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«Il testo scardina il Parlamento e assegna tutto il potere al governo. Nadia Urbinati, la presidente di Libertà e Giustizia: “Questa legge è un pasticcio, nelle mani sbagliate potrebbe portare guai”».

Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016 (p.d.)

Renzi vuole trasformare il referendum di ottobre in un plebiscito perché deve semplificare tutto. Non può spiegare che la riforma cambierà circa 40 articoli della Costituzione, mutando la forma di governo: ma accettare la sua logica, quella del “o con me o il diluvio” sarebbe un errore. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica presso la Columbia University di New York, neo-presidente di Libertà e Giustizia, boccia la riforma costituzionale: “Se finisse nelle mani sbagliate, con un’altra maggioranza, ci sarebbe da rabbrividire”.
Perché è così dura? Chi si oppone è solo un conservatore, obietterebbero i renziani.
I pensatori del ‘700 dicevano che le buone Costituzioni sono quelle scritte per i demoni e non per gli angeli. Bene, questa riforma della Carta devono averla scritta pensando agli angeli, perché scardina il sistema parlamentare e concentra il potere nelle mani del presidente del Consiglio, del suo governo e della sua maggioranza. E quindi va maneggiata con molta cura.

Vede rischi di deriva autoritaria?

L’attuale maggioranza non mi suscita ancora queste preoccupazioni. Ma se ne arrivasse una diversa...

Rimane il fatto che su questa riforma Renzi punta tutto. “Se perdo il referendum vado a casa”, ripete allo sfinimento.

Come Giovanni Sartori, propendo a non credergli. Cerca il plebiscito perché non può e non vuole spiegare nel dettaglio questa riforma. L’articolo 138 della Costituzione disciplina le leggi di revisione della Carta. Ma questa non è una revisione, un intervento mirato su alcuni punti, bensì è una riforma radicale, che muta la forma della nostra Repubblica. Per cui, sottoporla a referendum significa necessariamente chiedere un voto sui suoi proponenti e non sul merito. Non è possibile che in un semplice Sì o No si possa tenere conto di tutti gli aspetti di questa legge. E poi porre l'aut aut è tipico di Renzi, e della sua visione della politica. Una visione di comando.

Ma in tutto il mondo è ormai il tempo dei leader che decidono, non crede?

Non è così. I leader preponderanti nelle democrazie costituzionali devono fare i conti con sistemi di contrappesi al loro potere. Nella riforma renziana invece i meccanismi di controllo saranno pesantemente espressione della maggioranza. C’è un presidenzialismo non confessato e quindi senza una struttura con precisi contrappesi e controlli, come avviene invece nelle repubbliche presidenziali. Questa legge è un pasticcio, che concede un’ampia discrezionalità di azione al governo e al suo leader.

Però in Italia decidere è sempre stato complicato. Renzi vuole dare più poteri al governo per velocizzare tutto, e forse su questo ha ragione.

Il fare non è in sé necessariamente buono o giusto. Dopodiché, non è vero che con i sistemi parlamentari non si decide. In Italia abbiamo avuto importanti decisioni molte delle quali buone, prese in Parlamento. Certo, il bicameralismo perfetto andrebbe riformato, ma non così. Da questo punto di vista, la Renzi-Boschi è un’occasione perduta.

Il cardine della riforma è proprio il nuovo Senato, con poteri limitati...

Ecco, non è vero che il nuovo Senato renderà più veloci i lavori. Sono previsti almeno sette procedimenti legislativi per Palazzo Madama, e ciò renderà tutto più farraginoso.

Non si andrà più veloci?

Non sembrerebbe.

Renzi però potrà contare su argomenti forti a ottobre. Potrà propagandare il taglio dei senatori e quindi dei costi. Come si può ribattere?

Non sarà facile, anche perché sulle tv e sui grandi giornali appare solo lui. Parla sempre e soltanto Renzi, e a ridosso della votazione questo fenomeno aumenterà. Detto questo, è un errore scendere sul piano del plebiscito. Bisognerà contestare questa strategia entrando nel merito, mostrando le conseguenze di questa riforma.

Però il tema è difficile, ostico. Come si può portare la gente alle urne se non politicizzando questo referendum, anche contro Renzi?

Questo è un problema concreto. Io dico che all'inizio bisognerà mostrare tutti i vizi di questa riforma. Poi, quando Renzi radicalizzerà la strategia verso il plebiscito, bisognerà evidenziare tutti i suoi limiti e quelli del suo governo. Si dovrà arrivare a questo manicheismo, con tutti i rischi che comporta. Ma soprattutto si dovrà porre il tema di un’equa competizione a tutte le autorità, a cominciare dal Quirinale. Lo strapotere mediatico del presidente del Consiglio va contenuto, o rischia di non esserci partita.

Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2016 (p.d.)

Cosa rappresenta per lui e per tutto il sindacato nemmeno lo domandiamo.
“La Carta –spiega Maurizio Landini, segretario dei metalmeccanici della Cgil – è il manifesto della Repubblica che ha il lavoro come fondamento”. E aggiunge: “ Se penso alla vicenda della Fiom con la Fiat che ci voleva escludere dalla contrattazione, la nostra partecipazione è stata garantita dalla Carta costituzionale e dalla Corte costituzionale”.
Dunque, la Carta al centro.

Avete paura di perdere? Informare i cittadini e far capire l'importanza del referendum non sarà semplice: la materia è ostica.

Alla luce delle intercettazioni che hanno svelato gli affari attorno a Tempa Rossa, manderei un messaggio molto preciso e semplice: il problema non è la Costituzione, il problema è la corruzione. La riforma Boschi mira a ridurre gli spazi di partecipazione dei cittadini e aumenta gli spazi di gestione autoritaria. Bisognerebbe con forza affermare che sempre la Corte costituzionale ha anche giudicato illegittima la legge elettorale con cui è stato eletto il Parlamento attualmente in carica. Il quale ha ben pensato di procedere a una riforma costituzionale, nonostante la dichiarazione d’illegittimità della consulta.

Questo ci racconta una certa spudoratezza.

Ma questo è anche il Parlamento dei record di cambi di casacca! Una legislatura che va avanti a colpi di fiducia. Stiamo vedendo solo un antipasto di quello che ci verrà servito se passa la riforma. Il punto non può essere Renzi o chiunque altro: le persone passano. Dobbiamo domandarci cosa – quale Paese – lasciamo a chi verrà dopo di noi. Io penso che la Costituzione andrebbe applicata, non modificata.

Renzi dice che il no si spiega solo con l’odio nei suoi confronti e che se non passa il referendum se ne va.

Questo è un messaggio da rispedire con forza al mittente. Deve smetterla: oltretutto non ha mai sottoposto ai cittadini un programma, governa con i voti di Bersani. E a proposito di questo: per redigere la Costituzione fu votata dai cittadini italiani un’assemblea che aveva questo esplicito mandato, cioè regolare il patto di convivenza, su quali principi si dovesse fondare il nostro vivere insieme come comunità. Tra l’altro quell’assemblea fu eletta con un sistema proporzionale. Lo sottolineo perché l’intenzione era quella di affermare al massimo il principio di rappresentanza.

Secondo lei a cosa è funzionale questa riforma?

I provvedimenti presi dagli ultimi governi sono quelli indicati dalla Bce nella famosa lettera al governo Berlusconi: pensioni, possibilità di licenziamento, processo di privatizzazione, cancellazione dei contratti nazionali. Vorrei ricordare anche quel report di JP Morgan, banca d’affari, che nel 2013 si premurò di spiegare che il problema europeo sono le Costituzioni dei Paesi del Sud Europa, troppo influenzate da idee socialiste. Applicare la costituzione vuol dire cercare di allargare gli spazi di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori alla vita democratica. Non il contrario. Avanza l’idea di una Repubblica fondata sullo sfruttamento del lavoro e sul superamento della cittadinanza nei luoghi di lavoro.

In gennaio alla presentazione del Comitato per il No, Stefano Rodotà ha detto: “Il 2016 rischia di essere l'anno del congedo dalla Costituzione, mentre si preparano le celebrazioni per i 70 anni della Costituente”.
Io spero e credo che il 2016 sia l’anno in cui le persone devono essere messe di nuovo in condizione di poter decidere e partecipare. Inoltre, dal 9 aprile la Cgil ha cominciato una raccolta di firme per abrogare le leggi sbagliate che sono state fatte sul lavoro e per estendere i diritti a tutte le persone che lavorano.

Come legge i risultati del referendum sulle trivelle?

Ieri sono andate a votare 15,8 milioni di persone. E, di queste, 13,3 milioni hanno votato sì. In realtà, se mettiamo insieme i voti presi alle elezioni europee del 2014 del Pd e del Ncd - i partiti che ci stanno governando - sono meno di 12 milioni e mezzo. Questo dimostra che non è affatto scontato che il governo sulle scelte di politica economica e sociale che sta facendo abbia la maggioranza del Paese. Si è scontato il fatto che questo è stato un referendum nascosto dai mezzi d’informazione. Alla fine, sono scesi in campo anche il premier e un ex presidente della Repubblica per farlo fallire. Chi invita all’astensione incassa già il fatto che ormai quasi la metà degli italiani aventi diritto non votano, ciò determina situazioni paradossali. In Emilia Romagna, per il referendum è andato a votare il 34%. Due anni fa per l’elezione del presidente sono andati a votare il 37% degli aventi diritto. Anche Bonaccini non ha superato il “quorum”, ma è lo stesso governatore dell’Emilia. Il problema generale che si pone è che meno i cittadini esercitano gli strumenti democratici messi a loro disposizione, più aumenta il potere delle lobby e la distanza con la rappresentanza politica. Credo che i quasi 16 milioni di voti di ieri dicano che c’è richiesta di un nuovo modello di sviluppo, che oggi non ha rappresentanza, ma che non va lasciata cadere.

«Il manifesto, 13 aprile 2016

«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma arbitrio del più forte).

Oggi un Governo non legittimato da un voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47 articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il Presidente del Consiglio).

Vorrei mostrare perché questo enorme furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura da anni.

«Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio 2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).

Questo cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto delle nostre vite. Un mercato a cui non c’è alternativa: There Is No Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.

La genesi ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi “padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta (e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale) sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte prima della Carta costituzionale».

È un testo cruciale per comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art. 9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale».

Questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali. In quegli stessi giorni del giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano l’eco di un importante documento della grande banca d’affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche»….

È impressionante notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace».

Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».

E la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo, correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce, poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi deboli» rispetto ai Parlamenti. E, d’altra parte, la verticalizzazione autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager…

È questo il paradossale cuore del progetto: costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014). È questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra».

FIRMA L’APPELLO PER DIRE NO

ALLE RIFORME CHE RIDUCONO LE DEMOCRAZIA


Manca ormai solo il voto della Camera ad aprile per l’approvazione di una revisione costituzionale che riduce il Senato a un’assemblea non eletta dai cittadini e sottrae poteri alle Regioni per consegnarli al governo, mentre scompaiono le Province. Potevano essere trovate altre soluzioni, equilibrate, di modifica dell’assetto istituzionale, ascoltando le osservazioni, le proposte, le critiche emerse perfino nel seno della maggioranza. Si è preferito forzare la mano creando un confuso pasticcio istituzionale, non privo di seri pericoli. La revisione sarà oggetto di referendum popolare nel prossimo autunno, ma la conoscenza in proposito è scarsissima.

I cittadini, cui secondo Costituzione appartiene la sovranità, non sono mai stati coinvolti nella discussione. Domina la scena la voce del governo che ha voluto e dettato al Parlamento questadeformazione della Costituzione, che viene descritta come passo decisivo per la semplificazione dell’attività legislativa e per il risparmio sui costi della politica: il risparmio è tutto da dimostrare e la semplificazione non ci sarà. Avremo invece la moltiplicazione dei procedimenti legislativi e la proliferazione di conflitti di competenza tra Camera e nuovo Senato, tra Stato e Regioni.

Il risultato è prevedibile: sono ridotte le autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente dal Parlamento al governo, in contraddizione con il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e per di più il governo non sarà più l’espressione di una maggioranza del Paese. Già l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale definita Porcellum. Ancora di più in futuro: con la nuova legge elettorale (c.d. Italicum) – risultato diforzature parlamentari e di voti di fiducia – una minoranza, grazie ad un abnorme premio di maggioranza e al ballottaggio, si impadronirà alla Camera di 340 seggi su 630.

Ridotto a un’ombra il Senato, il Presidente del consiglio avrà ildominio incontrastato sui deputati in pratica da lui stesso nominati. Gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm) ne usciranno ridimensionati, o peggio subalterni. Se questa revisione costituzionale sarà definitivamente approvata la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ne risulterà stravolta in profondità. E’ gravissimo che un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Corte abbia sconvolto il patto costituzionale che sorregge la vita politica e sociale del nostro paese. Nel deserto della comunicazione pubblica e con la Rai sempre più nelle mani del governo,chiediamo a tutte le persone di cultura e di scienza di esprimersi in un vasto dibattito pubblico, anzitutto per informare e poi per invitare i cittadini a partecipare in tutte le forme possibili per ottenere i referendum, firmando la richiesta, e per bocciare con il voto nei referendum queste pessime leggi.

Sentiamo forte e irrinunciabile il compito di costruire e diffondere conoscenza per giungere al voto con una piena consapevolezza popolare, prima nel referendum sulla Costituzione e poi nei referendum abrogativi sulla legge elettorale. Per ottenere questi referendum sulla Costituzione e sulla legge elettoraleoccorrono almeno 500.000 firme, per questo dal prossimo aprile vi invitiamo a sostenere pienamente questo impegno. Facciamo appello a tutte le persone di buona volontà affinché diano il loro contributo creativo a questo essenziale dovere civico.

CLICCA QUI PER FIRMARE LA PETIZIONE SULLA PIATTAFORMA CHANGE.ORG

Ecco i primi firmatari:

Nicola Acocella, Marco Albeltaro, Vittorio Angiolini, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Michele Bacci, Andrea Bajani, Laura Barile, Carlo Bertelli, Francesco Bilancia, Franco Bile, Sofia Boesch, Ginevra Bompiani, Sandra Bonsanti, Mario Bova, Giuseppe Bozzi, Alberto Bradanini, Alberto Burgio, Maria Agostina Cabiddu, Giuseppe Campione, Luciano Canfora, Paolo Caretti, Lorenza Carlassare, Loris Caruso, Riccardo Chieppa, Luigi Ciotti, Pasquale Colella, Daria Colombo, Michele Conforti, Fernanda Contri, Girolamo Cotroneo, Nicola D’Angelo, Claudio De Fiores, Claudio Della Valle, Ida Dominijanni, Angelo D’Orsi, Roberto Einaudi, Vittorio Emiliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Vincenzo Ferrari, Maria Luisa Forenza, Patrizia Fregonese, Mino Gabriele, Alberto Gajano, Giuseppe Rocco Gembillo, Roberto Giannarelli, Paul Ginsborg, Antonio Giuliano, Fabio Grossi, Riccardo Guastini, Monica Guerritore, Elvira Guida, Leo Gullotta, Alexander Hobel, Elena Lattanzi, Paolo Leon, Antonio Lettieri, Rosetta Loy, Paolo Maddalena, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Maria Mantello, Ivano Marescotti, Annibale Marini, Anna Marson, Federico Martino, Enzo Marzo, Citto Maselli, Stefano Merlini, Gian Giacomo Migone, Giuliano Montaldo, Tomaso Montanari, Paolo Napolitano, Giorgio Nebbia, Guido Neppi Modona, Diego Novelli, Piergiorgio Odifreddi, Massimo Oldoni, Moni Ovadia, Alessandro Pace, Valentino Pace, Antonio Padellaro, Giovanni Palombarini, Giorgio Parisi, Gianfranco Pasquino, Valerio Pocar, Daniela Poggi, Michele Prospero, Alfonso Quaranta, Antonella Ranaldi, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Giuseppe Ugo Rescigno, Marco Revelli, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Gennaro Sasso, Vincenzo Scalisi, Giacomo Scarpelli, Silvia Scola, Giuseppe Sergi, Tullio Seppilli, Toni Servillo, Salvatore Settis, Armando Spataro, Mario Tiberi, Alessandro Torre, Nicola Tranfaglia, Marco Travaglio, Nadia Urbinati, Gianni Vattimo, Daniele Vicari, Massimo Villone, Maurizio Viroli, Mauro Volpi, Roberto Zaccaria, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanotelli.

