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«L’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità». La Repubblica, 12 aprile 2016


Una volta, quando i rappresentanti eletti in un’assemblea si trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un mandato preciso dai loro elettori, scattava il “referendum”: i delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche, portando appunto la questione ad referendum. Era l’epoca del mandato imperativo, e cioè l’eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica di coloro che rappresentava. Oggi invece c’è nelle Camere la piena libertà di mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto rappresentante della Nazione. E tuttavia l’istituto del referendum è arrivato fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina, Cispadana e Ligure.
Assente nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana, come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale, con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema generale di democrazia rappresentativa.

Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario preparato nella II Sottocommissione dell’Assemblea Costituente il sistema italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa (in caso di conflitto tra l’esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale. Nel voto finale passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare l’efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il referendum avrebbe consentito di superare «i limiti dei partiti» dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare «la saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare». E qui Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale il referendum inquieta il potere costituito, settant’anni fa come oggi: «Il referendum - disse - si basa proprio sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento».

Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo, nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un’articolazione di quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione proprio per consentire all’elettore di non essere soltanto un “designatore” ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è libero di votare nel modo che ritiene giusto ma «si deve votare perché partecipare al voto significa essere pienamente cittadini», anzi «fa parte della carta d’identità del buon cittadino».

Il potere dunque deve imparare, settant’anni dopo, che il «buon cittadino» è tale quando va alle urne per scegliere tra le proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria per controllare-correggere- abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5 consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con l’intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà, diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale così com’è stato concepito.

Non c’è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell’urna, la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la responsabilità dell’esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo dall’altro.

La risposta su questo punto non può che essere radicale, assumendo l’obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali l’istituto referendario è entrato nell’ordinamento costituzionale: il referendum è programmaticamente - si potrebbe dire istituzionalmente - un elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco parlamentare semplicemente «perché il suo scopo è proprio questo», nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione «la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà politica del popolo». D’altra parte, almeno dodici quesiti popolari non sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la legge.

Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento, rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di correzione dell’intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e con l’articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l’intervento esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di partiti. Potremmo parlare di un’integrazione dell’offerta politica e dei processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.

Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici e istituzionali non sono tutte uguali e l’istituto referendario non è impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all’anno in tre decenni in California, mediamente, 10 quesiti all’anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l’abuso logori l’istituto, com’è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli anni Settanta era stato clamorosamente l’apriscatole del sistema.

Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si spiega l’invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro dell’Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull’istituto ma sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all’ambiente, al lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all’occupazione. Invitare a non votare è un’abdicazione della politica, come se non credesse in se stessa. Anche perché l’astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere all’altezza delle premesse su cui sono nate.

Nell'intervista a Liana Milella il presidente dell'ANM, Piercamillo Davigo, racconta come servirà la Giustizia difendendo il principio liberale della divisione tra i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), almeno per quanto riguarda quest'ultimo.

La Repubblica, 10 febbraio 2016, con postilla

Volto pallidissimo per tutto il giorno. Pier Camillo Davigo, il dottor Sottile di Mani pulite confessa: «Mi sveglio sempre alle 4 per scrivere le sentenze. Ho provato a piantarle, ma non crescono da sole...».

Comincia la guerra con Renzi?«Non commento perché non ho ancora potuto parlare con la giunta».

Però Giulia Bongiorno twitta “caro Renzi quanto mi ricordi Berlusconi con questo terrore per le intercettazioni”. Ce ne sono troppe in giro, a partire da quelle di Potenza?
«Glielo ripeto, non ho ancora consultato la giunta, ma posso ripetere ciò che dico da molto tempo: la pubblicazione di intercettazioni davvero non pertinenti è già vietata dalla legge penale quantomeno dal reato di diffamazione. Se non rientrano in quel reato o sono pertinenti oppure si tratta di fatti che attengono all’operato di un pubblico ufficiale. Nel qual caso la pubblicazione è lecita».

Da oltre vent’anni però la politica chiede una nuova legge per limitare magistrati e giornalisti sulle intercettazioni. È necessaria?
«Se si ritiene che le pene per la diffamazione non siano adeguate, basta aumentare quelle. Il resto è superfluo».

Ma è possibile che per legge si decida che cosa si può pubblicare oppure no, dove passa il limite tra la prova di un reato e la violazione della privacy?
«Ci sono limiti ovvi che la legge pone alla pubblicazione di notizie. Nessun giornalista pubblicherebbe mai i codici di lancio delle testate nucleari anche se ne venisse in possesso, perché le pene sono severissime. Ma dipende sempre dai valori che si devono tutelare».

Diventa presidente una figura come la sua, importante per la storia delle indagini italiane. Il suo passato condizionerà il suo incarico?
«Ovviamente tutti facciamo tesoro delle nostre esperienze, ma il presidente dell’Anm non è un uomo solo al comando».

Lei ha fama di “duro”. Sarà così intransigente, dottor Davigo, anche da domani?«Non si tratta di essere intransigenti, ma di avere chiari i principi. “Sia il vostro dire sì sì, no, no. Il di più viene dal maligno” così è scritto nel Vangelo».

Renzi e quella frase, “brr...che paura”, perché ha detto subito pubblicamente che non le è piaciuta? Per accattivarsi i suoi colleghi?
«Perché è la verità, quella frase non mi era piaciuta».

Come giudica un governo che fa la responsabilità civile, taglia le ferie e l’età pensionabile praticamente senza contraddittorio?
«Possiamo dire poco dialogante?».

Nel merito era d’accordo o no?
«No. Nessun datore di lavoro ridurrebbe le ferie ai dipendenti senza dialogare. È stata gabellata come un rimedio a problemi giudiziari che hanno tutt’altra causa la legge sulla responsabilità civile, che non serve a prevenire errori e comunque ci costa poco più di quello che pagavano prima di assicurazione, ma fa credere che gli errori possano dipendere soprattutto da negligenze e non da carichi di lavoro che non hanno equivalenti negli altri Paesi. La riduzione brusca dell’età pensionabile senza assicurare la copertura dei posti che si rendevano vacanti ha aumentato ulteriormente la scopertura di organico dei magistrati».

La corruzione, l’evasione fiscale, i condoni. Finora il governo ha fatto una lotta seria?
«La legge di iniziativa governativa che ha aumentato le pene per alcuni reati contro la pubblica amministrazione e introdotto una riduzione di pena per chi collabora è meglio di niente, ma per fronteggiare reati così gravi e così diffusi ci vogliono strumenti molto più efficaci, ad esempio le operazioni sotto copertura. Negli Usa mi sono sentire chiedere: ma in Italia fate le indagini sulla corruzione? Ho risposto che cercavamo di farle. Mi è stato obiettato che erano indagini troppo difficili. Mi sono stupito e ho chiesto se loro lasciassero rubare. Mi è stato detto che loro facevano il “test di integrità”. Dopo ogni elezione mandavano agenti di polizia sotto copertura ad offrire denaro agli eletti. Quelli che lo accettavano venivano arrestati. Mi hanno detto che così, ad ogni elezione, ripulivano la classe politica».

Perché in Italia invece non si approva subito?
«Questo bisogna chiederlo a chi è contrario ».

Il Pd stava con voi toghe, vi ha portato in molti in Parlamento, adesso invece vi attacca. La politica è comunque insofferente ai controlli?
«La domanda è faziosa. Ci sono stati magistrati eletti sia per il centrosinistra che per il centrodestra. La mia personale opinione è che i magistrati farebbero bene a non fare mai politica».

Renzi dice che lui non è Berlusconi perché non fa le leggi per bloccare i suoi processi. Però da quando è esplosa Potenza non fa che criticare i magistrati. Qual è l’effetto?
«A titolo personale dico che tra gli applausi e i fischi ho sempre preferito i fischi, tengono alta la soglia critica e aiutano a sbagliare di meno».

Orlando non è polemico come Renzi. Comincerà a parlare con lui?
«È tradizione che ogni nuova giunta esecutiva centrale chieda di essere ricevuta dal ministro della Giustizia. Io rispetto le tradizioni».

Durante la sua campagna elettorale per Autonomia e indipendenza, la sua corrente, aveva annunciato che l’Anm avrebbe controllato il Csm soprattutto per le nomine criticando quelle cosiddette a pacchetto. Comincerà a controllare quella di Milano?
«Tanto per cominciare quella di Milano deve ancora avvenire e non è a pacchetto, almeno che io sappia. Il problema delle nomine a pacchetto è che può accadere che l’unanimità non significhi il riconoscimento di meriti, ma sancisca una spartizione. E questo non credo sia ciò che i magistrati si attendono».

postilla

La difesa dell'autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri due è particolarmente importante per la sopravvivenza di una democrazia (sia pure imperfetta, quale la nostra) in una fase disgraziata quale quella che stiamo vivendo. Oggi infatti dei tre poteri dello Stato l'esecutivo (= Governo) ha asservito il legislativo (= Parlamento) Per di più l'esecutivo è diventato l'anello di congiunzione dei poteri statali con la catena di comando che ha al suo vertice i complessi multinazionali delle aziende capitalistiche.

«Il manifesto, 9 aprile 2016

Stefano Rodotà è una delle - poche - figure di riferimento di quella che potremmo definire la pubblica opinione democratica. È apparsa ieri su la Repubblica una sua drammatica denuncia sullo stato della moralità pubblica nel nostro paese. È uno stato disastroso. Ciclicamente, possiamo aggiungere, divampano fiammate moralizzatrici e innovatrici, ma subito si estinguono senza effetti di rilievo. Il confine tra moralizzatori e corrotti è permeabile.

Lo si è visto nel caso dell’antimafia – e non c’è segmento della vita pubblica che sfugga. Rodotà ha ragione. Ma quando si osserva un fenomeno così vasto e pervasivo, se si vuole provare a curarlo, bisogna anzitutto intendere le ragioni. Che sono sociali. Ne culturali, né individuali. Secondo Rodotà, l’Italia è un caso unico. In altri paesi per minime manchevolezze si è estromessi dalla vita pubblica. E pertanto il livello di moralità pubblica è ben più elevato. Mi permetto di dissentire. Altrove vigono regole diverse.

In America ad esempio i finanziamenti privati alla politica sono pienamente legittimi. Il più accreditato concorrente alla candidatura democratica è una signora che è stata a lungo a libro paga delle maggiori istituzioni finanziarie del paese. Il predecessore di Obama ha destabilizzato il Medio Oriente, e ormai anche l’Europa, a servizio della Halliburton e dei petrolieri texani.

In secondo luogo, gli scandali non difettano neanche altrove: in Francia, in Inghilterra, in Germania, dove restò impigliato perfino Kohl, senza perdere tuttavia l’etichetta di padre della patria. È forte dunque il sospetto che altrove si faccia solo meno clamore, mentre di quando in quando si celebra un rassicurante rito d’espiazione, con la conseguente fuoruscita del personaggio coinvolto. In Italia, secondo Rodotà, si esibisce invece la più spudorata indifferenza, malgrado il frastuono che certe vicende suscitano. In realtà, anche l’Italia celebra i suoi bravi riti di espiazione. Li celebra solo in maniera più vistosa. Tangentopoli e il collasso della cosiddetta prima Repubblica fu uno di essi. Il tramonto, sanguinoso, del berlusconismo, di cui l’ascesa di Renzi è stato lo scampanio, al momento, conclusivo, è stato un altro. In ambo i casi è stata licenziata tutta una classe politica, i cui misfatti hanno pagato, a altissimo costo, gli italiani, ovviamente i più indifesi. Quale delle due liturgie è preferibile? La scelta è ardua. E assai meglio sarebbe curare il male.

E qui bisogna chiamare in causa le società in cui viviamo e i principi che le reggono. Anzi il loro principio fondamentale, che è l’acquisizione – privata – di profitti, economici o di potere. Perché se l’economia è fondata sulla privatizzazione del profitto economico, la politica democratica si basa sulla concorrenza per il potere tra imprese politiche, tra cui spiccano i partiti, a cui se ne affiancano molte altre.

Si può ricercare il potere per nobilissimi motivi. Per far valere, ad esempio, i bisogni dei deboli e degli emarginati. Sono, questi ultimi, bisogni vastissimi. Ma sono pur sempre gli interessi di una parte a spese di un’altra.

Cosa impedisce che in economia e in politica l’interesse privato instauri il duraturo predominio di alcuni a spese dei più? Sicuramente le norme che regolano la concorrenza - in politica la costituzione in primo luogo - le quali, a conti fatti sono quel po’ di interesse generale su cui tutti concordano. Solo che poi viene il problema di chi fa valere le regole. Un po’ le fa valere la concorrenza stessa. In particolare la concorrenza tra politica elettiva, il cui interesse “privato” sono i cittadini, e l’economia, che rappresenta tutt’altri interessi. Un po’ le fanno valere una serie di istituzioni che si identificano con l’interesse generale. Un grande sociologo ha usato la formula dell'”interesse del disinteresse” in riferimento a quelle istituzioni, e quegli uomini, che si sentono obbligati a essere disinteressate, che si pongono al di sopra delle parti, che si identificano con l’interesse generale, o, per usare una parola grossa, con lo Stato. E che per questo ottengono importanti riconoscimenti simbolici. La magistratura è tra queste istituzioni. Ma vi rientrano pure le burocrazie pubbliche, le autorità indipendenti, le corti costituzionali.

Il congegno, va da sé, è complesso e delicato e i suoi ingranaggi non sempre funzionano a dovere. In Italia, ad esempio, lo Stato ha sempre manifestato parecchie manchevolezze. Per qualche ragione, non si è riusciti a trasmettere ai suoi addetti una dose sufficiente di “senso dello Stato”. Non esageriamo. Nella storia d’Italia non sono mancati servitori dello Stato di altissima qualità, istituzioni devote all’interesse generale. La Banca d’Italia, per fare un solo esempio, ha a lungo goduto di altissima reputazione. Quello che però accade attualmente è che su uno Stato non saldissimo si è abbattuta la tempesta del neoliberalismo, che ha posto sopra ogni cosa l’interesse privato, con la politica (e gli affari) a profittarne per allargare la loro influenza. Anche qui un solo esempio.

Un corpo pubblico di elevata professionalità erano fino a non molto tempo fa i segretari generali dei comuni. Erano un principio di contrasto, di tutela della legalità, opposto ai sindaci e alla politica. Oggi i segretari se li nominano i sindaci a loro misura, invocando la preminenza della politica elettiva e il principio di efficienza. I funzionari devono rispondere del loro operato alla cosiddetta utenza, non già sottomettersi a quell’obsoleto impiccio che è la legge.

Nell’Italia d’oggi lo Stato non c’è. C’è una pletora di agenzie, che si fanno la guerra, che si incrociano variamente con la politica elettiva e con i potentati economici. Capita pure altrove, ma in Italia forse un po’ di più. Se però non c’è senso dello Stato tra gli addetti allo Stato, come può esserci attenzione alla moralità pubblica in tutti gli altri luoghi della vita associata? A dire il vero, c’è n’è, ma va scemando sempre più.

L’altro contrappeso a saltare è la separazione tra politica e economia. Al tempo dei partiti di massa ci si teneva parecchio. Fanfani volle che le imprese pubbliche uscissero da Confindustria. Più tardi il meccanismo è degenerato. Anziché ripristinarlo, dagli anni ’70, gli intrecci si sono moltiplicati, fino alle indecorose ammucchiate berlusconiane. Mentre Renzi ha nominato Guidi addirittura ministro delle attività produttive e Poletti ministro del lavoro. Dopo che Colanino Jr. è stato a lungo responsabile economico del Pd. Capita altrove anche questo, ma dappertutto fa danno.

Come se ne esce? Forse non se ne esce, perché siamo andati troppo oltre. Forse aiuterebbe una seria legge sul conflitto di interessi. Non fosse che di leggi davvero serie non ce n’è da nessuna parte. Forse però qualcosa si potrebbe fare per ripristinare il senso dello Stato, anzitutto rivalutando simbolicamente i suoi addetti, rispettandoli – altra cosa dalle sbrigative misure introdotte dal ministro Madia –, curandone la professionalità, reclutandoli tramite rigorosi concorsi, investendo davvero nel sistema universitario nazionale, anziché mettere stupidamente in concorrenza gli atenei. Così come potrebbe aiutare la scuola. Il corpo insegnante ha illustri tradizioni, malgrado il poco conto in cui spesso lo si è tenuto. Chi meglio potrebbe contribuire a sviluppare affezione per la moralità pubblica?

Niente di tutto questo accadrà. Purtroppo, malgrado le accorate parole di Rodotà, la situazione promette solo di peggiorare. Servirebbe forse un moto della pubblica opinione, dove la domanda di moralità non difetta. Ma a condizione che rifugga il moralismo alla Grillo e che piuttosto torni a incontrarsi con la critica sociale.

«La nostra Costituzione punto di riferimento costante anche per ritrovare quella virtù che vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza». La Repubblica, 8 aprile 2016 (c.m.c.)

Per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione" bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde. Nel marzo di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale un articolo intitolato Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Vale la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”. Per cercar di rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si perde.

Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari). Comincia stabilendo che "tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi". Ma non si ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con una prescrizione assai impegnativa: "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore". Parola, quest'ultima, che rende immediatamente improponibile la linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule "non vi è nulla di penalmente rilevante", "non è stata violata alcuna norma amministrativa". Si cancella così la parte più significativa dell'articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di comportarsi con disciplina e onore.

Vi è dunque una categoria di cittadini che deve garantire alla società un "valore aggiunto", che si manifesta in comportamenti unicamente ispirati all'interesse generale. Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva colto questo punto, mettendo in evidenza che l'onore rileva verso l'esterno, " n'agit qu'en vue du public ", mentre "la virtù vive per se stessa e si accontenta della propria testimonianza".

Ma da anni si è allargata un'area dove i "servitori dello Stato" si trasformano in servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo modo d'essere della politica e dell'amministrazione fosse a costo zero. Si è irriso anzi a chi richiamava quell'articolo e, con qualche arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione. Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa. Al posto di disciplina e onore si è insediata l'impunità, e si ripresenta la concezione "di una classe politica che si sente intoccabile", come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati come atti eroici, o l'effetto di una sopraffazione, mentre sono semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento illegittimo.
Questa concezione non è rimasta all'interno della categoria dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società, con un diffusissimo "così fan tutti" che dà alla corruzione italiana un tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più diretti confronti. Basta ricordare i parlamentari inglesi che si dimettono per minimi abusi nell'uso di fondi pubblici: i ministri tedeschi che lasciano l'incarico per aver copiato qualche pagina nella loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla l'elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una conclamata evasione fiscale).

Sono casi noti, e altri potrebbero essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono fargli perdere la legittimazione popolare. In Italia si è imboccata la strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la "constitutional morality".

In questo clima, ben peggiore di quello degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella "controsocietà degli onesti" alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante». Una affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte).
L'accesso alla conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base dell'einaudiano "conoscere per deliberare", ma anche dell'ancor più attuale "conoscere per controllare", ovunque ritenuto essenziale come fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la "democrazia di appropriazione" spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge proprio sull'accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v'è da augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti. Non basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della legge 241 del 1990 sull'accesso ai documenti amministrativi, dove tutte le amministrazioni, Banca d'Italia in testa, elevarono alte mura per ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di accrescere.

Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l'amara satira di Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E quando gliele mostrate: "Ah, dice, ma non sono in triplice copia!"». Non basta più l'evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.

I tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune reazione contro la corruzione all'italiana che ormai è un impasto di illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d'interesse, evasione fiscale, collusioni d'ogni genere, cancellazione delle frontiere che dovrebbero impedire l'uso privato di ricorse pubbliche, insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali (che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale, allora, scocca l'attacco alla magistratura e l'esecrazione dei moralisti, quasi che insistere sull'etica pubblica fosse un attacco alla politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare contraddizione, si finisce poi con l'attingere i nuovi "salvatori della patria" proprio dalla magistratura, così ritenuta l'unico serbatoio di indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle proprie responsabilità trasferendo all'esterno questioni impegnative. Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni, ma nei comportamenti.

L'Italia sta velocemente diventando una penisola da cui andare via per vivere meno infelici. E poi tornare quando la distruzione à completata, come archeologi. articoli di Alessandro Gilioli e di Ferruccio di Bortoli,

l'Espresso e Corriere della Sera 30 e 31 marzo 2012

L'Espresso, 29 marzo 2016
FOIA: TRASPARENZA SÌ, PURCHÉ OPACA
di Alessandro Gilio
Il decreto Madia sull’accesso agli atti dello Stato è una beffa. E un 
arrocco della politica nei suoi segreti. Adesso c’è un mese per cambiarlo
All'articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta». Sembra uno scherzo, invece è il decreto legislativo “sulla trasparenza”, all’italiana. Che prevede appunto il silenzio-diniego: cioè consente allo Stato di non rispondere ai cittadini che vogliono avere accesso ai dati della pubblica amministrazione, senza fornire alcuna motivazione e senza alcuna sanzione per il proprio rifiuto. Ma non è finita: subito dopo, nella norma si aggiunge che non c’è alcuna chance di ottenere risposta se la domanda può essere intesa come relativa a «sicurezza pubblica e nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, interessi economici o commerciali di una persona fisica o giuridica» e molte altre eccezioni la cui vaghezza tiene il più ampio possibile l’ambito dei “non se ne parla”. Ed è ovviamente la pubblica amministrazione a decidere se questa attinenza c’è o no.

Doveva essere il Freedom Information Act italiano, cioè la norma per dare ai cittadini il “diritto di sapere”: quali immobili possiede un Comune, ad esempio, e a chi li affitta a quali prezzi; o quanto è costato ai contribuenti il viaggio di un ministro su un “aereo blu” o il ricevimento per l’inaugurazione di un cantiere. Ma anche quali sono stati i criteri di assegnazione di un appalto e quali i tempi per la sua realizzazione; quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua di una città; come sono stati spesi gli investimenti promessi dai politici nelle loro dichiarazioni; per quali motivi e con quali compensi è stata assegnata una consulenza a spese dei cittadini; chi si è intascato gli orologi regalati da un governo straniero durante un incontro di Stato; chi ha deciso di velare le statue a Roma durante la visita di un leader estero. E così via.


L'ILLUSIONE DELO STATO TRASPARENTE
di Ferruccio de Bortoli


Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, peccato che le eccezioni siano davvero tante
Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene.

Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nelmare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione.

Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».

I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.

Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa.

«La politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta». Il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

«In un mondo ideale, un partito che invita gli elettori ad astenersi dal votare al referendum sulle trivelle sarebbe una vergogna. Ma visto il degrado politico e morale del Pd, nemico dei beni comuni, la cosa non mi sorprende». Ugo Mattei, docente di diritto internazionale comparato all’Hastings College of the Law dell’Università della California, è stato sei anni fa tra i promotori delle consultazioni popolari in favore dell’a cqua pubblica. «Il 17 aprile - spiega - dobbiamo votare perché la politica ha tradito i cittadini ma noi possiamo rimediare con l’istituto della democrazia diretta».

Dal Pd “inutile” il referendum...
Allora tanto per cominciare potevano accorparlo alle amministrative, così avremmo risparmiato 400 milioni di euro. Più che inutile, lo definirei dannoso per i poteri forti, ossia le compagnie che hanno le concessioni. Dato che ora la legge non permette più nuovi permessi entro le 12 miglia marine, è stato fatto loro un regalino, estendendo la durata di quelli già in essere anche dopo la scadenza, fino a quando è conveniente.
Quindi qual è il rischio in caso non si raggiungesse il quorum o vincesse il No?
Le compagnie potranno tenere i siti inoperativi fino a quando il prezzo del petrolio tornerà a salire: in quel momento riprenderanno le estrazioni e ci guadagneranno un bel po’. Votando Sì, abbiamo l’opportunità di stabilire che dopo la scadenza dei permessi, le estrazioni devono bloccarsi. Le sembra inutile togliere questo regalino?
Come farlo capire ai cittadini, con tutta questa propaganda per l’astensione?
Una battaglia disperata. Questo referendum non è stato chiesto con la raccolta firme, che avrebbe creato interesse al tema tra la società civile. Gli argomenti per il Sì sono forti, il governo lo sa e per questo ci ha lasciato poco tempo per la campagna di informazione.
Qualcuno potrebbe farsi scoraggiare dal fatto che poi la politica potrebbe comunque disattendere l’esito referendario?
Questo è il punto più importante di tutti. Il referendum sull’acqua pubblica ha avuto un risultato straordinario. Se avessimo perso quella battaglia, avremmo assistito a una privatizzazione del valore di 200 miliardi di euro, più grande di quella fatta negli anni Novanta. Non mi pare che si sia ottenuto poco.
In questi giorni, però, è in atto un tentativo di tradire quel risultato.
La proposta di legge di cui parliamo è di iniziativa parlamentare, non passerà mai, sono pronto a scommetterci. E il fatto che sia venuto fuori quel tentativo è positivo: ha dato lo spunto per tornare a parlare di beni comuni e quindi di referendum, aiutando i movimenti per il Sì per l’appuntamento del 17 aprile.
Tuttavia, stanno tornando i sostenitori della privatizzazione, con il solito argomento secondo il quale il pubblico non ha le risorse per gli investimenti...
Quello che è mancato dopo le consultazioni del 2011 è stata la piena ripubblicizzazione del servizio idrico. Noi per “pubblico” non intendiamo il vecchio metodo burocratico, corrotto e in mano alla politica. Intendiamo la nascita di istituzioni trasparenti, partecipate e con progetti di lungo periodo. Gli investimenti potrebbero anche avere una quota privata, ma di certo devono essere slegati dalla logica del profitto.

La contraddizione profonda tra lo scippo renziano del referendum per l'acqua pubblica e il moltiplicarsi di iniziative referendarie, con le quali il popolo, tradito dalla politica politicante, vuole riappropiarsi della democrazia. La Repubblica, 17 marzo 2016

oQUASI cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono sì in un referendum con il quale si stabiliva che l’acqua deve essere pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per l’intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel quale ci troviamo.

Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l’anno del referendum o dei referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il Tribunale di Messina ha inviato l’Italicum alla Consulta).

Questo non significa che quest’anno saremo chiamati a pronunciarci su una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile, quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell’Adriatico. Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle istituzioni, questo attivismo testimonia l’esistenza di riserve diffuse di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non sollecitate dall’alto che non possono per alcuna ragione essere sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i cittadini diventano protagonisti della costruzione dell’agenda politica, dell’indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese.

Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”, che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare norme di leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente incidono sui diritti. Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l’Italicum. Le leggi d’iniziativa popolare riguardano l’articolo 81 della Costituzione, il diritto allo studio nell’università (per iniziativa della rete studentesca Link), la disciplina dell’ambiente e dei beni comuni. E bisogna aggiungere l’iniziativa della Cgil che sta consultando tutti i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali del lavoro”, mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più largo possibile di tutti gli interessati.

Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza). Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l’unico referendum che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e che si possa ignorarne gli effetti.

Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo sono giunti negli ultimi giorni, nell’approvare le nuove norme sui servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l’acqua rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma qui, come s’era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della ”adeguatezza della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto referendario.

È evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei cittadini verso le istituzioni rischia d’essere vanificato. Se il voto di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà l’affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza parlamentare può impunemente travolgerli.

Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha richiamato l’attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso dall’alto, e dunque l’opposto del referendum per iniziativa dei cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti, una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di quel dialogo ravvicinato tra “il capo e la folla” indagato da Gustave Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso a uno strumento così delicato della democrazia diretta.

Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente parlare di democrazia “in pubblico” e che il moltiplicarsi degli strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che la democrazia si è fatta “continua”. Ma forse, se vogliamo indagare il nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo trasferimento a quest’ultimo di quote crescenti di potere di decisione, questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre Rosanvallon, di una “democrazia di appropriazione”, nella quale il mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini, passaggio necessario per recuperare una “democrazia della fiducia”.

Abbandonare il parlamentarismo - come di fatto sta avvenendo - comporta inevitabilmente e il trasferimento della funzione di decidere a una sola persona. Ma evitare questo rischio è possibile solo se si trasforma l'attuale funzionamento del Parlamento.

Il manifesto, 9 marzo 2016

«Non si può mettere seriamente in dubbio che il parlamentarismo sia l’unica possibile forma reale in cui nell’odierno contesto sociale possa essere attuata l’idea di democrazia; e perciò la condanna del parlamentarismo è al tempo stesso la condanna della democrazia». Così scriveva Hans Kelsen nel 1924 in aperta polemica contro coloro che – sia a destra sia a sinistra – avversavano con sempre maggior foga il principio parlamentare. Oggi nell’opinione pubblica l’antiparlamentarismo dilaga, mentre le forze politiche abbandonano le camere ad un loro triste declino. Da anni ormai si assiste ad una «fuga dal parlamento»: la funzione sostanzialmente legislativa è ormai stabilmente esercitata dal governo; l’autonoma funzione di indirizzo politico parlamentare (il controllo, l’inchiesta) si è avvizzita, anch’essa assorbita nella sfera del governo.

Molte sono le cause di questa progressiva emarginazione del parlamento, tra queste certamente la scelta sciagurata per le forme reali della democrazia di adottare sistemi elettorali sempre più distorsivi della rappresentanza. L’ultima legge approvata (Italicum) porta all’estremo questo tragitto, garantendo in ogni caso una maggioranza parlamentare, anche contro la rappresentanza reale. Anche in questo caso il grande acume di Kelsen aveva visto lontano: la rappresentanza è una «crassa finzione», aveva sostenuto il maestro praghese. E chi può oggi negare che di finzione si tratti? Ma su quali gambe – in base a quale legittimazione politica, sociale, culturale – può reggersi un parlamento privato del suo demos? Così non può stupire che il potere (il kratos, la faccia nascosta della democrazia) si concentri in un altro luogo, quello che può essere legittimato dal diverso principio identitario: il governo, la leadership, il capo.

La crisi del parlamentarismo, dunque, se non la fine della democrazia tout court, sembra almeno annunciare il consolidarsi di un altro tipo di democrazia, quella «identitaria».

Il maggior teorico di questo particolare modello costituzionale – Carl Schmitt – in effetti rivendicava il fondamento democratico del principio identitario, poiché, egli scriveva, il popolo deve essere inteso nella sua unità politica, oltre le organizzazioni dei gruppi sociali, superando le divisioni pluralistiche. In questa prospettiva è chiaro che il parlamento perde di ogni ruolo costituzionalmente rilevante, non ha diritto a frapporsi alla «decisione» che non può trovare ostacoli. Se l’organo della rappresentanza non ha la forza politica necessaria per prevalere – scriverà a chiare lettere Schmitt – «allora non ha il diritto di chiedere che tutti gli altri uffici responsabili siano incapaci di agire». Ed oggi, in Italia, in effetti la sede della «decisione» non è certo nel parlamento, bensì fuori da esso. Al principio parlamentare si va sostituendo quello presidenziale.

C’è a questo punto da chiedersi se possiamo noi rinunciare al modello parlamentare. Se – seguendo Kelsen – la risposta dovesse essere negativa, dovremmo cominciare a riflettere su com’è possibile invertire la rotta, poiché è chiaro che dinanzi ad un parlamento sempre più svuotato, delegittimato, lontano dalla rappresentanza reale, la ricetta identitaria non potrà che stabilizzarsi.

Da dove ripartire? Sulla legge elettorale si sta giocando la partita referendaria, ma non basta. Per rivitalizzare l’organo parlamentare bisogna anche guardare al suo interno. I regolamenti modificati nel corso degli anni hanno ormai cancellato ogni possibilità di discussione e confronto tra le forze politiche (contingentando i tempi, accelerando le procedure, sottraendo i poteri di intervento ai singoli parlamentari). Le interpretazioni fornite di questi stessi regolamenti hanno poi ulteriormente costretto il dibattito (legittimando maxiemendamenti, consentendo di reiterare richieste di fiducia anche su atti dello stesso governo, ammettendo emendamenti premissivi privi di contenuto normativo). La stessa opposizione, impotente, non si è sottratta al gioco della delegittimazione dell’istituzione parlamentare (plateali uscite dall’aula, Aventini dichiarati e poi rapidamente rimossi, uso strumentale del potere emendativo per fini esclusivamente ostativi e non invece alternativi o modificativi).

In questa situazione un primo piccolo passo potrebbe essere quello di richiedere la modifica dei regolamenti al fine di riscrivere le regole del dibattito parlamentare, con la speranza di dare voce ad un parlamento ormai afono. Non è neppure difficile indicare i principi che dovrebbero essere seguiti: garantire il dibattito e la possibilità per tutti i parlamentari di esercitare liberamente il proprio mandato. Non si possono negare le prerogative della maggioranza (e dunque eventuali corsie preferenziali per gli atti collegati all’indirizzo politico dell’esecutivo), ma il contrappeso deve essere uno statuto delle opposizioni che assicuri la discussione delle proposte delle forze politiche minoritarie.

Anche il potere emendativo, lo strumento più importante di discussione e di decisione, deve essere razionalizzato. Se si vuole evitare l’assurdo di un’opposizione senza testa che sforna emendamenti affidandosi agli algoritmi anziché alla forza delle proprie convinzioni, è necessario impedire l’arroganza di maggioranza, la possibilità che questa – forte solo dei numeri, ma non dei propri argomenti – imponga la fine di ogni discussione presentando maxiemendamenti, emendamenti preclusivi del dibattito, reiterate fiducie esclusivamente tecniche.

Anche la procedura legislativa vuole le sue nuove regole. Un tempo ci si lamentava del troppo lavoro in commissione, sede di compromessi oscuri, ora, invece, si stronca ogni funzione istruttoria. Le commissioni referenti lavorano inutilmente, sempre pronte a lasciare il passo al passaggio in aula prima di aver ultimato i propri lavori, soprattutto nei casi più delicati e che più richiederebbero di essere discussi in commissione per raggiungere un solido compromesso tra le diverse forze politiche.
In aula, poi, ormai, si fa solo «teatro». Altisonanti ma vuoti discorsi rivolti al pubblico e costruiti per i titoli dei giornali del giorno dopo. Senza lavoro istruttorio alla spalle, l’unica possibilità per giungere alla decisione è che qualcuno in altre stanze (quelle del governo o nelle riunioni ristrette dei fiduciari di partito) faccia pervenire il testo da approvare con disciplina, ma senza onore. Se si vuole tentare di arginare questa deriva si dovrebbe avere il coraggio di affermare che le commissioni e non l’aula sono il cuore pulsante del parlamento, poiché solo in quelle sedi si può discutere realmente e decidere consapevolmente. Una riserva di commissione, almeno per le materie più importanti, potrebbe essere necessaria, estendendo i casi di «procedura normale» previsti da un negletto articolo della nostra costituzione.

