«Il testo scardina il Parlamento e assegna tutto il potere al governo. Nadia Urbinati, la presidente di Libertà e Giustizia: “Questa legge è un pasticcio, nelle mani sbagliate potrebbe portare guai”».
Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016 (p.d.)
Vede rischi di deriva autoritaria?
Rimane il fatto che su questa riforma Renzi punta tutto. “Se perdo il referendum vado a casa”, ripete allo sfinimento.
Ma in tutto il mondo è ormai il tempo dei leader che decidono, non crede?
Però in Italia decidere è sempre stato complicato. Renzi vuole dare più poteri al governo per velocizzare tutto, e forse su questo ha ragione.
Il cardine della riforma è proprio il nuovo Senato, con poteri limitati...
Non si andrà più veloci?
Renzi però potrà contare su argomenti forti a ottobre. Potrà propagandare il taglio dei senatori e quindi dei costi. Come si può ribattere?
Però il tema è difficile, ostico. Come si può portare la gente alle urne se non politicizzando questo referendum, anche contro Renzi?
Il Fatto Quotidiano, 19 aprile 2016 (p.d.)
Cosa rappresenta per lui e per tutto il sindacato nemmeno lo domandiamo.
“La Carta –spiega Maurizio Landini, segretario dei metalmeccanici della Cgil – è il manifesto della Repubblica che ha il lavoro come fondamento”. E aggiunge: “ Se penso alla vicenda della Fiom con la Fiat che ci voleva escludere dalla contrattazione, la nostra partecipazione è stata garantita dalla Carta costituzionale e dalla Corte costituzionale”.
Dunque, la Carta al centro.
Avete paura di perdere? Informare i cittadini e far capire l'importanza del referendum non sarà semplice: la materia è ostica.
Questo ci racconta una certa spudoratezza.
Renzi dice che il no si spiega solo con l’odio nei suoi confronti e che se non passa il referendum se ne va.
Secondo lei a cosa è funzionale questa riforma?
Come legge i risultati del referendum sulle trivelle?
«Il manifesto, 13 aprile 2016
«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione». È su queste fondamenta, sulle parole del secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che poggia l’edificio della giovane democrazia italiana: tanto sulle prime (i sovrani siamo noi), quanto sulle seconde (fuori delle forme e dei limiti previsti dalla Costituzione stessa non c’è sovranità popolare, ma arbitrio del più forte).
Oggi un Governo non legittimato da un voto – e che gode della fiducia di un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale – prova a cambiare, in un colpo solo, 47 articoli della Costituzione, e invoca un referendum-plebiscito su se stesso («Se perdo il referendum, lascio la politica», dichiara il Presidente del Consiglio).
Vorrei mostrare perché questo enorme furto di sovranità non sia isolato: anzi, come esso sia il drammatico culmine di un vero e proprio saccheggio di sovranità popolare che dura da anni.
«Saranno semplicemente gli italiani, e nessun altro, a decidere se il nostro progetto va bene o no», ha detto Renzi nel gennaio 2016. Dietro questa cortina retorica intessuta di populismo e bonapartismo di terza mano, la realtà è assai diversa: quale sia la vera considerazione in cui il presidente del Consiglio tiene le decisioni degli italiani lo ha svelato – solo due mesi dopo – l’emendamento del Partito Democratico alla legge di iniziativa popolare sull’acqua pubblica: «Quasi cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita, e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini» (S. Rodotà).
Questo cortocircuito è straordinariamente eloquente: non solo perché strappa la maschera alla retorica del «decideranno gli italiani», ma perché indica con chiarezza chi si siede sul trono della sovranità, una volta che i cittadini ne siano stati estromessi: il Mercato, signore assoluto delle nostre vite. Un mercato a cui non c’è alternativa: There Is No Alternative (TINA), secondo il celebre motto di Margaret Thatcher. Ed è proprio questo il senso profondo della “riforma” che sfascia la forma di Stato e di governo della Repubblica: mettere TINA in Costituzione, cioè costituzionalizzare la mancanza di alternativa al sistema del finanz-capitalismo. Distruggere gli strumenti con cui qualcuno, un domani, potrebbe costruirla, un’alternativa.
La genesi ultraliberista della “riforma” è apertamente dichiarata dai nuovi “padri” costituenti. La relazione introduttiva al disegno di legge costituzionale n. 813 – presentato il 10 giugno 2013 dal Governo Letta (e firmata da Enrico Letta, Gaetano Quagliarello e Dario Franceschini), e ultima tappa prima del n. 1429 del Governo Renzi – sostiene che: «Gli elementi cruciali dell’assetto istituzionale disegnato nella parte seconda della nostra Costituzione (forma di governo, sistema bicamerale) sono rimasti sostanzialmente invariati dai tempi della Costituente. È invece opinione largamente condivisa che tale impianto necessiti di essere aggiornato per dare adeguata risposta alle diversificate istanze di rappresentanza e d’innovazione derivanti dal mutato scenario politico, sociale ed economico; per affrontare su solide basi le nuove sfide della competizione globale; dunque, per dare forma, sostanza e piena attuazione agli stessi principi fondamentali contenuti nella parte prima della Carta costituzionale».
È un testo cruciale per comprendere perché si sono fatte le “riforme”. Se è mostruosa l’ipocrisia per cui tutto questo permetterebbe di attuare i principi fondamentali – sovranità popolare (art. 1), eguaglianza sostanziale e pieno sviluppo della persona umana (art. 3), tutela del paesaggio (art. 9)…! –, è almeno chiarissimamente enunciato il fine ultimo di questa macelleria costituzionale: «affrontare la competizione globale».
Questa scoperta dichiarazione va intesa come atto di esplicita e pubblica sottomissione ai mercati internazionali. In quegli stessi giorni del giugno 2013, infatti, si era diffusa nel discorso pubblico italiano l’eco di un importante documento della grande banca d’affari americana J. P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013) in cui si sosteneva che «Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali a un’ulteriore integrazione della regione… All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia , che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente. Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; costruzione del consenso fondata sul clientelismo politico; e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo. I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi… Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità impegnarsi in importanti riforme politiche»….
È impressionante notare come, quasi un anno dopo, quello stesso nesso venisse ammesso esplicitamente in un fondo dell’accreditatissimo quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda: «Ma una cosa il Capo dello Stato non la nega, nella nota del suo ufficio stampa: quella riforma per lui è importante, anzi «improrogabile», dunque è positivo che ci si lavori subito, per mettere fine al bicameralismo paritario. L’ha detto in infinite occasioni, per dare una scossa contro «la persistente inazione del Parlamento». Spiegando che «la stabilità non è un valore se non si traduce in un’azione di governo adeguata» (ciò che in Senato con identici poteri alla Camera non consente) e associando quella riforma a quella del Titolo V della Carta e alla legge elettorale. A questo proposito basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla J.P. Morgan il 28 maggio 2013, là dove indice nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano. Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace».
Riassumendo: le più alte cariche della Repubblica hanno operato perché si passasse da una forma di Stato e di governo scaturita dall’antifascismo, a una plasmata sulle richieste delle grandi banche internazionali. Non importa se uscire dalla crisi significa uscire dalla democrazia: è questa la «sfida decisiva della missione di Renzi».
E la missione appare oggi decisamente compiuta. Intervenendo sul Titolo V, la “riforma” costituzionale riporta il Paese a un nuovo centralismo, correggendo radicalmente uno dei quattro punti critici rilevati da JP Morgan («Stati centrali deboli rispetto alle regioni»). Con il combinato disposto di “riforma” costituzionale e legge elettorale si costruisce, poi, una dittatura della maggioranza parlamentare (che corrisponde magari a una minoranza dei votanti, e a una estrema minoranza degli aventi diritto al voto) che ne “risolve” un altro: quello dei «governi deboli» rispetto ai Parlamenti. E, d’altra parte, la verticalizzazione autoritaria è un tratto “culturale” – vorrei dire antropologico – della politica berlusconiana-renziana: un modello a cui conformare financo la scuola o i musei, che cessano di essere pensati come comunità di pari e vengono affidati, rispettivamente, a presidi autocrati e direttori-manager…
È questo il paradossale cuore del progetto: costruire i presupposti costituzionali ed elettorali per cui una minoranza molto determinata possa dismettere il ruolo dello Stato in settori strategici, a scapito degli interessi di una maggioranza anestetizzata e ridotta al silenzio. Altro che rottamazione: il programma è ancora quello enunciato il 20 gennaio del 1981 da Ronald Reagan, nel discorso di insediamento del suo primo mandato alla Casa Bianca: «In this present crisis, government is not the solution to our problem; government is the problem» (uno slogan che ricompare, senza il suo imbarazzante autore, tra quelli della Leopolda 2014). È questa la dottrina che ha distrutto, in Europa, ogni idea di giustizia sociale e solidarietà, rimpiazzandola con la «modernizzazione», che è stata la parola d’ordine dell’età di Tony Blair: un’età a cui Renzi si ispira esplicitamente e programmaticamente, e la cui «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra».
I cittadini, cui secondo Costituzione appartiene la sovranità, non sono mai stati coinvolti nella discussione. Domina la scena la voce del governo che ha voluto e dettato al Parlamento questadeformazione della Costituzione, che viene descritta come passo decisivo per la semplificazione dell’attività legislativa e per il risparmio sui costi della politica: il risparmio è tutto da dimostrare e la semplificazione non ci sarà. Avremo invece la moltiplicazione dei procedimenti legislativi e la proliferazione di conflitti di competenza tra Camera e nuovo Senato, tra Stato e Regioni.
Il risultato è prevedibile: sono ridotte le autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente dal Parlamento al governo, in contraddizione con il carattere parlamentare della nostra Repubblica, e per di più il governo non sarà più l’espressione di una maggioranza del Paese. Già l’attuale parlamento è stato eletto con una legge elettorale definita Porcellum. Ancora di più in futuro: con la nuova legge elettorale (c.d. Italicum) – risultato diforzature parlamentari e di voti di fiducia – una minoranza, grazie ad un abnorme premio di maggioranza e al ballottaggio, si impadronirà alla Camera di 340 seggi su 630.
