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«L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo ».

Il Fatto Quotidiano, 29 giugno 2016 (c.m.c.)

Domenica 19 giugno le candidate e i candidati del Movimento 5 Stelle sono arrivati al ballottaggio in 20 Comuni e ne hanno vinti 19. Subito dopo sono ricominciate le richieste da più parti di ritoccare la legge elettorale nazionale detta Italicum per impedire l’eventualità che il ballottaggio per la conquista del governo nazionale avvenga fra il M5S e Pd.

Renzi si è affrettato a rispondere che non sono previste modifiche. Si vedrà. Comunque, il principale problema dell’Italicum è che è una legge elettorale fatta su misura del Pd di maggio (2014, quando nelle elezioni europee il partito superò il 40% dei voti) con il consenso di Berlusconi, allora convinto che sarebbe stato il suo centrodestra ad arrivare al ballottaggio, e di Alfano, che chiese e ottenne una clausola di accesso al Parlamento non più alta del 3% (come in Spagna, circa 15 milioni di elettori meno dell’Italia, e non 4 come in Svezia: meno di 10 milioni di elettori).

Tanto Berlusconi quanto Alfano vollero la possibilità di candidature multiple (non più in tutte le circoscrizioni, ma “solo” in dieci) e parlamentari nominati (adesso capilista bloccati in tutte le circoscrizioni) cosicché l’Italicum che, persino secondo Napolitano, dovrà essere sottoposto alle “opportune verifiche di costituzionalità”, assomiglia molto al Porcellum, smantellato dalla Corte Costituzionale.

In buona sostanza, l’Italicum è un porcellinum, con le preferenze e con il ballottaggio che deve avvenire, a causa dell’ossessione anti-coalizioni di un capo di governo che vuole essere l’uomo unico al comando, fra i due partiti o le due liste più votate, a meno che un partito o una lista ottenga al primo turno il 40% dei voti più uno. Già alcuni renziani si affrettano a sostenere che la lista può anche essere composta da più partiti, ma questo sarebbe uno stravolgimento dello spirito della loro legge (e delle intenzioni personalistiche di Renzi) nonché una molto dubbia, forse improponibile, interpretazione della lettera.

Queste sembrano e, sostanzialmente, sono quisquilie e pinzillacchere. Né le leggi elettorali né i ritocchi cosmetici alle leggi esistenti debbono essere fatti con riferimento ai desideri e alle preferenze dei partiti e dei loro dirigenti. L’Italicum è una legge di parte che non può essere modificata per convenienze di parte, ma che deve essere cestinata. Punto e a capo.

Nel frattempo, pendono anche alcuni ricorsi alla Corte costituzionale su diverse clausole della legge. Il criterio con il quale valutare qualsiasi legge elettorale non è mai il tornaconto dei partiti esistenti, ma il potere degli elettori. L’Italicum migliora il Porcellum grazie sia al ballottaggio sia alla possibilità di esprimere uno o due voti di preferenza, ma, a causa dei capilista bloccati e come conseguenza dell’ingente premio in seggi consegnato a un partito/lista che ottenga anche soltanto poco meno o poco più del 30% al primo turno (quindi, quasi raddoppiandone la rappresentanza parlamentare), rimane molto al di sotto quanto a potere degli elettori tanto del sistema maggioritario francese quanto del sistema proporzionale personalizzato tedesco.

Nel maggioritario francese a doppio turno (non ballottaggio poiché al secondo turno possono esserci tre, se non quattro candidati) in collegi uninominali, gli elettori hanno il potere di eleggere il candidato preferito oppure, quanto meno, di sconfiggere il candidato più sgradito. E i partiti ottengono importanti indicazioni anche per la formazione delle coalizioni di governo.

Nella rappresentanza proporzionale personalizzata tedesca, gli elettori hanno due voti sulla stessa scheda: uno per il candidato nel collegio uninominale, uno per il partito. Con il primo voto eleggono il loro rappresentante, con il secondo voto contribuiscono a determinare il bottino complessivo dei parlamentari del partito preferito purché abbia superato la soglia del 5% (la Germania ha circa 60 milioni di elettori).

