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«establishment (con una nuova “Casta” al posto della vecchia), mentre la vittoria del “No” il riaprirsi della speranza, benché difficile e faticosa». MicroMega, 1°dicembre 2016 (c.m.c.)

Renzi sostiene che la sua riforma costituzionale ha due meriti fondamentali: è razionale, perché elimina il doppione legislativo tra Camera e Senato, causa a suo dire fondamentale della lentezza, farraginosità e infine impossibilità di affrontare i problemi del paese; è pro-cittadino e anti-“Casta”, perché riduce i costi della politica, togliendo così argomenti alla demagogia populista che è sempre più pericolosa (secondo Renzi chi in Italia vota “No” apparterrebbe alla stessa ondata reazionaria del lepenismo, della Brexit, della vittoria di Trump).

Due falsità. Due assolute menzogne.

Il Senato non viene abrogato. Viene nominato dai consigli regionali, e continua ad avere funzioni legislative, benché in teoria più limitate. Ma il nuovo art. 70, che le elenca, è scritto in modo talmente complicato e contraddittorio che i maggiori giuristi ne hanno già dato cinque o sei interpretazioni tra loro incompatibili. È prevedibile un vero “can can” di ricorsi per ogni legge contestata, fino alla Corte Costituzionale. In tal modo il processo legislativo non solo non diventa più veloce ed efficiente ma rischia la paralisi.

In compenso i presidenti o consiglieri regionali o sindaci che saranno nominati senatori godranno delle immunità parlamentari rispetto ad arresto, perquisizioni, intercettazioni, ecc., un regalo preziosissimo per la “Casta”, visto che negli ultimi anni il tasso di corruzione (e condanne) nelle Regioni e nei grandi comuni è aumentata in modo esponenziale.

Il risparmio è risibile (57,7 milioni annui, fonte ufficiale della Ragioneria dello Stato), un taglio alle pensioni degli ex parlamentari o agli stipendi dei parlamentari attuali garantirebbe molto di più (la legge proposta in questo senso dal “Movimento 5 stelle” è stata da Renzi rinviata in commissione, cioè alle “calende greche”!). La vera indecenza del costo della politica consiste nelle decine e decine di migliaia di inutili consiglieri di amministrazione di aziende pubbliche (ogni piccolo comune ha le sue), le decine e decine di migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare. Una “Casta” che Renzi consolida.

La sua controriforma (chiamiamola col vero nome) cambia 47 articoli su 139, rappresenta una nuova Costituzione, con carattere spiccatamente oligarchico, non solo per lo strapotere dell’esecutivo ma per l’abrogazione di fatto di ogni potere di controllo (magistratura, “authorities” di garanzia, autonomie culturali, ecc.). Infatti, insieme alla nuova legge elettorale (è lo stesso Renzi ad aver presentato le due cose come complementari), se passa la controriforma della Costituzione il partito di maggioranza nominerà a propria immagine il Presidente della Repubblica (e potrà facilmente metterlo sotto accusa se non obbedisce), la Corte Costituzionale, tutte le “authorities”, il Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine nelle Procure e nei tribunali), e accentrerà senza più contrappesi il potere sui beni culturali e ambientali, trasformandoli in “risorse economiche” e niente altro, come già sta facendo.

Oggi le tre forze politiche principali (Renzi, Grillo, Berlusconi/Salvini) hanno un consenso elettorale del 25/30% (il resto si disperde tra liste minori). Con meno di un terzo dei consensi (ma ormai vota solo il 60%, dunque con il sostegno di poco più di un quarto dei cittadini) il “Capo” che vince (chiunque esso sia, e per molte generazioni) avrà poteri che tutta la tradizione liberaldemocratica ha sempre considerato proto-totalitari.

La demagogia di Renzi urla che il voto per il “No” significa immobilismo. Ma la vera conservazione è la sua controriforma, disegnata su misura per il rafforzamento, il radicamento, la costituzionalizzazione, di un sistema oligarchico che in Italia è un kombinat affaristico-politico-corruttivo con sempre più vaste sponde mafiose (secondo il “Tax Research” di Londra il rapporto tra il nero e il PIL è pari a circa il 27%, per la Banca d’Italia nel 2008 la “economia non osservata” costituisce il 31,1% (di cui il 12,6% legato alle attività criminali). Da quando Renzi è al governo questi “mondi” hanno avuto vita ancora più facile.

In Italia la vera bandiera riformista e progressista è sempre stata la realizzazione della Costituzione del 1946, osteggiata e impedita dai governi che si sono succeduti, per il carattere fortemente egualitario e sociale di tale Costituzione, nata dalla Resistenza.

In realtà la controriforma di Renzi è solo una versione (peggiorata) di quella di Berlusconi di dieci anni fa. Oggi Berlusconi a parole dice “No” (concorrenza tra progetti oligarchici!), ma le sue televisioni sono tutte schierate massicciamente per il “Sì”. Ovviamente sia il fronte del “Sì” che quello del “No” sono variegati e contraddittori, ma la componente essenziale del “No” è data dai milioni di cittadini che in modo autonomo (la “società civile”), negli ultimi venticinque anni si sono impegnati, spesso con gigantesche manifestazioni di piazza, per una politica di “giustizia e libertà”, contro il regime di compromesso di fatto tra Berlusconi e il Pd che si alternavano al governo.

Queste forze oggi trovano espressione elettorale solo nel “Movimento 5 stelle” di Beppe Grillo. Ambiguo e contraddittorio, ma certamente non assimilabile ai populismi di destra che dilagano nel mondo, come Renzi ripete in questi ultimi giorni dai teleschermi per spaventare, e conquistare i voti di destra (lo dice apertamente). Grillo ha ricordato – giustamente – che senza il suo movimento in Italia la protesta anti-establishment avrebbe trovato una sua “Alba dorata” e altri lepenismi.

Ecco perché la vittoria del “Sì” vorrebbe dire la perpetuazione del conformismo d’establishment (con una nuova “Casta” al posto della vecchia), mentre la vittoria del “No” il riaprirsi della speranza, benché difficile e faticosa.

Perché per chi vuole pace e giustizia è impossibile dire si a una riforma concepita e imposta «a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia» Sarà un "gufo", sarà un "professorone", ma è certamente un Maestro.

La Repubblica, 2 dicembre 2016

CARO Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La “pessima compagnia”, in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: “non so se lo farà”, ma “so che non lo farà”, con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.

I discorsi “sul merito” della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla “pessima compagnia”. Il merito della riforma, anche a molti di coloro che dicono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.

Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese.

Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.

Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo “Manifesto”, così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto.

C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando — solo quando — siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della “stabilità”. Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle “destabilizzazioni” — chiamiamoli ricatti — che proprio da loro provengono.

Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì.

L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.

Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo. Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo di ritornare su questi temi con lo spirito e lo spazio necessari.

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2016 (p.d.)

Era inevitabile che i toni della campagna referendaria si sarebbero inaspriti con l’approssimarsi del voto, ma si è andati piuttosto al di là delle peggiori previsioni, vista la gran quantità di sciocchezze messe in libertà dai tanti che, incapaci di confrontarsi nel merito, fanno a gara a chi dice la cretinata più grossa.

In una campagna elettorale ove si riaffacciano tanti ruderi della Prima Repubblica, è ricomparso perfino l’ex Guardasigilli Claudio Martelli, che non perde occasione, neppure quando si parla di referendum, per cercare di ridicolizzare la trattativa Stato-mafia, forse perché cerca di nascondere la verità: e cioè che la sua vita di condannato a morte dalla mafia è stata salvata, assieme a quella di vari politici e ministri del tempo, proprio grazie a quella oscena trattativa che ha mietuto decine di vittime innocenti.

E già che c'era, confuso e a corto di argomenti, come tanti sostenitori del fronte del Sì, ha affastellato un po’ di commenti denigratori della mia persona e degli argomenti per votare No, confondendo il Guatemala con il Nicaragua, attribuendomi incarichi che non ho mai ricoperto, citando a sproposito Crozza, e provando a ridicolizzare un processo serio e supportato da prove robuste, come quello sulla trattativa, che ha l’unica colpa, agli occhi della casta politica che ne ha beneficiato, di voler fare chiarezza su una delle pagine più dolorose e buie della nostra storia.

Ma se dilungarsi su Martelli sarebbe tempo perso, va affrontato seriamente un argomento che sostengo con convinzione, anche sulla base di ciò che sappiamo sulla mafia. Dire che il No è un voto antimafia, perché alle mafie questa controriforma non può che piacere, non è una boutade o un eccesso da campagna elettorale, come la liquida chi non ha capito o voluto capire. È invece una logica e dimostrata conseguenza di alcune premesse.

Se è vero, come è vero,che l’obiettivo strategico coerentemente perseguito con questa pessima riforma è quello di trasformare la nostra democrazia orizzontale in una Repubblica verticale, di tagliare spazi di partecipazione e contrappesi istituzionali per favorire la concentrazione del potere nelle mani di un uomo solo al comando, è perfino banale desumerne che quell’uomo solo sarà più facilmente condizionabile dalle lobby occulte che hanno sempre condizionato la storia del nostro Paese.

Non è un caso che questa riforma riprenda antichi progetti, rilanciando soluzioni messe nero su bianco anni addietro dalla commissione Trilateral, dalla P2 e da banche d’affari come la Jp Morgan. E fra le tante lobby occulte, quali hanno avuto in Italia maggiore capacità di condizionamento della politica e dell’economia se non le organizzazioni mafiose che hanno operato e operano attraverso il controllo del territorio e dei voti, i legami con la massoneria deviata, e la convergenza d’interessi con insospettabili centri di potere affaristico-finanziario?

Se passa la controriforma Renzi-Boschi-Napolitano, per la mafia sarà chiaramente più semplice controllare la politica, e per questo è normale che abbia interesse a che vinca il Sì, così come tutte le altre lobby più o meno occulte che hanno sostenuto analoghi progetti di stravolgimento di una Costituzione, come la nostra, fondata sulla democrazia orizzontale.

Verticalizzare e centralizzare il potere ne facilita il condizionamento. E per farlo occorre desovranizzare il popolo e togliere ogni decentramento e orizzontalità al potere. È proprio per questo che opporsi a questo disegno votando No è un voto antimafia.

Ma oggi in Italia di mafia non si vuole parlare, c’è una totale rimozione collettiva, tant’è che in nessun dibattito, tribuna politica o talk show viene mai dato spazio e voce a chi sostiene certe “eresie”. Troppo pericoloso. Si diceva una volta che la mafia non esiste. Evidentemente per qualcuno è ancora così.

«Votare Sì è insieme conservatore e avventurista. Conservatore perché punta su una riduzione della democrazia per conservare la diseguaglianza. Avventurista perché scommette su un abito cucito su misura per un giocatore solo».

Huffingtonpost.it, 1° dicembre 2016.

Veniamo al nocciolo della questione. Se vince il Sì il governo (qualunque governo) sarà più forte, e i cittadini conteranno di meno. La riforma punta tutto sulla diminuzione della partecipazione, e sulla autoreferenzialità della classe politica. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa "nuova" Costituzione vede "la democrazia come un ostacolo", e il bene comune come "una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi".

Come siamo arrivati a questo? La risposta è tutta racchiusa in una singola parola: diseguaglianza. Secondo il rapporto annuale Istat del 2016, l'Italia è il paese in cui - tra 1990 e 2010 - la diseguaglianza sociale è aumentata di più. In assoluto: "tra tutti i paesi per i quali sono disponibili i dati". È quello che succede in tutto l'Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese. Come ha scritto il premio nobel per l'economia Joseph Stiglitz, "la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme, mentre i pochi in cima alla scala sociale - l'1% - stanno vivendo una vita diversa".

Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli, l'establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero. "È diventato un luogo comune dire che vogliamo tutti la stessa cosa e abbiamo solo modi leggermente diversi per giungere a essa. Ma è semplicemente falso. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi, chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico" (Tony Judt, Guasto è il mondo, 2010).

E se i poveri votano tutti insieme, il sistema può essere rovesciato. Fino a un certo punto la soluzione è a portata di mano: incoraggiare l'astensione di massa. Non per caso il messaggio (dalla Thatcher a Blair, a Renzi) è: "non c'è alternativa". Tradotto: "non votate, tanto è inutile". Ma, da un certo punto in poi, l'astensione non basta: per tenere il conflitto sociale fuori dai luoghi in cui si decide bisogna separare questi luoghi (il parlamento e il governo) dal suffragio popolare, dai cittadini.

È per questo che non voteremmo più il Senato e i governi delle provincie, che le leggi di iniziativa popolare sarebbero in balìa della maggioranza parlamentare, che le regioni verrebbero espropriate di ogni potere reale. In breve, se la diseguaglianza è tale da rendere "pericolosa" la democrazia ci sono due soluzioni: diminuire la diseguaglianza, o diminuire la democrazia. Il governo Renzi ha scelto quest'ultima strada. Non è vero che questa scelta non cambia la prima parte della Costituzione: anzi, ne sovverte il più fondamentale dei principi fondamentali, l'articolo 3. Dove è scritto che "è compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Il progetto della Costituzione è ridurre la diseguaglianza per consentire la partecipazione: il progetto di questa riforma è ridurre la partecipazione per consentire il perdurare della diseguaglianza.

È per questo che Confindustria, Marchionne, JP Morgan, l'establishment tedesco e in generale il mercato votano Sì. Mentre la Fiom e tutta la Cgil, Libera, l'Arci, l'Anpi e infinite associazioni di cittadini votano No.

Le poche riserve del mondo della finanza (per esempio quelle dell'Economist) non vengono certo da un disaccordo politico, ma dal dubbio (fondato) che le riforme siano così mal congegnate che rischiano di dare un potere blindato nelle mani non dell'establishment, ma di un suo nemico (Grillo).

Ed è così: votare Sì è insieme conservatore e avventurista. Conservatore perché punta su una riduzione della democrazia per conservare la diseguaglianza. Avventurista perché scommette su un abito cucito su misura per un giocatore solo, non contemplando ipotesi subordinate.

Votare No, invece, vuol dire aver compreso che così non si può andare avanti. Che se restringiamo ancora la democrazia, invece di ridurre la diseguaglianza, lo schianto sarà ancora più forte. Vuol dire tenere aperto il campo da gioco del Parlamento, come luogo in cui far arrivare tutto intero il conflitto sociale. Come luogo da cui far partire un cambiamento vero. Cioè radicale.

Per questo il Sì di Romano Prodi è molto triste. Ma non perché ci sia dietro chissà quale calcolo personale. Ma perché Prodi non capisce che ciò che davvero gli sta a cuore, ciò a cui ha dedicato la vita (l'Europa) viene condannato definitivamente a morte dal mantenimento dello stato delle cose.

Una vera classe dirigente dovrebbe capire - per non fare che un solo esempio - che se vogliamo evitare lo schianto, gli Stati devono ricominciare a esercitare la sovranità. La libera circolazione delle merci non può continuare a essere l'unico dogma che regge il mondo: se la Cina continuerà a inondare il mondo di prodotti a costo zero (perché frutto di schiavitù di massa) l'Africa non avrà alcuna possibilità di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle migrazioni.

Se le sfide sono di questa portata - ed è difficile negarlo - uno statista dovrebbe utilizzare la spinta dal basso per cambiare effettivamente lo stato delle cose: non puntare tutto sul tentativo di neutralizzare quella spinta. E invece i padri dell'Unione Europea come Prodi preferiscono mettere la testa sotto il cuscino, in un riflesso che è spiegabile solo con la rassegnazione e l'impotenza. Ma questa scelta finirà proprio col distruggere ciò che vorrebbero salvare. Perché il Sì è come un'aspirina per uno che ha bisogno di un trapianto: il No vuol dire mettersi in lista per l'operazione. Il Sì è come mettere il dito nel buco della diga: il No vuol dire avviarsi a svuotare il bacino che sta per tracimare.

Dire che la "casta" vota Sì non significa fare polemica demagogica contro i privilegi delle élite. Significa prendere atto che vota Sì chi pensa che, tutto sommato, le cose non possano che andare così. E oggi lo pensa solo chi ha qualche forma di garanzia. Chi ha qualcosa da difendere. Diciamolo in modo brutalmente chiaro: i benestanti. E soprattutto i benestanti anziani, che preferiscono non chiedersi come faranno i loro figli e i loro nipoti a tenere insieme diseguaglianza e democrazia. Che pensano che non ci saranno più quando tutto questo salterà in aria.

Io voterò No perché sono cristiano. Voto no perché sono di sinistra. Penso che il mondo è guasto: e bisogna por mano a ripararlo. Tra ridurre la diseguaglianza e ridurre la democrazia, scelgo la prima. Con questa riforma della Costituzione hanno spaccato il Paese, e ci hanno chiesto di decidere con chi vogliamo stare: allora io voglio stare con i miei. Perché "reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri" (Don Lorenzo Milani).