Ridotto a un’ombra il Senato, il Presidente del consiglio avrà ildominio incontrastato sui deputati in pratica da lui stesso nominati. Gli organi di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Csm) ne usciranno ridimensionati, o peggio subalterni. Se questa revisione costituzionale sarà definitivamente approvata la Repubblica democratica nata dalla Resistenza ne risulterà stravolta in profondità. E’ gravissimo che un Parlamento eletto con una legge giudicata incostituzionale dalla Corte abbia sconvolto il patto costituzionale che sorregge la vita politica e sociale del nostro paese. Nel deserto della comunicazione pubblica e con la Rai sempre più nelle mani del governo,chiediamo a tutte le persone di cultura e di scienza di esprimersi in un vasto dibattito pubblico, anzitutto per informare e poi per invitare i cittadini a partecipare in tutte le forme possibili per ottenere i referendum, firmando la richiesta, e per bocciare con il voto nei referendum queste pessime leggi.
Sentiamo forte e irrinunciabile il compito di costruire e diffondere conoscenza per giungere al voto con una piena consapevolezza popolare, prima nel referendum sulla Costituzione e poi nei referendum abrogativi sulla legge elettorale. Per ottenere questi referendum sulla Costituzione e sulla legge elettoraleoccorrono almeno 500.000 firme, per questo dal prossimo aprile vi invitiamo a sostenere pienamente questo impegno. Facciamo appello a tutte le persone di buona volontà affinché diano il loro contributo creativo a questo essenziale dovere civico.
CLICCA QUI PER FIRMARE LA PETIZIONE SULLA PIATTAFORMA CHANGE.ORG
Ecco i primi firmatari:
Nicola Acocella, Marco Albeltaro, Vittorio Angiolini, Alberto Asor Rosa, Gaetano Azzariti, Michele Bacci, Andrea Bajani, Laura Barile, Carlo Bertelli, Francesco Bilancia, Franco Bile, Sofia Boesch, Ginevra Bompiani, Sandra Bonsanti, Mario Bova, Giuseppe Bozzi, Alberto Bradanini, Alberto Burgio, Maria Agostina Cabiddu, Giuseppe Campione, Luciano Canfora, Paolo Caretti, Lorenza Carlassare, Loris Caruso, Riccardo Chieppa, Luigi Ciotti, Pasquale Colella, Daria Colombo, Michele Conforti, Fernanda Contri, Girolamo Cotroneo, Nicola D’Angelo, Claudio De Fiores, Claudio Della Valle, Ida Dominijanni, Angelo D’Orsi, Roberto Einaudi, Vittorio Emiliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Vincenzo Ferrari, Maria Luisa Forenza, Patrizia Fregonese, Mino Gabriele, Alberto Gajano, Giuseppe Rocco Gembillo, Roberto Giannarelli, Paul Ginsborg, Antonio Giuliano, Fabio Grossi, Riccardo Guastini, Monica Guerritore, Elvira Guida, Leo Gullotta, Alexander Hobel, Elena Lattanzi, Paolo Leon, Antonio Lettieri, Rosetta Loy, Paolo Maddalena, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Maria Mantello, Ivano Marescotti, Annibale Marini, Anna Marson, Federico Martino, Enzo Marzo, Citto Maselli, Stefano Merlini, Gian Giacomo Migone, Giuliano Montaldo, Tomaso Montanari, Paolo Napolitano, Giorgio Nebbia, Guido Neppi Modona, Diego Novelli, Piergiorgio Odifreddi, Massimo Oldoni, Moni Ovadia, Alessandro Pace, Valentino Pace, Antonio Padellaro, Giovanni Palombarini, Giorgio Parisi, Gianfranco Pasquino, Valerio Pocar, Daniela Poggi, Michele Prospero, Alfonso Quaranta, Antonella Ranaldi, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Giuseppe Ugo Rescigno, Marco Revelli, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Gennaro Sasso, Vincenzo Scalisi, Giacomo Scarpelli, Silvia Scola, Giuseppe Sergi, Tullio Seppilli, Toni Servillo, Salvatore Settis, Armando Spataro, Mario Tiberi, Alessandro Torre, Nicola Tranfaglia, Marco Travaglio, Nadia Urbinati, Gianni Vattimo, Daniele Vicari, Massimo Villone, Maurizio Viroli, Mauro Volpi, Roberto Zaccaria, Gustavo Zagrebelsky, Alex Zanotelli.
Intervistata da Gianni Barbacetto la scrittrice motiva la sua adesione al referendum contro l'Italicum. "Nella mia incertezza sulla politica, ho però una certezza: non c’era bisogno di stravolgere la nostra Costituzione"
Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016
Rosetta Loy, dopo tanti romanzi, ci ha regalato un racconto dell’Italia recente (Gli anni fra cane e lupo, Chiarelettere 2009) che è una storia addolorata di un Paese sospeso e braccato, tra stragi, corruzione e cattiva politica. Oggi meriterebbe un nuovo capitolo, quella sua storia che dalla bomba di piazza Fontana arrivava fino a Berlusconi. Intanto Rosetta Loy ha messo anche la sua firma sotto l’appello per il No al referendum costituzionale. “La nostra Costituzione non deve essere ferita. Ha retto benissimo il tempo, non vedo perché stravolgerla così”. Riforma? “Piuttosto un passo verso un sistema in cui i cittadini hanno sempre meno voce. Quello che verrà consolidato è il sistema della casta che taglia fuori i cittadini. Loro decidono, noi siamo fuori. Invece democrazia vuol dire: voce ai cittadini”.
Protagonista della scena politica e promotore della riforma costituzionale è Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico. “Renzi non mi ha mai conquistato, come figura politica, ma all’inizio mi sembrava una persona decisa, uno che voleva rinnovare la politica italiana. Si eraautoproclanato rottaatore. Invece non ho visto rinnovamento. Mi pare anzi di essere tornata ai tempi della Dc, con una casta che comanda dopo aver conquistato la maggioranza: ma non la maggioranza degli elettori, la maggioranza dentro la casta dei politici”.
È cambiato anche il partito, quel Pd erede del vecchio Pci. “È cambiato moltissimo. Attenzione: io non sono una politica, quindi non so fare un discorso politico. Sono sempre stata un po’ diffidente nei confronti della politica. Però sono una cittadina che è sempre stata attenta alla storia del suo Paese e si è sempre impegnata per cercare di capire ciò che succedeva. Oggi questo impegno, per i cittadini, è diventato molto più difficile. Ed ha anche molta meno forza, meno possibilità di pesare, di incidere sulla realtà”.
L’Italia è molto cambiata, dopo gli anni “fra cane e lupo”. Anche la cultura italiana. “Un tempo cultura e politica vivevano insieme. Forse perché c’era stata la guerra, c’era stato il fascismo: c’era un interesse forte che univa cultura e politica. Questo oggi si è stemperato tantissimo. Anche la cultura, oggi, non sai dove sia. La insegui, ma è come un gabbiano che vola in cielo e non capisci dove finirà.
Invece la politica e i suoi nuovi personaggi di riferimento si occupano prevalentemente d’altro. “Maria Elena Boschi, la ministra delle riforme che ha dato la sua faccia a questo stravolgimento della Costituzione, è una delle creature di Renzi. Non è l’unica. E dietro di loro vedo occhieggiare un’altra figura: quella di Denis Verdini”.
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Il manifesto, 3 marzo 2016
Siamo vicini all’inizio della campagna referendaria sulla perversa deformazione del Senato. Per chi le si oppone, come a tutto il disegno devastante di Renzi, la lotta sarà durissima. È enorme il divario di forza tra i due schieramenti che si vanno costituendo. Variegati, come in tutti i referendum, lo è di più quello del No, il nostro. È perciò urgente non soltanto definire l’identità nostra di oppositori all’eversione renziana, indicando le ragioni del No, che, soprattutto su questo giornale, sono state esattamente enumerate e ampiamente motivate, ma, immaginando quali potranno essere le argomentazioni del Sì, per contestarle e rovesciarle.
Saremo certamente accusati di conservatorismo, immobilismo, passatismo, di sostegno ad apparati pletorici, inefficienti, costosi, inadeguati, irresponsabili ecc., di fonte ai quali poi …. si ergerebbe la modellistica istituzionale high-tech della onorevole Boschi. Renzi dirà che vogliamo mantenere intatto l’assetto istituzionale disegnato settanta anni fa, attribuendo, implicitamente o anche direttamente, a questo assetto la responsabilità dell’arretratezza del Paese, tacciandolo di inidoneità a reagire alla crisi economica, a fronteggiare i problemi reali come quello del precariato, della disoccupazione più alta d’Europa, della corruzione endemica, dei poteri mafiosi e quant’altro. Falso, certo. Ma il nuovismo è sciaguratamente penetrato nel senso comune ed ha gettato sulle istituzioni repubblicane la responsabilità dell’economia liberista, ha avvolto la democrazia costituzionale nell’ombra spessa della delusione.
Sarebbe perciò imperdonabile permettere che la sinistra referendaria possa apparire come tetragona guardiana degli assetti istituzionali esistenti, delle parole, degli accenti e delle virgole della Carta costituzionale. Perché non lo è, anzi, non può, non deve esserlo. Tanto più che dispone di un ricco patrimonio di proposte autenticamente riformatrici, quelle che, per riaffermare i principi della nostra Costituzione, perseguirne gli obiettivi, mantenerne le promesse, realizzare il compito della Repubblica, adeguerebbero perfettamente le nostre istituzioni alla fase storica del dominio del liberismo, della compressione dei diritti, del precariato, della disoccupazione permanente, delle ineguaglianze crescenti, del rischio incombente del collasso ecologico.
