Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: ve l'ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.
Discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma l'11 febbraio 1950
Nel sistema politico della fase berlusconica non c’è bisogno di una scuola di partito. Anzi, c’è già: è costituita dal monopolio massmediatico, che è da qualche decennio la vera scuola degli italiani. Basta ridurre via via il peso della scuola pubblica. Ci sono vicini, se non ci opponiamo.
Se non sapete chi è Piero Calamandrei, cercate con google.
Dagli anni ‘80 a oggi - un lungo periodo, quindi - la Costituzione vive essendo oggetto di quotidiano logoramento. Quello che, in origine, si considerava un disegno unitario di vita politica e sociale, ha iniziato a essere scomposto concettualmente in parti diverse e le si è trattate, ora questa ora quella, come materia che potesse essere ri-trattabile a seconda delle esigenze del momento: secondo, diciamo così, opportunità e, qualche volta, opportunismo. Cadeva quello che si disse essere stato fino ad allora il "tabù costituzionale", l’intoccabilità della Costituzione. I pochi che, prima, avevano immaginato cambiamenti erano stati, a loro volta, considerati, dalla communis opinio politico-costituzionale, degli intoccabili. Iniziava un percorso che sembra oggi concluso con un rovesciamento: chi non ha almeno una proposta di riforma, è un conservatore fuori tempo. I risultati, peraltro, a onta dei molti sforzi profusi dai riformatori, sono stati, nel complesso, grandemente deludenti. La Costituzione o ha resistito a chi la voleva cambiare o, dove non ha resistito, è stata cambiata, per generale riconoscimento, in peggio. Onde, il sentimento di frustrazione che nasce dallo scarto tra ciò che si vorrebbe e ciò che si riesce a ottenere. A cui si può aggiungere un altro scarto, assai pericoloso: tra i riformatori stessi e i conservatori costituzionali: i primi più numerosi nel ceto politico; i secondi, tra i cittadini comuni, quelli che, a grande e inaspettata maggioranza, nell’estate del 2006, ha bocciato la progettata riforma dell’intera seconda parte della Costituzione. L’attaccamento dei secondi stride con l’affannarsi dei primi e in ciò sta uno dei non minori motivi di distacco della società civile dalla politica, accusata non del tutto a torto di avere prescelto la Costituzione come capro espiatorio, per dirottare altrove le proprie insufficienze.
Si iniziò più di venticinque anni fa, con la parola d’ordine della "grande riforma", la riforma che avrebbe dovuto spianare la strada alla cosiddetta "seconda repubblica". (...) La democrazia maggioritaria, di cui si iniziò a parlare allora, mirava sì a rafforzare la funzione esecutiva, esaltando la posizione del capo del governo con qualche soluzione di tipo presidenziale che avrebbe depresso la funzione del Parlamento e, in esso, dei partiti politici, a favore di qualche forma di investitura popolare diretta. Democrazia immediata contro democrazia rappresentativa, e semplificazione bipolare della vita politica. Con numerose e divergenti proposte, questa prospettiva è stata coltivata per molti anni, fino a ora, alimentando commissioni parlamentari, dibattiti scientifici, carriere scientifiche e politiche. Non si è tradotta in pratica costituzionale, ma in pratica elettorale. Qualcosa di simile a ciò cui aspirano i riformatori costituzionali è stato infatti ottenuto con le riforme delle leggi elettorali, con risultati discutibili e, sotto certi aspetti, addirittura pericolosi, poiché le istituzioni di garanzia, pensate per un sistema politico a sfondo proporzionale, sono deboli di fronte a un sistema a vocazione maggioritaria. Onde, una pericolosa schizofrenia. (...)
Ciò che colpisce, in generale, è la forza attrattiva delle proposte di riforma costituzionale, una volta che riescano a prendere piede. Sia la democrazia maggioritaria che il federalismo, all’inizio, erano la bandiera di piccole forze. Ma queste bandiere, a poco a poco, hanno guadagnato spazio e proseliti. Le proporzioni, tra i pro e i contro, si sono invertite. La maggioranza larghissima è oggi pro riforma. C’è una logica profonda e naturale in questo mutamento di posizione, quasi una forza invincibile. Lo sapevano bene gli antichi quando circondavano di cautele non solo le deliberazioni costituzionali, ma, prima ancora, le proposte di deliberazione costituzionale. La logica è questa: a ogni opera di costituzionalizzazione segue l’assegnazione di una particolare legittimazione alle forze che vi hanno partecipato, e di delegittimazione alle forze che si sono, o sono state escluse. Il concetto di "arco costituzionale", che tanta importanza ha avuto nella storia dei primi decenni della nostra Repubblica, ne è la dimostrazione lampante. Onde, una gara a star dentro i processi di riforma, affinché ciò che ne possa venir fuori porti anche il proprio segno. (...) Tutti vogliono cambiare la Costituzione, ma tutti hanno idee diverse su come cambiarle: il miracolo costituente d’un tempo è difficile che si rinnovi oggi, quando qualsiasi mutamento della Costituzione si risolve, per gli uni e per gli altri, in un vantaggio o in uno svantaggio, che ciascuno è in grado di calcolare (magari sbagliando i calcoli, ma non è questo che conta). Manca quell’iniziale "velo dell’ignoranza" circa la distribuzione dei costi e dei benefici che, all’inizio di un’epoca costituzionale, induce gli attori, ignari in proposito, ad orientarsi secondo idee generali e non secondo interessi particolari. La riprova sta nel fatto che entrambe le riforme della Costituzione che abbiamo finora avute, la prima compiuta (il federalismo) e la seconda abortita (la seconda parte della Costituzione), non sono state approvate con maggioranze molto più ristrette di quelle amplissime che, in principio, si dichiaravano favorevoli.
La situazione è, oggi, questa. Tutti, quasi, nel ceto politico, si dichiarano per una riforma, salvo dissentire su quale riforma. La conseguenza è che la Costituzione è restata in piedi non per adesione e convinzione, ma per assenza di forza sufficiente a modificarla: una situazione imbarazzante di logoramento, di erosione continua della sua legittimità. È stato così fino a ora, e già si dice che si proseguirà: si spera, ma con limitate speranze, che si giunga presto al termine di questo tempo di costituzione sempre da riformare e mai riformata.
Stanno nascendo "costituzioni parallele" che, direttamente o indirettamente, mirano a mettere in discussione, o a cancellare del tutto, la prima parte della Costituzione italiana quella dei principi, delle libertà e dei diritti – varata esattamente 60 anni fa. Il più noto di questi tentativi è quello che le gerarchie cattoliche perseguono ormai da tempo, affermando la superiorità e la non negoziabilità dei propri valori e denunciando il relativismo delle carte dei diritti, a cominciare dalla Dichiarazione universale dell’Onu del 1948, considerate frutto di mediocri aggiustamenti politici. Ma non deve essere sottovalutato un prodotto di quest’ultima stagione, l’annuncio di "manifesti dei valori" ai quali le nuove forze politiche vogliono affidare una loro "ben rotonda identità". Il mutamento di terminologia è rivelatore. Non più "programmi" politici, ma manifesti, un tipo di documento che storicamente ha valore oppositivo, addirittura di denuncia dell’ordine esistente. E oggi proprio l’ordine costituzionale finisce con l’essere messo in discussione.
Viene abbandonata la politica costituzionale, già indebolita, ma che pur nei contrasti aveva accompagnato la vita della Repubblica, contraddistinto battaglie come quella dell’"attuazione costituzionale", segnato stagioni come quella del "disgelo costituzionale". Al suo posto si sta insediando un dissennato Kulturkampf, una battaglia tra valori che sembra muovere dalla impossibilità di trovare comuni punti di riferimento. L’identità costituzionale repubblicana è cancellata, al suo posto scorgiamo la pretesa di imporre una verità o la ricerca affannosa di compromessi mediocri.
Nel linguaggio di troppi politici i riferimenti alle encicliche papali hanno sostituito quelli agli articoli della Costituzione. Nelle parole di altri si rispecchiano una regressione culturale, una corsa alle risposte congiunturali, più che una matura riflessione sui principi che devono guidare l’azione politica. Ci si allontana dal passato senza la lungimiranza di chi sa cogliere il futuro.
Questo è forse l’effetto di un inesorabile invecchiamento della Costituzione della quale, a sessant’anni dalla nascita, saremmo chiamati non a celebrare la vitalità, ma a registrare la decrepitezza? L’intoccabilità della prima parte deve cedere ai colpi inflitti dal mutare dei tempi?
Ribadito che siamo di fronte a un tema distinto dalla buona "manutenzione" della seconda parte, che disciplina i meccanismi istituzionali, proviamo a saggiare la tenuta dei principi costituzionali considerando proprio questioni recenti, per vedere se non sia proprio lì la bussola democratica, liberamente e concordemente definita, alla quale tutti devono riferirsi. Partiamo dall’attualità più dura, dalle morti sul lavoro, delle quali la tragedia della Thyssen Krupp è divenuta l’emblema. L’articolo 41 della Costituzione è chiarissimo: l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Questa sarebbe una incrostazione da eliminare perché in contrasto con la pura logica di mercato? Qualcuno lo ha proposto, ma spero che la violenza della realtà lo abbia fatto rinsavire. Oggi è proprio da lì che bisogna ripartire, da una sicurezza inscindibile dal rispetto della libertà e della dignità, dalla considerazione del salario non solo come ciò che consente di acquistare un lavoro sempre più ridotto a merce, ma come il mezzo che deve garantire al lavoratore ed alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Questione ineludibile di fronte ad un processo produttivo che, grazie anche alle tecnologie, si impadronisce sempre più profondamente della persona stessa del lavoratore. La trama costituzionale ci parla così di una «riserva di umanità» che non può essere scalfita, ci proietta ben al di là della condizione del lavoratore, mette in discussione un riduzionismo economicistico che vorrebbe l’intero mondo sempre più simile alla New York descritta da Melville all’inizio di Moby Dick, che «il commercio cinge con la sua risacca».
Altrettanto irrispettosa della vita è la decisione del Comune di Milano di non ammettere nelle scuole materne comunali i figli di immigrati senza permesso di soggiorno. È davvero violenza estrema quella che esclude, che nega tutto ciò che è stato costruito in tema di eguaglianza e cittadinanza e, in un tempo di ripetute genuflessioni, ignora la stessa carità cristiana. Di nuovo la trama costituzionale può e deve guidarci, non solo con il divieto delle discriminazioni, ma con l’indicazione che vuole la Repubblica e le sue istituzioni obbligate a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» (così l’articolo 3). E cittadinanza ormai è formula che non rinvia soltanto all’appartenenza ad uno Stato. Individua un nucleo di diritti fondamentali che non può essere limitato, che appartiene a ciascuno in quanto persona, che dev’essere garantito quale che sia il luogo in cui ci si trova a vivere. Hanno mai letto, al Comune di Milano, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Sanno che in essa vi è un esplicito riconoscimento dei diritti dei bambini? Trascrivo i punti essenziali dell’articolo 24: «I bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere… In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente». Di tutto questo, e non solo a Milano, non v’è consapevolezza, segno d’una sorta di pericolosa "decostituzionalizzazione" che si è abbattuta sul nostro sistema politico-istituzionale.
Ma seguire le indicazioni della Costituzione rimane un dovere. Certo, serve una cultura adeguata, perduta in questi anni e che ora sta recuperando una magistratura colta e consapevole, che affronta le questioni difficili del nascere, vivere e morire proprio partendo dai principi costituzionali, ricostruendo rigorosamente il quadro in cui si collocano diritti e libertà delle persone, risolvendo casi specifici come quelli riguardanti l’interruzione dei trattamenti per chi si trovi in stato vegetativo permanente, il rifiuto di cure, la diagnosi preimpianto. Ma proprio questo serissimo lavoro di approfondimento sta rivelando la distanza tra cultura costituzionale e cultura politica. Sembra quasi che, prodighi di dichiarazioni, troppi esponenti politici non trovino più il tempo per leggere le sentenze e le ordinanze che commentano, o non abbiano più gli strumenti necessari per analisi adeguate. Fioccano le invettive e le minacce: «invasione delle competenze del legislatore», «ricorreremo alla Corte costituzionale». Ora, se questi frettolosi commentatori conoscessero davvero la Corte, si renderebbero conto che le deprecate decisioni della magistratura seguono proprio una sua indicazione generale, che vuole l’interpretazione della legge "costituzionalmente orientata": Nel caso della diagnosi preimpianto, anzi, sono stati proprio i giudici a bloccare una pericolosa invasione da parte del Governo delle competenze del legislatore, che non aveva affatto previsto il divieto di quel tipo di diagnosi, poi introdotto illegittimamente da un semplice decreto ministeriale.
La stessa linea interpretativa dovrebbe essere seguita nella controversa materia delle unioni di fatto, al cui riconoscimento non può essere opposta una lettura angusta dell’articolo 29, già superata negli anni 70 con la riforma del diritto di famiglia. Parlando di «società naturale fondata sul matrimonio», la Costituzione non ha voluto escludere ogni considerazione di altre forme di convivenza, tanto che l’articolo 30 parla esplicitamente di doveri verso i figli nati "fuori del matrimonio"; e l’articolo 2, per iniziativa cattolica, attribuisce particolare rilevanza giuridica alle "formazioni sociali", di cui le unioni di fatto sono sicuramente parte. Linea interpretativa, peraltro, confermata dall’articolo 9 Carta dei diritti fondamentali che mette sullo stesso piano famiglia fondata sul matrimonio e altre forme di convivenza, per le quali è caduto il riferimento alla diversità di sesso. Che dire, poi, delle resistenze contro una più netta condanna delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, che costituisce attuazione degli impegni assunti con i trattati europei e la Carta dei diritti? Dopo esserci allontanati dalla nostra Costituzione, fuggiremo anche dall’Europa e ci sottrarremo ai nostri obblighi internazionali?
Nella Costituzione vi sono molte potenzialità da sviluppare, come già è accaduto con il diritto al paesaggio e la tutela della salute. Quando si dice che la proprietà deve essere "accessibile a tutti", si leggono parole che colgono le nuove questioni poste dall’utilizzazione dell’enorme patrimonio di conoscenze esistente in Internet. E la rilettura delle libertà di circolazione e comunicazione può dare risposte ai problemi posti dalle tecnologie della sorveglianza e dalle gigantesche raccolte di dati telefonici. Vi è, dunque, una "riscoperta" obbligata di una Costituzione tutt’altro che invecchiata e imbalsamata, che regge benissimo il confronto con l’Europa, che rimane l’unica base democratica per una discussione sui valori sottratta alle contingenze ed alle ideologie. Questo richiede l’apertura di una nuova fase di "attuazione" costituzionale". Chi sarà capace di farlo?
Caro Corrado Augias, giorni fa, parlando di Costituzione, lei si è mostrato sorpreso che nel 1947 i costituenti avessero previsto e inserito nel testo (all'articolo 9) la «salvaguardia del paesaggio». L'Italia in quegli anni era molto povera ma perfetta nel paesaggio e certo non si poteva immaginare l'orrore dell'urbanizzazione selvaggia degli anni sessanta e successivi.
A proposito di questo suo stupore, volevo raccontarle del mio quando, leggendo su argomenti di tutela del Patrimonio, ho trovato alcune righe prese da un intervento di Gustavo Giovannoni, architetto urbanista che lavorò alla legge «Bottai» del 1939, legge in cui si parla di difesa non del Paesaggio ma delle «Bellezze naturali».
Giovannoni scrive: «Occorre anche la formazione di piani regolatori paesistici per prevedere ciò che sarà la campagna quando la fabbricazione si estenderà, o come appendice della città, o come sviluppo di un centro di villeggiatura. Tutto ciò veduto in tempo, e in tempo precisato e comunicato agli interessati». Negli anni Trenta aveva previsto come sarebbe andata!
Nel nostro Paese, come noi ben sappiamo, non mancano le persone capaci di prevedere e progettare per il bene comune, ma il problema è che non vengono ascoltate mentre le leggi sono fatte male e non vengono rispettate. Speriamo che questo nuovo governo abbia voglia e coraggio di occuparsene
Rita Cassano
Queste capacità di previsione vengono non da speciali doti profetiche ma dallo spirito con il quale ci si pone al servizio di un testo di legge, specie se fondamentale come la Costituzione. Gli uomini che hanno scritto la Carta entrata in vigore il 1° gennaio 1948 avevano notevoli qualità ma erano soprattutto animati, pur nella diversità delle rispettive tradizioni politiche e culturali, da uno spirito all'altezza delle circostanze.
Fu questo a fargli inserire nel testo la tutela dell'ambiente appaiato (art. 9, II comma) all'eredità storica di cui siamo fruitori: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ernesto Bettinelli (diritto Costituzionale a Pavia) ha pubblicato per la Rizzoli un volumetto dal titolo "La Costituzione della Repubblica" (213 pagg. 7,00 euro) che fortemente consiglio specie in questa vigilia referendaria: un prezioso vademecum. Illustrando i 'valori' di cui la nostra carta fondamentale è portatrice scrive: «I valori dovrebbero evocare cose, situazioni misurabili, anche dal punto di vista materiale ed economico; si riassumono nelle condizioni essenziali per rendere possibile l'esistenza in generale e l'umanità in particolare: la convivenza, appunto».
Lì è la forza di un testo destinato a durare. Passo all'attualità per postillare che trovo invece insultante la modifica di un testo costituzionale nelle condizioni in cui è stata fatta dal passato Parlamento. Quei cambiamenti, voluti e quasi imposti dalla Lega a un presidente del Consiglio indifferente, cambiano 52 articoli ne aggiungono 3, stravolgono il testo a soli fini elettorali. Un vero assalto che Pietro Ciarlo (diritto costituzionale a Cagliari) ha definito frutto di «un potere arrogante e un servilismo diffuso, pseudo-federalisti uniti in un patto populistico». Meritano tutto il nostro convinto 'No'.
La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegiare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.
È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà. C’è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Eh, lo so anche io, ci sono… Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perchè questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…
Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…
E quando io leggo nell’art. 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell’art. 11: «L’Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie… ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!
O quando io leggo nell’art. 8:«Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell’art. 5: «La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo!
O quando nell’art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell’art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani…
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove fuorno impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.
Le costituzioni sono costruzioni, ma queste costruzioni, come anche quella cui tanto volonterosamente e a lungo si è dedicata la nostra ingegneria costituzionale, presentano sempre un aspetto, per così dire, naturalistico che non risulta aver attirato l’attenzione che merita. Eppure, proprio su questo, in ultima analisi, ci pronunceremo tra breve e sarà un pronunciamento che conterrà un giudizio, oltre che sulla costituzione che ci viene proposta, anche su noi stessi.
L’espressione "aspetto naturalistico" si riferisce a quella che i classici denominavano l’indole costituzionale dei popoli. Le costituzioni dei popoli intuitivi e sentimentali non possono essere quelle dei popoli ragionatori e speculativi; le costituzioni dei popoli molli e pigri, non quelle dei forti e laboriosi; dei pessimisti e fatalisti, non quelle degli ottimisti e fieri; degli attivi e coraggiosi, non quelle dei passivi e paurosi; dei dissipatori, non quelle dei parsimoniosi. Un despota, per esempio, è necessario per coloro che, dovendo cogliere una banana, pensano, invece di arrampicarsi, di tagliare il banano alla radice. La democrazia non è adatta ai popoli che cercano favori piuttosto che diritti, che scansano le responsabilità invece che cercarle. Accogliere nei Paesi freddi il lusso e i molli costumi degli Orientali, si è anche detto, significa darsi le loro catene.
Non lasciamoci fuorviare dall’apparente ingenuità di queste contrapposizioni settecentesche. Esse contengono una profonda verità: la più perfetta opera di ingegneria costituzionale potrebbe non valere nulla se ignora o contraddice i caratteri naturali del popolo che si vuole costituzionalizzare. «Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorché sia misurata sulla statua modellaria di Policlete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà fare uso della tua veste».
Parole di Vincenzo Cuoco contro il progetto di costituzione napoletana del 1799 che egli considerava un arbitrario tentativo di trasposizione di astratte idee costituzionali dalla Francia dell’epoca (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari, 1913, p. 218).
I nostri ingegneri e sarti costituzionali probabilmente non si saranno nemmeno posti il problema. Forse, non saranno neppure stati sfiorati dal dubbio che questo sia un punto importante sul quale saranno giudicati. Più probabilmente ancora, si saranno lasciati condizionare inconsapevolmente dalla presunzione che la nostra indole sia come la loro. Ma noi, nel momento in cui ci viene chiesto di pronunciarci per mezzo del referendum, è proprio questa la domanda che ci poniamo: se siamo o, meglio, se vogliamo essere quello che essi presumono che siamo; se siamo o vogliamo essere come credono loro.