Le mille bugie e i voltafaccia di impensabili voltagabbana (da Scalfari a Prodi a Michele Serra) continuano a rendere necessario insistere col dire la verità e col convincere a votare NO. Il Fatto quotidiano, 1° dicembre 2016


1.
Essendo un referendum costituzionale, l’unica cosa che conta è la legge costituzionale: si vota Sì o No alla “riforma” Boschi-Verdini che persino Prodi, passando dal No al Sì, definisce priva della “profondità e chiarezza necessarie”. Quindi, siccome la nuova Carta durerà e farà danni per decenni, bisogna votare No.
Giro l’Italia da mesi per spiegare i pericoli della controriforma costituzionale, le bugie del Sì e le buone ragioni del No, e negli ultimi giorni sento dire: “Ormai è fatta. Il No ha stravinto”. Ma siamo matti? Il peccato mortale da evitare è proprio questo rilassamento a pochi metri dal traguardo. Questo bearsi beota delle promesse di chi dice di votare No e poi magari, nel segreto dell’urna, barra il solito Signorsì italiota: per paura, per interesse, per conformismo, per servilismo. Renzi e la sua potentissima macchina di propaganda, soldi, tv, giornali, radio, spot, poteri nazionali e internazionali, si sta comprando a una a una le caste e le corporazioni con denaro pubblico, sta ingannando metà del Paese con promesse-patacca e terrorizzando l’altra metà con spauracchi inesistenti o paure fondate ma totalmente scollegate da questo voto (se certe banche sono al collasso, non è colpa di chi vota No e non sarà la vittoria del Sì a riportarle in salute, visto che finora questo governo non ha mosso un dito per risanarle). La vera Casta che ha rovinato l’Italia è tutta con lui e chiama alle armi persino quei pochi che erano finiti ai margini, come l’incredibile Prodi, che ancora ad agosto sussurrava il suo No e ora dichiara il suo Sì a una riforma che gli fa ribrezzo, “nella speranza che giovi al rafforzamento delle nostre regole democratiche”. Buonanotte, professore: rafforziamo la democrazia abolendo le elezioni per il Senato. Complimenti per la lucidità e la coerenza.
Nei due giorni che mancano alle urne, dobbiamo raccogliere le forze e le idee per portare al No tutti gli incerti che possiamo. Per poter dire lunedì – comunque vada il referendum – di aver fatto tutto il possibile per salvare la nostra Costituzione da questi lanzichenecchi. Usando l’argomento più semplice e convincente di tutti: la verità.

2. Le banche, i mercati, lo spread, il pil, gli investimenti, le bollette, i salari, le tasse, gli immigrati, la criminalità, i baby killer, i malati di cancro, epatite C e diabete, non c’entrano nulla. E il fatto che i fautori del Sì li tirino in ballo, la dice lunga sulla miseria delle loro ragioni. Dunque bisogna votare No.

3. La stabilità del governo non dipende dal referendum, che non riguarda il governo, ma una legge costituzionale imposta dal governo.

Se Renzi vuole stabilità e non i soliti “tecnici non eletti” (come se lui lo fosse stato), resti comunque a Palazzo Chigi sino a fine legislatura, visto che la sua maggioranza è intatta. È quel che gli dice il capo dello Stato, unico depositario della legislatura. E comunque l’ultimo che può predicare stabilità è proprio Renzi, che nel 2014 ribaltò dopo 9 mesi il governo in carica presieduto da Enrico Letta senza passare dal voto per farne un altro con la stessa maggioranza e il programma opposto a quello votato dagli elettori Pd. Quindi bisogna votare No.

5. Se vince il No, non è affatto detto che le prossime elezioni le vincano i 5Stelle. Anzi, paradossalmente è più improbabile: se il Senato resta elettivo, rifare l’Italicum (che ora vale solo per la Camera) sarà obbligatorio. E oggi le maggiori chance di vittoria solitaria del M5S sono legate al ballottaggio dell’Italicum. Non è neppure detto che il No farà perdere le elezioni a Renzi: nel 2006 B. perse il referendum costituzionale e nel 2008 stravinse le elezioni. Quindi bisogna votare No.

6. Eugenio Scalfari, tentando di giustificare il suo voltafaccia dal No al Sì, tenta di spiegare con tutto il partito di Repubblica che non è lui ad aver cambiato idea: è il referendum che ha “ampiamente cambiato il significato che gli attribuisce la gran parte dei cittadini… Ormai il Sì è un ‘viva Renzi’ e il No è ‘abbasso’… Il grosso dei No è di provenienze grilline”. Per Michele Serra e altri, il No sarebbe addirittura destraccia della peggior specie: “Il No di sinistra affogherà dentro il No di destra, quello di Brunetta, Berlusconi e Salvini, e soprattutto dentro il No grillino”, segnando la vittoria di “figure politiche alle quali, della Costituzione, non è mai importato un fico secco” (invece Briatore, Vacchi, Marchionne, Confalonieri, Confindustria, l’ambasciatore americano, Schäuble, Juncker, Jp Morgan, Cicchitto, Verdini, Pera, Casini, Ferrara, Feltri, Tosi, Pisicchio, De Luca, Bondi, Alfano, sono tutti cultori della Costituzione iscritti alla Terza Internazionale). Ora, il referendum è un essere inanimato e non ha affatto cambiato significato. Da quando è stato indetto, ha sempre riguardato lo stravolgimento della Costituzione. Se qualcuno ha smesso di difenderla, liberissimo. Ma non racconti frottole: chi era contro è rimasto contro e chi era pro è rimasto pro, salvo pochi voltagabbana incrociati. Ma se la Costituzione, scritta e votata nel 1946-47 da monarchici, ex fascisti, liberali, democristiani, repubblicani, socialisti e comunisti, viene ora difesa da un fronte eterogeneo, conta solo il risultato: salvarla da una “riforma” peggiorativa. Fermo restando che con il No, dall’inizio (quando B. era per il Sì), ci sono tutte le forze democratiche, tradizionali e nuove: Cgil, Fiom, Magistratura democratica, Associazione partigiani, costituzionalisti e intellettuali progressisti, la sinistra Pd, la galassia ex-Sel, Possibile, i 5Stelle (sì, anche loro), Libertà e Giustizia, il Fatto, il manifesto, Micromega e molte firme di Repubblica. Quindi bisogna votare No. Con l’orgoglio di stare in ottima compagnia. E dalla parte giusta.

La nuova Costituzione, che il governo delle menzogne, delle truffe, della sopraffazione e della vergogna vuole imporre al popolo comporta la cancellazione del più maturo risultato raggiunto sul fronte della difesa della bellezza e della storia, rappresentato dal paesaggio e tutelato dagli uomini che diedero alla civiltà la Costituzione del 1948

La Costituzione e il paesaggio: «l’ambiente nel suo aspetto visivo», parte integrante del patrimonio culturale della Nazione. «Valore primario e assoluto», diritto inviolabile della persona e interesse fondamentale della collettività.

«Stabiliamo in via di massima il principio che l’intero patrimonio artistico culturale e storico del nostro Paese - che è così importante - sia sottoposto alla tutela e non alla protezione dello Stato: lo Stato non protegge, ma tutela», questa la proposta dell’onorevole Tristano Codignola, del gruppo autonomista, nel corso della discussione davanti all’Assemblea Costituente il 30 aprile 1947.

Il verbo «tutelare», infatti, ha un significato più ampio e in diritto indica un’azione che comprende non solo la protezione ma anche la custodia, la cura e la rappresentanza giuridica di qualcuno - o qualcosa - incapace di provvedere ai propri interessi.

Fu, invece, Emilio Lussu - appartenente allo stesso gruppo - a suggerire di sostituire alla parola «Stato», «Repubblica». “Ciò” - secondo il deputato - `lascerebbe impregiudicata la questione dell’autonomia regionaleı perché “si è assolutamente garantiti: qui si parla di tutela, e non già di invadenza a carattere assorbente.”.

Da quando è stato approvato l’articolo 9 della Costituzione, dunque, la tutela del paesaggio - inserita tra i principi fondamentali dell’ordinamento - deve essere assicurata da tutti i livelli territoriali che compongono la Repubblica, «una e indivisibile» (art. 5), ma «costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato« (art. 114). Ogni ente locale sarà responsabile dell’integrità del paesaggio e dovrà provvedere alla sua tutela entro i limiti delle proprie competenze e attribuzioni, mentre allo Stato è riservato il potere di dettare standard di protezione uniformi validi su tutto il territorio nazionale e non derogabili in senso peggiorativo da parte delle Regioni[1].

Per oltre vent’anni la giurisprudenza costituzionale ebbe per oggetto il solo paesaggio.

La prima volta che venne richiamato il termine «ambiente» fu nel 1971, quando la Corte confermò la legittimità della legge istitutiva del Parco nazionale dello Stelvio. Questa legge, dichiarò il collegio, “vuole conservare alla collettività l’ambiente naturale che si é costituito spontaneamente o mediante l’opera dell’uomo in una determinata porzione del territorio statale; vuole proteggere le formazioni geologiche che vi esistono e impedire che abbiano a turbarsi le loro spontanee manifestazioni; vuole dare tutela agli adunamenti di fauna e di flora di particolare rilevanza, alla peculiare bellezza che caratterizza il paesaggio. Questo ambiente racchiude beni che assumono un valore scientifico ed un interesse storico od etnografico, oltre che turistico; ed é chiaro che la conservazione dei medesimi é di interesse fondamentale per il complesso sociale al quale appartengono”[2].

Col passare degli anni la salvaguardia dell’ambiente, considerato “nella sua concezione unitaria comprensiva di tutte le risorse naturali e culturali”, si conferma come “diritto inviolabile della persona ed interesse fondamentale della collettività”, imponendo l’obbligo “della sua conservazione e della repressione del danno ambientale, offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente”[3].

Nel testo della Costituzione, tuttavia, il termine ambiente viene introdotto solo nel 2001, con la modifica del titolo V[4]. L’articolo 117, secondo comma, lett. s), infatti, ha espressamente previsto la «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», affidando la relativa disciplina alla legislazione statale esclusiva, mentre il terzo comma ha attribuito alla competenza concorrente Stato-Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali».

Nel frattempo la Corte ha definitivamente chiarito che la tutela ambientale è un valore costituzionalmente protetto, che delinea una sorta di «materia trasversale» composta da vari elementi, ciascuno dei quali può costituire oggetto di cura e di tutela anche separatamente, come il paesaggio[5].

La giurisprudenza costituzionale, dunque, ha risolto in modo chiaro e convincente anche la ricomposizione di ambiente e paesaggio. E’ lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, un valore costituzionale primario e assoluto, visto che il paesaggio indica essenzialmente l’ambiente. “La tutela ambientale e paesaggistica”, infatti, “precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali”[6].

A questo proposito la Corte ha anche affermato che in alcuni casi, come ad esempio, quello delle fonti energetiche alternative, è necessario “rendere compatibili le ragioni di tutela dell’ambiente e del paesaggio, che, nella fattispecie, potrebbero entrare in collisione, giacché una forte espansione delle fonti di energia rinnovabili è, di per sé, funzionale alla tutela ambientale, nel suo aspetto di garanzia dall’inquinamento, ma potrebbe incidere negativamente sul paesaggio: il moltiplicarsi di impianti, infatti, potrebbe compromettere i valori estetici del territorio, ugualmente rilevanti dal punto di vista storico e culturale, oltre che economico, per le potenzialità del suo sfruttamento turistico”[7].

Per questi motivi, il legislatore costituzionale ha previsto come materia la «tutela dell’ambiente». Non l’ambiente in sé, ma la sua conservazione. Scelta obbligata anche dal particolare rapporto tra ambiente e paesaggio la cui tutela, come si è visto, è inserita tra i principi fondamentali dell’ordinamento.

La Convenzione del 2000 ha ribadito a livello europeo l’importanza del principio della conservazione del paesaggio, «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale fondamento della loro identità».

Quattro anni dopo, nella compilazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, per la prima volta, il legislatore italiano ordinario utilizza il termine «paesaggio» e lo definisce come «il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni» (art. 131, comma 1). La disposizione successiva precisa l’oggetto della tutela, individuato in «quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali» (art. 131, comma 2).

Si delineano due modi fondamentali di realizzare la tutela: uno fondato sulla protezione di alcune parti del territorio che, attraverso un vincolo specifico, diventano beni paesaggistici e l’altra che affida alla pianificazione la salvaguardia dell’intero paesaggio. Qualcosa di più esteso dei singoli beni vincolati, che riguarda tutto «il territorio espressivo di identità», con la sola eccezione dei «non luoghi» descritti da Marc Augé.

Il piano paesaggistico diviene lo strumento attraverso il quale si ricompongono i diversi modi di salvaguardia, da realizzarsi attraverso la copianificazione tra le soprintendenze e gli uffici regionali.

Certo, non tutto è andato come previsto. Le disposizioni del Codice sono spesso disattese e solo tre regioni, sinora, hanno approvato un piano paesaggistico: la Sardegna, che da oltre dieci anni ha un ottimo piano - colpevolmente non adeguato alle modifiche del Codice del 2008 - e più di recente, la Toscana e la Puglia.

E’ stato, comunque, elaborato un sistema di protezione del patrimonio culturale coerente ed equilibrato che, grazie anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale, ha costituito un valido argine contro vari Piani casa e diversi decreti, come quello del «Fare» e lo «Sblocca Italia».

La Riforma e l’ambiente: l’annullamento della tutela.

Un sistema, quello descritto, che ha trovato il suo limite fondamentale nella inadeguatezza delle soprintendenze, svuotate di ogni potere, totalmente sprovviste di mezzi, con personale privo di una formazione professionale adeguata e che spesso sopravvivono solo grazie all’abnegazione di qualche eroico funzionario.

Se passasse la riforma, tuttavia, con l’accentramento di ogni competenza allo Stato, queste soprintendenze completamente depotenziate diventerebbero le uniche protagoniste della conservazione dell’ambiente.

Le regioni, infatti, sarebbero private del potere di legislazione concorrente in materie quali il governo del territorio e l’energia, che consentono agli stessi enti territoriali di esplicare il diritto-dovere di salvaguardia ambientale - garantito dall’articolo 9 della Costituzione - di cui abbiamo parlato. E grazie alla «clausola di supremazia» prevista dall’art. 117, quarto comma, del testo riformato della Costituzione, nessuno avrà il diritto di opporsi alle scelte del governo centrale.

Ma la cosa più grave riguarda la nuova formulazione dell’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, che attribuisce allo Stato la legislazione esclusiva nelle seguenti materie: «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo».

La tutela e la valorizzazione, come si vede, sono riservate ai soli beni culturali e paesaggistici, molto più ridotti rispetto al paesaggio e al patrimonio storico culturale tutelati dall’articolo 9.

Il fatto inaudito, però, è che la tutela viene esclusa per l’ambiente e l’ecosistema, annullando l’attuale disposizione che attribuisce allo stato «la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». Eludendo un principio costituzionale fondamentale, si nega la supremazia della protezione dell’ambiente sugli altri interessi che interferiscono con essa.

E’ in atto il palese tentativo di minare le basi del complesso sistema giuridico che abbiamo analizzato.

Si annulla, cioè, la “particolare tutela dei beni paesaggistico-ambientali, considerata tra i principi fondamentali della Costituzione come forma di tutela della persona umana nella sua vita, sicurezza e sanità, con riferimento anche alle generazioni future, in relazione al valore estetico-culturale assunto dall’ordinamento quale «valore primario ed assoluto» insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro”[8].

La volontà di svalutare l’importanza della tutela e della stessa materia dell’ambiente appare evidente anche dall’inserimento nella nuova disposizione di elementi assolutamente estranei ed eterogenei, come «l’ordinamento sportivo», implicitamente assimilato al patrimonio culturale, unico oggetto della norma attuale. Scelta non certo casuale, dal momento che mette sullo stesso piano il diritto alla conservazione dell’ambiente e quello relativo all’esercizio di attività sportive, il quale, ovviamente, comprenderà la costruzione di stadi megagalattici, con grattacieli e centri commerciali annessi e connessi. La vicenda romana insegna.

Ma le incoerenze non finiscono qui. Qualche giorno fa la ministra Maria Elena Boschi, in una famosa trasmissione televisiva, si è detta d’accordo a diminuire le soprintendenze, rivelando che il ministro Franceschini è già al lavoro. Non basta. La ministra ha dichiarato di essere disponibile ad abolirle queste soprintendenze, vecchio retaggio ottocentesco. E si è mostrata pronta a lavorarci fin “dal giorno dopo”. La vittoria del sì, naturalmente. Da un lato si concentra la competenza dello Stato in materia di patrimonio culturale, dall’altro si propone di eliminare gli organi che dovrebbero garantirne la salvaguardia.

Come pensare di risolvere i problemi della sanità chiudendo gli ospedali. Anche questa è una semplificazione.

Insomma, semplificando semplificando, una volta passata la riforma, si arriverà al risultato che voleva ottenere Edoardo Clerici, avvocato e deputato democristiano il quale, davanti all’Assemblea Costituente, propose l’eliminazione dell’attuale articolo 9 della Costituzione, “superfluo, inutile ed alquanto ridicolo, tale da essere annoverato fra quelli che non danno prestigio alla Costituente ed a questa nostra fatica”.

[1] Così Corte costituzionale, sentenza 6 maggio 2006, n. 182.
[2] Corte costituzionale, sentenza 26 aprile 1971, n. 79.
[3] Corte costituzionale, sentenza 28 maggio 1987, n. 210.
[4] Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
[5] Così Corte costituzionale, ordinanza 4 aprile 1990, n. 195
[6] Corte costituzionale, sentenza 7 novembre 2007, n. 367.

[7]Corte costituzionale, sentenza 21 ottobre 2011, n.27
[8] Corte costituzionale, ordinanza 6 marzo 2001, n.46.

«».coordinamento democraziacostituzionale, 28 novembre 2016 (c.m.c.)

Ultimi giorni di campagna elettorale, non distrarsi, non allentare l’impegno. Si puoò vincere ma occorre proseguire fino all’ultimo minuto utile.

Il Comitato per il No noto come quello dei gufi e dei professoroni – prendo a prestito la definizione renziana – ha dall’inizio messo al centro le critiche di merito alle modifiche della Costituzione e alla legge elettorale che ad esse è strettamente legata. Questa è la nostra originalità.

Si dice che il referendum è solo sulle modifiche costituzionali. Non è vero.