Intervistata da Gianni Barbacetto la scrittrice motiva la sua adesione al referendum contro l'Italicum. "Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione"

Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016

R
osetta Loy, dopo tanti romanzi, ci ha regalato un racconto dell’Italia recente (Gli anni fra cane e lupo, Chiarelettere 2009) che è una storia addolorata di un Paese sospeso e braccato, tra stragi, corruzione e cattiva politica. Oggi meriterebbe un nuovo capitolo, quella sua storia che dalla bomba di piazza Fontana arrivava fino a Berlusconi. Intanto Rosetta Loy ha messo anche la sua firma sotto l’appello per il No al referendum costituzionale. “La nostra Costituzione non deve essere ferita. Ha retto benissimo il tempo, non vedo perché stravolgerla così”. Riforma? “Piuttosto un passo verso un sistema in cui i cittadini hanno sempre meno voce. Quello che verrà consolidato è il sistema della casta che taglia fuori i cittadini. Loro decidono, noi siamo fuori. Invece democrazia vuol dire: voce ai cittadini”.

Protagonista della scena politica e promotore della riforma costituzionale è Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico. “Renzi non mi ha mai conquistato, come figura politica, ma all’inizio mi sembrava una persona decisa, uno che voleva rinnovare la politica italiana. Si eraautoproclanato rottaatore. Invece non ho visto rinnovamento. Mi pare anzi di essere tornata ai tempi della Dc, con una casta che comanda dopo aver conquistato la maggioranza: ma non la maggioranza degli elettori, la maggioranza dentro la casta dei politici”.

È cambiato anche il partito, quel Pd erede del vecchio Pci. “È cambiato moltissimo. Attenzione: io non sono una politica, quindi non so fare un discorso politico. Sono sempre stata un po’ diffidente nei confronti della politica. Però sono una cittadina che è sempre stata attenta alla storia del suo Paese e si è sempre impegnata per cercare di capire ciò che succedeva. Oggi questo impegno, per i cittadini, è diventato molto più difficile. Ed ha anche molta meno forza, meno possibilità di pesare, di incidere sulla realtà”.

L’Italia è molto cambiata, dopo gli anni “fra cane e lupo”. Anche la cultura italiana. “Un tempo cultura e politica vivevano insieme. Forse perché c’era stata la guerra, c’era stato il fascismo: c’era un interesse forte che univa cultura e politica. Questo oggi si è stemperato tantissimo. Anche la cultura, oggi, non sai dove sia. La insegui, ma è come un gabbiano che vola in cielo e non capisci dove finirà.

Ci sono ancora figure che uniscono cultura e politica, io per esempio stimo moltissimo Stefano Rodotà. Ce ne sono anche altre. Sul versante politico, ho una grande stima per Pier Luigi Bersani. Quello che però non vedo più è una politica capace di discutere con gli elettori, di coinvolgere i cittadini. Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione. Non c’era bisogno di una riforma che regalasse più potere al governo, togliendolo al Parlamento. Non c’era bisogno di un ‘rinnovamento’ che consegnasse gran parte del potere politico nelle mani del capo del governo”. È l’effetto congiunto di riforma costituzionale e nuova legge elettorale. “Non fa parte della nostra storia. Forse potrà andare bene in America, ma noi in Italia abbiamo un’altra tradizione. Le garanzie e il bilanciamento dei poteri che ci vengono dalla nostra Costituzione sono un bene prezioso che dobbiamo conservare. Perché buttarle via? Per avere un governo più efficiente, ci dicono. Ma efficiente per fare che cosa? Per andare dove? Si occupassero almeno con efficienza della corruzione che sventra il Paese e dovrebbe essere la prima preoccupazione della politica. O della mafia che è partita dalle regioni del Sud ed è arrivata fino ai confini settentrionali del Paese”.

Invece la politica e i suoi nuovi personaggi di riferimento si occupano prevalentemente d’altro. “Maria Elena Boschi, la ministra delle riforme che ha dato la sua faccia a questo stravolgimento della Costituzione, è una delle creature di Renzi. Non è l’unica. E dietro di loro vedo occhieggiare un’altra figura: quella di Denis Verdini”.

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Il manifesto, 3 marzo 2016

Siamo vicini all’inizio della campagna referendaria sulla perversa deformazione del Senato. Per chi le si oppone, come a tutto il disegno devastante di Renzi, la lotta sarà durissima. È enorme il divario di forza tra i due schieramenti che si vanno costituendo. Variegati, come in tutti i referendum, lo è di più quello del No, il nostro. È perciò urgente non soltanto definire l’identità nostra di oppositori all’eversione renziana, indicando le ragioni del No, che, soprattutto su questo giornale, sono state esattamente enumerate e ampiamente motivate, ma, immaginando quali potranno essere le argomentazioni del Sì, per contestarle e rovesciarle.

Saremo certamente accusati di conservatorismo, immobilismo, passatismo, di sostegno ad apparati pletorici, inefficienti, costosi, inadeguati, irresponsabili ecc., di fonte ai quali poi …. si ergerebbe la modellistica istituzionale high-tech della onorevole Boschi. Renzi dirà che vogliamo mantenere intatto l’assetto istituzionale disegnato settanta anni fa, attribuendo, implicitamente o anche direttamente, a questo assetto la responsabilità dell’arretratezza del Paese, tacciandolo di inidoneità a reagire alla crisi economica, a fronteggiare i problemi reali come quello del precariato, della disoccupazione più alta d’Europa, della corruzione endemica, dei poteri mafiosi e quant’altro. Falso, certo. Ma il nuovismo è sciaguratamente penetrato nel senso comune ed ha gettato sulle istituzioni repubblicane la responsabilità dell’economia liberista, ha avvolto la democrazia costituzionale nell’ombra spessa della delusione.

Sarebbe perciò imperdonabile permettere che la sinistra referendaria possa apparire come tetragona guardiana degli assetti istituzionali esistenti, delle parole, degli accenti e delle virgole della Carta costituzionale. Perché non lo è, anzi, non può, non deve esserlo. Tanto più che dispone di un ricco patrimonio di proposte autenticamente riformatrici, quelle che, per riaffermare i principi della nostra Costituzione, perseguirne gli obiettivi, mantenerne le promesse, realizzare il compito della Repubblica, adeguerebbero perfettamente le nostre istituzioni alla fase storica del dominio del liberismo, della compressione dei diritti, del precariato, della disoccupazione permanente, delle ineguaglianze crescenti, del rischio incombente del collasso ecologico.

Dovremmo quindi indicarle. Perciò provo a sottoporre alla discussione un possibile quadro di proposte volte sia a riformare l’apparato centrale della Repubblica che ad integrare la democrazia rappresentativa con istituzioni della democrazia diretta.

Per quanto riguarda la struttura del Parlamento, riprenderei la nobile, costante e mai smentita scelta della sinistra a favore del monocameralismo e del sistema elettorale proporzionale, sistema da sancire contestualmente in Costituzione perché condizione indefettibile della opzione monocamerale. Un numero di 500 deputati potrebbe perfettamente soddisfare le esigenze rappresentative e quelle funzionali dell’organo.

Ai Presidenti delle Regioni andrebbe riconosciuto il potere di intervento e di emendamento nel corso del procedimento di formazione delle leggi della Repubblica, direttamente o indirettamente rilevanti per l’esercizio delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni.

A garanzia dell’ordinamento costituzionale, andrebbe prevista l’istituzione delle leggi organiche, da approvare con la maggioranza assoluta, sia articolo per articolo che nella votazione finale, in materia di diritti costituzionalmente riconosciuti, di organi supremi della Repubblica, delle Magistrature, delle Regioni.

Ad assicurare concretamente i diritti sociali, andrebbe poi sancita la destinazione, con norma costituzionale, di un terzo delle entrate fiscali alla spesa per assicurarne il godimento (art. 4, 32–38 della Costituzione).

A difesa dei “nuovi diritti”, dovrebbe essere prescritta l’inalienabilità, costituzionalmente sancita, dei beni (comuni) a godimento universale o territorialmente diffuso.

L’ integrazione della democrazia rappresentativa mediante istituti di democrazia diretta, comporterebbe innanzitutto l’ attuazione dell’art. 49 della Costituzione, con la conseguente qualificazione di partiti politici soltanto per le associazioni che assicurano di fatto (a) «la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale», (b) la responsabilità permanente della leadership nei confronti di una direzione collegiale rappresentante della base, © l’iniziativa congressuale di un quinto degli iscritti in caso di inerzia nella convocazione ordinaria (temporalmente cadenzata) del congresso, etc. (d) la carta dei diritti degli iscritti, (e) azionabili innanzi al giudice ordinario;

Andrebbe poi previsto l’obbligo del Parlamento di deliberare su proposte di legge di iniziativa popolare sottoscritte da 50 mila elettori, entro un anno dalla presentazione. Andrebbero inoltre istituiti: a) il referendum propositivo su un progetto di legge di ampia iniziativa popolare (500.000 elettori?) che incontri l’inerzia del Parlamento o la sua distorsione nei fini e nella portata, b) il ricorso diretto alla Corte costituzionale sulla legittimità di una legge (come previsto in Germania), c) il referendum preventivo alla ratifica dei trattati, come quelli europei, che intervengono sulle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, d) o sulle norme relative ai diritti costituzionalmente riconosciuti, d) o che impegnano militarmente la Repubblica.

Per questi obiettivi la vittoria del No al referendum costituirebbe presupposto e impegno per l’iniziativa popolare di progetti di leggi costituzionali volti a proporli. Respinta la deforma della Costituzione ordita dal Governo, sarebbe il corpo elettorale ad assumere l’onere della revisione della Costituzione per consolidarne i principi, attuarne i contenuti, adempierne il compito. Sì, quello dell’articolo 3, secondo comma, l’eguaglianza di fatto.

Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)

Di ritorno da Parigi,dove sta provando asventare la costruzionedi un mega McDonald's,Carlin Petrini rispondeal telefono e cominciacosì: «Vuole parlare delle riformecostituzionali? Io nonsono un tecnico, ma pensoche sia giusto dire quel che sipensa. Per senso civico. Hochiamato Gustavo Zagrebelskye gli ho detto che avrei sostenutole ragioni del Comitatoper il No. Mi sembra importante,nel momento in cuisi vogliono apportare modifichecosì significative al sistemademocratico, ascoltarecoloro che hanno dedicato unavita a studiare la Costituzione.E sento un fronte unitoe numeroso di professori chenon sono soltanto scettici, malanciano allarmi preoccupanti».

Perché è contrario?
Partiamo dal metodo. Il presidentedel Consiglio ha impostatola campagna sul referendum- sin da ora - come unplebiscito sulla persona. Ehno, non funziona così: la gentevaluterà l'operato dell'esecutivoalle elezioni politiche. Qui in discussione ci sono lenorme che regolano le istituzioni,dentro le quali il popoloè rappresentato. Qui non sidecide se l'azione politica delgoverno è buona o cattiva, sidecide del funzionamentodella democrazia, a prescindereda questo o quel governo.Aggiungo che Renzi stacommettendo un errore: nonsono per niente sicuro che icittadini si faranno “prendereper la giacchetta”, “o conme o contro di me”. Potrebbeavere un'amara sorpresa.

I costituzionalisti hannomesso in relazione la leggeelettorale per la Camera conla riforma del Senato.
Lo sbilanciamento verso ilgoverno sarà forte. E questonon va bene: se si creano regoleche lasciano ampi spazidi manovra senza controlli,bisogna pensare che questimargini larghi in futuro potrebberoessere utilizzati dapersone poco attente. O meglio:molto attenta al propriopotere, ma non al bene comune.Alla fine - tra Italicum eriforma Boschi - il risultatosarà un premierato forte conpochissimi contrappesi econtrolli tra poteri: il contrariodi quel che era nelle intenzionidei padri costituenti. Lanostra Carta è stata spessodefinita la più bella del mondo.

Eccome: Benigni ci ha fattouna trasmissione per la Rai.Però ha detto che voterà sì alreferendum.
Come cambia idea velocemente la gente! Posso dirlesolo che se devo esprimermisulla Costituzione ascoltoprima e con più attenzioneRodotà e Zagrebelsky del mioamico Benigni.

Antonio Padellaro sul ha lanciato l'idea di uno spotper invitare i cittadini a votareno: sarà difficile per chisi oppone contrastare lanarrazione renziana.
Tutto vero, ricordiamoci peròche nel 2006 la riforma costituzionaledi Berlusconi èstata bocciata dal popolo propriocon il referendum. Mancanootto mesi alla consultazione:la gente ha tempo d'informarsie di maturare opinionidiverse. Non darei nullaper scontato.

Una delle obiezioni mosse aicostituzionalisti è di essereconservatori perché non voglionomai cambiare nulladella Costituzione.
Non mi risulta che sia vero.Tanti di loro hanno ripetutoche questa è stata un'occasionepersa, proprio perché pensanoche ci siano meccanismida modificare: è un'affermazioneche condivido. Per esempionon è vero che sonocontrari a questo nuovo Senatoperché vogliono mantenereil bicameralismo perfetto.Poi non mi è piaciuto il modosbrigativo con cui è stataportata avanti la discussionein Parlamento sulla riforma.La Costituzione è una cosadelicata, va maneggiata concura. Non con fretta.

In barba all'articolo 11 della Costituzione l'Italia del governo Renzi continua a bruciare soldi per le spese di guerra. Atomiche, e di proprietà degli altri. Il Fatto Quotidiano online, blog di Toni De Marchi, 20 gennaio 2016

Il 12 novembre 2014 il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3, magazzini corazzati che custodiscono gli ordigni. Lo si legge in un documento della Corte dei Conti, datato 18 novembre 2015, sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014
Non solo in Italia ci sono armi nucleari, ma il Ministero della Difesa investirà molti milioni di euro per ammodernare i depositi corazzati che le custodiscono nella base aerea di Ghedi, in provincia di Brescia. La notizia è ufficiale, tanto ufficiale che il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 in data 12 novembre 2014 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3 (sta per Weapon Storage and Security System). Le informazioni su questo contratto, classificato “riservatissimo”, sono riportate nel documento della Corte dei conti sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014, la “Deliberazione 18 novembre 2015, n. 11/2015/G”. Il contratto riguarda la “progettazione definitiva completa di sondaggi geognostici e rilievo plano-altimetrico in relazione agli interventi di “realizzazione di sistema Wass” e “Upgrade WS3 security system” a Ghedi (Brescia)”.