Cestinato il sostanzialmente irriformabile Italicum è fra questi due ottimi sistemi elettorali che bisognerebbe scegliere, eventualmente introducendo correttivi giustificabili non come contentino ai dirigenti di partito, ma come variazioni che migliorano la rappresentanza politica senza frammentare il sistema dei partiti.

Se queste scelte alternative non fossero praticabili nell’attuale Parlamento non resterebbe che un ritorno al Mattarellum, un sistema sostanzialmente conquistato nel 1993 attraverso un referendum popolare, “probabilmente” già sufficientemente noto all’inquilino del Colle il quale potrebbe anche cominciare a fare sentire la sua voce, utilizzato con risultati soddisfacenti in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001.

Con l’eliminazione delle liste civetta e una migliore definizione del recupero proporzionale, il Mattarellum consente agli elettori di eleggere i rappresentanti che preferiscono e dà loro un doppio voto che conta e pesa. Il resto (della discussione fra opportunisti elettorali) è fuffa oppure truffa.

«Il manifesto, 26 giugno 2016 (c.m.c.)

C’è un paradosso nei regimi democratici contemporanei: massimizzano le opportunità per i cittadini comuni di decidere direttamente e minimizzano l’ascolto.

Mai le democrazie si sono mostrate tanto disponibili a dar voce al popolo sovrano, sgombrando il campo delle mediazioni proprie della rappresentanza e dei partiti, tramite referendum, investiture dirette, primarie, consultazioni on line e non, ivi compresi gli onnipresenti sondaggi.

In compenso, questi stessi regimi mai hanno prestato così poca attenzione alle arcinote richieste dei cittadini comuni: lavoro, pensioni, servizi, eccetera. Intendiamoci. Nonostante quel che promettono i loro sacri testi e i loro propagandisti, sinceri e insinceri, i regimi democratici non sono stati inventati né per dare voce all’uomo comune, né per trattarlo con particolare benevolenza. Servono a minimizzare i conflitti e a tener buono il cittadino comune.

Sono il prezzo che i potenti pagano in cambio della pace sociale. Per fortuna, la competizione democratica lascia qualche spazio (che si è sempre provato in vario modo a ridurre) a chi si fa portavoce del cittadino comune, a condizione che lo si organizzi, come facevano i partiti di una volta.

Se non che, da qualche tempo a questa parte i potenti hanno deciso di cambiare strategia e di abbandonare ogni prudenza. Da un lato adottano misure che favoriscono in modo indecente i ricchi e i potenti e hanno ridotto quelle che favoriscono il cittadino comune.

Ritengono meno costoso addomesticarne le sofferenze e il malumore offrendogli quelle che spacciano per maggiori opportunità di decisione. Salvo ridurre le sue scelte a due sole opzioni e investire massicciamente in manipolazione e disinformazione. La democrazia si è pertanto risolta in una drammatica gara a chi manipola meglio e di più. E si dimostra spietata verso il cittadino comune.

Siamo seri. Il cittadino non è uno sciocco. Può di sicuro capire cosa gli conviene tra divorzio sì/divorzio no. Ma orientarsi tra i meandri del Brexit non è alla portata di tutti. Può scegliere un sindaco e un deputato, a condizione che gli si offra un numero decente di alternative. Sono invece democraticamente devastanti le procedure d’investitura diretta della leadership, solitamente ottenute con marchingegni elettorali che promuovono a maggioranze minoranze ristrettissime. Se la scelta è sbagliata (immaginiamo cosa accadrebbe se la spuntasse Trump), è impossibile rimediarvi. Il cittadino comune ha capito il trucco. Non a caso, l’astensione è cresciuta in maniera esponenziale.

Il diavolo, come sempre, fa pentole, ma non coperchi. Così è successo per il Brexit. Cameron ha voluto il referendum imbastendoci sopra una vergognosa speculazione politica. Lo ha voluto per vincere le elezioni, per ricattare i suoi partner europei, per neutralizzare a basso costo il populismo di Farage. Nelle due prime imprese gli è andata alla grande. Al referendum, l’imbonitore ha trovato il suo maestro.