Infine, le leggi sono fatte di parole, ma se queste sono incomprensibili rischiano di produrre effetti indesiderati e danni collaterali. A scapito, ancora una volta, della legittimazione dell’organo che le ha espresse. E allora se il regolamento parlamentare stabilisse regole sulla fattura delle leggi che, ad esempio, escludesse la possibilità di presentare articoli con più oggetti ed imponesse l’unitarietà dei commi, forse potremmo evitare lo scempio di leggi della vergogna, che dentro un solo articolo condensano in un centinaia di commi il caos universale.

Cambiare i regolamenti parlamentari non risolverà la crisi del parlamentarismo, ma da qualche parte si dovrà pure iniziare. Se stiamo fermi ad aspettare temo che saremo travolti, in fondo la slavina della riforma costituzionale, che pone ancor più ai margini il sistema parlamentare, è annunciata. Proviamo a reagire.

«In vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo. Ampi stralci del documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia».

Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2016

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro)

Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” diLorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, iltentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa” (…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia.
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.

Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”

Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo, si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti

Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.

Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.

Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.

Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così. Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.

Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?

Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi

La Repubblica, 27 febbraio 2016

TRA le domande poste di recente dai lettori della Süddeutsche Zeitung sulla crisi dei profughi, quella che ha suscitato maggiore interesse in Germania concerneva la democrazia, ma con accenti populisti di destra: di quale legittimazione godeva Angela Merkel quando ha invitato pubblicamente centinaia di migliaia di profughi a entrare in Germania? Che diritto aveva di apportare un cambiamento così radicale alla realtà tedesca in assenza di una consultazione democratica? Non intendo con questo ovviamente sostenere i populisti contrari all’immigrazione, ma indicare chiaramente i limiti della legittimazione democratica. Lo stesso vale per i fautori di una radicale apertura dei confini: si rendono conto che avanzare un’istanza del genere equivale a revocare la democrazia, a permettere che il Paese sia oggetto di un colossale cambiamento senza previa consultazione democratica della popolazione?

E forse non vale lo stesso per la richiesta di trasparenza delle decisioni Ue? Dato che in molti Paesi la maggioranza dell’opinione pubblica era contraria alla riduzione del debito greco, rendere pubblici i negoziati avrebbe portato i rappresentanti di quei Paesi a richiedere misure ancor più rigide nei confronti della Grecia.

Ci troviamo di fronte a un annoso problema: che ne è della democrazia quando la maggioranza tende a votare leggi razziste e sessiste? Non temo di trarne la conclusione che la politica tesa all’emancipazione non debba essere subordinata a procedure di legittimazione formali-democratiche. Spesso la gente non sa cosa vuole, oppure sbaglia scelta. Non esistono scorciatoie in questo caso e non è difficile immaginare un’Europa democratizzata in cui la maggioranza dei governi è formata da partiti populisti anti-immigrati.

Chi a sinistra critica l’Ue si trova in situazione di grave imbarazzo: da un lato condannano il “deficit democratico” dell’Unione e propongono progetti per dare maggior trasparenza alle decisioni di Bruxelles, dall’altro appoggiano gli amministratori “non democratici” europei quando esercitano pressioni contro le nuove tendenze “fasciste” (democraticamente legittimate). Il contesto in cui ha luogo questo impasse è lo spauracchio della sinistra europea progressista: il rischio di un nuovo fascismo incarnato dal populismo di destra anti immigrati. Si dipinge l’Europa come un continente in regressione verso un nuovo fascismo che si nutre dell’odio e del timore paranoico del nemico etnico-religioso esterno (in genere i musulmani).

Ma si tratta di vero fascismo? Spesso si ricorre al termine “fascismo” per sottrarsi all’analisi approfondita della realtà. Il politico olandese Pim Fortuyn, ucciso all’inizio del maggio 2002, due settimane prima delle elezioni in cui i sondaggi gli attribuivano un quinto dei voti, fu una figura paradossale e sintomatica, un populista di destra che per le sue caratteristiche personali e addirittura, (in gran parte) per le opinioni manifestate, rientrava quasi alla perfezione nella categoria del “politicamente corretto”: era gay, era in buoni rapporti con molti immigrati, possedeva un innato senso ironico – in breve era un buon liberale, tollerante sotto qualsiasi aspetto, ma non nel suo fondamentale programma politico. Si opponeva infatti agli immigrati fondamentalisti per l’odio che esprimevano nei confronti degli omosessuali, il disprezzo che manifestavano per i diritti delle donne, ecc. Fortuyn incarnava il punto di incontro tra il populismo di destra e il politicamente corretto progressista.

Inoltre, molti liberali di sinistra (come Habermas) che lamentano l’attuale declino dell’Ue sembrano idealizzarne il passato: l’Unione “democratica” di cui piangono la scomparsa non è mai esistita. La politica recente dell’Ue si limita al disperato tentativo di adattare l’Europa al nuovo capitalismo globale. La consueta critica mossa all’Ue dai liberali di sinistra – va tutto bene a parte il “deficit democratico” – tradisce la stessa ingenuità dei critici dei Paesi ex comunisti, che di base li sostenevano, lamentando soltanto l’assenza di democrazia: in entrambi i casi il “deficit democratico” faceva necessariamente parte della struttura globale.

Ovviamente, l’unica azione per contrastare il “deficit democratico” del capitalismo globale avrebbe dovuto avvenire per il tramite di un’entità trans-nazionale – non fu forse Kant a individuare, più di duecento anni fa, la necessità di un ordine giuridico trans-nazionale, fondato sull’ascesa della società globale? «Ora dal momento che grazie alla comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della Terra estesasi ormai dappertutto si è giunti ad un punto tale che la violazione di un diritto perpetrata in un luogo della Terra è sentita in tutte le parti, ecco che l’idea di un diritto cosmopolitico non è più un modo fantastico, esagerato, di rappresentarsi il diritto». Questo tuttavia ci conduce alla “principale contraddizione” del Nuovo Ordine Mondiale, ossia l’impossibilità strutturale di individuare un ordine politico globale che sia conforme all’economia capitalista globale. E se per ragioni strutturali non potesse esistere una democrazia mondiale o un governo mondiale rappresentativo? Il problema strutturale (antinomia) del capitalismo globale consta nell’impossibilità (e al contempo, nella necessità) dell’esistenza di un ordine socio-politico ad esso conforme: l’economia di mercato globale non può essere organizzata direttamente come democrazia liberale globale con tanto di elezioni in tutto il mondo. In politica torna il “represso” dell’economia globale: ossessioni arcaiche, identità particolari sostanziali (etniche, religiose, culturali). Questa tensione definisce l’attuale paradosso: con la libera circolazione globale dei beni si scavano divari sempre più profondi nella sfera sociale. Mentre i beni circolano sempre più liberamente, nuovi muri sorgono a separare le persone.

Traduzione di Emilia Benghi

Il manifesto e Corriere della Sera, 19 febbraio 2016 (m.p.r.)

Il manifesto
CASSON: «RENZI DEVE PRETENDERE RISPETTO DA AL-SISI»

Il senatore Pd Felice Casson, ha partecipato ieri, come segretario del Copasir, all’audizione del direttore dell’Aise Alberto Manenti che si trovava il 3 febbraio al Cairo per un’altra missione, nel giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Ma sui contenuti della riunione di ieri tenuta a Palazzo San Macuto «rispetto l’obbligo alla riservatezza», premette Casson.

Da magistrato, che idea si è fatta delle indagini condotte in Egitto sull’omicidio Regeni?
Sono state fatte molto male. Ho l’impressione netta che non si voglia arrivare alla verità. Ci sono ritardi chiarissimi e non c’è collaborazione con gli organi di polizia giudiziaria italiani che sono andati al Cairo. Per esempio, i controlli sulle telecamere disseminate nel quartiere dove Regeni viveva sono stati fatti molto in ritardo: i negozi e gli uffici infatti dopo alcuni giorni cancellano le immagini registrate, e in due settimane i servizi sono in grado di fare qualsiasi cosa sulle registrazioni in modo da non fare avere elementi di prova che invece sono fondamentali. Il fatto che i tabulati telefonici ancora non arrivino è una chiara prova di non mancanza di volontà. Così come è caduta nel vuoto la richiesta di interventi per verificare tramite i cellulari chi fosse presente sul posto. Insomma, a distanza di settimane non c’è stata alcuna risposta concreta nel rispetto delle linee di azione investigative e dei protocolli che di solito si rispettano in queste situazioni.

A cosa è dovuto, secondo lei?
Bisogna calarsi in quell’ambiente: l’Egitto è certamente un regime, e con uno Stato aduso a sistemi di tortura contro gli oppositori politici di qualsiasi genere. Ne abbiamo avuto anche una prova diretta nel caso di Abu Omar quando venne sequestrato a Milano da agenti dei servizi segreti italiani e dalla Cia e venne portato in Egitto dove fu sottoposto a tortura. In più, all’interno di quello Stato ci sono guerre intestine feroci tra apparati e tra fazioni.

Il suo collega Giacomo Stucchi, il presidente del Copasir, denuncia diplomaticamente la «mancanza di dialogo tra le loro forze in campo» che sono «coordinate in modo diverso da come avviene da noi». Ma secondo lei, ritardi e depistaggi sono frutto di un ordine impartito dall’alto o sono dovuti alla condizione di uno Stato senza controllo?
Le due cose non sono in contraddizione. La mancanza di dialogo è dovuta alla guerra intestina egiziana. A mio parere è soprattutto un problema interno, con risvolti ovviamente internazionali. Ma credo spetti allo Stato egiziano pretendere chiarezza, nel suo stesso interesse. Perché credo che sarebbe un problema per qualunque nazione sapere che ci sono pezzi di Stato - che si chiamino squadroni, forze speciali, intelligence, polizia o altro - che fanno quello che vogliono.

E le sembra che la pressione italiana sia sufficiente per convincere le autorità egiziane a collaborare di più?
A livello di indagini, quello che l’Italia doveva fare è stato fatto: gli esperti sono stati inviati sul posto rapidamente, ma essendo un territorio straniero non hanno mano libera o carta bianca. Ogni loro azione dipende rigidamente dalla volontà degli egiziani. Ma dal punto di vista politico si può fare di più: il nostro vertice statale deve pretendere in maniera più forte la verità. Perché qui si tratta di diritti fondamentali di una persona, ma anche di dignità di uno Stato. Non possiamo subire situazioni come quelle che si sono verificate in altri casi: penso alla vicenda dei marò, che è molto diversa ma che per certi versi è sintomatica di un’incapacità di gestire i rapporti internazionali.

In questo caso però ci sono in ballo gli interessi economici del capitalismo italiano.
Sì certo, grandi interessi, ma c’è una sproporzione molto forte tra le due cose. Credo che non ci siano al momento elementi per collegare questi forti interessi alla vicenda Regeni, che potrebbe essere anche più limitata.

Legami diretti con l’omicidio no, ce lo auguriamo almeno. Ma non si può non ricordare che il presidente del consiglio e segretario del suo partito ha detto che «l’Eni è un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi segreti».

Una frase imprudente. Ed è vero che ha detto anche che l’Egitto attuale è un esempio di democrazia. E io non sono assolutamente d’accordo. Capisco che Renzi, che gestisce i rapporti diretti ad altissimo livello, non possa dire tutto quello che pensa, però ci troviamo di fronte ad uno Stato che è ancora un regime e non possiamo farci mettere i piedi in testa. Credo che in questo modo ci stiano prendendo in giro. Non è assolutamente accettabile.

Quali armi abbiamo per poterli convincere, se non quelle economiche?

Penso che il rapporto diretto tra vertici funziona meglio dei canali indiretti diplomatici, che hanno un loro peso ma certamente inferiore. È una questione che va affrontata al più alto livello, facendo rimanere impregiudicati i rapporti economici e di lavoro tra i due Stati. Pensiamo anche ai tanti egiziani che vivono qui da noi. Non si possono agitare ritorsioni o minacce di qualsiasi genere: a livello di autorità statali è possibile pretendere il rispetto della propria dignità e della propria sovranità che in questo caso è stata violata.

Quindi sta nella capacità di Renzi di farsi valere con Al-Sisi. Ma il premier dovrebbe convincersi che il nemico del mio nemico non è necessariamente mio amico, e che qualunque sia il fine la repressione violenta che viola i diritti umani non può essere tollerata.
Questa è una questione molto complicata, perché l’Egitto certamente costituisce un fulcro e uno snodo all’interno del mondo arabo. E certamente non era pensabile che si potessero sviluppare al suo interno movimenti come quelli delle primavere arabe. È un punto di equilibrio tra mondo arabo e occidentale, come per altri versi lo è anche la Siria. Rendere instabili Stati di questo tipo può costare moltissimo. Ma non si può pensare che sia un singolo Stato a mantenere equilibri o a fare da baluardo al terrorismo jihadista: è una questione che va risolta a livello di comunità internazionale, tutta insieme. In particolare poi, i metodi repressivi egiziani che violano i diritti umani non sono utilizzati contro il terrorismo islamico ma nei confronti degli oppositori al regime, nei confronti della sinistra, dei sindacati o dei Fratelli musulmani. Al di là delle ideologie, è il metodo antidemocratico e violento che assolutamente non può essere accettato, né dall’Italia né dagli altri Paesi democratici, e non solo per l’Egitto.

Anche in Italia è prevista l’impunità per la tortura di Stato.

Infatti bisognerebbe far approvare il disegno di legge che introduce la tortura nel codice penale e che viene continuamente rimandato in commissione da tre o quattro legislature.

Corriere della Sera
L’INCHIESTA REGENI
DALL'EGITTO CAOS E SMENTITE.
I DUBBI DEGLI INVESTIGATORI ITALIANI
di Virginia Piccolilli

I media: il killer è dei Fratelli musulmani. La Procura del Cairo: non ci sono prove

«La Procura egiziana si sta avvicinando all’identificazione del killer». L’annuncio arriva nel pomeriggio sul portale egiziano filogovernativo Youm7: «Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano».

Dopo aver indicato come possibile causa di morte del 28enne friulano l’incidente stradale, poi il festino gay finito male, poi la rapina e poi il semplice atto criminale, i media egiziani suonano così la grancassa di un ultimo cambio di pista. Ipotizzato sin dall’inizio perché punta proprio dritto contro i più aspri nemici del governo di Al Sisi. Ma la stessa Procura di Giza, in serata, ieri, ha smentito le indiscrezioni: «Al momento ci stiamo concentrando sull’analisi dei suoi spostamenti e delle sue frequentazioni, questo perché non sappiamo ancora dove sia andato dopo essere uscito di casa il 25 gennaio scorso». Sarà stato davvero un abbaglio del quotidiano?
Aspettano di capirlo gli ambienti investigativi e diplomatici italiani. Il ministro Paolo Gentiloni ha detto che non accetteremo una «verità di comodo». Una svolta non dimostrata potrebbe avere delle conseguenze sul piano dei rapporti tra il governo egiziano e il nostro. Giacché, come ha già dichiarato il premier Matteo Renzi «l’amicizia è possibile solo nella verità». Invece in quindici giorni di indagini sul posto la nostra squadra investigativa ha ricevuto solo promesse di collaborazione dagli omologhi egiziani. Nessun elemento. Nè le immagini delle telecamere a circuito chiuso, che il Ros e lo Sco vorrebbe visionare anche se vuote. Nè i tabulati telefonici. Nè i risultati dell’autopsia egiziana.
La «svolta», annunciata citava proprio quelle prove. «La Procura di Giza sud, guidata dal presidente Ahmed Naji - si legge sul portale -, sta portando avanti gli sforzi per svelare i misteri e le circostanze» della morte del ventottenne italiano, e parla di «importanti indizi raccolti dopo aver ricevuto il rapporto medico e un resoconto dalle chiamate in entrata e uscita». E aggiungeva che il team di indagine italiano «era in stretto contatto con l’ufficio del procuratore generale» egiziano, con l’obiettivo di «aggiornarsi sugli ultimi sviluppi dell’indagine» e per «metterli a confronto» con i risultati ottenuti da loro. In realtà nemmeno ieri era giunto alcunché dalla squadra investigativa egiziana capeggiata da un poliziotto, Khaled Shalaby, condannato per aver torturato a morte, durante un interrogatorio, un arrestato.
Intanto il caso si fa più spinoso anche in Italia. Di fronte al Copasir, il Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, il direttore dell’Aise, Alberto Manenti, secondo indiscrezioni, avrebbe detto di «non escludere» che i report di Giulio Regeni - sulla situazione sempre più tesa nel sindacato degli ambulanti critici con il regime - «possano essere stati utilizzate da servizi stranieri». Anche se ciò sarebbe avvenuto senza una sua consapevolezza. Perché, come ha riferito il presidente Copasir, Stucchi, «il direttore dell’Aise ha confermato che Regeni non aveva alcuna collaborazione di nessun tipo con le nostre agenzie di intelligence». Manenti avrebbe anche detto che poco prima dell’omicidio di Regeni, ricercatori britannici e americani erano stati rimpatriati e al loro arrivo avevano riferito di violenze subite.
Manenti ha parlato di «coincidenza» per la sua presenza al Cairo il giorno del ritrovamento. E ha ricostruito «ora per ora» cosa ha fatto la nostra intelligence in quei giorni di buio, fino al 3 febbraio, quando il corpo è stato ritrovato. «Gli egiziani - ha concluso Stucchi - hanno commesso errori incredibili».