Come è evidente dal titolo del capitolo dedicato all’argomento, il documento si riferisce ai soli oneri di progettazione che ammontano a “207.256,36 euro, oltre al contributo Inarcassa del 4 per cento pari a 8.290,25 euro, per un totale di 215.546,61 euro” come puntigliosamente annota il documento della magistratura contabile. Il che fa pensare, come suggerisce in una interrogazione la deputata pentastellata Tatiana Basilio, “che il costo delle opere in questione ammonti a molti milioni di euro, presumibilmente a carico del bilancio della Difesa italiano”.

La cosa è clamorosa perché da sessanta anni, governo dopo governo, è stata negata persino l’esistenza delle bombe atomiche in Italia. E invece non solo le abbiamo, ma i documenti ufficiali certificano che spendiamo soldi per tenerle nelle nostre basi aeree. Sia chiaro: era il famoso segreto di Pulcinella, ma la litania dei dinieghi ufficiali è sempre stata unanime e monocorde. Sono le famose armi a doppia chiave, cioè le bombe sono americane ma gli aerei che le porteranno sugli obiettivi nemici sono italiani. In questo caso i Tornado del 6° Stormo “Alfredo Fusco” di Ghedi. Dove tra qualche tempo arriveranno anche le nuovissime bombe nucleari B61-12 e forse proprio per questo si fanno i lavori.

Che il Weapon Storage and Security System WS3 sia un sistema di stoccaggio e protezione delle armi nucleari ce lo spiega senza giri di parole la Aviano Air Base Instruction 21-204 del 24 ottobre 2006 (Aviano è l’altra base italiana dove si trovano i WS3, ma questi sono usati dagli statunitensi). Un WS3 si trova all’interno di ciascuno dei ricoveri corazzati che ospitano gli aerei destinati all’attacco nucleare. Si tratta di un deposito sotterraneo che può contenere fino a quattro bombe nucleari. In caso di impiego, gli ordigni emergono dal ricovero blindato sotterraneo (vault) e sono agganciate ai piloni alari degli aerei. I Tornado, nel caso italiano, e fra qualche anno gli F-35.

Ma quanto ci costerà questo ammodernamento che non esiste? Certo, se uno spende oltre duecentomila euro solo per fare un po’ di disegni, per realizzare concretamente i lavori spenderà diversi milioni. E non pochi. A capire di cosa e di quanto stiamo parlando ci aiuta il governo della Turchia, incidentalmente nostro alleato, massacratore di curdi e ambiguo amico di Isis/Daesh. I turchi, a Incirlik, una base a circa cento chilometri dalle linee di combattimento siriane, ospitano anche loro alcuni depositi WS3 del tutto analoghi a quelli di Ghedi. Nel 2013 Ankara ha avviato un ammodernamento del sistema. La commessa, affidata alla società Aselsan, ha un valore di 79,8 milioni di lire turche (28,6 milioni di euro al cambio dell’epoca).

Considerando che, secondo il rapporto U.S. Nuclear Weapons in Europe di Hans M. Kristensen, Incirlik dovrebbe ospitare 25 sistemi WS3 e Ghedi undici e facendo le opportune proporzioni, stiamo parlando di una spesa per l’Italia che potrebbe aggirarsi sui 15 milioni di euro. Bruscolini, se consideriamo che questi depositi nucleari non esistono.
Il sito dell’impresa turca Kuanta, che materialmente sta eseguendo i lavori a Incirlik, ci dettaglia anche con notevole precisione in che cosa consistano. Possiamo dunque facilmente ritenere che le opere da realizzare a Ghedi siano dello stesso tenore, visto che si tratta di installazioni NATO standard praticamente identiche nelle due basi, al di là delle dimensioni. Magari qualcuno potrebbe far vedere i disegni dei turchi alla Pinotti, così la prossima volta che va in Parlamento per dire “la tipologia e la qualità delle informazioni rilasciabili sugli armamenti nucleari è quindi una decisione politica collettiva ed unanime degli alleati, cui nessun Paese può sottrarsi, pena la violazione del patto di alleanza liberamente sottoscritto e del vincolo di riservatezza che da esso ne discende” (dichiarazioni del 17 dicembre 2014 rispondendo a un’interrogazione del deputato Rizzetto), le si potranno fare delle domande su Incirlik poiché Ghedi non esiste.
Comunque, per aiutare la memoria selettiva della ministra, le potremmo consigliare la lettura alla sera di un curioso libriccino intitolato Air Force Instruction 21-200. Lettura forse un po’ impervia, ma istruttiva, dalla quale si può apprendere a pagina 16 cosa fanno i MUNSS (Munitions Support Squadron), di cui ne esistono solo quattro al mondo, uno dei quali si trova, guarda caso, a Ghedi. Dice il noioso manualetto che il MUNSS è “responsible for receipt, storage, maintenance, and control of United States (US) nuclear weapons in support of the North Atlantic Treaty Organization (NATO) and its strike mission”. Dove la parola “nuclear” non ha bisogno di traduzione. Evidentemente la Pinotti penserà che si tratti di materiale COSMIC/ATOMAL/TOP SECRET e invece basta cercare su Internet. Questi yankee non hanno alcun rispetto per i poveri ministri italiani che da cinquant’anni fanno la parte di quelli che non sanno.

«». Determinanti i voti di Verdini e dei suoi camerati. Il manifesto
«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta — 180 favorevoli — la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber. E Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» — lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.

Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti — chiusi da «viva l’Italia» — ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle “sue” elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.

Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo».

Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».

Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.

Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo — la fiducia monocamerale, le leggi a data certa — e la maggioranza — la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica — che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più.

E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco). Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

La revisione costituzionale è invecchiata prima di nascere. È rivolta al passato, sigilla il presente e non dice nulla al futuro del Paese. Le decisioni più importanti sono rinviate o nascoste. È rinviata la diminuzione del numero delle Regioni. È nascosta la cancellazione del Senato. È negata la riduzione del numero dei deputati.

Diventa più conflittuale il rapporto tra Stato e Regioni, poiché entrambi i livelli sono dotati di competenze definite esclusive, che non possono trovare alcuna mediazione dopo la cancellazione della legislazione concorrente. Il superamento delle piccole Regioni, invece, avrebbe creato macroregioni più adatte a cooperare con la politica nazionale e a muoversi nello spazio europeo. Il governo ha promesso di realizzarle con una prossima revisione costituzionale, ammettendo clamorosamente che oggi si approva una legge non risolutiva.

Il nuovo procedimento legislativo è farraginoso. Aumentano i conflitti di competenza e si producono nuovi contenziosi presso la Consulta. Palazzo Madama diventa un dopolavoro per amministratori locali, un’assemblea senza prestigio che cercherà di riguadagnare i poteri perduti ricorrendo allo scambio consociativo con il governo. Se doveva cadere così in basso era più dignitoso abolire il Senato. In una sola Camera sarebbe stato ineludibile definire i contrappesi del sistema maggioritario: votazioni qualificate sui diritti fondamentali, poteri di iniziativa delle minoranze, controllo dell’attività governativa. Il monocameralismo ben temperato è preferibile a un bicameralismo pasticciato.

La maldestra propaganda sui costi della politica si è arenata in Transatlantico. Si conserva l’anomalia di una Camera di 630 membri che non ha pari in nessun Parlamento europeo. Un’assemblea tanto grande quanto debole, i cui membri devono tutto alla nomina dei capipartito oppure all’aumento dei seggi connesso con l’elezione del premier. Si doveva ridurre il numero dei deputati e selezionarli nei collegi uninominali, senza ricorrere ai signori delle preferenze e ai nominati dell’Italicum. Si sarebbe rafforzata l’autorevolezza della Camera nei confronti dell’esecutivo. La democrazia americana, pur guidando un impero, non ha mai rinunciato all’equilibrio di poteri tra Governo e Parlamento.

Perché tante occasioni perse? La mancanza di una vera riforma ha prodotto un testo lunghissimo, di scadente fattura normativa, di sgradevole gergo burocratico. Basta leggere, ad esempio, le ulteriori competenze del Senato definite – cito testualmente l'articolo 10 - nelle “leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Si, è scritto proprio così. Sembra un decreto “mille proroghe” e invece è un brano costituzionale, è uno scarabocchio che offende il linguaggio semplice e intenso dei costituenti. Da come parli capisco che cosa vuoi, suggerisce il buon senso popolare. La forma sciatta rivela il basso profilo politico.

Il vizio d'origine consiste nel cambiare la Costituzione per stabilizzare un governo altrimenti privo del mandato elettorale. Bisognava modificare subito il Porcellum per restituire la parola agli elettori. Invece, l'esigenza politica contingente prevale su ogni garanzia istituzionale, fino al paradosso di riscrivere la seconda parte della Carta in un Parlamento eletto in forma illegittima. In Italia non si governa per migliorare lo Stato, si cambia lo Stato per rafforzare il governo. Al contrario, le Costituzioni disciplinano la politica e conquistano la lunga durata.

Su questo principio sono fallite le riforme dell’ultimo ventennio. Approvate sempre da una parte contro l’altra, per puntellare i governi che avevano perso la fiducia degli elettori, come fece Berlusconi nel 2005 e, ahimè, anche la mia parte con il Titolo V. Si ripetono tutti gli errori già commessi da destra e da sinistra, mettendoci anzi più entusiasmo, fino a chiedere un plebiscito personale. Il Presidente Renzi è il grande conservatore della Seconda Repubblica. Si erige un monumento alle ideologie del ventennio, proprio mentre tramontano in tutta Europa.

Tutto era cominciato negli anni novanta con le speranze di una sorta di modello Westminster all’italiana. Oggi il bipolarismo è in affanno anche in quell’antico palazzo inglese, non esiste più in Spagna, è travolto in Francia dal lepenesimo, è sterilizzato dalle larghe intese in Germania. L’Italicum e la legge Boschi si accaniscono a tenerlo in vita artificialmente, ricorrendo al premierato assoluto senza contrappesi: una minoranza del 20% degli aventi diritto al voto conquista il banco e impone la propria volontà alla maggioranza del paese. Tutto ciò aumenta l’astensionismo e riduce il consenso verso la competizione bipolare. Ovunque la vecchia dialettica tra i partiti è travolta dalla nuova frattura tra élite e popolo. I paesi europei sono diventati ingovernabili per eccesso di governabilità

Si è dimenticata una semplice verità: per guidare le società frammentate di oggi occorre un consenso più ampio di ieri; le classi politiche debbono imparare a convincere i popoli invece di ridurre la rappresentanza; i premi di maggioranza alla lunga non riescono a surrogare gli elettori che non votano.

Si è ridotta la politica a mera amministrazione di sistema. Da qui è scaturito il primato degli esecutivi sui Parlamenti. Ma nell’orizzonte europeo tornano i grandi dilemmi della pace e della guerra, dei limiti e dei nessi tra religione e politica, dell’accoglienza e del rifiuto dei migranti, della libertà individuale e dell’etica pubblica, della potenza tecnologica e dell’intangibilità della vita, dello sviluppo economico e della durata della Terra.
Non sono problemi risolvibili dagli esecutivi, sono conflitti contemporanei che hanno bisogno di nuovi riconoscimenti culturali e politici. E saranno possibili solo in un'inedita democrazia parlamentare, come non l'abbiamo ancora conosciuta. Quella del secolo passato seppe neutralizzare i conflitti Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro. Sono ancora da immaginare i Parlamenti capaci di ricomporre le fratture della civiltà europea nel nuovo secolo. È la sfida politica dei tempi nuovi.

Il mondo che abbiamo davanti è molto diverso da quello degli anni novanta. Le riforme istituzionali della seconda Repubblica sono ormai vecchi arnesi. La riforma costituzionale per il futuro italiano non è stata ancora scritta.

«Si demolisce un pilastro della Repubblica italiana, da governi di ogni tinta e con la complicità di un parlamento che, in stragrande maggioranza, acconsente o resta inerte. L’Italia, sempre sotto comando Usa direttamente, passa di guerra in guerra». Il manifesto, 19 gennaio 2016 (m.p.r.)

Un importante anniversario va ricordato nel quadro del 25° della prima guerra del Golfo: essa è la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando il principio, affermato dall’Articolo 11 della Costituzione, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Nel settembre 1990, su decisione del sesto governo Andreotti, l’Italia invia nella base di Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti una componente aerea di cacciabombardieri Tornado. Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1991, 8 Tornado italiani decollano per bombardare obiettivi iracheni stabiliti dal comando Usa, in quella che l’Aeronautica ricorda ufficialmente come «la prima missione di guerra compiuta dall’Aeronautica italiana, 46 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale». A questa missione (durante la quale un Tornado viene abbattuto e i due piloti fatti prigionieri) seguono altre missioni di bombardamento sempre sotto comando Usa, per complessive 226 sortite, tutte «coronate da pieno successo». Si aggiungono 244 missioni italiane di velivoli da trasporto e 384 di velivoli da ricognizione, «operanti in Turchia nel quadro della Ace Mobile Force Nato» (a conferma che la Nato, pur senza intervenire ufficialmente, partecipa in realtà alla guerra con sue forze e basi).
Questa «prima missione di guerra» è decisiva per il varo del «nuovo modello di difesa» subito dopo la guerra del Golfo, sulla scia del riorientamento strategico Usa/Nato. Nell’ottobre 1991 il Ministero della difesa pubblica il rapporto «Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90». Il documento riconfigura la collocazione dell’Italia, definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il Golfo Persico». Stabilisce quindi che «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo».
Il «nuovo modello di difesa» passa quindi da un governo all’altro, senza che il parlamento lo discuta mai in quanto tale. Nel 1993 - mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi - lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali». Nel 1995, durante il governo Dini, afferma che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere a misura dello status del paese nel contesto internazionale». Nel 1996, durante il governo Prodi, si ribadisce che «la politica della difesa è strumento della politica estera». Nel 2005, durante il governo Berlusconi, si precisa che le forze armate devono «salvaguardare gli interessi del paese nelle aree di interesse strategico», le quali comprendono, oltre alle aree Nato e Ue, i Balcani, l’Europa orientale, il Caucaso, l’Africa settentrionale, il Corno d’Africa, il Medio Oriente e il Golfo Persico.
Attraverso questi e successivi passaggi, si demolisce un pilastro fondamentale della Repubblica italiana, per mano dei governi di ogni tinta e con la complicità di un parlamento che, in stragrande maggioranza, acconsente o resta inerte. Mentre l’Italia, sempre sotto comando Usa direttamente o nel quadro Nato, passa di guerra in guerra.

ULTIME 48 ORE PER IL SENATO
di Andrea Fabozzi

Altro che «pausa di riflessione». Scaduti (giovedì scorso) i tre mesi di intervallo previsti dall’articolo 138 della Costituzione che regola le procedure di revisione della Carta, la riforma firmata Renzi-Boschi arriva immodificabile al senato. La maggioranza ha imposto ritmi serrati in commissione — ieri tre sedute, l’ultima notturna, stamattina una quarta — in modo da esaurire gli oltre sessanta interventi programmati e portare il disegno di legge oggi pomeriggio in discussione generale in aula e domani già al voto finale.

