c’erano «le nostre donne da difendere». Una nota del Dipartimento di Stato Usa cambia registro: «Prendiamo queste accuse molto seriamente, i nostri uffici all’estero sono sempre pronti ad assistere cittadini Usa vittime di crimini», l’atteggiamento è cambiato.

Le due giovani donne, hanno 21 anni, sono sotto shock. La loro versione dei fatti, in interrogatori separati e ripetuti, sono coerenti.

La gazzella dei carabinieri che le ha accompagnate a casa, in via Tornabuoni nel pieno centro di Firenze, è stata ferma 20 minuti sotto il palazzo, come confermato da telecamere di controllo. I due ora sono indagati per violenza sessuale, la stessa ministra della difesa Roberta Pinotti dice che c’è qualche fondamento. Si aspettano i risultati delle analisi del Dna. Loro, le ragazze, ora sono in una casa protetta, secondo la procedura del «codice rosa» che si è attivato subito, al momento della loro denuncia, la mattina del 7 settembre.

La gravità del fatto si commenta da sola. Due militari in servizio, sarebbe un abuso di autorità gravissimo. Se non ci si può fidare di chi dovrebbe proteggerti non c’è scampo. Per questo va detto e ripetuto il punto di vista che le donne, i femminismi, hanno conquistato per tutte e tutti. E che andrebbe condiviso con fermezza: uno stupro è uno stupro è uno stupro. A prescindere da relazioni affettive, familiari, etnie, colori, divise. È la violenza di uomini contro donne. Se l’accusa verrà confermata, come è possibile che due carabinieri in servizio, rispettivamente di 45 e 28 anni, abusino di due ragazze e pensino di potersela cavare? Forse perché le credevano così sbronze da non essere abbastanza lucide per ricordare e denunciare? O speravano che la divisa li avrebbe garantiti?

Sono giorni accesi. Basta pensare a tutto il clamore montato, anche con invenzioni, intorno allo strupro di gruppo di Rimini, Intorno al corpo di donne violentate si combatte una guerra che in realtà non le riguarda e non le ascolta. Nelle relazioni tra uomini e donne persiste un’asimmetria che ci si ostina a non vedere. Sono gli uomini a violentare le donne. Di questo bisognerebbe parlare, gli uomini per primi.

il manifesto, 18 agosto 2017

Sono solidale, ma. Dopo l’annuncio della presidente della Camera Laura Boldrini di voler procedere alla denuncia di chi la riempie di insulti di speciale ferocia sessista sul web, questo è l’esercizio più diffuso, tra politici e opinionisti. Solidarietà ma di malavoglia. L’elenco dei perché, fa cadere le braccia.

Quasi di più degli auguri di stupro di gruppo, magari da parte di immigrati, e altro, tutti insulti pesantemente sessuali, i peggiori che si possano rivolgere a una donna. E che lei stessa, con coraggio e con sfida, ha ripreso, e ripubblicato, nel suo twitt. E si fa perfino sfoggio di cultura (Nicola Porro su Il Giornale), si scomoda la strega a propria insaputa descritta da Thomas Mann nelle pagine del Doktor Faustus, per dire che se lo va a cercare, tutto questo odio. Che lei non è consapevole di se stessa. Insomma, lo stereotipo della “maestrina”, di chi pretende di guidare e non è capace, l’insopportabilità di una donna che dirige, esercita il proprio ruolo, manifesta le proprie opinioni. Esercizio di misoginia al massimo livello, espressione del maschilismo politico italiano mai venuto meno, fin dai tempi della Costituente.

E mentre ribadisco qui tutta la solidarietà senza se e senza ma a Laura Boldrini, Presidente della Camera, istituzione della Repubblica – è inconcepibile che venga tollerato e alla fine giustificato che una donna che fa politica debba subire simili attacchi – rimane un mistero da sciogliere. Perché questi attacchi convergenti?

Laura Boldrini è una donna pubblica. Non solo, è una donna pubblica che dal 2013 è stata eletta dalla Camera dei deputati a propria presidente. Sono questi i dati reali da tenere presente, per comprendere l’accanimento e la violenza degli attacchi che le sono rivolti. Via web e non solo. Tv, carta stampata, manifestazioni non si risparmiano. È sotto un tendone a Soncino, in provincia di Cremona, che nell’ottobre 2016 Matteo Salvini, il capofila dei suoi detrattori, presentò una bambola gonfiabile come una sua sosia. Prima di essere eletta Presidente della Camera, terza in Italia ad avere questo ruolo, dopo Nilde Jotti nel 1979 e Irene Pivetti nel 1984, Laura Boldrini era già nota, spesso in tv per il suo lavoro, come responsabile della comunicazione dell’Uhncr, l’organizzazione dell’Onu che si occupa dei rifugiati. C’è da supporre che già allora in tanti non fossero d’accordo con lei. Ma è solo da quando è entrata, eletta da Sel, a far parte dell’odiata casta, e poi, eletta presidente, ha deciso di mettere se stessa, la propria posizione pubblica, a sostegno della causa delle donne, che si è scatenato il livore.

Si è dichiarata donna e ha preteso di essere riconosciuta come tale. Non un neutro presidente, ma “la” presidente. E tutto quello che ne segue. Motivo di odio costante, per chiunque, nonostante le nuove norme per la lingua italiana dell’Accademia della Crusca. Insieme all’impegno contro il femminicidio, la riscrittura della storia comune facendo emergere anche nei simboli parlamentari la fondamentale presenza delle donne in politica. L’altra colpa è non avere mai dimenticato la propria storia e il proprio impegno, il sostegno ai migranti. La miscela è esplosiva e imperdonabile, in questa estate 2017.
L’obiezione, sempre pronta, è: lei è la presidente, non sono d’accordo con le sue opinioni, e voglio poterlo dire. Ecco, queste sono critiche politiche, benvenute in democrazia e dialettica parlamentare. Richiedono argomenti, discussioni, riflessioni. Cosa c’entra con quello che twitta Rosangela Federici, sì, una donna: «Io la tua presidente della camera la farei i* dai suoi amici clandestini che protegge tanto»?
Sessismo violento, cieco, impastato di razzismo, che attacca la donna importante, proprio in quanto donna. La vuole ricondurre all’ordine, sottoporla al dominio dei maschi a cui si sottrae. Il web, è ovvio, rende tutto più evidente e insopportabile, a mio parere esaspera ma non è la causa. Il punto è che questi sentimenti – mi sembra eccessivo chiamarli pensieri – esistono. È necessario guardarli, stabilire un limite. Per questo sono grata a Laura Boldrini, al coraggio delle sue denunce, #iostoconLaura.

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
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Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

». la Repubblica, 12 maggio 2017 (c.m.c)

Tra una settimana, il 19 maggio, gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente. Hassan Rouhani ha buone probabilità di venire rieletto, ma i conservatori, e in prima linea i pasdaran, le Guardie rivoluzionarie, cercano di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano a un moderato. Hanno messo in campo due sfidanti che promettono di creare 5 milioni di posti di lavoro e triplicare i sussidi ai poveri. Il punto debole per Rouhani è infatti l’economia, perché il miracolo economico che gli iraniani si aspettavano dopo l’accordo nucleare non c’è stato. Le società straniere non investono perché temono che Trump e i tribunali americani puniranno anche in futuro chi fa affari con l’Iran.

Quanto contano le elezioni se l’Iran è una teocrazia dove la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ha l’ultima parola su tutto? Molto, perché il regime iraniano non è monolitico come spesso si crede. Religiosi, militari e burocrati si dividono in fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori e molto cambia nella politica estera come in quella culturale e sociale a seconda del gruppo che prevale. La presidenza Ahmadinejad aveva isolato l’Iran, il moderato Rouhani è riuscito a riportarlo nel consesso internazionale.

Le elezioni del 19 maggio presentano inoltre due novità che si possono definire storiche: innanzi tutto per la prima volta nella storia della Repubblica islamica alle elezioni amministrative, che si tengono parallelamente alle presidenziali, hanno presentato la loro candidatura donne che appartengono a quella borghesia che da quarant’anni si era ritirata in una specie di emigrazione interna, vivendo un po’ in Europa e un po’ nei quartieri alti di Teheran. Professioniste che non hanno mai indossato un chador e che hanno votato sì e no una volta in vita loro per il riformatore Khatami, quando tutto il Paese sperò nelle riforme. La seconda novità è che il Consiglio dei Guardiani, l’organo ultraconservatore che ha il potere di ammettere o bocciare i candidati, le abbia accettate.

Certamente l’ombra di Trump spinge tutti a non prendere rischi e a optare per la stabilità. Ma al di là di questo è significativo che il Consiglio dei Guardiani si sia arreso ai tempi, perché l’Iran è oggi un altro Paese rispetto a quello che era dieci o quindici anni fa. Le leggi possono essere rimaste le stesse perché i fondamentalisti hanno impedito ai riformatori di cambiarle, ma trasgredire le regole qui è un fenomeno di massa. I comportamenti quotidiani dei normali cittadini hanno profondamente trasformato il Paese. E in un certo senso, per quanto assurdo possa sembrare, questo ha contribuito alla stabilità della Repubblica islamica.

Sono i giovani e soprattutto le donne le protagoniste del cambiamento. Le donne iraniane hanno fatto la loro rivoluzione e si sono servite perfino del chador, che in Occidente viene visto come il simbolo dell’oppressione, per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro.
Abbiamo ascoltato le loro voci.