* * *
Quali sono dunque le pulsioni profonde che la riforma costituzionale viene a solleticare o lusingare?
a) Innanzitutto la servilità. Un popolo è servile se si rallegra di poter scegliere, ogni cinque anni, un capo al quale conferire poteri illimitati. Non sembri una sintesi esagerata. Questo nuovo capo è denominato "primo ministro", ma il potere personale che questo nome innocente indica è tale da far paura. Egli dispone dei ministri a suo piacimento, nominandoli quando gli sono graditi e revocandoli quando gli diventano sgraditi. A suo piacimento dispone anche dei rappresentanti del popolo perché ogni dissenso nei suoi confronti si può concludere con il loro licenziamento, lo scioglimento della Camera e nuove elezioni: il diritto di critica è dunque ammesso, ma chi lo eserciterebbe, quando il prezzo è il suicidio? Non può invece accadere il contrario, cioè che siano i rappresentanti del popolo a licenziare il capo e a sostituirlo con un altro. Questa ipotesi è bensì prevista, ma come pura ipotesi di fantasia: occorrerebbe un voto a maggioranza assoluta dell’Assemblea, senza l’apporto dell’opposizione, cioè da parte della stessa compatta compagine che fino ad allora è stata al seguito del capo. Il che è quanto dire che non potrebbe realizzarsi mai.
Si dirà: prima di parlare di regime autoritario, si noti almeno che questo capo è pur sempre scelto con un’elezione, ogni cinque anni. Ma ciò significa solo che quel popolo che se ne rallegrasse, lo farebbe perché trova gioia nel ripetersi, cioè nell’insistere nella sua servilità. Varrebbero le parole che Rousseau indirizzava al popolo inglese del suo tempo: «pensa di essere libero, ma si sbaglia di grosso. Non lo è che durante l’elezione dei membri dei Parlamento. Appena sono eletti, è schiavo, non è nulla. Nei brevi momenti della sua libertà, per l’uso che ne fa merita di perderla» (Contratto sociale, libro III, c. XV).
b) In secondo luogo, l’insicurezza e l’aggressività, degli uni verso gli altri. Ogni elezione di capo dai poteri illimitati tramite un’investitura popolare trasformerebbe l’elezione in conflitto in cui ciascuno avrebbe tutto da sperare ma anche tutto da temere, a seconda dell’esito. La propria sopravvivenza sarebbe legata alla soccombenza degli avversari e così l’insicurezza si esprimerebbe in aggressione. L’ultima tornata elettorale cui abbiamo assistito sgomenti già ci ammonisce come una sia pur parziale primizia. Gli strumenti dello scontro sarebbero i più rozzi, irrazionali e semplicistici: amore-odio, bene-male, amici-nemici. Ecrasez l’infame! potrebbe diventare la parola d’ordine dei due schieramenti che si demonizzano reciprocamente.
Né potrebbe farsi troppo conto sulle istituzioni di controllo, per mitigare i poteri del vincitore e, con ciò stesso, l’asprezza del confronto. Questo accade in effetti in diversi regimi, dove pure i cittadini eleggono il capo del loro governo. Ma lì esistono pesi e contrappesi, tradizioni e cultura politica che ne bilanciano il potere. E da noi? Il Presidente della Repubblica è reso dalla riforma una figura marginale. La Corte costituzionale, con una modifica della sua composizione, viene allineata alla maggioranza politica. La magistratura, al di là delle riforme che la riguardano, sarebbe intimorita da una concentrazione di potere politico, collegata all’investitura popolare diretta, sconosciuta negli altri Paesi che si dicono democratici. L’uguaglianza di fronte alla legge, che già non è propriamente il punto di forza delle nostre istituzioni, si ridurrebbe a principio-beffa. Il Parlamento, infine, abbiamo già visto essere reso nullo nella sua funzione, che è sempre stata la sua essenziale, di garanzia contro gli abusi del governo. Quando gli assurdi rapporti tra Camera e Senato previsti dalla riforma glielo consentissero, legifererebbe, ma sempre e solo agli ordini del capo del governo. Ogni appuntamento elettorale, data l’enormità della posta in gioco, si risolverebbe in dramma o in tragedia. Più che la Gran Bretagna, la Francia o la Spagna, ci darebbero il benvenuto taluni Paesi del Sud America o dell’ex-blocco sovietico.
c) Lo spirito cortigiano. La riforma promette un’alternanza tra lo scontro elettorale e il ruere in servitium, a cose fatte. Si potrà deplorare la disposizione a cambiare casacca a seconda del momento ma, d’altra parte, che cosa si può pretendere quando il vincitore può tutto, da lui dipendono la fortuna o la rovina della tua azienda, della tua banca, del tuo giornale, della tua casa editrice, della tua carriera? Se e fino a quando sei nelle sue mani, cercherai di ingraziartelo, almeno fino al momento in cui, pensando che stia per cadere in disgrazia, non hai più nulla da ottenere o da temere da lui. Quando nuovi capi sono all’orizzonte, i cortigiani che ti hanno adulato diventano serpenti velenosi.
d) L’atteggiamento impolitico e qualunquista. Nessun Parlamento al mondo è tanto umiliato quanto quello che deriverebbe dalla riforma. Non controlla ma è controllato; se legifera, lo fa per conto altrui; se si permette di dissentire, è sciolto. Data la sua marginalità, potrebbe anche essere soppresso o sostituito da un’astratta attribuzione di millesimi, come nei condomini, a ciascuna delle parti in campo. Se non lo è, forse è perché esso rappresenta ancora un’immagine potente e carica di storia della libertà politica ed eliminarlo sarebbe stato un po’ troppo forte; o, forse, è anche perché, ridotto in questa umiliazione, simboleggia come un trofeo la vittoria delle forze e delle mentalità antiparlamentari: quella vittoria già iscritta nell’attuale, recente legge elettorale, che ha trasformato in molti casi i rappresentanti del popolo in ignote propaggini di dosaggi di potere, clientele e familismi di partito. Non sono pochi, del resto, coloro che intendono l’annunciata diminuzione del numero dei parlamentari, operativa – se mai lo sarà – solo tra molti anni, come un ammiccamento all’eterno qualunquismo latente nel nostro Paese.
e) Il provincialismo pessimista e ripiegato su se stesso. "A casa mia": è il motto di chi crede a quella cosa che la riforma definisce federalismo (il federalismo è l’apertura della piccola patria a una patria più grande) ed è invece ripiegamento su se stessi, timore per l’ignoto, aggressività verso chi viene creduto diverso, comunitarismo organico: l’esatto contrario del federalismo. I giuristi hanno ripetutamente spiegato che nelle norme della cosiddetta devolution c’è molto più centralismo che non federalismo. Diverse competenze sono state ritrasferite al centro e il "federalismo fiscale" è reso una beffa dalla norma che vieta "in tutti i casi" all’autonomia impositiva delle Regioni (e degli enti locali) di determinare incrementi della pressione fiscale complessiva. Anche le competenze regionali "esclusive" - assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione e polizia amministrativa regionale e locale - devono pur sempre coesistere con le competenze statali, anch’esse "esclusive", circa i livelli essenziali delle prestazioni in campo sanitario, le norme generali sull’istruzione e la tutela della salute, nonché l’ordine pubblico e la sicurezza.
Ma, evidentemente, quello che conta, in questo caso, non è la realtà giuridica ma è il messaggio "culturale" di chiusura e ostilità verso il diverso. Della nostra salute, della istruzione dei nostri figli, della nostra sicurezza ci occupiamo noi perché, per l’appunto sono cose di casa nostra. La violenza concreta di questo atteggiamento, tuttavia, non tarderebbe poi a farsi sentire, ben al di là di quel che le norme costituzionali (per ora) contengono.
* * *
Riassumiamo. L’indole costituzionale che la riforma solletica, lusinga, blandisce è questa: servilità, insicurezza e aggressività, spirito cortigiano, antipolitica e qualunquismo, provincialismo ripiegato su se stesso. Occorrerebbero troppe parole, ma sarebbero del tutto superflue, per mostrare come questi spiriti, politicamente molto ben definiti, siano agli antipodi rispetto a quelli su cui si fonda la Costituzione che viene dall’Assemblea costituente del 1946-1947. Ma riprendiamo la domanda iniziale: siamo disposti a riconoscerci in questa nuova, o forse antica indole che vogliono attribuirci? Il referendum ci interpella su questo, dunque su noi stessi, molto prima che sui contenuti giuridici. Posta così la questione, si può sperare che in molti si avverta la necessità di una reazione a una proposta che è un tentativo di seduzione dei lati peggiori del nostro carattere e di oltraggio ai suoi lati migliori.
I cittadini hanno il diritto di esprimersi su questa domanda e la nostra classe politica ha il dovere di non alterare la loro risposta. Da più parti si insiste invece sul fatto che, quale che sia il risultato del referendum, le due parti dovranno subito dopo trovare l’accordo "per una riforma condivisa", per esempio in una Assemblea o una Convenzione costituenti. Il sì e il no conterrebbero entrambi una clausola sottintesa: poi ci si metterà d’accordo. Ma su che cosa? Questo è un parlare ambiguo. Su quale terreno ci si vorrà muovere? in base a quale spirito? Una cosa è lavorare per la Costituzione che abbiamo; una cosa opposta è lavorare per la Costituzione che non vogliamo avere. Si tratta di promuovere due spiriti pubblici, due indoli costituzionali del tutto incompatibili. La condivisione, in questa situazione, nasconderebbe inganni. Anche i tentativi di puro miglioramento tecnico cascano davanti a questa alternativa.
SE tre Presidenti della Repubblica hanno parlato della Costituzione italiana con parole che rimandano al sacro - Oscar Luigi Scalfaro la ricorda come resurrezione civile, Carlo Azeglio Ciampi la chiama sua Bibbia laica, Giorgio Napolitano la paragona alla mosaica tavola dei valori e dei principi in cui riconoscersi - vuol dire che c’è qualcosa di essenziale, nella scelta che gli italiani compiranno il 25-26 giugno quando approveranno o respingeranno la riforma costituzionale varata dalla precedente maggioranza. Secondo alcuni si tratta di scegliere tra il vecchio e il nuovo, fra conservazione e modernità. Altri hanno l’occhio fisso sui futuri negoziati tra partiti, e danno al voto un valore puramente strumentale: c’è chi sostiene che il No faciliterà la ripresa di trattative bicamerali, e chi invece ritiene che solo il Sì la permetterà. Difficile sapere esattamente dove stia la verità, ma non è questa l’essenza su cui saremo chiamati a pronunciarci.
L’essenza su cui voteremo è la natura non immediatamente politica della carta costituzionale: il suo esistere e durare a dispetto dei governi che passano, delle maggioranze che prendono il sopravvento, del voto che porta al potere queste maggioranze, della morte che naturalmente caratterizza il loro destino e sempre sta loro allato. Nell’aureo libretto che ha scritto sulla Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky sottolinea proprio questo punto, pur non negando affatto che la Costituzione e la Corte siano anch’esse figure del vivere politico. Ma lo sono in modo radicalmente diverso, distinto dalla politica che si fa tutti i giorni in Parlamento, nei partiti, e a intervalli regolari nelle urne. La prima politica, quella della Carta, fonda il pactum societatis: il patto fra cittadini, le condizioni istituzionali che consentono loro di non perire in guerre civili, la fiducia che le norme saranno rispettate da tutti. Esso presuppone l’adesione a regole condivise. La seconda politica è il pactum subjectionis: essa produce il governo, e ha al suo centro la forza (Zagrebelsky, Principî e voti, Einaudi 2005).
La Costituzione ritaglia nella democrazia uno spazio sacro che protegge la cosa pubblica dalla contingenza e non a caso predispone argini contro il prevalere del numero, contro il dispotismo potenziale d’ogni maggioranza. È fin da principio che Dio dice a Mosè: «Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso la maggioranza, per falsare la giustizia. Non favorirai nemmeno il debole nel suo processo» (Esodo 23: 2-3). Quel che Zagrebelsky scrive a proposito della Consulta vale per la Costituzione: la sua funzione «è politica, ma allo stesso tempo non appartiene alla politica; è essenziale al nostro modo d’intendere la democrazia, ma allo stesso tempo non viene dalla democrazia». In democrazia sono cruciali il numero, la maggioranza. Nella Costituzione il numero non è tutto: le sue leggi valgono quale che sia il numero dei vincenti, e protegge dall’annientamento i perdenti. Sulla Costituzione «non si vota». I suoi principi «non dipendono dall’esito di nessuna votazione».
Precisamente su quest’essenza voteremo: sull’opportunità o no di sottrarre la Costituzione alle peripezie della politica intesa come governo e come forza basata sui numeri. Sull’opportunità o no di restringere lo spazio sempre più grande, soffocante, che la seconda politica rischia di prendere nella vita dei cittadini e nel loro patto di convivenza. Sul principio che quando è in gioco la Carta non si vota, e in ogni caso non si delibera nei modi in cui ordinariamente si vota in democrazia: a maggioranza. Per questo la scelta non è tra innovazione e conservazione. Non è il vecchio che vale la pena conservare né l’immutabilità d’un ordine, ma l’idea che debbano esistere regole e patti le cui tradizioni e i cui tempi non coincidono con quelli di partiti, governi, programmi.
Quello che si tratta di salvare o non salvare è il corpo duraturo, metafisico, non transeunte del re. I re passano, e ciascuno di essi preso individualmente è mortale e triste - ha «occhi pieni di lacrime», subisce usurpazioni e quando precipita non può che «parlare di tombe, di vermi e di epitaffi», dicono i re spodestati nel ciclo delle Guerra delle Rose di Shakespeare. Quel che non cambia di contro è la Corona, è la regalità: acquisite in tempi passati per elezione divina, incarnate nel pactum societatis a partire dal giorno in cui il diritto divino venne meno. I due corpi del re vanno tenuti disgiunti, perché resti vivo l’inaugurale patto che dissuade dalla guerra di tutti contro tutti, e che fonda un rapporto non effimero, non continuamente modificabile, fra i cittadini e chi li comanda. Nella ricostruzione di Ernst Kantorowicz la Corona è il corpo mistico e immortale del re, ha un carattere sacramentale e indelebile (character indelebilis), non ha i naturali difetti che possiede il monarca: a seconda dei due corpi sono diversi gli onori, il tempo, la natura della forza, l’idea di ciò che è privato e di ciò che è pubblico (I due corpi del Re, Einaudi 1989).
La modernità democratica mostra ogni giorno di non poter fare a meno di queste categorie. Le rivoluzioni stesse sono state negli ultimi secoli stratagemmi cruenti per restaurare il corpo mistico di re che avevano perso la regalità, e che avevano fuso quel che non andava fuso (i due corpi, il privato e il pubblico). Anche i tumulti hanno spesso quest’obiettivo inconfessato. Nel ’68 tutto era votato a negazione, distruzione. Nel Policlinico a Roma ogni cosa venne imbrattata, disfatta: pareti, mobili, autorità. Una sola cosa gli studenti non toccarono mai, misteriosamente: il busto di Umberto I che sta a metà scalinata all’ingresso della direzione dell’ospedale. Il corpus indelebilis doveva restare tale. Sulla corona «non si vota», come non si vota sulla Costituzione.
Può sembrare un paradosso ma proprio su questo voteremo: se sia lecito votare, sulla Costituzione. Se bastino i numeri e le maggioranze tipiche delle democrazie, per riscriverla senza violare magari la lettera della Carta, ma violando di sicuro l’etica istituzionale che l’impregna. Se l’ultima riforma risponda all’esigenza della prima politica o della seconda, se sia il risultato d’una adesione o d’una prova di forza. Per il modo in cui è stata imposta contro la minoranza sembrerebbe che il corpo mistico sia stato offeso, gravemente, anche se l’offesa non è nuova.
Già prima di Bossi e Berlusconi fu un governo di sinistra a imporre modifiche unilaterali, riformando nel 2001 il titolo V della Carta con la sola forza dei propri numeri, e in fine legislatura. Quella fu la prima rottura, irresponsabile; quella la breccia attraverso cui poi ha fatto irruzione Berlusconi. Quel che venne dopo fu una riscrittura ben più sostanziale (non qualche paragrafo ma ben 52 articoli, cui se ne aggiungono 3 nuovi), ma è con piccole smagliature che l’etica istituzionale comincia ad alterarsi. Tanto più che nella riforma del 2005 non mancano correttivi - è lo stesso Augusto Barbera, costituzionalista Ds, a dirlo - che son stati introdotti «per rimediare ai pericoli per l’unità nazionale del federalismo sgangherato del Titolo V dell’Ulivo»: è il caso della clausola sull’interesse nazionale, che può esser invocato per far valere le ragioni dello Stato unitario in caso di crisi di competenze.
Tuttavia non è questo il punto: non è la bontà o malvagità di singoli paragrafi, anche se i paragrafi malvagi sono davvero numerosi. Quel che insidia la Costituzione è l’Opa che vien lanciata su di essa dalla politica, dai partiti, non per ultimo dalle Regioni. Altri modi di mutarla ci devono pur essere, basati sul consenso non di una maggioranza - di parlamentari o Regioni - ma su alleanze ampie almeno quanto fu ampio l’arco costituzionale. Quel che mina la Carta sono le molte bicamerali non sempre trasparenti, che hanno preceduto il finale colpo di forza di Berlusconi. La minoranza di sinistra presentò nel settembre 2003 un suo disegno di legge (i relatori erano Villoni e Bassanini), proponendo alla maggioranza un testo comune, ma quest’ultima la respinse perché ormai voleva una Costituzione nata dalla sola forza dei numeri: una Costituzione non costituzionale, dicono alcuni. È così che ha prevalso il corpo naturale e mortale del re, sulla regalità dell’istituzione che lo trascende perché gli sopravvive. Il corpo naturale s’è impossessato del secondo corpo, ha deciso di far tutt’uno con esso, e lo ha stritolato.
Tutti i punti contestati discendono da questa volontà: il potere assoluto dato al primo ministro, il depotenziamento e l’abolizione di un’enorme quantità di contrappesi (presidenza della Repubblica, opposizione, Parlamento), la politicizzazione della Corte Costituzionale (le nomine politiche aumentano rispetto a quelle non politiche). Discende da questa volontà anche il potere esclusivo dato alle Regioni in materie come scuola, polizia, sanità, cultura. Il giurista Andrea Manzella ricorda come i poteri esclusivi siano assurdi, in una Carta destinata a intrecciarsi con future costituzioni europee e con l’esigenza (già presente nel nostro profetico articolo 11) di superare i poteri sovrani assoluti dello Stato nazione.
Certo è importante che la Costituzione si adatti a un ordinamento mutato, dove la scelta del governo è ormai nelle mani dei cittadini anziché del Parlamento. Il referendum che introdusse il maggioritario, nel 1993, prolungò discussioni già iniziate negli Anni 80. Ma qui siamo di fronte a un patologico accanimento terapeutico, come scrive Luciano Vandelli in Psicopatologia delle riforme quotidiane (il Mulino 2006): siamo di fronte a riforme ciclotimiche, che - come la devoluzione - oscillano tra frenesie e lunghe indolenze; a riforme autistiche, elaborate da un legislatore che è stato indifferente a ogni critica e stimolo esterno; a riforme schizofreniche, che predicano il decentramento e praticano l’accentramento massimo dei poteri del Premier.
La Costituzione sarà cambiata ma - si spera - con metodi diversi da quelli adottati dalla sinistra e poi, con decuplicata faziosità giacobina, dalla destra. Si spiega così, forse, il tiepido impegno del nuovo governo in una campagna referendaria che pure concerne l’essenza del rapporto fra cittadini e potere. Si spera che la Carta cambi non in segrete baite montane come ai tempi di Berlusconi, non in esoteriche bicamerali dove solo conta il rapporto di forza tra partiti: ma all’aperto, sapendo che in discussione è il patto della società, è il corpo non transeunte della cosa pubblica, è la regola di Montesquieu riguardante i contropoteri («È necessario, perché non ci sia abuso di potere, che il potere arresti il potere»). Questo è il sacro che conviene salvare: non la politica alta rispetto alla bassa, ma la sussistenza di due politiche, ciascuna con tempi e aspirazioni differenti. Questa è la dissacrazione (la de-regalizzazione, dice Kantorowicz) cui non sarà irragionevole dire no.
Intervista di Antonella Rampino
«C’è del marcio in Danimarca». Non usa mezzi termini il professor Giovanni Sartori se gli si chiede di valutare l’atteggiamento della maggioranza in vista del referendum che il prossimo 25 giugno potrebbe dare il via libera alla «Malacostituzione» della Cdl, come la chiama il politologo di fama internazionale e autore di molteplici trattati in materia istituzionale. Non per stare ai particolari, «ma ha letto il Riformista? Ha addirittura invitato a votare sì. Ed è un giornale di centrosinistra,no?».
Lei è più preoccupato dallo scarso impegno che l’Unione mette nel sostenere il «no» al referendum, che non delle minacce secessioniste di Umberto Bossi?
«Certo. Perché dove vuole che vada Bossi? In Svizzera? Il suo è solo un ricatto. Se il referendum viene bocciato, la Lega riceverà un colpo mortale, abbandonerà Berlusconi, e il centrodestra sarà pronto a trattare. Ben più grave è se dal centrosinistra arrivano voci a consigliare il sì: qualsiasi motivazione non è tollerabile. E mi spiace dirlo, ma questo indica che la sinistra in Italia non è una cosa seria. Ci sono in Italia elementi della sinistra poco credibili».