«In poco più di due mesi non si può organizzare una buona compagna, nè per il Sì, né per il No: si svuota di significato lo strumento democratico. E perché? Perché così potranno fare campagna elettorale per le amministrative senza interferenze. Sarebbe bello se Mattarella respingesse la data proposta dal Cdm». Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Le associazioni ambientaliste e i comitati No Triv lo stavano chiedendo da settimane: indire un election day per unire il referendum contro le trivellazioni per la ricerca di petrolio in mare e il primo turno delle elezioni amministrative, che coinvolgerà 1342 comuni. Greenpeace aveva anche raccolto 68mila firme a sostegno della giornata elettorale, eppure il governo non ha ascoltato la richiesta e durante il consiglio dei ministri di mercoledì sera ha deciso la data: il referendum si farà il 17 aprile.

Ma quanto costa agli italiani non far coincidere i due eventi? Secondo le stime dei comitati lo spreco è di circa 360 milioni di euro. Altri, come Sinistra Italiana e M5S, parlano di 300 milioni. Basti pensare che per le elezioni politiche del 2013, furono destinati 220 milioni di euro di rimborsi ai comuni e 73 milioni di euro per le esigenze di ordine pubblico. «Ne costasse anche 100 di milioni - dice al FattoAndrea Boraschi, responsabile della campagna Clima ed Energia di Greenpeace - si tratterebbe comunque di una spesa in più per le tasche degli Italiani».

Milione più, milione meno, è una unità di misura non smentibile, soprattutto dal Partito Democratico. «Così buttano dalla finestra 300 milioni di euro in un momento di grave crisi per le imprese e le famiglie italiane - diceva l’oggi ministro dei beni culturali Dario Franceschini, in una mozione votata da gran parte del Pd nel 2011 parlando della necessità di un election day - Si fa per impedire di far raggiungere il quorum al referendum sul legittimo impedimento. Non accorpare la data delle elezioni amministrative con quella dei referendum sarebbe una scelta molto grave non solo per il disagio che porterebbe a molti cittadini ma anche e soprattutto perché produrrebbe un costo per i contribuenti italiani talmente alto da essere insopportabile». Era l’anno in cui, oltre che per le elezioni amministrative e per il legittimo impedimento, si chiamavano gli italiani a votare anche su acqua pubblica e nucleare.
Per giustificare la scelta, il ministro dell’Interno Angelino Alfano, durante una question time alla Camera, ha prima ammesso che la legge che disciplina l'istituto referendario non conterrebbe previsioni sulla possibilità o meno di abbinamento del referendum abrogativo con le consultazioni elettorali amministrative. Ma poi ha aggiunto la debole osservazione sul fatto che la norma che regola gli election day avrebbe considerato a parte l'esigenza di accorpamento dei referendum, distinguendoli così dalle altre forme. Poi una sequela di problemi amministrativi: la diversa composizione degli uffici elettorali, la ripartizione degli oneri, l’ordine di successione delle operazioni di scrutinio, il fatto che per uno servano quattro scrutatori e che ne servano tre per l’altro, il fatto che le spese per le amministrative vadano divise per legge con lo Stato e che non ci sia un «criterio legislativo per la distribuzione del peso finanziario della consultazione referendaria».
Per decidere quindi di non montare e smontare più di mille seggi due volte e di non chiamare presidenti, scrutatori, forze dell’ordine per due volte, servirebbe «inevitabile intervento di carattere legislativo»: una legge, come quella del 2009 quando si unì il secondo turno di ballottaggio delle elezioni amministrative ai referendum abrogativi in materia elettorale. Legge che, secondo i comitati, il governo non vuole fare perché ha paura. Da un lato di portare alle urne più cittadini di quanto si aspettino e dall’altro che la questione trivelle possa essere usata come deterrente contro il Pd.
«La decisione del governo è uno schiaffo alla democrazia - ha detto al Fatto Enzo di Salvatore, costituzionalista e coordinatore nazionale del movimento No Triv -. Stabilendo che si vada al voto in tempi così stretti, non si dà la possibilità agli elettori di essere adeguatamente informati. In poco più di due mesi non si può organizzare una buona compagna, nè per il Sì, né per il No: si svuota di significato lo strumento democratico. E perché? Perché così potranno fare campagna elettorale per le amministrative senza interferenze. Sarebbe bello se Mattarella respingesse la data proposta dal Cdm».

lternative per il Socialismo n. 39, febbraio-marzo 2016

Intervenendo alla Direzione del suo Partito, Matteo Renzi è andato giù di sciabola nei confronti della titubante “sinistra” interna. Permettendosi anche il lusso di prendere in giro il suo predecessore. “Una sconfitta al referendum (quello cosiddetto confermativo sulle modifiche costituzionali) non si può affrontare dicendo ‘ho non vinto’ – il riferimento evidente a tutti è alla ‘non vittoria’ di Pierluigi Bersani nelle elezioni politiche del 2013 -. Una sconfitta al referendum segnerebbe fatalmente la mia esperienza. Il mio non è un tentativo di plebiscito ma etica della responsabilità”. Il premier si affida quindi a suggestioni weberiane pur di ribaltare l’accusa scontata di vocazioni plebiscitarie. La performance oratoria non solo non liquida i sospetti più ovvii, ma non elimina la sostanza della critica che gli viene o gli dovrebbe essere rivolta. Quella di schiacciare la questione delle modifiche alla Costituzione sulla contingenza politica, quale effettivamente è la sopravvivenza o meno del suo governo.

Scrivere una Costituzione esige di elevarsi
sopra le vicende politiche del momento

Al contrario le esternazioni di Renzi confermano la pochezza della classe politica da lui incarnata. Ai Costituenti d’antan non sarebbe mai venuto in mente di pensare, progettare e scrivere una Costituzione avendo a cuore principalmente la sorte di questo o quel governo. Anzi il loro spirito era quello di guardare ben al di là, sapendo che le regole che stavano costruendo avrebbero dovuto reggere a diverse temperie politiche; avrebbero dovuto proprio garantire che rivolgimenti nel quadro politico potessero avvenire entro un quadro di stabilità e di sopravvivenza dell’ordinamento costituzionale. Tanto erano gelosi del fatto che la Costituzione italiana dovesse garantire il massimo della espressione e della rappresentanza politica che i costituenti limitarono il divieto di ricostituzione al solo partito fascista e non a quello monarchico, pur esplicitando che la forma repubblicana non avrebbe mai potuto essere messa in discussione nemmeno da un procedimento di revisione costituzionale. Lo stesso Piero Calamandrei si espresse in favore della legittimità dell’esistenza di un partito monarchico (Piero Calamandrei, Scritti e discorsi politici, II, Firenze 1966)

Il testo entrato in vigore il 1° gennaio del 1948 è vissuto per diversi decenni in equilibrio fra le esigenze opposte di fissità e di mutamento. Un equilibrio che fino a un certo punto è stato garantito dalle procedure di revisione costituzionale previste nell’articolo 138 Cost. (il cui testo è riportato nell’Appendice al presente articolo). Come osservò il Mortati l’esistenza in una Costituzione di organi o procedure speciali per potere procedere alla sua mutazione sono “mezzi essi stessi di conservazione” (Mortati, Raccolta di scritti, II, Milano, 1972) capaci di fare fronte contemporaneamente al “timore o l’impazienza dei partiti dei conservatori e degli innovatori” per usare le parole di Zagrebelsky (Zagrebelsky, Portinaro, Luther, Il futuro della Costituzione, Torino, 1996). Non a caso quando, a partire dagli anni Ottanta, si cominciò a parlare di una “grande riforma” della Costituzione che la adeguasse al “paese reale”, ovvero codificasse le trasformazione intervenute nella società economica, civile e politica dalla vincente offensiva neoliberista, venne posto anche il tema di un superamento o di una deroga all’articolo 138. Di tale natura sono le leggi costituzionali che nel 1993 e nel 1997 diedero vita a due successive Commissioni parlamentari per le riforme istituzionali (prima la cd De Mita-Iotti, poi quella D’Alema).

Il fallimento di queste ultime riportò in auge l’articolo 138, pur non venendo a mancare tentativi di proporre una modificazione anche di quest’ultimo. Ma, come oggi ben si vede, non spense le ansie di una modificazione sostanzialmente integrale della seconda parte della Costituzione. Le modificazioni della legge elettorale intercorse nel frattempo hanno infatti offerto ai manipolatori della Costituzione un parlamento sempre più affidabile per i loro fini. Ad opporsi a questi ultimi rimane perciò il solo Referendum, che andrebbe chiamato oppositivo, e non confermativo, anche perché venne espressamente pensato fin dalla sua istituzione come uno strumento delle minoranze contro la prevaricazione delle maggioranze in materia costituzionale, con il ricorso diretto alla volontà popolare.

Il tentativo di accorpare il referendum costituzionale
con le amministrative

Davvero altri tempi e ben altre temperie culturali. Oggi tale è l’identificazione della propria sorte con l’esito del referendum costituzionale che Renzi sta ponderando l’idea - che infatti circola tra i giuristi legati a Palazzo Chigi - di unificare addirittura la data di celebrazione del referendum con quella delle elezioni amministrative previste per la fine della primavera. Nella illusione che questo faciliti l’afflusso alle urne e gli permetta di vincere in un referendum che, come è noto, non prevede il quorum. Probabilmente, se questo tentativo verrà portato avanti, ci toccherà sentire la solita litania sul risparmio per l’erario statale che ne deriverebbe. Ma mai tale argomento sarebbe più infelice e rivelatore del carattere puramente strumentale e contingente che il governo attribuisce al pronunciamento referendario. Altra cosa sarebbe, questa sì possibile, anzi auspicabile perché le materie non sono incongruenti, se venisse accorpato al voto amministrativo quello sul quesito sopravvissuto contro le trivellazioni petrolifere in mare, promosso da diversi consigli regionali. Tenere ben distinti i momenti stessi del pronunciamento popolare, in modo che non si dia il minimo adito alla confusione o anche alla semplice sovrapposizione fra preferenza politica e scelta costituzionale dovrebbe essere l’archetipo su cui fondare una democrazia.

Il comitato per il No alla revisione costituzionale si muoverà in ogni caso nella direzione di impedire materialmente una simile scellerata decisione, depositando, un minuto dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della nuova legge di revisione costituzionale la richiesta di raccogliere 500mila firme tra i cittadini utili per la convocazione del referendum sulle modifiche costituzionali, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Quest’ultimo infatti prevede che tale referendum, qualora la legge di revisione sia stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere con una maggioranza inferiore di due terzi dei suoi componenti - circostanza certa in questa occasione - possa essere promosso da un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali. L’una cosa non esclude l’altra, poiché il diritto dei cittadini di farsi in prima persona promotori di tale referendum, pur essendo medesimo il contenuto, non può essere in alcun modo conculcato, né sostituito da rappresentanti eletti nel parlamento nazionale o nei consigli regionali. D’altro canto vi è un importante precedente che va in questo senso. Quello costituito dal secondo referendum che si tenne sulla modifica del titolo V della Costituzione nell’ottobre del 2001. Poiché l’approvazione della legge di revisione non può avvenire prima della metà di aprile e poiché la raccolta delle firme dei cittadini ha tre mesi di tempo per essere espletata, questo accorpamento ventilato in ambiti governativi con le amministrative che al più tardi possono tenersi a giugno, non potrò avere luogo a meno di non creare un violento conflitto con la stessa Corte Costituzionale.

Le preoccupazioni del Pd
sull’esito del pronunciamento popolare

Tuttavia il solo fatto che se ne parli è indice di una evidente preoccupazione da parte del partito renziano. Non esistendo il quorum viene meno il ricorso alla astensione. L’arma di utilizzare la passività, la disinformazione o l’indolenza popolari è del tutto inutilizzabile. Il No combatte contro un unico avversario, il SI, non contro due. E’ un duello non un “triello”, come nel finale di uno dei più famosi western di Sergio Leone. Va anche aggiunto che l’ultimo referendum su materie costituzionali – il premierato voluto da Berlusconi – vide una vittoria netta dei contrari, ma soprattutto un’affluenza alle urne che superò la maggioranza degli aventi diritto, quindi l’asticella del quorum pur non essendo questo necessario. Era la fine di giugno del 2006. Certamente tutt’altra situazione politica e un diverso stato di salute della democrazia del paese, nel frattempo ulteriormente deterioratisi. Ma è pur vero che c’è un ostacolo difficile da sormontare per chiunque voglia manipolare la Costituzione a proprio piacimento, e questo è rappresentato dai cittadini italiani. Ed anche da istituzioni locali, come indica la mozione prevalsa nel consiglio comunale di Pisa contro le modifiche costituzionali, approvata anche grazie ad una significativa spaccatura determinatasi tra i consiglieri del Pd.

Quindi è necessario, per coerenza di principi, ma anche per ricerca di efficacia, guardarsi bene dal cadere nel tranello delle contrapposizioni Renzi Sì - Renzi No; continuità del governo – fine traumatica della legislatura; stabilità – caos. Su questo, come già si vede, la propaganda renziana si spenderà ampiamente e c’è da credere che non si fermerà sulla soglia del video televisivo ma effettivamente cercherà di varcare la casa di ogni elettore. Da qui la scelta dell’entourage renziano di avvalersi della collaborazione di un guru delle campagne elettorali anglosassoni, ove la personalizzazione è d’obbligo, quale Jim Messina, che fu a capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che portò alla rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo, il suo. Con consulenze ad alcuni degli attuali leader mondiali. Dall'attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier britannico David Cameron.

La posta in gioco
per il progetto politico di Renzi

D’altro canto la posta in gioco per Renzi è enorme. Pur lasciando a lui le velleità plebiscitarie, è certamente vero che l’affossamento delle deformazioni costituzionali segnerebbe una brusca battuta d’arresto di un progetto politico-istituzionale che non nasce con Renzi, ma che certamente il leader di Rignano ha incarnato con tutto se stesso. In primo luogo va tenuto presente che l’Italicum, ovvero la modificazione della legge elettorale, entrerà in vigore pienamente non prima del primo luglio di quest’anno e si applicherà solo alla Camera dei Deputati, proprio perché per quella data si prevede che il Senato venga modificato in un organo non elettivo, oltre che essere depotenziato. Se quindi l’effetto del referendum fosse quello di richiamare in vita il Senato come è nella sua versione attuale – e non potrebbe essere diversamente, visto che il referendum può solo dire NO alla legge e non modificare in modo diverso o opposto la normativa costituzionale precedente – l’Italicum in quanto tale non sarebbe applicabile. E’ vero che, vista la disinvoltura istituzionale e costituzionale dell’attuale governo e della maggioranza che lo compone e lo sorregge, non sarebbe impossibile sanare il vuoto con qualche modifica alla nuova normativa elettorale. Ma questo ne violerebbe la conclamata intangibilità, con il rischio di aprire la porta ad altre modifiche a Renzi non gradite.

Ma soprattutto la eventuale sconfitta nel referendum, con la vittoria del NO, oltre a tutti gli effetti collaterali o indiretti che provocherebbe sul terreno politico, spezzerebbe quella tenaglia costituita dal binomio nuova legge elettorale-deformazione della Costituzione su cui si poggia l’ambizioso disegno renziano. Segnerebbe una battuta d’arresto nella costruzione di un regime oligarchico, sostanzialmente a-democratico, basato sul principio delle nomine e della cooptazione nel sistema di potere e sulla mortificazione del principio della rappresentanza politica e conseguentemente della democrazia nelle sue forme basilari e sostanziali. Tale disegno è l’implementazione in salsa italica di un progetto certamente non nuovo che ha contrassegnato la vita politica e istituzionale dei paesi a capitalismo sviluppato perlomeno a partire dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. E’ la ormai lunga storia della separazione fra capitalismo e democrazia, o, per usare altri termini di origine luhmanniana, della riduzione neoautoritaria della complessità della domanda sociale. Una storia che ha subito una evidente accelerazione nel corso di questa grande crisi, cui le classi dirigenti hanno risposto non solo con politiche economiche deflattive ma anche con una violenta e sistematica torsione istituzionale.