TEHERAN La Scuola di Musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono trasportando violoncelli, violini , strumenti a fiato. Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica, bandì ogni genere di musica, che considerava parte di quell’intossicazione da Occidente contro cui erano insorti i rivoluzionari. Trasportare un violino o un oboe fu vietato in Iran, era come trasportare un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto, come altri fissati al tempo della rivoluzione, non sia mai stato formalmente abolito. Quando un concerto viene trasmesso in tv, gli operatori televisivi fanno attenzione a non filmare gli strumenti, la faccia di chi suona sì, magari anche le mani, ma lo strumento no, non si sa mai.

Sono già le otto di sera e Kimia non smette di fare domande in questa master class speciale che la Fondazione Roudahy e il ministero della Cultura islamica offrono agli studenti di musica grazie ad un accordo con Roma, con la World Youth Orchestra del direttore Damiano Giuranna, Santa Cecilia e la Sapienza che prevede scambi, formazione, concerti congiunti. A luglio ci sarà un concerto con musicisti e cori dei due Paesi, e l’ambizioso progetto è di suonare due nuove composizioni di musica sacra, una iraniana e una italiana, ma scambiando i testi religiosi. Il compositore italiano userà il Corano, quello iraniano la Bibbia. La musica contro i pregiudizi.

Kimia suona l’oboe nella Tehran Symphony, è la migliore del gruppo che segue la master class di Francesco De Rosa, primo oboe di Santa Cecilia, ma vuole diventare ancora più brava. Vorrebbe anche avere un nuovo strumento, che non si può permettere. « Ne ho comprato uno di seconda mano, che ha almeno trent’anni e mentre i violini migliorano invecchiando - sospira -, i legni ahimé peggiorano». Vorrebbe imparare il concerto per oboe di Mozart ma per questo mese (le master class avvengono una volta al mese) il maestro le assegna una serie di esercizi da ripetere un’ora al giorno. « Quando la tecnica è sotto controllo il cuore batte da solo, senza bisogno di un pacemaker», le dice il maestro.

Kimia aveva la passione della musica fin da ragazzina. «Mio padre compone musica per matrimoni e altre cerimonie pubbliche » . Kimia aveva cominciato con il violino ma è mancina e nessun insegnante aveva ritenuto di potersi occupare di lei. Poi aveva sentito un oboe ed era rimasta affascinata, quello sarebbe stato il suo strumento. Ha venticinque anni, vive a Teheran da sola, dà lezioni di musica per mantenersi ed è felice di avere per la prima volta maestri di fama internazionale. Non smetterebbe mai di imparare. Il suo sogno è di poter suonare una volta in una delle grandi orchestre del mondo. Già suonare con la World Youth Symphony le è sembrato miracoloso.

La Scuola di Musica, il solo conservatorio statale di Teheran, è sopravvissuta a tutte le intemperie degli anni post- rivoluzione continuando a funzionare, seppure in sordina. E tre anni fa dopo decenni di chiusura ha riaperto i battenti anche la Tehran Symphony. L’arte di rompere silenziosamente le regole in Iran è un fenomeno di massa, che in nessun altro Paese raggiunge queste dimensioni, e per quanto possa sembrare assurdo contribuisce alla stabilità della Repubblica islamica. Come se ci fosse una tregua silenziosa tra governanti e governati: voi non ci date fastidio e noi non vi rendiamo la vita difficile quanto potremmo. Chi paragona l’Iran a quello degli anni dopo la rivoluzione vede un altro Paese, e i cambiamenti che in quasi quarant’anni l’hanno trasformato non sono dovuti a movimenti politici o a battaglie dell’opposizione, ma ai semplici comportamenti quotidiani dei normali cittadini, soprattutto giovani e ancora di più donne.

Le donne hanno fatto la loro rivoluzione, usando a loro vantaggio perfino i divieti che la rivoluzione, a sorpresa, teneva in serbo per loro. Per esempio il chador, che in occidente è diventato il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce da noi che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perché se ne sono servite per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro svolgendo attività che un tempo erano loro inaccessibili. Eppure ogni volta che c’è qualche gara internazionale in Iran, l’ultima è stata per esempio un torneo di scacchi, c’è qualche competitrice che rifiuta di metter piede in Iran per dare l’esempio di non sottostare “ all’oppressione”. « Ma è proprio il contrario di quello che serve a noi - dice Kimia -. Io spero che in futuro, con o senza foulard, la riapertura al mondo cominciata con Rouhani continui».

Le parabole dei Pasdaran

Alla fine, come sostiene Kimia, il regime si è adeguato ai cambiamenti. Anni fa le parabole sui tetti delle case venivano regolarmente confiscati dai basiji – e regolarmente ricomprati dagli utenti (si diceva li importassero gli stessi pasdaran che ordinavano il sequestro). Oggi non si sente più parlare di sequestri, né di portoni tenuti accuratamente chiusi, né di basiji che approfittano di una porta momentaneamente lasciata aperta per correre sul tetto a requisire gli impianti satellitari. Tre quarti della popolazione le possiede.

Lo stesso vale per il sesso fuori del matrimonio: è proibito e punito con pene molto severe, ma ormai non c’è famiglia a Teheran dove un figlio o una figlia non convivano con un compagno o una compagna, senza essere sposati. Li chiamano matrimoni bianchi, perché i conviventi non hanno stampigliato sulle loro carte d’identità l’avvenuto matrimonio. Altrettanto si può dire per l’alcol, che ognuno può farsi recapitare a casa con una telefonata, o dei codici di vestiario, che ogni ragazza interpreta a modo suo, oppure dei cani, considerati non islamici ma che tutti portano a passeggio senza conseguenze.

I comportamenti quotidiani collettivi hanno cambiato il Paese, anche se le leggi non sono cambiate. Una ragione è anche che il regime non è monolitico, tutt’altro. Ha molte voci, spesso cacofoniche. Religiosi, militari e burocrati si dividono tra fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori. E sebbene la parola definitiva spetti agli organi religiosi, e in particolare alla Guida Suprema, molto cambia della politica estera, sociale e culturale a seconda della fazione che prevale in quel momento. Alle elezioni del prossimo 19 maggio gli ultraconservatori cercheranno di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano ad un presidente moderato, Hassan Rouhani.
L’accordo tacito tra governanti e governati vale finché uno sguardo esterno non lo nota. Quando questo accade il regime, per non apparire debole, applica all’improvviso leggi dimenticate da anni. Così il giornale femminile
fu chiuso per mesi un anno fa perché parlò dei matrimoni bianchi. E può accadere che finisca in carcere a lungo un giovane utente di Facebook.
Non fa nulla se un account Facebook ce l’hanno anche le massime autorità del Paese, tra cui il presidente e la stessa Guida Suprema Khamenei. Perché
Facebook insieme con altri social media resta proibito e accessibile solo attraverso un vpn che aggira il filtro statale che lo blocca.

Quanto il regime si stia adeguando si è visto anche in questi giorni preelettorali (insieme alle presidenziali si vota per i municipi). Il Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del regime, che prima d’ora non ha mai ammesso la candidatura dei kheyr-e khodi, coloro che sono fuori dal sistema (a fronte dei khodi che ne fanno parte), ha lasciato passare attraverso le sue fitte maglie candidati finora impensabili, borghesi che pur restando in Iran sono vissuti in una specie di emigrazione interna. Come l’architetta urbanista Taraneh Yalda. O attiviste sociali come Amene Shirafkan e Leila Arshad. Oppure giovani che anni fa erano stati arrestati perché attivisti studenteschi, come Abdollah Momeni.

La borghesia senza chador

«Perché dovremmo continuare a lasciare che gente molto meno preparata di noi decida le sorti di questa città?», dice Taraneh Yalda, laureata in architettura a Parigi, urbanista, autrice per il Comune di un molto lodato master plan per il riassetto dei quartieri più poveri del sud di Teheran, che però è rimasto sulla carta. La novità delle prossime elezioni è anche che donne borghesi come Taraneh, che avranno votato sì e no due volte in vita loro, la prima per Khatami nel 1997 e la seconda per Rouhani quattro anni fa, abbiano deciso di candidarsi. Jeans e maglietta scura, Taraneh si muove svelta in quello che chiama divertita il suo quartier generale, mentre mi fa vedere una foto del figlio entomologo che ha vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, offre ai visitatori un tè con un pane speciale che fa solo una pasticceria qui vicina, e posa per le foto che dovrà postare sul suo sito elettorale. La campagna elettorale viene fatta esclusivamente su internet.

Il suo quartier generale è nel centro popolare e commerciale della capitale, sulla via Jomhuri. «Copri di più i capelli», le raccomanda il fotografo. Ma lei obietta: « No, io sono così » . Non credo che abbia mai indossato un chador. Appartiene a quella borghesia iraniana benestante che aveva fatto la rivoluzione quando nessuno si aspettava che finisse con una teocrazia e poi è sempre rimasta esterna alla Repubblica islamica, vivendo un po’ nella diaspora e un po’ nei quartier alti di Teheran Nord, attingendo ai beni di famiglia e a qualche prestazione professionale. Certamente l’arrivo di Trump e le sue minacce di rivedere l’accordo nucleare spingono tutti – regime e outsider - a non prendere rischi, a consolidare il più possibile la stabilità di cui gode l’Iran in mezzo a un Medio Oriente dilaniato.