Dovremmo quindi indicarle. Perciò provo a sottoporre alla discussione un possibile quadro di proposte volte sia a riformare l’apparato centrale della Repubblica che ad integrare la democrazia rappresentativa con istituzioni della democrazia diretta.
Per quanto riguarda la struttura del Parlamento, riprenderei la nobile, costante e mai smentita scelta della sinistra a favore del monocameralismo e del sistema elettorale proporzionale, sistema da sancire contestualmente in Costituzione perché condizione indefettibile della opzione monocamerale. Un numero di 500 deputati potrebbe perfettamente soddisfare le esigenze rappresentative e quelle funzionali dell’organo.
Ai Presidenti delle Regioni andrebbe riconosciuto il potere di intervento e di emendamento nel corso del procedimento di formazione delle leggi della Repubblica, direttamente o indirettamente rilevanti per l’esercizio delle funzioni costituzionalmente attribuite alle Regioni.
A garanzia dell’ordinamento costituzionale, andrebbe prevista l’istituzione delle leggi organiche, da approvare con la maggioranza assoluta, sia articolo per articolo che nella votazione finale, in materia di diritti costituzionalmente riconosciuti, di organi supremi della Repubblica, delle Magistrature, delle Regioni.
Ad assicurare concretamente i diritti sociali, andrebbe poi sancita la destinazione, con norma costituzionale, di un terzo delle entrate fiscali alla spesa per assicurarne il godimento (art. 4, 32–38 della Costituzione).
A difesa dei “nuovi diritti”, dovrebbe essere prescritta l’inalienabilità, costituzionalmente sancita, dei beni (comuni) a godimento universale o territorialmente diffuso.
L’ integrazione della democrazia rappresentativa mediante istituti di democrazia diretta, comporterebbe innanzitutto l’ attuazione dell’art. 49 della Costituzione, con la conseguente qualificazione di partiti politici soltanto per le associazioni che assicurano di fatto (a) «la partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale», (b) la responsabilità permanente della leadership nei confronti di una direzione collegiale rappresentante della base, © l’iniziativa congressuale di un quinto degli iscritti in caso di inerzia nella convocazione ordinaria (temporalmente cadenzata) del congresso, etc. (d) la carta dei diritti degli iscritti, (e) azionabili innanzi al giudice ordinario;
Andrebbe poi previsto l’obbligo del Parlamento di deliberare su proposte di legge di iniziativa popolare sottoscritte da 50 mila elettori, entro un anno dalla presentazione. Andrebbero inoltre istituiti: a) il referendum propositivo su un progetto di legge di ampia iniziativa popolare (500.000 elettori?) che incontri l’inerzia del Parlamento o la sua distorsione nei fini e nella portata, b) il ricorso diretto alla Corte costituzionale sulla legittimità di una legge (come previsto in Germania), c) il referendum preventivo alla ratifica dei trattati, come quelli europei, che intervengono sulle fonti dell’ordinamento giuridico italiano, d) o sulle norme relative ai diritti costituzionalmente riconosciuti, d) o che impegnano militarmente la Repubblica.
Per questi obiettivi la vittoria del No al referendum costituirebbe presupposto e impegno per l’iniziativa popolare di progetti di leggi costituzionali volti a proporli. Respinta la deforma della Costituzione ordita dal Governo, sarebbe il corpo elettorale ad assumere l’onere della revisione della Costituzione per consolidarne i principi, attuarne i contenuti, adempierne il compito. Sì, quello dell’articolo 3, secondo comma, l’eguaglianza di fatto.
Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2016 (m.p.r.)
Di ritorno da Parigi,dove sta provando asventare la costruzionedi un mega McDonald's,Carlin Petrini rispondeal telefono e cominciacosì: «Vuole parlare delle riformecostituzionali? Io nonsono un tecnico, ma pensoche sia giusto dire quel che sipensa. Per senso civico. Hochiamato Gustavo Zagrebelskye gli ho detto che avrei sostenutole ragioni del Comitatoper il No. Mi sembra importante,nel momento in cuisi vogliono apportare modifichecosì significative al sistemademocratico, ascoltarecoloro che hanno dedicato unavita a studiare la Costituzione.E sento un fronte unitoe numeroso di professori chenon sono soltanto scettici, malanciano allarmi preoccupanti».
Perché è contrario?
Partiamo dal metodo. Il presidentedel Consiglio ha impostatola campagna sul referendum- sin da ora - come unplebiscito sulla persona. Ehno, non funziona così: la gentevaluterà l'operato dell'esecutivoalle elezioni politiche. Qui in discussione ci sono lenorme che regolano le istituzioni,dentro le quali il popoloè rappresentato. Qui non sidecide se l'azione politica delgoverno è buona o cattiva, sidecide del funzionamentodella democrazia, a prescindereda questo o quel governo.Aggiungo che Renzi stacommettendo un errore: nonsono per niente sicuro che icittadini si faranno “prendereper la giacchetta”, “o conme o contro di me”. Potrebbeavere un'amara sorpresa.
I costituzionalisti hannomesso in relazione la leggeelettorale per la Camera conla riforma del Senato.
Lo sbilanciamento verso ilgoverno sarà forte. E questonon va bene: se si creano regoleche lasciano ampi spazidi manovra senza controlli,bisogna pensare che questimargini larghi in futuro potrebberoessere utilizzati dapersone poco attente. O meglio:molto attenta al propriopotere, ma non al bene comune.Alla fine - tra Italicum eriforma Boschi - il risultatosarà un premierato forte conpochissimi contrappesi econtrolli tra poteri: il contrariodi quel che era nelle intenzionidei padri costituenti. Lanostra Carta è stata spessodefinita la più bella del mondo.
Eccome: Benigni ci ha fattouna trasmissione per la Rai.Però ha detto che voterà sì alreferendum.
Come cambia idea velocemente la gente! Posso dirlesolo che se devo esprimermisulla Costituzione ascoltoprima e con più attenzioneRodotà e Zagrebelsky del mioamico Benigni.
Antonio Padellaro sul ha lanciato l'idea di uno spotper invitare i cittadini a votareno: sarà difficile per chisi oppone contrastare lanarrazione renziana.
Tutto vero, ricordiamoci peròche nel 2006 la riforma costituzionaledi Berlusconi èstata bocciata dal popolo propriocon il referendum. Mancanootto mesi alla consultazione:la gente ha tempo d'informarsie di maturare opinionidiverse. Non darei nullaper scontato.
Una delle obiezioni mosse aicostituzionalisti è di essereconservatori perché non voglionomai cambiare nulladella Costituzione.
Non mi risulta che sia vero.Tanti di loro hanno ripetutoche questa è stata un'occasionepersa, proprio perché pensanoche ci siano meccanismida modificare: è un'affermazioneche condivido. Per esempionon è vero che sonocontrari a questo nuovo Senatoperché vogliono mantenereil bicameralismo perfetto.Poi non mi è piaciuto il modosbrigativo con cui è stataportata avanti la discussionein Parlamento sulla riforma.La Costituzione è una cosadelicata, va maneggiata concura. Non con fretta.
Il 12 novembre 2014 il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3, magazzini corazzati che custodiscono gli ordigni. Lo si legge in un documento della Corte dei Conti, datato 18 novembre 2015, sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014
Non solo in Italia ci sono armi nucleari, ma il Ministero della Difesa investirà molti milioni di euro per ammodernare i depositi corazzati che le custodiscono nella base aerea di Ghedi, in provincia di Brescia. La notizia è ufficiale, tanto ufficiale che il Segretariato generale della Difesa ha firmato il contratto n. 636 in data 12 novembre 2014 del valore di oltre 200 mila euro per la sola progettazione delle opere di ammodernamento del sistema WS3 (sta per Weapon Storage and Security System). Le informazioni su questo contratto, classificato “riservatissimo”, sono riportate nel documento della Corte dei conti sulla gestione dei contratti pubblici segretati del 2014, la “Deliberazione 18 novembre 2015, n. 11/2015/G”. Il contratto riguarda la “progettazione definitiva completa di sondaggi geognostici e rilievo plano-altimetrico in relazione agli interventi di “realizzazione di sistema Wass” e “Upgrade WS3 security system” a Ghedi (Brescia)”.
Come è evidente dal titolo del capitolo dedicato all’argomento, il documento si riferisce ai soli oneri di progettazione che ammontano a “207.256,36 euro, oltre al contributo Inarcassa del 4 per cento pari a 8.290,25 euro, per un totale di 215.546,61 euro” come puntigliosamente annota il documento della magistratura contabile. Il che fa pensare, come suggerisce in una interrogazione la deputata pentastellata Tatiana Basilio, “che il costo delle opere in questione ammonti a molti milioni di euro, presumibilmente a carico del bilancio della Difesa italiano”.
La cosa è clamorosa perché da sessanta anni, governo dopo governo, è stata negata persino l’esistenza delle bombe atomiche in Italia. E invece non solo le abbiamo, ma i documenti ufficiali certificano che spendiamo soldi per tenerle nelle nostre basi aeree. Sia chiaro: era il famoso segreto di Pulcinella, ma la litania dei dinieghi ufficiali è sempre stata unanime e monocorde. Sono le famose armi a doppia chiave, cioè le bombe sono americane ma gli aerei che le porteranno sugli obiettivi nemici sono italiani. In questo caso i Tornado del 6° Stormo “Alfredo Fusco” di Ghedi. Dove tra qualche tempo arriveranno anche le nuovissime bombe nucleari B61-12 e forse proprio per questo si fanno i lavori.