Non sappiamo cosa accadrà. Forse sarà un vantaggio per l’Europa, che non sopporterà più le eccezioni inglesi e non subirà più la concorrenza di quel paradiso fiscale che l’Inghilterra è diventata. Ma è verosimile che i danni per il Regno Unito siano notevoli e che la sua stessa sopravvivenza sia a rischio. Che accidenti di democrazia è comunque quella in cui si sono pronunciati tre elettori su quattro (una quota peraltro altissima) e l’exit ha prevalso di un soffio, avendo messo in lotteria il destino di un popolo, ma anche dei popoli vicini?

C’è da augurarsi che questo evento, quali che siano le sue conseguenze, convinca i potenti che non è opportuno assumere decisioni collettive in maniera tanto avventata. Che possono essere controproducenti anche per loro. Riuscirà la vicenda del Brexit a moderare la loro avidità di potere e di ricchezza, dissipando il micidiale sciocchezzaio di quello che Giovanni Sartori ha chiamato «il direttismo»?

Ci libereremo di idiozie come quella che bisogna restituire al popolo sovrano il suo scettro? Che la sera delle elezioni è giusto che il popolo sappia chi dovrà governarlo? Che la democrazia vince sempre quando il popolo si pronuncia? La democrazia fa dei pronunciamenti popolari il suo fondamento, a condizione però che gli elettori siano istruiti e informati e non manipolati. Non per caso i padri costituenti scrissero che la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla costituzione.

Un secondo insegnamento è che il cittadino comune non lo si può opprimere e spremere più di tanto. Perché alla fine si ribella e lo fa come può. Anche in maniera scomposta. Non solo. Stiamo attenti in special modo agli anziani. Altro che rottamarli, meritano grandi cure e grande rispetto. Sono gli ultrasessantenni che hanno deciso del Brexit.

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La Repubblica, 24 giugno 2016 (c.m.c.)

Valutando i risultati dei ballottaggi, Matteo Renzi ha voluto subito sottolineare che la capacità attrattiva dell’M5S dipendeva dal fatto che era stato percepito come soggetto del “cambiamento”. Ed ha aggiunto che da questo portava con sé la conclusione che il governo doveva insistere con ancor maggiore determinazione sulla strada delle “riforme”.

Ma proprio le parole adoperate per una diagnosi così sbrigativa mostrano gli equivoci politici che la caratterizzano e l’intenzione di sfuggire alle domande più stringenti che le elezioni hanno proposto.

Non si può certo dimenticare il fatto che il Presidente del Consiglio ha sempre insistito in maniera martellante proprio sul cambiamento che il suo governo avrebbe già determinato in tutte le materie più significative.

Perché l’opinione pubblica non ha dato rilievo a questo fatto proprio nel momento in cui il governo si presentava al giudizio dei cittadini? Non credo che ci si possa rifugiare nell’argomento del difetto di comunicazione, visto che proprio la comunicazione ha costituito l’ossessione di Renzi, sì che si potrebbe, se mai, addirittura azzardare l’ipotesi che la sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo, il suo tono perennemente assertivo abbiano provocato una reazione di rigetto da parte degli elettori.

Se, però, si ragiona seriamente sull’accoppiata “cambiamento”/” riforme”, diventa più aderente alla realtà la conclusione che vede nel voto amministrativo il rifiuto del cambiamento incarnato dalle politiche governative. Due cambiamenti a confronto, dunque, uno dei quali prospetta un cambio di passo.

Non facile, perché la dimensione locale non rende agevole la messa a punto di politiche che abbiano in qualche modo un significato alternativo rispetto a quelle governative. Ma pure con gli interventi consentiti dalle specifiche competenze dei comuni è ben possibile dare concreti e visibili segnali di un diverso modo di selezionare le domande sociali, di determinare priorità corrispondenti agli interessi e ai bisogni che sono state rese visibili dal voto.