Una rielezione di Rouhani appare per questo il risultato più auspicabile. Alla popolazione, per quanto delusa di non aver visto dopo la cancellazione delle sanzioni l’atteso miracolo economico. E probabilmente anche ai massimi vertici, il cui cuore batte per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ( un religioso nominato l’anno scorso da Khamenei alla guida della potente Fondazione Astan-eQods di Mashhad). L’unico a uscire dal coro generale della prudenza è stato l’ex presidente Ahmadinejad che si è candidato nonostante i “ consigli” di Khamenei e in una conferenza stampa ha accusato il Leader di aver voluto lui il pugno di ferro contro l’onda verde del 2009. Ha ancora un certo seguito, avendo distribuito largamente sussidi a gente che non aveva mai visto vero denaro, e si aspettava forse una protesta da parte loro. Ma nessuno ha raccolto la provocazione.

« È incredibile, non ho più trovato nessuno. Tutti miei vecchi amici sono partiti. I miei coetanei, compagni di studi, tutti emigrati » dice Arianne Nassir, trentaquattro anni, tornata a Teheran dopo un lungo periodo passato in Italia. Molti giovani iraniani, soprattutto a Teheran, dopo le manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, non ebbero scelta: o la prigione o l’esilio. «Ho solo nuovi amici, che sono molto diversi da quelli che avevo – dice Arianne -. Si occupano solo di telefoni, di computer e di vestiti. Guai a mettersi sempre lo stesso vestito! Le ragazze spendono in vestiti e creme di bellezza tutti i soldi che hanno. Io non ero abituata così. Ci stiamo allineando a modi di vivere che già mi sembravano vacui in Italia».

D’inverno i giovani si ritrovano a sciare, d’estate nelle gallerie. Qualche volta al cinema, al teatro, a un concerto. «Ma si parla poco, diversamente dagli anni quando son partita» dice Arianne. «E la novità sono i nuovi ricchi, i rich kids che sono davvero come si vedono nelle caricature. I genitori hanno fatto una barca di soldi, pensano solo alla macchina, una Porsche, una Maserati è tutto quello che vogliono dalla vita. E i più ricchi, naturalmente, anche la casa. Hanno abitazioni dorate, marmi dappertutto » . Sono però più liberi di come eravamo noi, racconta. « La maggior parte convive. Alcuni con il consenso delle famiglie, altri in aperto contrasto con loro. E tra di loro ci sono molti figli e figlie di ayatollah e esponenti di spicco del regime » .

In Italia Arianne viveva in una città ligure, dove aveva anche trovato un lavoro che le piaceva, come istitutrice in un asilo, ma si è sempre sentita straniera. Ora è ritornata a Teheran, dove abita il padre, professore universitario, perché in Italia, se non hai conoscenze sei emarginata, dice. Anche a Teheran è così, anzi molto di più, ma lei lì confida nelle conoscenze paterne. Per il momento fa diversi lavori, tutti sottopagati: assistente per la campagna elettorale di una candidata, e collaboratrice in un progetto governativo per la promozione dei giovani talenti ( il ministero della cultura islamica sotto Rouhani punta molto alla promozione di giovani artisti iraniani). Spera però, vista la sua ottima conoscenza di diverse lingue, di poter aspirare presto a un lavoro interessante e pagato bene. Ogni giorno fa domande e colloqui di lavoro. A Teheran molte società internazionali hanno già aperto uffici ma, finché avranno paura che il governo Trump o i tribunali americani puniscano chi fa affari con l’Iran, nessuno investe. Né assume dipendenti.

Il tabù della droga

L’assenza di investimenti stranieri è l’accusa principale da cui deve difendersi il presidente Rouhani nei dibattiti elettorali: l’economia non è ripartita dopo la cancellazione delle sanzioni, la disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento, per ora sono arrivati solo beni di consumo per i ricchi che a loro volta hanno paura d’investire ma non sanno come spendere i soldi se non comprando appunto macchine di lusso o costosi profumi. Così Rouhani viene accusato dagli avversari di aver ceduto all’Occidente in cambio di una bottiglia d’acqua di colonia.

Leila Arshad ha avuto tanti fastidi con le autorità per le sue attività di operatrice sociale che è riluttante a parlare di sé anche ora che si è candidata al municipio di Teheran. Deve incontrare ancora tante resistenze, se una lezione che doveva tenere al Politecnico Amir Kabir è stata cancellata, e solo con un’ora di ritardo Leila ha potuto convincere i dirigenti del Politecnico a lasciarla parlare. Arshad fin dagli anni 90 era stata la prima a sollevare il problema dei bambini abbandonati per strada e a chiedere al governo di far qualcosa per loro. Dieci anni fa ha fondato una organizzazione non governativa che opera in uno dei quartieri più poveri e desolati di Teheran Sud. In mezzo a un terreno polveroso la casa circondata da una ringhiera di metallo ospita donne con un terribile segreto. Sono donne drogate, un numero che cresce ogni giorno. Per gli uomini qualche istituzione che si prende cura di loro c’è, ma per le donne l’uso della droga è talmente tabù che né loro ne parlano né se ne può parlare in pubblico.

Quando Leila aprì l’istituto la polizia agiva solo arrestandole e le famiglie avrebbero preferito saperle morte. La svolta è avvenuta quando Teheran rischiò un’epidemia di Aids. «A quel punto - dice Leila - anche le autorità hanno cominciato ad ammettere che la dipendenza è una malattia, non un crimine » . Ma l’argomento resta così sensibile che comunque Leila mi chiede di evitare di menzionare il nome della clinica. Ancora oggi si legge sui giornali conservatori che la dipendenza delle donne dalla droga è un trucco dei nemici per attaccare «i valori islamici delle famiglie iraniane».

Le stime più contenute, quelle interne dell’ Iran’sDrug Control che sono molto inferiori a quelle internazionali, parlano di 3 milioni di drogati su 76 milioni di abitanti di cui un terzo donne. Alla clinica avevano cominciato distribuendo metadone, ma le ragazze venivano arrestate quando uscivano e dopo mesi di prigione tornavano a casa in condizioni peggiori di prima. Così Arshad ha cambiato strategia e nella clinica si occupano solo di chi ha già fatto il passo della disintossicazione: per aiutarle a restare pulite, trovare qualche lavoro, e dare assistenza ai figli. L’oppio e l’eroina afgani passano dall’Iran per raggiungere i mercati globali.

Sotto gli occhi della Nato la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è decuplicata in questi anni, raggiungendo vette mai sfiorate prima. Così in Iran trovi la droga dappertutto, costa poco, te la offrono perfino nei saloni di bellezza. Gli uomini trovano sempre qualcuno che gli propone di vendere droga in cambio di una dose. Sono loro i primi a drogarsi, di solito, poi spingono le donne a farlo, mogli e figlie, perché poi le faranno prostituire per avere la droga assicurata.

Mentre io e Leila parliamo bussa un bambino con la madre, sono venuti a salutare. Una storia terribile: lei aveva partorito nel parco e voleva vendere il bambino per procurarsi la droga. Anche nel suo caso era stato il marito a dargliela, poi erano andati ognuno per la propria strada. Loro l’hanno salvata, ha seguito il programma di riabilitazione, imparato un mestiere ed è andata a cercare il marito per convincerlo a smettere e c’è riuscita. E il marito per riconoscenza ha adottato il bambino che non era suo. Ora lavorano entrambi per Medici senza Frontiere. Una storia a lieto fine, ci sono voluti otto anni.

All'inizio non era così

Maryam Khanon ha 45 anni, tre figlie, due sposate e con gravi problemi come lei. Si alza alle cinque, va a lavorare al Centro Nord, fa servizio da diverse famiglie, non finisce mai prima delle dieci di sera. Poi riprende una serie di taxi collettivi, perché a quell’ora di autobus non ce ne sono più e torna a casa. E la mattina dopo ricomincia. Il marito è drogato, per guadagnare qualcosa è andato in Afghanistan con degli amici a procurarsi la droga e poi è rimasto inchiodato. Maryam si è rifiutata di prenderla, lui è andato via di casa, torna ogni due, tre mesi a farsi dare un po’ di soldi. Una delle figlie sposate è nella stessa sua situazione. Ma forse la figlia divorzierà. La droga è condizione sufficiente per pretendere il divorzio e tenersi i figli. Maryam invece, alla signora per cui lavora e che la spinge a divorziare anche lei invece di mantenere un marito come il suo, risponde di no. Per lei il divorzio è una cosa brutta. E una donna divorziata non vale più nulla.

La confessione di Susan è venata dalla tristezza ma anche dall’orgoglio. « Mi sento a volte come Don Chisciotte, soffro di nostalgia, la mia è la generazione che ha creduto nella rivoluzione, ma mia figlia pensa che abbiamo sprecato la nostra gioventù. Nei sui occhi leggo un velo di rimprovero o di compatimento, mentre noi eravamo orgogliosi di aver preso parte a una rivoluzione che è stata una delle grandi insurrezioni della storia del ventesimo secolo, un grande movimento popolare e non sanguinoso. Poi fu ridotto a movimento esclusivamente religioso, ma all’inizio non era così ».

Con Susan Shariati ci incontriamo sempre nello stesso caffè di fronte a casa sua, dentro il parco di una vecchia villa che ospita il museo del cinema. Susan Shariati è tornata in Iran dall’esilio parigino alla fine degli anni 90, insieme con la madre e le sorelle. Una delle strade principali di Teheran è intitolata a suo padre, Ali Shariati: un lungo viale che attraversa la città da Sud a Nord, e c’è anche un piccolo museo nella casa dove la famiglia aveva abitato mentre Shariati si nascondeva o era nelle prigioni dello scià. Si potrebbe perciò immaginare che il filosofo, considerato l’ispiratore dei rivoluzionari del 1979, sia tenuto in grande considerazione dal regime, ma l’apparenza inganna, come spesso accade per tante cose in Iran. Per il regime, Shariati è un intellettuale scomodo. I suoi libri sono stati a lungo vietati, in particolare “Religione contro la religione”. «Shariati era un intellettuale degli anni Sessanta - dice Susan -. Troppo anticlericale per piacere al regime.