J.P. Morgan entra a gamba tesa
sulle Costituzioni democratiche

Una delle più recenti esternazioni in questo senso può essere trovata in un documento elaborato dalla J.P. Morgan e reso noto nel giugno del 2013, pochi mesi dopo le ultime elezioni politiche italiane e non molto prima che il disegno di legge Renzi-Boschi cominciasse il suo cammino (quest’ultimo venne presentato l’8 aprile 2014 e la sua prima approvazione avvenne al Senato l’8 agosto dello stesso anno). Quel documento in 16 pagine è abbastanza noto. E’ tuttavia opportuno riportarne per intero il passaggio chiave, ove si esplicita l’attacco alle Costituzioni e al costituzionalismo democratici da parte di una delle maggiori e più autorevoli espressioni del capitalismo finanziario: "I sistemi politici della periferia meridionale (dell’Europa) sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell'esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

Il Parlamento che ha votato le nuove norme costituzionali
è illegittimo

Ai sostenitori del NO conviene dunque stare al merito e alla sostanza della questione, guardandosi da ogni semplificazione politicista della contesa che porterebbe solo acqua al mulino altrui. Il merito della controriforma o della “deforma” costituzionale - come ormai viene chiamata con un neologismo che farà strada - non è affatto solido né nelle sue premesse, né nei suoi contenuti e neppure nella sua forma. Né tantomeno così complesso da non potere essere destrutturato e spiegato a chiunque. C’è una convinzione che va rimossa, anche perché del tutto paradossale. Per quanto si riconosca che non possa più esistere, se mai c’è stato in questa forma, un rapporto docente – discente fra intellettuali e popolo, fra avanguardia e masse per usare volutamente un linguaggio oramai divenuto persino arcaico, permane ugualmente il convincimento che certe questioni non possano essere portate a livello popolare perché non verrebbero comprese. Da qui la tentazione a una semplificazione che in realtà diventa una menomazione, se non addirittura una deformazione, dei problemi, ove l’approccio demagogico la fa da padrone.

Innanzitutto non va abbandonato un terreno di denuncia su cui si è stati fin qui troppo teneri. Siamo di fronte ad un parlamento illegittimo, definito nella sostanza tale da quando la Corte Costituzionale ha cassato per vizio di incostituzionalità la legge – il famigerato Porcellum – con cui sono stati eletti i parlamentari. Si potrà discutere all’infinito se quella sentenza avesse in sé e per sé i presupposti per esigere lo scioglimento delle camere e l’indizione di nuove elezioni sulla base della legge elettorale preesistente. Come è noto esistono pareri diversi tra i giuristi e i costituzionalisti su questo problema, al di là del giudizio politico che si voglia dare sulla scelta operata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano cui sarebbe spettata la decisione di sciogliere le camere e indire nuove elezioni.

Non possiamo qui entrare nel merito di quella discussione. Né, a ben vedere, ci è indispensabile per contestare alla radice quanto è stato fatto da questo Parlamento. In effetti, con la sentenza 1/2014, la Consulta rilevava “nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare.” Il testo della sentenza richiamava quindi l’ultrattività delle Camere, le quali, anche in caso di già avvenuto scioglimento, possono vedere prorogati i loro poteri fintanto che non siano riunite le nuove Camere (art. 61 Cost.) o possono essere riconvocate per la conversione in legge di decreti legge in scadenza assunti dal governo (art. 77, secondo comma, Cost.). Ma proprio l’esplicitazione di queste esemplificazioni induce a ritenere che l’attuale Parlamento, pur sopravvivendo alle conseguenze della sentenza della Corte, avrebbe dovuto al massimo attenersi a leggi ordinarie o dovute, spingendosi forse anche a quelle di bilancio – già di per sé delicatissime, in particolare modo dopo la stretta determinata dalla nuova governance europea – ma non certo arrogarsi il ruolo di novellatore della Costituzione. Gli mancava e gli manca qualsiasi autorevolezza istituzionale, politica e direi anche culturale per svolgere tale compito. E naturalmente lo si vede dal prodotto che è scaturito dal disegno di legge governativo – la sua origine non parlamentare non è un dettaglio trascurabile - e dalle modifiche parlamentari intervenute e con il governo stesso concordate.

Il più grande tentativo di manomissione
della Costituzione italiana

Anche dal punto di vista quantitativo la legge Renzi-Boschi, che consta di 41 articoli, rappresenta il più corposo e ambizioso progetto di revisione costituzionale mai avvenuto. L’intera seconda parte della Costituzione, riguardante l’ordinamento della Repubblica, ne risulta sconvolta. Dall’articolo 55 fino al 135 tutti gli articoli del testo vigente vengono modificati, in tutto o in parte, lasciandone intatti solo pochissimi. Questo non significa affatto che non risulti intaccata anche la prima parte della Costituzione, riguardante come è noto i diritti e i doveri dei cittadini, non tanto per qualche intervento formale ove il termine ‘Camere’ viene condotto al singolare, quanto per la ben più importante ragione -già più volte messa in luce ma che conviene qui ribadire - che quei diritti e quei doveri vengono garantiti e implementati attraverso il funzionamento degli organi dello Stato e che quindi la modificazione e stravolgimento di questi ultimi non può non avere conseguenze dirette in senso restrittivo o distorsivo sui primi.

Come dice lo stesso titolo della legge costituzionale, il cuore della “deforma” è costituito dalla fine del bicameralismo perfetto o paritario che dir si voglia, dalla riduzione del numero dei parlamentari, dalla semplificazione che ne deriverebbe dell’iter legislativo, con l’effetto sbandierato di un risparmio consistente per le casse dello Stato. Si aggiunge la più che annunciata cancellazione del Cnel e un ennesimo intervento sul titolo V concernente regioni, provincie e comuni, su cui vi era già stata una modica solo quindici anni fa.

Ma non siamo affatto di fronte alla fine del bicameralismo perfetto, quanto alla macchinosa costruzione di una sorta di bicameralismo confuso, nel quale il Senato sopravvive, seppure a scartamento ridotto e soprattutto come organo non elettivo. Chi, come il sottoscritto, ha sempre sostenuto, fin dai tempi della ormai lontana Commissione Aldo Bozzi degli anni Ottanta, la tesi del monocameralismo, congiunto però – particolare decisivo – ad una legge elettorale di tipo proporzionale, con al massimo una modesta soglia di sbarramento, non può che constatare che quello spirito riformatore è qui completamente tradito e rovesciato.

Il nuovo Senato

Il Senato non è più un organo eletto direttamente dai cittadini in quanto tale, ma i suoi 100 membri sono composti da 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 senatori nominati dal capo dello Stato restanti in carica per sette anni. Il fatto che i senatori possano essere individuati tramite un listino o scelti tra i più votati nelle elezioni regionali – quindi non in quelle politiche -, non cambia la sostanza della questione. Come è ovvio questa scelta comporta un impoverimento di fatto nella qualità del funzionamento sia del Senato che degli organi territoriali. Come si pensa infatti che chi ha già una carica di tutto rilievo, come quella di senatore o di consigliere regionale, possa esplicarne in modo soddisfacente addirittura due, resta un mistero dei più fitti. Il che dimostra lo spirito sostanzialmente centralista che anima l’intera “deforma”. Confermato del resto dalla ulteriore modifica del Titolo V della Costituzione, ove si prevede il rovesciamento del sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle regioni. Sarà infatti il primo a delimitare la sua competenza esclusiva sulle varie materie. Anche chi, un po’ ingenuamente, pensava ad un Senato delle Regioni – funzione che avrebbe potuto svolgere perfettamente la Conferenza Stato-Regioni opportunamente rafforzata nei poteri e nelle funzioni – non può trovare alcuna risposta positiva in questo nuovo quadro.

Il Senato non avrà più il potere di dare o togliere la fiducia al governo, essendo questa funzione di pertinenza esclusiva della Camera dei Deputati. Tuttavia non è vero che esso perde completamente i suoi poteri in materia legislativa. Attraverso un meccanismo farraginoso il Senato avrà ancora la possibilità, anche se non l’obbligo, di esprimersi su richiesta di un terzo dei suoi componenti sulle leggi che esulano dalle proprie competenze in senso stretto. Anche quelle di natura costituzionale. Il Senato, ad esempio potrà votare anche sulla legge di Bilancio, pur restando l’ultima parola alla Camera. Per ciò che concerne le leggi che riguardano le Regioni e gli Enti locali il Senato avrà poteri maggiori. In questo caso per respingere le sue modifiche la Camera dovrà esprimersi con la maggioranza assoluta dei suoi componenti. Pertanto non è vero che non via alcun rimbalzo di leggi fra Camera e Senato – il famoso ping pong -. Il Senato svolgerà un ruolo nei rapporti con l’Europa e in materia comunitaria; sarà chiamato a controllare le politiche pubbliche e il funzionamento della Pubblica Amministrazione. Inoltre potrà eleggere due giudici della Corte Costituzionale.

L’inganno della semplificazione dell’iter legislativo

La semplificazione dell’iter legislativo appare quindi uno specchietto delle allodole cui non corrisponde la realtà. Persino la forma della scrittura delle nuove norme costituzionali ne rivelano la maggiore complessificazione fino alla sostanziale non leggibilità. Si rafforza la tendenza di sconfinare nel campo che sarebbe proprio dei semplici regolamenti parlamentari, costituzionalizzando alcune norme che potrebbero perfettamente restare di competenza di questi ultimi. Basta confrontare il vecchio testo dell’articolo 70 della Costituzione sulla funzione legislativa delle Camere con il nuovo testo, la cui lunghezza ci costringe a confinare in un’apposita appendice al presente articolo.

L’iter che viene effettivamente semplificato e rafforzato è quello dei provvedimenti di emanazione governativa, confermando, se ce ne fosse bisogno, la già robusta tendenza di prevaricazione dell’organo esecutivo su quello legislativo. Ad esempio il Governo nel nuovo testo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare una corsia preferenziale per quei provvedimenti legislativi individuati come essenziali per l’attuazione del programma di governo - quindi quasi tutti – portando a compimento l’esame e l’approvazione nel giro di settanta giorni. Contemporaneamente – e non senza logica in un simile quadro – il numero delle firme dei cittadini necessarie per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare viene elevata da cinquantamila a centocinquantamila, mentre nel caso del referendum l’abbassamento del quorum, alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni politiche, viene concesso solo se la sua richiesta è supportata da ottocentomila firme, in luogo delle solite cinquecentomila per le quali il quorum resta come era. Insomma l’apertura alla partecipazione diretta dei cittadini all’esercizio legislativo viene ancora più ostacolata.

Il referendum abrogativo dell’Italicum

Come abbiamo già detto il disegno neoautoritario non si fonda su una gamba sola, cioè quella della “deforma” costituzionale, ma anche, e ancora più, sul cambiamento della legge elettorale, già approvato e che entrerà pienamente in vigore nel luglio di quest’anno. Di conseguenza anche se il referendum oppositivo vincesse e anche se questo ponesse seri problemi alla continuazione del disegno autoritario di per sé non sarebbe sufficiente a spezzarlo. Perché comunque rimarrebbe in piedi la possibilità con una minoranza di suffragi, anche poco consistente, di conquistare la maggioranza dei seggi e di governare del tutto a-democraticamente. Si pensi – e di questi tempi non si tratta di un esempio del tutto astratto o ipotetico – alla dichiarazione dello stato di guerra da parte delle Camere (Art. 78 Cost.). Nella nuova legge tale fatale responsabilità viene attribuita alla sola Camera dei deputati, seppure con l’esplicitazione della richiesta della maggioranza assoluta. Ma nel nuovo quadro la Camera sarebbe prevalentemente composta da nominati. Quindi il potere reale di dichiarare guerra si trasferirebbe di fatto al Governo, dipenderebbe dalla volontà del partito che pur essendo minoranza in virtù del generosissimo premio ottiene la maggioranza dei seggi e viene investito della responsabilità di governare.

Per queste ragioni è decisivo che nella prossima primavera si raggiungano le firme necessarie sui quesiti già depositati da un Comitato che ha eletto presidente onorario Stefano Rodotà, che intendono abrogare le parti vitali dell’Italicum. Con la già richiamata sentenza 1/2014 la Corte aveva giudicato incostituzionali alcuni aspetti del famigerato Porcellum in quanto lesivi dei diritti dei cittadini. In particolare la Corte aveva cancellato l’istituto delle liste bloccate, reintroducendo il diritto di scelta dei candidati da parte degli elettori e aveva abolito il cosiddetto premio di maggioranza concesso alla minoranza politica più forte senza soglia alcuna. L’Italicum, anziché conformarsi a queste prescrizioni, conferma peggiorandoli gli stessi vizi di incostituzionalità del Porcellum. Nello specifico l’attuale legge riproduce sostanzialmente l’istituto e l’effetto delle liste bloccate in quanto, pur essendo bloccati “solo” i capilista, la divisione delle circoscrizioni elettorali in cento collegi plurinominali, comporta che la maggioranza dei deputati sarà composta da chi verrà indicato come capolista.

Ma soprattutto l’Italicum provoca una alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, poiché la soglia del 40% per l’accesso al premio di maggioranza viene aggirata attraverso il ballottaggio che consente alla minoranza vincente, qualunque sia la sua reale dimensione, di moltiplicare i seggi in Parlamento rispetto ai voti effettivamente conseguiti. Questa clamorosa distorsione viene ulteriormente aggravata, rispetto allo stesso Porcellum, dal fatto che il premio viene dato alla lista e non più alla coalizione. Argomento sul quale Renzi ha voluto tenere duro e pour cause, data la funzione di partito pigliatutto, tendenzialmente unico, che egli ha attribuito al Partito democratico. Conseguentemente i quesiti depositati sui quali si chiederà il voto dei cittadini, necessariamente nel 2017, vertono sulla abrogazione dei capilista bloccati e delle pluricandidature, nonché del premio di maggioranza e del ballottaggio.

La vittoria del SI in questo referendum porterebbe alla cancellazione dell’Italicum senza però ritornare al vecchio Porcellum, bensì alle prescrizioni implicite nella sentenza della Corte Costituzionale che muovono nella direzione di un ritorno a un sistema elettorale di tipo sostanzialmente proporzionale. In sostanza riaprirebbe il sistema politico italiano. E, in questo senso, potrebbe favorire, se ne esistessero le condizioni soggettive, anche la costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.

I referendum sui temi sociali

Sarebbe però un peccato di inguaribile illuminismo pensare che la normativa elettorale sia in cima ai pensieri di una popolazione alle prese con le gravi conseguenze di una lunga crisi economica aggravata dalle politiche neoliberiste di austerità. Questo tema, come quello costituzionale, ha bisogno perciò di una leva, affinché acquisisca quelle dimensioni di massa in grado rendere possibile nella prossima primavera (i mesi sono necessariamente quelli di aprile, maggio e giugno) la raccolta di almeno 500mila firme per potere votare nel 2017, passati i filtri della Cassazione e della Consulta, in base alle leggi referendarie vigenti. Questa leva non può essere data che dalla possibilità di unire altri referendum di carattere sociale in un’unica campagna referendaria, capace di tenere insieme argomenti riguardanti la democrazia e le libertà, come il lavoro, la scuola e l’ambiente. I tre temi di carattere civile e sociale su cui maggiormente si sono esercitate le politiche neoliberiste del governo.

La responsabilità di individuare i quesiti necessari su questi ultimi tre argomenti spetta naturalmente ai soggetti sociali attivi in questi campi. Non conosciamo ad horas i quesiti scelti dai movimenti sulla scuola e da quelli ambientalisti e di difesa del territorio. Ma è palpabile una ripresa di elaborazione e mobilitazione sui referendum sia da parte di chi ha animato il movimento più importante che si è sviluppato lo scorso anno, quello contro le nuove leggi renziane sulla scuola; sia da parte del movimento per l’acqua – che non ha mai cessato di battersi contro i tentativi di aggirare in vario modo gli esiti del referendum vincente per l’acqua pubblica – e di altri movimenti che si muovono contro il famoso decreto “sbloccaItalia” del governo Renzi e che non si possono certamente accontentare del solo referendum No-triv, che si terrà nell’anno in corso e che va pienamente sostenuto, la cui limitatezza e parzialità sono però evidenti, anche perché è sopravvissuto uno solo dei sei quesiti inizialmente avanzati dai consigli regionali.

La novità più rilevante è rappresentata però dall’impegno diretto assunto dalla Cgil. Non senza resistenze e contrasti al proprio interno, la decisione del più grande sindacato italiano è stata quella di procedere ad una consultazione tra i propri iscritti che si concluderà a metà marzo sulla opportunità di presentare come proposta di legge di iniziativa popolare una complessa (si tratta di ben 97 articoli) “Carta dei diritti universali del lavoro”, che vorrebbe innovare integralmente lo Statuto dei diritti dei lavoratori, adeguandolo alle nuove realtà lavorative. Gli obiettivi dichiarati del testo sono quelli di ricostruire il diritto ad avere diritti nel lavoro realmente universali ed estesi a tutti che pertanto si fondino su principi di rango costituzionale; disciplinare regole su Democrazia e Rappresentanza, estendendo a tutti gli accordi interconfederali sottoscritti in questi anni; attuare l'articolo 39 della Costituzione, dando alla Contrattazione collettiva regole che ne determinino l'efficacia generale ripristinando il giusto rapporto tra legislazione e contrattazione; aumentare le forme di partecipazione, consultazione e voto certificato dei lavoratori al fine di garantire sempre di più che le tutele seguano i cambiamenti organizzativi delle imprese affidando alla contrattazione a tutti i livelli la funzione regolatrice tra diritti dei lavoratori ed esigenze tecnico organizzative delle imprese; riscrivere la disciplina delle tipologie contrattuali rimettendo al centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato e stabile, superando la precarietà attraverso la ridefinizione dei diritti collegati a quelle tipologie di lavoro riconducendole alla loro funzione di rispondere ad esigenze meramente temporanee dell'impresa o di autonoma scelta del lavoratore.