Due sono le dimensioni da prendere in considerazione. Riferimenti come quelli alla trasparenza, alla partecipazione, alla legalità dell’agire pubblico hanno trovato un denominatore comune nel rifiuto di ogni logica oligarchica, che non è solo un retaggio del passato, ma il tratto caratteristico del modo in cui si sono venuti organizzando i partiti. Qui si coglie la spinta a ripensare le forme del rapporto tra i cittadini e la politica, anzi la stessa cultura politica.

Non è una esigenza astratta. Le oligarchie producono un duplice effetto di esclusione — delle persone legittimate ad aver voce effettiva nella politica e delle domande sociali da prendere in considerazione.

Le riforme del governo Renzi sono profondamente segnate da questo duplice limite, del quale le persone hanno potuto direttamente misurare il peso considerando la subordinazione dei loro diritti sociali al primato attribuito al calcolo economico. Di questo, di un nuovo protagonismo delle persone e dei loro diritti hanno cominciato a rendersi conto diversi tra i commentatori dei risultati elettorali, con riferimenti e parole che, come eguaglianza e solidarietà, rinviano a una diversa idea di società.

Anzi, mostrano come la certificata morte della distinzione tra destra e sinistra abbia avuto come esito politico una ideologizzazione ben orientata, che ha attribuito alla logica di mercato le sembianze di un invincibile diritto naturale. Sottolineare questo dato di realtà non significa invocare uno sguardo rivolto al passato, il recupero di vecchie categorie. Pone la ben diversa questione di costruire il futuro secondo principi e diritti nei quali ci si possa comunemente riconoscere.

Poiché un altro dei luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla benemerita categoria degli innovatori. È indispensabile individuare i criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con libertà e democrazia. Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore.

I risultati elettorali dovrebbero spingere a una riflessione in questa direzione, non solo per ricondurre alla rilevanza dei criteri costituzionali le politiche di riforma di nuovo promesse, ma per valutarne l’effettivo carattere innovativo. Proprio considerando i valori di riferimento, ben può dirsi che in Italia (e non solo) si sia venuto costituendo un blocco sociale fondato sul primato di interessi e ceti che concretamente revocano indubbio la rilevanza primaria di eguaglianza e solidarietà.

Una politica così fatta assume le sembianze della restaurazione, e non può essere definita che conservatrice. A questa conclusione, consapevoli o no, giungono molti commentatori di questi giorni che insistono sui guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari all’arroganza.

Poiché, tuttavia, il perno di una rinnovata stagione di riforme è, per quasi quotidiana insistenza del Presidente del Consiglio, quella legata alla riforma costituzionale, anche questa deve essere valutata considerando i criteri che i risultati elettorali suggeriscono.

La confusione è massima, perché la debolezza culturale del ristrettissimo ceto di governo ha messo spietatamente in luce l’uso strumentale delle istituzioni. Dopo aver personalizzato al massimo la campagna referendaria, ora Matteo Renzi sembra incline a seguire altre strade, non perché si sia reso conto degli effetti distorsivi della trasformazione di un referendum in plebiscito (altro palese segnale conservatore), ma per una convenienza elettorale che non può distogliere da una valutazione nel merito della riforma e della sua innegabile connessione con la legge elettorale.

Proprio l’invocata discussione sul merito si sta rivelando impietosa. Ricordo, da ultimo, l’analisi di Ugo De Siervo, che non mostra soltanto con chiarezza come la sbandierata semplificazione del procedimento legislativo sia contraddetta dalla farraginosità delle procedure previste, ma sottolinea anche l’alterazione di delicati equilibri e prerogative costituzionali.

Vengono pure rafforzati i meccanismi di esclusione, come accade con l’eccessivo accentramento delle competenze statali rispetto a quelle delle regioni, che evoca la riduzione della rappresentanza dei cittadini prevista dall’Italicum (ancora un tratto conservatore). Proprio l’analisi puntuale, di dettaglio, fa così emergere “gravi rischi di un complessivo peggioramento della nostra democrazia”.