Se il No vincerà il 4 dicembre la legge elettorale dovrà essere cambiata, per evitare di votare – prima o poi accadrà’ – con due sistemi elettorali incompatibili. Per di più l’Italicum è in attesa del giudizio della Corte che dovra’ valutarne la costituzionalita’. La vittoria del No e’ l’unica garanzia che l’Italicum verra’ messo da parte e il parlamento sara’ costretto ad approvare una nuova legge elettorale.

È incredibile che Renzi risponda alla bocciatura della Corte Costituzionale di aspetti fondamentali della legge Madia sui dipendenti pubblici parlando di burocrazia che lo blocca. La Corte non eè una burocrazia ma la suprema magistratura. Anziché’ ammettere che il governo non ha rispettato la divisione dei poteri prevista dalla Costituzione, di cui la Corte e’ garante, Renzi reagisce parlando a sproposito e raccontando balle come quella che la modifica del titolo V non avrebbe permesso questa bocciatura, mentre anche se vincesse il Si le regioni potrebbero comunque opporsi all’invadenza impropria del governo. Il governo continua ad accusare la Costituzione di responsabilita’ che non ha e che in realta’ sono semplicemente il risultato di errori ed incapacita’ del governo.

Renzi afferma di essere contrario ad un governo di scopo, questo vuol dire che resterà ? Se tenta continui altolà vuol dire che sa di poter perdere il referendum.

Dovrebbe ricordare che lo scioglimento delle Camere è deciso dal Presidente della Repubblica e che prima di andare a votare è indispensabile una legge elettorale coerente per Camera e Senato.

Infatti il progetto del governo di cambiamento istituzionale è in parte nella Costituzione e in parte nella legge elettorale. In breve ricordo che il Senato non più eletto ed e’ ridotto a una rappresentanza in continuo divenire di sindaci e consiglieri regionali. Il Senato avrà ancora molti poteri, alcuni dei quali paritari con la Camera, senza in realta’ poterli esercitare, perchè i suoi componenti avranno altro da fare, perchè avrà una composizione cangiante ad ogni elezione comunale o regionale, perchè avrà contraddizioni rilevanti nella composizione e nel funzionamento, ad esempio per avere i senatori delle regioni speciali dovrà aspettare il cambiamento dei loro statuti con legge costituzionale.

Infine pur di non far votare i senatori sono stati cancellati per gli italiani all’estero i senatori insieme al diritto di eleggerli, in sostanza e’ stata tolta la loro rappresentanza, lasciando invece l’anomalia di 5 senatori di nomina presidenziale. Tanto non vengono eletti ma nominati.

Quindi non è vero che si supera il bicameralismo paritario. Al massimo si supera in modo parziale e pasticciato.

Non è vero che il governo non aumenta i suoi poteri perchè se passa la modifica della Costituzione decide il calendario della Camera attraverso le leggi che dichiara importanti, che debbono essere approvate in 70 giorni e che si aggiungono all’attuale abuso dei decreti legge.

Inoltre se il governo dichiara un’opera o un altro intervento di interesse nazionale in pratica annulla i poteri delle regioni e dei comuni. Un potere assoluto che si aggiunge alla sottrazione dei poteri operata dal nuovo 117 della Renzi-Boschi, senza peraltro riuscire ad eliminare il contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

La futura Camera dei deputati avrà una maggioranza di 340 deputati, identica a quella attualmente raggiunta grazie al porcellum, i suoi componenti saranno nominati dal capo partito per almeno i 2/3 e tutti quelli entrati con il premio di maggioranza dovranno la loro elezione all’uomo solo al comando, il risultato è evidente: subalternità dei deputati al governo. Parlamento al rimorchio del governo e del Presidente del Consiglio.

Si dice: ci possono essere errori ma almeno si comincia a cambiare. Premesso che un cambiamento può essere positivo o negativo. Anche Trump è un cambiamento, ma certo non è positivo. Soprattutto gli errori chi li correggerà ? La stessa maggioranza che li ha fatti ? Non sembra una gran garanzia. Meglio respingere questo pasticcio con un secco No.

In realtà il cambiamento, ove necessario, lo potra’ affrontare un nuovo parlamento, non delegittimato come quello attuale, a condizione che sulla Costituzione si intervenga con modifiche mirate ed equilibrate, da sottoporre agli elettori senza la pasticciata esagerazione della Renzi-Boschi che pretende di cambiare 47 articoli in un colpo solo, impedendo agli elettori di giudicare con serenita’. Ad esempio si potra’ discutere di come ridurre i componenti di Camera e Senato in modo equilibrato, come era gia’ previsto in una proposta dello stesso Pd poi abbandonata, e introducendo la sfiducia costruttiva. E’ importante che prima di procedere a revisioni della Costituzione nella prossima campagna elettorale si presentino le proposte e che gli elettori si possano pronunciarecon il voto e solo dopo si proceda, eventualmente, a modifiche per punti omogenei e in modo comprensibile della Costituzione.

Sarebbe ora di smetterla con l’accusa infondata di conservatorismo verso chi sostiene il No.

Semmai è questa modifica della Costituzione che è sbagliata e incongrua perche’ tende a modificare la natura della nostra repubblica, oggi fondata sulla rappresentanza parlamentare mentre in futuro al centro ci sarebbe il governo, con la conseguenza che il ruolo del Presidente del Consiglio diventerebbe centrale, anche perchè in pratica, in quanto segretario del partito, decidera’ i parlamentari che verranno eletti.

Il No è accusato di essere un’accozzaglia, incapace di presentare una proposta alternativa e neppure in grado di formare un altro governo. Perchè mai dovrebbe proporre un governo, una maggioranza diversa, non e’ questo il suo compito e non potrebbe farlo. Un referendum e’ l’occasione per giudicare la proposta che viene sottoposta a referendum che di solito e’ del parlamento ma in questo caso, va detto, viene direttamente dal governo, non a caso porta le firme Renzi-Boschi.

Se il governo avesse ottenuto almeno i 2/3 dei voti a favore in parlamento non voteremmo il 4 dicembre. Il 4 votiamo perchè la Camera ha approvato in 4° lettura la Renzi-Boschi con solo 361 voti. Se togliamo il premio di maggioranza dovuto al porcellum, cioe’ almeno 100 voti, scopriamo che una minoranza del paese tenta di imporre le modifiche della Costituzione alla maggioranza.

I 2/3 dei parlamentari a favore non c’erano, per questo è stato possibile da parte di chi non e’ d’accordo di chiedere il referendum e chi vota dovrà giudicare se è accettabile o meno la legge Renzi-Boschi. Non esiste in alcun modo la possibilità di presentare un’alternativa ora.

Solo un nuovo parlamento potrà farlo.

Lo schieramento del No ha diversità evidenti al suo interno. Diverse sono le motivazioni per respingere le modifiche della Costituzione. Del resto la proposta del governo e’ un prendere o lasciare e quindi non si puo’ che respingere la proposta, non si puo’ farne un’altra ora.

Se Renzi non avesse fatto coincidere le sorti del governo e sue personali con l’esito del referendum il problema non si sarebbe posto e il governo avrebbe potuto prendere atto del parere degli elettori, senza dare in escandescenze. Se ha preso atto della volonta’ degli elettori un regime autoritario come quello di Orban in Ungheria non si capisce perche’ non lo possa fare Renzi, senzacdare in escandescenze.

Se si porrà il problema di un nuovo governo sarà il Presidente Mattarella a indicare una soluzione al parlamento.

Il Comitato del No non ha questo compito e tanto meno si è mai posto il problema di un fronte del No che si candida a governare, perche’ ha sempre giudicato il merito delle proposte del governo. I sondaggi ed evidenti segnali di insoddisfazione hanno fatto saltare i nervi a Renzi che puntava ad ottenere un plebiscito a favore. Questo plebiscito non ci sara’, comunque vada a finire.

Ormai tutto viene gettato nell’agone referendario, assistiamo alla confusione dei ruoli di capo del governo, capo del partito e ora anche capo del Comitato per il Si, visto che Renzi ha firmato personalmente la lettera agli italiani all’estero. Al punto che in pratica Renzi firmatario della lettera del Comitato per il Si chiederà il rimborso elettorale a sé stesso, in quanto governo.

Il No è per fermare questa deriva, in cui i confini istituzionali, etici, di comportamento tra i diversi ruoli stanno saltando. Questo non puo’ che preoccuparci per il rischio evidente di regressione democratica nel nostro paese.

«A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì».

Internazionale.it, 29 novembre 2016 (m.p.r.)

Meno cinque al fatidico 4 dicembre, e stando a quel che passano governo e mezzi d’informazione non è chiaro su che cosa stiamo per andare a votare. Sul governo? Sullo spettro a 5 stelle che incombe? Sullo spread? Sui diktat dei mercati? Sui desiderata della Bce, di Angela Merkel, di Marchionne, del Financial Times, dell’Economist? Sull’eterogeneità dell’“accozzaglia” per il no e sulla rassicurante omogeneità della coalizione Renzi-Verdini per il sì? Sul precipizio oscurantista e il “rigor mortis” - giuro che l’ho letto - in cui ci butterebbe il no e sul sol dell’avvenire che risorgerebbe con il sì? Sul tripudio che ci prende ascoltando le istruzioni per il voto di Vincenzo De Luca, che il governo premia invece di scomunicarlo e che i talk titillano perché lui è fatto così e un po’ di political uncorrectness stile Trump anche in Italia non guasta?

Mai un voto, a mia memoria, è stato sottoposto a pressioni così esagitate, improprie e depistanti: più che una campagna referendaria sembra una nobile gara a chi ci tratta meglio da stupidi. Contro questo depistaggio sistematico e rumoroso non resta, in quest’ultima settimana, che tenere bassi i toni e dritta la barra. Intanto: si vota su una proposta di revisione - o meglio, di riscrittura: 47 articoli su 139 - della Costituzione, che a onta di chi la sta bistrattando come l’ultima delle leggi ordinarie resta il patto fondamentale che ci unisce, o dovrebbe. La posta in gioco è abbastanza alta per esprimersi su questo, e solo su questo. Sì o no?

Io dico no, per ragioni di merito e di metodo, e per una terza ragione, di valutazione storica. Comincio dalle ragioni di merito. Primo, con la riforma il bicameralismo non finisce ma resta, non più paritario ma in compenso molto confuso. Il senato non sparisce ma non sarà più elettivo. Non diventa affatto un senato delle autonomie, espressione dei governi regionali e con competenze sul bilancio, ma una camera di serie b, composta da consiglieri regionali e sindaci scelti su base partitocratica, i quali tuttavia, pur privi di legittimazione elettorale, avranno competenze su materie cruciali come i rapporti con l’Unione europea e le leggi costituzionali e potranno richiamare le leggi approvate dalla camera per modificarle. Secondo, la riforma del titolo V, invece di correggere quella malfatta nel 2001 dal centrosinistra, la rovescia nel suo contrario: da troppo regionalismo si passa a troppo centralismo, con la clausola di supremazia dell’interesse nazionale che tronca in partenza qualunque opposizione dei comuni e delle regioni a trivelle, inceneritori, grandi opere, centrali a carbone e quant’altro: se il governo li considera “di interesse nazionale” e ce li pianta sotto casa ce li teniamo.

Terzo, combinata con l’Italicum (che è la legge elettorale vigente, e non è affatto detto che cambierà se vince il sì, nonostante le promesse di Renzi in questo senso, prese per buone da una parte della minoranza Pd) la riforma istituisce di fatto (ma senza dichiararlo, come almeno faceva la proposta di riforma Berlusconi del 2005) il premierato assoluto: maggioranza dell’unica camera titolare del voto di fiducia al partito che vince le elezioni, in caso di forte astensione anche con un misero 25 per cento del corpo elettorale; ulteriore incremento del potere legislativo del governo e del capo del governo. E non bastasse, elezione del presidente della repubblica in mano al partito di maggioranza a partire dalla settima votazione, in caso di assenza di una parte dell’opposizione. Detto in sintesi, il cuore della riforma sta in un rafforzamento dell’esecutivo e del premier a spese del parlamento e della rappresentanza, in un accentramento neostatalista a spese delle istituzioni territoriali, in una lesione del diritto di voto dei cittadini: il contrario di quello che una buona riforma dovrebbe fare.

Passo alle ragioni di metodo, per me perfino più decisive di quelle di merito. Questa riforma è nata male e cresciuta peggio. È nata da un’indebita avocazione a sé, da parte del governo, di un potere costituente che non è del governo, ed è stata approvata - a base di minacce di elezioni anticipate, sedute notturne, canguri e dimissionamento dei dissidenti - da una maggioranza parlamentare risicata e figlia, a sua volta, di una legge elettorale dichiarata illegittima dalla corte costituzionale. Dopodiché è stata brandita dal presidente del consiglio come una personale arma di autolegittimazione e di sfida degli “avversari” - “parrucconi”, gufi, “accozzaglie” e quant’altro - sulla base dell’unica benzina che muove la macchina renziana, cioè della parola d’ordine della rottamazione, applicata anche alla carta del 1948.

Una riforma profondamente e programmaticamente divisiva del patto fondamentale che dovrebbe unire: è questa la contraddizione stridente che minaccia il cuore stesso del costituzionalismo, e ricorda il sovversivismo delle classi dirigenti di gramsciana memoria. A quanti e quante votano sì tappandosi il naso, per paura delle eventuali conseguenze destabilizzanti di una vittoria del no, vorrei sommessamente chiedere di non sottovalutare la ferita difficilmente cicatrizzabile che potrebbe invece conseguire da una vittoria del sì, ovvero dall’approvazione di una costituzione non di tutti ma di parte.

Non è l’unica contraddizione che accompagna questo referendum: ce n’è un’altra, più promettente. Presentata come una svolta radicale, e corredata dal lessico che da mesi ci bombarda incontrastato da tutti i media - innovazione vs conservazione; decisione vs consociazione; velocità vs paralisi; semplificazione vs complessità - la riforma Renzi-Boschi in realtà non innova ma conserva, e non apre ma chiude un ciclo. Sigilla - o ambisce a sigillare - il quarantennio dell’attacco neoliberale alle democrazie costituzionali novecentesche, racchiuso tra il rapporto della Trilateral per la “riduzione della complessità” democratica e l’attacco della JP Morgan contro le costituzioni antifasciste dei paesi dell’Europa meridionale. La storia del revisionismo costituzionale italiano, dalla “grande riforma” vagheggiata da Craxi a quella bocciata di Berlusconi a molte delle stesse ipotesi del centrosinistra, è accompagnata dalla stessa musica: più decisione e meno rappresentanza, più governabilità e meno diritti, più stabilità e meno conflitto. E malgrado le grandi riforme della costituzione siano state fin qui respinte, questi cambiamenti sono già entrati ampiamente, e purtroppo, nella nostra costituzione materiale (nonché in quella formale, come nel caso del pareggio di bilancio).

Renzi ha ragione, dal suo punto di vista, a dire che finalmente può riuscire a lui quello che ad altri non è riuscito: costituzionalizzare il depotenziamento già avvenuto della nostra democrazia. Per questo il sì chiude un ciclo, mentre è solo il no, con tutti i suoi imprevisti, che può aprirne uno nuovo. Basta partecipare a uno solo degli incontri sul referendum che pullulano ovunque in questi giorni per capire quanto questo sentimento sia vivo nella generazione più giovane, che della costituzione parla al di fuori della narrazione ripetitiva degli ultimi decenni.

«Perché votare No. Lo scrittore in difesa della nostra Carta fondamentale».

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2016 (p.d.)

La normale occasione di urne aperte a una consultazione popolare è diventata petulante e scimmiotta il finimondo, una data spartiacque tra versanti opposti. Ma il governo resterà dov’è ora, tronfio o ammaccato e il risultato del referendum resterà disatteso e aggirato, com’è tradizione da noi, se sgradito all’esecutivo.

La rappresentazione vuole che ci siano da una parte i promotori di riforme, dall’altra i frenatori del convoglio. Di mezzo c’è la Carta costituzionale che aspetta di sapere se sarà trasformata. Il verbo più preciso è appunto trasformare e non riformare.

Quel testo è la nostra dichiarazione dei diritti dell’uomo italiano e anche l’ordinamento che ne dispone l’applicazione. Si intende trasformarla in altro, secondo il fabbisogno delle democrazie moderne che puntano a ridurre il démos a suddito, aumentando la crazìa, il potere, su di esso.

Da noi è in carica per la terza volta in una legislatura un terzo governo non uscito dalle urne, ma dal cappello a cilindro di un ex presidente giocoliere, manovratore di maggioranze accorpate da impreviste convenienze.

Per mettere mano a modifiche della Costituzione si dovrebbe aspettare il prossimo rinnovo del Parlamento e un prossimo governo che affermi nel suo programma elettorale di volerla cambiare. Allora avrebbe titolo, mentre questo in carica: no.

Il riformismo un tempo aveva una tradizione e un progetto ideale. Opponeva alle rivoluzioni del 1900 una via diversa per raggiungere traguardi di uguaglianza. I riformisti sapevano fare le riforme.

Oggi la utile e ben intenzionata riforma della pubblica amministrazione è stata appena cancellata dalla Corte Costituzionale. Evidentemente era male impostata. Se ne ricava che oggi i riformisti non sanno scrivere le riforme. Se ne ricava che questo governo in carica non ha titolo per usare la parola riforma per le trasformazioni della Carta costituzionale.

Il testo è stato pubblicato sul sito fondazionerrideluca.com

Libertà e Giustizia online, 29 novembre 2016 (c.m.c.)

Il professorone che non t’aspetti. Nel pieno di una campagna incarognita, Gustavo Zagrebelsky sfoggia autoironia. Ride della «sublime imitazione di Crozza» e fa ammenda degli eccessi accademici in tv. Ma cala anche un argomento pesante contro la riforma: la violazione del primo pilastro della Costituzione, la sovranità popolare. Tra Platone e Mourinho, Weimar e De Gregori.