Contemporaneamente la Cgil chiede di pronunciarsi sulla eventualità di promuovere quesiti referendari su aspetti che concernono in particolare le norme attuative del Job Act. Per come è presentata l’intera questione la Cgil intende quindi considerare il terreno della proposta di legge di iniziativa popolare come quello principale. Non c’è dubbio che solo in quel modo, e non attraverso referendum che possono essere solamente abrogativi, si può esprimere quella esigenza di rimettere mano alla ricostruzione di una normativa di tutela universale del lavoro. Ma allo stesso tempo appare illusorio sperare che una simile complessa legge possa passare in un Parlamento quale quello attuale. Del resto le proposte di legge di iniziativa popolare sono sempre rimaste lettera morta anche in periodi migliori.

Questo potrebbe e dovrebbe spingere la Cgil stessa ad impegnarsi in tutte le forme possibili per il successo sia del referendum oppositivo contro la “deforma” costituzionale che di quello abrogativo dell’Italicum. Ma soprattutto dovrebbe indurla a considerare i referendum sul lavoro non come un semplice accompagnamento della proposta di legge sul nuovo Statuto (nel merito della quale non è qui possibile entrare), ma il terreno fondamentale su cui ricostruire la credibilità e la rappresentanza stessa del sindacato. Per questo è decisivo che i quesiti che verranno scelti sappiano affrontare in pieno il problema della lotta alla precarietà.

In conclusione, la stagione referendaria che si sta aprendo – che peraltro si incrocerà con le elezioni amministrative in otto importanti città - appare nel suo complesso come il terreno dello scontro contro le politiche del governo, tanto sul versante della democrazia, quanto delle politiche sociali. Una sconfitta rappresenterebbe un consolidamento decisivo delle politiche neoliberiste in campo economico e di quelle neoutoritarie in campo istituzionale. Allontanerebbe ancora di più il nostro paese da quelli in cui sono in corso difficilissimi corpo a corpo con le politiche di austerity. Determinerebbe un sistema politico istituzionale ancora più chiuso e impermeabile alle istanze popolari. Una pietra sepolcrale sul “caso italiano”. Porrebbe lo stesso tema della costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra e di una rifondazione del sindacato in termini diversi e ancora più arretrati di quanto già non lo siano, anche per evidenti carenze soggettive, nella situazione attuale.

Appendice:
Articolo 138 Cost.
Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione
Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.

Articolo 70 Cost (testo attualmente vigente)
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.

Art. 10. (Procedimento legislativo) della legge costituzionale Renzi - Boschi
L’articolo 70 della Costituzione è sostituito dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione. I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti. Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati».

«La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati».

La Repubblica, 10 febbraio 2016 (m.p.r.)

La strada fin troppo lunga verso un primo significativo riconoscimento delle unioni civili continua a incontrare ostacoli visibilmente pretestuosi anche quando si fa appello a grandi principi. È accaduto con la critica all’utero in affitto, con l’invocazione dei diritti dei minori e, infine, con il richiamo della libertà di coscienza. Ma la prova politica che comincia oggi in Parlamento deve liberarsi da strumentali richiami che vogliono impedire ancora una volta un risultato di civiltà della cui importanza e urgenza i cittadini sono ormai ben consapevoli.

La parola “coscienza” incontra sempre più spesso, e spesso ambiguamente, la politica. Per ragioni tra loro diverse. La volontà di affermare una forte convinzione morale o religiosa, l’intenzione di manifestare un dissenso politico, il fine di differenziarsi e di tenere vivo il pluralismo. È la rivendicazione di una libertà di scelta diversa dalla linea del partito o della maggioranza del gruppo parlamentare al quale si appartiene.
Una rivendicazione che non sempre viene accolta. Ce lo ricorda la vicenda di alcuni senatori del Pd che, durante la discussione sulla riforma costituzionale, chiesero di votare in maniera difforme dalla linea del partito, e si trovarono sostituiti nella commissione dove le votazioni si sarebbero svolte. Ma abbiamo appena assistito ad un apprezzamento della libertà di coscienza nelle variegate indicazioni sulle unioni civili, com’è accaduto, tra mille polemiche, per i senatori del Movimento 5Stelle. Intanto, si dilata l’area dove la richiesta di libertà di coscienza si manifesta, da quando le questioni “eticamente sensibili” hanno cominciato ad occupare il proscenio della discussione pubblica. Così questa libertà è stata invocata anzitutto per i parlamentari chiamati a dare le regole nelle materie del nascere, vivere, morire, dei limiti e delle responsabilità della ricerca scientifica, alle quali si sono poi aggiunte le scelte in materia costituzionale.
Il bisogno di richiamare esplicitamente questa libertà nasce dalla crisi di una storica prerogativa del parlamentare, quella di esercitare “le sue funzioni senza vincolo di mandato” (così l’articolo 67 della Costituzione). Ma, liberati formalmente da quell’obbligo, gli eletti hanno poi conosciuto il ben più stringente vincolo rappresentato dall’appartenenza ad un partito che, in sede parlamentare, si trasforma nell’accettazione della “disciplina di partito”. Un vincolo che può essere sciolto solo dallo stesso partito, o gruppo parlamentare, che di volta in volta, e in casi ritenuti eccezionali, può lasciare liberi i suoi di votare come meglio credono. Ma che cosa diviene una libertà di coscienza concessa dall’alto, subordinata al permesso dei superiori? Quanti parlamentari sono disposti a portare fino in fondo la loro richiesta, che diventa una sfida, costi quel che costi?
Per rispondere a queste domande, bisogna riferirsi al contesto, mutevole, nel quale si discute di libertà di coscienza. Negli ultimi tempi si è manifestata una forte nostalgia per il vincolo di mandato. Lo ha fatto esplicitamente, fin dalle sue origini, proprio il Movimento 5Stelle. E si è proposto di riconoscere anche in Italia il diritto degli elettori di revocare il mandato a singoli parlamentari, com’è previsto in altri paesi (negli Stati Uniti, ad esempio, sia pure con limiti e applicazioni del tutto rare). Sono reazioni evidenti ad un trasformismo parlamentare scandaloso e davvero senza precedenti, frenato in un passato neppure troppo lontano dall’esistenza dei partiti di massa e dalle forti connotazioni ideali che ne costituivano il cemento. Scomparsi quei partiti, sostituiti da oligarchie con bassa legittimazione popolare, ecco riemergere un bisogno di rapporto diretto tra elettori e eletti, per garantire un controllo sull’azione dei parlamentari e per inserire così proprio un embrione di democrazia diretta nel contesto in crisi di quella rappresentativa. Non a caso i parlamentari5Stelle sono definiti “portavoce”, e non “rappresentanti” dei cittadini.
Il tema della libertà di coscienza deve essere valutato in questo quadro di tensione tra difesa dell’autonomia del parlamentare (non posso “portare il cervello all’ammasso”, si diceva un tempo), coerenza dell’azione politico-parlamentare e suo controllo diffuso. Dobbiamo concludere che, in questa dimensione, la coscienza individuale ha le sue ragioni che la ragion politica non conosce?
Diciamo piuttosto che siamo di fronte alla necessità di ripensare lo stesso ruolo del parlamentare, per il quale la libertà nel voto può essere un modo per arricchire la discussione pubblica. Si tocca così il nodo aggrovigliato del voto segreto, sempre più presentato come un ostacolo alla trasparenza e alla moralità del parlamentare. Ricordiamo, però, che il parlamento italiano è diventato, e rischia di rimanere, un parlamento di nominati da una élite ristretta, sempre più incline a premiare la fedeltà e a restringere ogni possibilità di dissenso. So bene che uno spazio sottratto all’occhio dell’opinione pubblica è assai più luogo di imboscate e di manovre inconfessabili che opportunità per l’agire libero. Ma possiamo risolvere un problema reale negando che esista?
Vero è che gli impegni assunti dai partiti nei confronti dei cittadini che li hanno votati esigono poi comportamenti collettivi in grado di rispettarli, sì che non tutto può essere rimesso alla variabile opinione del singolo parlamentare. È comprensibile, quindi, che vi sia una valutazione politica dei casi in cui le ragioni della coscienza individuale possono prevalere sull’omogeneità dei comportamenti di gruppo. Ma quando le decisioni parlamentari diventano norme che incidono direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista.
Qui la libertà da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi stabilisce le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: la libertà di scelta dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone, di espropriarle del diritto fondamentale all’autodeterminazione. La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati. E, in questo caso, fermarsi, senza doversi poi porre aggrovigliati e impropri problemi di libertà di coscienza. La discussione sulle unioni civili si sarebbe giovata assai di questa consapevolezza.
Questa linea non è volta a confinare ciascuno nella sua sfera privata, ma pone in modo corretto il rapporto tra sfera privata e sfera pubblica che, per essere riconosciuta, non deve affidarsi alla propria invadenza. Al contrario, la sua legittimità deriva in primo luogo dal rispetto per la competenza delle persone. Martha Nussbaum, concludendo la sua appassionata analisi della libertà di coscienza americana, ci ricorda che «l’eguale libertà di coscienza è difficile da creare, e ancor più difficile da realizzare ». Punto cardine del modo laico d’intendere il rapporto del cittadino con l’intero sistema istituzionale.
«L’11 febbraio a Napoli un convegno accende i fari sulla crisi dell’università sistema burocratico dominato da cordate e gruppi di potere. Sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?» Amministrare l'esistente o progettare il futuro?

Il manifesto, 3 febbraio 2016

Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea.

Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?

Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine.

Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.

Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. E’ capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.

Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.

Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.

Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?

Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).

Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.

Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente….».

Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte!

Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?

Il manifesto, 21 gennaio 2016 (m.p.r.)

«Andiamo a vedere da che parte sta il popolo». Lo accusano di cercare il plebiscito, lui lo rivendica. Matteo Renzi, non annunciato, toglie a Maria Elena Boschi l’ultima passerella in senato. E trasforma la replica sulla «madre di tutte le riforme» nel primo comizio del comitato del Sì. Direttamente in aula. L’aula che per l’ultima volta ha votato a maggioranza assoluta - 180 favorevoli - la sua riduzione a dopolavoro per consiglieri regionali.

Un pomeriggio, quello di martedì, e una mattinata, quella di ieri, sono trascorsi in monologhi senatoriali, quasi tutti critici verso un testo ormai immodificabile. Poi è arrivato Renzi, nel momento in cui il senatore e filosofo Mario Tronti citava Weber, e Pareto, e Mosca e la «crisi di autorità che è più acuta della crisi di rappresentanza» - lo sta facendo per motivare il suo voto a favore. Renzi lo ha applaudito. E un attimo dopo lo ha citato nella sua replica, è stato l’unico che ha citato. Forse l’unico che ha sentito.
Poi il presidente del Consiglio in 35 minuti - chiusi da «viva l’Italia» - ha offerto la dimostrazione di quanto la costituzione materiale del paese sia cambiata anche più di quella formale, che si avvia a essere riscritta per un terzo. Il governo firma la nuova Carta. E non è una delle mille polemiche fatte dall’opposizione nei due anni trascorsi dal giorno in cui apparve il testo Renzi-Boschi. No, è il biglietto da visita di un presidente del Consiglio che soffre il fatto di non essere passato dalle urne, il suo programma quanto il Jobs act o gli 80 euro, anzi di più. Il programma con il quale si presenterà alle "sue" elezioni, quello che dovrebbe essere lo strumento in mano alle minoranze per fermare una modifica della Costituzione non condivisa.
Siamo già lì, subito, al referendum di ottobre. «Faremo campagna elettorale casa per casa» (ma con la residenza a palazzo Chigi), questo il presidente del Consiglio l’aveva già detto. Non aveva aggiunto però, come ha fatto ieri con impressionante chiarezza, che «non c’è da continuare il dibattito nel merito». Piuttosto, appunto, «andare a vedere con chi sta il popolo». Con lui intanto stanno 180 senatori. Diciannove in più della maggioranza assoluta, senza la quale la legge costituzionale sarebbe finita qui. Ventiquattro in meno della maggioranza qualificata, senza la quale il referendum è una possibilità in mano a chi si oppone (o meglio avrebbe dovuto essere). 180 sono gli stessi voti dell’ottobre scorso, quando la riforma ha chiuso la prima lettura al senato, più uno che è quello della senatrice Pd Amati che ha votato contro per due anni e poi all’ultimo si è allineata «per appartenenza».
Nel Pd c’è solo il voto contrario di Walter Tocci e la non partecipazione di Felice Casson. Altro assente tra i democratici Turano, eletto all’estero, mentre lo svizzero Micheloni ha misteriosamente annunciato il no «accada quel che accada» e poi è accaduto che ha votato sì. Come hanno votato sì i circa venti senatori della minoranza Pd, per i quali «sarebbe uno strappo gravissimo trasformare il referendum in un plebiscito o in un voto estraneo al merito». Sarebbe. Sono intanto stati decisivi per raggiungere la maggioranza assoluta, e come loro lo sono stati due senatori di Forza Italia, Villari e Bernabò Bocca, un paio del Gal, tre senatrici ex leghiste con Flavio Tosi e tutti i senatori di Verdini. I quali, perennemente alla ricerca di visibilità, sono stati i primi a battere il cinque con Matteo Renzi, subito dopo il «viva l’Italia». Mentre Verdini, più attento, ha aspettato dietro l’angolo per una stretta di mano con Renzi di spalle, non perfetta per i fotografi.
Solo in un punto il presidente del Consiglio ha parlato del merito della riforma, a modo suo. Ha detto che questa revisione costituzionale «non tocca il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Carta». Per chi lo ascoltava, neanche il tempo di ripensare ai poteri che guadagnano il governo - la fiducia monocamerale, le leggi a data certa - e la maggioranza - la presa sull’elezione dei giudici costituzionali, del Csm, del presidente della Repubblica - che Renzi ha aggiunto: «Probabilmente questo rispetto dei pesi e contrappesi è il punto debole della riforma». Molto chiaro: avrebbe voluto fare di più. E molto di più potrà fare, anche ad ascoltare la dichiarazione di voto della senatrice Anna Finocchiaro, che ha condotto in porto questo testo con la benedizione di Giorgio Napolitano (presentissimo al primo banco).
Per quanto immiserito, il nuovo senato secondo la presidente della prima commissione alla quale il Pd ha concesso l’onore dell’ultima parola, «ha uno straordinario potenziale», malgrado la nuova Costituzione dica il contrario. Perché, ha spiegato, i senatori (consiglieri regionali e sindaci) potranno imporsi: «La democrazia è prassi». E’ così, ma chi lo ha capito meglio di tutti è Renzi.

Il premier tramite Carrai vuole il controllo del flusso delle intercettazioni e avere una più forte capacità di ricatto sui suoi vassalli e sudditi, senza dimenticare che parliamo di un affare da 150 milioni di euro Articolo di D'Esposito e intervista di Calapà a Gotor.

Il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2016



AMICI MIEI: BOSCHI IN AULA PER DIFENDERE CARRAI - 007
di Fabrizio D'Esposito

La domanda che scuote,in senso trasversale,ampi settori della politicae delle istituzioni,è questa: “Perché Renzi siespone con la nomina di Carraiai Servizi proprio in questafase, quando per il suo governosi aprono le prime seriecrepe, tra Europa ed Etruria?”. Ufficialmente, oggi aMontecitorio, a risponderealla domanda dovrebbe esserela ministra Maria Elena Boschi,titolare delle Riforme edei Rapporti con il Parlamento.Accadrà durante il pomeriggiodedicato al question time,grazie a un’interrogazione di Sinistra italiana. In unprimo momento, avrebbe dovutorispondere Angelino Alfanoma il ministro dell’Interno non ha voluto mettere lafaccia su un caso così smaccatodell’arroganza renziana.Fonti di Ncd aggiungono chetra i due, Renzi e Alfano, negliultimi giorni i rapporti sarebberoparecchio freddi.

Con laBoschi in aula, ci sarà la sublimazionedel familismo renzianoe dei vari conflitti d’interessi del fatidico giglio magicotoscano. Boschi, il papàPier Luigi, Banca Etruria el’ombra della P3, tra FlavioCarboni e Denis Verdini. PoiMarco Carrai, le sue società dicybersicurezza e il nuovo incaricoa Palazzo Chigi, da superconsiglieredei Servizi.Tutto in pochi metri, tutto traamici.