Sarà un prendere o lasciare, nessuno spazio per modifiche: anche questo è previsto dall’articolo 138, ma nel senso che il dubbio sopravvenuto durante la «riflessione» dovrebbe spingere i parlamentari a bocciare la modifica costituzionale. Tanto più in questo caso, trattandosi della riscrittura di oltre un terzo della Carta. Invece no, anche i senatori della minoranza Pd (una ventina) che mantengono le critiche sull’incrocio tra la riforma e la nuova legge elettorale e che per questo dichiarano di tenersi aperta la scelta sul referendum confermativo, voteranno sì. La legge raccoglierà la maggioranza assoluta dei senatori (fissata a quota 161) ma non la maggioranza qualificata dei due terzi: da qui il referendum che si terrà in ottobre. Per non rischiare nulla, Renzi ha spostato di 24 ore l’assegnazione delle poltrone di sottogoverno e la guida di due commissioni al senato: Ncd ha ambizioni su entrambi i fronti. «Evidentemente c’è un problema di numeri — ha detto la senatrice De Petris capogruppo di Sel — nessuno avrebbe avuto pensieri maligni se si fosse proceduto, come previsto, prima con il rinnovo dei presidenti di commissione e dopo con le riforme». L’ultimo atto di questa seconda lettura al senato è previsto per domani dalle 17, il Movimento 5 Stelle leggerà in aula i messaggi dei cittadini.

Intanto un particolare interessante sulla genesi della nuova legge elettorale è stato raccontato alla presentazione del libro del deputato verdiniano Massimo Parisi sui retroscena del «patto del Nazareno». Le basi dell’Italicum sarebbero state gettate in un incontro tra Verdini e il professore Roberto D’Alimonte il 12 gennaio 2014 a Firenze, in casa del politologo. Renzi, da un mese segretario del Pd, aveva allora sul piatto tre modelli diversi di legge elettorale e il Pd non aveva scelto il suo. Al governo c’era Enrico Letta. Già il giorno successivo a quell’incontro, 13 gennaio, Renzi fu ricevuto al Quirinale da Napolitano «per parlare di legge elettorale». Un mese dopo Letta fu invitato ad accomodarsi.

CONSERVATORI AL POTERE
IL REFERENDUM È PER IL CAMBIAMENTO
di Gaetano Azzariti

La strategia dei fautori della riforma è chiara, enunciata senza mezzi termini dal presidente del Consiglio: «da una parte ci saremo noi, il partito del cambiamento, dall’altra loro, i difensori della casta, e gli italiani non avranno dubbi». Spetta agli oppositori decidere se accettare questo terreno di scontro avversando il nuovo che avanza in nome di nobili principi calpestati, esponendosi però così all’accusa di conservatorismo; oppure valutare se vi siano le forze e la voglia di cambiare registro, giocando la partita referendaria non in difesa, ma all’attacco. In primo luogo denunciando l’incapacità della riforma costituzionale ad affrontare la grave situazione di crisi dello Stato costituzionale. Modifiche costituzionali che risultano inadeguate poiché si pongono in forte continuità con quelle logiche regressive del passato — per dirla in sintesi, rafforzamento dell’esecutivo e svalutazione della rappresentanza — che ci hanno portato in questa situazione di crisi, dalla quale è necessario fuoriuscire.
È una lotta dunque tra «noi, il partito del cambiamento e loro i difensori della casta», per riprendere le espressioni tranchantes del Presidente del Consiglio, ovvero, più correttamente, una battaglia contro i conservatori al potere.

Per far passare nell’opinione pubblica questo messaggio di verità, nonostante l’evidente sproporzione di forze, credo sia necessario non farsi attrarre dalla politica dell’illusionismo emotivo (fatta di slogan e rissa mediatica), per provare a riflettere con serietà sui punti di caduta del nostro ordinamento costituzionale, concentrando la nostra attenzione sulle fragilità della democrazia contemporanea che sono all’origine della crisi politica, sociale e morale del paese.

Due le questioni da porre al centro del dibattito. Da un lato, il tema della crisi del ruolo del parlamento, privato della sua essenza e del suo valore; dall’altro, il problema della rappresentanza politica, svuotata dalla distanza sempre più preoccupante tra governati e governanti.

La domanda da porre allora è la seguente: la riforma costituzionale riesce ad invertire la rotta, a dare nuovo impulso alle due questioni indicate sulle quali si regge la democrazia pluralista, oppure continua a farci restare nel pantano?

Iniziamo dal parlamento. Si è modificato il bicameralismo perfetto. Bene. Ma veramente si pensa — o si vuol far credere — che i mali del parlamentarismo si possono affrontare passando dal bicameralismo perfetto ad un bicameralismo confuso com’è quello che è stato immaginato? Ci si può veramente illudere che la crisi del regime parlamentare si possa affrontare intervenendo solo sulla redistribuzione delle funzioni e sulla composizione delle due camere, non considerando per nulla le ragioni strutturali che sono alla base dello svuotamento del potere parlamentare?

Bisogna essere più radicali. È la forma di governo parlamentare che deve essere ripensata, oggi in sofferenza a causa dello squilibrio nei rapporti tra governo e parlamento, sbilanciamento a favore del primo e a scapito del secondo. Il saggio revisore, il vero innovatore, anziché favorire l’involuzione rafforzando i poteri dell’esecutivo e comprimendo ulteriormente quelli del legislativo, dovrebbe fare esattamente l’inverso.

Bisognerebbe limitare e regolare lo strapotere del governo in parlamento, intervenendo sul profluvio ingiustificato di richieste di fiducia, sulla decretazione d’urgenza, sui maxiemendamenti, che umiliano l’autonomia del parlamento e dei parlamentari; si dovrebbero riscrivere i regolamenti, per regolare il dibattito parlamentare ed evitare i tempi contingentati che impediscono il confronto; sarebbe necessario assegnare alle opposizioni uno statuto ben definito e di garanzia, ostacolando così le pratiche ostruzionistiche a volte impropriamente utilizzate; appare urgente intervenire sull’organizzazione dei lavori per ridefinire il rapporto tra commissioni e aula, ricollocando al centro le commissioni — vero luogo di approfondimento e libera discussione — rispetto all’aula che ormai non rappresenta altro che un teatro della divisione, raffigurazione vuota e solo spettacolare del nostro organo parlamentare e dei nostri — spesso scalmanati — rappresentanti.

Certo si dovrebbe intervenire anche sulla struttura bicamerale. Ma — nella prospettiva del rilancio del parlamentarismo — bisognerebbe essere ben più radicali e coerenti. Tentare di riunificare la sovranità della rappresentanza popolare: un unica camera eletta con un sistema proporzionale. Chi se la sente di proporre una riforma rivoluzionaria come questa? Eppure in passato era proprio questa la frontiera più avanzata della sinistra. Poi la sinistra è evaporata e le frontiere sono state aperte, scomparse dalla topografia politica.

Rispetto alla gravità della crisi del parlamento come ha operato il nostro revisore costituzionale? Per dirla in sintesi: non ha scelto nessun modello e ha approfittato della confusione per acquisire un po’ di potere in più a favore di chi attualmente — ma solo pro tempore — lo detiene, favorendo il processo regressivo in atto.

Che non abbia scelto nessun modello appare chiaro se si guarda a come ha differenziato il bicameralismo. Nulla ha toccato con riferimento alla camera dei deputati, lasciando tutti i vizi che attualmente la attraversano; rendendo invece il cenato un Ufo, un oggetto non identificabile per struttura, funzioni, composizione. Poteva scommettere sul rilancio del regionalismo italiano e invece ha svuotato le competenze e i poteri degli enti territoriali.

Si è proposto l’obiettivo di semplificare il procedimento di formazione delle leggi ritenuto, non a torto, troppo farraginoso nel sistema attuale di bicameralismo perfetto, ed è riuscito nel capolavoro di passare da uno a dieci distinti iter, aprendo la strada al moltiplicarsi dei ricorsi alla Corte costituzionale, rendendo ancor più complesso far leggi in Italia. Ha adottato, infine, un non-criterio di composizione dell’organo. Come altro può definirsi, infatti, il compromesso (si fa per dire) definito all’art. 57 che prima introduce il principio dell’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, per poi smentire se stesso, assegnando la scelta, con formula in realtà anodina, agli elettori, rinviando poi tutto ad una futura legge bicamerale.

Ma, al di là delle critiche puntuali, delle improprietà tecniche, quel che mi preme sottolineare è il dato di fondo: questa riforma non è adeguata alla reale problematicità della crisi in atto, non ridarà dignità al parlamento, né è il frutto di una buona politica costituzionale.

Essa rappresenta, in continuità con il passato, un ulteriore passo verso la sclerosi del sistema parlamentare. C’è bisogno di altro in Italia. C’è bisogno di qualcuno che ridia speranza al futuro del parlamentarismo, rilanciando le sue ragioni, ponendosi al passo con i tempi, non abbandonandosi invece ad un triste declino d’addio.

Non basta. Non avremo un sistema parlamentare funzionante in Italia se non saremmo in grado di affrontare con spirito veramente innovativo anche la collegata questione della rappresentanza politica.Come si può infatti pensare di porre al centro un parlamento se questo dovesse continuare ad essere composto solo da anime morte? Rappresentanti i cui legami con la realtà del rappresentato appaiono sempre più compromessi.

Una democrazia rappresentativa sconvolta da un sistema elettorale, che — in forte continuità con il passato — rende sempre più sfumato il rapporto tra chi vota e chi è eletto. Ma deve essere anche detto che la crisi della rappresentanza non è solo determinata da una brutta legge elettorale. Se si vuole prospettare un reale cambiamento si deve alzare lo sguardo per denunciare la progressiva autoreferenzialità della politica, il coma profondo in cui sono caduti i corpi intermedi, il sonno delle formazioni sociali, dei partiti in specie, la progressiva verticalizzazione di tutti i poteri, l’inaridirsi e il burocratizzarsi dei canali della partecipazione, la chiusura degli spazi politici. È del fallimento della democrazia maggioritaria che dovremmo parlare.

Allargo troppo il discorso, ma a forza di semplificare siamo arrivati alla politica dei tweet, alla Repubblica delle slide, alla richiesta di plebisciti di carattere fiduciario e personale su questioni che coinvolgono la qualità della nostra democrazia. Dovremmo tornare a porci i problemi di governo delle democrazia pluraliste nella loro reale complessità. Per fuoriuscire dal lungo regresso e tornare a parlare al futuro. Il referendum costituzionale ne sarà l’occasione?.

Carissime amiche e amici, carissimi compagni di strada. 2006-2016: dieci anni della nostra vita e dieci anni e più di impegno per la Costituzione. Per attuarla e aggiornarla. Per non perderla. Per questo vi chiedo di perdonare questa mia lettera a tutti voi, con i quali siamo cresciuti e invecchiati, imparando ad ascoltare, capire e apprezzare le parole di maestri a cui va la nostra gratitudine.

Perdonate se sento la necessità e il desiderio di rivolgermi ancora a voi, perché mentre riconosciamo tra noi una storia che abbiamo scritto insieme, io voglio trasmettervi preoccupazioni e speranze che mi inducono oggi, certo non più giovane di allora e forse nemmeno più saggia, o meno irruente e impulsiva, a riprendere il cammino. La strada non è la stessa dell’altra volta, ma il punto di arrivo sì che assomiglia a quello del 2006. Ancora una volta dobbiamo cercare di fermare con il nostro No un referendum, una legge del governo molto pericolosa per gli equilibri istituzionali, una legge che cancella e riscrive 41 articoli sui 139 della Costituzione entrata in vigore il 1°gennaio del 1948. Quasi un terzo.

Ho trovato, tra le carte che mi ostino a non gettare, un foglietto, una lettera datata 8 novembre 2004 e firmata da Oscar Luigi Scalfaro. Era rivolta al responsabile dei Comitati Dossetti e ai presidenti della associazione Astrid e Libertà e giustizia. Pochi giorni prima avevo chiesto dal palco di un teatro milanese a Scalfaro se avrebbe accettato di fare da presidente del coordinamento di associazioni, cittadini e partiti che con noi si fossero battuti per cancellare la riforma del governo Berlusconi.

Improvvisavo, anche allora. Ma conoscevo bene il presidente emerito dai giorni in cui era un importante esponente della Democrazia cristiana e io facevo la cronista. Su quel palco ci chiese solo di poterci pensare, e intanto ringraziò. E poi scrisse: “Grazie, cari amici, per l’onore grande che mi fate offrendomi la presidenza del coordinamento di tutte le forze politiche, sociali, di tutti i movimenti, di tutti i cittadini che si ribellano all’attuale capovolgimento della nostra Carta Costituzionale... Accolgo volentieri il vostro unanime invito, ben conoscendo le difficoltà che abbiamo dinnanzi, ma la fede nella libertà e l’entusiasmo per difenderla nei valori fondamentali della nostra Costituzione non viene meno”. Terminava secondo il uo stile: “Con l’aiuto di Dio, metterò ogni impegno per continuare con voi questa pacifica ma intransigente battaglia per la nostra Italia, per il nostro popolo. Eccomi dunque al vostro fianco con tanto amore. Oscar Luigi Scalfaro”.

Leopoldo Elia ci fu accanto, insieme a molti altri costituzionalisti. Elia insisteva sui guasti che avrebbe prodot-
to un premierato fondato sulla “insostituibilità” del primo ministro durante tutta la legislatura e sui suoi enormi poteri che colpivano le garanzie dell’opposizione.

Si distinsero tra i costituzionalisti i due padri dell’attuale riforma: Augusto Barbera e Stefano Ceccanti ai quali si rivolse polemico Giovanni Sartori accusandolo di dividere il fronte del No... quando invece ci sono duecento costituzionalisti, non nani e ballerine, che fanno presente come il premierato della Casa della libertà sia assoluto”. Barbera e Ceccanti: il primo adesso è alla Corte Costituzionale, il secondo è il suggeritore zelante del governo.

Voi tutti sapete che grande lezione di democrazia e libertà fu per tutti noi quella campagna referendaria, quanta gente incontrammo, quanti ragazzi, quanti vecchi, quanto imparammo. Quanti cittadini ci ringraziavano per le informazioni che davamo ma eravamo noi a dover dire quel “grazie”. Abbiamo conosciuto una bella Italia e abbiamo vinto strepitosamente il referendum. A chi ora ci deride (vedi Pierluigi Battista sul Corriere della Sera) affermando che siamo gli avanzi della sinistra che perde sempre possiamo, denunciando la pochezza e la viltà di quelle affermazioni, replicare: “No, noi siamo quelli e quelle del 2006. Siamo quelle e quelli che portarono a votare il 53,7 per cento degli aventi diritto, e il 61,3 per cento dei votanti bocciò la riforma di Berlusconi e Calderoli. Noi siamo quelli. Abbiamo vinto una volta”. E domani, cosa accadrà?

Il nostro è un tempo diverso, un tempo “esecutivo” come dice Gustavo Zagrebelsky, un tempo in cui c’è uno solo al comando e uno solo che fa. Non c’è più Berlusconi da combattere, c’è però il Partito democratico renziano. Renzi ha ingaggiato un guru americano per centomila euro. Non c’è Calderoli, c’è la Boschi. La Rai è del governo, più di prima e i grandi giornali stravolgono la realtà. Abbiamo, però, un Comitato per il No con grande studiosi e giuristi che hanno già preparato le basi costituzionali e scientifiche per il nostro No. Abbiamo due giornali (il Fatto Quotidiano e il manifesto) che ci aiuteranno a non scomparire del tutto. E abbiamo ancora tanti comitati locali e compagni di strada che ci sollecitano ad agire.

«Con il ddl Boschi assistiamo alla blindatura del potere, alla sua concentrazione nelle mani dell’esecutivo ai danni di Parlamento e cittadini». L'ingenua (o molto furba) Liana Milella intervista l'autorevole giurista, membro del comitato per il no allo stravolgimento della costituzione operato dal governo.

La Repubblica, 13 gennaio 2016

È un riforma? «Lo sa come si chiama la corazza della tartaruga? Carapace. La mia risposta allora è: questa riforma è il carapace del potere». Comincia così l’intervista con il professor Gustavo Zagrebelsky.