Questo è il contesto nel quale si svolgeranno le discussioni dei prossimi mesi. I risultati elettorali lo hanno reso più chiaro, hanno individuato poteri e responsabilità delle diverse forze politiche, che devono esser ben consapevoli anche della necessità di non farsi incantare da un altro argomento che viene speso nella discussione pubblica, secondo il quale, poiché non si toccano formalmente articoli del prima parte delle Costituzione, i principi e diritti lì considerati non correrebbero rischi.

Non è così. Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate, la soglia di quelle garanzie si abbassa. La discussione dei dettagli della riforma si fa giustamente impietosa, non può dar spazio a convenienze di breve periodo. Se si incrina il patto fondamentale tra i cittadini, la convivenza civile, la buona politica, il reciproco riconoscimento tra i cittadini diventano sempre più difficili.

«L’assassinio di Jo Cox e il dibattito violento sulla "Brexit" definiscono ancora una volta la questione immigrazione come questione centrale del nostro tempo».

Il manifesto, 20 giugno 2016 (m.p.r.)

L’assassinio di Jo Cox ci dà una rappresentazione plastica della radicalizzazione a cui sta andando incontro la lotta politica. Da un lato abbiamo un assassino razzista e neo-nazista, legato a una rete internazionale (altro che Britain first!) di primatisti bianchi. Dall’altro, ancor prima che una parlamentare laburista, una esponente, da sempre, del volontariato, impegnata nel sostegno alle politiche di accoglienza dei profughi e migranti e di apertura verso le comunità di immigrati. Respingere contro accogliere.

Delle possibili conseguenze della "Brexit", l’uscita del Regno unito dalla Unione europea, sono piene le pagine dei giornali e i notiziari televisivi: accentuerà la crisi economica? Provocherà un caos nel mondo finanziario? Ridurrà, e di quanto, i Pil? Penalizzerà, e in che misura, il mondo del lavoro, il precariato, i disoccupati? E dove? Solo nel Regno unito, se lascia, o anche nei paesi dell’Unione, se abbandonati? Sono tutte questioni della massima importanza; ma il voto del 23 giugno sulla brexit - leave or remain - non si svolgerà prioritariamente né in misura decisiva su questi temi ma su quello che l’assassinio di Jo Cox ha messo in evidenza: respingere o accogliere?

D’altronde è il tema su cui si sta avvitando e radicalizzando la lotta politica non solo in tutta Europa ma in tutti i paesi di forte immigrazione, volontaria o forzata, a partire dagli Stati Uniti.

È il tema su cui si è votato nelle recenti elezioni presidenziali in Austria, che hanno visto la polarizzazione dell’elettorato intorno a due schieramenti contrapposti, con la dissoluzione dei due partiti centristi che avevano governato il paese, insieme o alternandosi, negli ultimi settant’anni.

È il tema che sta mettendo in crisi le maggioranze di tutti i paesi dell’Unione, che vedono nell’esito del voto austriaco l’alternativa tra la loro scomparsa e il loro allineamento con le posizioni xenofobe più estreme, solo in parte mascherate da iniziative come l’accordo con Erdogan o la proposta del Migration compact che non hanno futuro, ma che contribuiscono non poco alla moltiplicazione delle sofferenze di milioni di profughi e all’imbarbarimento della convivenza nei propri paesi.

Quando già non si sono decisamente spostate verso il primo di quei poli - respingere - con tutte le conseguenze di ordine politico che questo comporta, come è successo in molti dei paesi membri dell’Europa orientale.

Se l’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione rischia di aprire la strada ai molti governi già tentati di farlo per conto loro – Danimarca, Olanda, Svezia e poi, chissà? – questo non è certo per le assurde politiche economiche adottate dall’Unione, di cui quei governi sono grandi sostenitori, ma perché ormai "uscire" è diventato l’equivalente di respingere.

Ma è un tema che non sta mettendo sottosopra solo il posizionamento e l’esistenza stessa di forze politiche consolidate; divide e mette in discussione anche le fedi religiose. E non solo l’Islam, tra integralisti radicalizzati e i cosiddetti "moderati", che altro non sono che coloro che vorrebbero praticare in santa pace il loro credo.