Ma l’Unione sembra avere una posizione netta, ha combattuto in Parlamento contro il testo dei «saggi» di Lorenzago...
«In Parlamento, sì: lì hanno fatto fuoco e fiamme. Ma adesso che si arriva al referendum chiesto da loro non fanno quasi niente. Non s’è visto un manifesto, sono stati i singoli e i privati che si sono agitati. Il centrosinistra è stato flaccido, addormentato. Che vuole che le dica, speriamo che si sveglino».
Perché, secondo lei? Si sentono sicuri della vittoria? Flirtano di già con Berlusconi?
«Se si sentono sicuri sono sciocchi. Perché invece siamo in bilico, a me risulta da amici che fanno i sondaggi. E comunque non è un argomento: se si vince, meglio vincere bene che per un voto solo. Il resto è un mistero: sono dieci anni che vediamo una sinistra che consente a Berlusconi di non aver problema di conflitto d’interesse, e così via. C’è sempre qualcuno che, o per stupidità o per interessi privati, pensa come fare un piacere a Berlusconi. Farlo sulla pelle della Costituzione è grave».
Non teme di essere bollato come un girotondino?
«Io non lo sono. Vede, sono un’anziano professore emerito, non ho l’età. Ho sempre detto e scritto queste cose, da una quindicina d’anni almeno. Le faccio notare che non sottoscrivo mai appelli. L’altro giorno Calderoli mi ha detto anche che io sono come Moggi. Non è vero. Naturalmente, solo perché io sono più bello».
Ricordo un convegno a porte chiuse alla Laterza nel quale lei, Elia, Rodotà, Bassanini dicevate: durante la campagna del referendum bisogna contrastare la linea di due costituzionalisti di sinistra, Barbera e Ceccanti. Ovvero la difesa del rafforzamento dei poteri del premier che nella riforma del centrodestra c’è. Ma dopo, se il «no» avesse la meglio, si dovrebbe rimetter mano a quei poteri?
«Perbacco, certo! Sono decenni che lo dico: ci sono 5 o 6 riforme cui metter mano. Una vera sfiducia costruttiva, alla tedesca per capirci. Che il presidente del Consiglio possa nominare da solo il suo governo. Un Bicameralismo efficiente, un federalismo non finto. Cose che si possono fare, una volta detto di no a questa riforma, attraverso l’articolo 138 della Costituzione. Quanto a Barbera e Ceccanti, il punto è che la loro è una linea che divide il fronte del «no». Quando invece ci sono duecento costituzionalisti, non nani e ballerine evvero, che fanno presente come il premierato della Cdl sia assoluto. Questo poteva dare il prestesto a Mediaset per fare una sua campagna referendaria. Non è successo, per ora. Infatti adesso la Cdl lancia il messaggio della riduzione dei parlamentari, dei costi minori, della pretesa efficienza del governo. Ma il servizio pubblico, intanto, che fa?».
Per un settennato ha difeso la Costituzione dal Colle più alto, attirandosi anche qualche sempiterna inimicizia da chi auspicava interpretazioni più 'elastiche'. Oggi Oscar Luigi Scalfaro, 87 anni, già membro della Costituente e poi deputato e ministro di lungo corso, ha accettato di presiedere il Comitato per il No. Salviamo la Costituzione, creato per condurre la battaglia referendaria del 25 e 26 giugno contro la riforma della Carta varata dal centrodestra. E ha svolto questo ruolo senza risparmiarsi, correndo da una parte all'altra d'Italia, partecipando a dibattiti e kermesse di ogni tipo. E suscitando entusiasmo specie tra i più giovani, accorsi in gran numero. Quali sono gli argomenti che il presidente emerito considera più convincenti per un voto contro la devolution incarnata in questa riforma? 'L'espresso' gliel'ha chiesto.
Se vincono i 'No' non si rischia di buttar via il bambino con l'acqua sporca, cioè assieme ad alcune brutture anche aspetti positivi, come la riduzione dei parlamentari?
"Si fa molta propaganda, e un po' di demagogia, sul taglio dei seggi. Ben vengano i risparmi, magari se ne potrebbero fare di più con una sola Assemblea anziché due. Ma la decurtazione è secondaria rispetto al problema reale...".
Che sarebbe...
"Il Parlamento è espressione del popolo: quest'ultimo paga le tasse anche per dargli voce. Sarebbe certo meglio se le due Camere costassero meno, ma è prioritario che i poteri delle Assemblee non vengano demoliti. E uno dei dati maggiormente negativi della riforma è invece proprio che il ruolo del Parlamento ne esce assai mortificato. Oggi mette al mondo il governo con la fiducia e lo manda a casa con la sfiducia; domani non solo il primo ministro verrebbe indicato dagli elettori, ciò che di fatto già avviene, non solo il premier sceglierebbe i ministri (e anche questo sarebbe accettabile), ma non dovrebbe più chiedere la fiducia e, soprattutto, la Camera non ha più il potere di dare o negare la fiducia. Nella Costituzione del '48 Parlamento e governo sono legati da un cordone ombelicale che verrebbe reciso. Addirittura si apre la possibilità che se il Parlamento riuscisse a mandare a casa il governo, esso stesso si scioglierebbe automaticamente. In più, finora le Assemblee hanno eletto un capo dello Stato forte, d'ora in poi non sarebbe più così, anche se sta scritto che sarebbe il garante della Costituzione e dell'unità federale dello Stato: ma con quali mezzi? Con quali poteri?".
Non le pare che tutto ciò sia un prezzo da pagare per rafforzare i poteri del premier e quindi la stabilità dei governi?
"Non è un rafforzamento: è l'onnipotenza del primo ministro che ha il potere di scioglimento senza contrappesi e garanzie. Può mandare a casa i deputati, gli unici che hanno un'investitura politica democratica, se solamente non votano una legge che lui ritiene essenziale. Per giustificare questo radicale mutamento degli assetti costituzionali vengono ricordate le molte crisi di governo che si sono verificate in passato. Ma Alcide De Gasperi ha governato per circa sette anni, passando attraverso varie crisi senza però che il presidente Luigi Einaudi avesse granché da fare: infatti De Gasperi aveva una maggioranza di governo decisamente stabile. È questo il punto importante. Poi le formule per limitare le crisi troppo facili sono molte, ad esempio la soglia tedesca per entrare in Parlamento, ed è bene scegliere la più opportuna, ma senza giungere a dare al primo ministro un potere così ampio come quello di licenziare la Camera, diminuendo - così facendo - l'importanza del voto dei cittadini. Oggi votiamo parlamentari che hanno dei poteri, domani deputati che sulla testa hanno la spada di Damocle di poter essere cacciati di punto in bianco".
La nuova configurazione costituzionale avrebbe un effetto anti-ribaltone.
"Ribaltone è un termine propagandistico. È nato quando ero presidente della Repubblica e il governo entrò in crisi: la Lega dichiarò che non lo avrebbe più votato. Era un governo legato da una solidarietà numerica, non politica. Silvio Berlusconi venne da me a rimettere il mandato e mi chiese: lo scioglimento delle Camere, le elezioni, e il tutto da svolgere con il suo governo già dimissionario. Gli ho risposto tre no, diversamente sarei stato imputabile di alto tradimento perché avrei fatto un atto totalmente in favore di una parte e a danno dell'altra. Questo fu chiamato ribaltone. Ma dove stava scritto che avrei dovuto sciogliere le Camere perché il governo era andato in crisi? Pure nei paesi dove il maggioritario è molto radicato non esiste lo scioglimento automatico del Parlamento".
La devolution è più pericolosa perché mina l'unità del paese, perché rende più inefficaci i processi decisionali o perché ha un costo alto?
"Certamente il punto fondamentale è che si spezza l'unità del paese. Bastano due esempi: sanità e scuola. Ci ritroveremmo con due cittadini italiani a pieno titolo, con gli stessi diritti e doveri, con le medesime necessità sanitarie, trattati in maniera molto diversa a seconda della regione in cui risiedono. È inaccettabile. L'articolo 5 della Costituzione dice che 'la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali'. Ma se l'autonomia valica determinati limiti, l'uguaglianza dei diritti e dei doveri dei cittadini ne esce distrutta".
Aumenterà la conflittualità Stato-Regioni?
"Già oggi il dialogo Stato-Regioni è notevolmente conflittuale, basta vedere il numero delle cause pendenti alla Corte costituzionale. Con la riforma aumenterebbero, sia perché l'indicazione delle competenze esce da quei binari fondamentali che lo Stato solo ha il dovere di indicare, come nel caso della scuola, sia perché non sono affatto delineate chiaramente nelle materie e nei loro limiti. Inoltre la conflittualità si riduce quando si ha una giurisprudenza consolidata della Consulta: ma per ottenerla ci vogliono decenni. Sorvolo sui conflitti che nascerebbero per i poteri non chiari attribuiti al Senato che nasce su base regionale e può perfino eleggere quattro giudici costituzionali: insomma, una parte si nomina i propri giudici".
Nella sua esperienza ha mai avvertito problemi di vetustà della Costituzione?
"No. Basti pensare ad articoli come l'11 sul 'ripudio della guerra' e sull'accettazione 'in condizione di parità con gli altri Stati, delle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni'. I costituenti - c'ero anch'io, giovanissimo, e molto imparai - hanno dimostrato grande lungimiranza. All'indomani della Seconda guerra mondiale compresero che i caratteri fondamentali dei conflitti erano mutati, che a farne le spese, più ancora dei soldati al fronte, erano soprattutto le popolazioni inermi delle città. Cosa sempre più vera, tanto che oggi gli storici si pongono un tremendo interrogativo: i bombardamenti sulle popolazioni civili sono atti di guerra o manifestazioni di terrorismo? E poi soprattutto la rinuncia a una parte della sovranità nazionale fu allora un luminoso sguardo sul futuro, un grande segno di civiltà".
Il 'No' alla riforma è un 'no' a ogni cambiamento sostanziale della Costituzione?
"Quando fui eletto capo dello Stato, nel '92, nel discorso del giuramento ho ricordato che da decenni si discuteva di riforme e ho invitato il Parlamento ad affrontarle in concreto. Ora, passati gli anni, preciso in sintesi: anzitutto non si possono toccare i principi fondamentali relativi alla persona umana. Quando si vuole riformare occorre tenere sempre presenti due vincoli. Il fine sostanziale di ciò che viene cambiato deve essere l'utilità del cittadino; inoltre, ogni mutamento deve essere approvato da una maggioranza ampia, non meno dei due terzi, come ho sempre sostenuto anche da presidente. Non è un caso che oggi siamo alla vigilia di un referendum confermativo: i costituenti, che nel '47 votarono la Carta con quasi il 90 per cento dei consensi, previdero questo passaggio qualora le modifiche non avessero ottenuto almeno i due terzi dei voti. Oggi quindi siamo di fronte a una legge 'sospesa', a cui manca il voto referendario. Secondo l'articolo 138 della Costituzione il referendum può essere richiesto da un quinto dei componenti della Camera, o del Senato, o da almeno cinque consigli regionali. Tutto ciò è stato fatto, ma noi responsabili del Coordinamento nazionale abbiamo ritenuto essenziale raccogliere anche le firme popolari perché tutti siamo consapevoli che la Carta è di ciascun cittadino".
Per cambiare la Costituzione basta l'articolo 138 o dobbiamo pensare a una Costituente o a una Convenzione?
"Penso che il 138 sia sufficientemente saggio, aggiungerei però la soglia dei due terzi al posto della maggioranza assoluta attuale. In fin dei conti già oggi, se il Parlamento vota con la maggioranza dei due terzi, le modifiche costituzionali possono venire promulgate subito, senza l'attesa di tre mesi altrimenti necessaria. Quanto alla creazione di una Costituente, mi sembra fosse una strada obbligata nel '46: lo Statuto albertino era morto schiacciato dalle riforme dittatoriali e il 25 luglio '43 con il regime erano cadute anche le istituzioni. Oggi mi sembra assai meno necessaria, in presenza di una Costituzione operante. La Convenzione, infine, altro non è che una commissione. Non mi pare che nel caso della Costituzione europea abbia dato buona prova, a giudicare dalle bocciature raccolte. Ma è pur vero che quella Convenzione è stata espressione dei governi e non dei Parlamenti che le avrebbero dato base più autorevole".
Tra i sostenitori del 'Sì' ve ne sono che promettono modifiche dopo il referendum. Promesse speculari provengono da molti sostenitori del 'No'. Che ne pensa?
"Sono posizioni idonee a creare confusioni, perché possono parere simili: 'poi si discute'. In realtà sono diametralmente opposte. Quando si vota 'No' si cancella ciò che è stato scritto e poi ci si mette intorno a un tavolo sul quale non c'è nessun progetto precostituito. Se invece prevalgono i 'Sì', anzitutto il capo dello Stato deve promulgare la legge, anche se entra in vigore qualche tempo dopo. L'impegno a discuterla è un impegno politico, non costituzionale. Nel frattempo si dà il crisma di legge costituzionale alla riforma e modificarla diventa assai difficile".
UNA angoscia inespressa tormenta gli spiriti più avvertiti. Fra pochi giorni - il 25 e 26 giugno - siamo chiamati a votare sulla Costituzione, ma l'appuntamento sembra avvicinarsi nella distrazione e nella stanchezza politica degli italiani. Pochi i manifesti sui muri, dove dominano, peraltro, i Sì berlusconiani, grazie anche a una dovizia inesauribile di mezzi; pochi i comizi; deludenti e noiosi i dibattiti e gli spot in tv.
I partiti o, meglio, i "padroni delle liste", così accaniti durante la campagna elettorale e poi, nell'ultimo mese, rabbiosamente impegnati nella spartizione di poltrone, poltroncine e sedie aggiunte, deleghe "spacchettate" e quant'altro, dedicano queste ore soprattutto a opere di consolazione degli afflitti, alias di quanti, per l'uno o l'altro motivo, si son visti esclusi dalla prima scelta parlamentare o ministeriale. Si moltiplicano le promesse, fatte balenare magari a più d'uno, per le cariche di sottogoverno. Il voto del 25-26 viene dopo, quasi si trattasse di un altro referendum sulla caccia.
Si distinguono, per contro, per il loro impegno i valenti giuristi del Comitato "Salviamo la Costituzione", gli intellettuali del movimento "Libertà e Giustizia" ed alcune personalità politiche consapevoli della posta in gioco, da Oscar Luigi Scalfaro a Piero Fassino. La sottovalutazione viene da lontano, almeno da quando il governo di centro destra presentò il progetto al Parlamento e autorevoli leader della sinistra si premurarono subito di rassicurare quanti si allarmavano affermando che era solo una mossa strumentale di Berlusconi per dare un contentino a Bossi: "Vedrete, si limiteranno a votarlo in prima lettura e tutto verrà poi rinviato alla prossima Legislatura". Quando, invece, le Camere approvarono in seconda e definitiva lettura i soliti soloni appesero il loro ottimismo alla certezza che, comunque, il referendum popolare avrebbe certamente spazzato via quella sconcezza. Ora, infine, per giustificare tanta accidia politica, sembrano affidarsi al basso profilo con cui la destra affronterebbe, a loro avviso, la campagna referendaria: "Se Berlusconi non bombarda l'opinione pubblica con i soliti effetti speciali, vuol dire che dà per scontata la sconfitta". E con questa "speranziella" si tranquillizzano, senza riflettere che, se la strategia del centrodestra rifugge dalle tematiche costituzionali più impegnative, controverse e di largo impatto, una ragione c'è: far credere agli elettori che si tratta di ridurre il numero dei deputati, eliminare l'inutile doppione perditempo di Camera e Senato, diminuire i costi del parlamentarismo. Tutti slogan fasulli ma di pronta resa, immediata comprensione, scontata popolarità per una opinione pubblica disinformata e abbandonata colpevolmente a se stessa. Illusoria suona, infine, l'ipotesi ventilata in qualche anticamera di palazzo Chigi secondo cui se Prodi e gli esponenti della maggioranza si tengono defilati dalla contesa, alcuna conseguenza ne verrà per il governo, pur se prevalesse il Sì. Auguriamoci che un simile esito non sussista, poiché se, per disavventura immane, si verificasse l'ondata di delegittimazione costituzionale, suffragata dal voto, risulterebbe assai difficilmente arginabile.
Non appare, infine, di gran conforto il dibattito, se pur ristretto nell'ambito di una audience qualificata, che si sta svolgendo sulle opzioni di modifica della Costituzione, una volta respinto il pasticcio Calderoli. Se è vero che la stragrande maggioranza degli studiosi parteggia per il No e pospone a questo l'eventuale nuova riforma, è altrettanto evidente che il messaggio percepito dall'italiano della strada è, nel migliore dei casi, quello di un dibattito di ingegneria istituzionale (dal ruolo del premier a quello del Presidente della Repubblica, dalle sovrapposizioni delle legislazioni concorrenti alla composizione della Consulta, dalle funzioni amministrative dei comuni ai nuovi compiti delle regioni). Tutte cose che non lo appassionano né gli permettono di valutare chiaramente la posta in gioco. In fondo, molti possono dirsi, se la Costituzione è un ingranaggio che non funziona più se la vedano loro come aggiustarla.
Ma non è così. La posta è ben più alta. Riguarda l'Italia, la sua storia, il suo futuro, il tipo di Paese che i cittadini vogliono, l'eguaglianza dei diritti, le garanzie di una democrazia liberale opposta alle dittature delle maggioranze, sia pure di volta in volta alternative, l'unità della Patria. Non temiamo, dunque, di essere accusati di retorica patriottica se cominciamo proprio da qui ricordando agli immemori quante speranze, sangue, sacrifici e sofferenze sia costata l'unificazione dell'Italia, dal Risorgimento a Vittorio Veneto e la riconquista della democrazia e della libertà, dalla Resistenza alla Costituzione del 22 dicembre 1947.
Butteremo tutto a mare per inseguire i vaneggiamenti leghisti, le pulsioni secessioniste di una infima minoranza tramutate in falso federalismo con la malleveria di Berlusconi e il pusillanime assenso di Fini e Casini? La storia di un paese ha un valore, un'intima coerenza che l'ha animata per generazioni e che non può essere travolta e bistrattata se non a scapito della sua identità profonda.
Non più italiani, torneremmo in un arco di tempo non troppo lungo, a sentirci soprattutto lombardi e siciliani, veneti e pugliesi. I modelli federali esistenti - in primo luogo il tedesco e l'americano - non mettono certamente in gioco l'unità della Nazione. Nella Costituzione germanica, ad esempio, c'è solo l'elenco delle competenze esclusive dello Stato, mentre la facoltà dei laender di legiferare sul resto è temperata dalla possibilità del Parlamento di intervenire quando lo reputa necessario per garantire l'unità giuridica ed economica del Paese o l'eguaglianza dei cittadini. Negli Stati Uniti fin dall'800 la Corte Suprema legifera imponendo la "supremacy clause", la clausola di supremazia che supera ogni istanza federale. La stessa filosofia ispira la pienezza legislativa del Congresso.
La devoluzione leghista che si vorrebbe approvare è tesa, invece, a strappare allo Stato, affidandoli alle Regioni, diritti esclusivi di legislazione. Qui è la miccia dell'esplosione dell'unità nazionale. Si dice - ed è già gravissimo - che la minaccia riguarderebbe solo tre settori: la sanità, la scuola e la polizia regionale. Inutile dilungarsi qui su cose già dette: avremmo, malgrado risibili clausole di salvaguardia, venti sistemi sanitari diseguali, venti sistemi scolastici con svariate ore di materie "locali", dal dialetto alle costumanze folcloristiche, venti polizie regionali da affiancare ai troppi corpi già esistenti (Ps, Carabinieri, GdF, polizia penitenziaria, forestale, municipale). Ma, oltre a ciò, la costituzione berlusconian-leghista affida alla competenza esclusiva della legislazione regionale tutte quelle materie che non siano espressamente riservate allo Stato. Questo si vedrebbe, quindi, sottratte l'agricoltura, il turismo, il commercio, l'artigianato, quasi tutta l'industria, salvo l'energia. Non ci sarebbe spazio per quasi nessuna politica nazionale, dalla promozione del territorio alla rappresentanza degli interessi italiani in sede europea e internazionale. Tanto varrebbe seguire l'esempio balcanico che in poco tempo ha variegato la carta geografica con la riemersione di Serbia, Bosnia, Montenegro, Slovenia, Sangiaccato, Macedonia, Kosovo e via continuando.