Dicono che sarà divertente vedere alleati lei, Rodotà, Berlusconi, Brunetta e Salvini. Non è una compagnia imbarazzante?
«Ma davvero a qualcuno è venuto in mente di dire questo? E a chi?».

A Orfini e Boschi, e non solo...
«Ma fanno torto alla loro intelligenza».

E perché mai?
«Perché confondono la Costituzione con la politica d’ogni giorno. Si può essere lontanissimi politicamente e concordare costituzionalmente ».

Non mi dica che pure Berlusconi difende la Costituzione...
«Io non faccio processi alle intenzioni. Non la colpisce il fatto che a favore della riforma sia il governo e tutta la maggioranza e contro siano tutte le opposizioni, destra e sinistra, senza eccezione?».

E che ci trova di strano?
«Soffermiamoci sul punto. La Costituzione dovrebbe essere la regola della convivenza tra tutti. Di tutti con tutti. Una garanzia reciproca. Invece, nel nostro caso, la riforma della Costituzione è stata promossa dal governo, imposta dal governo e votata dalla maggioranza del governo. Questi dati di fatto non le fanno sospettare che questa cosiddetta riforma della Costituzione sia una “blindatura” di un giro di interessi che ha conquistato il potere e se lo vuole tenere stretto?».

Ammetterà che senza questa “blindatura” non si sarebbe mai riusciti a cambiare la Costituzione in modo condiviso.
«E con ciò?».

Renzi e i suoi ritengono che cambiarla serva all’Italia.
«In realtà dicono che l’Italia aspetta da 30 anni questa riforma. Sarebbe più giusto dire che a qualcuno, e tra questi ora i nostri “riformatori”, la vigente Costituzione non è mai piaciuta».

Invece lei perché la difende a ogni costo?
«Qui tocchiamo la vera posta in gioco. È in corso da 30 anni un’involuzione che ha rovesciato la piramide della democrazia. La base, cioè i cittadini, le loro associazioni, le strutture sociali, contano sempre di meno, e sempre di più contano i vertici, che siano i vertici dei partiti o delle istituzioni. Questa è un’involuzione che tecnicamente si può chiamare il passaggio dalla democrazia all’oligarchia».

Il suo timore qual è? Il partito unico? Il leader unico? L’opposizione azzerata? Il suo pessimismo cosa nasconde?
«La mia è una pura constatazione. I partiti, a cominciare dal Pd, che dovevano essere canali di organizzazione e partecipazione politica, sono stati distrutti. In essi domina ormai il “caro segretario” che controlla il partito e attraverso di esso opera nelle istituzioni. I sindacati sono in grave difficoltà e chi governa, invece di preoccuparsi, se ne compiace. La maggioranza del Parlamento opera sotto la sferza del governo. La legge elettorale, Porcellum o Italicum che sia, mette nelle mani del segretario del partito la selezione dei candidati sulla base di un rapporto di fedeltà personale. E il governo è composto da ministri a disposizione del leader. Non le pare che tutto ciò comporti una concentrazione del potere al vertice e una privazione alla base?».

Renzi e Boschi le risponderebbero che queste sono le analisi dei professoroni che vogliono mantenere lo status quo.
«Lo status quo è per l’appunto quello che ho appena detto, ed è proprio ciò che noi vogliamo combattere. Onde, se vogliamo usare l’abusata categoria dei conservatori, siamo noi gli innovatori e sono i sedicenti innovatori costituzionali a essere paradossalmente i veri conservatori o, per essere espliciti, i blindatori ».

Davvero pensa che modificare l’attuale Senato risponda a questo progetto?
«Guardi che la riforma costituzionale non tocca solo il Senato, ma in generale redistribuisce i poteri in maniera tale che il baricentro si sposta radicalmente a favore dell’esecutivo. Il Parlamento risulterà sottomesso alle iniziative del governo. Gli organi di controllo, Corte costituzionale e perfino il presidente della Repubblica, ricadranno nell’orbita di Palazzo Chigi. Non di per sé, ma per l’effetto congiunto della riforma costituzionale e della legge elettorale. La verità è che i problemi istituzionali vanno visti nella complessità di tutti i loro elementi».

Per questo parla di riforma “esecutiva”?
«Viviamo in un tempo esecutivo. Ha notato come vengono denominati i vagoni di lusso nei treni ad alta velocità? Executive, non legislative, or judiciary... Segno dei tempi».

Esecutivi di cosa?
«Se guardiamo la letteratura internazionale si direbbe degli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari e militari. Vuole qualche citazione?”.

No, per carità... Ma con riguardo al nostro Paese?
«A vederli da qui appare solo la mediocrità della nostra classe dirigente. Che qualità di interessi sono quelli che emergono, per esempio, in questi giorni dalle indagini sul sistema bancario?».

Dice Renzi «se perdo il referendum lascio la politica». Che effetto le fa?
«Un po’ di megalomania».

E perché?
«Per due motivi. Primo: sembra una parodia del generale De Gaulle del 1969. Anche lì un referendum, guarda caso sul Senato, dal cui esito il Generale fece dipendere la sua permanenza in carica. Secondo: il proprio futuro politico scommesso sulla riforma della Costituzione. Renzi ha posto quella che tecnicamente si chiama una questione di fiducia sulla riforma. In questo modo ha dichiarato ufficialmente che questa riforma non è costituzionale, ma è governativa».

La cronaca del voto alla Camera di Alessandra Longo, la presentazione dei Comitati promotori del No di Andrea Fabozzi e Silvia Truzzi, l’intervento del professore Zagrebelsky. La Repubblica, il manifesto, il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)


La Repubblica

RIFORME, ALLA CAMERA È SÌ “AVANTI TUTTA”
BOSCHI SOTTO TIRO IN AULA

di Alessandra Longo

Roma. Una passeggiata, diciamo la verità. All’ora del tè la Camera approva il disegno di legge Boschi. 367 sì, 194 no, 5 astenuti. Renzi non twitta, si affida a Facebook: «Oggi quarto voto sulle riforme costituzionali: maggioranza schiacciante in attesa di conoscere il voto dei cittadini in autunno. Stiamo dimostrando che per l’Italia niente è impossibile. Con fiducia e coraggio, avanti tutta». Breve e indolore, come previsto. Maria Elena Boschi richiude la sua borsa color salmone e riceve i complimenti di rito. Il sorriso, però, è tirato. I Cinquestelle ci sono andati giù pesanti con le vicende di Banca Etruria e il ruolo di suo padre, che ne è stato il vicepresidente.

Flashback del momento più sgradevole. Prende la parola, per le dichiarazioni finali prima del voto, il grillino Danilo Toninelli: «L’unico scopo di Renzi è accentrare il potere nelle sue mani, nelle mani delle banche e dei lobbisti». Lo chiama «Matteo Rolex Renzi», con riferimento ad una ormai pubblicata vicenda di doni sauditi. Ma è alle banche che vuol arrivare. Boschi si irrigidisce, quasi stritola la penna che ha in mano. Accanto a lei, Marianna Madia si tuffa a testa bassa nelle sue carte. «Con i vostri 83 indagati in un anno siete un partito malato, la vostra riforma è il prodotto di tutto questo», grida Toninelli che infila a forza nel contesto «il padre della ministra Boschi e i suoi compari». «Non si può!», sibila lei rivolta alla presidente Boldrini (che non la vede) e poi si butta sul cellulare a digitare frenetica un sms. A chi? Forse a Lotti, forse a Matteo Orfini, presidente del partito, cui è affidato il discorso della corona in un brusio disattento.
Orfini cita non a caso Boschi per stimolare un applauso riconoscente. Poi evoca, spericolato, addirittura Palmiro Togliatti: «Lui diceva che i partiti sono democrazia che si organizza...». Il tutto per far sapere che il Pd immagina una riforma le cui applicazioni siano «trasparenti, democratiche». Ai grillini, che hanno appena terminato un loro piccolo show esibendo disciplinati una coreografia con bandierine tricolori, («Stiamo arrivando, Italia!») Orfini offre un ruolo più operativo nella società e nella politica: «Vorremmo che vi liberaste dei ceppi che vi hanno imposto. Magari vi piacerà vivere da uomini liberi e parlamentari liberi». Magari no, chissà.
Tutto il resto è quasi noia, nonostante lo stesso Orfini si sforzi di dare solennità al «momento storico». Boschi non raccoglie e tiene il profilo basso: «Un passo alla volta. Ci sono ancora due passaggi parlamentari». Quelli di Forza Italia sono furibondi, votano no alla riforma dopo aver votato sì nel girone precedente. La Gelmini la spiega così: «Il Patto del Nazareno era un metodo, voi l’avete tradito». Santanché, abbigliata come per una prova di dressage, fende l’aria incupita. Brunetta a questo punto ridimensiona la portata dell’evento: «Una estrema minoranza del Paese ha approvato la riforma costituzionale in uno dei tanti passaggi». Maggioranza schiacciante in aula, minoranza nel Paese. E vai con il referendum...
Vanno e vengono i ministri. A lungo Maria Elena Boschi è sola a sorbirsi la cerimonia delle dichiarazioni di voto. Poi ecco Orlando, Alfano, la Lorenzin, la Madia, Gentiloni. Fuori, in Transatlantico, Franceschini ed Ettore Rosato si danno il cinque. E’ fatta. Guerini, che si è fatto crescere la barba, ha l’aria rilassata di uno che non teme alcun colpo di scena. «Sarebbe uno strappo gravissimo - riflette Gianni Cuperlo - se il referendum confermativo venisse inteso come un plebiscito personale». Renzi gli ha già risposto: «Avanti tutta ». E scordatevi che si tocchi l’Italicum, aggiunge Guerini. Si va al voto presto e bene. Il Pd di Renzi si scioglie in un applauso. Bersani no, non applaude.
A sera la ministra si riprende, intervistata da Lilli Gruber. Esibisce più rimmel e più sorrisi: «Se vincesse il no al referendum noi ci sottoporremo alle urne». Parla di Banca Etruria, di come i grillini sfruttano l’argomento. Restituisce loro la “gentilezza” di qualche ora prima: «Sono un partito come gli altri. La vicenda di Quarto li ha messi in difficoltà. Ma io sono garantista anche se il sospetto è pesante...».
Il manifesto
L’ALTRA CAMERA DEL REFERENDUM
di Andrea Fabozzi

Riforma. Ieri l’affollatissimo lancio del comitato promotore. Il fronte dei parlamentari e il dubbio se raccogliere anche le firme. Assemblea strapiena, parte l’iniziativa del no. I costituzionalisti: «Sfuggire dallo scontro innovatori-conservatori». In arrivo anche altri quesiti sociali

La fila è lunga. «Abbiamo già superato il quorum?», si scherza sperando di riuscire a entrare. Al debutto del comitato del No si riempie subito l’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, mentre nell’aula quella vera - stesso palazzo - la riforma procede sul velluto. Arriva l’ultimo sì della prima lettura e comincia in contemporanea il lungo avvicinamento al referendum, che in questo caso non prevede quorum. Allora la domanda è un’altra: come ci si oppone a un plebiscito? Come si sfugge, cioè, allo schema innovatori contro conservatori? Secondo Gaetano Azzariti centrando la campagna elettorale sugli enormi problemi della rappresentanza e del parlamento, per mettere in luce quanto sia «scarsa» la riforma di Renzi di fronte alla «crisi dello stato costituzionale». Secondo Stefano Rodotà bisogna fronteggiare «l’antipolitica di governo» avviando una lunga stagione referendaria.

Ma il primo problema che ha davanti il comitato promotore del No riguarda la sua stessa genesi. Se è vero che il referendum non può chiederlo il presidente del Consiglio, come invece racconta di voler fare (in sua vece firmeranno la richiesta un numero sufficiente di parlamentari renziani), è vero anche che un comitato di cittadini avrebbe bisogno di 500mila firme per opporsi in questa veste alla revisione costituzionale. Firme che andrebbero raccolte in tre mesi dall’ultima approvazione del disegno di legge Renzi-Boschi, prevista per la seconda decade di aprile. L’alternativa - dovendo escludere che si trovino cinque consigli regionali contrari alla riforma - resta quella delle firme di 126 deputati o 65 senatori di opposizione: quelle sono assicurate. Se non si raccolgono le firme dei cittadini, al referendum si andrà per questa strada, come fu nel 2001 quando il centrodestra provò a opporsi al nuovo Titolo V approvato dal centrosinistra. Anche allora firmarono sia i parlamentari favorevoli che quelli contrari alla riforma, che il referendum alla fine confermò.

Questa volta i parlamentari che raccoglieranno le firme, e tra questi ci saranno anche quelli di Forza Italia e della Lega, potranno costituire anche più di un comitato per il No: costituirsi in comitato dà diritto a spazi televisivi e a un rimborso sulla base dei voti. Neanche i parlamentari del Movimento 5 Stelle aderiranno al comitato lanciato ieri, che è presieduto dal costituzionalista Alessandro Pace e che ha come presidente onorario il professore Gustavo Zagrebelsky. È questo il gruppo dei costituzionalisti che si sono opposti in ogni modo alle riforme spinte da Renzi (ma anche prima da Letta) negli ultimi tre anni, attraverso numerosi appelli (l’ultimo quello firmato da Lorenza Carlassare, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Stefano Rodotà e Massimo Villone, tutti presenti ieri, a ottobre sul manifesto). Questo comitato sta mettendo in piedi comitati locali nelle città e si è già dato un altro appuntamento per il 30 gennaio alla Sapienza a Roma, coinvolgendo le associazioni - a cominciare da Anpi e Arci.

Ieri è apparso chiaro che all’interno di questo comitato c’è chi spinge per provare a raccogliere le 500mila firme, così da poter procedere in maniera parallela ma autonoma dai parlamentari di Sinistra italiana e dai civatiani che sono disponibili ad accompagnare i costituzionalisti. Felice Besostri, l’avvocato che sta promuovendo i ricorsi nei tribunali contro l’Italicum, ha detto tra gli applausi che «anche se pensiamo di non riuscire a raggiungere le firme necessarie, dobbiamo provarci come iniziativa di mobilitazione». Obiettivo che invece, secondo altri, si può raggiungere meglio accompagnando al referendum sulla riforma costituzionale un pacchetto di referendum abrogativi, il primo dei quali è quello contro l’Italicum che ha già un comitato promotore (presidente Villone, presidente onorario Rodotà). Ma sono in fase di avvicinamento anche i referendum contro la legge sulla scuola e contro il Jobs act. Per tutti quanti andranno raccolte le firme, proprio a partire da aprile.
E come sempre quando c’è da raccogliere firme si guarda a cosa farà il sindacato: al momento la Cgil sarebbe disponibile a impegnarsi per i referendum «sociali», scuola e lavoro, mentre non ha ancora sciolto la riserva su quelli «istituzionali», legge elettorale e soprattutto riforme. Nove anni fa, nell’unico esempio di referendum costituzionale dove il fronte del No ha vinto, quello contro la «devolution» di Berlusconi e Bossi, furono raccolte oltre alle richieste dei parlamentari e dei consigli regionali anche un milione di firme dei cittadini.