Che il Weapon Storage and Security System WS3 sia un sistema di stoccaggio e protezione delle armi nucleari ce lo spiega senza giri di parole la Aviano Air Base Instruction 21-204 del 24 ottobre 2006 (Aviano è l’altra base italiana dove si trovano i WS3, ma questi sono usati dagli statunitensi). Un WS3 si trova all’interno di ciascuno dei ricoveri corazzati che ospitano gli aerei destinati all’attacco nucleare. Si tratta di un deposito sotterraneo che può contenere fino a quattro bombe nucleari. In caso di impiego, gli ordigni emergono dal ricovero blindato sotterraneo (vault) e sono agganciate ai piloni alari degli aerei. I Tornado, nel caso italiano, e fra qualche anno gli F-35.
Ma quanto ci costerà questo ammodernamento che non esiste? Certo, se uno spende oltre duecentomila euro solo per fare un po’ di disegni, per realizzare concretamente i lavori spenderà diversi milioni. E non pochi. A capire di cosa e di quanto stiamo parlando ci aiuta il governo della Turchia, incidentalmente nostro alleato, massacratore di curdi e ambiguo amico di Isis/Daesh. I turchi, a Incirlik, una base a circa cento chilometri dalle linee di combattimento siriane, ospitano anche loro alcuni depositi WS3 del tutto analoghi a quelli di Ghedi. Nel 2013 Ankara ha avviato un ammodernamento del sistema. La commessa, affidata alla società Aselsan, ha un valore di 79,8 milioni di lire turche (28,6 milioni di euro al cambio dell’epoca).
«». Determinanti i voti di Verdini e dei suoi camerati. Il manifesto
«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta — 180 favorevoli — la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.
Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti — chiusi da «viva l’Italia» — ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle “sue” elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.
Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo».
Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».
Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.
Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo — la fiducia monocamerale, le leggi a data certa — e la maggioranza — la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica — che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più.
E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco). Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.
La revisione costituzionale è invecchiata prima di nascere. È rivolta al passato, sigilla il presente e non dice nulla al futuro del Paese. Le decisioni più importanti sono rinviate o nascoste. È rinviata la diminuzione del numero delle Regioni. È nascosta la cancellazione del Senato. È negata la riduzione del numero dei deputati.
Il nuovo procedimento legislativo è farraginoso. Aumentano i conflitti di competenza e si producono nuovi contenziosi presso la Consulta. Palazzo Madama diventa un dopolavoro per amministratori locali, un’assemblea senza prestigio che cercherà di riguadagnare i poteri perduti ricorrendo allo scambio consociativo con il governo. Se doveva cadere così in basso era più dignitoso abolire il Senato. In una sola Camera sarebbe stato ineludibile definire i contrappesi del sistema maggioritario: votazioni qualificate sui diritti fondamentali, poteri di iniziativa delle minoranze, controllo dell’attività governativa. Il monocameralismo ben temperato è preferibile a un bicameralismo pasticciato.
La maldestra propaganda sui costi della politica si è arenata in Transatlantico. Si conserva l’anomalia di una Camera di 630 membri che non ha pari in nessun Parlamento europeo. Un’assemblea tanto grande quanto debole, i cui membri devono tutto alla nomina dei capipartito oppure all’aumento dei seggi connesso con l’elezione del premier. Si doveva ridurre il numero dei deputati e selezionarli nei collegi uninominali, senza ricorrere ai signori delle preferenze e ai nominati dell’Italicum. Si sarebbe rafforzata l’autorevolezza della Camera nei confronti dell’esecutivo. La democrazia americana, pur guidando un impero, non ha mai rinunciato all’equilibrio di poteri tra Governo e Parlamento.
Perché tante occasioni perse? La mancanza di una vera riforma ha prodotto un testo lunghissimo, di scadente fattura normativa, di sgradevole gergo burocratico. Basta leggere, ad esempio, le ulteriori competenze del Senato definite – cito testualmente l'articolo 10 - nelle “leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”. Si, è scritto proprio così. Sembra un decreto “mille proroghe” e invece è un brano costituzionale, è uno scarabocchio che offende il linguaggio semplice e intenso dei costituenti. Da come parli capisco che cosa vuoi, suggerisce il buon senso popolare. La forma sciatta rivela il basso profilo politico.
Il vizio d'origine consiste nel cambiare la Costituzione per stabilizzare un governo altrimenti privo del mandato elettorale. Bisognava modificare subito il Porcellum per restituire la parola agli elettori. Invece, l'esigenza politica contingente prevale su ogni garanzia istituzionale, fino al paradosso di riscrivere la seconda parte della Carta in un Parlamento eletto in forma illegittima. In Italia non si governa per migliorare lo Stato, si cambia lo Stato per rafforzare il governo. Al contrario, le Costituzioni disciplinano la politica e conquistano la lunga durata.
Su questo principio sono fallite le riforme dell’ultimo ventennio. Approvate sempre da una parte contro l’altra, per puntellare i governi che avevano perso la fiducia degli elettori, come fece Berlusconi nel 2005 e, ahimè, anche la mia parte con il Titolo V. Si ripetono tutti gli errori già commessi da destra e da sinistra, mettendoci anzi più entusiasmo, fino a chiedere un plebiscito personale. Il Presidente Renzi è il grande conservatore della Seconda Repubblica. Si erige un monumento alle ideologie del ventennio, proprio mentre tramontano in tutta Europa.
Tutto era cominciato negli anni novanta con le speranze di una sorta di modello Westminster all’italiana. Oggi il bipolarismo è in affanno anche in quell’antico palazzo inglese, non esiste più in Spagna, è travolto in Francia dal lepenesimo, è sterilizzato dalle larghe intese in Germania. L’Italicum e la legge Boschi si accaniscono a tenerlo in vita artificialmente, ricorrendo al premierato assoluto senza contrappesi: una minoranza del 20% degli aventi diritto al voto conquista il banco e impone la propria volontà alla maggioranza del paese. Tutto ciò aumenta l’astensionismo e riduce il consenso verso la competizione bipolare. Ovunque la vecchia dialettica tra i partiti è travolta dalla nuova frattura tra élite e popolo. I paesi europei sono diventati ingovernabili per eccesso di governabilità
Si è dimenticata una semplice verità: per guidare le società frammentate di oggi occorre un consenso più ampio di ieri; le classi politiche debbono imparare a convincere i popoli invece di ridurre la rappresentanza; i premi di maggioranza alla lunga non riescono a surrogare gli elettori che non votano.
Il mondo che abbiamo davanti è molto diverso da quello degli anni novanta. Le riforme istituzionali della seconda Repubblica sono ormai vecchi arnesi. La riforma costituzionale per il futuro italiano non è stata ancora scritta.
Un importante anniversario va ricordato nel quadro del 25° della prima guerra del Golfo: essa è la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando il principio, affermato dall’Articolo 11 della Costituzione, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
ULTIME 48 ORE PER IL SENATO
di Andrea Fabozzi
Sarà un prendere o lasciare, nessuno spazio per modifiche: anche questo è previsto dall’articolo 138, ma nel senso che il dubbio sopravvenuto durante la «riflessione» dovrebbe spingere i parlamentari a bocciare la modifica costituzionale. Tanto più in questo caso, trattandosi della riscrittura di oltre un terzo della Carta. Invece no, anche i senatori della minoranza Pd (una ventina) che mantengono le critiche sull’incrocio tra la riforma e la nuova legge elettorale e che per questo dichiarano di tenersi aperta la scelta sul referendum confermativo, voteranno sì. La legge raccoglierà la maggioranza assoluta dei senatori (fissata a quota 161) ma non la maggioranza qualificata dei due terzi: da qui il referendum che si terrà in ottobre. Per non rischiare nulla, Renzi ha spostato di 24 ore l’assegnazione delle poltrone di sottogoverno e la guida di due commissioni al senato: Ncd ha ambizioni su entrambi i fronti. «Evidentemente c’è un problema di numeri — ha detto la senatrice De Petris capogruppo di Sel — nessuno avrebbe avuto pensieri maligni se si fosse proceduto, come previsto, prima con il rinnovo dei presidenti di commissione e dopo con le riforme». L’ultimo atto di questa seconda lettura al senato è previsto per domani dalle 17, il Movimento 5 Stelle leggerà in aula i messaggi dei cittadini.
Intanto un particolare interessante sulla genesi della nuova legge elettorale è stato raccontato alla presentazione del libro del deputato verdiniano Massimo Parisi sui retroscena del «patto del Nazareno». Le basi dell’Italicum sarebbero state gettate in un incontro tra Verdini e il professore Roberto D’Alimonte il 12 gennaio 2014 a Firenze, in casa del politologo. Renzi, da un mese segretario del Pd, aveva allora sul piatto tre modelli diversi di legge elettorale e il Pd non aveva scelto il suo. Al governo c’era Enrico Letta. Già il giorno successivo a quell’incontro, 13 gennaio, Renzi fu ricevuto al Quirinale da Napolitano «per parlare di legge elettorale». Un mese dopo Letta fu invitato ad accomodarsi.
Carissime amiche e amici, carissimi compagni di strada. 2006-2016: dieci anni della nostra vita e dieci anni e più di impegno per la Costituzione. Per attuarla e aggiornarla. Per non perderla. Per questo vi chiedo di perdonare questa mia lettera a tutti voi, con i quali siamo cresciuti e invecchiati, imparando ad ascoltare, capire e apprezzare le parole di maestri a cui va la nostra gratitudine.
Perdonate se sento la necessità e il desiderio di rivolgermi ancora a voi, perché mentre riconosciamo tra noi una storia che abbiamo scritto insieme, io voglio trasmettervi preoccupazioni e speranze che mi inducono oggi, certo non più giovane di allora e forse nemmeno più saggia, o meno irruente e impulsiva, a riprendere il cammino. La strada non è la stessa dell’altra volta, ma il punto di arrivo sì che assomiglia a quello del 2006. Ancora una volta dobbiamo cercare di fermare con il nostro No un referendum, una legge del governo molto pericolosa per gli equilibri istituzionali, una legge che cancella e riscrive 41 articoli sui 139 della Costituzione entrata in vigore il 1°gennaio del 1948. Quasi un terzo.