Sotto un profilo più generale la Carta del 1947 risulterebbe praticamente semicancellata con 53 articoli annullati o riscritti e la prima parte, apparentemente salva ma sostanzialmente insidiata. Sul vulnus parziale della modifica del titolo V, improvvidamente inferto nel 2001 dal centrosinistra, si è così innestato un ben più corposo e dirompente tsunami. Quel che è peggio sta passando nella mentalità corrente l'idea che la costituzione sia una legge come tutte le altre, sì che ogni maggioranza, vieppiù in un sistema di alternanza, può, di volta in volta, scomporla e ricomporla a seconda delle sue specifiche aspirazioni, convenienze tattiche, contingenze impreviste. Di qui la tendenza ad accompagnare l'alternanza elettorale alla dittatura della maggioranza che si sente officiata a tutto occupare e a tutto stravolgere, proprio in contrapposizione al costituzionalismo moderno, imperniato sulla definizione dei limiti e alla separazione dei singoli poteri istituzionali così da garantire diritti e regole comuni per tutti i cittadini. Qui sta, appunto, il significato fondamentale della Costituzione oggi in pericolo: una tavola, elaborata in una stagione di alta temperie delle forze politiche, che dai cattolici ai comunisti, dai liberali ai socialisti seppero definire valori e principi capaci assicurare la convivenza civile degli italiani in anni, dal '47 ad oggi, attraversati da un epocale scontro di civiltà, da guerre, da lotte sociali e politiche asperrime, da sconvolgimenti economici e sociali profondissimi, senza che mai venissero meno le garanzie di democrazia e di libertà, la correttezza istituzionale, le possibilità di introdurre nuovi diritti prima inediti (dalla salute al divorzio, dal codice di famiglia all'aborto). Quel quadro costituzionale ha retto a tutte le prove e va nella sua sostanza strenuamente difeso. Se qualche inceppo funzionale si è rivelato col tempo nulla impedisce che si introducano modifiche di razionalizzazione opportunamente concordate. Soprattutto va tenuto presente che le falle di governabilità che devastano la vita politica italiana non dipendono da arretratezze costituzionali ma dalla dissennatezza di una legge elettorale che esula per la sua stesura dai dettami della Carta.
Ormai siamo al dunque. Nel 390 a. C. i romani dormienti, mentre i Galli di Brenno stavano per farli a pezzi, vennero risvegliati in tempo dallo schiamazzare delle oche del Campidoglio. Chi sveglierà ora gli stanchi combattenti dell'Ulivo?
DIECI ANNI FA - si erano appena svolte le elezioni - don Giuseppe Dossetti capì dove si sarebbe arrivati. E il 15 aprile 1994 scrisse una lettera al sindaco di Bologna, Vitali, per denunciare i pericoli di "una modificazione frettolosa e inconsulta del patto fondamentale del nostro popolo, nei suoi presupposti supremi". Da quella lettera sorsero i "comitati per la difesa della Costituzione".
Ma neppure don Dossetti poteva immaginare allora quel che oggi possiamo vedere. E cioè che l´attacco alla nostra Costituzione è solo una faccia di un attacco generalizzato al costituzionalismo, come necessità democratica di limitazioni al potere. E che, dunque, dopo la Costituzione italiana l´offensiva coinvolge anche l´ordinamento costituzionale europeo. Perché anche esso, in fondo, è portatore di "lacci e lacciuoli" alla concezione assolutistica del governo.
D´altra parte l´intreccio, in tutta l´Unione, tra costituzioni nazionali ed ordinamento europeo, è così stretto che liberarsi dell´una senza coinvolgere l´altro è divenuto impossibile. Questo intenso rapporto negli ultimi tempi si è rafforzato. La necessità sempre più pressante di Unione sembra invertire una vecchia tendenza: sono le elezioni nazionali che si europeizzano, come è avvenuto in Spagna. E non più le elezioni europee che si nazionalizzano. Uno scambio che è perfino sottolineato in significativi passaggi di personale politico da posizioni chiave nel governo dell´Unione a posizioni chiave nei governi nazionali: com´è avvenuto per il francese Barnier e per lo spagnolo Solbes.
In realtà, tutti hanno capito in Europa - dal Portogallo alla Polonia, dalla Finlandia a Malta - che lo stragismo dell´11 marzo non va solo fermato con misure di polizia. Che la necessità di usufruire di un quadro istituzionale unico, la Costituzione europea appunto, che eleva a sistema razionale e compiuto la paziente costruzione di cinquant´anni, è necessità che va affrontata senza più rinvii.
Costituzione, ora, significa innanzitutto cooperazione nella sicurezza e nelle informazioni ad essa relative. Cooperazione nell´attività giudiziaria. Concretizzazione di una difesa comune. Ma anche una politica esterna incentrata sul ministro degli esteri dell´Unione. E una politica economica incentrata su un altro ministro che si faccia carico di quella grande concorrenza tra sistemi economici nazionali verso fini comuni che si chiama "strategia di Lisbona".
I governi di Spagna e di Polonia sono stati travolti, perché i punti su cui si era bloccato a Bruxelles il negoziato per la Costituzione, erano Termopili di cartapesta. Di fronte alla prospettiva di una finis Europae, tutti hanno riguadagnato in fretta i tre capisaldi per cui di una Costituzione non si può più fare a meno. Si tratta del disegno unitario di istituzioni e competenze: quell´ordinamento che possa sopportare e assorbire al suo interno la inevitabile spinta delle differenziazioni fra Stati che procedono a diversa velocità di integrazione.
Si tratta del linguaggio comune di leggi e atti amministrativi: quel codice condiviso dei segni del diritto che consenta ad ogni europeo di comprendere i termini politici ed economici della sua condizione di cittadinanza. Si tratta della Carta dei diritti fondamentali degli europei: la loro carta di identità, quella per cui la persona umana è al centro di ogni politica dell´Unione. E questa può presentarsi davanti al resto del mondo come continente dei diritti. Come nella felliniana "Prova d´orchestra", la furia distruttrice a cui è stata sottoposta l´Europa, cambia l´ordine delle priorità, accelera le urgenze e fa emergere l´essenziale delle cose che si devono fare.
Tutti hanno capito. Meno chi governa in Italia. Dove in ogni situazione europea il peso del vincolo e l´accidia del rendiconto prevalgono sull´interesse nazionale a rioccupare la testa dell´Unione. Si vede nell´ordine economico: dove il patto di stabilità è considerato nella serie (tristemente famosa nel linguaggio di questo governo) dei "rompimenti". E quindi da valutare allegramente (assieme agli interessi del nostro debito pubblico) prima di pensare seriamente a concordare con gli altri europei una sua interpretazione adeguatrice. Si vede nell´ordine della cooperazione giudiziaria: dove per il mandato di cattura europeo, che figura al primo posto nelle misure antiterrorismo, arriviamo tra gli ultimissimi. Si vede nella politica per la pace e la lotta al terrorismo dove perdurano i danni della divisione artificiosamente introdotta nell´Unione dalla sventurata iniziativa Aznar-Berlusconi. Una divisione che ha impedito all´Unione europea di presentarsi come forza coerente, unitaria sulla scena internazionale, capace di svolgere una missione di equilibrio nell´interesse suo e degli stessi Stati Uniti.
Non meraviglia che tutto questo conduca all´aperto scetticismo espresso dal governo italiano sulla possibilità di arrivare al più presto al trattato costituzionale europeo. Uno scetticismo che diventa contrarietà sostanziale appena dissimulata dal paradossale invito rivolto dal governo alla sua maggioranza parlamentare a rifiutare ogni "compromesso al ribasso". Come se fosse questo nostro governo ad avere in mano, più di ogni altro governo europeo, il parametro su cui valutare i risultati del negoziato in corso (prima ancora che sia concluso). Come se questo governo, che ha condotto l´Italia alla condizione di "democrazia monitorata" e di "nazione in ritardo" potesse avere - esso solo - ragione rispetto agli altri 24 Stati "in torto". Come se un rifiuto solitario di Costituzione europea potesse avere una qualche ragione di interesse nazionale: dal momento che già sappiamo che la situazione di non-Costituzione è quella più favorevole alla nascita di direttori, dai quali questo governo è fatalmente escluso.
A ben vedere questa che si agita contro il costituzionalismo europeo è la stessa logica che l´attuale governo pone a sostegno della sua offensiva contro il costituzionalismo interno. Si sono cancellate le preliminari esigenze di riequilibrio e di messa in sicurezza del nostro sistema politico, sbandato dal cambio di legge elettorale. Su questo peccato capitale per omissione si è innestato il tentativo di devitalizzare completamente le garanzie preesistenti: presidente della Repubblica e Corte costituzionale. Accentuato così il dissesto del sistema, si pretende da un lato, l´accrescimento incontrollato dei poteri istituzionali del premier. Dall´altro, la triturazione dell´uguaglianza di cittadinanza quando più se ne ha bisogno (cioè quando si è ammalati, quando si va a scuola, quando vi è necessità di tutela da parte delle forze di polizia).
Insomma, Costituzione italiana, Costituzione europea appaiono come due impacci da cui liberarsi con lo stesso "facile pretesto non alla impossibilità ma alla incapacità di governare".
Don Giuseppe Dossetti condensava, dieci anni fa, i suoi timori e le sue speranze nella domanda di Isaia: «Sentinella, quanto resta della notte?». Purtroppo, in Italia, in Europa la notte è per noi assai fonda e non si vedono ancora spuntare le prime luci dell´alba
CAMERA DEI DEPUTATI:
La Camera sarà l'organo politico e sarà costituito da 518 deputati (oggi sono 630), di cui 18 eletti nelle circoscrizioni estere, oltre ai deputati a vita, nominati dal capo dello Stato, che potranno essere al massimo tre. Di diritto gli ex presidenti della Repubblica. L'età minima per essere eletti scende a 21 anni (adesso è 25). La Camera è eletta per cinque anni. Le Commissioni d'inchiesta istituite dalla Camera avranno gli stessi poteri dell'autorità giudiziaria; la loro presidenza sarà assegnata all'opposizione.
SENATO FEDERALE: I senatori saranno 252 (oggi sono 315), eletti in ciascuna Regione insieme all'elezione dei rispettivi consigli regionali. A questo numero si sommeranno i 42 delegati delle Regioni, che partecipano ai lavori del Senato federale senza diritto di voto: due rappresentanti per ogni regione più due per le Province autonome di Trento e Bolzano. Sarà eleggibile chi ha 25 anni (oggi 40 anni). Con la proroga dei Consigli regionali e delle province autonome sono prorogati anche i senatori in carica.
CAPO DELLO STATO: Il presidente della Repubblica non è più il rappresentante dell'unità nazionale, ma «rappresenta la Nazione ed è garante della Costituzione e dell'unità federale della Repubblica». Sarà eletto dall'Assemblea della Repubblica, presieduta dal presidente della Camera dei deputati e composta da tutti i parlamentari, i governatori e i delegati regionali. Può diventare presidente della Repubblica chi ha compiuto 40 anni (oggi 50). Il capo dello Stato è eletto a scrutinio segreto con la maggioranza dei due terzi dei componenti l'Assemblea della Repubblica. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei componenti. Dopo il quinto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta. Il capo dello Stato indice le elezioni della Camera e quelle dei senatori. Nomina i presidenti delle Autorità indipendenti, il presidente del Cnel e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm) nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere.
PREMIERATO: Non c'è più il presidente del Consiglio, ma il Primo ministro. Nomina e revoca i ministri (adesso spetta al capo dello Stato, su proposta del premier), determina (e non più «dirige») la politica generale del governo e dirigerà l'attività dei ministri. Il Primo ministro non dovrà più ottenere la fiducia dalla Camera, ma dovrà soltanto illustrare il suo programma sul quale la Camera dei deputati esprimerà un voto. Inoltre potrà porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera si esprima «con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del governo». In caso di bocciatura deve dimettersi. Il Primo ministro viene eletto mediante collegamento con i candidati ovvero con una o più liste di candidati, norma che consente l'adattamento sia al sistema maggioritario che a quello proporzionale.
NORMA ANTI-RIBALTONE E SFIDUCIA COSTRUTTIVA: In qualsiasi momento la Camera potrà obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l'approvazione di una mozione di sfiducia firmata almeno da un quinto dei componenti (ora è un decimo). Nel caso di approvazione, il Primo ministro si dimette e il presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera. Il Primo ministro si dimette anche se la mozione di sfiducia è stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni. Garante di questa maggioranza sarà il presidente della Repubblica, che richiederà le dimissioni del Primo ministro anche nel caso in cui per il voto favorevole a una questione di fiducia posta dal Primo ministro sia stata determinante una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne. Entra in Costituzione anche la mozione di sfiducia costruttiva: i deputati appartenenti alla maggioranza uscita dalle urne, infatti, possono presentare una mozione di sfiducia con la designazione di un nuovo Primo ministro. In tal caso il premier in carica si dimette e il capo dello Stato nomina il Primo ministro designato nella mozione.
DEVOLUTION: Le Regioni avranno potestà legislativa esclusiva su alcune materie come assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia amministrativa regionale e locale. Tornano a essere di competenza dello Stato la tutela della salute, le grandi reti strategiche di trasporto e di navigazione di interesse nazionale, l'ordinamento della comunicazione, l'ordinamento delle professioni intellettuali, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionali dell'energia, l'ordinamento di Roma; la promozione internazionale del made in Italy.
INTERESSE NAZIONALE E CLAUSOLA DI SUPREMAZIA: L'interesse nazionale prevede che il governo, qualora ritenga che una legge regionale pregiudichi l'interesse nazionale della Repubblica, invita la Regione a rimuovere le disposizioni pregiudizievoli. Se entro 15 giorni il Consiglio regionale non rimuove la causa del pregiudizio, il governo entro altri 15 giorni sottopone la questione al Parlamento in seduta comune che con maggioranza assoluta può annullare la legge. Il presidente della Repubblica entro i successivi 10 giorni, emana il decreto di annullamento. La clausola di supremazia, invece, prevede che lo Stato può sostituirsi alle Regioni, alle città metropolitane, alle Province e ai Comuni, nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica ovvero quando lo richiedano la tutela dell'unità giuridica o economica o i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali.
ITER LEGISLATIVO: La Camera esamina i disegni di legge riguardanti le materie che il nuovo articolo 117 affida alla legislazione esclusiva dello Stato. Dopo l'approvazione il Senato federale può proporre modifiche entro trenta giorni sulle quali sarà comunque la Camera a decidere in via definitiva. All'Assemblea di Palazzo Madama spetterà l'esame e la parola definitiva, invece, sui provvedimenti riguardanti le materie concorrenti. Le questioni di competenza tra le due Camere sono risolte dai presidenti delle Camere o da un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi presidenti. La decisione dei presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. Per alcune materie comunque resta il procedimento bicamerale. In caso di disaccordo tra le due Camere, il testo sarà proposto da una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, convocata dai presidenti delle Camere, e sottoposto al voto finale delle Assemblee.
CLAUSOLA DI ESSENZIALITÀ: Se il governo ritiene che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all'esame del Senato, siano essenziali per l'attuazione del suo programma approvato dalla Camera, il presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro a esporne le motivazioni al Senato federale che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera dei deputati che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte. I disegni di legge del governo avranno comunque una via preferenziale nel calendario dei lavori delle Camere. Se l'esecutivo lo richiede, verranno iscritti all'ordine del giorno e votati entro tempi certi.
PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato, che esercitano le loro funzioni secondo i principi di leale collaborazione e sussidiarietà.
ROMA CAPITALE: Roma è la capitale della Repubblica e dispone di forme e condizioni particolari di autonomia, anche normativa, nelle materie di competenza regionale, nei limiti e con le modalità stabiliti nello Statuto della regione Lazio.
FEDERALISMO FISCALE: Entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge di riforma costituzionale sarà assicurata l'attuazione del federalismo fiscale. Sono fissati dei limiti per cui in nessun caso l'attribuzione dell'autonomia impositiva alle Regioni, alle Province, alle città metropolitane e ai Comuni può determinare un incremento della pressione fiscale complessiva. Inoltre, viene inserito il concetto di sussidiarietà fiscale: il cittadino su alcune spese come a esempio quelle di mantenimento dei figli, invece di pagare le tasse per richiedere poi il rimborso a livello regionale, può detrarle direttamente dalla dichiarazione dei redditi.
CORTE COSTITUZIONALE: Aumentano i giudici di nomina parlamentare nella Corte Costituzionale. La Consulta sarà composta da 15 giudici: quattro nominati dal presidente della Repubblica, quattro dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative; tre giudici sono nominati dalla Camera dei deputati e quattro dal Senato federale della Repubblica integrato dai governatori. È previsto che, concluso il mandato, nei successivi tre anni non si possano ricoprire incarichi di governo, cariche pubbliche elettive o di nomina governativa o svolgere funzioni in organi o enti pubblici individuati dalla legge.
CSM: I componenti del Csm, oltre a quelli eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, sono eletti per un sesto dalla Camera dei deputati e per un sesto dal Senato federale della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio. La Costituzione attualmente, invece, prevede che siano eletti per un terzo dal Parlamento in seduta comune. Il presidente della Repubblica nomina il vice presidente del Csm nell'ambito dei componenti eletti dalle Camere.
ENTRATA IN VIGORE: La nuova Costituzione entrerà in vigore in tempi diversi. Devolution, interesse nazionale e clausola di supremazia saranno effettivi subito con l'entrata in vigore della riforma, mentre per il resto dipenderà da quando si terrà il referendum confermativo. Se questo sarà fatto prima delle prossime elezioni politiche, le norme entreranno in vigore dalla nuova legislatura, però il Senato federale sarà effettivo nella sua composizione solo dal 2011. Invece, se il referendum si terrà dopo le elezioni politiche del 2006, la riforma entrerà in vigore nel 2011 e il Senato federale sarà effettivo solo dal 2016.
da il "Corriere.it"
Due sono le nozioni di politica e possono entrare in rapporto. La prima è la cooperazione tra alleati, per creare convivenza e inclusione sociale, cioè, secondo Aristotele, amicizia. La seconda è conflitto tra avversari per il sopravvento, dove conquista ed esercizio del potere pubblico sono la posta in gioco. Teniamo per ora sullo sfondo questa duplicità: convivenza e competizione. Sarà presto utile.
Tra le ragioni della giustizia costituzionale, cioè del controllo giudiziario su procedure e contenuti delle decisioni collettive - le leggi, in primo luogo - c´è quella che vado a esporre.
In un´ideale società rigorosamente omogenea, composta di esseri umani identici per capacità, ideali, interessi, gusti e aspirazioni, l´adozione delle decisioni collettive potrebbe essere affidata indifferentemente - per passare da un estremo all´altro - a un´assemblea che delibera all´unanimità o a un singolo che decide in generale, da solo e per tutti. Chi faccia parte dell´assemblea o chi sia questo solitario legislatore sarebbe, poi, del tutto indifferente; onde costoro potrebbero anche scegliersi a caso, tirarsi a sorte. Situazioni di questo genere si sono realizzate nel tempo della mitologia costituzionale classica (alludo alla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele), in società che non conoscevano (o celavano piuttosto le) differenze ed erano perciò felicissime (o, più verosimilmente, infelicissime).
Non è evidentemente così nelle tormentate società democratiche del nostro tempo, segnate da differenze e divisioni d´ogni genere. Qui sono oggetto della cura più attenta le procedure di selezione dei governanti, poiché esse comportano selezione di interessi, ideali e prospettive di vita collettiva. La deliberazione all´unanimità, poi, è esclusa per l´evidente ragione che l´assenza di omogeneità la renderebbe impossibile.
La delega casuale a un unico soggetto, infine, è scartata per il carattere totalmente arbitrario che essa assumerebbe in una società divisa. Non resta che fare ricorso alla regola della maggioranza. Ma ciò comporta, come è stato detto, che i regimi democratici celino una proprietà della quale non si ama parlare volentieri: impongono alla minoranza di piegarsi e accettare le decisioni della maggioranza.
Può questa imposizione essere incondizionata? Possono ammettersi decisioni della maggioranza totalmente ripulsive per la minoranza? (?)
Il problema si pone con acutezza nelle odierne società democratiche, pluraliste e non omogenee. Perché possa accettarsi il governo della maggioranza occorre che in particolare la parte minoritaria sia rassicurata sulla circostanza che, quale che sia l´esito del voto popolare, non ne deriveranno conseguenze esiziali per il perdente. Senza questa rassicurazione, di fronte al rischio di soppressione o persecuzione da parte del "vincitore democratico", ogni elezione sarebbe una battaglia all´ultimo sangue: l´esatto contrario di quel che vuole essere la democrazia, cioè una via pacifica e consensuale per risolvere divergenze e conflitti.
Qui si mostra una, forse la principale, funzione della Costituzione: fissare i presupposti della convivenza fra tutti, cioè i principi sostanziali della vita comune e le regole di esercizio del potere pubblico accettati da tutti, posti perciò al di fuori, anzi, al di sopra della contesa politica; principi e regole sui quali - in una parola - non si vota. O meglio, non si vota più, una volta iscritti in una Carta costituzionale. Per riprendere antiche e venerabili concezioni, si può dire che la Costituzione fissa il pactum societatis, con il quale ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme, nel reciproco rispetto che protegge dal conflitto all´ultimo sangue. Sulla base di questo primo accordo, può essere stipulato il pactum subiectionis, con il quale ci si promette reciprocamente di ubbidire - di assoggettarsi - alle decisioni del governo legittimo, cioè del potere della maggioranza che agisce secondo le regole e nel rispetto dei principi contenuti nel pactum societatis. È facile comprendere come le due nozioni di politica enunciate all´inizio - la politica come cooperazione e la politica come conflitto - hanno a che vedere, la prima, con il pactum societatis e, la seconda, con il pactumsubiectionis: nozioni entrambe necessarie, perché l´unione senza soggezione è impotente e la soggezione senza unione è tirannica.