Oggi i giovani hanno ricominciato a leggerlo, soprattutto gli scritti letterari, i romanzi, meno quelli di carattere saggistico». Era un umanista che mette l’uomo al centro del suo pensiero. Un religioso la cui idea di Dio è spirituale e non temporale, era contrario al velayat-e faqih, l’autorità del Giurista Supremo instaurata da Khomeini. Prima di Khomeini gli sciiti avevano sempre creduto che in assenza del Tredicesimo Imam - il Mahdi, che alla fine dei tempi riapparirà nel mondo a portare il bene - il clero doveva limitarsi alle mansioni di proteggere il popolo e salvaguardare la fede, senza partecipare direttamente agli affari dello Stato. Questa dottrina “quietista” fu rovesciata da Khomeini che dall’esilio di Najaf, dopo essere stato cacciato dallo scià per le sue attività politiche, teorizzò il governo diretto del clero.

Socialisti timorosi di Dio

È vestita come se fosse a Parigi, un impermeabile chiaro, pantaloni e un foulard in testa. Delle tre sorelle, Susan è quella che si è presa l’incarico di rivedere e pubblicare tutti gli scritti del padre. « Shariati ha parlato per primo di politicizzazione della religione, ma se si guarda che cosa è diventato oggi l’Islam politico si capisce quanto fosse diversa la sua visione del mondo. Spiritualità, uguaglianza, libertà erano i tre pilastri del suo umanismo islamico radicale, tutto il contrario di quello che oggi è l’Islam politico». Di formazione marxista, Shariati criticò anche la democrazia liberale: senza uguaglianza sociale non è che demagogia, scrisse. Già il nonno, un seguace di Mossadeq, aveva cresciuto a Mashhad una generazione di antimonarchici, «socialisti timorosi di Dio» li definiva.
Essere di sinistra è una tradizione di famiglia. Anche per Ali Shariati la religione doveva lottare contro l’oppressione e le disuguaglianze nella società e liberarsi dall’osservanza pedissequa della tradizione. Si può rompere la forma per mantenere il contenuto, diceva, tutto il contrario di chi obbliga la società a seguire alla lettera la sharia. «La ribellione era per lui il perno della libertà di scelta. Mi ribello dunque sono. Come per Camus».Susan insegna storia. «La generazione di questi ventenni – dice guardando le ragazze e i giovani che affollano il caffè – è la terza generazione dopo la rivoluzione, ha una mentalità completamente diversa dalla nostra. La mia è una generazione politica, nostalgica della politica; quella dei miei figli è antipolitica, loro non capiscono quale senso abbia avuto una lotta che ha finito per limitare la loro libertà. I ventenni sono al di fuori della politica. Vivono come vogliono e pensano che prima o poi la politica si adeguerà».

I giovani vanno a votare, quando ci vanno, ma solo per evitare il male peggiore. Votarono per Rouhani nel 2013. Il 19 maggio lo rivoteranno, anche se nei social media l’eroe del momento è il vicepresidente Jahangiri, che è stato presentato dai moderati solo per avere un’alternativa nel caso che Rouhani venisse rifiutato dal Consiglio dei Guardiani. Nei dibattiti elettorali televisivi si è guadagnato un grande seguito per il suo coraggio. «Io sono un riformatore » ha detto senza giri di parole, e se si pensa che il riferimento principale dei riformatori, l’ex presidente Khatami, non deve essere nemmeno nominato in pubblico, Jahangiri ha dimostrato una capacità di rischiare che ha suscitato ammirazione.

Il caffè della Casa del Cinema è un posto per giovani, come i tanti caffè di Teheran spuntati come funghi negli ultimi anni. Le ragazze si conoscono e si salutano con particolare calore, come se non si vedessero da tempo o fossero appena sfuggite, fuori, a una vita ostile da cui non è facile mettersi in salvo. Lo stesso sentimento che si ritrova al teatro. Anche il teatro è frequentato esclusivamente da giovani che sembrano liberarsi in quelle sale buie delle strettoie delle proprie vite, vedendole rappresentate.

A Teheran ci sono almeno una ventina di teatri privati, allestiti negli appartamenti trasformati in associazioni o club. Plateau, li chiamano, memori che il francese era stato un tempo la lingua franca dell’aristocrazia. Con un’amica vado a vedere Bipedar, orfano, un lavoro teatrale che in queste settimane ha grande successo e che si tiene al Teatro Comunale, il più importante della città, anche se in una piccola sala. È recitato da attori di primissimo ordine, tutti maschi, anche nelle parti femminili, perché ci sono troppi momenti di contatto e il codice iraniano non permette che uomini e donne si tocchino in pubblico. È tratto da un antica favola iraniana su un lupo e una capra, molto più complicata di quella di Esopo. Qui la capra sposa il lupo per vedere di fermare i suoi tentativi di divorare i suoi figli capretti, ma alla fine il lupo mangia l’erba e i capretti diventano carnivori. Metafore sempre più prossime alla vita reale. Di tutte le arti il teatro è per gli iraniani allo stesso tempo quella più vicina e quella più distante, perché mette in scena la vita in un Paese dove la vita viene messa in scena ogni giorno. Il regime tiene tutto sotto controllo, anche se negli ultimi anni è diventato molto più liberale. E in fondo che l’Iran sia ammirato nel mondo oltre che per la cultura millenaria per le sue prove di modernità fa piacere anche ai vertici della Repubblica islamica.

La mia amica è una che riesce – ce ne sono pochi - a mantenere un equilibro tra la propria libertà e gli arbitrii del regime. Si attiene alle regole e pretende che il regime si comporti con lei con altrettanta lealtà. Non sempre ci riesce ma spesso sì. Antonia Shoraka, questo il suo nome, ha fatto il liceo negli anni Ottanta ovvero subito dopo la rivoluzione islamica e nel pieno della guerra con l’Iraq. Un periodo che lei chiama «oscuro per via della guerra, delle sanzioni, della mancanza di generi alimentari e per la chiusura culturale » . « Mi ricordo – dice - che era rigorosamente proibito guardare film occidentali e le videocassette venivano piratate. Io e le mie compagne di scuola se ce ne prestavano alcune, dovevamo nasconderle addosso perché all’ingresso del liceo facevano l’ispezione corporale. Nascondere una cassetta era un grande rischio perché se fossi stata scoperta con una videocassetta tra la schiena e la cintura dei pantaloni, rischiavo di essere privata della possibilità di entrare all’università dopo la maturità. Il criterio di ammissione era l’idoneità morale ed era la preside del liceo a confermarla. E non l’avrebbe mai fatto se avesse scoperto la cassetta. Le ispezioni non venivano fatte solo per scoprire le videocassette, ma anche perché all’epoca erano ancora attivi gruppi dell’opposizione armati come il MKO e i paramilitari comunisti che facevano saltare in aria un obiettivo un giorno sì e uno no, perciò all’entrata delle scuole e degli uffici governativi i controlli erano severi per vedere se non entrassero armi o anche solo volantini anti regime. Nemico, doshman, era la parola che risuonava più spesso nell’au-
la». Antonia ricorda anche le gite scolastiche al Behesht-e Zahra, il cimitero , chiamato Paradiso di Zahra, dove seppellivano i martiri, i caduti in guerra. Le scolaresche venivano fatte scendere una ad una nelle tombe vuote, per provare che cosa significa l’estasi del martirio.

« Secondo me - dice Antonia -, una delle maggiori difficoltà’ dell’Iran di oggi è l’incapacità di una gestione sistematica. Solo così si potrebbe salvare il paese dalla dispersione delle energie e dei beni materiali. Finché non ci saranno le persone giuste nei posti cruciali, veramente esperte, e finché non ci sarà un sistema di controlli veramente efficace e capace di punire i corrotti e i trasgressori, domineranno coloro che hanno più influenza, non importa quanto incapaci, e i loro protetti, e tutti continueranno ad aggirare la legge senza risponderne». Ma Antonia ha speranza nelle donne e nei giovani. « Più si va avanti più la gente prende coscienza dei propri diritti e sopratutto impara come muoversi in un sistema dove un no non e’ mai un vero no come nemmeno un sì è mai un vero sì». Questa è la regola che la guida. È diventata di recente capo del dipartimento di italianistica dell’università Azad, ha un ufficio di traduzioni legali, e lavora come critico cinematografico, scrivendo recensioni sul cinema iraniano su giornali e riviste come
e
Shargh.
Se tenesse a pieno tempo l’ufficio di traduzioni legali guadagnerebbe meglio, ma le si ottunderebbe il cervello, dice. E per questo preferisce fare il critico, che del resto fa molto bene. «Mi piace partecipare a dialoghi alla televisione o alla radio per aver modo di scambiare idee con i nostri registi che in questo momento rispecchiano nel modo più sensibile la situazione del nostro Paese. E anche parlare nei centri culturali dove ci sono i giovani. Solo così si può capire l’Iran, vivendolo tra la gente».