Al riparo da taccuini e microfoni,un parlamentare espertodi 007 la mette invecegiù così: «Dietro lo scudo dellacybersicurezza, il premier tramite Carrai vuole il controllodel flusso delle intercettazioni,senza dimenticareche parliamo di un affare da150 milioni di euro. Come insegnanole vicende berlusconiane,i ‘laboratori’dei Servizisono decisive in alcuni frangenti”.Ed è per questo, dunque,che a quasi due anni dalsuo insediamento, solo adessoil premier affronta di petto laquestione, aggirando così anchel’eterna guerra a PalazzoChigi tra due potenti sottosegretari:Marco Minniti, l’ex lothar dalemiano che ha la delegadella presidenza del Consiglioper i Servizi, e Luca Lotti,il quarto prezioso ingranaggiodel giglio magico. Non èmistero per nessuno che Lottiavrebbe voluto la delega diMinniti. Sinora non c’è riuscito(l’unica strada sarebbemandare via Minniti con unapromozione a ministro, sulmodello Delrio) e anche perquesto la nomina di Carrai diventadecisiva.

Per la serie:non si può più perdere tempo.Gli scandali incalzano e Palazzo Chigi vorrebbe tapparealcune falle. Prima delle tribolazionidi Banca Etruria, raccontanonel Pd, c’è stato peresempio lo spavento enormeper l’intercettazione tra il premiere il generale Adinolfi, agliatti dell’inchiesta napoletanasulla Cpl Concordia e rivelatala scorsa estate dal Fatto.

Probabilmente, in questeanalisi, c’è un eccesso di dietrologiama quando il faccendiereLuigi Bisignani mandapizzini travestiti da articolisul Tempo contro la nomina diCarrai e il giorno dopo il suoamico Denis Verdini, che è anchel’alleato più disinvolto diRenzi, gli fa da sponda alloral’inquietudine si allarga a dismisura.Ed è proprio l’assetra Bisignani (P2 e P4) e Verdini(P3) a richiamare alla memoriala lezione lasciata in ereditàdall’ultimo governoBerlusconi. B. vinse le elezioninel 2008 e un anno dopo,con il discorso del 25 aprile aOnna, in Abruzzo, era all’apice della sua popolarità. Poi, larepentina caduta, con l’escalation degli scandali a lucerosse. E nelle zone d’ombra diquel logoramento s’inserirono le manovre della “Ditta” diGianni Letta e Bisignani perun governo di centrodestra aguida diversa. Erano i giorniin cui i dalemiani, tanto per fareun nome, facevano il contodei dossier in mano alle dueprincipali filiere. Da un lato laGuardia di finanza, dall’altroServizi e carabinieri. Ci fu anchechi, come Fabrizio Cicchitto,accusò apertamente iServizi guidati dallo stessoLetta e tentò di frenare la campagnasuicida del Giornalecontro Fini e la casa di Montecarlo,suicida per la maggioranza,ovviamente. I nomi diquella stagione (Verdini fu ilgrande signore delle compravenditeper tamponare la scissionefiniana) ricorrono anchein questa fase. Una stagioneche si sa come finì: con ilgoverno Monti impostodall’Europa e da Napolitano.

“NO AL COMPAGNO DI BANCO DI MATTEO AI SERVIZI”
Intervista di Giampiero Calapà a Miguel Gotor

Il premier Matteo Renzi nonha nessuno di cui fidarsi al difuori della sua cerchia tanto damettere il compagno di bancoai Servizi”. Miguel Gotor, deputatobersaniano del Pd, vaallo «Marco Carrai aiServizi non si può fare».

Senatore Gotor, siamo a Carraipossibile capo di una nuovastruttura dell’intelligencecucita su misura per lui. Èaccettabile?
No. È un segno di debolezzaperché rivela indirettamenteche il premier non si ha nessunodi cui fidarsi per quellaposizione al di fuori della suarestrittissima cerchia. C’è ancheil tema di un potenzialeconflitto di interessi del dottorCarrai, che ha interessi economiciproprio nel campodella cybernetica e che si dovrebbeoccupare di cybersicurezza.

Vi opporrete a questa nomina?Come “Ditta”, come minoranzadel Pd?
Certo. Stiamo parlando di unanomina fatta circolare anticipatamenteper saggiare lereazioni dell’opinione pubblica.Mi pare che l’opinionepubblica stia reagendo confermezza, la stessa fermezzadi quella parte del Pd per cui èuna scelta inopportuna.I Servizi, oltretutto, non sarannomolto contenti, no?Non conosco quegli ambienti,ma ci sono professionisti, carriere...un compagno di bancodel premier, un suo amico chegli prestava casa, non può guidareun settore dei Servizi cosìimportante. Pare una sfiduciaall’apparato esistente, cosache sarebbe molto grave eimmeritata.

Ma pare che il “compagno dibanco”, come lo chiama lei,alla fine sarà nominato...
Le istituzioni richiedono equilibrio,rispetto delle professionalitàinterne e prudenza.Ripeto che le nomine si ufficializzano,non si fanno trapelareper vedere l’effetto chefa. Ora a Palazzo Chigi lo hannovisto: per noi Carrai ai Servizinon si può fare.

Caso Banca Etruria, il ministroBoschi si dovrebbe dimettere?
Non credo perché le responsabilitàpenali sono personali.Di cultura sono un garantistae perciò in passato mi sono espressocontro le dimissionidella Cancellieri e anche controquelle di Lupi. Certo, il fattoche lei oggi non possa direlo stesso la indebolisce politicamentee, davanti a una vicendadrammatica che riguardacirca centomila correntisti,mi sentirei di consigliarlemaggiore umiltà. Allaluce delle nuove dichiarazionidi un personaggio comeFlavio Carboni serve più chiarezzaperché non è normaleessersi fatti consigliare sullaBanca Etruria da un soggettocondannato con Gelli per ilcrac del Banco Ambrosiano. IlPd è il partito di Nino Andreatta(che con quegli ambientiebbe uno scontro violentissimo,ndr), non bisognerebbemai dimenticarlo...

Nel frattempo Denis Verdiniè sempre più organico e parladi alleanza strutturata anchealle prossime elezioni...il partito della nazione èsempre più realtà?
Se ci sarà il partito della nazionenon ci sarà più il Pd. L’azionedi Verdini ha svelato ilvero nucleo del Patto del Nazareno:oggi, alla vigilia delleriforme istituzionali in cui isuoi voti saranno determinanti,può addirittura sbeffeggiarcidicendo che si “affilia” al Pd, ben sapendo chequel termine si usa per le loggeo per le cosche.

E Carbonipuò dichiarare che il governoRenzi sta in piedi grazie a Verdinie ai suoi amici... Stanno avanticoi lavori, ma i nostri elettorise ne accorgono.

Pare che Verdini abbiasmentito. . .
Verdini è troppo arguto pernon sapere quel che dicevaAndreotti: una smentita è unanotizia data due volte.
Almeno sulle unioni civilistate col premier...
Il ddl Cirinnà rappresenta ilminimo sindacale.

«

». E nessuno scende in piazza. La Repubblica, 17 gennaio 2016

L’annuncio del possibile approdo a Palazzo Chigi come responsabile della sicurezza cibernetica di Marco Carrai, imprenditore fiorentino legato da fraterna amicizia al Presidente del Consiglio (che è stato suo testimone di nozze e lo ha avuto come capo segreteria da Presidente della Provincia di Firenze), mette in chiaro e avvia l’infernale partita che, da almeno due mesi, ha messo in fibrillazione gli apparati della nostra sicurezza nazionale. Ne svela la posta. Il Grande Gioco che, di qui all’estate, consegnerà una nuova centralità alla nostra sicurezza cibernetica (business del millennio dalla cornice legislativa ancora appena abbozzata) agganciandola più di quanto non sia stata sin qui alla Presidenza del Consiglio e che, contestualmente, vedrà almeno sei nomine chiave al vertice di Intelligence, Polizia, Finanza, Forze Armate.

Al più tardi tra maggio e giugno, Palazzo Chigi dovrà infatti indicare il nuovo Capo della Polizia (Alessandro Pansa raggiungerà l’età pensionabile), il nuovo Comandante generale della Guardia di Finanza (Saverio Capolupo compirà 65 anni in maggio), il nuovo direttore dell’Aisi, il nostro Servizio interno (il suo direttore, il generale dei carabinieri Arturo Esposito ha già superato l’età della pensione), i nuovi capi di stato maggiore di Aeronautica e Marina militare. E ancora: sempre alla vigilia dell’estate, scadrà il mandato quadriennale del direttore del Dis (l’organo di coordinamento delle nostre due agenzie di Intelligence) Giampiero Massolo, per il quale non esiste un problema di “scadenza” anagrafica, ma sulla cui permanenza o meno dovrà pronunciarsi in ogni caso la Presidenza del Consiglio.


A ben vedere, la nomina di Carrai è vicenda tutt’altro che chiusa. Se è infatti pacifico che, all’indomani delle stragi di Parigi, Renzi si sia convinto dell’urgenza di costituire una struttura con competenze di cybersicurezza che abbia un suo budget (150 i milioni stanziati nella legge di stabilità) e non si sovrapponga o doppi quelle di intelligence, ma che dialoghi, controlli e coordini il lavoro delle pubbliche amministrazioni e quello dei gestori delle Reti telematiche, resta da sciogliere un nodo decisivo. Se il futuro ruolo di responsabile della cybersicurezza presso palazzo Chigi sia un incarico tecnico o politico. E quali caveat siano necessari affinché una nomina di questo peso non diventi un pasticcio. Peggio, un “affare tra amici”.

Al momento, Palazzo Chigi ragiona su un incarico biennale che comporterà la rinuncia di Carrai a qualunque carica societaria che lo possa potenzialmente mettere in una condizione di conflitto di interesse. Non fosse altro perché Carrai è oggi anche imprenditore nel mondo della sicurezza cibernetica (con solidi rapporti con Stati Uniti e Israele). Mentre è tutt’ora in discussione se la nuova struttura sarà incardinata nell’ufficio del consigliere militare della Presidenza del Consiglio, ovvero in quella del Dis o del sottosegretario con delega alla sicurezza nazionale Marco Minniti.

Vedremo quale sarà la soluzione. Ma è un fatto che l’accelerazione metta a rumore un pezzo delle burocrazie della sicurezza. Gli “sconfitti” della stagione berlusconiana, che vedono nell’accelerazione di Palazzo Chigi la rinuncia a un appeasement con quel network di generali, uomini dei Servizi, alti ufficiali delle Forze armate che avevano scommesso che nella partita della “rottamazione” sarebbero rimasti fuori gli apparati in nome di un interesse bipartisan.

Affidato a un editoriale pubblicato ieri dal quotidiano il Tempo, “l’avviso ai naviganti” di Palazzo Chigi è arrivato infatti immediatamente e porta la firma di Luigi Bisignani, il fulcro nella stagione berlusconiana di quel sistema di relazioni tra apparati e interessi (l’Eni di Scaroni e la Finmeccanica di Guarguaglini) che hanno per anni disegnato non solo l’agenda di Palazzo Chigi, ma carriere e assetti della pubblica amministrazione. Travolto dalla stagione giudiziaria della P4, dalla fine politica di Berlusconi, Bisignani dipinge Renzi come il comandante del Titanic ostinatamente diretto verso gli iceberg che lo affonderanno. Lo invita ad ascoltare “il tintinnio di massoneria” che lo circonda, le inchieste delle Procure che si approssimano. Soprattutto, gli consiglia di “non giocare” con le nomine degli apparati, indicandole come la sua possibile tomba politica.

Una dichiarazione di guerra? E per conto di quale mondo? «Ma no – ride lui sornione al telefono – sono solo un osservatore, un vecchio democristiano che non ha dimenticato quella massima andreottiana per cui l’esperienza è la somma delle fregature che hai avuto nella vita. Ecco, Renzi dovrebbe ascoltare chi ha più esperienza di lui e ha visto come sono finiti Craxi e Berlusconi. Non può rompere con gli apparati, con la diplomazia, il Consiglio di Stato. Perché così andrà a sbattere. Dia retta, il Presidente. È ancora in tempo per cambiare idea e metodo. Non si chiuda nel triangolo magico. Non quello massone, per carità. Quello di Lotti, la Boschi e, ora, Carrai . Il presidente del Consiglio però non sembra curarsene troppo e assicurano che tirerà dritto.

iferimenti
Una interessante inchiesta sui nomi della rete ddel potere renziano, di cui Carrai è un pesso da novanta, fu pubblicato da l'Espresso nel 2014. L
a trovate anche qui.

Quando i media sono servi del potere vuol dire che la democrazia è ferita. Questa piccola testimonianza di un giornalista fuori dal coro che risponde a un lettore ci aiuta a comprendere quanto in Italia la ferita sia profonda.

Il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2016

La domanda
Caro Furio Colombo, hai notato che la decadenza di Roma, raccontata a base di buche, di fermate improvvise e inspiegate della metropolitana e di autobus fermi si è risolta da sola? Rimosso Marino, e con la serena guida del prefetto Tronca, tutto risolto. Manlio

La risposta

La domanda propone una riflessione sul modo di dare le notizie (o di crearle) da parte dell’intero sistema dell’informazione in Italia. Di Ignazio Marino ricorderemo, oltre all’impeccabile onestà, la testardaggine nel non cambiare idea anche quando gli conveniva, e la solitudine, che in politica è sempre un problema, in tutte le direzioni: il suo staff, il Comune, il partito e persino molti cittadini che lo avrebbero aiutato di più se lo avessero capito di più.

Però i media sono un’altra cosa. Una volta diffusa la parola d’ordine, di fonte politica, di Roma decadente e decaduta, dove tutto è ridotto a uno stato di rovina, una Roma Piranesi fatta di ruderi (a partire, s’intende, dai servizi mancanti del Comune) si è mobilitata una quantità di immagini uguali, di interviste identiche, di commenti che sembravano l’uno la riproduzione dell’altro, e una formidabile campagna “destra-sinistra” degna di un grande match di pugilato. A un colpo contro la Roma in rovina di Libero e

, seguivano severe ammonizioni della direzione Pd e giudizi durissimi di chi aveva fatto eleggere Marino, per dimostrare che la rimozione del predetto sindaco era indispensabile per la salvezza della città.

Avevano ragione. Una volta eliminato il sindaco, con l’espediente di far dimettere la parte la maggioranza del consiglio comunale eletta dallo stesso partito con lo stesso sindaco, la gravissima situazione della città di Roma, per miracolo, si è risolta. Sparite praticamente subito le tetre inquadrature delle bottigliette di plastica vuote che rotolano nell’incuria verso un Colosseo in evidente rischio di crollo. Si apprende dagli utenti quotidiani che le occasioni in cui i convogli della Metro partono e arrivano a porte aperte continuano come prima, ma non creano “incidente giornalistico”.

I cittadini hanno smesso di scrivere (o radio e giornali hanno smesso di pubblicare) i messaggini indicanti le condizioni insopportabili della via tale o tal’altra. Non so se sia vero che sono ritornati i camion-bar Tredicine, ma vedo aumentare ogni giorno l’ingombro di occupazioni abusive che erano scomparse con il Marziano a Roma.

Il fatto è che Roma non fa più scena, le foto delle piazze disastrate non fanno più prima pagina, i turisti stranieri non sono più esasperati, quelli italiani provano un nuovo affetto per Roma. E il Papa va da solo, in Panda, a farsi aggiustare gli occhiali. Non c’è un questuante in meno, ma una volta abbattuto un sindaco ingombrante, a che serve la noia di discutere un problema che non si può risolvere?

Al momento il fenomeno a cui stiamo assistendo è quello di persone riluttanti spinte con la forza a candidarsi o a tentare la corsa delle primarie. La morale è che Gianni Alemanno è un imputato come tanti, che alla fine la scampano con pochi anni condonati. E Ignazio Marino resta, nella memoria della città, il peggiore dei sindaci di tutti i tempi, come è stato certificato per i posteri da Matteo Orfini presidente del partito di Ignazio Marino e sostenitore della sua candidatura. Roma, comunque, è salva.

L'opinione di un intelligente politologo sul caso dell'inquinamento in un comune amministrato da una sindaca del M5S, e sul suo presunto significato generale. La Repubblica, 14 gennaio 2015, con postilla

IL caso del comune di Quarto, inquinato da voti in odore di camorra, intacca l’anima pura e immacolata del M5S. I grillini si illudevano di essere fuori dal mondo, protetti dal virus della corruzione e del malcostume. Quando si diventa partiti di dimensioni corpose, gli inquinamenti sono inevitabili. Per la semplice ragione che la società civile italiana non è uno specchio di virtù. In più, quando si esaltano i meccanismi di democrazia diretta, senza alcun filtro, allora può passare qualunque cosa proveniente dagli angoli oscuri della società. Fino ad ora, la limitata presenza nelle amministrazioni locali del M5S lo ha tenuto al riparo dal rischio di inquinamenti. Ma ora che vuole presentarsi alle prossime elezioni locali in tutti i comuni la probabilità di vedere arrivare personaggi
non limpidi sale esponenzialmente. Diventare grandi in tempi di cinismo, come recitava il libro di Roberto Cartocci sulle scarse virtù civiche dei giovani italiani, è una grande fatica. Il M5S non si è attrezzato per far fronte a questi rischi: ha confidato nel naturale magnetismo di onestà e alterità irradiato dalle invettive di Beppe Grillo. Adesso questo non basta più: deve modificare le sue modalità di selezione del personale politico. È il costo che si paga a fronte di un grande, impetuoso successo. Poi, altri cambiamenti si impongono, e anch’essi hanno dei costi.