Che cos’è in gioco, la Costituzione più bella del mondo?
«Questa è un’espressione sciocca che non ho mai usato. Le Costituzioni non si giudicano dall’estetica, ma dai valori che esprimono e dal contesto che li può far vivere».

Cosa intende per contesto?
«Tra il ‘46 e il ‘48 c’erano i postumi d’una guerra civile, ma la Costituzione fu lo strumento della concordia nazionale. Oggi, al contrario, la riforma divide. Siamo in balia di apprendisti stregoni che ignorano quanto la materia sia incandescente. A chi vuol metterci mano, può prendere la mano. Non si sa dove si va a finire. Questa riforma, con annesso referendum, rischia il disastro. Chiunque vinca, perderemo tutti».

La riforma non tocca i principi, la prima parte della Carta.
«Davvero si tratta solo di efficienza dell’esecutivo e non anche di partecipazione di coloro che a quei principi sono interessati? A proposito: a me pare che sia stato violato proprio l’articolo 1».

In che modo?
«La riforma è stata approvata da un Parlamento eletto con una legge incostituzionale. Fatto senza precedenti».

Però la sentenza della Consulta sul Porcellum dice che il Parlamento resta in carica.
«La prima parte della sentenza dice che la legge è incostituzionale perché ha rotto il rapporto di rappresentanza democratica tra elettori ed eletti. La seconda che, per il principio di continuità dello Stato, il Parlamento non decade automaticamente. Bisognava superare il più presto possibile la contraddizione. Invece il famigerato Porcellum, che tutti aborrono a parole, non è affatto estinto: vive e combatte insieme a noi perché il Parlamento che abbiamo è ancora quello lì. La riforma costituzionale è stata approvata con i voti determinanti degli eletti col premio di maggioranza dichiarato incostituzionale. Ma i garanti della Costituzione fanno finta di niente e tacciono».

Chi sono i garanti?
«Dal presidente della Repubblica ai singoli cittadini. La Repubblica di Weimar, nella Germania degli Anni 30, implose anche per l’assenza di un “partito della Costituzione” che la difendesse oltre gli interessi contingenti dei partiti. Oggi accade lo stesso».

Perché è violato l’articolo 1?
«L’articolo 1 dice che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Ebbene, questo Parlamento non è stato eletto secondo le forme ammesse dalla Costituzione. C’è stata un’usurpazione della sovranità popolare. La riforma è viziata ex defectu tituli».

Professore, così diamo nuovo materiale a Crozza.
«Allora citiamo Mourinho: è una riforma “zero tituli”».

Ora, però, decide il popolo.
«Pensare che il referendum sia una lavatrice democratica che toglie ogni macchia è puro populismo. Anche perché è stato trasformato in un Sì o No a Renzi, e la povera Costituzione è diventata pretesto per una consacrazione personale plebiscitaria. Qualcuno s’è fatto prendere la mano».

Che cosa imputa a Renzi?
«Nulla. Però non c’è saggezza nel legare la sorte d’un governo al cambio di Costituzione. Non appartiene alla cultura liberale e democratica. La Costituzione non deve dipendere dal governo né viceversa. Sono su piani diversi, il governo sotto».

Qual è la concezione che Renzi ha del governo, del potere democratico? Perché lo contesta?
«In un dialogo del suo periodo tardo, “Il Politico”, Platone distingue il governante “pastore di uomini”, che conduce il popolo come un gregge, dal governante tessitore. Un sistema in cui il popolo, come si dice con enfasi, la notte stessa delle elezioni va a letto sapendo chi è il Capo nelle cui mani s’è messo, appartiene alla prima concezione. La democrazia è cosa molto più complicata».

Però questa riforma nasce dallo stallo politico del 2013, dalla rielezione di Napolitano. Renzi è venuto dopo.
«Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. Nel suo discorso d’insediamento al momento della rielezione, davanti a tanti parlamentari commossi e grati a chi li definiva incapaci, inconcludenti, nominati, corrotti e pure ipocriti (da riascoltare quelle parole!), riprese in mano il tema della riforma, trattandolo come un terreno di unità. Ma la storia ha dimostrato che non lo era affatto».

Ha ripensato al confronto in televisione con Renzi?

«Non mi sono mai sentito tanto a disagio. Sono cascato, per leggerezza, dal mio mondo in un altro. Non è stato un vero confronto. La comunicazione contro il tentativo di argomentare, surclassato dal diluvio verbale. Si è parlato, non dialogato. L’indomani mi ha telefonato un amico assennato, dicendomi “sei stato te stesso”. Cos’altro avrei dovuto essere?».

Lo rifarebbe?
«Mah! Cercherei comunque di non essere professorale: peccato gravissimo! D’altra parte, è difficile prevedere i colpi bassi e gli argomenti a effetto lanciati nell’etere senza alcuna verosimiglianza, anzi con molto cinismo. Come quello sui malati di cancro avvantaggiati dal Sì, che ricorda analoghe promesse berlusconiane».

Preparerebbe carte a sorpresa?
«Certo che no. I foglietti sottobanco sono stati la cosa peggiore, una meschinità che non mi sarei aspettata da un uomo delle istituzioni. Un’abitudine da talk show della peggior specie, dove ciò che conta non è chiarire, ma colpire».

C’è rimasto male per l’imitazione di Crozza?

«Tutt’altro! Quando l’ho vista la seconda volta, ho riso più della prima. Gli occhiali, la stilografica, i libri, il fazzoletto, il dittongo, il munus: davvero eccellente. Gli ho telefonato per farci altre quattro risate».

Che succede se vince il Sì?
«Non si apre la strada a una dittatura, ma alla riduzione della democrazia e all’accentramento del potere in poche mani. Non possiamo tuttavia sapere, oggi, quali saranno le poche mani di domani».

E se vince il No?
«Si potrà ricominciare a “fare politica”. La responsabilità sarà dei partiti e dei movimenti. Altrimenti, si correrà il rischio dell’affacciarsi dei cosiddetti governi tecnici o istituzionali.

E il salto nel vuoto evocato da Renzi? E i timori dei mercati?

«Agitare queste paure può essere controproducente: il sistema finanziario che adombra sciagure non è visto come benefattore dei popoli. Il referendum è lo strumento per scuotersi dal giogo della finanza. Decidano i cittadini e, come canta De Gregori, viva l’Italia che non ha paura».

Bisognerà riscrivere la legge elettorale.
«Molte ragioni militano per il ritorno al sistema proporzionale, quello che meno dispiace a tutti e mi pare più conforme all’attuale sistema multipartitico. Da lì si potrà, se si saprà, ricominciare a parlare di riforme anche costituzionali».

Che cosa farà il 5 dicembre?
«Questa campagna è stata estenuante. Non vedo l’ora che finisca. Mi sveglierò tranquillo perché il sole sorgerà ancora, comunque vada».

».

il manifesto, 30 novembre 2016 (c.m.c.)

Desideriamo esprimere il nostro parere sulla legge costituzionale recante disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione.

Il nostro giudizio è negativo, sia per una valutazione complessiva della riforma che si sottopone al voto e dell’assetto istituzionale che si intende porre in essere, sia per ragioni specifiche attinenti alla materia del lavoro.

Con riferimento all’assetto istituzionale desideriamo evidenziare che la riforma realizza un forte e pericoloso accentramento dei poteri, introducendo nel contempo innovazioni tanto discutibili quanto confuse.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché la formazione del Senato prevista è priva di senso. Avremmo infatti un Senato composto, a rotazione, da presidenti di regione, consiglieri regionali e sindaci appartenenti a diversi schieramenti politici. Non quindi un Senato in rappresentanza unitaria dei territori, come nel sistema tedesco. E neppure un Senato dotato di una forte legittimazione politico-territoriale come nel modello USA. Ma una improbabile sommatoria di soggetti diversi, nessuno dei quali potrà vantare una vera rappresentanza territoriale e neppure una trasparente legittimazione politica.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché è del tutto inaccettabile lo scambio che si realizza tra Stato e regioni (a statuto ordinario). Le regioni vengono private di essenziali funzioni politico-legislative, offrendosi loro la consolazione di uno pseudo “Senato delle regioni”. Il fatto che numerosi esponenti della attuale rappresentanza regionale si dichiarino favorevoli a questo misero scambio dimostra il declino del regionalismo italiano, che pure a suo tempo qualcosa aveva rappresentato.

Con specifico riferimento ai temi lavoristici desideriamo sottolineare che le novità introdotte, pur essendo relativamente limitate, in quanto la materia rimane, come è attualmente, nella competenza pressoché esclusiva dello Stato, non sono affatto convincenti.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché l’abolizione della competenza concorrente di Stato e regioni nella materia della tutela e sicurezza del lavoro avrebbe l’effetto di riportare tutte le funzioni ora svolte dai Servizi per l’impiego regionali o provinciali alla gestione del Ministero del lavoro. Tale modifica comporterebbe un notevole dispendio di risorse per il trasferimento e la riorganizzazione delle funzioni che, in assenza di uno stanziamento adeguato di fondi, non ne garantisce in alcun modo un miglioramento qualitativo.

I servizi per l’impiego sono stati trasferiti alle Regioni e alle province nel 1997 proprio a causa delle gravi inefficienze a cui aveva dato luogo la gestione ministeriale e non vi è alcuna ragione per ritenere che il ritorno all’amministrazione centrale possa oggi di per sé migliorare la situazione. Si ripropone inoltre il vizio d’origine del sistema, costituito dalla separazione tra politiche per il lavoro, che tornerebbero alla competenza centrale, e formazione professionale, che resterebbe di competenza regionale.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché l’inserimento in Costituzione di un esplicito riferimento alle “politiche attive del lavoro” tra le competenze dello Stato, è solo apparentemente innovativo, in quanto la materia rientrerebbe comunque nella più ampia definizione di tutela e sicurezza del lavoro. Tale inserimento si realizza, inoltre, in un contesto caratterizzato dalla sempre più marcata sottoposizione del cittadino e della cittadina bisognosi di lavorare a vincoli e condizioni strettissimi, la cui legittimità, sotto il profilo del rispetto del diritto al lavoro e della libertà di scegliere un’occupazione corrispondente alle proprie possibilità e aspirazioni garantiti dall’art. 4 della Costituzione e dall’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è oggi fortemente discussa.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre perché il c.d. voto a data certa, imponendo al parlamento di pronunciarsi in via definitiva entro settanta giorni, limita fortemente la possibilità per le competenti Commissioni della Camera di svolgere quelle indagini e quelle ricerche che spesso sono necessarie per avere piena contezza della situazione che si intende regolare e degli effetti che la nuova legge può produrre. In tale attività istruttoria è frequente, nelle materie lavoristiche e previdenziali, il ricorso all’audizione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, degli enti previdenziali, degli enti esponenziali degli interessi che si vanno a regolare, nonché di esperti della materia.

La ristrettezza dei tempi del procedimento legislativo avrebbe dunque l’effetto di limitare fortemente la possibilità per le formazioni sociali, garantite dall’articolo 2 della Costituzione, di partecipare alla vita politica economica e sociale del Paese, come previsto dall’art. 3, comma secondo, della Costituzione ed impedirebbe che nel dibattito parlamentare si individuino quelle mediazioni tra le diverse istanze e interessi che sono elemento essenziale della democrazia. Conferma della linea della riforma volta a limitare fortemente il ruolo dei corpi intermedi si ha, del resto, nelle previsioni relative all’abolizione del Cnel, il quale, pur non avendo avuto sinora quel ruolo consultivo che i Padri costituenti avevano immaginato, avrebbe potuto essere riformato in modo da farne un vero organo di partecipazione democratica delle forze economiche e sociali alla definizione dell’indirizzo del Paese.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché la riforma costituzionale nulla innova in materia di previdenza sociale, mentre il ritorno della previdenza complementare e integrativa alla competenza esclusiva statale, senz’altro condivisibile, ha un effetto praticamente nullo: di fatto, anche dopo il 2001, la materia, che con la precedente riforma del Titolo V della Costituzione è stata discutibilmente attribuita alla competenza concorrente di Stato e Regioni, ha continuato ad essere regolata esclusivamente con leggi dello Stato, legittimato a intervenire sulla base dell’attinenza della materia sia all’ordinamento civile, sia alla tutela del risparmio.

Voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché l’attribuzione allo Stato della competenza ad emanare disposizioni generali e comuni per la tutela della salute e per le politiche sociali introduce un elemento di incertezza ulteriore circa l’esatto riparto di competenze (dovendosi stabilire cosa si intenda per generali e comuni) ed è foriera di un contenzioso tra Stato e regioni, attinente sia alla distinzione tra funzioni spettanti all’uno o all’altro nelle specifiche materie, sia alla distinzione tra politiche sociali e assistenza sociale, che sinora è stata di competenza esclusiva regionale, ma per le prestazioni economiche ha continuato di fatto ad essere regolata su base nazionale.

Infine, voteremo No al referendum costituzionale del 4 dicembre anche perché nel riscrivere la clausola di supremazia, mediante la quale lo Stato può sostituirsi alle regioni e agli enti locali, si fa un generico riferimento alla tutela dell’unità giuridica ed economica dello Stato, omettendo lo specifico riferimento, attualmente previsto, alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti di diritti civili e sociali. Ciò se in linea generale non impedisce l’intervento dello Stato su questo aspetto, d’altra parte conferma la mancanza di attenzione dell’attuale legislatore costituente a questa fondamentale istanza.

Firmatari

Andrea Allamprese, professore aggregato di diritto del lavoro, Università degli studi di Modena e Reggio Emilia
Piergiovanni Alleva, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Politecnica delle Marche
Amos Andreoni, ricercatore di diritto del lavoro, Università La Sapienza di Roma
Cataldo Balducci, professore associato di diritto del lavoro, Università del Salento
Maria Vittoria Ballestrero, professoressa emerita di diritto del lavoro, Università degli studi di Genova
Marco Barbieri, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Foggia
Vincenzo Bavaro, professore associato di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Alessandro Bellavista, professore ordinario di diritto del lavoro università di Palermo
Olivia Bonardi, professoressa associata di diritto del lavoro, Università degli studi di Milano
Piera Campanella, professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università di Urbino Carlo Bo
Umberto Carabelli, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Rosa Casillo, ricercatrice di diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II
Mario Cerbone, ricercatore di diritto del lavoro, Università degli Studi del Sannio
Gisella De Simone, professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università degli studi di Genova
Antonio Di Stasi, professore ordinario di Diritto del lavoro, Università Politecnica delle Marche
Franco Focareta, ricercatore di diritto del lavoro, Università di Bologna
Alessandro Garilli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Palermo
Enrico Gragnoli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Parma
Andrea Lassandari, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Bologna
Gabriella Leone, ricercatrice di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Antonio Loffredo, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi di Siena
Gianni Loy, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Cagliari
Federico Martelloni, professore associato di diritto del lavoro, Università di Bologna
Luigi Mariucci, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Ca’ Foscari di Venezia
Monica Mc Britton, ricercatrice di diritto del lavoro, Università del Salento
Pasquale Monda, assegnista di ricerca, Università di Napoli Federico II
Gaetano Natullo, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi del Sannio
Giovanni Orlandini, professore associato di diritto del lavoro, Università degli studi di Siena
Natalia Paci, professoressa a contratto di diritto del lavoro, Università di Urbino Carlo Bo
Vito Pinto, professore associato di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Umberto Romagnoli, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Bologna
Raffaello Santagata, ricercatore di diritto del lavoro, Seconda Università degli studi di Napoli
Stefania Scarponi, già professoressa ordinaria di diritto del lavoro, Università degli studi di Trento
Carlo Smuraglia, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università degli studi di Milano
Anna Trojsi, professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro
Bruno Veneziani, già professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Roberto Voza, professore ordinario di diritto del lavoro, Università Aldo Moro di Bari
Lorenzo Zoppoli, professore ordinario di diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II

Velia Addonizio, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Giorgio Albani, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Stefania Algarotti, Avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Elisabetta Balduini, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Raffaella Ballatori, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Paolo Berti, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Flavia Bianco, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Andrea Bordone, avvocato giuslavorista, Foro di Varese
Alessandro Brunetti, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Mirella Caffaratti, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Mario Cerutti, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Chiara Colasurdo, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Valentina D’Oronzo, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Emiliano Fasan, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Lorenzo Fassina, giuslavorista dell’Ufficio giuridico della Cgil
Lello Ferrara, avvocato giuslavorista, Foro di Napoli
Silvia Gariboldi, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Antonella Gavaudan, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Tommaso Gianni, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Giovanni Giovannelli, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Katia Giuliani, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Corrado Guarnieri, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Francesca Romana Guarnieri, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Carlo Guglielmi, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Amelia Iannò, Avvocato Inail, Foro di messina
Silvia Ingegneri, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Alessandro Lamacchia, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Anna Silvana Lamacchia, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Roberto Lamacchia, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Bruno Laudi, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Bartolo Mancuso, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Stefania Mangione, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Giovanni Marcucci, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Andrea Matronola, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Mauro Mazzoni, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Enzo Martino, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Alvise Moro, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Piero Nobile, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Aurora Notarianni, avvocato giuslavorista, Foro di Messina
Angiolino Palermo, avvocato giuslavorista, Fori di Milano e Reggio Calabria
Chiara Panici, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Ilaria Panici, avvocata giuslavorista, Foro di Roma
Pierluigi Panici, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Sara Antonia Passante, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Luciano Petronio, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Matteo Petronio, avvocato giuslavorista, Foro di Parma
Bruno Pezzarossi, avvocato giuslavorista, Foro di Reggio Emilia
Alberto Piccinini, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Luca Pigozzi, avvocato giuslavorista, Foro di Torino
Elena Poli, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Giuliana Quattromini, Avvocata giuslavorista, Foro di Napoli
Filippo Raffa, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Elisa Raffone, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Guido Reni, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Domenico Roccisano, avvocato giuslavorista, Foro di Milano
Annalisa Rosiello, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Dario Rossi, avvocato giuslavorista, Foro di Genova
Giorgio Sacco, avvocato giuslavorista, Foro di Bologna
Ettore Sbarra, avvocato giuslavorista, Foro di Bari
Maria Faustina Serrao, avvocata giuslavorista, Foro di Milano
Maria Spanò, avvocata giuslavorista, Foro di Torino
Chiara Spera, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Francesca Stangherlin, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Claudia Tibolla, avvocata giuslavorista, Foro di Bologna
Francesco Tozzi, avvocato giuslavorista, Foro di S. Maria C.V.
Lidia Undiemi, consulente giuslavorista
Sergio Vacirca, avvocato giuslavorista, Foro di Roma
Giovanni Ventura, avvocato giuslavorista, Foro di di Trieste
Silvia Ventura, avvocata giuslavorista, Foro di Firenze
Alida Vitale, avvocata giuslavorista, Foro di Torino

«In gioco non c'é un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito sino ad ora lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti».