Sono distinzioni, schemi teorici, privi di aggancio con la vita politica concreta, dove tutto si mescola indistintamente? Per nulla. In democrazia, i governanti resi saggi dalla lezione dell´esperienza, fatta spesso a loro spese, sanno che il rispetto del pactum societatis, cioè della Costituzione, è garanzia di un minimo comune denominatore di omogeneità politica e che ciò è la condizione indispensabile per il governo. Il primo compito della Costituzione, l´integrazione in questo minimo di unità, viene prima di quello, altrettanto essenziale ma secondo, di organizzare le istituzioni e i procedimenti di governo. Ogni uomo politico democratico che si preoccupi della cosiddetta governabilità, cioè (contro l´uso corrente del termine) delle condizioni che rendono la società suscettibile di essere governata, è consapevole che il mantenimento delle condizioni di omogeneità costituzionale, cioè il rispetto della Costituzione e, ancor prima, la fiducia nell´altrui lealtà costituzionale sono la principale di queste condizioni. In mancanza, verrebbe meno la disponibilità della minoranza ad accettare come legittime le decisioni della maggioranza. Nel caso estremo, il conflitto si risolverebbe fuori della democrazia: o con il rovesciamento del governo o con il soffocamento della minoranza. Entro questi due casi-limite, sta comunque il logoramento del governo e la perdita di efficacia della sua azione. Perciò, contro l´apparenza - o, meglio, guardando oltre l´illusione - si può dire che la Costituzione, con i suoi vincoli e i suoi limiti, anzi: proprio per i vincoli e i limiti, svolgendo un´imprescindibile funzione d´integrazione, è strumento di governabilità, non ostacolo o impaccio per il governo. Ove prevale l´opinione opposta, ivi c´è incoscienza o spirito d´avventura.
* * *
Passo ora, dall´empireo dei fondamenti dello Stato costituzionale, qualcuno potrebbe dire - sbagliando - dalle nuvole dei concetti, scendere ai problemi della giustizia costituzionale.
La discesa è ovvia: una Corte che non è e deve temere di essere o anche solo di apparire (la descrizione si intreccia con la prescrizione; l´essere con il dover essere; la constatazione con l´esigenza; la realtà con l´apparenza) organo della e nella politica come conflitto, cioè organo politico del secondo tipo. Siamo invece e dobbiamo essere organo politico del primo tipo, politico dunque non nel senso in cui lo sono il parlamento, il governo, i partiti politici, i comportamenti elettorali.
La giustizia costituzionale non è prosecuzione in altra forma della contesa che si svolge in questi luoghi. Il massimo tradimento di questi chierici che noi siamo (o siamo stati) sarebbe quello di trasformarci in una terza camera dove continua per interposte persone il confronto tra le parti del conflitto politico. Una Corte costituzionale politicamente (sempre nel secondo significato) schierata meriterebbe di essere soppressa, perché, se a favore della maggioranza, non se ne capirebbe l´utilità se non come copertura e inganno della pubblica opinione; se contro, se ne capirebbe l´utilità ma mancherebbe totalmente di legittimità. Il massimo danno che possiamo fare, da noi stessi, all´istituzione di cui facciamo parte è operare, e dare l´impressione di operare come quinta colonna.
La Corte costituzionale è custode del pactum societatis, garanzia delle condizioni d´insieme minime della vita collettiva. A essa spetta la difesa dei principi costituzionali sui quali "non si può votare". Il massimo affronto non è quello di sentirci dire: sbagliate!, ma di essere trattati come attori del conflitto politico. Il che è quanto talora, anzi frequentemente avviene a opera di un´informazione politico-giudiziaria incapace di cogliere le differenze, con la gratuita e pregiudiziale distribuzione tra i giudici di appartenenze politiche. Essa alimenta in modo acritico e rozzo l´idea che tutto e in tutte le sedi (anche nelle stanze dei loro giornali?) si riduca a lotta tra partiti.
Si comprende allora quel certo disagio che avvertiamo se la soluzione di un caso costituzionale coincide con quella auspicata, per i suoi fini, da una parte politica (di maggioranza o di opposizione, non cambia), anche se è sorretta dalle più incontrovertibili delle ragioni costituzionali: disagio che deriva dal rischio di confusione tra i due distinti ordini di ragioni. Consciamente o inconsciamente, e aggiungo: conformemente al ruolo della Corte, avvertiamo la preferibilità, ove possibile, di soluzioni che non siano quelle né di una né dell´altra parte. Non credo di ingannarmi se segnalo una certa tendenza psicologica alla "terza via", nei dispositivi e nelle motivazioni delle nostre decisioni, soprattutto sui temi più controversi politicamente. Penso a cause pendenti di grande rilievo politico e culturale, su temi che dividono le opinioni. La "terza via" che eventualmente venga escogitata dalla Corte l´espone normalmente all´accusa di ambiguità 'politica´ e consente spesso alle parti contrapposte di cantare, pro parte, vittoria; ma si tratta appunto della politica del secondo tipo, alla quale la Corte, giustificatamente, cerca di sfuggire.
Si dirà: eppure alla Corte ci si conta, si vota, e si vota proprio per decidere questioni, come quelle costituzionali, sulle quali "non si dovrebbe votare". Se non sono lecite maggioranze e minoranze tra gli elettori o tra i rappresentanti in Parlamento, come può accadere che votino i quindici giudici della Corte; che proprio tra di loro ci si divida? Dove vanno a finire i nostri buoni propositi, se col voto, una parte schiaccia l´altra?
Queste domande pongono una questione seria. In effetti, esiste tra noi una certa ritrosia a "passare ai voti". Non rivelo certo segreti dicendo che, sulle questioni più importanti, quelle di vero diritto costituzionale, si cerca di non votare o, meglio, di decidere senza che sia necessario ricorrere al voto o di renderlo una semplice formalità. È saggezza della Corte darsi tempo, non forzare i tempi. È un´elementare constatazione di psicologia che, in un collegio, la prima volta ci si schiera, e quindi ci si divide, anche profondamente; la seconda volta, prevale l´esigenza della composizione, e dunque ci si dispone a comprendere le ragioni altrui. Prima si milita, poi si coopera. È buona cosa che la Corte italiana, a differenza di organi suoi omologhi di altri ordinamenti, non sia costretta a vincoli temporali di decisione.
L´optimum sarebbe l´unanimità. L´obbiettivo realistico è la soluzione più condivisa. (?)
Ma, si dirà ancora, la Corte nelle sue decisioni esprime degli indirizzi. Sì, ma non certo nel senso dell´indirizzo politico di un governo o di una maggioranza parlamentare. Ogni causa è a sé. Non esiste maggioranza precostituita alle singole decisioni né elaborazione di indirizzi generali, che richiedano attuazione. Un programma che si frapponesse tra la singola decisione e la Costituzione sarebbe in contrasto con il dovere di fedeltà alla Costituzione in generale, dovere che esclude ogni vincolo particolare, come un programma di parte.
Se di indirizzo di politica giudiziaria si può parlare, è solo in senso retrospettivo, come bilancio a posteriori di un operato che non ubbidisce a disegni prefigurati. In Parlamento, invece, esiste una maggioranza che deve durare in funzione di un programma. Se si divide, venendo meno la continuità d´azione, non ha più ragione di esistere. Perciò, in un organo parlamentare è normale che le decisioni siano prese sempre dalla stessa maggioranza fino a quando una maggioranza diversa non sostituisca la precedente. Presso la Corte non è così. Le decisioni si prendono giorno per giorno e in relazione a ogni singola questione. Nella medesima giornata, le aggregazioni da cui scaturiscono le decisioni sono le più variabili. In Parlamento, la minoranza accetta di essere tale, in attesa di qualche ribaltamento elettorale, per diventare a sua volta maggioranza. Ma qui? Pensate che ci siano giudici che accetterebbero di restare a far parte di un organo alla formazione del cui indirizzo sono stabilmente, magari per l´intero mandato, esclusi? O che accetterebbero di non contare nulla fino a un´eventuale ma non certo prevedibile mutamento di equilibri interni? Del resto, se presso la Corte esistesse un indirizzo politico, non sarebbe naturale che il Presidente ne fosse l´espressione e il garante? Ma è notorio che il criterio primo che ne determina l´elezione è l´anzianità: non la politica, dunque, ma la natura. (?)
Ma, si dirà infine, alla Corte siedono pur sempre persone con un passato politico (nel secondo senso della parola). Così è infatti, conformemente al sistema della loro nomina e elezione (uno dei meno politici, comunque, tra quelli che il diritto comparato registra). Ma occorre valutare, oltre alla durata novennale del mandato (il più lungo tra tutti quelli previsti dalla Costituzione) e alle garanzie di totale indipendenza, la condizione psicologica dei giudici: il rispetto di sé e l´amor proprio.
I chiamati alla carica di giudice costituzionale sono di norma forti personalità con un degnissimo passato, anche politico, da difendere. È necessario che sia così, non solo per ragioni lapalissiane, ma anche e soprattutto perché è garanzia di indipendenza dalla politica contingente. Tutto è meglio dei tiepidi o dei Nicodemi che non hanno o nascondono le loro fedeltà. Essi, le mezze figure, non hanno motivo di rispetto di sé e possono essere più facilmente di altri indotti a cedere ad altri rispetti.
L´amor di sé, infine, spinge chiunque, e anche i giudici costituzionali a voler valere, fino magari alla presidenza della Corte stessa. Ma, per valere, occorre conquistarsi la fiducia dei colleghi. Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame. Qui, il passato conta per il solo nostro foro interno (il rispetto di sé), non per gli altri. Non siamo interessati da dove vengano i nostri colleghi. Questo riguarda chi li nomina o li elegge. Conta invece, e conta molto, quel che si è si fa nel collegio, nella diuturna opera del giudicare. Se un giudice si esponesse nel lavoro quotidiano alla critica, tra noi distruttiva, di essere longa manus politica sarebbe perduto. L´amor di sé sarebbe presto costretto a ricredersi.
* * *
Per queste ragioni è possibile definire in breve e in sintesi la Corte un´omeòstasi, un equilibrio che si forma quasi automaticamente tra forze autoregolative che la mantengono sulla rotta e la preservano dagli sbandamenti.
La Corte, come ho cercato di mostrare, è il frutto congiunto sia di ragioni giuridiche che di atteggiamenti spirituali e motivi psicologici. Le une hanno influito sugli altri e viceversa. L´equilibrio è fragilissimo e può essere facilmente spezzato e dobbiamo esserne consapevoli. Spirito e psicologia orientati al superiore interesse della protezione della Costituzione dalle turbolenze della contesa politica sono affare dei giudici. I presupposti giuridici sono affare del legislatore. Siamo certi, vogliamo essere certi che, al primo posto di tante sue cure riformatrici, c´è il mantenimento della Corte, salda nel luogo costituzionale che le compete.
L´ultima garanzia, tuttavia, non sta né nei giudici né nella maggioranza legislatrice. Sta oltre e riguarda tutti. Riprendo dall´inizio. Sta nel bisogno diffuso, in una generale volontà di Costituzione: intendo dire della costituzione come pactum societatis, presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva. Qualora quel bisogno e quella volontà andassero perduti, prevalendo nel nostro Paese l´idea diabolica (da repubblica dei diavoli) della costituzione come campo di battaglia e sopraffazione, la politica di parte spirerà incontrastata anche in queste stanze e la giustizia costituzionale si trasformerà in una farsa costituzionale.
Di fronte al dissesto costituzionale in atto, si rivela tutta la lungimiranza dell’allarme lanciato da Dossetti dieci anni fa. Tuttavia ciò che Dossetti non poteva prevedere, è la crisi della democrazia costituzionale nell’intero ordine internazionale, con la caduta verticale del diritto sul piano mondiale e la sostituzione della teoria e pratica dell’aggressione e della guerra all’interdizione generale dell’uso della forza e della stessa minaccia dell’uso della forza, sancita dall’articolo 2,4 dello Statuto dell’Onu. Allora, nel riprendere la lotta, i comitati devono prendere atto della nuova situazione, aggiornando analisi e strategie e assumendo pienamente il fatto che la crisi e lo scuotimento del costituzionalismo italiano non sono che un capitolo particolarmente sfortunato della caduta del costituzionalismo sul piano internazionale e di quella crisi generale del diritto, per cui oggi si può parlare di una situazione di vera e propria anomia.
In tale situazione, anche il soccorso dell’Europa, che secondo Eugenio Scalfari è il solo anticorpo che ci può salvare dall’instaurarsi in Italia di un regime autoritario, non è cosí sicuro. L’Europa, cosí com’è, non può funzionare come anticorpo per noi, a meno di una sua profonda trasformazione, ciò a cui avrebbero dovuto mirare le elezioni europee. Questa trasformazione, però, non potrebbe fare dell’Europa un anticorpo per la malattia italiana, se essa non si ponesse come antidoto all’intero imbarbarimento della politica mondiale. Solo se l’Europa potrà farsi alternativa a se stessa e alternativa per tutto l’Occidente, ristabilendo il primato del diritto, ripristinando e riformando l’Onu, riannodando i legami con l’Islam, il mondo arabo e la Palestina, combattendo lo sterminio per fame, per malattie e per miseria denunciato da Romano Prodi, e ponendosi come principio di ricomposizione dell’unità dell’intera famiglia umana, si potrà aprire una strada di uscita dalla crisi.
Ma perché questo possa avvenire, occorre, a mio parere, far ricorso a due idee radicali, che in anni lontani furono espresse da Giuseppe Dossetti.
La prima idea è quella di una crisi extra ordinem dell’intero sistema globale. In effetti noi non ci troviamo oggi, semplicemente, dinanzi all’incidente della Presidenza Bush, all’improvviso delirio del “nuovo secolo americano” e a un exploit della destra e dello sfasciacarrozze della Costituzione italiana, ma ci troviamo di fronte, come Dossetti tematizzò già nel 1951, a una crisi radicale del sistema, che coinvolge tutto il sistema economico, sociale, politico, culturale e religioso, sviluppatosi negli ultimi secoli, crisi che già allora, secondo Dossetti, investiva ambedue i sottosistemi globali, l’americano e il sovietico, distinti ma provenienti dalla stessa radice. Venuto meno, dopo gli eventi dell’Ottantanove, uno dei due sottosistemi, la crisi è ormai la crisi dell’unico sistema globale. Ma questo vuol dire, allora, rimettere in discussione il sistema e vorrei dire piú specificamente rimettere in discussione il nomos dell’Occidente, divenuto il nomos dell’intero mondo globalizzato. Ciò essenzialmente significa, io credo, rimetterlo in causa nei suoi due assunti originari. Il primo è quello di un ordine che fin dal principio suppone un’umanità frantumata nelle diseguaglianze, discriminata e scissa tra eletti ed esclusi, tra salvati e perduti, tra giusti e canaglie. Il secondo è quello di un ordine, o di un nomos, che imprigiona tutte le relazioni umane e anche le relazioni umano-divine nell’unico e universale codice della reciprocità, dell’appropriazione, dello scambio e del prezzo, escludendo l’economia della gratuità, della grazia, della comunione e del dono. Sono questi i due pilastri della legge, elezione e contraccambio, da cui dipendeva la stessa salvezza; ciò che per l’appunto Paolo attaccò nella sua critica al nomos, il termine greco in cui si traduce Torah. L’ideologia del mercato totale, della confisca della natura, e della guerra che li presidia, non è estranea a questo ordine di problemi.
La seconda idea radicale di Dossetti, a cui oggi dobbiamo far ricorso, è l’idea dell’originarietà, dell’ordinamento internazionale, che Dossetti cercò di inserire senza riuscirci, nella Costituzione del 1948. La formulazione da lui proposta per l’articolo sull’ordinamento internazionale suonava infatti cosí: «Lo Stato si riconosce come membro della comunità internazionale e riconosce perciò come originario l’ordinamento giuridico internazionale».
L’originarietà dell’ordinamento internazionale significava che esso sussiste indipendentemente dal potere degli Stati e perciò non ha solamente un’origine pattizia, non è il concerto degli Stati e nemmeno si può esaurire e identificare con l’Onu, che non è il sovrano, ma l’interprete della sua legittimità. Ciò non vuol dire solo passare da un diritto internazionale pattizio a uno ius cogens obbligante tutti gli Stati. Nel presentare la sua formulazione alla I Sottocommissione della Commissione dei 75, Dossetti diceva: Voi avete già approvato implicitamente questa tesi dell’originarietà dell’ordinamento internazionale, quando avete approvato la norma del rifiuto della guerra (quella che sarà poi l’articolo 11). Infatti la rinuncia (o il ripudio) della guerra, non è che la conseguenza del riconoscimento dell’unità tra le nazioni, in quanto appartenenti a un unico ordinamento. Le due cose vanno insieme, originarietà dell’ordinamento e bando della guerra. Nell’unità dell’ordinamento, infatti, la guerra è guerra civile e la guerra civile non può essere normata dal diritto. Ma è vero anche l’inverso – ed è quello che è avvenuto –: il ripristino della guerra, la sua indizione come guerra preventiva e la sua perpetuazione come guerra contro il terrorismo rompe l’unità della comunità umana. Oggi siamo a questo: la guerra – come dice un recente documento del Pentagono sulla crisi ecologica e climatica – è assunta come nuovo «parametro della vita umana sulla terra»; e nel disegno di legge con cui il nostro governo chiede la delega al parlamento per la riforma dei codici penali militari di pace e di guerra, la necessità di tale riforma viene motivata con il fatto che oggi il tempo di guerra non sarebbe piú “riconoscibile”, non piú distinguibile, rispetto al tempo ordinario di vita; allora questo ripristino della guerra, questa sua assunzione come parametro della vita umana sulla terra, segna la rottura programmatica dell’unità e originarietà dell’ordinamento internazionale, ma rappresenta anche la negazione e il rifiuto dell’unità di tutta la famiglia umana, di cui la creazione è il fondamento e di cui la Chiesa è «segno e strumento», come proclamava la Lumen Gentium del Concilio.
In questo senso, e non solo per la sua attuale distruttività e inarginabile produzione di dolore, la guerra rappresenta oggi il massimo dell’antiumanesimo, cui il corso storico è pervenuto. Questa è la posta in gioco della nostra lotta per la difesa della Costituzione. Pace e Costituzione sono ormai indissolubilmente legate, non si può difendere una cosa, senza difendere l’altra. È questo allora, il contesto e il terreno nuovo di impegno, di mobilitazione, su cui i nostri comitati sono chiamati a misurarsi; non da soli, naturalmente, perché qui siamo su una linea estrema di frontiera, su cui grandi forze culturali, religiose, politiche e sociali, chiese e popoli devono essere convocati e su cui sono chiamati a cimentarsi.
Espletato, salvo ballottaggi, il secondo appuntamento elettorale della stagione si passa al terzo. Quello più importante, il referendum sulla controriforma costituzionale della Casa delle libertà. Il centrosinistra dice no, ma è un no gravato da troppi non detti sul dopo referendum, e da troppi equivoci sul rapporto fra innovazione e conservazione e fra revisione e rilancio della Costituzione. Ne parliamo con Mario Tronti, che oggi a Roma introduce, insieme con Gustavo Zagrebelsky, l'assemblea annuale del Crs dedicata a «Repubblica e Costituzione».
Un titolo meno ovvio di quanto possa sembrare. Che significa?
Significa che in Italia la Repubblica e la Costituzione nascono assieme e assieme si tengono. Questa doppia nascita è un evento politico, che chiude un'epoca e ne apre un'altra. Non c'è forma repubblicana senza la Carta del '48: la Costituzione definisce la forma fin'allora approssimativa dello Stato italiano e, come si disse in assemblea costituente, «dà il volto» alla Repubblica. Un volto unitario, come dimostra la struttura compatta della Carta, che non è scindibile fra prima e seconda parte, fra principi e ordinamento. I primi 12 articoli, il cosiddetto Preambolo, definiscono i caratteri fondativi del nuovo Stato, che il seguito del testo sviluppa in norme rigide e vincolanti. Stato repubblicano, Stato democratico-parlamentare, Stato sociale, Stato laico, Repubblica una e indivisibile, Stato regionale: ognuna di queste definizioni, che sono delle vere e proprie decisioni politiche, si ritrovano nei princìpi fondamentali, e tutto il resto - diritti e doveri, ordinamento - ne consegue.
Questa compattezza formale esprime una unità di intenti fra le componenti popolari della società italiana, democristiani socialisti e comunisti, che fu propria di quel momento magico della storia italiana, quando era in gioco non l'attività di governo ma l'interesse dello Stato. Andreotti ha ricordato di recente come anche dopo la dura rottura politica provocata dalla cacciata dal governo di socialisti e comunisti nel '47, nella Costituente si continuasse a lavorare in un costruttivo spirito di collaborazione. Quella classe politica sapeva ancora distinguere fra livello politico e livello storico dei problemi. Quella di oggi no.
Quel momento magico tuttavia durò poco. E la storia della Costituzione ne ha risentito.