La stella del cinema

Al centro culturale di Araf Baran brilla una stella. È l’attrice Fatemeh Motamed Arya, che gli amici chiamano Simin. Presenta il suo ultimo film premiato al festival Fajr, Abijan. Un nome femminile. È la storia di una donna che si dipana in una grande casa durante la guerra. Gli otto anni della terribile guerra contro Saddam Hussein continuano ad essere una fonte importante per il cinema iraniano. Abijan vive in una di quelle vecchie famiglie patriarcali iraniane fatte di fratelli, cugini, zii che litigano, si disputano, amoreggiano. Lei, che è stata lasciata dal marito per un’altra moglie più giovane, ha un grande dolore, quello del figlio al fronte di cui da tempo non si hanno notizie. Abijan rifiuta l’idea che il figlio sia morto. La scena più bella del film è quando la donna legge il suo nome sulla lista dei prigionieri di Saddam – il figlio è vivo anche se privo di una gamba -, e comincia a danzare con questo foglio in mano, arrivando fin nel cortile.

Acclamatissima, amatissima, conosciutissima, Simin ha un carisma, una luminosità ineguagliati. «Non avrei mai potuto dire di no a un film che lancia un messaggio contro la guerra, non solo la guerra contro l’Iraq di allora ma tutte le guerre. Il mondo dovrebbe vergognarsi oggi della guerra in Siria come avrebbe dovuto vergognarsi allora della guerra voluta da Saddam, invece di appoggiarlo ». Simin ha sempre detto quello che pensava, sempre impegnata, per la pace e per le riforme nella Repubblica islamica, attaccata per strada dai basiji li ha sempre affrontati con coraggio e cercando di parlare con loro, di convincerli che la verità non è una sola e la violenza non è la soluzione. Dopo il 2009, quando aveva fatto lo spot elettorale per Moussavi, Ahmadinejad le fece togliere il passaporto e le fu vietato di lavorare nel cinema. Furono anni difficili ma lei non si arrese e con un piccolo gruppo si mise a recitare Madre Coraggio in un teatrino di Teheran.

«Anche le giovani donne di oggi dimostrano coraggio», mi dice. Con noi c’è una giovane scrittrice, Nasim Marashi, nata nel 1984, il cui primo libro ( tradotto in italiano da Parisa Nazari per Ponte 33) ha avuto un successo straordinario alla Fiera del Libro che si è chiusa in questi giorni, e dove l’Italia era il primo Paese occidentale ad essere ospite d’onore. Payizfasl- e akhar- e salast, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno, è il titolo del libro, premiato con il più importante premio letterario iraniano. Racconta di tre donne, Leila, Shabane e Roja, tre ragazze che hanno grandi aspettative rispetto alla vita ma devono fare i conti con gli ostacoli che la vita presenta. Leila, che ha un matrimonio felice, viene però abbandonata dal marito quando questi decide di proseguire gli studi all’estero e lei invece non se la sente di lasciare l’Iran. Laureata in ingegneria, non vuole continuare quella professione perché ama scrivere, e comincia a lavorare per diversi giornali.

Quando tutti saranno costretti a chiudere, durante la repressione del 2009, la sua vita è distrutta. Shabanè ha un fratello handicappato di cui si prende cura, Roja mette tutto l’impegno che può per ottenere un visto e studiare in Francia, nonostante debba lasciare sola a Teheran la madre vedova. Non dorme la notte per essere alle quattro di mattina a fare la fila davanti al consolato francese. Ma arrivano i disordini del 2009 e non otterrà il visto. «Tutte e tre sono parte di me», mi spiega Nasim. Anche lei è laureata in ingegneria, anche lei ha chiesto un visto per Parigi, anche lei sognava di lasciare la vita vecchia per quella nuova. Ma il diritto alla felicità è un diritto che si paga caro. Nasim è però ottimista sul futuro: « Il futuro come lo vogliamo si sta realizzando» ha detto al pubblico che la stava ascoltando. Erano quasi tutti ragazzi.

Questione di genere. Esplicita («montami a casa tua») o subdola (l’uso maschile e femminile dei tablet), lo spot made in Italy è inchiodato allo stereotipo».

il manifesto, 19 aprile 2017

Quando si pensa alla pubblicità sessista vengono in mente donne in pose provocanti e doppi sensi squallidi. «Te la do gratis/ perché pagarla di più/ tu dove glielo metteresti/ montami a casa tua» e simili, ricorrenti slogan. O si immaginano pezzi di corpi femminili associati a prodotti, per esempio le bocce da bowling di una ditta di Messina, o dei grandi hamburger di un locale di ristorazione, sovrapposti ai seni. Sono casi abbastanza chiari, la volgarità è palese.Ma il sessismo può assumere forme eleganti, raffinate.

Mentre non usa porre oggetti davanti alla faccia o in testa a un uomo, alla donna si mette di tutto, dalle scarpe ai paralumi che le coprono il volto (Arredamenti Pezzini) dalle tazzine di caffè della Lavazza ai piatti della collezione dei supermercati Simply, o all’insalata della Fiera del gusto di Gorizia. O magari le si nasconde il volto con una papera di gomma. Spesso, anziché nasconderle il viso, lo si elimina proprio, e l’immagine pubblicitaria consiste di un corpo acefalo.
Un’altra forma di sessismo è la scelta del carattere della donna.
Se non è sexy o dolce moglie e mammina, negli spot televisivi diventa emotiva, aggressiva, imprevedibile, infantile, o con un misto di queste caratteristiche, a cui viene aggiunta a volte la connotazione sessuale. Esempi. Canone Rai: uomo posato, donna infantile e isterica. Costa crociere: donna che sfrutta la sessualità per attirare l’attenzione dell’uomo e poi diventa violenta. Golia: bambina deficiente.

Diversi uomini trovano queste pubblicità offensive per loro. Sono d’accordo. Non si accorgono, tuttavia, che la donna, lungi dall’essere vincente, è rappresentata come mentalmente instabile. Non ci sono vincitori in questi spot, solo perdenti.
Poi c’è la caratterizzazione dei bambini, con stereotipi a go-go: le bambine interessate al loro aspetto, passive e sorridenti, desiderano essere ballerine e principesse. I bambini amano l’avventura, vogliono diventare esploratori o astronauti e sono mostrati con oggetti come binocoli o timoni, in movimento.

A volte, per fortuna, si reagisce: nel 2015 uscì uno spot della Kimberly-Clark per i pannolini Huggies in cui si diceva «lei penserà a farsi bella, lui a fare goal». La pagina facebook della ditta fu sommersa dalle critiche, moltissime di giovani papà e mamme, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ricevette tante segnalazioni di sessismo, e la Kimberly-Clark fu costretta a modificare il costosissimo spot.

Nella pubblicità italiana lavori domestici e cura dei figli sono puntualmente appannaggio della donna. «Emozioni che si tramandano» recita lo slogan del detersivo Scala, con una mamma e una bambina sorridenti con le ramazze in mano.
Ma ci sono anche modi più subdoli nell’attribuire attitudini femminili e maschili secondo stereotipi antiquati. Tempo fa un opuscolo della Samsung pubblicizzava un computer mostrando un uomo, vestito, con lo sguardo intento di chi sta lavorando, e una da donna semivestita e sdraiata sul letto. Il testo chiariva che “lei” può usare il portatile per chattare, fare shopping e guardare film. Dunque il messaggio è che l’uomo guadagna, lei spende, si dedica ad attività superficiali ed è sempre sexy. Un altro esempio di attribuzione di attitudini diverse è la “cassetta degli attrezzi” del 2016 della Lycia: per la donna nella cassetta ci sono i trucchi e per l’uomo gli attrezzi da lavoro. Anche in questo caso, per fortuna, c’è stata una forte reazione di critica. La ditta non ha modificato l’immagine ma si spera che non ripeta l’errore in futuro.

Uno degli aspetti più subdoli del sessismo è la ricerca dell’aderenza di forma e colore tra la donna e il prodotto. L’acqua Brio blu della Rocchetta ne è un esempio.

Quando la vincitrice di Miss Italia 2013 fece da testimonial per questa pubblicità il fotografo Ico Gasparri, da decenni impegnato nel contrasto alla pubblicità sessista, rivolgendosi alle aspiranti Miss, scrisse: «Guardate a cosa hanno portato i tanti sforzi, i probabili sacrifici personali e familiari, le tante aspettative della vostra collega vincitrice dell’edizione 2012: a fare la bottiglia di acqua minerale! Ad assumerne i colori, a interpretarne l’effervescenza e la briosità, ancheggiando, saltellando e contorcendosi in improbabili pose da pubblicità all’italiana».
Altri esempi di aderenza tra donna e prodotto sono il chicco di caffè sul volto di una ragazza per la Pellini, il logo della Abarth sul collo della modella in uno spot della Fiat, la donna-supposta di glicerina dello spot di Eva Q, e i chicchi di caffè al posto dei peli dell’inguine di una donna nuda per il caffè Godo.

L’aderenza si estende poi al carattere, che serve a rappresentare le diverse caratteristiche di un prodotto alimentare, come nella pubblicità dell’olio Bertolli dove tre gemelle rappresentano i gusti.
Nel nostro Paese, dove persiste la visione del ruolo ancillare della donna, la pubblicità la usa per attirare l’attenzione, rallegrare, stimolare l’erotismo, a far identificare il prodotto con piacere, allegria, spensieratezza. Alle donne acquirenti si chiede di immedesimarsi con le modelle seducenti o con le mammine felici. E le stesse ditte che, come la Muller, all’estero promuovono una figura di donna moderna, e nelle cui pubblicità compaiono donne di tutte le età, di fisici diversi, vestite normalmente, in Italia si ostinano a «far l’amore con il sapore».