Rifondazione,online 28 novembre 2016 (c.m.c.)

La Costituzione italiana è legge sovraordinata alla legge ordinaria.

La Costituzione è destinata a regolare i rapporti di civile convivenza tra i cittadini e per tale ragione è destinata a durare nel tempo.

La Costituzione contiene norme di carattere generale, cioè riferentisi ad ogni tipo di cittadini, di carattere astratto, cioè a prescindere dalle singole situazioni.

La Costituzione deve essere comprensibile per tutti i cittadini e pertanto deve essere scritta in maniera chiara e sintetica.

La Costituzione italiana è costituzione rigida quanto ai suoi principi, ma non immutabile; può essere modificata nel tempo, ma sempre al fine di realizzare e rispettare i principi fondamentali stabiliti nella prima parte della Costituzione stessa.

La Costituzione può essere modificata nei modi e nei termini previsti dall’art. 138 e le modifiche devono ricercare la più ampia convergenza di opinioni tra le forze politiche.

La Costituzione non si modifica a colpi di maggioranza. La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, ad impulso esclusivo del Parlamento, senza intromissione alcuna del Governo.

Queste sono le caratteristiche di una Costituzione e questi sono i criteri per modificarla.

Ed invece:

La nuova formulazione della Costituzione è stata approvata alla Camera dalla sola maggioranza, con 360 voti su 630 deputati: alla Costituente il testo fu approvato da 458 parlamentari con soli 62 voti contrari.

Il linguaggio usato è prolisso, controverso, ai limiti della incomprensibilità.

Non è vero che sia stato soppresso il bicameralismo perfetto; semplicemente, esso è stato trasformato in un bicameralismo confuso, perché la permanenza del Senato e i nuovi percorsi di formazione delle leggi, nonostante le minori competenze dello stesso Senato, renderanno confuso e ugualmente complesso il percorso di approvazione di una legge, con il rischio di una moltiplicazione dei ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti tra le due Camere.

Non è vero che il bicameralismo perfetto abbia prodotto tempi di approvazione delle leggi superiori alla media dei paesi democratici europei, così come non è vero che sia così diffuso il fenomeno della cosiddetta “navetta” delle leggi tra le due Camere, fenomeno che, in realtà, risulta limitato al 3% delle leggi varate.

La scelta di non far eleggere i senatori dai cittadini incrina il concetto di rappresentatività dei cittadini stessi, sostituendolo con una nomina di natura politica, che nasce all’interno dei gruppi dei Consigli regionali.

La nuova norma costituzionale rischia di escludere la rappresentanza delle Regioni a Statuto Speciale che prevedono l’incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e quello di senatore, obbligando, pertanto, l’eletto in Senato a rassegnare le sue dimissioni dal Consiglio Regionale e restando, così, privo di qualsiasi compenso per la sua attività.

Non è vero che le modifiche alla seconda parte della Costituzione, relativa all’organizzazione della Repubblica, non abbiano incidenza sulla prima parte, che stabilisce i principi fondanti dello Stato e della convivenza civile.

La nuova Costituzione introduce una progressiva sopravalutazione del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo, istituendo una sorta di democrazia esecutiva.

La nuova Costituzione istituisce un ridimensionamento del ruolo della Camera anche in tema di ordine dei lavori, consentendo al Governo di imporre alla Camera di esaminare le leggi ritenute essenziali per il programma governativo entro 70 giorni: è un’umiliazione del ruolo del Parlamento mai visto dall’epoca fascista.

Non è vero che non esista uno stretto rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale: l’Italicum garantisce al partito vincitore delle elezioni al ballottaggio, magari anche solo con una percentuale del 25%, l’attribuzione del 55% dei seggi della Camera con la riduzione delle opposizioni ad un ruolo di mera, impotente tribuna: si pensi solo alla dichiarazione dello stato di guerra, deliberato dalla maggioranza, precostituita ed immodificabile, della sola Camera. Stante, dunque, la rilevanza della legge elettorale ai fini della valutazione dell’impatto della riforma costituzionale sugli assetti istituzionali, sarebbe stato assai utile che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legittimità o meno di quella legge; incomprensibile appare il rinvio a data da destinarsi di quel giudizio.

La volontà della maggioranza di ridurre il ruolo delle opposizioni è emblematicamente rappresentato dall’introduzione all’art. 64 di uno Statuto delle Opposizioni, il cui regolamento sarà deciso dalla maggioranza, in salda mano del partito vincitore delle elezioni, della Camera.

Il quesito referendario appare formulato in maniera manipolatoria e tale, dunque, dall’invitare i cittadini all’approvazione della legge; in particolare, il riferimento alla riduzione dei costi della politica non rientra direttamente tra le modifiche costituzionali, ma ne potrebbe essere esclusivamente una indiretta conseguenza.

Queste sono solo alcune delle criticità della riforma costituzionale; in alcuni casi si tratta di questioni molto tecniche sulle quali, ovviamente, il cittadino medio non è in grado di esprimere un’opinione fondata su un’effettiva conoscenza del problema; fondamentale, comunque, è cercare di fare un’operazione quanto più completa possibile di informazione, ma ciò che soprattutto deve essere chiaro è che i cittadini devono essere ben consci dell’importanza della loro scelta ed ergersi a difensori di quel ruolo di unione del popolo italiano che la Carta Costituzionale ha pienamente rappresentato in questi 70 anni.

OCCORRE, DUNQUE, VOTARE NO NEL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE.

Come giuristi, da sempre impegnati nella difesa dei diritti dei cittadini, in particolare di quelli meno tutelati, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo di informazione ai cittadini, nella convinzione profonda che in gioco non ci sia né un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e, dunque, in definitiva, il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti.

Il Fatto Quootidiano, 29 novembre 2016 (p.d.)

Amalia Signorelli è un’antropologa molto attenta al linguaggio politico. Tempo fa scrisse che mai come negli ultimi anni la politica ha abbandonato il discorso argomentativo, ossia quello che si svolge chiarendo i perché delle scelte, per utilizzare quello assertivo, che afferma, dichiara, prevede e prescrive senza spiegare né il perché né il come né con quali mezzi.

Matteo Renzi quale usa?

Renzi è il maestro dell’asserzione. Io ho coniato per il suo modo di parlare un termine su misura: l’annuncite. Annunci continui senza che ci sia mai un quadro finanziario chiaro associato alle promesse. Questo modo di fare politica è captatio benevolentiae, creazione di consenso, non certo ragionamento.

Però sembra piacere.
Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. Però non rispetta il principio di non contraddizione, quindi restano solo parole al vento.

Lei ha dichiarato che voterà No alla riforma. Perché?

Per tre ragioni: ovviamente per il suo contenuto, poi per l’illegittimità delle procedure e, infine, l’illegittimità dei titolari dell’iniziativa.

Partiamo dal contenuto.

Negli ultimi decenni in Italia, Paese notoriamente privo di senso di responsabilità pubblica e con altissimi tassi di corruzione, una delle poche istituzioni che ha dato qualche frutto in materia di aumento della partecipazione alla vita pubblica è stata l’elezione diretta dei sindaci. La riforma la nella direzione opposta: aumenta la distanza tra elettori ed “eletti”, che risulteranno tali solo attraverso una serie di mediazioni che interrompono questo rapporto diretto. Non parlo solo di quel pastrocchio che sarà il nuovo Senato, dove ancora non sappiamo come saranno eletti, ma anche alla Camera, dove le liste – parlo della legge elettorale attuale, non delle promesse – saranno bloccate.

Con la riforma però le Regioni perderanno potere.

Il problema delle Regioni non è la loro autonomia, ma il fatto di essere governate da delinquenti. Il problema sarebbe sbattere in galera chi ruba, non riformarle.

Cosa pensa dell’accentramento dei poteri allo Stato?

Accentrare il potere in poche mani, in un Paese come l’Italia, significa aumentare il clientelismo della peggior specie: tutti cercheranno un santo protettore. Diventerà ancora di più il Paese delle cordate, delle cosche, delle banche.

La maggioranza ha votato questa riforma, in democrazia funziona così.

Diciamola meglio: votata da una minoranza del Paese che è diventata artificiosamente maggioritaria in Parlamento grazie a una legge elettorale incostituzionale.

A Obama piaceva Renzi.

Sì, come dico sempre: lui è gradito ovunque ma irrilevante dappertutto. Lui piace a certi poteri. Purché, nel fare il simpatico, porti avanti la distruzione della democrazia.

Anche lei vede Renzi strumento dei poteri forti?

Senta, un sindaco che improvvisamente diventa premier senza neanche essere eletto qualcuno che lo appoggia deve averlo. Altrimenti mi dica, su che basi poggia il potere di questo giovinotto?

Me lo dica lei.

Dalle asserzioni di soggetti come Jp Morgan riguardo alle costituzioni mediterranee emerge il disegno di liquidare l’Europa ‘socialdemocratica’, intesa come stile di vita, in quanto cattivo esempio per il mondo. Ecco chi sostiene certe azioni.

Cosa dirà ai suoi nipoti per il 4 dicembre?

Loro sanno già cosa votare. Agli altri direi di non fidarsi di chi gli dice di stare sereno.
Referendum. Il "Financial Times» profetizza il fallimento di otto banche in caso di sconfitta del Sì. "The Daily Telegraph" insiste sul pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona "The Sunday Times Business". "Figaro Economie" racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari».

il manifesto, 29 novembre 2016

Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».

Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.

Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. Figaro racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.

In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.

Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.

La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi di dollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.

E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.

L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.

Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».

Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.

Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.

«La campagna per il Sì ha virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile».

Huffington Post online, 27 novembre 2016 (m.c.g.)

Sono convinto da mesi che il No al referendum trionferà il 4 dicembre (Renzi è finito, fatevene una ragione). Non certo sulla base dei sondaggi, ai quali non credo e che mesi fa davano il No senza speranze, ma piuttosto osservando dati e fatti reali sotto gli occhi di tutti. Michael Moore sperava tanto d'essere smentito, io No.

1. Se i sondaggi non sono attendibili, esistono tuttavia i dati concreti dei voti espressi quest'anno. Al referendum sulle trivelle del 17 aprile scorso 13 milioni 300 mila italiani si sono presi il disturbo di andare a votare contro il governo per una consultazione poco più che simbolica.

È probabile che tutti costoro tornino a votare il 4 dicembre per una questione assai più importante e altri se ne aggiungano, visto che la percentuale di votanti sarà ben più ampia. Questo significa che la base concreta del No si aggira intorno ai 15 milioni di voti. Renzi deve dunque portare al voto oltre 15 milioni di Sì, impresa matematicamente improbabile.

2. Il coro dei media. La netta prevalenza delle ragioni del Sì sui media, l'endorsement implicito o esplicito di tutti i grandi giornali, la scandalosa faziosità governativa della Rai e quella meno sfacciata di Mediaset, tutto questo coro avrebbe costituito in altri tempi un enorme vantaggio. Ma non in questi, nei quali la credibilità dei media e il loro potere d'influenzare l'opinione pubblica sono prossimi allo zero. Il dilagare su giornali e tv del monologo auto elogiativo di Matteo Renzi produce ormai l'effetto d'ingrossare ogni settimana le fila del No.

3. Il tardo trasformismo di Renzi. La narrazione renziana è rapidamente invecchiata, come ha capito ormai anche il narratore, provando a cambiarla in corsa, ma tardi e male. Quando fu concepita la tenaglia fra riforma costituzionale e Italicum, che avrebbe consegnato al premier un potere immenso, Renzi veniva dal 41 per cento alle Europee ed era sicuro di ottenere un plebiscito, quindi ha personalizzato oltre misura la sfida. Con la progressiva delusione per gli scarsi risultati economici del suo governo, le minacce di dimissioni hanno smesso di essere tali, ma Renzi avrebbe dovuto comunque insistere sulla linea guascona.

Al contrario ha cercato di correggersi tornando democristiano, sorvola sulle dimissioni dal governo e non parla più di ritirarsi dalla politica. Per giunta ha ceduto sulla modifica dell'Italicum, «la legge elettorale più bella del mondo», quella che «tutti ci copieranno in Europa». In questo modo il Rottamatore ha perso il suo fascino principale, per rivelarsi il solito trasformista disposto a cambiare idea su tutto pur di rimanere attaccato alla poltrona. Per dirla con Marx (Groucho): «Questi sono i miei principi, signora. Se non vi piacciono, ne ho degli altri».

4. La paura non funziona più. Il fronte del Sì era partito bene, prospettando una serie di vantaggi in positivo agli elettori. Ma i più seducenti, il risparmio sui costi della politica e la maggior velocità decisionale, si sono persi per strada. L'abile mossa dei 5 Stelle di proporre durante la campagna robusti (e sacrosanti) tagli agli stipendi dei parlamentari, respinta dalla maggioranza, avrebbe procurato risparmi ben maggiori rispetto ai miseri 50 milioni l'anno del nuovo Senato calcolati dalla Ragioneria. Quanto alla rapidità, più veloci per fare che cosa?

La campagna per il Sì ha dunque virato sulla logora strategia della paura, con profezie di cataclismi economici e piaghe bibliche in caso di vittoria del fronte opposto. Ma, come testimoniato dalla Brexit e dalle presidenziali Usa, la paura di un futuro peggiore spaventa meno della paura di un presente già intollerabile.

5. Gli italiani votano con saggezza. Detto modestamente da uno che ha quasi sempre votato per i perdenti. I referendum però li ho quasi tutti vinti. Nel voto referendario gli italiani votano con saggezza, con più libertà e ragione. Ed è sicuro che di fronte a una riforma pasticciata e pericolosa, che stravolge un terzo della Costituzione "più bella del mondo" in cambio di una manciatina di risparmi, la ragione, la libertà e la saggezza impongano di dire No.

Poi si potrebbe discutere anche sulla saggezza degli italiani alle politiche, visto che per mezzo secolo i comunisti non avrebbe in nessun caso potuto guidare un paese dell'Occidente e il ventennio berlusconiano è stato in gran parte frutto degli errori del centrosinistra. Nelle due uniche occasioni in cui la sinistra ha trovato un progetto unitario e un leader consistente, Romano Prodi, il berlusconismo è stato sconfitto. Ma questo è un altro discorso.

«Il procuratore generale di Palermo spiega quali sono le vere ragioni per cui la Costituzione viene stravolta».

Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2016 (p.d.)


Pubblichiamo stralci dell'intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, al seminario sulla Riforma della Costituzione al Palazzo di Giustizia di Palermo il 22 novembre scorso.

Questa riforma costituzionale non è affatto una revisione della Costituzione vigente, cioè un aggiustamento di alcuni meccanismi della macchina statale per renderla più funzionale, ma con i suoi 47 articoli su 139 introduce una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente (...). Una diversa Costituzione che modificando il modo in cui il potere è organizzato, ha inevitabili e rilevanti ricadute sui diritti politici e sociali dei cittadini, garantiti nella prima parte della Costituzione. Basti considerare che, ad esempio, la riforma abroga l’art. 58 che sancisce il diritto dei cittadini di eleggere i senatori, e con ciò stesso svuota di contenuto l’art. 1 della Costituzione, norma cardine del sistema democratico che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (…) Questo potere sovrano fondamentale per la vita democratica, viene tolto ai cittadini e attributo alle oligarchie di partito che controllano i consigli regionali (…).

I fautori della riforma focalizzano l’attenzione e il dibattito pubblico sulla necessità di ridimensionare i poteri del Senato eliminando il bicameralismo paritario, questione sulla quale si può concordare in linea di principio, ma glissano su un punto essenziale: perché pur riformando il Senato avete ritenuto indispensabile espropriare i cittadini del diritto-potere di eleggere i senatori? (…) Dunque secondo voi la ricetta migliore per curare la crisi della democrazia e della rappresentanza, è quella di restringere ancor di più gli spazi di democrazia e di rappresentanza? (...) Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma la disattivazione del ruolo delle minoranze, condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa. E ciò nonostante che nell’attuale panorama politico multipolare, le minoranze siano in realtà la maggioranza reale nel Paese, assommando i voti di due terzi dei votanti a fronte del residuo terzo circa, ottenuto dal partito del capo del governo. (...)

Azionando sinergicamente tali leve, il gruppo nell’assenza di ogni valido controbilanciamento è in grado di esercitare un potere politico-istituzionale di supremazia sugli apparati istituzionali nei quali si articola lo stato: dalla Rai, alle Partecipate pubbliche, agli enti pubblici economici, alle varie Authority, ai vertici delle Forze di Polizia, dei Servizi segreti (...).