Il Fatto Quotidiano

C’È CHI DICE NO “LA CARTA NON POTETE ROTTAMARLA”
di Silvia Truzzi

È il genetliaco del premier: i più sentiti auguri gli arrivano dall’Aula dei gruppi parlamentari, dove si svolge la presentazione dei Comitati per il No alla riforma Boschi che nelle stesse ore, pochi passi più in là a Montecitorio, i deputati stanno votando. Ma la distanza che separa i relatori di quest’incontro dai parlamentari ubbidienti e nominati è abissale. Qui, dove c’è la più alta concentrazione di gufi della storia, si sentono solo parole d’amore per la Costituzione: rappresentanza, diritti, cittadinanza. Come spiega il professor Gianni Ferrara: «Noi siamo i militanti dei principi costituzionali».
Un'ora prima dell’inizio, un’ordinata fila di cittadini aspetta di entrare: molti resteranno fuori. Ci sono i due ex magistrati Antonio Ingroia e Antonio Di Pietro, il presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, l’ex guardasigilli Giovanni Maria Flick, il segretario della Fiom Maurizio Landini, Pancho Pardi, il giudice Antonio Esposito. Arrivano telegrammi dai partiti: l’adesione di Sinistra italiana, dell’Altra Europa, del Movimento 5 Stelle. L’opposizione alla riforma Boschi raduna variegate compagnie: Stefano Fassina, il costituzionalista civatiano Andrea Pertici, Luciana Castellina, Cirino Pomicino. Il presidente del Comitato, il professor Alessandro Pace, parte dalle questioni pregiudiziali: può un Parlamento eletto con una legge dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale riformare la Costituzione, stravolgendola? E mette le mani avanti: «Se, come noi auspichiamo, la riforma Renzi venisse respinta dagli elettori, ebbene ciò vorrebbe dire che non noi, ma è la Costituzione ad aver vinto ancora una volta. Come avvenne anche nel referendum confermativo del 2006, quando il 65 per cento degli elettori respinse la riforma Berlusconi, che prevedeva il premierato assoluto, antesignano della riforma Renzi. E tale sconfitta non produsse né incertezze né conflitti».
Punto per punto i relatori che si succedono smontano la favoletta del governo sulla volta buona, l’abolizione di sprechi e del bicameralismo perfetto a cui i conservatori sono tanto affezionati. Sul tema bisogna segnalare anche Repubblica.it che nel (breve) accenno alla riunione dei Comitati per il No scrive: «A intervenire alcuni importanti costituzionalisti che hanno difeso l’attuale bicameralismo perfetto, come Gustavo Zagrebelsy e Stefano Rodotà». Cosa assolutamente non vera (molti dei costituzionalisti - Rodotà ha sempre insegnato diritto civile - sono importanti firme di Repubblica, bastava una telefonata anche per scoprire che il professor Zagrebelsky era a casa con la febbre): il bicameralismo perfetto non è difeso proprio da nessuno, semplicemente si combatte l’irrazionale e controproducente soluzione del Senato dei cento, dopolavoro per consiglieri regionali a cui però sono rimaste importanti attribuzioni, come la revisione costituzionale e la scelta dei giudici costituzionali.
Un Senato che, per come esce dalla riforma, «sembra un Ufo», come spiega Gaetano Azzariti. Che avverte: «Non dobbiamo farci schiacciare dalle accuse di conservatorismo». E ancora: «Va bene modificare il bicameralismo perfetto, ma non a favore di questo bicameralismo confuso». Inequivocabile. Felice Besostri, l’avvocato che insieme a due colleghi sconfisse il Porcellum definisce le riforme “deforme” perché sfigurano l’assetto della Carta, mettendo in pericolo la democrazia. Del resto, l’abbiamo già visto: «Le Province non sono state abolite, è stata abolita la democrazia dalle Province». Lorenza Carlassare spiega che alla fine del precorso, avremo un capo del governo che diventerà «l’unto dal Signore, di berlusconiana memoria. Dopo, sarà difficile ripulirlo. Auguri alla nostra Costituzione». Massimo Villone ricorda lo strafalcione del premier e di quelli che la Costituzione provano a cambiarla «da settant’anni, da quando ancora non era entrata in vigore».
Come sempre chiaro, il professor Rodotà avverte: «Il 2016 rischia di essere l’anno del congedo dalla Costituzione, mentre si preparano le celebrazioni per i 70 anni della Costituente». Perché? «Abbiamo già perduto parte della democrazia rappresentativa in favore della democrazia d’investitura. I cittadini non sono nemmeno più carne da sondaggio, ma da tuìt e da slide, confinati nella passività». Ma i signori al comando dovrebbero stare attenti: «Il deficit di democrazia si sta trasformando in deficit di legittimazione del sistema politico». La Costituzione non si rottama.

Il Manifesto
VOI AL GOVERNO, COSA AVETE CAPITO?
di Gustavo Zagrebelsky

Ampi stralci dell’intervento del professore Zagrebelsky, letto ieri davanti all’assemblea del comitato del No dal professore Francesco Pallante.

Coloro che vedono le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole «democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.

Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.

Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio.

Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola.
A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare «la sera stessa delle elezioni» il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche.

L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva.

Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede l’Europa») sono dello stesso segno.
Perfino una banca d’affari (gli «analisti» della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il «non detto» è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica.

La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.

I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma — innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro — e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?

Mentre l'apparato istituzionale comandato da Renzi si appresta a legiferare per distruggere gli ultimi residui di democrazia si avvia l'iniziativa per ila difesa della Costituzione. L'impresa è difficile, e richiede l'impegno di tutti.

Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2016

Lunedì sarà il battesimo: nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati si terrà il primo incontro dei Comitati del No alla riforma Boschi: «Proveremo a sensibilizzare i cittadini», spiega Lorenza Carlassare, uno dei relatori dell’incontro. «Speravo – in un eccesso di ottimismo – che ci fosse un ripensamento in Parlamento su alcuni aspetti della riforma costituzionale. Ci preoccupiamo di chiedere il referendum in base all’idea che questa riforma venga approvata così com’è, con tutti i difetti che ha. Addirittura una modifica che saggiamente la Camera aveva eliminato (l’attribuzione al Senato del potere di eleggere da solo due dei cinque giudici costituzionali che ora vengono eletti dal Parlamento in seduta comune) è stata ripristinata dal Senato, e ormai l’approvazione della Camera sembra sicura. Evidentemente non c’è spazio per una riflessione critica. Non resta che mobilitare le persone in vista del futuro referendum, che il presidente del Consiglio va annunziando come un’iniziativa sua: lui sottoporrà la riforma al popolo perché la approvi; lui, in caso contrario, si dimetterà. Si arriva al punto di personalizzare persino il referendum costituzionale. Ma non è questo il senso del referendum costituzionale che non è previsto per ‘acclamare’, ma per opporsi a una riforma sgradita».

L'equivoco non è nuovo: nel 2001 votammo per confermare la riforma del Titolo V della Costituzione. Governo di centrosinistra.

«Si vede che è un’idea del Pd! Ma è sbagliata. E non si tratta di una sfumatura. Il referendum serve a rafforzare la rigidità della Costituzione impedendo alla maggioranza di cambiarla da sola. O la riforma è approvata da entrambe le Camere con la maggioranza dei due terzi – vale a dire con il concorso delle minoranze – oppure la legge, pubblicata per conoscenza, è sottoposta a referendum qualora entro tre mesi “ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500 mila elettori o cinque Consigli regionali”. Se nessuno chiede il referendum, trascorsi i tre mesi la legge costituzionale viene promulgata, pubblicata ed entra in vigore; interessato a chiedere il referendum dovrebbe essere chi è contrario ai contenuti della riforma, per impedirne l’entrata in vigore. L’art. 138 non si presta a equivoci. Il referendum quindi è una possibilità, quando la riforma non ha coinvolto le minoranze, per consentire a chi non è d’accordo di provare a farla fallire; può essere anche una minoranza esigua non essendo previsto un quorum di partecipazione».

Che significato hanno le dichiarazioni con cui il premier ha legato il suo destino politico all'esito del referendum?

«Insisto: il referendum costituzionale non è uno strumento nelle mani del Presidente del Consiglio a fini di prestigio personale. In molti hanno messo in luce l’intenzione di trasformare la consultazione in un plebiscito pro o contro Renzi: ma qui è in ballo la sorte della Costituzione, non la sua. Invece , pens ando che – 5Stelle e Sinistra Italiana a parte – non troverà oppositori sul suo cammino e il referendum sarà un trionfo, intende servirsene per rafforzare il suo potere personale, da esercitare senza controlli e contrappesi, senza che nessuno lo contraddica».

Risponderete con un'informazione basata sui contenuti della riforma: come pensate di farli passare? C’è il precedente del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma Berlusconi: ma era Berlusconi, appunto.

«Questo è il vero problema. Mentre nel 2006 il progetto di modifica della forma di governo era chiara perché Berlusconi aveva parlato esplicitamente di premierato, ora apparentemente la forma di governo non viene modificata; ma nella sostanza – grazie al combinato disposto di Italicum e riforma Boschi l’effetto è proprio di trasformare la forma di governo e persino la forma di Stato, vale a dire la democrazia costituzionale».

Il leitmotiv è stato “abolire il bicameralismo perfetto”.
«Su questo erano d’accordo tutti. Bastava fare una riforma circoscritta, non c’era bisogno di sfigurare la Costituzione. Fra l’altro, una delle ragioni della riforma del bicameralismo perfetto era la semplificazione delle procedure: semplificazione che non c'è stata, semmai si è complicato e confuso il procedimento legislativo. Per alcune leggi il Senato interviene, per altre no . Per alcune il Senato vota, ma poi la Camera con maggioranze diverse deve tornare sul testo del Senato. Tutto irrazionale. Il vero dato è che la composizione del nuovo Senato – della quale abbiamo già detto molto nei mesi scorsi – lo rende agevolmente controllabile. Le riforme vanno tutte nella stessa direzione: pensi alla Rai! »

Cioè “chi vince piglia tutto”?

«La legge elettorale che entra in vigore nel 2016 è una via traversa per giungere di fatto all’elezione diretta del premier. Quando si arriva al ballottaggio (per il quale non c’è quorum, e dunque le due liste più votate partecipano a prescindere dal seguito elettorale che hanno ricevuto), l’elettorato deve necessariamente schierarsi a favore di uno dei contendenti e chi vince si prende tutto. È una forma d’investitura popolare per chi guida il governo; un discorso non nuovo che precede Renzi di molti anni: le elezioni come strumento non tanto per eleggere il Parlamento, ma per scegliere e investire un governo e il suo Capo.E senza che a una simile trasformazione si accompagnino i contrappesi indispensabili in una democrazia costituzionale».

I diritti civili, come quelli sociali, appartengono alla sfera delle inalienabili garanzie che spettano alla persona e devono essere garantite dallo Stato: non possono per ciò essere subordinate ai patteggiamenti della

politique politicienne. La Repubblica, 4 gennaio 2015

I tempi dei diritti sono sempre difficili. Lo conferma la lunga e travagliata vicenda delle unioni civili, la cui conclusione è annunciata dal Presidente del Consiglio per il 2016. Le ragioni delle difficoltà sono molte. I diritti incidono sull’ordine costituito. E i poteri, e per ciò si cerca di neutralizzare questa loro intima capacità di cambiamento contrapponendo loro doveri sempre più aggressivi, imponendo limiti costrittivi, subordinandoli a convenienze politiche talora meschine e così pianificando scambi tra sacrificio di diritti sociali e mance di diritti civili.

Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme. È il modello, non dimentichiamolo, della nostra Costituzione. È quello che è accaduto negli anni ’70, quando il congiungersi del “disgelo costituzionale” e della capacità della politica di cogliere senza timidezze le dinamiche sociali cambiò davvero l’Italia, senza reazioni di rigetto determinate dal fatto che le richieste di diritti hanno sempre la loro origine nello sguardo lungimirante e nella cultura delle minoranze escluse.

Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti.

Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come “formazioni sociali specifiche”. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla “stepchild adoption”, all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido “rafforzato”. Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli “nati fuori del matrimonio”, eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’”utero in affitto” e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso.

Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone.

La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto “divorzio polacco”, limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati.

Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia.

L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone.

Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione “cristallizzata” intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico.

Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del “fai da te”, dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà.

Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali?

Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.

Il manifesto, 13 ottobre 2015

La legge costituzionale che il senato voterà oggi
dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza

È inaccettabile per il metodo e i contenuti; lo è ancor di più in rapporto alla legge elettorale già approvata. Nel metodo: è costruita per la sopravvivenza di un governo e di una maggioranza privi di qualsiasi legittimazione sostanziale dopo la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del «Porcellum».
Molteplici forzature di prassi e regolamenti hanno determinato in parlamento spaccature insanabili tra le forze politiche, giungendo ora al voto finale con una maggioranza raccogliticcia e occasionale, che nemmeno esisterebbe senza il premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Nei contenuti: la cancellazione della elezione diretta dei senatori, la drastica riduzione dei componenti - lasciando immutato il numero dei deputati - la composizione fondata su persone selezionate per la titolarità di un diverso mandato (e tratta da un ceto politico di cui l’esperienza dimostra la prevalente bassa qualità) colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e gli equilibri del sistema istituzionale.
Non basta l’argomento del taglio dei costi, che più e meglio poteva perseguirsi con scelte diverse. Né basta l’intento dichiarato di costruire una più efficiente Repubblica delle autonomie, smentito dal complesso e farraginoso procedimento legislativo, e da un rapporto stato-Regioni che solo in piccola parte realizza obiettivi di razionalizzazione e semplificazione, determinando per contro rischi di neo-centralismo.
Il vero obiettivo della riforma è lo spostamento dell’asse istituzionale a favore dell’esecutivo. Una prova si trae dalla introduzione in Costituzione di un governo dominus dell’agenda dei lavori parlamentari. Ma ne è soprattutto prova la sinergia con la legge elettorale «Italicum», che aggiunge all’azzeramento della rappresentatività del senato l’indebolimento radicale della rappresentatività della camera dei deputati. Ballottaggio, premio di maggioranza alla singola lista, soglie di accesso, voto bloccato sui capilista consegnano la camera nelle mani del leader del partito vincente - anche con pochi voti - nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando.
Ne vengono effetti collaterali negativi anche per il sistema di checks and balances. Ne risente infatti l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm. E ne esce indebolita la stessa rigidità della Costituzione. La funzione di revisione rimane bicamerale, ma i numeri necessari sono alla Camera artificialmente garantiti alla maggioranza di governo, mentre in senato troviamo membri privi di qualsiasi legittimazione sostanziale a partecipare alla delicatissima funzione di modificare la Carta fondamentale.
L’incontro delle forze politiche antifasciste in Assemblea costituente trovò fondamento nella condivisione di essenziali obiettivi di eguaglianza e giustizia sociale, di tutela di libertà e diritti. Sul progetto politico fu costruita un’architettura istituzionale fondata sulla partecipazione democratica, sulla rappresentanza politica, sull’equilibrio tra i poteri. Il disegno di legge Renzi-Boschi stravolge radicalmente l’impianto della Costituzione del 1948, ed è volto ad affrontare un momento storico difficile e una pesante crisi economica concentrando il potere sull’esecutivo, riducendo la partecipazione democratica, mettendo il bavaglio al dissenso.
Non basta certo in senso contrario l’argomento che la proposta riguarda solo i profili organizzativi. L’impatto sulla sovranità popolare, sulla rappresentanza, sulla partecipazione democratica, sul diritto di voto è indiscutibile. Più in generale, l’assetto istituzionale è decisivo per l’attuazione dei diritti e delle libertà di cui alla prima parte, come è stato reso evidente dalla sciagurata riforma dell’articolo 81 della Costituzione. Bisogna dunque battersi contro questa modifica della Costituzione. Facendo mancare il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti in seconda deliberazione. E poi con una battaglia referendaria come quella che fece cadere nel 2006, con il voto del popolo italiano, la riforma - parimenti stravolgente - approvata dal centrodestra.
Gaetano Azzariti
Lorenza Carlassare
Alessandro Pace

Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».