« comune-info, 13 marzo 2017 (c.m.c.)

Tra i molteplici significati che ha assunto la parola libertà, ce ne sono due in particolare che la seguono da sempre come un’ombra: la negazione, la presa di distanza, la fuga da qualcuno o qualcosa, e la parentela con la scena pubblica. Libero, nel lessico greco e latino, è il non schiavo: maschio, adulto, appartenente a una comunità di eguali a cui è affidato il governo della città, figlio di genitori nati a loro volta liberi, in grado di sostenersi in armi e perciò dotato di poteri politici. È il cittadino guerriero. Fuori, negli interni domestici che la libertà e la politica si lasciano alle spalle, ci sono gli schiavi, le donne, gli adolescenti, esclusi dalla partecipazione alla cosa pubblica ed espropriati della loro stessa vita. Ma, sacrificato sull’altare della pòlis, è anche l’individuo, sottoposto in tutto, fin nelle sue scelte più intime, all’autorità del corpo sociale.

Un destino comune sembra imparentare perciò all’origine la libertà e la politica: uno strappo, un atto di cancellazione, il bisogno di dislocarsi rispetto a una matrice o a vincoli più o meno dichiarati. Nel vuoto apparente che si lasciano dietro vanno a collocarsi le donne, ma anche i corpi, le persone, le relazioni primarie e le vicissitudini improrogabili di ogni esistenza. Sarà per questo che, anche quando si fanno più articolate, più estese, le libertà – politiche, individuali – restano per larga parte formali, facili a sparire o a farsi inglobare su un versante o sull’altro.

C’è voluto un lungo percorso affinché, dalla zona d’ombra della vita pubblica, condizioni, rapporti dati come “naturali” – le passioni del corpo, la proprietà, le disuguaglianze economiche, i ruoli sessuali, gli impulsi d’amore e di odio – mostrassero, riaffiorando, quanto profonde, ramificate e inafferrabili siano le radici della libertà, quanto sia più giusto toglierle quella desinenza assertiva e parlare invece di “liberazione”.

Oggi sappiamo quanto sono esili i confini tra democrazia e regimi totalitari, quanto il sostrato biologico, considerato la frontiera estrema oscura della ragione, possa diventare, come è stato per il nazismo, la “verità ultima” della storia di un popolo; sappiamo che la guerra può confondersi con la difesa della vita, e quindi con la pace; conosciamo l’ambiguo legame che tiene insieme il bisogno di sicurezza, di protezione, l’attesa verso l’esterno, e la rinuncia alla libertà. Allo stesso modo, non possiamo ignorare che la resa delle donne al dominio dell’uomo è tuttora compensata da risarcimenti secondari, da gratificazioni illusorie e tuttavia durature. Ma non sembra che tale saggezza riesca a scalfire il sedimento secolare delle coercizioni su cui continuano a crescere e proliferare libertà visibilmente fragili, diritti destinati a restare sulla carta, opportunità, eguaglianze solo verbali.

Dove l’idea di libertà ha subito il suo più radicale ripensamento è stato nelle pratiche del femminismo, nella coscienza che ha riportato fuori dalle secche della “naturalità” il più antico dei domini, quello che ha riservato al sesso maschile non solo il potere di decidere le sorti del mondo, ma il pensiero, la costruzione ideativa e immaginaria che lo sostiene. L’intelligenza dell’uomo, essendosi arrogata le prerogative di unica esperienza compiuta dell’umano, non poteva che dare al processo di individuazione – cioè all’uscita dalla comune condizione animale – il volto di un “neutro”, mutilato di quell’appartenenza corporea e di sesso che l’avrebbe rivelato nella sua parzialità. Riportate entro la narrazione della storia personale – attraverso l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio – le illibertà non potevano che subire un processo inedito di svelamento: non erano solo quelle presenti nella vita sociale, e neppure ne condividevano modi e qualità.

Rispetto alle coercizioni esterne e a tutte le forme di violenza manifesta, che si sono accompagnate al dominio maschile, “immensa” appariva l’ “alienazione dell’io” conseguente all’aver fatta propria inconsapevolmente la rappresentazione del mondo dettata da altri.

Nelle conversazioni radiofoniche, tenute su Radiotre da Rossana Rossanda con alcune amiche femministe sulle “parole della politica”, Paola Redaelli così descrivere la rivisitazione del concetto di libertà:

«Libertà è una parola bellissima. Per me anzitutto vuol dire libertà di essere. Libertà di essere diversa. Per cui, a dire il vero, non è senza contraddizioni con uguaglianza. Libertà di essere diversa malgrado le leggi, al di là delle leggi, anche al di là di quelle che chiamavi ‘leggi di natura’. Libertà è poter scegliere senza cancellare niente di se stessi: il proprio essere intellettuale, i propri bisogni materiali, il proprio io profondo. Libertà è poter non trascurare nessuna parte di sé. Trasformare davvero il proprio rapporto con il mondo, fino all’ultimo e senza possibilità di tornare indietro». (R. Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1989)

Per una “libertà che parte da dentro”, lo scavo nelle vite, spinto fin dentro la memoria del corpo, sembra non avere mai fine, e il femminismo, che ha aperto questo nuovo orizzonte, appare davvero come “la rivoluzione più lunga”, quella che non disdegna le frontiere ultime del pensiero, le esperienze che hanno il corpo come interlocutore e parte in causa. Riportare lo sguardo sulla scena pubblica, come chiede oggi un movimento di donne in evidente ripresa, senza restare ancora una volta respinte o affascinate, comporta un forte ancoramento alla storia e alla cultura che il femminismo ha prodotto, la riattualizzazione di teorie e pratiche che per fretta o paura sono state troppo presto abbandonate. Richiede soprattutto che, pur continuando a parlare di “libertà femminile”, non si dimentichi che dominate e dominanti hanno parlato per millenni la stessa lingua, che l’alienazione delle une non è stata senza costi per l’umanità degli altri.

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«Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale

». connessioniprecarie, 14 marzo 2017 (c.m.c.)

Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per comprenderne appieno il significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza: chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di corteo non vede quello che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale. La dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti da uno sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo hanno preceduto.

Dismisura è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero. Solo partendo da questa dimensione politicamente e non solo geograficamente globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e di pratiche che si sono espresse al suo interno.

«Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando»! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.

A Plaza de Mayo più di duecentomila mujeres hanno gridato: «sí se puede», se si può fare uno sciopero contro Macri, lo facciamo noi donne!, catalizzando in questo modo una contestazione fino a questo momento frammentata e identitaria. Sono due episodi lontani ma al tempo stesso molto prossimi dell’8 marzo globale. Essi indicano chiaramente che lo sciopero voluto dalle donne ha prodotto la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo.

L’opposizione a questo o quel governo non si è ridotta alla richiesta di un cambio elettorale o a una protesta contro la classe politica. Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale. Le donne sanno che il neoliberalismo non ha inventato la violenza contro di loro, ma sanno anche che è arrivato il momento di restituire quella violenza alle condizioni politiche della sua continua riproduzione, smettendo di farne un oggetto di generica condanna.

Lo sciopero non è solo una sottrazione temporanea al lavoro, ma una pratica politica che segnala il rifiuto radicale, pieno e di massa, delle condizioni in cui oggi viene prodotta e riprodotta la vita. Proprio per la sua dismisura esso non mira a mediazioni locali o temporanee, ma esprime la sua potenza sul piano immediato della sollevazione di massa. «Non aspetteremo», hanno dichiarato le donne irlandesi di strike4repeal, riferendosi non solo all’urgenza di abrogare una legge antiabortista, patriarcale e assassina, ma al fatto che il tempo dello sciopero, il tempo della rottura è adesso. Per questo, l’8 marzo in tutto il mondo non è stato solo «il primo giorno della nuova vita delle donne», ma anche il primo giorno di una critica globale dell’esistente che da tempo sta faticosamente cercando le strade per esprimersi.

Lo sciopero ha aperto uno spazio politico senza precedenti in cui tantissime donne in tutto il mondo e moltissimi uomini precari, operai, migranti si sono mobilitati per rendere lo sciopero reale e andare oltre la sua evocazione, rompendo in questo modo l’isolamento della loro quotidiana insubordinazione. Le enormi manifestazioni che abbiamo visto sono stati scioperi. Le astensioni dal lavoro sono state dimostrazioni di forza e di coraggio. Il femminismo di migliaia di donne ha colto nello sciopero l’occasione per esprimere il rifiuto della propria condizione particolare di subordinazione, oppressione e sfruttamento, consentendo a ciascuna di diventare protagonista di un movimento globale.

Questa scelta femminista spiega e qualifica l’impressionante partecipazione in tutte le piazze dell’8 marzo: non solo la marea che ha inondato le metropoli e le grandi città, ma anche la presenza politica delle donne e di moltissimi uomini nei luoghi più disparati, dove le iniziative erano inattese. C’è chi ha paventato che questa sollevazione si limitasse, alla fine, a manifestare l’indignazione delle privilegiate, solidali con la causa di chi non può scioperare o gridare in piazza liberamente. C’è chi ancora una volta ha ripetuto che la lotta contro il capitalismo è un’altra cosa. Una cosa per soli uomini, forse. Invece precarie, operaie e migranti sono state presenti in tutte le piazze e hanno preso direttamente parola. Hanno rovesciato ogni discorso vittimizzante, hanno orgogliosamente trasformato la propria posizione di sfruttamento nel privilegio di chi diviene il soggetto della propria insubordinazione.