Non appena quel clima politico cambia, negli anni Cinquanta, l'attuazione della Costituzione si blocca. Riparte negli anni Sessanta, quando fra società e politica si rimette in moto un circolo virtuoso. E torna a bloccarsi negli anni Ottanta, quando questo circolo si spezza e l'asse del discorso si sposta dalla rappresentanza alla governabilità. Non è un caso che l'onda del revisionismo costituzionale parta, con Craxi, proprio sul tema della governabilità: la Costituzione viene attaccata nei punti cardinali di una concezione dello Stato che guarda alla materia della società, e di un'idea della politica attenta ai bisogni del sociale.
Negli anni 90 però le cose si complicano: resta l'enfasi sulla governabilità, ma il revisionismo costituzionale si nutre anche di rotture più profonde. La destra che emerge nel '94 dalle macerie del vecchio sistema politico è fatta di tre culture politiche - quella di An, della Lega e di Forza Italia - rispettivamente extra, anti e post-costituzionali, che esprimono pezzi di società estranei al patto del '48 e alle sue forme. A quel punto forse non c'era più solo revisionismo ma anche crisi costituzionale.
A quel punto c'era crisi delle culture fondative della Costituzione. Una crisi certificata ma senza rinnovamento, un vuoto senza eredità in cui l'antipolitica berlusconiana ha potuto dilagare, e la concezione della democrazia rappresentativa ribaltarsi in democrazia immediata, o mass-mediatica.
D'accordo, ma non c'era anche qualcosa di più strutturale? L'impresa post-fordista di Berlusconi, ad esempio, non esprimeva anche una trasformazione sociale che non si lascia più ordinare nella formula costituzionale della «Repubblica fondata sul lavoro»?
Al contrario: bisognava reinterpretare quel fondamento sulla base della trasformazione sociale, trapiantarlo dalla società fordista alla società postfordista. Che il lavoro sia cambiato non significa che abbia perso centralità, anzi: in tempi di precarizzazione, la tutela del diritto al lavoro andrebbe rilanciata e rafforzata. Con, non contro il dettato costituzionale.
E' un buon esempio del confine sottile che passa fra un cattivo revisionismo e un giusto rilancio della Costituzione. Alternativa a mio avviso più corretta di quella fra conservatorismo e innovazione che occupa da anni il dibattito pubblico.
La spinta alla riforma costituzionale fin'ora non è stata una spinta innovativa bensì restaurativa. Volta a chiudere il circuito fra società e politica che nella Costituzione è aperto, e improntata a un cattivo realismo politico che consiste nell'adattarsi al trend del momento quale che sia - laddove realismo politico significa anche contrastare il trend del momento con le rigidità che per l'appunto una Costituzione stabilisce. Altra cosa sarebbe un rilancio della Carta a partire dalle trasformazioni reali della società nonché dell'antropologia contemporanea. La condizione della differenza umana posta dal femminismo a partire dagli anni '70, ad esempio, nel testo del '48 ovviamente non c'è, ma oggi andrebbe registrata.
Il fatto è che i riformatori non guardano mai il cono della trasformazione dalla base della società, ma sempre e solo dall'alto dei poteri. L'ossessione è solo quella, ridefinire l'assetto dei poteri.
Soprattutto, verticalizzare l'assetto dei poteri stravolgendo la forma di governo. Mentre semmai alcuni interventi necessari riguardano il bicameralismo e la forma di Stato. E comunque l'ordinamento nazionale va ricollocato in un quadro almeno continentale. Il processo costituzionale europeo adesso è interrotto ma riprenderà. E va a sua volta ripensato rispetto a come si è svolto finora.
Ammettiamo che il referendum riesca a bloccare la controriforma costituzionale della Cdl: già si dice anche da parte del centrosinistra che poi bisognerà riaprire il processo riformatore. Ma come? Secondo l'articolo 138 del testo costituzionale, la revisione della Costituzione si fa in parlamentoe su questioni puntuali. Alle spalle abbiamo invece tre commissioni bicamerali che hanno tentato senza riuscirci una revisione complessiva a lato del parlamento, e due riforme - quella del centrosinistra sul titolo V e questa della Cdl - fatte in parlamento ma a maggioranza, senza una adeguata base di consenso. Come procedere dopo il referendum? E perché dovremmo fidarci di un ceto politico che finora ha messo mano alla Costituzione strumentalmente, più per risolvere i problemi dell'assetto politico che per più nobili ragioni?
Bisogna dire basta a questo procedimento congiunturale di revisione, a questo «smanettamento» continuo o continuamente annunciato della Costituzione. La Costituzione non è una legge ordinaria, è una legge superiore e come tale va trattata. Non vorrei vedere un'altra bicamerale all'orizzonte, né un'assemblea costituente composta dello stesso ceto politico. Bisognerebbe escogitare una formula capace di rimettere in moto le culture del paese: ripristinare a livello costituzionale un protagonismo delle culture politiche, ammesso che ancora esistano. Forse l'idea di una convenzione, fatta di rappresentanze politiche ma anche sociali e culturali, non è da scartare. Ma quello che più importa è ritrovare e valorizzare il dinamismo della nostra Costituzione. La nostra è senza dubbio una Costituzione giuridicamente garantista, ma anche politicamente interventista. Ha dietro di sé il coraggio della lotta antifascista e la scelta di campo della Resistenza. Non può limitarsi a dare forma all'esistente. Deve, attraverso la leva del nuovo Stato, indicare le vie del cambiamento della vecchia società. In questo senso, e solo in questo senso, si può avviare, per alcune parti, un lavoro non di revisione ma di aggiornamento.
Il volto della Repubblica va ridisegnato, forse ricostruito: troppa distruzione sta dietro le nostre spalle. Distruzione dello stesso testo costituzionale, attraverso queste improvvisate riforme di parte. In nome della Costituzione impegnamoci a cancellarle. E poi riprendiamoci la visione d'insieme di un assetto istituzionale capace di guidare l'attuale mutamento sociale. Ma è da questa Carta che dobbiamo partire. Questa Carta devono amarla soprattutto le giovani generazioni. Perché fu lo straordinario prodotto di un giovanile entusiasmo repubblicano, che provò a costruire con la politica un nuovo Paese-Società, che ancora non abbiamo.
Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della «Prima scuola italiana di diritto pubblico», padre della patria, alla fine dell'800 sostenne che, raggiunta l'unità politica, fondato lo Stato italiano, era giunta l'ora di «dare la scienza del diritto pubblico» al nostro paese, assegnando ai giuristi questo compito fondamentale. Durante i governi della destra storica il compito fu assolto addirittura con un eccesso di arroganza, ponendo i giuristi a capo del processo d'unificazione politica e amministrativa. Successivamente la scienza giuridica ha assunto un ruolo più riservato, ma ha sempre continuato a influenzare la sfera del politico, conservando un salutare distacco da essa. All'Assemblea costituente fu decisivo l'apporto dei giuristi e l'integrazione tra questi e i politici ha rappresentato una delle ragioni del successo (si pensi al rapporto tra Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, solo per citare un caso, che partorì la norma più significativa dell'intera nostra costituzione: il principio di eguaglianza sostanziale, scolpito nel testo della nostra costituzione con parole impegnate e profetiche, con un'eleganza stilistica e una precisione concettuale insuperate). Ora il colloquio tra giuristi e potere s'è trasformato. Troppi giuristi si offrono come consiglieri dei principi rinunciando all'autonomia della propria scienza, molti politici non amano i vincoli giuridici, in particolare quelli che il diritto costituzionale, nato per limitare il potere, pretende di imporgli. Nell'epoca della tecnica e della neutralizzazione del politico, gli unici «tecnici» inascoltati dal potere appaiono essere proprio i costituzionalisti.
Destra sorda
E' così che l'ultima «grande» riforma dell'intera seconda parte della nostra costituzione ha conquistato il più alto numero di critiche da parte degli studiosi di diritto costituzionale, eppure - inascoltate le critiche - è stata approvata di forza e «a colpi di maggioranza» nello scorcio della passata legislatura. Ora, si spera, sarà il corpo elettorale che si esprimerà il 25 giugno nel referendum costituzionale a dare regione ai tecnici e torto ai politici.
E' probabile che la sordità del ceto politico di centrodestra, che ha progettato e poi strenuamente voluto la modifica costituzionale, sia almeno in parte da far risalire alle «culture» politiche di appartenenza: Forza Italia, Alleanza nazionale e Lega - le forze politiche «egemoni» in quel campo - sono estranee, per storia e pratica politica, ai principi della Costituzione italiana del dopoguerra. Tant'è che una ragione che spiega la forzatura costituente risiede proprio nella volontà di legittimare la propria forza e fondare la propria esistenza su nuove basi costituzionali. Non credo però ci si possa accontentare di questa spiegazione. La fuga dal diritto costituzionale non può ridursi a una semplice intolleranza di una parte delle forze partitiche refrattarie a ricondurre il proprio agire politico entro un ordine costituzionale esistente; questa tesi trova almeno due ostacoli: una «banale» ragione pratica, una «profonda» ragione storica.
Anzitutto, in effetti, non si comprenderebbe perché quelle stesse forze politiche, nel momento in cui, rifiutando questa costituzione, decidono di scrivere una loro costituzione, non utilizzino al meglio i «propri» tecnici per formare un testo giuridicamente («tecnicamente») solido o almeno in grado di funzionare. Diciamolo chiaramente: la «nuova» costituzione non solo è inaccettabile perché esprime una concezione autoritaria dello Stato, dell'organizzazione politica e dei rapporti tra poteri, ma è anche pessimamente scritta (si guardi per curiosità il nuovo articolo 70 della costituzione sulla funzione legislativa e si comprenderà immediatamente come non potrà mai un Parlamento operare in base a quegli incomprensibili criteri di riparto tra le funzioni di Camera e Senato). Potrebbe anche maliziosamente ritenersi che sia una sciatteria tecnica politicamente redditizia (l'esempio che si è richiamato, in fondo, è un modo per paralizzare ed indebolire l'organo parlamentare a favore del governo, il che rappresenta uno dei principi ispiratori della riforma costituzionale), ma ciò confermerebbe l'impressione che al fondo ci sia una profonda insofferenza nei confronti del diritto costituzionale e delle sue regole, anche nei suoi aspetti meno ideologicamente orientati relativi alle tecniche di scrittura dei testi costituzionali. Meglio regole mal scritte che condizionamenti costituzionali sembra essere il pensiero politico dominante.
Vi è poi un'altra «profonda» ragione storica, che ancor più preoccupa. In effetti se tutto potesse ridursi all'incultura ed all'estraneità al sistema costituzionale vigente della destra di questo paese, la vittoria «seppur di misura» alle elezioni politiche ci renderebbe tutti più sicuri per il futuro. Passata la notte della democrazia costituzionale ci appresteremmo a tornare alla normalità. Una parentesi, forse per alcuni aspetti drammatica, ma ormai alle nostre spalle. Non credo sia così semplice. Non lo penso sia perché ritengo che le forze di centrosinistra non siano senza peccato, sia perché l'idea di tornare al tempo della normalità può essere diversamente intesa.
Entrambe le convinzioni si fondano sulla valutazione del recente passato. Se si volge lo sguardo all'indietro si scorge un percorso accidentato e pieno di «disinvolture» costituzionali: dall'acritica assunzione di parole d'ordine storicamente patrimonio culturale della destra (la forma di governo presidenziale), allo schiacciamento delle ragioni «superiori e indisponibili» dei valori costituzionali sulle esigenze contingenti della politica e della sua crisi progressiva. Un'impennata si ebbe durante tutti gli anni '90 (ma il processo di erosione delle ragioni del costituzionalismo data in Italia almeno dalla metà degli anni '70), quando si è voluto tradurre un'evidente e profonda crisi politica in crisi costituzionale, senza avvedersi che in tal modo non si sarebbe potuto raggiungere alcuno dei risultati sperati. Che sia fallito l'obiettivo della stabilizzazione del sistema politico perseguito attraverso riforme della costituzione sempre più spericolate non può stupire: bastava sapere che non è questo il compito delle costituzioni, le quali se dettano le regole della politica, tuttavia non forniscono ad essa alcuna soluzione pratica ed immediata. Ma, evidentemente, nessuno ha avuto interesse ad ascoltare chi conosce cosa sono le costituzioni, meglio è apparso usarle per fini, più o meno nobili, ma comunque strumentali.
Propaganda contro la Carta
Ciò che appare più grave è però che il fallimento degli obiettivi politici contingenti non è stato privo di conseguenze sul piano «nobile» della Costituzione. Anziché consolidarne il ruolo in tempi che vedono una caduta delle legittimazioni dei poteri politici e dunque rafforzare quell'àncora che può dare senso e valore all'agire politico, si è pensato bene di eroderne le fondamenta, delegittimare la costituzione vigente con un'opera incessante di propaganda negativa (la «vecchia» costituzione e la retorica del cambiamento costituzionale necessario) e di assalti fuori controllo (le forzature compiute con leggi ordinarie in materie costituzionali, le modifiche «tacite», i progetti di riscrittura di intere parti eterogenee di costituzione, l'istituzione di commissioni «quasi-costituenti», l'evocazione diretta del terribile potere costituente: tutte misure di «rottura» o comunque in deroga a quelle ordinariamente previste dalla stessa costituzione per la sua revisione all'articolo 138).
Le disinvolture costituzionali del centrosinistra, la sordità dei suoi responsabili politici ai richiami severi della dottrina costituzionalistica, sono di minor gravità rispetto a quelle vissute nell'ultima legislatura? Non sarò io a negarlo, ma che si possa riprendere il cammino semplicemente mettendo tra parentesi l'operato della destra considerandolo il male assoluto e nascente dal nulla, mi sembrerebbe francamente bizzarro, miope, forse suicida.
Possiamo permetterci in sostanza di riprendere il cammino interrotto delle riforme costituzionali «lì dove eravamo rimasti»? Nuove bicamerali, accordi di governabilità, pirotecniche proposte di trasformazione costituzionale si affacciano già all'orizzonte. La smania del nuovo, la permanente crisi dei partiti, l'irresistibile leggerezza della politica dei giorni nostri, l'incultura costituzionale diffusa, spingono tutte verso la direzione di una nuova stagione di uso congiunturale e distorto della costituzione. Ci si può opporre? Si può rilanciare una politica costituzionale consapevole? O è troppo rivoluzionario nell'Italia di oggi chiedere che si lotti per la costituzione, per l'affermarsi di un costituzionalismo che certo sia adeguato ai tempi della globalizzazione e della fine degli spazi chiusi, ma non perciò arreso al tempo dell'indeterminatezza e della politica senza valore?
Tra breve una risposta sarà data. Dopo il referendum costituzionale del 25 e 26 giugno constateremo in via di fatto se c'è ancora spazio per una riflessione critica sulle sorti del costituzionalismo, che sappia tener conto delle valutazioni della dottrina più consapevole del ruolo che le costituzioni devono e possono ricoprire nel nostro tempo. Se il referendum costituzionale sarà in grado di produrre un'auspicabile soluzione di continuità rispetto ad un periodo passato di lungo, lento e progressivo deterioramento non è scritto; che sia in grado di produrla non può escludersi.
Ammesso che il referendum respinga l'ultimo assalto alla Costituzione (in caso contrario approderemo ad un altro sistema costituzionale, e ben poco rimarrà da dire), le modalità di reazione allo scampato pericolo possono essere diverse. La reazione continuista è già stata annunciata. In alcuni casi, l'unico insegnamento che si ritiene di dover trarre da una stagione da mettersi rapidamente alle spalle è quella che induce ad evitare alcune improvvide forzature del recente passato (le riforme a stretta maggioranza). Ben poca cosa rispetto alla gravità dello stato confusionale in atto. Ove prevalesse questa reazione continuista, si dimostrerebbe la profondità della crisi di cultura del ceto politico e l'inanità di un pensiero critico ormai sopraffatto da un pensiero unico, egemone e non scalfibile. Lo spazio per la riflessione critica non scomparirebbe, ma i tempi si allungherebbero. La critica dell'esistente diventerebbe il compito principale rispetto a qualsiasi impegno per la trasformazione del sistema costituzionale, in ogni caso - in mancanza di una seria ridefinizione concettuale - condannata ad un'irresistibile perdita di senso costituzionale.
Cercare un'altra strada
Personalmente mi auguro invece che, dopo il referendum, un'altra strada sia percorsa. Più riflessiva, ma non perciò scarsamente innovativa. Anzi, a ben vedere, una prospettiva affatto rivoluzionaria rispetto al passato trentennio (l'origine della crisi, si è poc'anzi affermato, è da far risalire a metà degli anni '70), che finalmente espliciti il reale segno conservatore delle politiche costituzionali fin qui perseguite. Politiche, quelle passate, «disinvolte», non invece «nuove». Almeno se con quest'abusata espressione si vuole intendere adeguate ai reali problemi delle società democratiche e pluraliste del nostro tempo. Se si è consapevoli della profondità della crisi, si evitino facili scorciatoie, si affrontino di petto, invece, la complessità dei tempi difficili. Una strada impervia, forse tortuosa, ma che alla fine può giungere a rinnovare la forza del diritto delle costituzioni. Solo allora potremmo approdare a un nuovo costituzionalismo, senza perciò temere di aver gettato al vento un capitale di civiltà giuridica, senza ottenere nulla in cambio. Come fin'ora è avvenuto.
Quella indicata rappresenta una prospettiva forse politicamente difficile, ma non velleitaria. L'auspicata vittoria del no al referendum costituzionale provocherà di per sé una rinnovata energia alla nostra vigente Costituzione, consolidandone la oramai consumata base di legittimazione, riaffermandone forza e valore. Allora, anziché rimetterla immediatamente in discussione - dando nuovo vigore alla tesi del necessario superamento purchessia della vigente costituzione - più saggio sarebbe concedersi una pausa di riflessione. Non per conservatorismo costituzionale (più o meno nobile), ma per «operare conoscendo», secondo l'insegnamento di un grande giurista, Riccardo Orestano, troppo spesso dimenticato in questa fase storica dominata dall'irriflessività del politico e dall'irresponsabilità della tecnica.
In termini più concreti, può così sintetizzarsi l'alternativa cui ci si troverà dinanzi dopo il referendum: una nuova stagione di trasformazioni costituzionali in Italia può aprirsi o seguendo i tempi costipati della politica, ovvero quelli allungati della cultura. Personalmente preferisco i secondi. Solo quando, se e dopo che in Italia si affermerà una cultura della «manutenzione costituzionale» - altrove presente, la quale ha garantito revisioni, anche profonde, dei testi delle costituzioni nazionali senza produrre al contempo lacerazioni del tessuto e dell'idea che si ha di costituzione - si potrà (e a quel punto si dovrà) promuovere le riforme costituzionali necessarie al tempo della globalizzazione e alla fine degli spazi chiusi. Un riformismo radicale - altro che conservatorismo costituzionale - quest'orizzonte deve fare proprio. Chi è disposto ad accettare le sfide della storia rinunciando a quelle della politica? Chi è disposto ad ascoltare la voce del diritto costituzionale e non solo quelle della politica politicante?
Il presidente emerito della repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è nel suo studio da senatore a vita di palazzo Giustiniani, appena tornato da un incontro con il nuovo capo dello stato, GiorgioNapolitano. «Ottima, ottima», dice della soluzione trovata per il Quirinale, sottolineando l’amicizia che lo lega al presidente della Repubblica appena eletto. A capo del comitato promotore del referendum sulla riforma costituzionale, il comitato «Salviamo la Costituzione», il senatore a vita - che partecipò alla costituente - è impegnato da tempo nella campagna per il no. Ma Scalfaro parla anche del nuovo governo, della guerra, del pensiero politico da tempo assai debole se non assente.
Prima di tutto, qual è il suo giudizio sullo stato attuale della Costituzione?
Sullo stato di salute della Costituzione faccio rispondere ai costituzionalisti più famosi che in larga maggioranza parlano di una costituzione viva e attuale.
Alcuni dicono però che ci vorrebbe un po’ di manutenzione.
Nel mio discorso di insediamento come capo dello stato feci riferimento specifico alla necessità di affrontare alcune modifiche poiché da anni vi era un’aperta e viva discussione.
Dunque, è possibile secondo lei fare alcune modifiche oppure no?
Proprio allora accennai ad una eventuale commissione bicamerale: aggiornamenti possono essere fatti. Ma una modifica deve essere sempre e solo nell’interesse del destinatario, che è sempre il popolo italiano. Sempre. Avere un premier onnipotente come previsto nella riforma è nell’interesse del popolo italiano? E avere un parlamento mortificato è nell’interesse del popolo italiano?
Non si direbbe… La Costituzione che abbiamo è nata a maggioranza larghissima.
Il 2 giugno 1946 fummo eletti in 556 per scrivere la Carta che entrò in vigore il primo gennaio 1948. A fine dicembre 1947, nel voto finale furono solo 62 i voti contrari. Vuol dire una valanga di voti a favore che hanno consentito al cittadino di dire «questa carta è anche mia». Se il mio libro sull’assemblea costituente ha quel titolo, La mia Costituzione, è perché quella è la frase che ogni cittadino può dire. Invece, purtroppo, nell’attuale riforma con un voto di stretta maggioranza di governo, cambia il parlamento, cambia il capo dello stato, cambia il primo ministro... questo è uno stravolgimento totale. L’assemblea costituente doveva cercare un denominatore comune. L’ha trovato nella persona umana. Le persone come sono rappresentate? Dal parlamento che è eletto col voto di tutti i cittadini. Se mortifico il parlamento colpisco il cuore della Costituzione.