Ho trovato, tra le carte che mi ostino a non gettare, un foglietto, una lettera datata 8 novembre 2004 e firmata da Oscar Luigi Scalfaro. Era rivolta al responsabile dei Comitati Dossetti e ai presidenti della associazione Astrid e Libertà e giustizia. Pochi giorni prima avevo chiesto dal palco di un teatro milanese a Scalfaro se avrebbe accettato di fare da presidente del coordinamento di associazioni, cittadini e partiti che con noi si fossero battuti per cancellare la riforma del governo Berlusconi.
Improvvisavo, anche allora. Ma conoscevo bene il presidente emerito dai giorni in cui era un importante esponente della Democrazia cristiana e io facevo la cronista. Su quel palco ci chiese solo di poterci pensare, e intanto ringraziò. E poi scrisse: “Grazie, cari amici, per l’onore grande che mi fate offrendomi la presidenza del coordinamento di tutte le forze politiche, sociali, di tutti i movimenti, di tutti i cittadini che si ribellano all’attuale capovolgimento della nostra Carta Costituzionale... Accolgo volentieri il vostro unanime invito, ben conoscendo le difficoltà che abbiamo dinnanzi, ma la fede nella libertà e l’entusiasmo per difenderla nei valori fondamentali della nostra Costituzione non viene meno”. Terminava secondo il uo stile: “Con l’aiuto di Dio, metterò ogni impegno per continuare con voi questa pacifica ma intransigente battaglia per la nostra Italia, per il nostro popolo. Eccomi dunque al vostro fianco con tanto amore. Oscar Luigi Scalfaro”.
Leopoldo Elia ci fu accanto, insieme a molti altri costituzionalisti. Elia insisteva sui guasti che avrebbe prodot- to un premierato fondato sulla “insostituibilità” del primo ministro durante tutta la legislatura e sui suoi enormi poteri che colpivano le garanzie dell’opposizione.
Si distinsero tra i costituzionalisti i due padri dell’attuale riforma: Augusto Barbera e Stefano Ceccanti ai quali si rivolse polemico Giovanni Sartori accusandolo di dividere il fronte del No... quando invece ci sono duecento costituzionalisti, non nani e ballerine, che fanno presente come il premierato della Casa della libertà sia assoluto”. Barbera e Ceccanti: il primo adesso è alla Corte Costituzionale, il secondo è il suggeritore zelante del governo.
Voi tutti sapete che grande lezione di democrazia e libertà fu per tutti noi quella campagna referendaria, quanta gente incontrammo, quanti ragazzi, quanti vecchi, quanto imparammo. Quanti cittadini ci ringraziavano per le informazioni che davamo ma eravamo noi a dover dire quel “grazie”. Abbiamo conosciuto una bella Italia e abbiamo vinto strepitosamente il referendum. A chi ora ci deride (vedi Pierluigi Battista sul Corriere della Sera) affermando che siamo gli avanzi della sinistra che perde sempre possiamo, denunciando la pochezza e la viltà di quelle affermazioni, replicare: “No, noi siamo quelli e quelle del 2006. Siamo quelle e quelli che portarono a votare il 53,7 per cento degli aventi diritto, e il 61,3 per cento dei votanti bocciò la riforma di Berlusconi e Calderoli. Noi siamo quelli. Abbiamo vinto una volta”. E domani, cosa accadrà?
Il nostro è un tempo diverso, un tempo “esecutivo” come dice Gustavo Zagrebelsky, un tempo in cui c’è uno solo al comando e uno solo che fa. Non c’è più Berlusconi da combattere, c’è però il Partito democratico renziano. Renzi ha ingaggiato un guru americano per centomila euro. Non c’è Calderoli, c’è la Boschi. La Rai è del governo, più di prima e i grandi giornali stravolgono la realtà. Abbiamo, però, un Comitato per il No con grande studiosi e giuristi che hanno già preparato le basi costituzionali e scientifiche per il nostro No. Abbiamo due giornali (il Fatto Quotidiano e il manifesto) che ci aiuteranno a non scomparire del tutto. E abbiamo ancora tanti comitati locali e compagni di strada che ci sollecitano ad agire.
«Con il ddl Boschi assistiamo alla blindatura del potere, alla sua concentrazione nelle mani dell’esecutivo ai danni di Parlamento e cittadini». L'ingenua (o molto furba) Liana Milella intervista l'autorevole giurista, membro del comitato per il no allo stravolgimento della costituzione operato dal governo.
La Repubblica, 13 gennaio 2016
È un riforma? «Lo sa come si chiama la corazza della tartaruga? Carapace. La mia risposta allora è: questa riforma è il carapace del potere». Comincia così l’intervista con il professor Gustavo Zagrebelsky.
Dicono che sarà divertente vedere alleati lei, Rodotà, Berlusconi, Brunetta e Salvini. Non è una compagnia imbarazzante?
«Ma davvero a qualcuno è venuto in mente di dire questo? E a chi?».
A Orfini e Boschi, e non solo...
«Ma fanno torto alla loro intelligenza».
E perché mai?
«Perché confondono la Costituzione con la politica d’ogni giorno. Si può essere lontanissimi politicamente e concordare costituzionalmente ».
Non mi dica che pure Berlusconi difende la Costituzione...
«Io non faccio processi alle intenzioni. Non la colpisce il fatto che a favore della riforma sia il governo e tutta la maggioranza e contro siano tutte le opposizioni, destra e sinistra, senza eccezione?».
E che ci trova di strano?
«Soffermiamoci sul punto. La Costituzione dovrebbe essere la regola della convivenza tra tutti. Di tutti con tutti. Una garanzia reciproca. Invece, nel nostro caso, la riforma della Costituzione è stata promossa dal governo, imposta dal governo e votata dalla maggioranza del governo. Questi dati di fatto non le fanno sospettare che questa cosiddetta riforma della Costituzione sia una “blindatura” di un giro di interessi che ha conquistato il potere e se lo vuole tenere stretto?».
Ammetterà che senza questa “blindatura” non si sarebbe mai riusciti a cambiare la Costituzione in modo condiviso.
«E con ciò?».
Renzi e i suoi ritengono che cambiarla serva all’Italia.
«In realtà dicono che l’Italia aspetta da 30 anni questa riforma. Sarebbe più giusto dire che a qualcuno, e tra questi ora i nostri “riformatori”, la vigente Costituzione non è mai piaciuta».
Invece lei perché la difende a ogni costo?
«Qui tocchiamo la vera posta in gioco. È in corso da 30 anni un’involuzione che ha rovesciato la piramide della democrazia. La base, cioè i cittadini, le loro associazioni, le strutture sociali, contano sempre di meno, e sempre di più contano i vertici, che siano i vertici dei partiti o delle istituzioni. Questa è un’involuzione che tecnicamente si può chiamare il passaggio dalla democrazia all’oligarchia».
Il suo timore qual è? Il partito unico? Il leader unico? L’opposizione azzerata? Il suo pessimismo cosa nasconde?
«La mia è una pura constatazione. I partiti, a cominciare dal Pd, che dovevano essere canali di organizzazione e partecipazione politica, sono stati distrutti. In essi domina ormai il “caro segretario” che controlla il partito e attraverso di esso opera nelle istituzioni. I sindacati sono in grave difficoltà e chi governa, invece di preoccuparsi, se ne compiace. La maggioranza del Parlamento opera sotto la sferza del governo. La legge elettorale, Porcellum o Italicum che sia, mette nelle mani del segretario del partito la selezione dei candidati sulla base di un rapporto di fedeltà personale. E il governo è composto da ministri a disposizione del leader. Non le pare che tutto ciò comporti una concentrazione del potere al vertice e una privazione alla base?».
Renzi e Boschi le risponderebbero che queste sono le analisi dei professoroni che vogliono mantenere lo status quo.
«Lo status quo è per l’appunto quello che ho appena detto, ed è proprio ciò che noi vogliamo combattere. Onde, se vogliamo usare l’abusata categoria dei conservatori, siamo noi gli innovatori e sono i sedicenti innovatori costituzionali a essere paradossalmente i veri conservatori o, per essere espliciti, i blindatori ».
Davvero pensa che modificare l’attuale Senato risponda a questo progetto?
«Guardi che la riforma costituzionale non tocca solo il Senato, ma in generale redistribuisce i poteri in maniera tale che il baricentro si sposta radicalmente a favore dell’esecutivo. Il Parlamento risulterà sottomesso alle iniziative del governo. Gli organi di controllo, Corte costituzionale e perfino il presidente della Repubblica, ricadranno nell’orbita di Palazzo Chigi. Non di per sé, ma per l’effetto congiunto della riforma costituzionale e della legge elettorale. La verità è che i problemi istituzionali vanno visti nella complessità di tutti i loro elementi».
Per questo parla di riforma “esecutiva”?
«Viviamo in un tempo esecutivo. Ha notato come vengono denominati i vagoni di lusso nei treni ad alta velocità? Executive, non legislative, or judiciary... Segno dei tempi».
Esecutivi di cosa?
«Se guardiamo la letteratura internazionale si direbbe degli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari e militari. Vuole qualche citazione?”.
No, per carità... Ma con riguardo al nostro Paese?
«A vederli da qui appare solo la mediocrità della nostra classe dirigente. Che qualità di interessi sono quelli che emergono, per esempio, in questi giorni dalle indagini sul sistema bancario?».
Dice Renzi «se perdo il referendum lascio la politica». Che effetto le fa?
«Un po’ di megalomania».
E perché?
«Per due motivi. Primo: sembra una parodia del generale De Gaulle del 1969. Anche lì un referendum, guarda caso sul Senato, dal cui esito il Generale fece dipendere la sua permanenza in carica. Secondo: il proprio futuro politico scommesso sulla riforma della Costituzione. Renzi ha posto quella che tecnicamente si chiama una questione di fiducia sulla riforma. In questo modo ha dichiarato ufficialmente che questa riforma non è costituzionale, ma è governativa».