«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».

Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)

Sena­tori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il per­so­nale poli­tico di seconda fascia - come sono i con­si­glieri regio­nali rispetto ai par­la­men­tari? A set­tem­bre la com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali del senato ripren­derà a lavo­rare sul dise­gno di legge di revi­sione costi­tu­zio­nale Renzi-Boschi e dovrà imboc­care una delle due strade. Quin­dici mesi fa la stessa com­mis­sione, all’epoca del primo pas­sag­gio in par­la­mento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, appro­vando un ordine del giorno del leghi­sta Cal­de­roli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti igno­rando quell’ordine del giorno e met­tendo le basi per la riforma com’è oggi, con i sena­tori scelti all’interno dei con­si­gli regio­nali. Un pre­ce­dente utile da ricor­dare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripar­tire sem­pre da capo.

Allora i leghi­sti stril­la­rono che non si poteva igno­rare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chia­ma­rono in causa la giunta per il rego­la­mento del senato. E lo stesso fece il sena­tore Mauro quando, imme­dia­ta­mente dopo quel voto, fu sosti­tuito nella com­mis­sione da un altro sena­tore del suo gruppo, ma favo­re­vole alla riforma. Iden­tica sorte toccò a due sena­tori della mino­ranza Pd, che però non si oppo­sero alla rimo­zione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silen­zio. E siamo a oggi, quando davanti alla com­mis­sione di palazzo Madama c’è il testo nel frat­tempo modi­fi­cato dalla camera, ma non nel punto della com­po­si­zione del senato — se non in una parola che può ser­vire come cavallo di Troia per ammet­tere modi­fi­che sostan­ziali. Il punto è ancora quello: futuri sena­tori eletti dal popolo oppure no?

L’orientamento dei sena­tori attuali non è cam­biato, e resta favo­re­vole all’elezione diretta. Lo dimo­stra la conta degli emen­da­menti. Sono sei i gruppi che hanno pre­sen­tato pro­po­ste per il ritorno al senato elet­tivo, e poi ci sono i 28 della mino­ranza Pd: in totale 170 sena­tori, una comoda mag­gio­ranza asso­luta. Ma sono numeri che dicono poco, per­ché è da esclu­dere che i rap­pre­sen­tanti del gruppo delle auto­no­mie saranno con­se­guenti con i loro emen­da­menti, è assai dif­fi­cile che il gruppo dei dis­si­denti Pd resti com­patto ed è impro­ba­bile che Forza Ita­lia non trovi il modo di rinun­ciare alle sue posi­zioni per aiu­tare Renzi. La strada che la com­mis­sione si avvia a imboc­care allora non è né quella dell’elezione popo­lare diretta né quella dell’elezione di secondo grado, ma una terza via di con­fusa media­zione. L’elezione «semi diretta». O secondo la ver­sione di uno dei regi­sti del com­pro­messo, il sena­tore ed ex mini­stro delle riforme Qua­glia­riello, «con­ta­mi­nare il nuovo senato con il voto popolare».

«Con­ta­mi­nare», non far eleg­gere diret­ta­mente i sena­tori, per­ché Renzi e Boschi (insieme) non inten­dono cedere fino a ripor­tare in mano ai cit­ta­dini la pos­si­bi­lità di sce­gliere i sena­tori. Grande spon­sor della deci­sione è la Con­fe­renza delle regioni (pre­si­dente Ser­gio Chiam­pa­rino) che ha sosti­tuito l’associazione dei comuni nel ruolo di guar­dia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pen­sato a un senato com­po­sto inte­ra­mente da sin­daci, ora ne restano 21). In più il pre­si­dente del Con­si­glio ha biso­gno di un argo­mento sem­plice con il quale con­durre la cam­pa­gna per il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo che si terrà alla fine del pros­simo anno (al più pre­sto) e che certo non potrà ruo­tare attorno a que­stioni com­pli­cate come il bilan­cia­mento dei poteri o la pro­ce­dura di for­ma­zione delle leggi. «Sena­tori non più eletti sì o no?» Slo­gan che può ulte­rior­mente sem­pli­fi­carsi in «Sena­tori senza sti­pen­dio sì o no?», come ha fatto inten­dere di voler chie­dere agli ita­liani Renzi. Intanto, pre­vi­dente, ha già scelto lo slo­gan della pros­sima festa nazio­nale dell’Unità: «C’è chi dice sì».

Ha scritto a Repub­blica Gior­gio Napo­li­tano, padre nobile della costi­tu­zione Renzi-Boschi, che non si può tor­nare (restare) all’elezione diretta dei sena­tori per­ché a quel punto sarebbe «inso­ste­ni­bile» sot­trarre al senato il potere di dare la fidu­cia al governo e si rica­drebbe nel bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio. Un argo­mento iden­tico ha usato uno dei cava­lieri del ren­zi­smo, il capo­gruppo dei depu­tati Ettore Rosato: «Tor­nare all’elezione diretta com­por­te­rebbe, come ci dicono pra­ti­ca­mente tutti i costi­tu­zio­na­li­sti inter­pre­tati, la neces­sità di rein­tro­durre il voto di fidu­cia anche al senato». L’affermazione è inte­res­sante, per­ché il cir­colo stretto ren­ziano non cita mai a suo favore i costi­tu­zio­na­li­sti, anzi usa disprez­zarli chia­man­doli «pro­fes­so­roni». Infatti è falsa. Il dibat­tito costi­tu­zio­nale è evi­den­te­mente assai varie­gato, ma di 32 esperti ascol­tati dalla prima com­mis­sione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di ago­sto (non tutti, ma quasi, costi­tu­zio­na­li­sti), la tesi così come espo­sta da Rosato è stata soste­nuta solo da tre pro­fes­sori (Fal­con, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nono­stante anche loro, come «pra­ti­ca­mente tutti», hanno evi­den­ziato la stra­nezza del nuovo senato imma­gi­nato da Renzi e Boschi, che si pro­pone come «rap­pre­sen­ta­tivo delle isti­tu­zioni ter­ri­to­riali» (arti­colo 2) ma è dise­gnato in modo da far «pre­va­lere il cir­cuito poli­tico par­ti­tico» (con que­ste parole Cer­rone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di par­te­ci­pare alla pro­ce­dura di revi­sione costi­tu­zio­nale è, per citare alcuni dei giu­dizi nega­tivi ascol­tati in com­mis­sione, «incoe­rente», «ibrido», «anfibio».

Mas­simo Luciani, pro­fes­sore della Sapienza non ostile al dise­gno di Renzi, ha spie­gato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei sena­tori da parte dei cit­ta­dini in con­co­mi­tanza con l’elezione dei con­si­glieri regio­nali -i sena­tori a quel punto potreb­bero essere con­si­glieri regio­nali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, pro­fes­sore a Firenze tra i più con­vinti soste­ni­tori della riforma, giu­dica «bal­zana» l’idea di dele­gare alla legge di attua­zione il cri­te­rio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popo­lare, «con­ta­mi­nare» direbbe Qua­glia­riello. Eppure è pre­ci­sa­mente que­sta l’intenzione del governo, che non vuole toc­care il prin­ci­pio dell’elezione di secondo grado per non ria­prire il capi­tolo della com­po­si­zione del senato nel pros­simo, ine­vi­ta­bile, ritorno del dise­gno di legge alla camera.

La solu­zione pre­fe­rita nei ragio­na­menti ago­stani della mag­gio­ranza è quella del vec­chio «listino», cioè un elenco di con­si­glieri regio­nali «spe­ciali» che una volta eletti (e se eletti) avreb­bero diritto a essere nomi­nati in secondo grado tra i sena­tori. Il che avrebbe un van­tag­gio per i par­titi: poter sce­gliere i nomi del listino, e dun­que i pos­si­bili sena­tori, anche affi­dan­doli for­mal­mente alla sele­zione popo­lare. Del resto sul punto sono in pochi a poter van­tare asso­luta coe­renza. Anche il sena­tore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favo­re­voli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo pas­sag­gio sostenne que­sta solu­zione, defi­nen­dola «un secondo grado raf­for­zato e qua­li­fi­cato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elet­to­rale, era solo una minaccia.

«Non si può giudicare la composizione della nuova camera alta tirandola fuori dal contesto in cui sarà inserita, a maggior ragione dopo la nuova legge elettorale. Napolitano continua a sottovalutare la concentrazione di potere su palazzo Chigi». Il manifesto, 12 agosto 2015 (m.p.r.)

Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.

Il primo. È antica saggezza che bisogna saper vedere la foresta al di là dei singoli alberi che la compongono. È invece quel che accade qui, se si valuta il senato non elettivo come elemento a sé stante. Nella riforma costituzionale, va visto insieme al governo in parlamento, all’incidenza sugli organi di garanzia, agli strumenti di democrazia diretta, alla compressione delle autonomie territoriali. A questo si aggiungono altre riforme, tra cui anzitutto la legge elettorale, ed anche la riforma della Pubblica amministrazione. Le innovazioni sono univocamente orientate a concentrare il potere su palazzo Chigi, senza costruire un efficace sistema di checks and balances. Non bastano a tal fine le limature della camera sull’originario testo del senato.
Il secondo. In tale contesto, è cruciale l’insostenibile leggerezza dei partiti, ormai sostanzialmente privi di radicamento territoriale e di una militanza che vada al di là di campagne e comitati elettorali. La sinergia con l’Italicum (legge 52/2015) apre la porta a fenomeni estremi di personalizzazione, e traduce la concentrazione del potere su palazzo Chigi in una concentrazione sul leader del partito reso artificiosamente maggioritario dal sistema elettorale taroccato. È già successo, con Renzi, e domani succederebbe ancora, con altri. La legge sui partiti è di là da venire, e quel che si sa non fa sperare bene. A quanto pare il tema centrale è come ridurre all’obbedienza il dissenso interno.
Il terzo. Un ceto politico regionale e locale senza qualità tradurrebbe nella più alta sede di rappresentanza i cacicchi di territorio, o i loro sodali, amici, clienti, parenti che già popolano le istituzioni. Questo potrebbe solo rafforzare i peggiori tratti della politica regionale e locale, senza dare forza alle istituzioni nazionali. Negli anni Novanta fu fatta una grande scommessa su regioni ed enti locali per rivitalizzare il paese. È fallita, e oggi quelle istituzioni sono in larga misura il ventre molle del sistema Italia. Basta leggere le cronache giudiziarie e le relazioni della Corte dei conti. Il bisogno di oggi è l’esatto contrario di quel che si voleva ieri. E non basta certo a pareggiare il conto il risparmio - in larga misura apparente - delle indennità ai senatori.
Il quarto. Almeno funzionasse. Ma si potrà mai legiferare meglio attraverso un procedimento che sembra il labirinto del Minotauro? Come si può pensare che il senato eserciti funzioni di controllo e vigilanza essendo popolato da chi ha interesse a trattare con l’esecutivo per i fondi da destinare al territorio, base primaria del proprio potere oggi e domani? E perché affidare al voto di sindaci e consiglieri regionali le questioni bioetiche, sulla morte e sulla vita, e persino sulla revisione della Costituzione, incluse le libertà di tutti? Ne hanno parlato in campagna elettorale? Hanno chiesto un mandato ai propri cittadini, insieme a quello per la sistemazione delle fognature o per la viabilità e i trasporti?
Il quinto. La forza di una Costituzione è data dalla ampia condivisione dei valori che essa esprime. Sappiamo tutti che la riforma passa solo con i numeri dati da una legge elettorale incostituzionale, e forse con l’appoggio decisivo dei voltagabbana. Sappiamo tutti che viene non da un’investitura popolare come qualcuno ama far credere, ma da uno scambio di vertice per molti inaccettabile. Vediamo la pochezza degli argomenti a favore, e la sordità alle critiche. Vediamo ogni giorno che la si vuole far passare con la minaccia di crisi e nuove elezioni. La vediamo poggiare sulla paura di perdere le poltrone oggi occupate, o per domani agognate, nei palazzi del potere. E questa dovrebbe essere la «nostra» Costituzione? Mai.
Domande, censure, dubbi da tempo avanzati e tuttora senza risposta. Non basta citare qualche supposto precedente. La riforma del 2001 del titolo V (centrosinistra, ora legge costistuzionale 3/2001) e quella del 2005 sulla Parte II (centrodestra, respinta dal voto popolare il 25 giugno 2006), approvate a colpi di maggioranza e schiacciando il dissenso, furono entrambe pessime. Quanto alle Bicamerali, operavano quando i partiti non erano ancora evanescenti ectoplasmi. E non offrono più un raffronto utile. È dunque essenziale che il senato sia eletto direttamente, pur nell’ambito di un bicameralismo differenziato. Napolitano cita Gramsci affermando che bisogna respingere la «paura dei pericoli». È giusto. Ma altra cosa è il ragionato, consapevole, convinto, profondo dissenso.
Dopodomani non è la festa della nazione, ma quella della Repubblica. Oggi, nei tempi bui nei quali gli egoismi nazionalistici, il degrado della democrazia e il tradimento dei principi della Costituzione sembrano prevalere, non dimentichiamo il significato delle elezioni che condussero a quel risultato. E torniamo a votare.

La Repubblica, 31 maggio 2015

IL CONSOLATO generale d’Italia di New York offre alla comunità italiana e italo-americana un ricco programma di attività per le celebrazioni del 2 giugno. Cinema, storia, letteratura, arte: un panorama della cultura dell’Italia repubblicana che inorgoglisce e rende giustizia a quel che il nostro Paese ha realizzato in questi settant’anni di libertà politica. Le celebrazioni della Festa della Repubblica sono pubblicizzate come “Italian National Day”. Una scelta che lascia perplessi in questo tempo di rinascita del fenomeno nazionalista, soprattutto in Europa, dove alle forme populiste si affiancano in questi giorni le resistenze degli stati membri alla politica comunitaria delle quote di accoglienza dei rifugiati nel nome della priorità della nazione. Ma più ancora desta perplessità che si interpreti il 2 giugno come una festa genericamente nazionale, perché questo rischia di alterare il significato della Festa della Repubblica.

In quella prima domenica di giugno del 1946, gli italiani e le italiane decisero con un solenne plebiscito di voler essere una Repubblica democratica. Il loro fu un atto di fondazione che diede vita a un nuovo ordine politico. I cittadini e le cittadine furono per la prima volta nella storia della nazione italiana chiamati a decidere sull’ordinamento politico e la loro identità pubblica, a farsi volontà sovrana. La nazione italiana ha avuto tre ordinamenti dal tempo della sua unificazione nel 1861: quello monarchico costituzionale, quello fascista, e quello repubblicano. Il 2 giugno non si festeggiano tutti e tre questi ordinamenti, e in questo senso non è il giorno della nazione; se ne festeggia uno solo, l’ultimo. Se si fa perno sull’aggettivo “nazionale” si rischia di perdere il senso storico e politico di ciò che si festeggia: la nazione repubblicana e solo quella.

Soprattutto, si mette in secondo piano il significato politico del plebiscito del 2 giugno 1946 e si normalizza quell’evento eccezionale traducendolo con un termine onnicomprensivo e diversamente interpretabile. La nazione comprende infatti tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese, non soltanto quella parte che ha preso avvio nel 1946. Certo, come ci insegnano gli storici, lo Stato italiano nelle sue strutture burocratiche e anche nel suo personale amministrativo ha registrato una sostanziale continuità dal fascismo alla Repubblica. Non così la sovranità politica, che con quel plebiscito cambiò radicalmente, passando da una casa monarchica a milioni di cittadini che compongono il popolo, come recita la nostra Costituzione, esito diretto di quel plebiscito.