Lo sciopero ha sfidato molti confini ‒ quelli tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra i posti di lavoro e la società ‒ e molto praticamente ha mostrato che Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo hanno un comune campo di azione da occupare con la massima urgenza. Diffuso su tutto il pianeta e capace di rendere evidente il legame tra i diversi modi e i diversi piani in cui prende forma la violenza neoliberale, lo sciopero ha reso possibile una moltitudine di eventi e li ha connessi politicamente stravolgendo tutti i rituali di movimento: nessuna messa in scena del conflitto, ma una reale manifestazione di potere e del desiderio della sua conquista.

Questo sciopero ha dimostrato la possibilità di contrastare efficacemente la strategia della segmentazione messa in campo dal neoliberalismo patriarcale, perché ha reso possibile una sincronizzazione politica tra istanze anche molto diverse. La condizione vissuta dalle donne che reggono l’economia popolare argentina è certamente diversa da quella delle migranti vessate dal permesso di soggiorno in Europa, delle combattenti della Rojava, delle precarie spagnole, delle donne che in Turchia subiscono la violenza istituzionale di un governo autoritario e patriarcale, delle nere che negli Stati Uniti combattono contro la brutalità poliziesca, il sessismo e il razzismo istituzionale, delle francesi colpite dalla loi travail e dal suo mondo.

Le donne che hanno scioperato non sono state unite da un piano comune e omogeneo di rivendicazioni: in Brasile, si sono scagliate contro la riforma previdenziale, che aumenta l’età pensionabile delle donne estendendo e intensificando lo sfruttamento nell’indifferenza per il loro doppio carico di lavoro. Nelle Filippine le donne hanno preso parola contro le politiche agrarie neoliberali e le misure razziste del governo Duterte. In Australia, migliaia di educatrici hanno scioperato per contestare un welfare che si regge sulla sistematica riduzione dei loro salari.

In Polonia donne e uomini sono scesi in piazza contro l’alleanza tra il fondamentalismo cattolico e il neoliberalismo progressista che fanno fronte comune proprio a partire dalla violenza istituzionale e quotidiana sulle donne. La Francia, dopo le grandi mobilitazioni contro la loi travail, è tornata a riempirsi con le oltre 300 azioni che hanno travolto le strade delle principali città e che hanno visto un inedito protagonismo migrante. Donne curde, turche, cinesi, francesi, africane sono scese in piazza a hanno scioperato assieme contro la violenza, la precarizzazione e la strutturale discriminazione salariale che le colpisce.

In Svezia lo sciopero dell’8 marzo ha ripoliticizzato il lavoro di cura, portando in piazza centinaia di lavoratrici e lavoratori della sanità, degli ospedali e a domicilio, e aprendo un percorso per il diritto alla salute riproduttiva e contro la precarizzazione dei servizi alla persona. Lo sciopero dell’8 marzo non è però in nessun modo il risultato della somma occasionale di vertenze locali, della grande coalizione tra organizzazioni sindacali, politiche e di movimento, di contingenti alleanze di scopo in vista di una scadenza passeggera. Oggi possiamo dire che centrale è stato il processo che ha connesso fondamentali rivendicazioni politiche globali, fornendo forza e significato a ogni singola iniziativa locale. Questo sciopero transnazionale ha indicato la possibilità di agire sulla stessa scala su cui si dispiega quotidianamente la violenza neoliberale e patriarcale.

Nelle molte piazze in cui sono stati rivendicati salute, welfare, istruzione, libertà di muoversi e di restare non si è guardato nostalgicamente al passato, all’universalismo perduto della cittadinanza e dello Stato sociale novecenteschi – che molti paesi coinvolti nello sciopero delle donne non hanno mai neppure conosciuto – ma è stata avanzata la pretesa di ottenere qualcosa che non c’è mai stato. Mentre il neoliberalismo non ammette altra emancipazione che non sia quella garantita dal denaro, quelle rivendicazioni aggrediscono direttamente gli ingranaggi politici della sua riproduzione. Rivendicare il diritto di abortire liberamente significa pretendere di rovesciare l’ordine materiale e simbolico che vuole ridurre le donne a strumenti riproduttivi e contestare la regolazione normativa della sessualità.

Rivendicare servizi di cura per bambini e anziani significa rifiutare la divisione sessuale del lavoro che vuole condannare le donne a essere le serve domestiche e addomesticate dell’ordine neoliberale. Rivendicare l’asilo politico per sfuggire alla violenza contro donne e uomini e all’espropriazione dell’esistenza significa opporsi alla violenza quotidiana dei confini. Rivendicare salari più alti significa pretendere il potere sulla propria vita. L’irriducibile parzialità delle donne non si scioglie nel sogno di un’indistinta ricomposizione, ma attraverso la pratica sociale dello sciopero si fa valere con una forza collettiva e globale. L’8 marzo ci consegna una preziosa indicazione di metodo politico: non si tratta di reclamare generici diritti universali o un’emancipazione individuale, ma di colpire i pilastri su cui si regge un intero ordine di dominio e sfruttamento partendo dalla propria parziale posizione, facendone un punto di forza e non un limite. Questo ci hanno insegnato le donne dell’8 marzo.

Non è allora sorprendente che questo sciopero abbia preoccupato i custodi dell’ordine. Opinionisti e opinioniste di fama hanno perso l’occasione per tacere e si sono affrettati a dichiarare che lo sciopero dell’8 marzo ha danneggiato in primo luogo le donne, mentre le paladine del femminismo istituzionale hanno affermato severe che il lavoro non va mai rifiutato perché offre un’occasione di promozione sociale. Nonostante tutto, dopo anni di oscillazione tra il catastrofismo scandalistico della crisi e le tiepide ricette di risanamento dell’economia mondiale, le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo hanno dovuto registrare l’esistenza di una nuova pretesa di «giustizia».

Questo femminismo del 99%, come lo hanno battezzato le donne dell’8 marzo statunitense, non corrisponde a un generico ideale di partecipazione dal basso o di cittadinanza radicale: permette alle donne che subiscono e hanno subito violenza e sfruttamento di alzare la testa e lottare, mentre chiede a tutti di prendere posizione e di schierarsi. Esso fa dello sciopero il confine politico di questo schieramento, mina i resti di una mediazione sociale in frantumi e rimescola i piani su cui è possibile costruire percorsi di organizzazione e di lotta. Fa saltare l’alibi del solito sciopero rituale che non serve a nulla, dando alle donne e agli uomini la libertà di sottrarsi a un ordine costruito contro di loro.

La parola d’ordine Yo decido lanciata dalle donne spagnole non assume come referente il sistema politico, ma si afferma sulle macerie della mediazione istituzionale che il neoliberalismo ha già da tempo travolto con la forza brutale del suo dominio. Non è un caso che i più spaventati dallo sciopero delle donne siano stati i grandi sindacati che ‒ in Argentina come in Italia ‒ hanno cercato di arginare o addirittura contrastare l’iniziativa autonoma delle donne per tornare alle placide contrattazioni sulle quali continuano a costruire la loro identità e ragione di esistenza. Le donne, intanto, hanno reso l’arma dello sciopero disponibile per quanti ‒ da posizioni diverse e in ogni parte del mondo ‒ hanno la pretesa di opporsi realmente alla precarietà, al razzismo istituzionale, all’ingiunzione al silenzio dell’ordine neoliberale.

È impossibile dire in che misura siamo effettivamente riuscite a interrompere ogni attività produttiva e riproduttiva. Eppure, nonostante le sue dimensioni ancora sperimentali, l’8 marzo segna una frattura, stabilisce un «prima» e un «dopo». Esso indica la possibilità di un processo di organizzazione che non si riduce alla sommatoria delle istanze militanti e liquida in un colpo ogni ipotesi micropolitica che non sia capace di pensare simultaneamente il piano locale e quello globale dell’iniziativa. Lo sciopero è stato prima di tutto transnazionale e proprio per questo ha attivato in decine di paesi un processo di organizzazione capillare, di cui le donne sono state protagoniste al di là di ogni etichetta politica e certificazione militante innescando l’azione di una moltitudine di soggetti.

A questo processo di organizzazione il progetto dello sciopero ha conferito e può continuare a conferire unità, indicando la possibilità di uscire dalla quotidiana impotenza in cui si agitano i movimenti locali e di fare valere una forza collettiva. Questa forza non può essere ridotta a un semplice strumento per scendere a patti con questo o quel governo. Lo stesso piano femminista contro la violenza che «Non una di meno» sta scrivendo in Italia saprà imporsi solo se rimarrà ancorato al processo di lotta globale attivato sotto il segno dello sciopero.