La cronaca del voto alla Camera di Alessandra Longo, la presentazione dei Comitati promotori del No di Andrea Fabozzi e Silvia Truzzi, l’intervento del professore Zagrebelsky. La Repubblica, il manifesto, il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)
RIFORME, ALLA CAMERA È SÌ “AVANTI TUTTA”
BOSCHI SOTTO TIRO IN AULA
Roma. Una passeggiata, diciamo la verità. All’ora del tè la Camera approva il disegno di legge Boschi. 367 sì, 194 no, 5 astenuti. Renzi non twitta, si affida a Facebook: «Oggi quarto voto sulle riforme costituzionali: maggioranza schiacciante in attesa di conoscere il voto dei cittadini in autunno. Stiamo dimostrando che per l’Italia niente è impossibile. Con fiducia e coraggio, avanti tutta». Breve e indolore, come previsto. Maria Elena Boschi richiude la sua borsa color salmone e riceve i complimenti di rito. Il sorriso, però, è tirato. I Cinquestelle ci sono andati giù pesanti con le vicende di Banca Etruria e il ruolo di suo padre, che ne è stato il vicepresidente.
La fila è lunga. «Abbiamo già superato il quorum?», si scherza sperando di riuscire a entrare. Al debutto del comitato del No si riempie subito l’aula dei gruppi parlamentari di Montecitorio, mentre nell’aula quella vera - stesso palazzo - la riforma procede sul velluto. Arriva l’ultimo sì della prima lettura e comincia in contemporanea il lungo avvicinamento al referendum, che in questo caso non prevede quorum. Allora la domanda è un’altra: come ci si oppone a un plebiscito? Come si sfugge, cioè, allo schema innovatori contro conservatori? Secondo Gaetano Azzariti centrando la campagna elettorale sugli enormi problemi della rappresentanza e del parlamento, per mettere in luce quanto sia «scarsa» la riforma di Renzi di fronte alla «crisi dello stato costituzionale». Secondo Stefano Rodotà bisogna fronteggiare «l’antipolitica di governo» avviando una lunga stagione referendaria.
Ma il primo problema che ha davanti il comitato promotore del No riguarda la sua stessa genesi. Se è vero che il referendum non può chiederlo il presidente del Consiglio, come invece racconta di voler fare (in sua vece firmeranno la richiesta un numero sufficiente di parlamentari renziani), è vero anche che un comitato di cittadini avrebbe bisogno di 500mila firme per opporsi in questa veste alla revisione costituzionale. Firme che andrebbero raccolte in tre mesi dall’ultima approvazione del disegno di legge Renzi-Boschi, prevista per la seconda decade di aprile. L’alternativa - dovendo escludere che si trovino cinque consigli regionali contrari alla riforma - resta quella delle firme di 126 deputati o 65 senatori di opposizione: quelle sono assicurate. Se non si raccolgono le firme dei cittadini, al referendum si andrà per questa strada, come fu nel 2001 quando il centrodestra provò a opporsi al nuovo Titolo V approvato dal centrosinistra. Anche allora firmarono sia i parlamentari favorevoli che quelli contrari alla riforma, che il referendum alla fine confermò.
Questa volta i parlamentari che raccoglieranno le firme, e tra questi ci saranno anche quelli di Forza Italia e della Lega, potranno costituire anche più di un comitato per il No: costituirsi in comitato dà diritto a spazi televisivi e a un rimborso sulla base dei voti. Neanche i parlamentari del Movimento 5 Stelle aderiranno al comitato lanciato ieri, che è presieduto dal costituzionalista Alessandro Pace e che ha come presidente onorario il professore Gustavo Zagrebelsky. È questo il gruppo dei costituzionalisti che si sono opposti in ogni modo alle riforme spinte da Renzi (ma anche prima da Letta) negli ultimi tre anni, attraverso numerosi appelli (l’ultimo quello firmato da Lorenza Carlassare, Gaetano Azzariti, Gianni Ferrara, Stefano Rodotà e Massimo Villone, tutti presenti ieri, a ottobre sul manifesto). Questo comitato sta mettendo in piedi comitati locali nelle città e si è già dato un altro appuntamento per il 30 gennaio alla Sapienza a Roma, coinvolgendo le associazioni - a cominciare da Anpi e Arci.
Il Fatto Quotidiano
Il Manifesto
VOI AL GOVERNO, COSA AVETE CAPITO?
di Gustavo Zagrebelsky
Ampi stralci dell’intervento del professore Zagrebelsky, letto ieri davanti all’assemblea del comitato del No dal professore Francesco Pallante.
Coloro che vedono le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole «democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.
Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «riforma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.
Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecutivi»! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio.
L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva.
La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.
I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma — innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro — e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?
Mentre l'apparato istituzionale comandato da Renzi si appresta a legiferare per distruggere gli ultimi residui di democrazia si avvia l'iniziativa per ila difesa della Costituzione. L'impresa è difficile, e richiede l'impegno di tutti.
Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2016
Lunedì sarà il battesimo: nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati si terrà il primo incontro dei Comitati del No alla riforma Boschi: «Proveremo a sensibilizzare i cittadini», spiega Lorenza Carlassare, uno dei relatori dell’incontro. «Speravo – in un eccesso di ottimismo – che ci fosse un ripensamento in Parlamento su alcuni aspetti della riforma costituzionale. Ci preoccupiamo di chiedere il referendum in base all’idea che questa riforma venga approvata così com’è, con tutti i difetti che ha. Addirittura una modifica che saggiamente la Camera aveva eliminato (l’attribuzione al Senato del potere di eleggere da solo due dei cinque giudici costituzionali che ora vengono eletti dal Parlamento in seduta comune) è stata ripristinata dal Senato, e ormai l’approvazione della Camera sembra sicura. Evidentemente non c’è spazio per una riflessione critica. Non resta che mobilitare le persone in vista del futuro referendum, che il presidente del Consiglio va annunziando come un’iniziativa sua: lui sottoporrà la riforma al popolo perché la approvi; lui, in caso contrario, si dimetterà. Si arriva al punto di personalizzare persino il referendum costituzionale. Ma non è questo il senso del referendum costituzionale che non è previsto per ‘acclamare’, ma per opporsi a una riforma sgradita».
L'equivoco non è nuovo: nel 2001 votammo per confermare la riforma del Titolo V della Costituzione. Governo di centrosinistra.
«Si vede che è un’idea del Pd! Ma è sbagliata. E non si tratta di una sfumatura. Il referendum serve a rafforzare la rigidità della Costituzione impedendo alla maggioranza di cambiarla da sola. O la riforma è approvata da entrambe le Camere con la maggioranza dei due terzi – vale a dire con il concorso delle minoranze – oppure la legge, pubblicata per conoscenza, è sottoposta a referendum qualora entro tre mesi “ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o 500 mila elettori o cinque Consigli regionali”. Se nessuno chiede il referendum, trascorsi i tre mesi la legge costituzionale viene promulgata, pubblicata ed entra in vigore; interessato a chiedere il referendum dovrebbe essere chi è contrario ai contenuti della riforma, per impedirne l’entrata in vigore. L’art. 138 non si presta a equivoci. Il referendum quindi è una possibilità, quando la riforma non ha coinvolto le minoranze, per consentire a chi non è d’accordo di provare a farla fallire; può essere anche una minoranza esigua non essendo previsto un quorum di partecipazione».
Che significato hanno le dichiarazioni con cui il premier ha legato il suo destino politico all'esito del referendum?
«Insisto: il referendum costituzionale non è uno strumento nelle mani del Presidente del Consiglio a fini di prestigio personale. In molti hanno messo in luce l’intenzione di trasformare la consultazione in un plebiscito pro o contro Renzi: ma qui è in ballo la sorte della Costituzione, non la sua. Invece , pens ando che – 5Stelle e Sinistra Italiana a parte – non troverà oppositori sul suo cammino e il referendum sarà un trionfo, intende servirsene per rafforzare il suo potere personale, da esercitare senza controlli e contrappesi, senza che nessuno lo contraddica».
Risponderete con un'informazione basata sui contenuti della riforma: come pensate di farli passare? C’è il precedente del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma Berlusconi: ma era Berlusconi, appunto.
«Questo è il vero problema. Mentre nel 2006 il progetto di modifica della forma di governo era chiara perché Berlusconi aveva parlato esplicitamente di premierato, ora apparentemente la forma di governo non viene modificata; ma nella sostanza – grazie al combinato disposto di Italicum e riforma Boschi l’effetto è proprio di trasformare la forma di governo e persino la forma di Stato, vale a dire la democrazia costituzionale».
Il leitmotiv è stato “abolire il bicameralismo perfetto”.
«Su questo erano d’accordo tutti. Bastava fare una riforma circoscritta, non c’era bisogno di sfigurare la Costituzione. Fra l’altro, una delle ragioni della riforma del bicameralismo perfetto era la semplificazione delle procedure: semplificazione che non c'è stata, semmai si è complicato e confuso il procedimento legislativo. Per alcune leggi il Senato interviene, per altre no . Per alcune il Senato vota, ma poi la Camera con maggioranze diverse deve tornare sul testo del Senato. Tutto irrazionale. Il vero dato è che la composizione del nuovo Senato – della quale abbiamo già detto molto nei mesi scorsi – lo rende agevolmente controllabile. Le riforme vanno tutte nella stessa direzione: pensi alla Rai! »
Cioè “chi vince piglia tutto”?
«La legge elettorale che entra in vigore nel 2016 è una via traversa per giungere di fatto all’elezione diretta del premier. Quando si arriva al ballottaggio (per il quale non c’è quorum, e dunque le due liste più votate partecipano a prescindere dal seguito elettorale che hanno ricevuto), l’elettorato deve necessariamente schierarsi a favore di uno dei contendenti e chi vince si prende tutto. È una forma d’investitura popolare per chi guida il governo; un discorso non nuovo che precede Renzi di molti anni: le elezioni come strumento non tanto per eleggere il Parlamento, ma per scegliere e investire un governo e il suo Capo.E senza che a una simile trasformazione si accompagnino i contrappesi indispensabili in una democrazia costituzionale».