Se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare. Si sostiene infatti che questa riforma sarebbe finalizzata a tagliare i costi della politica e necessaria e urgente per risolvere i problemi del Paese. La Ragioneria dello Stato ha stimato il risparmio di spesa conseguente alla riforma del Senato pari a 57,7 milioni di euro, una cifra ridicola rispetto al bilancio statale, e che potrebbe essere risparmiata in mille altri modi con leggi ordinarie senza alcuna necessità di stravolgere la Costituzione. Per esempio tagliando i costi della corruzione e della evasione fiscale, invece di tagliare la democrazia. (…) Non basta. Gli uffici studi del Parlamento hanno documentato quanto sia priva di fondamento nella realtà la narrazione dei sostenitori del Sì secondo cui il bicameralismo paritario avrebbe enormemente dilatato i tempi di approvazione delle leggi a causa della navetta tra la Camera e il Senato, quando una delle due Camere apporta modifiche ai progetti di legge approvati dall’altra. In questa legislatura sono state sino a oggi approvate 250 leggi di cui ben 200, pari all’80%, senza navetta parlamentare e solo 50 pari al 20% con rinvio di una Camera all’altra, a seguito di modifiche. (...)

Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella Seconda Repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso? La risposta a questa domanda presuppone che si abbia ben chiaro quali siano gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un Paese e che sono essenzialmente tre. La potestà monetaria, cioè il potere di emettere moneta e obbligazioni di Stato. La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite. (…) Il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute a Commissione europea, Bce (e per certi versi al Fondo monetario internazionale) privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario (...).

Una esemplificazione concreta e recente (...) è lettera strettamente riservata che in data 5 agosto 2011, il presidente della Bce inviò al presidente del Consiglio italiano,dettandogli una analitica agenda politica delle riforme che il governo e il Parlamento italiano dovevano approvare, specificando anche i tempi e gli strumenti legislativi da adottare. (…) Tutte le leggi indicate dalla Bce sono state approvate in tempi rapidissimi con un doppio passaggio parlamentare: la Salva-Italia di Monti e Fornero in appena 16 giorni; la legge costituzionale sul pareggio di bilancio obbligatorio fu approvata addirittura in 5 mesi (con 4 votazioni Camera-Senato-Camera-Senato) (…).

Nella relazione che accompagna il disegno di legge di riforma costituzionale, si legge testualmente che questa riforma risolverà tutti i problemi del paese, rimediando “l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio”. (...) In altri termini l’abrogazione del diritto dei cittadini di eleggere i senatori e, in buona misura, i deputati, nonché il travaso di potere dal Parlamento al governo che costituiscono il cuore e il nerbo della riforma, vengono invocati per assicurare la migliore consonanza ai diktat della Commissione europea, della Bce e alle pretese dei mercati. (...) I riformatori affermano di essere proiettati nel futuro, ma a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’ avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico (...). Quella triste stagione della storia è stata archiviata grazie alla Costituzione del 1948 che resta, oggi come ieri, l’ultima linea Maginot per la difesa della democrazia e dei diritti. Una Costituzione che nessuno ci ha regalato, che è costata lacrime e sangue.

Parole semplici per spiegare in modo comprensibile a tutti perche votare NO, nonostante la nuvola di menzogne sollevata da chi comanda.

LiguriTutti, 23 novembre 2016 (c.m.c.)

Non ho nessuna pretesa di dare lezioni. Di scrivere un breviario per il referendum. Ecco semplicemente alcune delle ragioni per cui voterò “no”.

Con una premessa: non si dovrebbe votare “sì” oppure “no” pensando alla sorte di Renzi (è stato il premier, bisogna ricordarlo, a cercare di personalizzare il voto). Qui è in gioco soltanto la Costituzione che è molto più del destino politico di Renzi, della sorte di un partito o di una coalizione.

La Costituzione è il destino di tutti noi cittadini.

Le premesse

Non voterò mai “sì” a una Riforma dove sta scritto nero su bianco che i cittadini non sono tutti uguali. Anzi, che io valgo meno di un altoatesino o un valdostano (che magari non si sentono nemmeno italiani).

Nel nuovo senato infatti la Val d’Aosta che ha 150mila abitanti avrà due senatori. Esattamente come Liguria, Marche, Umbria, regioni che di abitanti ne hanno anche un milione e mezzo. E’ pura matematica: i valdostani hanno un senatore ogni 75mila abitanti. Liguri, marchigiani ecc hanno un senatore ogni 750mila abitanti.

Cioè per la Costituzione un ligure vale un decimo di un valdostano. Basterebbe questo per farmi votare “no”.

Ma c’è molto altro.

Il metodo


Il Governo che rappresenta il potere Esecutivo, non dovrebbe occuparsi della Costituzione (massimo atto del potere Legislativo). Quando nacque la nostra Costituzione del 1948 l’allora premier Alcide De Gasperi partecipò soltanto una volta ai lavori della Costituente. L’attuale Riforma invece nasce addirittura per iniziativa del Governo.

La Costituzione del 1948 rappresentava l’unità del Paese. Quella di oggi la divisione.

La Riforma è stata portata avanti da un Parlamento e un Governo eletti con una legge bocciata dalla Corte Costituzionale. Non solo: si tratta di un Governo guidato da un premier non eletto. E soprattutto di una maggioranza opposta a quella votata dagli italiani nel 2013.

L’approvazione del testo della Riforma è frutto di forzature che di fatto hanno messo a tacere l’opposizione. Alcuni articoli sono stati “liquidati” in un paio d’ore. Un regolamento condominiale richiede più tempo.

I padri costituenti del 1948 – vedi il tanto citato Calamandrei – sono stati sostituiti da figure come Denis Verdini.

Non è vero che “ce lo chiede l’Europa” (e comunque la Costituzione è nostra, e non dell’Europa, degli Stati Uniti o di Jp Morgan). L’Europa vorrebbe piuttosto che l’Italia sconfiggesse la corruzione con norme più severe, che estirpasse la piaga delle mafie o quella dell’evasione fiscale.

Il contenuto

La Riforma cancella il bicameralismo perfetto, ma non il Senato. Proprio come le Province che continuano a esistere.

Il Senato non sarà più elettivo. Siamo sempre meno cittadini. Prima ci hanno tolto il voto per i consiglieri provinciali, adesso anche per i senatori.

In Senato siederanno sindaci e consiglieri regionali che hanno già compiti di grande impegno e responsabilità. Impossibile svolgere contemporaneamente in modo adeguato le due funzioni.

Grazie alla Riforma sindaci e consiglieri regionali – ricordiamo i tanti scandali che hanno toccato le nostre regioni? – godranno di immunità.

Non è vero che la Riforma semplifica, è vero anzi il contrario. Il nuovo articolo 70 (oltre 400 parole invece di 9) prevede fino a tredici iter diversi per l’approvazione delle leggi.

Non è vero che il bicameralismo perfetto paralizza il Parlamento: ogni anno in Italia si approvano più leggi che negli altri paesi europei.

Non è vero che le leggi restano bloccate tra Camera e Senato: su 240 leggi approvate in un anno ben 180 sono passato in prima lettura. Cioè dopo un solo passaggio.

E’ un bene che alcune leggi particolarmente delicate abbiano due letture.
Già adesso ci sono leggi che – purtroppo – sono state approvate con la massima velocità: vedi la legge Fornero (16 giorni). Se i partiti lo vogliono, le leggi procedono spedite.

La “vecchia” Costituzione non è la causa della scarsa governabilità italiana. Soltanto sette governi nella storia repubblicana sono caduti per un voto contrario in Parlamento. Gli altri hanno dovuto soccombere a causa della crisi dei rapporti tra i partiti che li sostenevano.

La Riforma, dice Renzi, taglierà i costi della politica di 500 milioni. Secondo la Ragioneria dello Stato, invece, non arriviamo a 60. Il solo referendum ne costa 300, cinque volte tanto. E comunque sarebbe bastata una legge per ottenere gli stessi risparmi. Non serviva modificare la Costituzione.

E’ giusto tagliare i costi della politica, diverso – e sbagliato – è ridurre i costi della democrazia. Che garantiscono a tutti noi di essere rappresentati e tutelati. Di avere voce e non essere dimenticati.

La Riforma non solo depotenzia il Senato. Ma rende in parte la Camera suddita del Governo che potrà indicare quali provvedimenti dell’Esecutivo dovranno essere oggetto di lettura con tempi certi. In pratica il Governo potrà dettare l’agenda alla Camera dicendo di cosa occuparsi (e di cosa, conseguentemente, non occuparsi) «Adesso o mai più», dice il ministro Boschi. Niente di più falso. Referendum costituzionali ne abbiamo già fatti altri due negli ultimi quindici anni. Di riforme costituzionali ne abbiamo fatto decine. Nulla vieta di proporne altre – i testi sono già pronti – appena dopo il referendum.

Considerazioni politiche

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Questa riforma è stata sostenuta da un’alleanza improponibile che va da Angelino Alfano a Denis Verdini.
Chi occupa posizioni di potere in Italia, come nelle nostre città, vota spesso “sì”.

Dagli industriali, agli attori che sperano in contratti Rai, passando per tutto quel “sottobosco” che vive di nomine e incarichi pubblici. Viene quindi un dubbio: le riforme dovrebbero garantire rinnovamento e alternanza, dare voce a chi ne ha meno, ma qui paiono tanto care a chi il potere lo ha già. E cerca di conservarlo. Ecco il grande paradosso di questa sedicente riforma che invece conserva.

Insomma, chi vuole cambiare farebbe meglio a votare “no” e a difendere la ‘vecchia’ Costituzione.

Cittadini o prostitute? Sia detto con il massimo rispetto per chi fa una vita tanto difficile e dolorosa. Ma viene un dubbio: sabato Matteo Renzi tornerà per l’ennesima volta a Genova con il paniere carico di promesse e denari. Speriamo che non si illuda di comprare il nostro consenso al referendum con i soldi. La Costituzione e il voto libero non si vendono per quattro denari…

Post scriptum

La vecchia cara Costituzione è stata alla base di grandi conquiste che tanti paesi ci invidiano. Dalla riforma sanitaria al diritto di famiglia. Per non dire della rinascita del Dopoguerra che ha portato l’Italia tra le potenze economiche mondiali.

La Costituzione ha permesso tutto questo. Forse prima di cambiarla bisognerebbe conoscerla e applicarla. E magari cambiare un poco noi stessi.

Se volete votare come persone e non come buoi leggete l'intervento di Salvatore Settis a un convegno sull’erosione delle democrazie promosso al Parlamento Europeo da Barbara Spinelli.

Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2016 (p.d.)

Il combinato disposto fra nuova legge elettorale (Italicum) e riforma costituzionale mostra la chiara intenzione di far leva sull’astensionismo per controllare i risultati elettorali, restringendo de facto la possibilità dei cittadini di influire sulla politica. La nuova legge [che è già in vigore - n.d.r] incorre nelle stesse due ragioni di incostituzionalità del defunto Porcellum. Prevede un premio di maggioranza per la lista che superi il 40% dei voti, e ammettiamo pure che sia ragionevole. Ma se nessuna lista raggiunge questa soglia, si prevede il ballottaggio fra le due liste più votate, delle quali chi vince (sia pure per un solo voto) conquista 340 seggi (pari al 54%). Se, poniamo, le prime due liste hanno, rispettivamente, il 21 e il 20%, e al ballottaggio prevale una delle due, a essa toccheranno tutti e 340 i seggi di maggioranza. Inoltre i deputati nominati dai partiti e non scelti dagli elettori potrebbero essere fino a 387 (il 61%). Continuerà dunque l’emorragia degli elettori, sempre meno motivati a votare visto che scelgono sempre meno. Ma questa crescente disaffezione dei cittadini è ormai instrumentum regni: anziché puntare su un recupero alla democrazia rappresentativa dei cittadini che in essa hanno perso ogni fiducia, si tende a far leva sull’astensionismo per meglio pilotare i risultati elettorali.

Nella stessa direzione vanno alcuni aspetti della proposta di riforma costituzionale. Essa è assai complessa, riguardando ben 47 articoli sui 139 della Costituzione (un terzo), e perciò la sua stessa estensione (3000 parole) è di per sé una scelta poco democratica, perché rende difficilissimo al cittadino studiarne ogni aspetto, e praticamente impossibile pronunciarsi consapevolmente con un ‘sì’ o un ‘no ’ (...). Esso assume in tal modo un carattere fiduciario e plebiscitario, che espropria i cittadini della propria individuale ragion critica, e chiede loro di pronunciarsi a favore sulla base degli slogan martellati dal governo.

Una volta assicurata alla Camera dei deputati una maggioranza forte al partito di governo (con la legge elettorale), il Senato viene neutralizzato abolendone l’elettività e trasformandolo in un’assemblea di sindaci e consiglieri regionali che ne saranno membri part-time. Poco importa che gli Statuti di alcune Regioni vietino espressamente ai loro consiglieri regionali di ricoprire qualsiasi altro incarico pubblico; (...) che il nuovo Senato sia a composizione variabile (i suoi membri scadono uno per uno, via via che decadono dal loro incarico regionale o comunale); che l’intricatissimo art. 70, combinato con altri (art. 55) preveda una moltitudine di interazioni Camera-Senato che, a parere di 11 ex presidenti della Corte costituzionale, porteranno a una paralisi del processo legislativo.

Le complicazioni procedurali (presentate come “semplificazioni”), la moltiplicazione dei percorsi di approvazione delle leggi,i potenziali conflitti di competenza avranno per effetto di rendere arduo e lento il funzionamento del Parlamento, con ciò favorendo di fatto la supremazia del governo e il suo potere.

Non è stato dunque abolito il Senato, ma i suoi elettori (cioè i cittadini).Lo stesso è accaduto a livello territoriale con la cosiddetta abolizione delle Province, che di fatto sopravvivono come circoscrizioni amministrative, quanto meno con la figura del Prefetto, funzionario del governo che continua ad avere in ogni capoluogo di provincia funzioni importanti, anzi accresciute dalla legge Madia (al punto di potersi anche sostituire al parere tecnico dei Soprintendenti in materie delicate come gli illeciti paesaggistici). Anche in questo caso, non è la provincia che è stata abolita, bensì i cittadini della provincia. (...).

Con questi e altri artifizi, la nuova proposta di riforma costituzionale accresce i poteri del governo allontanando gli elettori dalla politica, diminuendo le istanze in cui i cittadini sono chiamati a esprimersi, riducendo l’autorevolezza del capo dello Stato. Temi, questi, che non risultano in alcun modo dalla scheda approntata per il quesito referendario, che riproduce il titolo, abile perché manipolatorio, della legge di riforma.

Per questo il referendum del 4 dicembre sarà un test importante e rivelatore. Ci mostrerà se sta prevalendo in Italia un’idea di politica come meccanismo chiuso e privilegiato che garantisca la governabilità limitando lo spazio della democrazia;ovvero un’idea di democrazia partecipata, dove moltiplicare e non ridurre le istanze di partecipazione attiva dei cittadini, di espressione del voto, di scelta dei candidati, incrementando e non demolendo la forma-partito con la sua democrazia interna, diffondendo informazioni corrette e non manipolate, puntando sulla coscienza critica dei cittadini e non sulla loro obbedienza.

«Questo testo è l’intervento inviato all’Anpi di Perugia. Ai più giovani ricordiamo che Aldo Tortorella è stato uno dei dirigenti del PCI più vicini a Enrico Berlinguer. Una breve scheda biografica del partigiano Aldo Tortorella la trovate sul sito dell’ANPI».

Rifondazione,online 24 novembre 2016 (c.m.c.)

Care compagne e cari compagni, un malanno invernale, complice l’età, mi impedisce di essere oggi con voi come avrei desiderato per dirvi innanzitutto tutta la mia indignazione per il modo con cui si viene svolgendo questa campagna referendaria da parte di coloro che oggi hanno il governo del Paese.

Trovo scandaloso che i pubblici poteri siano impegnati ad alimentare con ogni mezzo compresi quelli meno leciti una campagna di disinformazione e di falsità. La televisione in ogni ora del giorno e della notte è occupata da questo presidente del consiglio il quale con tutti i problemi che ci sono non ha altro da fare che saltare da un programma all’altro o da un palco all’altro palco a far la sua propaganda e a propagandare se stesso. Più che un uomo di governo abbiamo un attore televisivo, oltre che uno studente bocciato dal suo professore di diritto costituzionale.

Dire che il maggiore problema della repubblica è la presunta lentezza legislativa dovuta al bicameralismo è una favola. In Italia si fanno anche troppe leggi e il guaio è che spesso sono leggi sbagliate. E molte leggi sbagliate sono state e vengono approvate anche troppo rapidamente come è accaduto e accade alle leggi governative definite decreti d’urgenza. Il primato spetta alla sciagurata legge Fornero sulle pensioni approvata in 16 giorni. Tutti i decreti-legge di questo governo sono passati in meno di 44 giorni. Il presidente del consiglio dunque mente sapendo di mentire quando dice che vuole questo stravolgimento della Costituzione per fare presto. Ha fatto anche troppo presto con molte misure dannose per i lavoratori e per il paese.

Sono le leggi di iniziativa parlamentare ad andare lentamente ma il motivo sta non nel bicameralismo ma nelle liti interne alle maggioranze. Un esempio: la legge anticorruzione d’iniziativa parlamentare ha impiegato 798 giorni per essere approvata e cioè due anni e due mesi e si capisce perché: non andava mai abbastanza bene a questo o a quel gruppo di maggioranza. Due anni e due mesi per annacquarla e sciacquarla fino a renderla la più innocua possibile.