Un esempio può aiutare a comprendere meglio perché la Festa della Repubblica non é semplicemente una festa della Nazione: prima del 1946, le italiane erano sia parte della nazione che suddite dello Stato italiano, ma non erano soggetti politici liberi. Come loro anche molti uomini; ma nel caso delle donne l’esclusione politica era totale, e l’appartenenza alla stessa nazione non valse a correggerla.

La nazione non è stata capace di rappresentare le donne italiane come cittadine. Fu il plebiscito del 2 giugno che cambiò il loro status, insieme a quello dei loro connazionali e dell’intera società. Si trattò di uno spartiacque politico fondamentale, documentato dalle cronache che raccontano l’emozione con la quale le cittadine e i cittadini si recarono alle urne, moltissimi di loro per la prima volta in assoluto, tutti vestiti a festa come per le ricorrenze più importanti.
Quel sasso di carta che gettarono nell’urna abbatté la monarchia. Il plebiscito fu come una simbolica “decapitazione” del Re con il solo potere del voto e la decretazione della fine della vecchia nazione politica, quella nella quale solo alcuni erano liberi. Si trattò di una rivoluzione pacifica fatta da milioni di donne e di uomini che, uno dopo l’altro, espressero il loro voto, in silenzio, incolonnati, pazienti e con la dignità che viene dal sapersi sovrani e non sudditi. Nella fondazione della Repubblica convergevano anni di fatiche, di dissensi, di lotte cruente, di guerra civile. E il 2 giugno fu il punto di inizio di una nuova convivenza politica nella quale solo con il voto e in maniera pacifica si sarebbero decisi i governi e i leader. Per non smarrire questo senso di libertà politica, di potere del suffragio universale, festeggiamo il 2 giugno come giorno della Repubblica.

«Libia, le rivelazioni di Wikileaks sui piani di attacco dell'Europa. Una missione militare a tutti gli effetti e non un'operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni».

Il manifesto, 27 maggio 2015

Se ci fosse stato biso­gno di una con­ferma che di guerra si tratta per il docu­mento stra­te­gico di 19 pagine pre­sen­tato da Moghe­rini all’Onu nem­meno due set­ti­mane fa su «Libia, migranti e sca­fi­sti», ecco la rive­la­zione di Wiki­leaks — anti­ci­pata dall’Espresso — che rende noti due pro­to­colli riser­vati della Ue sull’operazione. È una mis­sione mili­tare in Libia a tutti gli effetti e non un’operazione di poli­zia per sal­vare migranti, come invece rac­con­tano i mini­stri Alfano e Gen­ti­loni. La Ue con la sua flotta navale unita — final­mente l’Unione — com­menta Wiki­leaks «schie­rerà la forza mili­tare con­tro infra­strut­ture civili in Libia per fer­mare il flusso di migranti. Dati i pas­sati attac­chi in Libia da parte di varie paesi euro­pei della Nato e date le pro­vate riserve di petro­lio della Libia, il piano può por­tare ad altro impe­gno mili­tare in Libia».

Pro­prio men­tre la Com­mis­sione Ue rivede al ribasso il «piano Junc­ker» per le quote dei migranti che quasi tutti i paesi euro­pei rifiu­tano; e men­tre al Cairo fal­li­scono gli enne­simi incon­tri tri­bali per avere in Libia un accordo di governo — utile solo ad appro­vare la nostra impresa bel­lica. La nuova guerra durerà un anno e comun­que tutto il tempo neces­sa­rio a «fer­mare il flusso migra­to­rio». All’infinito dun­que, visto che la dispe­ra­zione di chi fugge da guerre (spesso nostre) e mise­ria (spesso pro­vo­cata da noi) è inarrestabile.

Per que­sto «l’uso della forza deve essere ammesso, spe­cial­mente durante le atti­vità come l’imbarco, e quando si opera sulla terra o in pros­si­mità di coste non sicure o nell’interazione con imbar­ca­zioni non adatte alla navi­ga­zione». Quindi ci sono le ope­ra­zioni a terra, come scri­veva The Guar­dian. E per «la pre­senza di forze ostili, come estre­mi­sti o ter­ro­ri­sti come lo Stato Isla­mico», la mis­sione «richie­derà regole di ingag­gio robu­ste e rico­no­sciute per l’uso della forza».

Ma la vera novità è l’invito espli­cito dei mini­stri della difesa Ue: «Per l’operazione mili­tare sarà fon­da­men­tale il con­trollo delle infor­ma­zioni che cir­co­lano sui media». Per­ché il Comi­tato Mili­tare dell’Ue «cono­sce il rischio che ne può deri­vare alla repu­ta­zione dell’Unione Euro­pea… qual­siasi tra­sgres­sione per­ce­pita dall’opinione pub­blica in seguito alla cat­tiva com­pren­sione dei com­piti e degli obiet­tivi, o il poten­ziale impatto nega­tivo nel caso in cui la per­dita di vite umane fosse attri­buita, cor­ret­ta­mente o scor­ret­ta­mente, all’azione o all’inazione della mis­sione euro­pea. Quindi il Con­si­glio Mili­tare dell’Unione Euro­pea con­si­dera essen­ziale fin dall’inizio una stra­te­gia media­tica per enfa­tiz­zare gli scopi dell’operazione e per faci­li­tare la gestione delle aspet­ta­tive. Ope­ra­zioni di infor­ma­zione mili­tare dovreb­bero essere parte inte­grante di que­sta mis­sione europea».

Avete capito bene: ci saranno tante vit­time inno­centi, vale a dire i migranti, desti­nati alle fosse del Medi­ter­ra­neo e sot­to­po­sti sem­pre più ad arre­sti e vio­lenze in Libia. E ser­vi­ranno infor­ma­zioni «mirate» dai ver­tici mili­tari e un gior­na­li­smo veli­naro e/o embed­ded con «robu­ste regole d’ingaggio».

Dopo l’intervento di Nadia Urbinati del 6 maggio scorso su La Repubblica, contrario alla Buona Scuola renziana nel suo nucleo centrale -scuola azienda che realizzerà compiutamente la privatizzazione della scuola pubblica- mi aspettavo, se non un profluvio, almeno qualche altra presa di posizione dei nostri intellettuali. Invece niente. Hanno disertato. Storia italiana antica: anche questa volta spicca dunque il silenzio dei chierici. Alla fine della fiera insegnanti, studenti e sindacati, tranne qualche lodevole mosca bianca, nel dibattito pubblico sulla riforma della scuola sono stati lasciati soli.
Dove sono i filosofi, i letterati, gli scrittori, gli storici, i sociologhi, gli scienziati? Che cosa pensano i nostri illustri accademici, seduti sulle loro cattedre? Un silenzio assordante ha circondato questa riforma, il che significa che il mondo della cultura italiano – tanto la cultura scientifica, come quella “umanista” (Renzi docet)- non ha nulla da dire su questo tema, centrale per il paese. Mi aspettavo che qualche brillante linguista analizzasse, che so, quante volte ricorrono le parole “cultura” o “alfabetizzazione” nel disegno di legge e in quale accezione compaiano. O che qualche sociologo ci illustrasse in che senso Renzi, occupandosi “soltanto” di organizzazione della scuola ne uccida il nucleo profondo, quello della Costituzione: promuovere il pieno sviluppo della persona umana, lo sviluppo della cultura e la ricerca, rimuovere gli ostacoli, sostenere il diritto allo studio. Studio, studio... si chiama studio quello che si dovrebbe fare a scuola.

Gli intellettuali ne dovrebbero sapere qualcosa... Si sono chiesti se la Buona Scuola lo ha a cuore? Hanno speso qualche ora del loro tempo per capire quali sono le vere priorità di questa riforma e quale lo scopo di quel linguaggio da marketing così caro al premier? Si sono chiesti quale posto occupi nel DdL l’alfabetizzazione di base degli studenti? Quale spazio ci sarà nella nuova scuola disegnata dal trio Renzi-Farone-Giannini per costruire alfabeti forti: linguistico-matematico innanzitutto, proprio gli alfabeti dove i nostri ragazzi sono quasi sempre messi malissimo? Mi chiedo davvero come mai siano così mancate le analisi serie di questo testo renziano, come mai nessuno abbia tentato un confronto tematico e di stile fra la Buona Scuola del trio di governo e la LIP (Legge di iniziativa popolare) promossa dall’interno del mondo della scuola e caduta nel più totale oblio. Ma dove è finita la semiotica in questo paese?

Da tempo, si sa, la ricerca ha reciso ogni legame con la scuola, anche in sede istituzionale. Chi si ricorda più della libera docenza? La scuola ha stufato, troppo incasinata, si capisce poco. E poi l’esperienza autobiografica qui la fa da padrona: ognuno è stato a scuola e ognuno ha figli e nipoti che ci vanno. C’è sempre qualche maestro inadeguato da punire o qualche professore troppo severo che ha ferito il narcisismo familiare da ricordare con rabbia. E così assistiamo impotenti e muti alla campagna mediatica di Renzi. L’ultimo spettacolino, dismesse le slide, è il video davanti alla lavagna, tipo maestro Manzi. Seguono articolesse di colore su stampa e TV, che trasudano ampia ammirazione per le capacità comunicative del premier. Ma sul merito pochi si sono avventurati davvero e sempre con grande timidezza.

I conti delle riforme della scuola arrivano dopo decenni, quando maturano le generazioni. Molti di noi non ci saranno più, ma porteremo tuttavia la responsabilità di questa devastazione ignorante.

< i>L'autrice è insegnante di scuola secondaria< /i>

«I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione.

Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)

L’isteria con cui il governo avanza nella discus­sione sulla riforma della Costi­tu­zione e sulla legge elet­to­rale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per que­sto deve farci riflet­tere. La neces­sità di attuare le riforme, da noi con­di­visa, non può pre­scin­dere da un per­corso di con­fronto e di ascolto sul merito delle que­stioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripe­tuta dal mini­stro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme isti­tu­zio­nali per la loro spe­ci­fica natura devono essere appro­vate con il più ampio con­senso e non a colpi di maggioranza.

La Cgil da tempo sostiene il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, l’istituzione di una Camera rap­pre­sen­ta­tiva delle Regioni e delle auto­no­mie locali e la modi­fica del Titolo V della Costi­tu­zione. La stessa modi­fica del Titolo V appor­tata nel 2001 sulla quale è una­nime il giu­di­zio nega­tivo per aver pro­dotto un con­fuso fede­ra­li­smo con una forte sovrap­po­si­zione tra le pre­ro­ga­tive dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimo­stra che non basta volere il cam­bia­mento, biso­gna anche saperlo pro­muo­vere e soprat­tutto qualificare.

Nel merito della discus­sione, ciò che ci pre­oc­cupa mag­gior­mente è il com­bi­nato dispo­sto della modi­fica costi­tu­zio­nale con la nuova legge elettorale.

La riforma costi­tu­zio­nale pro­po­sta dal governo intro­duce un pro­ce­di­mento legi­sla­tivo far­ra­gi­noso e non fa della seconda camera un luogo di rap­pre­sen­tanza delle isti­tu­zioni locali ade­guato a defi­nire un nuovo equi­li­brio isti­tu­zio­nale, reso ancor più neces­sa­rio dall’accentramento di com­pe­tenze legi­sla­tive pre­vi­sto dalle modi­fi­che pro­po­ste nel Titolo V.

Per noi il pro­blema non è l’elezione diretta dei sena­tori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Par­la­mento. Se il Senato deve rap­pre­sen­tare le Regioni e le Auto­no­mie, in una logica di equi­li­brio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di eser­ci­tare la neces­sa­ria coo­pe­ra­zione isti­tu­zio­nale tra i dif­fe­renti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una rica­duta ter­ri­to­riale, a comin­ciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attri­bui­sce a Palazzo Madama la pote­stà legi­sla­tiva piena sulla Costi­tu­zione, ma non sui prin­ci­pali prov­ve­di­menti che inte­res­sano Regioni e autonomie.

Que­sta situa­zione, uni­ta­mente ad una legge elet­to­rale come l’Italicum, che pre­vede un bal­lot­tag­gio con regole sba­gliate e deter­mina una grave incer­tezza su chi sce­glie real­mente i depu­tati che sie­de­ranno a Mon­te­ci­to­rio, potrebbe por­tare ad una peri­co­losa con­tra­zione democratica.

Nella legge elet­to­rale, noi non con­te­stiamo che il pre­mio di mag­gio­ranza venga dato al secondo turno, ma rite­niamo che per quest’ultimo deb­bano valere regole diverse da quelle con­te­nute nel testo gover­na­tivo. L’Italicum non pre­vede né la pos­si­bi­lità dell’apparentamento, né una soglia che per­metta il bal­lot­tag­gio uni­ca­mente tra par­titi con una rap­pre­sen­tanza pari, almeno, al 50% degli elet­tori del primo turno, come avviene in Fran­cia per l’elezione dell’assemblea nazio­nale, dove in caso di man­cato supe­ra­mento di tale soglia il bal­lot­tag­gio è allar­gato ai primi tre candidati.

Senza que­ste pre­vi­sioni si rischia di dare la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi a una forza poli­tica che ha con­qui­stato solo il 20% dei voti al primo turno. Al con­tra­rio, l’auspicata sem­pli­fi­ca­zione isti­tu­zio­nale che si avrebbe con il supe­ra­mento del bica­me­ra­li­smo per­fetto, richiede neces­sa­ria­mente un sistema elet­to­rale in grado di garan­tire un forte man­dato ai depu­tati, che renda l’aula di Mon­te­ci­to­rio la sede della rap­pre­sen­tanza poli­tica del paese in tutta la sua com­ples­sità, senza mor­ti­fi­care, in nome del prin­ci­pio di gover­na­bi­lità che deve essere comun­que tute­lato, il plu­ra­li­smo politico.

I muta­menti dell’organizzazione demo­cra­tica posti dalla moder­nità e i cam­bia­menti del sistema isti­tu­zio­nale pro­po­sti nei dise­gni di legge rimet­tono in discus­sione il rap­porto che esi­ste tra governo, par­la­mento e cit­ta­dini. Si pone dun­que l’esigenza di rive­dere, in modo ade­guato, gli stru­menti di par­te­ci­pa­zione attiva della popo­la­zione. Su que­sto fronte pen­siamo che con la riforma costi­tu­zio­nale si sia persa un’occasione: il governo ha appor­tato delle pic­cole e insuf­fi­cienti modi­fi­che al refe­ren­dum abro­ga­tivo e alla pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare, e nel pre­ve­dere l’istituzione del refe­ren­dum pro­po­si­tivo e di indi­rizzo lo ha riman­dato ad una suc­ces­siva legge costi­tu­zio­nale, senza fis­sarne cri­teri e para­me­tri, rin­vian­done di fatto la reale introduzione.

Poi­ché siamo nell’epoca delle isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali e della velo­cità, c’è biso­gno di rie­qui­li­brare il rap­porto tra governo, par­la­mento e popolo attra­verso un’idea della demo­cra­zia che pre­veda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Que­sta, secondo noi, deve essere la nuova fron­tiera degli stati demo­cra­tici moderni e deve diven­tare il prin­ci­pio di governo anche nei grandi stati, non solo nei pic­coli, altri­menti si rischia una demo­cra­zia rove­sciata in cui i governi deci­dono e i popoli si devono adeguare.

Danilo Barbi è Segretario confederale Cgil
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