I diritti civili, come quelli sociali, appartengono alla sfera delle inalienabili garanzie che spettano alla persona e devono essere garantite dallo Stato: non possono per ciò essere subordinate ai patteggiamenti della
politique politicienne. La Repubblica, 4 gennaio 2015
Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti.
Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come “formazioni sociali specifiche”. Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla “stepchild adoption”, all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido “rafforzato”. Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli “nati fuori del matrimonio”, eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’”utero in affitto” e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso.
Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone.
La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto “divorzio polacco”, limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati.
Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro “orientamento sessuale”, dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia.
L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone.
Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione “cristallizzata” intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico.
Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del “fai da te”, dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà.
Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali?
Così un Parlamento incostituzionale distrugge una costituzione e mezzo secolo di storia. Gaetano Azzariti, Lorenza Carlassare, Gianni Ferrara, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone ce lo ricordano con indignazione. Ma la vita continua; a vivere nel fango ci si abitua.
Il manifesto, 13 ottobre 2015
Massimo Villone
Questo testo può essere sottoscritto scrivendo a costituzione@ilmanifesto.info».
«Costituzione. Per venire fuori dal pantano della riforma, il governo prepara una "mediazione" che peggiora ancora il nuovo bicameralismo. E imbroglia sulle bocciature dei professori. ».
Il manifesto, 19 agosto 2015 (m.p.r.)
Senatori eletti dal popolo o scelti da (e tra) il personale politico di seconda fascia - come sono i consiglieri regionali rispetto ai parlamentari? A settembre la commissione affari costituzionali del senato riprenderà a lavorare sul disegno di legge di revisione costituzionale Renzi-Boschi e dovrà imboccare una delle due strade. Quindici mesi fa la stessa commissione, all’epoca del primo passaggio in parlamento della riforma, aveva scelto l’elezione diretta, approvando un ordine del giorno del leghista Calderoli. Ma il governo non era d’accordo. E così il lavoro del senato è andato avanti ignorando quell’ordine del giorno e mettendo le basi per la riforma com’è oggi, con i senatori scelti all’interno dei consigli regionali. Un precedente utile da ricordare a chi oggi, quando si chiede l’elezione diretta, risponde che non si può ripartire sempre da capo.
Allora i leghisti strillarono che non si poteva ignorare l’ordine del giorno per l’elezione diretta, chiamarono in causa la giunta per il regolamento del senato. E lo stesso fece il senatore Mauro quando, immediatamente dopo quel voto, fu sostituito nella commissione da un altro senatore del suo gruppo, ma favorevole alla riforma. Identica sorte toccò a due senatori della minoranza Pd, che però non si opposero alla rimozione. In ogni caso la giunta non decise, lo strappo fu sanato con il silenzio. E siamo a oggi, quando davanti alla commissione di palazzo Madama c’è il testo nel frattempo modificato dalla camera, ma non nel punto della composizione del senato — se non in una parola che può servire come cavallo di Troia per ammettere modifiche sostanziali. Il punto è ancora quello: futuri senatori eletti dal popolo oppure no?
«Contaminare», non far eleggere direttamente i senatori, perché Renzi e Boschi (insieme) non intendono cedere fino a riportare in mano ai cittadini la possibilità di scegliere i senatori. Grande sponsor della decisione è la Conferenza delle regioni (presidente Sergio Chiamparino) che ha sostituito l’associazione dei comuni nel ruolo di guardia del corpo della riforma (all’inizio Renzi aveva pensato a un senato composto interamente da sindaci, ora ne restano 21). In più il presidente del Consiglio ha bisogno di un argomento semplice con il quale condurre la campagna per il referendum confermativo che si terrà alla fine del prossimo anno (al più presto) e che certo non potrà ruotare attorno a questioni complicate come il bilanciamento dei poteri o la procedura di formazione delle leggi. «Senatori non più eletti sì o no?» Slogan che può ulteriormente semplificarsi in «Senatori senza stipendio sì o no?», come ha fatto intendere di voler chiedere agli italiani Renzi. Intanto, previdente, ha già scelto lo slogan della prossima festa nazionale dell’Unità: «C’è chi dice sì».
Ha scritto a Repubblica Giorgio Napolitano, padre nobile della costituzione Renzi-Boschi, che non si può tornare (restare) all’elezione diretta dei senatori perché a quel punto sarebbe «insostenibile» sottrarre al senato il potere di dare la fiducia al governo e si ricadrebbe nel bicameralismo paritario. Un argomento identico ha usato uno dei cavalieri del renzismo, il capogruppo dei deputati Ettore Rosato: «Tornare all’elezione diretta comporterebbe, come ci dicono praticamente tutti i costituzionalisti interpretati, la necessità di reintrodurre il voto di fiducia anche al senato». L’affermazione è interessante, perché il circolo stretto renziano non cita mai a suo favore i costituzionalisti, anzi usa disprezzarli chiamandoli «professoroni». Infatti è falsa. Il dibattito costituzionale è evidentemente assai variegato, ma di 32 esperti ascoltati dalla prima commissione del senato tra la fine di luglio e l’inizio di agosto (non tutti, ma quasi, costituzionalisti), la tesi così come esposta da Rosato è stata sostenuta solo da tre professori (Falcon, Luciani e Tondi della Mura). E ciò nonostante anche loro, come «praticamente tutti», hanno evidenziato la stranezza del nuovo senato immaginato da Renzi e Boschi, che si propone come «rappresentativo delle istituzioni territoriali» (articolo 2) ma è disegnato in modo da far «prevalere il circuito politico partitico» (con queste parole Cerrone). Un senato di non eletti che ha tra i suoi poteri quello di partecipare alla procedura di revisione costituzionale è, per citare alcuni dei giudizi negativi ascoltati in commissione, «incoerente», «ibrido», «anfibio».
Massimo Luciani, professore della Sapienza non ostile al disegno di Renzi, ha spiegato che meglio sarebbe un’elezione diretta dei senatori da parte dei cittadini in concomitanza con l’elezione dei consiglieri regionali -i senatori a quel punto potrebbero essere consiglieri regionali a tutti gli effetti ma anche no. Carlo Fusaro, professore a Firenze tra i più convinti sostenitori della riforma, giudica «balzana» l’idea di delegare alla legge di attuazione il criterio con il quale «semi-affidare» la scelta dei senatori-consiglieri al voto popolare, «contaminare» direbbe Quagliariello. Eppure è precisamente questa l’intenzione del governo, che non vuole toccare il principio dell’elezione di secondo grado per non riaprire il capitolo della composizione del senato nel prossimo, inevitabile, ritorno del disegno di legge alla camera.
La soluzione preferita nei ragionamenti agostani della maggioranza è quella del vecchio «listino», cioè un elenco di consiglieri regionali «speciali» che una volta eletti (e se eletti) avrebbero diritto a essere nominati in secondo grado tra i senatori. Il che avrebbe un vantaggio per i partiti: poter scegliere i nomi del listino, e dunque i possibili senatori, anche affidandoli formalmente alla selezione popolare. Del resto sul punto sono in pochi a poter vantare assoluta coerenza. Anche il senatore Gotor che oggi è tra i più in vista nel fronte dei 28 Pd favorevoli all’elezione diretta, un anno fa nel corso del primo passaggio sostenne questa soluzione, definendola «un secondo grado rafforzato e qualificato». Ma allora l’Italicum, la nuova legge elettorale, era solo una minaccia.
Napolitano risponde sulla riforma costituzionale a Scalfari (La Repubblica, 9 agosto) dichiarando essenziale che non vi siano «due istituzioni rappresentative della generalità dei cittadini, sottraendo al senato solo (e a quel punto insostenibilmente!) il potere di dare la fiducia al governo». In breve, il senato di seconda scelta è cardine indispensabile della riforma. Non siamo e non saremo d’accordo, per molteplici motivi.
Dopodomani non è la festa della nazione, ma quella della Repubblica. Oggi, nei tempi bui nei quali gli egoismi nazionalistici, il degrado della democrazia e il tradimento dei principi della Costituzione sembrano prevalere, non dimentichiamo il significato delle elezioni che condussero a quel risultato. E torniamo a votare.
La Repubblica, 31 maggio 2015
In quella prima domenica di giugno del 1946, gli italiani e le italiane decisero con un solenne plebiscito di voler essere una Repubblica democratica. Il loro fu un atto di fondazione che diede vita a un nuovo ordine politico. I cittadini e le cittadine furono per la prima volta nella storia della nazione italiana chiamati a decidere sull’ordinamento politico e la loro identità pubblica, a farsi volontà sovrana. La nazione italiana ha avuto tre ordinamenti dal tempo della sua unificazione nel 1861: quello monarchico costituzionale, quello fascista, e quello repubblicano. Il 2 giugno non si festeggiano tutti e tre questi ordinamenti, e in questo senso non è il giorno della nazione; se ne festeggia uno solo, l’ultimo. Se si fa perno sull’aggettivo “nazionale” si rischia di perdere il senso storico e politico di ciò che si festeggia: la nazione repubblicana e solo quella.
Soprattutto, si mette in secondo piano il significato politico del plebiscito del 2 giugno 1946 e si normalizza quell’evento eccezionale traducendolo con un termine onnicomprensivo e diversamente interpretabile. La nazione comprende infatti tutta la storia politica, sociale, culturale e civile del Paese, non soltanto quella parte che ha preso avvio nel 1946. Certo, come ci insegnano gli storici, lo Stato italiano nelle sue strutture burocratiche e anche nel suo personale amministrativo ha registrato una sostanziale continuità dal fascismo alla Repubblica. Non così la sovranità politica, che con quel plebiscito cambiò radicalmente, passando da una casa monarchica a milioni di cittadini che compongono il popolo, come recita la nostra Costituzione, esito diretto di quel plebiscito.