Anche il centrosinistra ha fatto una modifica con la sola maggioranza governativa.
Il centrosinistra fece la sciocchezza imperiale nel modificare il titolo V della Costituzione con la sola maggioranza di governo. E’ vero che prese il testo della bicamerale che era stato votato all’unanimità, però è impensabile modificare anche una virgola della Carta costituzionale senza un’ampia maggioranza. Lo dissi già allora, quindi ho titolo per ripeterlo. La maggioranza di centrodestra ci ha anche regalato questa pessima legge elettorale: non abbiamo mai avuto deputati e senatori non eletti dai cittadini ma nominati dai partiti. E’ intollerabile. Quando si è in vista delle elezioni non è onesto modificare le regole, se non con voto unanime.
Cosa ne pensa della scelta di fissare il referendum alla fine di giugno?
Il 25 giugno non è una data fortunata perché le scuole, soprattutto le elementari, chiudono entro la prima decade di giugno.
Ma lei che previsione fa su questo referendum?
La previsione diffusa era che la riforma fosse facilmente bocciata. Ma il Cavaliere ha già detto «noi faremo una battaglia intensa»: in tal caso non è più battaglia referendaria, poiché assume soprattutto valenza nettamente politica. Dopo la sconfitta elettorale, Berlusconi si deve prendere una rivincita. Questa cosa è pericolosa, perché se prevale soltanto lo spirito di rivalsa politica ci va di mezzo la costituzione, e se fosse così modificata si determinerebbe un grave danno per il popolo italiano.
Però dovremmo farcela...
Abbiamo fatto una riunione importante con il prossimo presidente del consiglio, Romano Prodi e ho notato che è assai sensibile a questo tema. Nessuna euforia, ma essere attenti alla realtà.
Quindi ci troviamo di fronte a un impegno serio, veramente serio. Però nella campagna elettorale la questione costituzionale è stata del tutto trascurata.
Non sempre...
Cosa pensa dell’elezione al Quirinale di Giorgio Napolitano? Le va bene?
Ripeto, ottima. Io sono molto amico, vorrei dire fraterno amico. Ho avuto con lui momenti di collaborazione indimenticabili, quando era presidente della camera ed io capo dello stato.
Lui è l’undicesimo presidente della Repubblica. Con questa elezione c’è qualche novità nella storia dei presidenti?
Certamente si. E’ la prima volta che il capo dello stato proviene dal partito comunista.Mi ha emozionato una constatazione: ieri (tre giorni fa, ndr) ero nella chiesa di San Claudio, e il sacerdote dopo aver pregato per il papa ha aggiunto «preghiamo per il nuovo presidente». Questa mattina (l’altro ieri, ndr) nella chiesa di San Pantaleo il sacerdote ha invitato a pregare per il nuovo presidente della repubblica elogiandone le doti personali. Evidentemente Napolitano accende simpatie e ammirazioni.
E il governo Prodi? Cosa si aspetta dal governo Prodi?
Mi aspetto una linea politica chiara, proposte concrete e fattibili. Mi pare che questa sia l’impostazione di Prodi. La campagna elettorale ha avuto momenti di aridità assai poco comprensibile, pareva di sentire dei ragionieri sul bilancio di una azienda, né si può concentrare tutto sulle tasse. Non è pensabile che la politica sia solo questo. Si tratta di avere un’apertura di ali. La politica ha bisogno di pensiero. Diciamo che è da tempo che c’è assai poca politica, se la politica è anzitutto pensiero.
Delle leggi berlusconiane cosa pensa che se ne debba fare? E della legge 30? Nel suo libro lei scrive che quando parlava Di Vittorio si commuoveva. E Di Vittorio contrasterebbe la legge 30.
La critica che faccio alla gestione del centrodestra è questa: il concetto di "cosa pubblica" viene annullato quando ciò che è pubblico è trattato come cosa privata e personale. Questo è. Tutti i democristiani avevano il senso dello stato? Non direi. Però non si può negare che mai c’è stata una maggioranza che considerasse lo stato come fosse cosa privata. Non è mai accaduto.
Il centrosinistra ha vinto le elezioni di misura, c’è dunque chi ha definito il prossimo governo Prodi un «Prodino».
La forza dei governi sta nel pensiero politico, prima che nello schieramento delle truppe.
Ma c’è il pensiero? E questo governo durerà poco?
Credo di sì, il pensiero c’è. Il presidente Prodi ha espresso la volontà di durare 5 anni e la volontà politica conta sempre.
Però l’impressione è che idee chiare e distinte non ce ne siano granché.
Non siate pessimisti, aspettate il discorso programmatico. Penso che si parlerà di pace e di difesa della Costituzione che sono temi di vasta portata. Certo ci saranno interventi sull’economia tanto attesi, per l’attività industriale, per il lavoro, per i giovani, per il bilancio delle famiglie.
A proposito di riforma, durante la partita per il Quirinale Piero Fassino ha preso l’iniziativa con il Foglio di Giuliano Ferrara e ha presentato una sorta di programma, una sorta di controriforma della Costituzione.
Sono un convinto estimatore e amico di Fassino. Su quell’intervista avrei chiesto spiegazioni, ma è pagina totalmente superata dall’elezione di Napolitano.
Sulla questione della pace, del Medioriente, si aspetta che Prodi faccia un po’ di politica?
Nella vicenda della guerra in Iraq, io ho votato contro. Sono molto polemico. Il capo dello stato più potente ha detto che faceva la guerra al terrorismo. Se per guerra si intende «io lotto contro il terrorismo» è esatto; se guerra vuol dire aggredire uno stato, invaderlo, allora è sbagliato. Neanche un mese fa è stato detto che sono 30mila gli iracheni morti in combattimento; ce n’è uno terrorista fra questi 30mila o sono dei soldatini, fossero pure generali, che hanno obbedito a chi li ha chiamati? E tu per fare questo hai detto che Saddam in mezz’ora sterminava un popolo, con le armi di distruzione di massa. Ma non si è trovato nulla, nessuno trovò nulla. Fare una guerra poggiando su un falso è veramente immorale.
Ritiriamoli allora questi soldati.
Ci vuole chiarezza di impostazione: l’Italia non può più condividere questa missione militare, anche se è chiamata di pace. Ecco, questo è il punto politico. Alla guerra la politica deve saper dire un no assoluto, irrevocabile.
1. LA COSTITUZIONE SOTTO ATTACCO.
La nostra Costituzione è in pericolo. Infatti il centro-destra ha approvato nell’autunno del 2005 una sua modifica che, se non sarà respinta dall’ormai prossimo referendum, entrerà in vigore producendo danni gravi e irreversibili. Con il referendum possiamo dire NO all’entrata in vigore di tale modifica. Le parti più pericolose di essa prevedono una forte riduzione del ruolo del Parlamento, subordinandolo a un Primo ministro dotato di poteri enormi; una tanto confusa quanto deleteria trasformazione del Senato della Repubblica in un finto Senato federale e, infine, la famigerata devolutionvoluta dalla Lega Nord. I cittadini italiani non possono permettere che una simile revisione entri in vigore. Sfigurare la nostra Costituzione significherebbe minare le fondamenta della nostra convivenza. In questo scritto abbiamo voluto approfondire i motivi per i quali le modifiche alla Costituzione deliberate dal centro-destra devono essere respinte, cosicché chi legge queste pagine possa a sua volta spiegare al maggior numero di cittadini possibile perché al prossimo referendum costituzionale è di vitale importanza che vincano i NO.
2. LE ORIGINI DELLA COSTITUZIONE E DELLA MODIFICA DEL CENTRO-DESTRA: DUE STORIE DIVERSE.
La Costituzione del 1948 simboleggia la vittoria della democrazia contro la dittatura, la sconfitta della monarchia e l’avvento della Repubblica, la fine della guerra e la stipulazione di un grande patto condiviso tra le forze politiche della resistenza e della liberazione. È proprio la sua essenza di patto condiviso che ha consentito alla Carta fondamentale di porre le basi per l’uscita dell’Italia dalle macerie della guerra e di avviare la ricostruzione non solo economica, ma anche morale e culturale del Paese. I democristiani, i comunisti, i socialisti, i liberali riuscirono a trovare, nel corso della redazione del testo costituzionale, un vero e proprio spirito costituente, che consentì loro di elaborare una Costituzione con alla base principi e valori comuni: l’eguaglianza sostanziale e i diritti sociali, la tutela dei diritti di libertà, la laicità dello Stato, l’equilibrio e il bilanciamento tra i poteri. È per questo che quando si leggono gli articoli della Costituzione italiana si prova un sentimento di identificazione, di riconoscimento, la percezione che si è di fronte non al testo di una parte politica contro le altre, ma alla Costituzione di tutti.
La revisione costituzionale del centro-destra non ha nulla dello spirito costituente descritto. La sua origine non è il frutto di un accordo tra la maggioranza e l’opposizione, ma l’esito di un baratto tra i partiti della maggioranza nell’ambito del quale la Costituzione è stata letteralmente venduta a pezzi.
Per potersi garantire la Presidenza del Consiglio fino alla fine della legislatura e l’approvazione delle ben note leggi ad personam, Berlusconi non ha esitato a concedere, sotto forma di modifiche al testo costituzionale, una sorta di dittatura del premierad Alleanza nazionale e la devolutionalla Lega Nord.
Il testo della riforma, scritto nel chiuso di una baita alpina dai cosiddetti saggi di Lorenzago (alcuni pretesi esperti di diritto costituzionale del centro-destra), è stato presentato in Parlamento sotto forma di disegno di legge del Governo e approvato coi soli voti della maggioranza. Esattamente il contrario di un patto condiviso, anzi un modo per trasformare la Costituzione di tutti nella Costituzione di pochi, un modo per distruggere l’idea stessa di Costituzione.
È nata così questa riforma confusa, pasticciata, di difficile lettura e incredibile complessità. Intendiamo metterne in evidenza gli aspetti più contraddittori e pericolosi, destinati a creare indesiderabili concentrazioni di potere, ma soprattutto una devastante paralisi istituzionale.
Il progetto del testo di revisione nasce, dunque, fuori dal Parlamento, senza un reale confronto tra la maggioranza e l’opposizione, perseguendo una logica di emarginazione delle assemblee parlamentari e con esse, inevitabilmente, dell’opposizione e delle autonomie territoriali. Certamente, vi è sempre il momento dell’iniziativa: nell’Assemblea Costituente ad Egidio Tosato fu affidato il compito di redigere lo schema generale della Costituzione, ma in quanto mandatario sia della maggioranza che dell’opposizione. Sia dalla sua genesi politica, che dal metodo, dunque, l’attuale revisione si caratterizza per una sua vocazione extrapar- 6 lamentare, per la sua nascita fuori dal Parlamento. La riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001, sul finire della XIII legislatura, viene richiamata da alcuni quale precedente che giustifica il modo di procedere della destra, ma le due situazioni sono radicalmente diverse. Anche nel 2001, infatti, vi fu una votazione finale da parte della sola maggioranza di centrosinistra, ma tale votazione aveva ad oggetto un testo che rappresentava il risultato di un lungo lavoro di colloquio tra la maggioranza stessa e l’opposizione, già a partire dalla Commissione bicamerale D’Alema. Solo al momento dell’approvazione finale, in vista delle imminenti elezioni politiche, il centro-destra, allora opposizione, si chiamò strumentalmente fuori. Peraltro, non si possono dimenticare i rapporti intessuti con le Regioni e gli enti locali che si espressero unanimemente a favore della riforma, mentre a questa di oggi sono nettamente contrari: quasi tutti i Consigli regionali hanno richiesto l’indizione del referendum perché si possa dire NO.
3. LA DEMOLIZIONE DELLA FORMA DI GOVERNO PARLAMENTARE: ASSEMBLEA SUPERSOLUBILE E DISPOTISMO DEL PRIMO MINISTRO.
Il costituzionalismo democratico esprime l’idea di Costituzione come un patto condiviso, patto che tutela le minoranze contro gli eventuali abusi della maggioranza e garantisce il bilanciamento dei poteri. Viceversa la controriforma del centro-destra si riallaccia a ideologie del tutto opposte.
Il suo intento generale è quello di potenziare a dismisura il dominio della maggioranza e in particolare del premier che ne sarebbe il padrone assoluto: per esserne consapevoli basta guardare alla disciplina dello scioglimento anticipato della Camera, crocevia qualificante per qualsiasi forma di governo.
Lo scioglimento anticipato delle Camere è oggi un potere che la Costituzione assegna al Presidente della Repubblica in funzione di garanzia. È il Capo dello Stato che, tenuto conto delle istanze provenienti dal Parlamento, valuta la possibilità di uno scioglimento anticipato. Detto in altri termini, il delicato potere di sciogliere le Camere normalmente viene utilizzato dal Presidente della Repubblica perché i partiti e il Parlamento non riescono ad esprimere una maggioranza che sostenga il Governo.
L’articolo 88 è stato riscritto dal centro-destra stravolgendo questo istituto: il Presidente della Repubblica dovrebbe necessariamente sciogliere la Camera quando richiesto dal Primo ministro. Il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento solo ove venga presenta- ta e approvata dalla Camera dei deputati una mozione, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo ministro. L’articolo 94 dal canto suo prevede che, votando a maggioranza assoluta una mozione di sfiducia al Primo ministro, lo scioglimento della Camera sia automatico, a meno che tale mozione non contenga altresì la designazione di un nuovo Primo ministro e sempre però a condizione che venga approvata dalla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera.
Si tratta di previsioni per alcuni aspetti bizzarre ed astruse, per altri preoccupanti. A norma dell’articolo 88 il Primo ministro che richiede lo scioglimento non avrebbe neanche l’onere di andare a riferire in Parlamento. Dunque, nell’ipotesi in discorso, un procedimento delicato come quello dello scioglimento anticipato, che per sua natura segna una fase di sofferenza istituzionale, viene di fatto reso extraparlamentare e talmente complesso da apparire incerto nei suoi tratti di fondo.
Oggi, con uno scioglimento che da un punto di vista sostanziale trae origine dal Parlamento, il Presidente del consiglio è solo uno dei protagonisti della vicenda. Inoltre, a seconda delle circostanze di fatto, un ruolo più o meno rilevante può essere svolto dai poteri di influenza del Presidente della Repubblica. La proposta in discorso prefigura invece un ruolo meramente notarile per il Capo dello Stato e, soprattutto, una posizione assolutamente preponderante del Primo ministro che ha la possibi- 9 lità di determinare lo scioglimento sulla base di valutazioni o interessi del tutto personali, anche prescindendo dagli orientamenti della stessa maggioranza che lo sostiene.
Altro indizio della inaccettabile cultura politica che sostiene questotest o è ravvisabile nel secondo comma dell’articolo 88, dove si ipotizza che la mozione con la quale viene indicato il nome del nuovo Primo ministro deve essere accompagnata dalla dichiarazione di voler continuare nell’attuazione del programma: si tratta di una previsione tra l’ingenuo e il minaccioso. E’ sicuramente ingenuo ritenere che un programma di governo possa rimanere sempre uguale a se stesso nonostante tutto quello che può accadere nel mondo e in casa nostra; d’altra parte, una simile visione evidenzia ulteriormente quella concezione ipernormativa dell’indirizzo politico che pervade tutto il testo e non può non suscitare apprensione.
Il Primo ministro è eletto, in pratica, direttamente: la nomina da parte del Presidente della Repubblica è un atto dovuto in base ai risultati elettorali e il Primo ministro stesso deve presentarsi alle Camere semplicemente ad esporre il suo programma. Il secondo comma dell’articolo 92, però, non solo dispone un collegamento necessario tra il candidato Primo ministro e i candidati alla Camera, ma prefigura altresì un premio di maggioranza quando afferma che la “legge disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro”. Il Primo ministro è in sostanza inamovibile per la legislatura e il sistema viene chiuso da uno scioglimento della Camera in pratica disposto dal Primo ministro stesso. Infatti, anche la previsione della sfiducia costruttiva non pare sufficiente per evitare uno scioglimento dell’Assemblea, in quanto essa presuppone per la sua validità l’approvazione da parte della stessa maggioranza uscita dalle elezioni. Non è difficile immaginare come si possa neutralizzare una simile previsione: è sufficiente che il Primo ministro “controlli” anche un piccolo gruppo di deputati per evitare il raggiungimento della maggioranza dei voti necessari alla approvazione della sfiducia costruttiva e per determinare quindi, comunque, lo scioglimento della Camera. Siamo di fronte ad una revisione che costruisce un Premier in pratica inamovibile, con un Governo ai suoi ordini e un Parlamento del tutto succube delle sue volontà.
Un’ulteriore dimostrazione di ciò che si afferma risiede nel quinto comma dell’art. 72, che rimette nelle mani del Governo la decisione sull’ordine del giorno della Camera e del Senato. Nessuna assemblea legislativa può accettare che la propria agenda sia decisa dall’esecutivo: l’autonomia della fissazione dell’ordine del giorno fu tra le prime rivendicazioni dei Parlamenti moderni contro l’assolutismo regio. Dunque, è il Parlamento nel suo complesso che viene posto in una condizione di minorità rispetto al Governo e per esso al Primo ministro, facendo così seriamente dubitare che la forma di governo inventata dal centro-destra possa definirsi democratica. E’ chiaro come né il presidenzialismo americano, né la forma di governo britannica contemplino una simile concentrazione di potere nelle mani dell’esecutivo o, per dir meglio, di una carica monocratica, di un uomo solo. Sia chiaro: non nutriamo nessuna diffidenza nei confronti di una forma di governo presidenziale nella quale l’esecutivo fosse eletto direttamente per un periodo predeterminato e fosse altresì dotato di forti poteri; in questa ipotesi però il Parlamento dovrebbe essere attentamente salvaguardato nelle sue prerogative legislative. Del resto anche il Presidente degli Stati Uniti gode soltanto di un potere negativo di veto sulla legislazione, peraltro superabile a maggioranza qualificata, ma non può certamente sciogliere le Camere.
Tra quelle che si potevano immaginare, le ipotesi formulate dalla proposta in oggetto sono forse le più eccentriche rispetto ai principi del costituzionalismo. Riprova che l’ispirazione complessiva della proposta appare volta al conferimento al Primo ministro di un potere privo di qualsiasi efficace bilanciamento, praticamente illimitato. Viceversa, l’essenza del costituzionalismo va individuata proprio nel bilanciamento del potere: questa riforma è “incostituzionale” nel senso più profondo del termine. Essa, infatti, contrasta con lo scopo stesso del costituzionalismo: limitare e bilanciare il potere. Si vuole instaurare una “dittatura” del Primo ministro.
4. LA RIDUZIONE DI RUOLO DEGLI ORGANI DI GARANZIA.
L’assenza di bilanciamento tra i poteri è confermata da un altro grave elemento previsto dalla revisione: la compressione del ruolo del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, gli organi di garanzia della nostra Costituzione.
Per quanto riguarda il Presidente della Repubblica, la proposta del centro-destra è volta a fare in modo che i suoi poteri siano ridotti a vantaggio del Governo e del Primo ministro. Uno dei poteri tradizionali affidato al Capo dello Stato consiste nella autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge del Governo in Parlamento. Un potere non determinante, si potrà osservare, ma in realtà significativo perché volto a impedire la presentazione alle Camere di disegni di legge manifestamente incostituzionali.
Per i costituenti era fondamentale rispettare la “dignità” del Parlamento e della Costituzione contro atteggiamenti in un certo qual modo “arroganti” manifestati dal Governo attraverso disegni di legge in palese conflitto col testo costituzionale stesso. Se le modifiche proposte entrassero in vigore anche questo potere del Capo dello Stato – come quello di scioglimento delle Camere - verrebbe meno, nel segno di un ulteriore rafforzamento del Primo ministro.
Ciò che però, se possibile, lascia ancora più perplessi, è la modifica della composizione della Corte costituzionale, che nel nostro ordinamento ha il fondamentale compito di annullare quelle leggi che si pongono in contrasto con la Costituzione. Attualmente, l’art. 135 Cost. stabilisce che dei 15 giudici che la compongono, 5 sono nominati dal Presidente della Repubblica, 5 sono eletti dalle supreme magistrature ordinaria e amministrativa, 5 sono eletti dal Parlamento in seduta comune.