La verità è che si vuole una Camera che conti eletta con sistema ultramaggioritario per dare più potere al governo di imporre la propria volontà sopra e contro la rappresentanza popolare. Questa contro riforma della Costituzione stabilisce che il governo ha la priorità su tutte le leggi del suo programma e non più solo sui decreti d’urgenza e ha il potere di fissare il tempo massimo di discussione, 70 giorni. Con questo sistema inaudito in qualsiasi regime liberal-democratico il governo diventerebbe il padrone della rappresentanza parlamentare a sua volta truccata. Già oggi la Camera è eletta con un sistema maggioritario, quello del porcellum, che ha dato la maggioranza assoluta alla coalizione di centro sinistra arrivata di poco avanti alla destra. E la nuova legge elettorale già in vigore è ancora peggio, anche se ora si sono accorti che può essere disastrosa.

Dopo avere giurato sulla sua bontà e averla imposta con tre voti di fiducia ora dicono di volerla cambiare, ma senza toccare il maggioritario. Per difendere la loro controriforma , dicono anche il Pci alla costituente era per una sola camera. Certo, ma con il parlamento “specchio del Paese” e cioè con la legge elettorale proporzionale. E poi il Pci accettò il bicameralismo perché intese che era una garanzia in più nel duro periodo che si veniva aprendo con la rottura dell’unità antifascista e con la guerra fredda iniziata proprio nel 1947, mentre si lavorava alla Costituzione. E comunque, secondo il Pci, il Senato doveva essere eletto dal popolo.

Dunque il presidente del consiglio imbroglia sapendo di imbrogliare quando dice che non ha toccato i poteri del presidente del consiglio. Non li ha toccati perché ha toccato e esaltato il potere del governo e dunque del capo partito che lo guiderà. Già oggi lui governa come espressione di una minoranza del 29 per cento dei voti contro le opposizione che rappresentano il doppio. E con la sua controriforma, domani, un capo partito che può essere un qualsiasi seguace nostrano di Trump o di Le Pen o qualche altro avventuriero può ancor più di lui spadroneggiare l’Italia.

Con le mani di un partito formalmente di centro sinistra si prepara la via al peggio, come successe negli anni 20 del ‘900 al Parlamento della Repubblica democratica di Weimar nata dal crollo dell’impero tedesco seguìto alla prima guerra mondiale. Essendoci molti disordini di piazza, il Parlamento democratico tedesco stabilì che in caso di stato d’eccezione le garanzie costituzionali potevano essere sospese. La coalizione nazista vinse le elezioni, decretò lo stato d’eccezione e iniziò la propria criminale avventura. Diceva un proverbio antico che Dio fa impazzire coloro che vuol perdere. In questo caso, però, la colpa non è di Dio, ma di chi dà ascolto a questi scriteriati saltimbanchi del potere per il potere o a quelli che usano i soldi per il potere e il potere per i soldi.

E non è meno scandaloso dire che si sopprime il Senato, quando non lo si sopprime affatto ma lo si ridicolizza trasformandolo in una Camera di consiglieri regionali e sindaci a tempo perso, in più gravandolo di compiti cosi confusi che i costituzionalisti prevedono forieri di guai. Si dice che così si vuole dar voce ai territori: ma nello stesso tempo si stabilisce che lo stato di guerra adesso sarà deciso dall’unica Camera , cioè da un partito minoritario e dal suo capo. Si vede che in caso di guerra i territori non devono aver niente da dire.

Si sparano cifre assurde di risparmi inesistenti, smentiti dalla ragioneria generale dello stato. Si conduce una campagna qualunquista contro quelli che non vogliono perdere le poltrone, ma io che vi scrivo adesso non ho alcuna poltrona da perdere o da conquistare. Ho solo avuto da conquistare qualche malanno aggirandomi per l’Italia a testimoniare contro questa bruttura, perché penso a chi la Costituzione l’ha conquistata e ci ha lasciato la vita o a chi ha speso tutta l’esistenza a difenderla e ora non può più farlo.

I guai dell’Italia non dipendono dalla Costituzione. Con questa Costituzione abbiamo ricostruito l’Italia garantendone, nel bene e nel male, lo sviluppo, abbiamo conquistato diritti sociali e civili. I guai dell’Italia dipendono piuttosto dal fatto che il programma costituzionale è stato sempre combattuto e in larga misura è rimasto inapplicato. Per cinquant’anni l’Italia è stata una democrazia dimezzata dalla convenzione imposta dall’estero per escludere il più forte partito d’opposizione dal governo, anche quando nessun governo si poteva fare senza i suoi voti. Ma l’obiettivo vero era un altro, era proprio quella Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro e va oltre la eguaglianza formale, pur indispensabile, impegnando lo Stato a rimuovere “gli ostacoli economici e sociali” che limitano di fatto libertà ed eguaglianza, e così statuendo il principio dell’uguaglianza sostanziale.

Di qui viene l’affermazione del lavoro non più come una merce, ma come un diritto da garantire, viene il criterio della retribuzione da adeguare in ogni caso ad una vita libera e dignitosa, viene la indicazione del compito sociale, cioè non egoistico, della stessa proprietà privata. Ecco lo scandalo: questa Costituzione esalta il lavoro e non il capitale. E ciò avvenne perché i costituenti, pur divisi da differenti visioni politiche, venivano in grande maggioranza dalla lotta antifascista e sapevano che il fascismo era stato una creatura incoraggiata, promossa e sostenuta innanzitutto dal capitale finanziario, industriale e agrario.

Fin dai primi anni questa Costituzione fu definita “una trappola” da parte delle forze più conservatrici. E la storia dei primi cinquant’anni di vita repubblicana è segnata, come in nessun altro paese occidentale, da una ininterrotta scia di eversione e di sangue per spiantare questa possibile nuova democrazia: dallo stragismo nero al terrorismo detto rosso che con l’assassinio di Moro compì il capolavoro di portare a compimento il proposito della destra con le mani di supposti rivoluzionari di sinistra. Con quel delitto cadeva il tentativo estremo di Berlinguer e di Moro di dare compiutezza alla democrazia italiana e iniziava il declino.

Ci raccontarono un quarto di secolo fa che il sistema elettorale maggioritario avrebbe dato stabilità, risolto problemi annosi, eliminato i piccoli partiti. Ma i fatti sono stati un ventennio di berlusconismo e l’aggravamento di tutti i problemi, dal debito alla disoccupazione. E mai ci sono stati tanti partiti in Parlamento e così pochi militanti fuori, mai c’è stato un tale trasformismo tra deputati e senatori. Ora c’è l’attacco finale alla Costituzione perché, dicono, offre troppe garanzie. E dicono che si smantella la seconda parte della costituzione ma si salvano i principi della prima parte. Ma questo è un discorso per allocchi.

La seconda parte della Costituzione è l’applicazione della prima. La sovranità popolare si restringe ancora di più con l’accentramento del potere, i principi sociali già calpestati diventano sempre più carta straccia. Ma ci dicono che anche la destra dice di votare no. Certo. E noi facemmo la lotta di liberazione antinazista e antifascista anche con i monarchici. La Costituzione è di tutti, non proprietà di partito. E si dovrebbe essere lieti che proprio quelli della destra che hanno sempre attaccato la Costituzione oggi sono costretti a difenderla perché ne riconoscono finalmente il valore anche per loro, ora che si sentono in minoranza. E c’è piuttosto da temere che dicano di votare no, ma pensino e facciano il contrario, seguendo i Verdini e gli Alfano.

All’origine della stretta autoritaria, voluta non solo in Italia dai ceti più retrivi, sta il fatto che non si riesce a uscire dalla crisi: dalla lunga crisi iniziata dopo gli anni settanta e da quella che rischiava di essere catastrofica iniziata nel 2007. La vittoria globale del capitalismo non ha portato a spegnere i suoi problemi, ma a complicarli.

La globalizzazione crea nuovi squilibri e nuovamente torna la tendenza, come dopo la crisi del 29, alle chiusure nazionaliste, allo sciovinismo, alle guerre. Allora fu la Germania a imboccare la via della razza eletta, adesso il razzismo, per ora a fini interni, ha vinto negli Usa. Alle porte dell’Italia, oltre il mare, c’è la guerra generata dalla ripresa di velleità egemoniche dei paesi nostri alleati nelle terre del petrolio. Centinaia di migliaia di morti, milioni di disperati e di profughi. Ecco il motivo della stretta istituzionale, ecco il pericolo.

Il mio cammino personale è al termine, e dunque non ho nulla da temere ma temo per questi giovani di oggi. Altro che lavoro come diritto, salario dignitoso, istruzione elevata. E il rischio, in tanta frustrazione, è la possibilità che vengano cacciati in nuove avventure. Ho negli occhi le manifestazioni giovanili per la guerra in Germania e in Italia nel 39 e nel 40, pagate poi con la catastrofe loro e di tutti. Le organizzavano i fascisti, ma trascinavano i molti. E non credo eccessivo l’allarme quando al fanatismo della setta dell’ISIS si risponde con il fanatismo antimusulmano nelle manifestazioni con Trump. O con il fanatismo antiimmigrati di certi ceffi nostrani o di quel paesino di una terra che fu rossa.

Sono solo i sintomi piccoli e grandi di una malattia che si aggrava. Mai come oggi è necessario il massimo di garanzie. Salvare la Costituzione è indispensabile, anche se non basta. Si dice che chi difende la Costituzione è un passatista. E lo dicono questi nuovisti che hanno combinato solo guai. L’attacco alla Costituzione è in realtà una volontà di ritorno al passato, quando chi comandava era sicuro di non essere disturbato. Oggi dire di no è il migliore modo di dire di sì all’avvenire, è l’unico modo di tenere aperta le porte alla speranza.

«La legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili, ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO con palese violazione sia della sovranità popolare e sia della libertà di voto ».

coordinamento democraziacostituzionale,online 22 novembre 2016 (c.m.c.)

I sottoscritti avvocati del Foro di Pisa, con riferimento alla riforma della Carta costituzionale approvata dal Parlamento, al di là dei loro diversi orientamenti culturali e politici, ritengono loro dovere civico spiegare ai cittadini i motivi per i quali intendono votare NO al referendum indetto per il 4 dicembre 2016, nella comune consapevolezza della funzione pubblica e sociale della professione forense.

In primo luogo ritengono che la cosiddetta “Riforma Boschi” approvata a stretta maggioranza ed utilizzando tutti i possibili ed immaginabili espedienti regolamentari è stata decisa da un Parlamento sul quale gravano pesanti dubbi di legittimazione, a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 13 gennaio 2014 con cui è stata cassata la legge elettorale (il cosiddetto Porcellum) in base alla quale era stato eletto.

In secondo luogo perché la legge di riforma è un insieme disomogeneo di modifiche della Carta costituzionale che riguardano ben 47 articoli che trattano temi del tutto dissimili., ai quali l’ elettore è chiamato a dare un semplicistico SI o NO a prescindere dalle diverse materie trattate, con palese violazione sia della sovranità popolare (art. 1 Cost.) e sia della libertà di voto (art. 48 Cost.).

Inoltre la riforma è frutto di un’ iniziativa governativa e non parlamentare come avrebbe dovuto essere nello spirito del nostro sistema costituzionale (non dimentichiamo che Calamandrei disse che quando si approva la Costituzione i banchi del governo avrebbero dovuto essere vuoti) giacchè la Costituzione rappresenta la legge fondamentale della Repubblica che non può ridursi ad un atto di parte, atto tra l’ altro non previsto dal programma con il quale coloro che lo hanno votato si erano presentati alle elezioni.

Siffatta tecnica legislativa ha di fatto svilito la approvazione della riforma della Costituzione al livello dell’iter di una legge ordinaria, dove sono prevalsi interessi di parte ed un indegno mercato finalizzato ad ottenere risicate maggioranze, con la conseguente esistenza di strafalcioni letterali e giuridici che ne rendono il testo di difficile e controversa lettura anche per i tecnici del diritto.

La riforma, nel merito, viola il diritto all’ elettorato attivo come forma dell’ esercizio della sovranità popolare (art. 1 comma 2 Cost.) giacchè il Senato non è espressione di elezione diretta, ma frutto di un’ elezione di secondo grado e/o indiretta (e neppure per tutti i suoi componenti).

L’ iter di approvazione delle leggi, contrariamente a quanto viene ripetuto, non comporta alcuna semplificazione dei procedimenti legislativi, che passano dai tre attuali ad un numero imprecisato, con evidente rischio non già di accelerare, come vorrebbero far credere i sostenitori del SI, ma di complicare la tempistica dei provvedimenti.

Altri punti che fanno sì che la riforma appaia peggiorativa della carta costituzionale sono, sinteti- camente, i seguenti:

1. Inspiegabile allargamento ai senatori-sindaci e/o consiglieri regionali della immunità parlamentare, che si estenderebbe anche alla loro prevalente funzione di amministratori locali.

2. La violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza a fronte della sproporzione tra il numero dei deputati (630) e quella dei senatori (95).

3. La confusionaria attribuzione di competenze legislative dalle regioni ordinarie allo Stato per una cinquantina di materie con rischio perenne di conflitto di attribuzioni e con la cer- tezza che verrà sottratto alle popolazioni interessate ogni possibilità di giudizio su scelte determinanti la qualità dell’ ambiente in cui vivono.

4. L’ aumentata disparità tra le regioni ordinarie, le cui attribuzioni vengono ridotte, e le regio- ni a statuto speciale che mantengono le attuali funzioni.

5. L’ inspiegabile ed illogico riparto del numero dei senatori in riferimento alle singole regioni.

6. L’ aumento da 50.000 a 150.000 firme per l’ iniziativa legislativa popolare e la contraddittoria presenza di due forme di referendum abrogativo in base al numero delle firme raccolte con la trasparente mira di seppellire definitivamente ogni forma di partecipazione attiva dei cittadini al processo legislativo.

Infine il potenziale effetto esplosivo tra la riforma costituzionale così come è proposta e l’ attuale legge elettorale (il cosiddetto Italicum) che potrebbe portare una forza politica ampiamente minoritaria nel paese ad ottenere una schiacciante maggioranza in parlamento, parlamento che sarebbe composto prevalentemente da nominati dal capo partito della forza politica che vince il ballottaggio a prescindere dall’ entità del suo reale consenso elettorale.

Su queste questioni e quindi sul rischio che comporterebbe per le nostre istituzioni l’approvazi one della “riforma Boschi-Verdini” si sono già espressi i maggiori costituzionalisti italiani, l’ ANPI e la CGIL.

Tutti coloro che hanno esaminato con attenzione la legge costituzionale ed insieme ad essa la legge elettorale, strettamente collegata alla prima, hanno convenuto che essa porterebbe ad un restringimento dei meccanismi di democrazia, se non addirittura ad una decisa svolta autoritaria.

I sottoscritti rivolgono quindi ai colleghi un caloroso appello perché prevalga lo spirito della Costituzione vigente senza cedere alle lusinghe di chi millanta pretesi stimoli di modernità e governabilità, senza preoccuparsi dei danni che la riforma potrebbe provocare al nostro ordinamento democratico, patrimonio di tutti noi e che tutti noi abbiamo il dovere di difendere.

Claudio Bolelli
Stefania Mezzetti
Roberto Vallesi
Christian Piras
Daniela Parrini
Giulio Giraudo
Sandro Pardossi
Tiziano Checcoli
Michela Simoncini
Gina Russo Amabile
Chiarini Massimo
Mosca Alessandro Zarrae
Guido Bolelli
Ezio Menzione
Francesco Guardavaccaro
Michele Teti
Michele Cioni
Ornella Aglioti
Clara Fanelli
Sergio Coco
Andrea Callaioli
Anna Russo
Valentina De Giorgi Cristina Piolimeno Lionello Mazzoni
Luca Canapicchi
Chiara Persichetti

Ecco alcuni degli strumenti che una volpe con denti di lupo sta adoperando per consolidare il potere carpito. Ma si dovrebbe parlare anche delle intimidazioni, dei ricatti, e dei silenzi omertosi. Nonché del capo dello Stato.

il manifesto, 24 novembre 2016

Davvero vincesse il no, la prova referendaria avrebbe del clamoroso: la sconfitta dell’uomo solo al (tele) comando. Un popolo che non si lascia incantare dai simboli del potere smentirebbe taluni assiomi sugli effetti narcotizzanti dei media. La testa delle persone rimane pur sempre la cosa più inespugnabile per le agenzie del potere che dispongono di media, denaro, indirizzi privati.

Lo schieramento dei media, messo in campo dal governo per orientare l’esito del referendum, è impressionante. Le distorsioni cognitive ricercate dai canali dell’informazione sono palesi ed evocano consuetudini manipolatorie d’altri tempi.

La confezione dei telegiornali obbedisce ad una precisa strategia di persuasione per la determinazione delle preferenze di voto. Nelle reti pubbliche si raggiunge un livello pervasivo di propaganda a favore del capo di governo (l’unico che è ripreso mentre parla ad un pubblico che plaude) e di annebbiamento delle altre posizioni in campo (quasi mai associate a manifestazioni con gente in carne ed ossa). L’uso manipolatorio dei media rientra nel clima di un plebiscito che accarezza la maggioranza silenziosa disponibile all’acclamazione.

Nelle reti pubbliche senza alcuna garanzia di contraddittorio, Renzi monopolizza qualsiasi spazio dell’informazione per cercare una estrema resistenza al potere.

I servizi dei telegiornali riprendono il capo solitario che parla, gesticola, imita, insulta. E per un tempo illimitato è lui solo che recita e occupa la scena di qualche teatro tramutato in un non-luogo che ovunque mostra le stesse scatole. All’esibizione del leader, riprodotta in video per interminabili secondi, segue un minestrone, con un infinito collage di citazioni spesso banali dei nemici. Lo schema è ben collaudato: la prima notizia è sempre il capo che, nella sua ubiquità, si propone come simbolo di vivente energia, contro tutti gli altri, richiamati solo in un secondo tempo con l’assemblaggio pigro di anonime veline.