Come ricordava Ilvo Diamanti su queste colonne, il M5S assumerà sempre più nettamente i contorni di un partito. È per questo, per questa sua inevitabile trasformazione, che difficilmente potrà mantenere la quota di consensi ottenuta finora. Perché sarà obbligato a strutturarsi più “tradizionalmente”, e perché dovrà definire meglio le sue proposte politiche. Fin qui il partito di Grillo e Casaleggio non ha dovuto fare scelte. Ha navigato sull’onda dell’”antipolitica”, e cioè della insofferenza, indistinta quanto feroce, per tutto quello che non va bene, e che viene imputato alla classe politica, all’establishment, agli “altri”. Nemmeno la rivoluzione renziana ha contenuto questa ondata. Il desiderio di cambiamento palingenetico invocato dai sostenitori grillini non si accontentava di un passaggio generazionale che poggia su radici antiche. Anche Matteo Renzi, ai loro occhi, rappresenta “il vecchio”.

Ma il consenso che è piovuto sul M5S è amorfo, indistinto, negativo: non dà indicazioni su dove andare. Non che il M5S sia composto di acchiappanuvole. Al contrario, grazie anche alla formazione tecnico-scientifica di molti suoi eletti, esprime un tasso di pragmatismo notevole, in linea con gli obiettivi originari dei cinquestelle, dall’energia pulita alla libera fruizione della Rete, dalla difesa dell’ambiente allo sviluppo ecosostenibile. Però, sbandierando quegli obiettivi, Grillo sarebbe rimasto confinato in una dimensione da partito verde. Il suo successo l’ha costruito sulla rabbia antipolitica. Con un consenso trasversale e indifferenziato. Ora che il partito è cresciuto, deve intervenire su un ampio ventaglio di questioni e questo, inevitabilmente, creerà sacche di scontenti. In effetti il successo dei M5S si regge (ancora per poco) su una doppia ambiguità di fondo: essere un non-partito diverso dagli altri e non schierarsi né a destra né a sinistra. La prima ambiguità sta arrivando al redde rationem e il caso di Quarto è solo uno dei segnali che obbligano i grillini a “istituzionalizzarsi”, cioè ad adottare regole e modalità di funzionamento interno più formalizzate, e a definire compiti e funzioni più precisi: in tal modo il partito si irrigidisce e nascono delle gerarchie. La seconda ambiguità è più sottile ma anch’essa sta per arrivare a scadenza. Come suggeriscono le biografie degli eletti e lo stesso programma del partito, il M5S è fortemente sbilanciato a sinistra (una inclinazione appena compensata da tirate anti-euro e anti-tasse). La polemica contro tutto il sistema dei partiti nasconde la vera posta in gioco: la competizione con il Pd per sottrargli quella parte di sostenitori perplessi che farebbero la differenza in un ballottaggio. Non per nulla, su alcuni temi — reddito di cittadinanza e diritti civili — il M5S lo scavalca a sinistra. Urla e sbraita contro i democratici, e recalcitra ad accordarsi anche quando ci sono evidenti sintonie; e questo per marcare le distanze. Lo scontro con il Pd è destinato a spostarsi da una dinamica antipolitica ad una squisitamente politica. Questo passaggio, che potremmo considerare virtuoso perché normalizza e stabilizza il sistema, non sarà indolore per il M5S perché parte dei moderati affluiti sotto le sue insegne se ne andrà. La necessità di mutare pelle sul piano organizzativo e di adottare un profilo politico più preciso porta con sé una riduzione della sua base elettorale. Il M5S è quindi arrivato oggi all’apice delle sue fortune. Così com’è configurato non può andare oltre.
postilla

Si può convenire sul fatto che la forma di democrazia adottata dal movimento di Beppe Grillo abbia più difetti che pregi, e che quindi debba essere modificata se i suoi membri ne vogliono conservare, e anzi aumentare, l'attuale consenso. Ma non è detto che l'unica alternativa per costruire "partiti", cioè formazioni espressive di una parte della società determinati a concorrere alla politica nazionale debba essere quella di assumere la forma e le regole di quelli nati, vissuti (e morti) nei due secoli scorsi, nè tanto meno a quelli esistenti

«La trappola è lì, già bella pronta e innestata: efficientismo (fare, decidere senza troppi ostacoli e discorsi) versus complessità (sentire tutti, mediare, comporre), che in sostanza significa autoritarismo versus democrazia». Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2016 (m.p.r.)

Che bisogno c’è di surrealismo e nonsense quando ci sono i sondaggi? Sul famoso referendum che deciderà del destino delle riforme costituzionali - si usano chiamare così le tracce di cingoli sulla Costituzione - i numeri che girano sembrano il teatro dell’assurdo. Solo il 20 per cento degli elettori dice di aver capito esattamente di cosa si parla, e il 60 per cento degli stessi elettori dichiara che voterà sì. Come dire che due italiani su tre tra quelli favorevoli voteranno sulla base del sentito dire, dell’aria che tira e della propaganda.

Certo mancano dieci mesi e possono cambiare molte cose, cambieranno anche questi numeri così grotteschi, forse, ma per ora, mentre si prende la rincorsa, la situazione è questa: un paese intero che si accinge a votare una cosa che non ha capito bene, come se comprasse una macchina usata senza sapere quanti chilometri ha fatto, come sono le rate, se una volta avviata sarà in grado di frenare. Tutti ai blocchi di partenza, dunque, sapendo che nei prossimi dieci mesi l’argomento sarà quello: realtà (che cos’è davvero questa riforma) contro percezione (nuovo! nuovo! nuovo! E gufo chi non ci sta), e sarà interessante vedere se nel dibattito avrà qualche diritto di cittadinanza la par condicio, oppure se i media suoneranno la grancassa per il sì, cosa che sembrerebbe già in atto.
Il problema è che la percezione rischia di essere più forte della realtà, come quella faccenda delle temperature estive, che fa caldo, sì, ma il caldo “percepito” è molto di più. Prepariamoci dunque alla raffica di varianti dello storytelling renzista: o sei favorevole a una riforma che di fatto consegna poteri mai visti al governo e al presidente del Consiglio, oppure sei antico, conservatore, non vuoi cambiare, sei immobilista e, di fatto, sostieni la “casta” (parola questa, agile come un pallina da flipper, che dove va va, e la si usa a piacimento). Siccome in questi due anni si è venduto per moderno l’antico e per nuovo il vecchissimo, il gioco può funzionare. Moderno e innovativo il lavoro senza diritti, nuova di zecca la scuola più classista, efficienti e sciccose le pensioni più basse, si suppone che il giochetto continuerà sulla stessa falsariga. Meno senatori, che figata! Senza la seccatura di votarli, bello! E via così.
Chi non ci sta, sarà automaticamente catalogato come “conservatore”, pratica già collaudata con chiunque si sia messo di traverso, basti pensare ai sarcasmi sul sindacato e il mondo del lavoro (i gettoni del telefono, i rullini della macchina fotografica, mentre chi vuole tornare al cottimo ostenta playstation e smartphone contemporanei). Gran parte della partita, insomma, sarà giocata sul concetto di nuovo contro vecchio, cambiare contro non cambiare, spingere contro frenare. I “problematici” che vorranno parlare della riforma nel merito verranno bollati come i soliti noiosi cacadubbi che rallentano il paese, mentre dall’altra parte ci saranno i dinamici innovatori che “non si perdono in chiacchiere”, uno schema già visto - a suo modo già vecchio - che raggiungerà la sua massima espansione prima dell’autunno.
La trappola è lì, già bella pronta e innestata: efficientismo (fare, decidere senza troppi ostacoli e discorsi) complessità (sentire tutti, mediare, comporre), che in sostanza significa autoritarismo versus democrazia. Basterà rendere inconsistente e polverosa quella parola (democrazia) e lucidare le cromature dell’efficientismo decisionista, vendere “l’uomo solo al comando ” come novità prodigiosa: in pratica prendere il vecchio e riverniciarlo. Un po’ come sostituire le antiche scritte sui muri con le slide: dal “me ne frego” al “ce ne faremo una ragione”. Vuoi mettere come suona nuovo?
«Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura». Il manifesto, 23 dicembre 2015 (m.p.r.)

In attesa che gli spagnoli copino la legge elettorale italiana voluta da Renzi, come prevede Renzi, è il caso di ricordare quando gli attuali sostenitori dell’Italicum tifavano per il sistema spagnolo. Per esempio il senatore del Pd Tonini, che ieri su Repubblica spiegava perché con l’Italicum il nostro paese è «all’avanguardia in Europa» e non rischia «di fare la fine della Spagna». È lo stesso Tonini che ha presentato un disegno di legge (con l’attuale viceministro Morando) per importare da noi il sistema elettorale spagnolo. Era la moda, lanciata da Veltroni quando segretario del Pd cercò di agganciare Berlusconi (ha fatto scuola). Il sistema fu chiamato Veltronellum, lo studiarono i professori Ceccanti e Vassallo (oggi sostenitori dell’Italicum), convinse rapidamente il centrodestra. Alfano e Quagliariello, per dirne due, pensavano per quella via di risolvere tutti i problemi dell’Italia. Lo stesso compito che oggi affidano al ballottaggio.

Più recentemente anche il Movimento 5 Stelle ha scelto il sistema spagnolo, al quale proponeva di aggiungere le preferenze in un ordine del giorno di due anni fa che sarebbe coerente con l’attuale opposizione dei grillini all’Italicum. Non fosse che oggi, con un altro ordine del giorno, hanno chiesto il contrario: conservare l’Italicum senza cambiamenti. Del resto è l’unico sistema che può condurli alla vittoria. Ma ancora di più ha fatto Renzi, che lunedì davanti ai risultati spagnoli ha «benedetto» l’Italicum. Anche lui propose il sistema spagnolo, quando eletto segretario offrì al confronto tre proposte «equivalenti»: la prima era proprio il modello iberico. Con una correzione, un premio di maggioranza del 15% che, assicurava, assieme allo sbarramento avrebbe «garantito la maggioranza». E invece no, al Partido popular - pure favorito dallo sbarramento che è conseguenza dei collegi piccoli - oggi per conquistare la maggioranza assoluta nel Congreso non basterebbe l’omaggio di 52 seggi immaginato da Renzi. Per quello ci vorrebbe l’Italicum.
Con la nuova legge italiana (congelata fino al luglio dell’anno prossimo in attesa della riforma costituzionale) il calcolo è assai semplice. Nessun partito in Spagna ha raggiunto il 40% dei voti validi, dunque per assegnare il premio che garantisce il 54% dei seggi della camera servirebbe il secondo turno. Vi parteciperebbero i popolari e i socialisti, che in totale al primo turno - pur essendo calato l’astensionismo - hanno raccolto il voto del 34% degli aventi diritto; in pratica di un elettore su tre. Come dice l’avvocato Felice Besostri, che ha istruito i ricorsi in tribunale contro l’Italicum, «si giocherebbero la vittoria finale i due grandi perdenti di domenica. I popolari che hanno perso 62 seggi e i socialisti che hanno segnato il minimo storico».
Non solo, se il nuovo sistema italiano venisse adottato in Spagna, al secondo turno è prevedibile un’astensione in massa degli elettori di Podemos, partito che ha condotto la campagna elettorale attaccando contemporaneamente socialisti e popolari, giudicati equivalenti. E così a decidere il vincitore, titolare della maggioranza assoluta, sarebbe una minoranza assoluta. Se per ipotesi vincessero i socialisti, che hanno raccolto al primo turno il 22% dei voti, grazie al premio previsto dall’Italicum si ritroverebbero con oltre il doppio dei seggi realmente guadagnati: 189 invece dei 90 che hanno adesso effettivamente. Non è dunque per caso che la sinistra in Spagna non pensa affatto di importare il sistema italiano, come dice Renzi. Ma, al contrario che da noi, è all’attacco sul fronte delle riforme costituzionali. E propone una legge elettorale proporzionale pura.

Sul voto spagnolo e sulla riforma elettorale italiana "a misura di un sol uomo" le opinioni del politologo Gianfranco Pasquino, della giornalista Irene Hernàndez Velasco, del giurista Gianluigi Pellegrino e dell'eurodeputato Curzio Maltese. Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2015 (m.p.r.)

MATTEO È IGNORANTE:
IL SUO MODELLO NON RISPETTA LA VOLONTÀ POPOLARE
di Gianfranco Pasquino

C on l’esito di questo voto, preannunciato dai sondaggi, la Spagna è diventata in un certo qual modo europea. Non è più una nazione con due grandi partiti a dominare la scena, come era avvenuto negli ultimi 35 anni: ora ha anche altre due formazioni nella Camera bassa, Podemos e Ciudadanos. Ed è lo stesso schema che ritroviamo nel resto del continente, dove non si trovano Paesi con il bipartitismo. Ora la Spagna dovrà imparare quella che Roberto Ruffilli (politologo e parlamentare della Dc, ndr) chiamava la cultura delle coalizioni.

Attenzione però, chi celebra l’Italicum come soluzione all’ingovernabilità dà un segnale di ignoranza assoluta. Gli elettori votano in base ai sistemi elettorali, usano le regole date. In uno scenario diverso, probabilmente molti elettori di Podemos avrebbero scelto i socialisti per mandarli al ballottaggio, o viceversa. L’Italicum rimane una legge proporzionale fortemente distorsiva della rappresentanza popolare, anche perché al secondo turno costringe tanti cittadini a fare una scelta forzata rispetto al primo voto dato. Quanto ai paragoni tra 5Stelle e Podemos, sono impropri: quello di Iglesias è di fatto un partito.

SBAGLIATE VOI,
CON LA NUOVA LEGGE RISCHIATE
UNA SORTA DI DITTATURA

di Irene Hernàndez Velasco

N on darei un premio di maggioranza forte al primo partito come prevede l’Italicum in Italia: a volte i governi con la maggioranza assoluta non sono veramente democratici perché non sono aperti al confronto e non negoziano con le altre forze politiche. A volte questi governi si comportano quasi come una dittatura.

L’avanzata di Podemos e Ciudadanos e la crisi dei partiti tradizionali non mi sorprendono. Il governo di José Luis Rodríguez Zapatero è stato accusato di negare la crisi e l’attuale leader del Psoe, Pedro Sanchez, è senza carisma e non ha fatto sentire le sue proposte: assomigliava alla vecchia politica che la gente non vuole, sembra piú un’operazione di marketing che un vero leader politico.

L’avanzata di Podemos ricorda quella di Syriza, ma non penso che Pp e Psoe faranno un’alleanza come il Pasok e Nuova Democrazia dopo la quale i socialisti greci sono praticamente scomparsi, sarebbe un suicidio per il Psoe. I socialisti potrebbero non sostenere Mariano Rajoy e astenersi nella cerimonia di nomina del presidente del Governo, lasciando che il Pp formi un esecutivo di minoranza.

IL PREMIER COSÌ CI PORTA FUORI
DALLE DEMOCRAZIE PARLAMENTARI

di Gianluigi Pellegrino

S i può pure convenire con Renzi sui risultati in Spagna e sull’Italicum ma a patto di dire a chiare lettere che si abbandona la democrazia parlamentare. Però, se si ritiene che essa sia incompatibile con l’epoca attuale e con la necessità di prendere decisioni rapidamente, allora bisogna creare dei contrappesi adatti, con garanzie per l’opposizione e per la Corte costituzionale, altrimenti si fa una rivoluzione a metà e il paese si scava da solo la fossa.

Che ci sia bisogno di una legge maggioritaria va bene, mentre non va bene il mix di preferenze e candidati nominati dai vertici romani. Sarebbe meglio adottare il sistema dei collegi uninominali, capaci di garantire insieme una maggioranza forte e parlamentari più indipendenti dal governo. Un sistema che può consentire di vincere con una piccola minoranza rischia di portare al governo le forze antisistema. Non si deve scherzare col fuoco come l’apprendista stregone. Peraltro è sempre meglio dare rappresentanza parlamentare alle pulsioni populiste e comunque doveroso apprestare bilanciamenti e garanzie al potere esecutivo.

IL SISTEMA COL TRUCCO DEL PD
PROVOCHERÀ LA SCONFITTA DEL PD

di Curzio Maltese

Il risultato delle elezioni in Spagna rende evidente la crisi dei partiti dell’establishment come Pp e Psoe, che gli elettori identificano come forze indistinte del sistema. È preoccupante l’idea di arginare il dissenso popolare contro le élite con i trucchetti della legge elettorale che dà la maggioranza a chi non l’ha, come pensano Matteo Renzi e il ministro Maria Elena Boschi. Lei, con il suo tweet sull’Italicum «utile e giusto», ha dimostrato la sua scarsa capacità di analisi politica e dovrebbe dimettersi per un’affermazione come questa più che per la storia della Banca Etruria. Quel tweet mi ricorda il brano «Quelli che...» di Enzo Jannacci, quando dice «Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro»: non sarà l’Italicum a risolvere una crisi del sistema. Renzi benedice la sua legge, ma tutte le leggi elettorali hanno portato alla sconfitta della maggioranza che le ha approvate e così l’Italicum sarà il sistema migliore per far vincere tutti i rivali del Pd: il gradimento del governo è molto basso, quindi sarebbe difficile per i dem vincere al ballottaggio contro il M5S o una forza del centrodestra.

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