Un esempio può aiutare a comprendere meglio perché la Festa della Repubblica non é semplicemente una festa della Nazione: prima del 1946, le italiane erano sia parte della nazione che suddite dello Stato italiano, ma non erano soggetti politici liberi. Come loro anche molti uomini; ma nel caso delle donne l’esclusione politica era totale, e l’appartenenza alla stessa nazione non valse a correggerla.
«Libia, le rivelazioni di Wikileaks sui piani di attacco dell'Europa. Una missione militare a tutti gli effetti e non un'operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni».
Il manifesto, 27 maggio 2015
Se ci fosse stato bisogno di una conferma che di guerra si tratta per il documento strategico di 19 pagine presentato da Mogherini all’Onu nemmeno due settimane fa su «Libia, migranti e scafisti», ecco la rivelazione di Wikileaks — anticipata dall’Espresso — che rende noti due protocolli riservati della Ue sull’operazione. È una missione militare in Libia a tutti gli effetti e non un’operazione di polizia per salvare migranti, come invece raccontano i ministri Alfano e Gentiloni. La Ue con la sua flotta navale unita — finalmente l’Unione — commenta Wikileaks «schiererà la forza militare contro infrastrutture civili in Libia per fermare il flusso di migranti. Dati i passati attacchi in Libia da parte di varie paesi europei della Nato e date le provate riserve di petrolio della Libia, il piano può portare ad altro impegno militare in Libia».
Proprio mentre la Commissione Ue rivede al ribasso il «piano Juncker» per le quote dei migranti che quasi tutti i paesi europei rifiutano; e mentre al Cairo falliscono gli ennesimi incontri tribali per avere in Libia un accordo di governo — utile solo ad approvare la nostra impresa bellica. La nuova guerra durerà un anno e comunque tutto il tempo necessario a «fermare il flusso migratorio». All’infinito dunque, visto che la disperazione di chi fugge da guerre (spesso nostre) e miseria (spesso provocata da noi) è inarrestabile.
Per questo «l’uso della forza deve essere ammesso, specialmente durante le attività come l’imbarco, e quando si opera sulla terra o in prossimità di coste non sicure o nell’interazione con imbarcazioni non adatte alla navigazione». Quindi ci sono le operazioni a terra, come scriveva The Guardian. E per «la presenza di forze ostili, come estremisti o terroristi come lo Stato Islamico», la missione «richiederà regole di ingaggio robuste e riconosciute per l’uso della forza».
Ma la vera novità è l’invito esplicito dei ministri della difesa Ue: «Per l’operazione militare sarà fondamentale il controllo delle informazioni che circolano sui media». Perché il Comitato Militare dell’Ue «conosce il rischio che ne può derivare alla reputazione dell’Unione Europea… qualsiasi trasgressione percepita dall’opinione pubblica in seguito alla cattiva comprensione dei compiti e degli obiettivi, o il potenziale impatto negativo nel caso in cui la perdita di vite umane fosse attribuita, correttamente o scorrettamente, all’azione o all’inazione della missione europea. Quindi il Consiglio Militare dell’Unione Europea considera essenziale fin dall’inizio una strategia mediatica per enfatizzare gli scopi dell’operazione e per facilitare la gestione delle aspettative. Operazioni di informazione militare dovrebbero essere parte integrante di questa missione europea».
Avete capito bene: ci saranno tante vittime innocenti, vale a dire i migranti, destinati alle fosse del Mediterraneo e sottoposti sempre più ad arresti e violenze in Libia. E serviranno informazioni «mirate» dai vertici militari e un giornalismo velinaro e/o embedded con «robuste regole d’ingaggio».
Gli intellettuali ne dovrebbero sapere qualcosa... Si sono chiesti se la Buona Scuola lo ha a cuore? Hanno speso qualche ora del loro tempo per capire quali sono le vere priorità di questa riforma e quale lo scopo di quel linguaggio da marketing così caro al premier? Si sono chiesti quale posto occupi nel DdL l’alfabetizzazione di base degli studenti? Quale spazio ci sarà nella nuova scuola disegnata dal trio Renzi-Farone-Giannini per costruire alfabeti forti: linguistico-matematico innanzitutto, proprio gli alfabeti dove i nostri ragazzi sono quasi sempre messi malissimo? Mi chiedo davvero come mai siano così mancate le analisi serie di questo testo renziano, come mai nessuno abbia tentato un confronto tematico e di stile fra la Buona Scuola del trio di governo e la LIP (Legge di iniziativa popolare) promossa dall’interno del mondo della scuola e caduta nel più totale oblio. Ma dove è finita la semiotica in questo paese?
I conti delle riforme della scuola arrivano dopo decenni, quando maturano le generazioni. Molti di noi non ci saranno più, ma porteremo tuttavia la responsabilità di questa devastazione ignorante.
< i>L'autrice è insegnante di scuola secondaria< /i>
«I mutamenti dell’organizzazione democratica e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione.
Il manifesto, 28 aprile 2015 (m.p.r.)
L’isteria con cui il governo avanza nella discussione sulla riforma della Costituzione e sulla legge elettorale è un fatto del tutto nuovo nel nostro paese, e per questo deve farci riflettere. La necessità di attuare le riforme, da noi condivisa, non può prescindere da un percorso di confronto e di ascolto sul merito delle questioni, e invece il governo si limita all’affermazione, più volte ripetuta dal ministro Boschi, «abbiamo già discusso». Le riforme istituzionali per la loro specifica natura devono essere approvate con il più ampio consenso e non a colpi di maggioranza.
La Cgil da tempo sostiene il superamento del bicameralismo perfetto, l’istituzione di una Camera rappresentativa delle Regioni e delle autonomie locali e la modifica del Titolo V della Costituzione. La stessa modifica del Titolo V apportata nel 2001 sulla quale è unanime il giudizio negativo per aver prodotto un confuso federalismo con una forte sovrapposizione tra le prerogative dello Stato e quelle delle Regioni, ci dimostra che non basta volere il cambiamento, bisogna anche saperlo promuovere e soprattutto qualificare.
Nel merito della discussione, ciò che ci preoccupa maggiormente è il combinato disposto della modifica costituzionale con la nuova legge elettorale.
La riforma costituzionale proposta dal governo introduce un procedimento legislativo farraginoso e non fa della seconda camera un luogo di rappresentanza delle istituzioni locali adeguato a definire un nuovo equilibrio istituzionale, reso ancor più necessario dall’accentramento di competenze legislative previsto dalle modifiche proposte nel Titolo V.
Per noi il problema non è l’elezione diretta dei senatori, ma quali saranno i poteri della seconda camera del Parlamento. Se il Senato deve rappresentare le Regioni e le Autonomie, in una logica di equilibrio tra Stato, Regioni e Comuni e con l’obiettivo di esercitare la necessaria cooperazione istituzionale tra i differenti livelli di governo, deve poter votare le leggi che hanno una ricaduta territoriale, a cominciare dalle risorse. Nell’attuale testo di riforma, invece, si attribuisce a Palazzo Madama la potestà legislativa piena sulla Costituzione, ma non sui principali provvedimenti che interessano Regioni e autonomie.
Questa situazione, unitamente ad una legge elettorale come l’Italicum, che prevede un ballottaggio con regole sbagliate e determina una grave incertezza su chi sceglie realmente i deputati che siederanno a Montecitorio, potrebbe portare ad una pericolosa contrazione democratica.
Nella legge elettorale, noi non contestiamo che il premio di maggioranza venga dato al secondo turno, ma riteniamo che per quest’ultimo debbano valere regole diverse da quelle contenute nel testo governativo. L’Italicum non prevede né la possibilità dell’apparentamento, né una soglia che permetta il ballottaggio unicamente tra partiti con una rappresentanza pari, almeno, al 50% degli elettori del primo turno, come avviene in Francia per l’elezione dell’assemblea nazionale, dove in caso di mancato superamento di tale soglia il ballottaggio è allargato ai primi tre candidati.
Senza queste previsioni si rischia di dare la maggioranza assoluta dei seggi a una forza politica che ha conquistato solo il 20% dei voti al primo turno. Al contrario, l’auspicata semplificazione istituzionale che si avrebbe con il superamento del bicameralismo perfetto, richiede necessariamente un sistema elettorale in grado di garantire un forte mandato ai deputati, che renda l’aula di Montecitorio la sede della rappresentanza politica del paese in tutta la sua complessità, senza mortificare, in nome del principio di governabilità che deve essere comunque tutelato, il pluralismo politico.
I mutamenti dell’organizzazione democratica posti dalla modernità e i cambiamenti del sistema istituzionale proposti nei disegni di legge rimettono in discussione il rapporto che esiste tra governo, parlamento e cittadini. Si pone dunque l’esigenza di rivedere, in modo adeguato, gli strumenti di partecipazione attiva della popolazione. Su questo fronte pensiamo che con la riforma costituzionale si sia persa un’occasione: il governo ha apportato delle piccole e insufficienti modifiche al referendum abrogativo e alla proposta di legge di iniziativa popolare, e nel prevedere l’istituzione del referendum propositivo e di indirizzo lo ha rimandato ad una successiva legge costituzionale, senza fissarne criteri e parametri, rinviandone di fatto la reale introduzione.
Poiché siamo nell’epoca delle istituzioni sovranazionali e della velocità, c’è bisogno di riequilibrare il rapporto tra governo, parlamento e popolo attraverso un’idea della democrazia che preveda l’espressione del popolo nel merito delle grandi scelte. Questa, secondo noi, deve essere la nuova frontiera degli stati democratici moderni e deve diventare il principio di governo anche nei grandi stati, non solo nei piccoli, altrimenti si rischia una democrazia rovesciata in cui i governi decidono e i popoli si devono adeguare.