Non è casuale questo impianto scenografico che si ripete ossessivamente grazie alle telecamere amiche che seguono ogni spostamento del premier e possono farlo solo mescolando con astuzia funzione politica e carica di governo. L’accozzaglia, di cui parla Renzi, non è più un concetto astratto, un mero simbolo polemico. Diventa una immagine tangibile e viene mostrata nella sua concretezza dal servizio della Rai che obbedisce a una logica. Solo il capo parla con la sua voce, gestisce i tempi del suo intervento, gli altri che si oppongono sono rumori di fondo riprodotti in un minestrone, spesso insignificanti.

Renzi monopolizza l’intero tempo del si, mentre il minutaggio del no è distribuito in una miriade di voci che vengono ad arte moltiplicate perché così suscitano confusione, eccentricità. E spesso nel calderone delle altre posizioni compare anche Alfano, con il suo sì che inopinatamente si trova ospitato nel calderone dedicato al no. Dietro questa scelta confusionaria risiede una strategia ponderata.

Il capo, con la voce autonoma che si esibisce ovunque, e il coro di voci anonime che fanno da contorno: questo è lo schema. Se a vincere la contesa sarà proprio l’anonimo no, con il coro degli insignificanti attori non protagonisti, a dicembre si realizzerà un miracolo politico. Cioè si avrà una di quelle inattese prove di resistenza popolare al conformismo del potere destinata a fare epoca negli studi di comunicazione. Gli osservatori internazionali non dovrebbero perdere l’occasione di sorvegliare in presa diretta come in una democrazia squilibrata si prova la costruzione di un regime personale.

Così no”di Tomaso Montanari, eBook liberamente scaricabile dal sito di Libertà e Giustizia». Il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2016 (p.d.)

L’articolo 117 riscritto dalla ‘riforma’ Napolitano-Renzi-Boschi riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale”.

Una recente sentenza del Tribunale permanente per i Diritti dei Popoli (una gloriosa istituzione fondata da Lelio Basso, uno dei più insigni Padri costituenti) ha stabilito che in Val di Susa i governi italiani si sono comportati come una potenza di occupazione, militarizzando un territorio cui si voleva (e si vuole) imporre una grande opera strategica di interesse nazionale (proprio come quelle che il nuovo articolo 117 riserva allo Stato). Ebbene, quella sentenza “raccomanda al governo italiano di rivedere la legge Obiettivo del dicembre 2001, che esclude totalmente le amministrazioni locali dai processi decisionali relativi al progetto, così come il decreto Sblocca Italia del settembre 2014 che formalizza il principio secondo il quale non è necessario consultare le popolazioni interessate in caso di opere che trasformano il territorio”. Mail governo italiano, con questa riforma costituzionale, va in direzione diametralmente opposta, costituzionalizzando, di fatto, proprio lo Sblocca Italia: se vincesse il Sì le amministrazioni locali non potrebbero più mettere bocca nelle trasformazioni del loro stesso territorio, in una sorta di colonialismo centralista che contraddice tutta la storia delle autonomie locali, che è la spina dorsale della storia culturale e politica italiana. (...).

Uno dei pochi osservatori dotati di sguardo globale e profetico – papa Francesco – ha scritto (nell’enciclica Laudato si’, maggio 2015): “Bisogna abbandonare l’idea di ‘interventi’ sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità, e non si riduce alla decisione iniziale su un progetto, ma implica anche azioni di controllo o monitoraggio costante”.

Si potrà obiettare che il nuovo Titolo V riserva alla competenza esclusiva dello Stato solo le opere ritenute strategiche: è vero, ma il problema è che sarà il governo a stabilire unilateralmente, e senza possibilità di appello, cosa lo sia. Per esempio: questo governo ha dichiarato di interesse strategico nazionale la realizzazione del nuovo porto turistico di Otranto, nel quale bisognava far entrare le barche di lusso più lunghe di 70 metri care a Flavio Briatore. Siamo, di fatto, alla costituzionalizzazione del cemento (...). Roberto Saviano ha scritto in Gomorra:“La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori.Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio. Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti è ciò su cui poggiano i trascinatori dell’economia italiana”.Ecco, ora ci siamo arrivati davvero: e anche se ci dicono che stiamo andando avanti, veloci verso il futuro, si tratta di un terribile salto mortale in un passato di cui speravamo di esserci liberati per sempre. Un passato in cui “sviluppo” era uguale a “cemento”. In cui per “fare”era necessario violare la legge, o aggirarla. In cui i diritti fondamentali delle persone (come la salute) erano considerati ostacoli superabili,e non obiettivi da raggiungere.

Per andare davvero avanti (...) ci vuole una politica che non abbia paura di costruire il consenso dei territori sui quali ritiene di dover intervenire: avocare tutto al centro significa, invece, ridurre, ancora una volta, gli spazi di democrazia e condannarsi a procedere militarizzando il Paese, sul modello della Val di Susa e del suo Tav.

E poi: dove sta davvero l’interesse strategico nazionale? L’Unica grande Opera utile per questo Paese sarebbe la cura del territorio, la sua messa in sicurezza sismica e idrogeologica: una enorme opera che potrebbe creare finalmente lavoro, oltre a proteggere le nostre vite e a far risparmiare le somme da capogiro che dobbiamo destinare alle ricostruzioni. Ebbene, se i padri ricostituenti avessero scritto nel Titolo V che è l’Unica Grande Opera a rappresentare l’interesse strategico della nazione, se ne sarebbe potuto discutere: ma è davvero intollerabile che siano ancora, sempre e solo i porti, le autostrade e gli inceneritori ad avere la precedenza sulla vera qualità della nostra vita. Il 4 dicembre dovremo ricordarci che su quella scheda, di fatto, c’è scritto: ‘Volete voi che le decisioni cruciali per la salute e la sopravvivenza stessa dei vostri corpi siano prese in un luogo remotissimo da quei corpi? Volete voi la ‘Costituzione del cemento’?’.

«Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza»

. La Repubblica, 24 novembre 2016 (c.m.c.)

Non è facile essere, e restare nel tempo, avversari civili nelle competizioni democratiche. E i leader politici, che occupano lo spazio pubblico, contribuiscono a rendere i toni del discorso incandescenti, soprattutto alla fine delle campagne elettorali o referendarie.

In qualche modo, la retorica populista appartiene a tutti i competitori, che usano il linguaggio della contrapposizione per muovere le emozioni dei votanti e conquistare il consenso degli incerti. Se la maggioranza silenziosa è quella che decide le competizioni, ai politici questa sembra una tattica efficace per destare attenzione e muovere le decisioni. E i mass media sono naturali fagocitatori del metodo dei colpi bassi, sempre alla ricerca di audience.

L’escalation dello scontro è quel che sta avvenendo in questi ultimi giorni di propaganda referendaria. Dopo l’accusa di Renzi agli elettori del No di essere una «accozzaglia» (della quale si è scusato, dopo) tocca a Grillo rovesciare addosso ai cittadini intenzionati a votare Sì l’accusa volgare di essere rappresentati da una «scrofa ferita».

L’uso delle espressioni forti serve, non da oggi, a innervosire l’avversario, a indurlo nel vortice del turpiloquio. Cicerone raccontava di campagne elettorali al vetriolo e di comizi urlati con audience inferocite nel foro della repubblica. Nonostante non ci sia nulla di nuovo quando la politica si regge sulla ricerca libera del consenso dei voti, ogni volta che ci troviamo nel mezzo di una campagna elettorale o referendaria non possiamo fare a meno di sentire il disagio e il disgusto per la decadenza del discorso politico in turpiloquio.

E resistiamo, attoniti, al tentativo dei leader di deragliare il treno della competizione fuori dai limiti della decenza. A Grillo dobbiamo dire che il linguaggio che usa non fa un buon servizio a quella che dice essere la sua causa — al contrario, fa un servizio opposto. Perché come chi vota No non è «un’accozzaglia», chi vota Sì non si alimenta nel trogolo di un porcile.
Che cosa hanno a che fare i cittadini con queste non-ragioni per votare così o cosà? Nulla, proprio nulla. Le parole di Grillo offendono l’impegno civico quotidiano dei cittadini che si sono impegnati in questi mesi nelle piazze, ai banchetti, con il volantinaggio e i dibattiti; offendono non solo chi è per le ragioni del Sì ma anche chi è per le ragioni del No.

Sono anzi oltraggiose proprio per questi ultimi, e per una ragione che non è difficile da capire. Infatti, i cittadini che sono schierati per il No contrariamente agli altri non hanno un leader rappresentativo unico. La loro parte è composta da una pluralità di appartenenze politiche e di non appartenenze politiche; in comune hanno l’opposizione a un progetto di riforma. Le ragioni che li muovono non sono necessariamente le stesse. Questo pluralismo rende ancora più insopportabile l’uso del linguaggio di Grillo.

Questa campagna referendaria può essere identificata come quella del nonostante, una delle preposizioni più usate e trasversali: votare Sì “nonostante” Renzi o nonostante una proposta pasticciata; votare No “nonostante” la volgarità antipolitica di Grillo o la xenofobia di Salvini. C’è una ragione in questo uso del “nonostante”, una ragione che è centrale e qualifica la consultazione del prossimo 4 dicembre: il voto riguarda il referendum costituzionale, non è un voto politico nel senso che premia o atterra una maggioranza di governo.

Non è un voto su o contro Renzi e, quindi, non è un voto su o contro Grillo o Salvini. Il voto referendario per sua natura taglia trasversalmente idee e appartenenze, e nonostante lo abbia promosso il governo Renzi, l’opposizione a questa proposta di revisione della Costituzione non si identifica necessariamente con il giudizio sulla maggioranza.

Il referendum non si propone di “mandare a casa” il governo, anche se i leader delle forze politiche in campo possono pensare di usarlo a questo scopo. Mai come ora è importante che i cittadini non si facciano derubare della loro funzione primaria — poiché nonostante i leader politici cerchino di farne un plebiscito pro o contro, questo è un referendum costituzionale, una decisione sovrana sull’ordine istituzionale che vogliamo e che, quando i voti saranno contati, si imporrà su tutti noi.

«»: per piegarci o per ribellarci?.MicroMega online,

Per quanto formalmente il prossimo 4 dicembre saremo chiamati a pronunciarci su un quesito che attiene alla riforma di parti importanti della nostra Costituzione, nella sostanza andremo a pronunciarci su un tema di massima rilevanza che attiene alla ridefinizione dei rapporti Stato-mercato in Italia.

In tal senso, al di là della contingenza del dibattito politico, il referendum assume una forte valenza ideologica. Dovrebbe essere ormai chiaro che la riforma Boschi-Renzi non fa altro che accentuare il processo di messa al bando dell’intervento pubblico in economia, già in buona parte realizzato con la revisione dell’articolo 81 della Costituzione e l’introduzione del vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. È vero che nel quesito che ci verrà sottoposto non leggeremo nulla di tutto questo, ma è sufficiente leggere i rapporti delle Istituzioni finanziarie internazionali che vogliono la riforma e i testi preparatori della riforma stessa per convincersi che l’oggetto del contendere è esattamente questo. Vediamo.

1) J.P. Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, scrive che la crisi dell’Unione Monetaria Europea è anche imputabile al fatto che le costituzioni dei Paesi del Sud d’Europa (e il riferimento è soprattutto alla costituzione italiana) sono fondate su “concezioni socialiste … inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”, prevedendo “governi deboli nei confronti dei parlamenti” e “tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori”.

Il fatto che la riforma costituzionale sia eterodiretta, suggerita, se si vuol dire così, dalla finanza internazionale non dovrebbe poi destare così tanto stupore, se si ricorda che il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti fu, di fatto, la conseguenza di una lettera di ‘ammonizione’ inviata dalla BCE al Presidente del Consiglio italiano il 5 agosto del 2011. Non è qui in discussione una tesi complottistica: si tratta semplicemente di prendere atto, realisticamente, che la nostra sovranità politica non è piena, ed è sempre più limitata da ingerenze di Istituzioni estere che hanno – o possono avere – interessi economici in Italia. In sostanza, ciò che J.P. Morgan chiede è maggiore ‘governabilità’.

2) E il tema della maggiore ‘governabilità’ lo si ritrova nei documenti preparatori delle riforma, laddove si legge che “la stabilità dell’azione di governo” e l’”efficienza dei processi decisionali” sono le “premesse indispensabili” per far fronte alle “sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie” e, di conseguenza, “per agire con successo nel contesto della competizione globale”. Si tratta, con ogni evidenza, di una riforma della costituzione che è configurabile come un provvedimento di politica economica, e di un provvedimento di segno neoliberista.

Del resto, se si associa la già avvenuta revisione dell’art.81, l’impostazione ‘competitiva’ ed efficientistica del nuovo testo costituzionale all’abolizione del CNEL, il quadro dovrebbe essere sufficientemente chiaro. Si badi che è vero che oggi il CNEL può essere considerato un ente inutile, ma è altrettanto vero che non lo sarebbe affatto nel caso in cui lo Stato italiano svolgesse compiti di programmazione economica, così come peraltro previsti dal testo costituzionale attualmente vigente[1].

A ciò occorre aggiungere una considerazione di carattere più generale. Se, come scritto nei documenti preparatori della riforma, una costituzione deve adattarsi ai cambiamenti economici, da ciò segue che una carta costituzionale deve avere il massimo grado di flessibilità, potendo quindi essere riscritta laddove le trasformazioni indotte da un’economia globalizzata lo richiedono.

Questo sembra essere un discrimine essenziale fra chi ritiene che le costituzioni siano atti fondativi che stabiliscono principi inderogabili di carattere generale sui quali si determina la convivenza civile e chi ritiene che la ‘modernità’ impone fondamentalmente di trattare le costituzioni come leggi ordinarie. Le recenti esternazioni del Ministro Boschi sulla possibilità di intervenire successivamente sul testo rendono chiara la visione dei nuovi costituenti.

Assunto che la riforma riflette un preciso orientamento di teoria e di politica economica, occorre chiedersi: cosa significa, o cosa potrà significare, intervenire sul testo vigente per “agire con successo nel contesto della competizione globale”? La risposta la si ritrova nella propaganda che l’attuale governo sta conducendo per l’attrazione di investimenti, laddove si esplicita che è conveniente per le imprese estere investire in Italia perché nel nostro Paese i salari sono “competitivi” (leggi: bassi).

E la si ritrova anche nella Legge di Bilancio in discussione in Parlamento, i cui principali contenuti riguardano ulteriori misure di smantellamento dello stato sociale (riduzione dei finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, riduzione degli stanziamenti per il sistema pensionistico), ulteriori misure di moderazione salariale e di compressione dei diritti di lavoratori, ulteriori sgravi fiscali alle imprese[2]. E dunque: la sola reale ragione per votare SI sta nella speranza che queste misure incentivino l’attrazione di investimenti in Italia.

Si tratta di una speranza dal momento che nessun provvedimento recente che si è mosso in questa direzione (in primis, l’abolizione dell’art.18) ha conseguito il risultato desiderato. Anzi: come ha messo in evidenza, di recente, il Governatore della Banca d’Italia, a partire da settembre l’Italia ha sperimentato un notevole deflusso di capitali finanziari (con un saldo netto negativo nell’ordine dei 354 miliardi negli ultimi due mesi) e, per effetto della produzione politica di incertezza, derivante dal fatto che questo Governo ha bloccato e spaccato il Paese sul quesito referendario per quasi un anno, lo spread sui titoli di Stato tedeschi, nel corso del mese di novembre, ha raggiunto quota 172: la soglia più alta dal luglio 2015.

Si osservi che l’aumento dello spread è del tutto indipendente dalla stabilità politica, se solo si considera il fatto che la Spagna ha visto ridursi i differenziali dei tassi sui suoi titoli pubblici rispetto ai bond tedeschi pur essendo molto faticosamente arrivata alla costituzione di un nuovo Governo dopo mesi di vuoto politico.

Che si cerchi di fuoriuscire dalla lunga recessione riscrivendo 47 articoli della Carta Costituzionale, peraltro in modo estremamente confuso, è l’ennesimo triste segnale dell’inettitudine di questo Governo e del fatto che l’Italia, ad oggi, è il vero malato d’Europa.

NOTE

[1] Sulle funzioni del CNEL, e sugli irrisori risparmi che deriverebbero dalla sua soppressione (dal momento che i suoi dipendenti non verrebbero licenziati in caso di vittoria del SI), si rinvia, fra gli altri, a Forexinfo, CNEL: cos’è e quanto ci costa, 3 novembre 2016. Si può anche osservare che l’argomento del risparmio dei costi della politica, ammesso che una Costituzione vada riformata per questo obiettivo e ammesso che il risparmio sia rilevante, è parte integrante di una visione delle funzioni dello Stato per la quale l’azione pubblica è sempre e necessariamente fonte di spreco. Il che è smentito dal dato di fatto per il quale, anche seguendo questa logica, con la Costituzione vigente (e contro l’argomento per il quale la ‘clausola di supremazia’ comporterebbe risparmi derivanti dai minori contenziosi Stato – Regioni) i maggiori risparmi – da quando sono state avviate le prime operazioni di spending review - sono stati conseguiti dagli Enti locali (circa il 30%, a fronte di circa il 12% dello Stato centrale nelle sue amministrazioni).

[2] Si veda http://www.flcgil.it/attualita/legge-di-bilancio-2017-misure-dal-sapore-elettorale-il-nostro-commento.flc

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