Dopo l’8 marzo globale non è più pensabile imbrigliare la forza sprigionata dallo sciopero delle donne nelle maglie strette di linguaggi usurati o in forme organizzative che hanno già fatto il loro tempo e mostrato la loro insufficienza. Solo un’infrastruttura politica transnazionale potrà far crescere il movimento dello sciopero. Mentre la parola d’ordine di «una giornata senza di noi» continua a viaggiare per il mondo, significativamente rilanciata dai migranti negli Stati Uniti come in Argentina, dopo l’8 marzo la sfida collettiva è quella di consolidare e accelerare il movimento dello sciopero che si aggira per il mondo e che le donne, per prime, hanno fatto valere come una possibilità globale.

rovare vie diverse dalla ripetizione del passato da un lato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte della tessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle sue differenze e molteplicità costitutive". Internazionale, 8 marzo 2017

Mentre Donald Trump, e con lui i suoi fans di destra e purtroppo anche disinistra, fantasticano un’improbabile de-globalizzazione, spunta (o rispunta)un movimento femminista che ha tutte caratteristiche di un movimento globale.Mentre i media mainstream capovolgono l’elezione di Trump nella sconfitta delfemminismo perché il famoso tetto di vetro non è stato infranto neanchestavolta, spunta (o rispunta) un movimento femminista che mette il tetto divetro suddetto all’ultimo posto della sua agenda, e al primo la vita. Mentrel’egemonia del capitalismo neoliberale vacilla ovunque sotto i colpi di unacrisi ormai decennale, e ovunque ripropone per tutta risposta le sue ricettefallimentari senza trovare a sinistra ostacoli rilevanti e aprendo a destra viedi fuga razziste e fascistoidi, spunta (o rispunta) un movimento femminista chesi riappropria della centralità femminile nella produzione e nella riproduzionesociale, ne fa una leva sovversiva e chiama tutti, donne uomini e altri generidi ogni paese e di ogni colore, a unirsi a questa spinta sovversiva. Sono icolpi d’ala che solo la politica delle donne è capace periodicamente diinventarsi, gli scarti imprevisti dall’agenda politica e mediatica del presenteche solo la politica delle donne è capace periodicamente di produrre. E chefanno dell’8 marzo di quest’anno una giornata diversa dal solito, inedita,irrituale, inaugurale.

Ma non estemporanea. Lo sciopero delle donne dal lavoro e dalla curadichiarato per oggi in una quarantina di paesi del mondo – in Italia dalla rete“Non una di meno”, con l’adesione dei sindacati - arriva a coronamento di unanno che ha visto i movimenti femministi al centro, e alla guida, dimobilitazioni straordinarie, su un’agenda ben più ampia e articolata di quella“di genere”. L’inizio fu il Black Monday polacco, il 3 ottobredell’anno scorso, quando un’imponente manifestazione sotto la pioggia e gliombrelli bloccò la legge che voleva proibire l’aborto, prima azione politicacontro i governi reazionari che si sono succeduti in quel paese. Poi il MércolesNegro contro la violenza sessuale in Argentina il 17 ottobre,convocato dalla rete NiUnaMenos, sigla migrata in Italia con la manifestazionecontro la violenza del 26 novembre, tanto sorprendente per quantità e qualitàquanto ignorata da giornali e tv, all’epoca troppo impegnati nello sfornare sondaggisulla rimonta del sì al referendum costituzionale poi stravinto dal no. Infinel’immensa Women’s March del 21 gennaio a Washington e ovunquenel mondo, in risposta alla misoginia suprematista di Trump, tre milioni didonne e uomini in piazza negli Usa e due nel resto del pianeta, altro cheprotezionismo e de-globalizzazione: America first, ma intutt’altra direzione da quella neopresidenziale.
Vengono infatti da quella marcia, e sono vistosamente marcate dal lessicopolitico radicale americano, le due parole-chiave, inclusive eintersectional, che orientano la giornata di oggi.
Inclusivo, perché l’organizzazione e la regia della mobilitazione èfemminile ma apre a chiunque ne condivida le intenzioni, lasciandosi ilseparatismo alle spalle. Intersezionale, perché il dominio di genere siintreccia con altri dispositivi di dominio e di esclusione, di classe erazziali in primis, e domanda in risposta “l’alleanza dei corpi”, per dirlo conil titolo dell’ultimo libro di Judith Butler, di tutte le soggettivitàinteressate.
Perché allora l’8 marzo, e perché le donne al centro e al timone? Sipossono dare due risposte. La prima è che le donne e il femminismo sono state esono l’oggetto privilegiato della rivoluzione neoliberale, e non stupisce chene diventino il soggetto antagonista di prima fila. L’egemonia neoliberale devemolto della sua presa al modo in cui ha cercato di trascrivere la libertàpolitica e la padronanza sul proprio destino guadagnate dalle donne nelfemminismo in autoimprenditorialità e libertà di consumo, nonché al modo in cuiha “valorizzato”- nel senso dell’estrazione capitalistica di valore - il lavoroproduttivo, il lavoro di cura, l’intera vita delle donne. Non a caso la praticadi lotta scelta stavolta è quella dello sciopero: per sottrarsi a questosfruttamento, e per mostrare – per sottrazione, appunto – quanto il lavorofemminile - visibile e invisibili, contato e non contato nelle statistiche,retribuito e gratuito – sia tanto cruciale per far girare la macchinaproduttiva e riproduttiva quanto sottostimato e sottovalutato, in tutti i sensidel termine.
La seconda ragione è politica, ed è tutta inscritta nella genealogia enella memoria del femminismo. In una stagione come quella di oggi, in cui lapolitica ufficiale di opposizione, orfana delle sue appartenenze e strutturestoriche, sembra non trovare vie diverse dalla ripetizione del passato da unlato e dalla demagogia populista dall’altro, il femminismo conosce l’arte dellatessitura di un “noi” che si costruisce non malgrado ma in forza delle suedifferenze e molteplicità costitutive. E’ l’arte della tessitura di relazionilibere ma non per questo volatili, che consente al movimento delle donne diandare e venire dalla ribalta della cronaca, ma di tornare sempre, imprevisto,quando e dove occorre. Non a caso si chiude con un richiamo a Carla Lonzi iltesto di Non Una di Meno che convoca lo sciopero di oggi: “Il SoggettoImprevisto ha fatto nuovamente irruzione nella politica e nelle nostre vite.Riconosciamo a noi stesse la capacità di fare di questo attimo unamodificazione totale della vita”.

il manifesto, 9 marzo 2017

Ha fatto un bel po’ paura, lo sciopero delle donne, l’8 marzo. Tutte quelle ragazze, ragazzi, donne, uomini, persone lgbt in piazza. Rumorosamente assenti dal lavoro. Un milione? Bisognerà fare le mappe e i conti delle mille iniziative sparse nel pianeta.

Il punto è che un’enorme quantità di persone si sono mobilitate. Un popolo che sciopera, cioè si prende e mostra la propria forza. Che si muove non contro i nemici additati dalla propaganda di destra, i migranti, gli stranieri, o una casta politica diventata ormai metafisica, fantasma di un potere che rimane invisibile.

No, la mobilitazione, proprio perché era uno sciopero, era contro un’organizzazione del sociale, della divisione sessuale del lavoro e del lavoro stesso. Insomma, contro il potere reale, le sue radici violente, arcaiche e contemporanee, di cui il femminicidio è la forma estrema e paradigmatica.

Uno sciopero guidato e pensato da donne, poi. Un fatto inaudito. La visione delle donne si allarga, mostra di sapere e potere riorganizzare la vita sociale e il mondo. A partire dalla propria esperienza, dal dominio subito e dalla lotta per ribaltarlo. Non succedeva dal tempo dei social forum, una mobilitazione internazionale nella stessa giornata. Non si era più abituate neanche a un 8 marzo che non fosse un rito, di presidenti che elogiano l’indispensabilità delle donne, multinazionali che creano premi, sindaci che danno le medaglie. E la leadership femminile, è una novità assoluta. Tutte e tutti a invocarla, e quando te la trovi squadernata davanti, cosa si finisce per dire? Che è stato un successo, ma alla fine è un disastro.

Dispiace che una femminista autorevole come Alessandra Bocchetti, invece di chiedersi perché tante, tantissime sono scese in strada, evochi un’autonomia delle donne che questo 8 marzo, con la sua proposta inclusiva e intersezionale, avrebbe messo a a rischio. Più conseguente Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, che critica lo sciopero come strumento arcaico, visto che il lavoro è precario.

E dire che proprio questa è la forza di questo otto marzo 2017. Donne che proclamano uno sciopero. Avere rotto una barriera. Avere buttato all’aria quella compartimentazione prima di tutto mentale in cui è imprigionata la società. Quella frammentazione per cui ai sindacati spettano gli scioperi, quelli veri, che riguardano i lavoratori veri che stanno nei posti di lavoro riconosciuti come tali. Cosa ne sanno le donne? Cosa c’entrano le case, o i femminicidi, i lavori precari e qualificati, che puoi fare perfino in autobus e sulla metro, visto che quello che conta è la connessione? Che cosa si sono messe in testa le femministe, di proclamare lo sciopero? Il maschilismo ha molte facce. Questa rigidità ne è senz’altro un aspetto.

Eppure spero che proprio il successo dell’8 marzo globale apra gli occhi. Perché l’inerzia misogina rischia di farsi complice della passivizzazione di chi lavora, rischia di coltivare l’impotenza prodotta dalla svalorizzazione del lavoro, invece di combatterla. Dispiace che la Fiom, che pure ha incontrato la rete organizzatrice dello sciopero in Italia, NonUnaDiMeno, non abbia colto l’occasione.

Perché lasciare che sia il mercato a mettere al lavoro migranti, donne povere e impoverite in attività malpagate e sfruttate, tutto delegato all’iniziativa individuale? Perché non pensare a un nuovo welfare, a nuovi lavori da unire a un reddito minimo, da garantire quando necessario?

Si comincia da qui, dalle giovani femministe, una nuova generazione politica, che hanno preso la guida. È un progetto, una speranza. Si rivolge a tutti coloro che subiscono il potere neocapitalista, le conseguenze di una globalizzazione violenta che, lasciandosi noncurante alle spalle i propri detriti, defluisce in una de-globalizzazione addirittura più barbara.

In tante abbiamo cercato la strada, da donne libere e sempre impreviste, come diceva Carla Lonzi. Ora possiamo. Partiamo da qui.

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