Ne segue che i giudici più “vicini” alla politica, ovvero quelli di nomina parlamentare, sono solo un terzo: questo ha consentito alla Corte costituzionale, nel corso degli anni, di non farsi trascinare quasi mai nelle polemiche politiche contingenti, ma anzi di guadagnarsi una posizione di grande autorevolezza e di autonomia dalla politica. Tutto ciò è seriamente messo in pericolo dalla riforma costituzionale, che sembra spingere verso una sorta di politicizzazione della Corte facendo saltare l’equilibrio delle nomine. E’ infatti previsto che i giudici rimangano 15, ma sia il Presidente della Repubblica che le magistrature ne eleggerebbero non più 5, ma 4 ciascuno. Gli altri sette giudici costituzionali sarebbero tutti eletti dal Parlamento: 3 dalla Camera e 4 dal Senato. In tal modo i giudici di più diretta derivazione politica e partitica aumenterebbero di numero: come si può intuire, vi sarebbe il serio pericolo che la Corte costituzionale si trasformi in una cassa di risonanza delle polemiche politiche. Sarebbe la fine della Corte costituzionale, la fine quindi del nostro giudice delle leggi, ultimo garante del rispetto della Costituzione. 14
5. IL FALSO SENATO FEDERALE, LA DEVOLUTION E L’IMPOSSIBILE ESERCIZIO DELLA FUNZIONE LEGISLATIVA.
Se le osservazioni sin qui svolte suscitano allarme per il corretto funzionamento della forma di governo, non minori perplessità la revisione del centro-destra fa nascere per quanto concerne i rapporti tra Stato e Regioni e l’effettivo esercizio della funzione legislativa.
Viene ipotizzato un Senato federale, ma basterebbe ricordare lo sferzante giudizio del Presidente (di centro-destra!) della Regione Lombardia secondo il quale questo Senato avrebbe di federale solo il nome, per svelare un altro pasticcio. Infatti esso non è in grado, per la sua stessa struttura, di assolvere una seppur minima funzione di coordinamento preventivo della legislazione statale e regionale, né di proiettare le regioni al centro. A norma dell’art. 57 i duecentocinquantadue senatori dovranno essere eletti a suffragio universale e diretto su base regionale. Il Senato non sarà dunque costituito da rappresentanti delle Regioni, ma da eletti che non si differenziano in modo significativo da quelli odierni. Veramente poca cosa è la previsione dell’elezione dei senatori contestualmente a quella dei Consigli regionali. Addirittura beffardo suona l’ultimo comma dell’art. 57, secondo cui partecipano all’attività del Senato, per ciascuna Regione, un rappresentante eletto dal Consiglio regionale ed uno eletto dai Consigli delle autonomie locali, tutti senza diritto di voto. Proprio così, senza diritto di voto.
In questo contesto già ambiguo ed incoerente viene ampliata la potestà legislativa esclusiva delle Regioni in materia sanitaria, scolastica e di polizia locale – la cosiddetta devolution– aggravando ulteriormente i problemi di coordinamento con la legislazione statale. Basti pensare alla ancora più difficile conciliabilità con la previsione della lettera m) del secondo comma dell’art. 117, secondo la quale allo Stato spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
La devolution esprime, inoltre, una cultura politica in palese contrasto col principio costituzionale di eguaglianza. Alla base dell’eguaglianza vi è infatti l’idea che i diritti civili e sociali debbano essere goduti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, senza che vi possano essere differenze significative tra una Regione e un’altra. In un Paese come l’Italia, nel quale il divario economico tra Nord e Sud è fortissimo, il principio di eguaglianza è uno degli elementi che ha tenuto unite le differenti realtà territoriali. La devolution del centro-destra, al contrario, è ispirata ad un etno-federalismo fondato su un principio di inimicizia non privo di connotazioni razzistiche piuttosto che sul principio della solidarietà nazionale. Trasferire alle Regioni tutta la competenza in materia sanitaria significa, semplicemente, che le Regioni più ricche potranno garantire servizi sanitari di eccellenza; viceversa le Regioni più povere non potranno fare altrettanto. Ancora, con la devolution oltre le prestazioni sanitarie, anche la scuola, tendenzialmente, potrà essere gratuita solo nelle Regioni che potranno finanziarla. È questa l’Italia che vogliamo?
Votare NO al referendum significa difendere diritti sociali fondamentali come la salute e l’ istruzione.
Come se ciò non bastasse, anche altre norme della revisione del centrodestra contribuiscono a instaurare un federalismo confuso e contraddittorio, praticamente ingovernabile. Accanto a quel paradossale Senato di cui abbaimo già parlato, l’art. 118 costituzionalizza la Conferenza Stato-Regioni, organo volto a realizzare la collaborazione tra il Governo e le Regioni. Senza voler negare l’importanza di quest’organo di raccordo, è veramente inaccettabile che la sua costituzionalizzazione avvenga senza prevederne il ruolo e le funzioni. Ma i guasti non si fermano qui. Forse il danno più grave da un punto di vista generale è ravvisabile nel fatto che la proposta rende di fatto impossibile l’esercizio della funzione legislativa da parte dello Stato. Il sistema delineato da un lato non è efficace nel rappresentare le Regioni al centro, dall’altro spinge all’estremo la maggiore complessità che i sistemi federali comunque comportano nell’esercizio della funzione legislativa. L’attuale articolo 70 della Costituzione stabilisce: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Esso verrebbe sostituito da un articolo lungo un’intera pagina di Gazzetta Ufficiale, che detta una disciplina oscura e tanto complessa da rendere pressoché impossibile l’adozione delle leggi.
Proviamo a leggerlo questo nuovo art. 70:
«Art. 70. – La Camera dei deputati esamina i disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte della Camera, a tali disegni di legge il Senato federale della Repubblica, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali la Camera decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
Il Senato federale della Repubblica esamina i disegni di legge concernenti la determinazione dei princìpi fondamentali nelle materie di cui all’articolo 117, terzo comma, fatto salvo quanto previsto dal terzo comma del presente articolo. Dopo l’approvazione da parte del Senato, a tali disegni di legge la Camera dei deputati, entro trenta giorni, può proporre modifiche, sulle quali il Senato decide in via definitiva. I termini sono ridotti alla metà per i disegni di legge di conversione dei decreti-legge.
La funzione legislativa dello Stato è esercitata collettivamente dalle due Camere per l’esame dei disegni di legge concernenti le materie di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m) e p), e 119, l’esercizio delle funzioni di cui all’articolo 120, secondo comma, il sistema di elezione della Camera dei deputati e per il Senato federale della Repubblica, nonché nei casi in cui la Costituzione rinvia espressamente alla legge dello Stato o alla legge della Repubblica, di cui agli articoli 117, commi quinto e nono, 118, commi secondo e quinto, 122, primo comma, 125, 132, secondo comma, e 133, secondo comma. Se un disegno di legge non è approvato dalle due Camere nel medesimo testo i Presidenti delle due Camere possono convocare, d’intesa tra di loro, una commissione, composta da trenta deputati e da trenta senatori, secondo il criterio di proporzionalità rispetto alla composizione delle due Camere, incaricata di proporre un testo unificato da sottoporre al voto finale delle due Assemblee. I Presidenti delle Camere stabiliscono i termini per l’elaborazione del testo e per le votazioni delle due Assemblee.
Qualora il Governo ritenga che proprie modifiche a un disegno di legge, sottoposto all’esame del Senato federale della Repubblica ai sensi del secondo comma, siano essenziali per l’attuazione del suo programma approvato dalla Camera dei deputati, ovvero per la tutela delle finalità di cui all’articolo 120, secondo comma, il Presidente della Repubblica, verificati i presupposti costituzionali, può autorizzare il Primo ministro ad esporne le motivazioni al Senato, che decide entro trenta giorni. Se tali modifiche non sono accolte dal Senato, il disegno di legge è trasmesso alla Camera che decide in via definitiva a maggioranza assoluta dei suoi componenti sulle modifiche proposte.
L’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica di cui al quarto comma può avere ad oggetto esclusivamente le modifiche proposte dal Governo ed approvate dalla Camera dei deputati ai sensi del secondo periodo del secondo comma.
I Presidenti del Senato federale della Repubblica e della Camera dei deputati, d’intesa tra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza tra le due Camere, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti, in ordine all’esercizio della funzione legislativa. I Presidenti possono deferire la decisione ad un comitato paritetico, composto da quattro deputati e da quattro senatori, designati dai rispettivi Presidenti.
La decisione dei Presidenti o del comitato non è sindacabile in alcuna sede. I Presidenti delle Camere, d’intesa tra di loro, su proposta del comitato, stabiliscono sulla base di norme previste dai rispettivi regolamenti i criteri generali secondo i quali un disegno di legge non può contenere disposizioni relative a materie per cui si dovrebbero applicare procedimenti diversi».
Anche se qualcuno fosse riuscito a leggere per intero questo art. 70 della proposta, dubito che ne abbia compreso il contenuto normativo, di difficilissima interpretazione anche per gli esperti di diritto costituzionale. Il danno che una norma di questo tipo produce è duplice. Da un lato paralizza, o comunque rende lentissima e farraginosa, la procedura legislativa; dall’altro fa perdere alla Costituzione quella funzione pedagogica che essa esprime grazie a formulazioni semplici, di immediata comprensione e leggibilità, che devono consentire anche ai non addetti ai lavori di capire il significato di una norma costituzionale e di identificarsi con essa. Forse, la stessa maggioranza che l’ha approvato prova un po’ di vergogna per questo testo. Le norme transitorie della riforma prevedono infatti un’entrata in vigore per scaglioni. Le parti relative alla devolution, sulle quali la Lega ha tanto insistito, entrerebbero in vigore subito. Viceversa, le parti relative alla forma di governo e alla forma di Stato - e in particolare quelle che concernono la riduzione del numero dei deputati e dei senatori - entrerebbero in vigore tra dieci anni, ovvero nel 2016!
In realtà, la ragione di questo pasticcio non risiede in un sentimento di vergogna, ma nel fatto che il centro-destra ha avuto difficoltà nel far digerire ai suoi stessi parlamentari la riduzione del loro numero. Il compromesso è stato trovato, perciò, rinviando ad un lontano futuro l’ entrata in vigore delle norme costituzionali più scomode. Altro che spirito costituente!
Ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, si ha la prova della vendita sottobanco della Costituzione: la modifica è stata costruita su misura per i deputati del centro-destra, non certo per il bene del nostro Paese.
6. UNA CONTRORIFORMA EVERSIVA CHE GETTA LE ISTITUZIONI NEL CAOS.
La domanda sul come sia possibile che in Italia, dopo mezzo secolo di Repubblica, Costituzione e democrazia, possano trovare spazio impostazioni che, al di là delle diverse preferenze politiche, porterebbero ad un sicuro blocco delle istituzioni è angosciante. Su questo aspetto bisogna insistere: la proposta del centro-destra porta al caos istituzionale. E’ chiaro, purtroppo, che in questa fase della nostra storia si sommano una serie di fattori che, interagendo tra di loro, formano una miscela davvero minacciosa. Emerge, innanzitutto, un iperdecisionismo senza freni che, estraneo alla cultura della democrazia, percepisce ogni bilanciamento come un impaccio. Ciò si è saldato con la radicata tendenza a considerare la sfera pubblica come il campo dell’ opportunismo. Potere arrogante, servilismo diffuso, pseudo-federalisti, uniti in un patto populistico, hanno dato l’assalto alla Costituzione.
In un sistema privo di bilanciamenti, con una Camera dei deputati debole e un Senato che di federale ha solo il nome, con le Regioni povere sempre più marginali, la legge e la riserva di legge da istituti di garanzia si trasformerebbero nel braccio armato del complesso Capo del governo- maggioranza per colpire le garanzie dei diritti. Qui forse, al di là di notazioni ascrivibili alla psicologia politica, si palesa il vero obiettivo finale e materiale di questa devastazione del costituzionalismo: l’abbattimento dei diritti. La riduzione della rappresentanza politica si accompagnerebbe alla compressione della funzione redistributiva dei diritti sociali. Contro il bilanciamento dei poteri vi sarebbe l’affermazione di una sorta di integralismo di maggioranza, in palese contrasto con il vivificante spirito dell’alternanza. In una democrazia ben organizzata intorno alla possibilità che le parti politiche si alternino al governo c’è bisogno di una maggioranza tollerante, capace di ragionevoli composizioni delle sue ragioni con quelle degli altri, e di un’opposizione paziente, in grado di attendere scadenze previste dall’ordinamento per rigiocare la partita elettorale.
La revisione costituzionale che stiamo analizzando è l’esatto contrario di tutto ciò. Essa, abbassando i livelli del bilanciamento, costruendo il comando di un uomo solo, nega i presupposti della democrazia dell’alternanza.
Chi la propone sembra pensare che l’eletto sia destinato a governare per sempre e che incarni necessariamente il migliore dei governi possibili.
Non possiamo permettere che questa modifica entri in vigore.
È necessario rispondere compatti votando NO al prossimo referendum costituzionale: dire NO a questa modifica significa avere fiducia nel futuro del nostro Paese.
APPENDICE
I costituenti del 1948
La Costituzione repubblicana del 1948 è stata scritta, tra gli altri, da: Giorgio Amendola, Benedetto Croce, Pietro Calamandrei, Alcide de Gasperi, Giuseppe di Vittorio, Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Ugo La Malfa, Giorgio La Pira, Luigi Longo, Aldo Moro, Costantino Mortati, Pietro Nenni, Francesco Saverio Nitti, Umberto Nobile, Vittorio Emanuele Orlando, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat, Ignazio Silone, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, Paolo Treves, Leo Valiani, Benigno Zaccagnini.
Gli artefici della modifica del 2005
La modifica di ben 53 articoli della Costituzione repubblicana votata dalla maggioranza di centro-destra nel 2005 è stata elaborata da Andrea Pastore, Francesco D'Onofrio, Roberto Calderoli e Domenico Nania, scelti dalle segreterie dei rispettivi partiti (FI, UDC, Lega Nord, AN), riuniti per qualche giorno in una baita di montagna (località Lorenzago).
La proposta di legge costituzionale al vaglio del prossimo referendum popolare è stata approvata, con lasola maggioranza del centro-destra, dalla Camera dei deputati nella seduta del 20 ottobre 2005, e dal Senato della Repubblica nella seduta del 16 novembre 2005. La procedura per la sottoposizione della proposta di legge a referendum popolare è stata attivata dai parlamentari appartenenti al centrosinistra, dagli elettori attraverso la raccolta di oltre ottocentomila firme, e da quasi tutti i Consigli delle regioni italiane.
Il testo di modifica della Costituzione contiene una complicatissima normativa transitoria che avrebbe l’effetto di far entrare in vigore molte delle sue disposizioni a partire addirittura dalla XVII legislatura (2016). Le modifiche agli articoli 55 (trasformazione del Senato della Repubblica in Senato federale), 56 primo comma, 57 primo e sesto comma (introduzione dei senatori senza diritto di voto), 58 (eleggibilità a senatore), 59 (deputati a vita), 60 primo comma (durata in carica dei deputati), 61 (rinnovo della Camera) si applicano "nella prima legislatura successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale".
In pratica tali norme entreranno in vigore - esito del referendum permettendo - nella XV legislatura (2006-2011), ma si applicheranno dalla XVI legislatura (2011-2016). Il resto (riduzione del numero di deputati e senatori, elettorato attivo e passivo, durata in carica dei senatori e dei consigli regionali) si applicherebbe "per la successiva formazione della Camera dei deputati, nonché del Senato federale della Repubblica trascorsi cinque anni dalle prime elezioni del Senato medesimo", (dunque, per la XVII legislatura del 2016). Inoltre, "fino all'adeguamento della legislazione elettorale alle disposizioni della presente legge costituzionale trovano applicazione le leggi elettorali per il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati, vigenti al momento dell'entrata in vigore della riforma”: questa clausola potrebbe - facendo venir meno l'attuazione del nuovo bicameralismo - ritardare l'applicazione di numerose altre disposizioni contenute nel progetto. Inoltre, il potere presidenziale di scioglimento della Camera e il rapporto Governo-Parlamento come ridisegnati dalla revisione costituzionale saranno operanti "a decorrere dalla prima legislatura della Camera dei deputati successiva a quella in corso alla data di entrata in vigore della legge costituzionale" (XVI legislatura). La ripartizione delle competenze legislative Stato-regioni sarà invece operante dall'entrata in vigore della riforma.
Nel dettaglio, tra le disposizioni transitorie contenute nell’articolo 53 della legge costituzionale in relazione alla prima applicazione della riforma, si segnala che: a) solo le disposizioni di cui agli articoli 65, 69, 76, 84, 98-bis, 114, 116, 117, 118, 120, 122, 123, 126, terzo comma, 127, 127-bis, 131 e 133 della Costituzione, come modificati dalla proposta di legge costituzionale al vaglio del referendum popolare, si applicherebbero a decorrere dalla data di entrata in vigore della modifica costituzionale;
b) le disposizioni di cui agli articoli 55, 56, primo comma, 57, primo e sesto comma, 58, 59, 60, primo comma, 61, 63, 64, 66, 67, 70, 71, 72, 73, 74, 77, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 87, 88, 89, 91, 92, 93, 94, 95, 96, 104, 126, primo comma, 127-ter, 135 e 138 della Costituzione, come modificati dalla proposta di legge costituzionale sottoposta a referendum popolare si applicherebbero a partire dalla prima legislatura successiva a quella nel corso della quale entra in vigore la modifica della Costituzione (cioè dalla XVI legislatura 2011-2016). Gli articoli 56, secondo, terzo e quarto comma, 57, secondo, terzo, quarto e quinto comma, 60, secondo e terzo comma, come modificati dalla proposta di legge costituzionale sottoposta a referendum costituzionale, si applicherebbero per la successiva formazione della Camera dei deputati, nonché del senato federale della Repubblica trascorsi cinque anni dalle prime elezioni del Senato medesimo (cioè a partire dalla XVII legislatura del 2016);
c) in sede di prima applicazione dell’art. 135 della Costituzione, come modificato dalla proposta di legge costituzionale sottoposta a referendum popolare, alla scadenza del mandato dei giudici della Corte costituzionale già eletti dal Parlamento in seduta comune e alle prime scadenze del mandato di un giudice già eletto dalla suprema magistratura ordinaria e di un giudice già nominato dal Presidente della Repubblica, l’elezione dei nuovi giudici sarebbe attribuita alternativamente al Senato federale della Repubblica, integrato dai Presidenti delle Giunte delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, e alla Camera dei Deputati;
d) nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della proposta di legge costituzionale sottoposta a referendum popolare si 26 potrebbero, con leggi costituzionali, formare nuove regioni con un minimo di un milione di abitanti, a modificazione dell’elenco di cui all’articolo 131 della Costituzione, senza il concorso delle condizioni richieste dall’articolo 132 della Costituzione, fermo restando l’obbligo di sentire le popolazioni interessate.
Dove recuperare il testo della modifica costituzionale:
http://www.governo.it/governoinforma/dossier/devolution/index.html
Dove seguire il dibattito:
http://www.referendumcostituzionale.org
http://www.cgil.it/nuovoportale/Documenti/RiformaCostituzionale/default.htm
http://www.repubblica.it/speciale/2005/dossier_devolution/index.html?ref=hppro
Nell'immagine i firmatari: Enrico De Nicola, presidente della Repubblica, Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio, Umberto Terracini, Ministro di Grazia e Giustizia: le componenti liberale, democristiana e socialista della Resistenza. La Costituzione è entrata in vigore il 1° gennaio 1948
PRINCIPI FONDAMENTALI
Articolo 1.
L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Articolo 2.
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Articolo 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Articolo 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Articolo 5.
La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.
Articolo 6.
La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.
Articolo 7.
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Articolo 8.
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
Articolo 9.
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Articolo 10.
L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.
Articolo 11.
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Articolo 12
La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.
PARTE I
DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
TITOLO I
RAPPORTI CIVILI
Articolo 13.
La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Articolo 14.
Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.
Articolo 15.
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.
Articolo 16.
Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.
Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.
Articolo 17.
I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.
Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
Articolo 18.
I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.
Articolo 19.
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.
Articolo 20.
Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.
Articolo 21.
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.
Articolo 22.
Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.
Articolo 23.
Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
Articolo 24.
Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.
Articolo 25.
Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
Articolo 26.
L'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali.
Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici.
Articolo 27.
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.
Articolo 28.
I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.
TITOLO II
RAPPORTI ETICO-SOCIALI
Articolo 29.
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.
Articolo 30.
È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.
La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima.
La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.
Articolo 31.
La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
Articolo 32.
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Articolo 33.
L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
È prescritto un esame di Stato per l'ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l'abilitazione all'esercizio professionale.
Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.
Articolo 34.
La scuola è aperta a tutti.
L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
TITOLO III
RAPPORTI ECONOMICI
Articolo 35.
La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.
Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.
Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero.
Articolo 36.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
Articolo 37.
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
Articolo 38.
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera.
Articolo 39.
L'organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
Articolo 40.
Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano.
Articolo 41.
L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Articolo 42.
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.
Articolo 43.
A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Articolo 44.
Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà.
La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane.
Articolo 45.
La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l'incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell'artigianato.
Articolo 46.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
Articolo 47.
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.
Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e aldiretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.
TITOLO IV
RAPPORTI POLITICI
Articolo 48.
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
La legge stabilisce requisiti e modalità per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all'estero e ne assicura l'effettività. A tal fine è istituita una circoscrizione Estero per l'elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Articolo 49.
Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.
Articolo 50.
Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità.
Articolo 51.
Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
La legge può, per l'ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.
Articolo 52.
La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.
Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici.
L'ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica.
Articolo 53.
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Articolo 54.
Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.