Ma anche, e in misura crescente, i cristiani: tra chi, come papa Francesco, ha messo il tema dell’accoglienza al centro di una pratica autentica della propria fede e chi nelle "radici cristiane" dell’Europa o dell’Occidente rivendica le ragioni del respingimento dei seguaci di altre religioni, quando non di un razzismo ormai scoperto, di cui non ci si deve più vergognare. Come mette in crisi le culture, scoprendo tanti sedicenti liberali apertamente schierati contro la libera circolazione delle persone tanto quanto sono favorevoli alla libera circolazione di merci e capitali; e tanti eredi di quello che fu l’internazionalismo proletario (che in verità non ha evitato, e spesso nemmeno sconfessato, un secolo di colonialismo e due guerre mondiali) impegnati a ripetere che «così son troppi» e che «così non si può andare avanti».

Ma il fatto è che la contrapposizione tra respingere e accogliere attraversa e divide verticalmente anche le classi sociali lungo linee che in nulla corrispondono alla visione tradizionale che per lo più se ne continua ad avere: operai e capitale, proletari e borghesi, basso e alto, 99 e 1 per cento.

Vuol forse dire, questo, che la lotta di classe è finita e bisogna attestarsi su altri fronti? Certo no. Ma vuol dire che le lotte sociali, anche le più radicali, come quelle che stanno attraversando la Francia, se non sapranno misurarsi con questo problema rischiano di portare acqua anche loro al fronte di chi punta a rifondare stati e governi su basi autoritarie, antidemocratiche, nazionaliste e razziste.

Dunque la partita decisiva è questa; bisognerebbe attrezzarsi in gran fretta se non per vincerla, perché un esito del genere appare al momento fuori portata, per lo meno per non farsene sopraffare. Tenendo conto soprattutto di due elementi:
1. Se respingere è così popolare perché è semplice dirlo e sembra facile farlo, in realtà tutte le soluzioni proposte sono impraticabili; ma ricade sui suoi fautori la responsabilità di decine e decine di migliaia morti, di violenze senza fine sui corpi e sulle vite di milioni di esseri umani, dell’istituzione di veri e propri campi di sterminio che avvicina di molto l’esito pratico di questa scelta all’ideologia che ha armato la mano dell’assassino di Jo Cox.
2. Accogliere non vuol dire solo aprire le porte a chi cerca la propria salvezza nei nostri paesi, offrire loro tetto e cibo, e poi costringerli per anni a un ozio forzato mantenuti dallo stato, per poi abbandonarli alla clandestinità: cioè quello che tanto fa arrabbiare, e giustamente, chi accanto a loro fatica giorno per giorno a sbarcare il lunario.

Accogliere vuol dire anche includere, inserire i nuovi arrivati in una rete di rapporti sociali che li metta in condizione di rendersi autonomi, di lavorare, di andare a scuola, di imparare, ma anche di trasmettere e divulgare la loro cultura; e di organizzarsi per contribuire a creare le condizioni di un ritorno – per chi lo desidera, e sono molti! – nel paese da cui sono dovuti fuggire.

Profughi e migranti possono essere una risorsa straordinaria sia per l’Europa che per i loro paesi di origine. Ma bisogna capirlo, saperlo spiegare, e poi cominciare a tradurlo in pratica: con dei progetti, anche minimi, che aprano la strada a una diversa visione del problema.

. Il Fatto quotidiano online, 19 giugno 2016 (c.m.c.)

Il referendum costituzionale si intreccia al giudizio della Corte costituzionale sulla legge elettorale. Il 4 ottobre è fissata la prima udienza alla Consulta. «La bocciatura della legge elettorale sarebbe un pessimo viatico per i sostenitori del Sì, ecco perché vogliono fissare il referendum prima del giudizio della Corte», spiega l’avvocato Felice Carlo Besostri, il regista della strategia giudiziaria contro l’Italicum. Ma nella maggior parte dei Tribunali i nostri ricorsi sono fermi, aggiunge Besostri, come se si volesse prima conoscere il risultato del referendum e il giudizio della Corte sul primo ricorso.

Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare le ordinanze in 30 giorni. «Se prosegue questa inerzia, solleveremo la questione facendo presentare interpellanze e interrogazioni in parlamento». Se salta la riforma costituzionale, tuttavia, «non sta in piedi nemmeno questa illegittima legge elettorale pensata solo per la Camera».

Avvocato Besostri, facciamo il punto della strategia di ricorsi contro l’Italicum.
I Tribunali che abbiamo interpellato sono quelli civili di Torino, Genova, Milano, Brescia, Venezia, Bologna, Firenze, Ancona, Perugia, Roma, L’Aquila, Bari, Lecce, Napoli, Potenza, Catanzaro, Messina. A breve Caltanissetta e Cagliari. L’obiettivo è quello di ottenere più ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale sui quattordici motivi di ricorso. Bisognava evitare che per avere un giudizio di costituzionalità si dovesse arrivare in Cassazione, magari dopo aver già votato con l’Italicum.

Come sta andando?
Le decisioni finora depositate sono state soltanto due. La prima decisione è stata del Tribunale di Messina che ha sollevato questione incidentale di costituzionalità su sei punti: la discussione in Corte Costituzionale è stata fissata per il 4 ottobre. La seconda del Tribunale di Ancona, che ha respinto il ricorso con una motivazione copiata, compreso un errore di data, 10 luglio invece del 1° luglio come data di applicazione della maggior parte delle norme dell’Italicum, da una sentenza del Tribunale di Milano, resa in un giudizio promosso da altri elettori non associati al nostro Coordinamento per la Democrazia.

L’ordinanza di rigetto è già stata impugnata. A Bari un giudice ha messo per iscritto quello che altri stanno facendo senza dirlo: ha rinviato tutto al 7 novembre per conoscere il risultato del referendum e le decisioni della Corte Costituzionale. I giudici che si sono riservati di emettere le ordinanze sono immobili. Il Tribunale di Trieste è in riserva dal 2 febbraio, Torino dal 21 marzo. Dovrebbero depositare in 30 giorni.

Chi avete di fronte nelle udienze?
A Roma l’Avvocatura Generale, negli altri tribunali le avvocature distrettuali in ogni distretto di Corte d’Appello. La difesa è al massimo livello, ma l’impresa è disperata: l’Italicum è come il Porcellum. O la Corte Costituzionale rinnega i principi della sentenza n. 1/2014 o la sua sorte è segnata. Al ballottaggio si accede senza una soglia in voti o seggi e il premio di maggioranza è sempre di 340 seggi che si abbia il 40% o si acceda al ballottaggio con il 25%: il premio è inversamente proporzionale al consenso elettorale e prescinde anche dalla percentuale dei votanti.

Sospetta una pressione per rallentare l’esito dei ricorsi in vista del referendum e del primo dibattimento alla Consulta?
Vediamo se continua l’inerzia. Se non succede nulla solleveremo la questione facendo presentare interpellanze o interrogazioni in parlamento.

Si legge che il governo intende fissare il referendum prima dell’udienza alla Consulta.
Il Governo ha tentato invano di far celebrare il referendum in giugno in coincidenza con le amministrative perché non vuole che gli elettori siano informati. L’abbiamo impedito con la raccolta delle firme che ci ha consentito tre mesi di tempo in più. Se si vota il 2 ottobre, la prima data utile, è per evitare un voto informato: due mesi, luglio e agosto, di vacanza, la prima settimana di settembre di rientro. Di fatto ventuno giorni scarsi per la campagna. Volere la votazione due giorni prima della decisione della Corte Costituzionale è un segno di debolezza.

D’altra parte la Presidenza del Consiglio è informata di ogni passo da noi fatto nella quindicina di Tribunali. Gli avvocati dello Stato, che sono ottimi professionisti, hanno informato il governo dei rischi. C’è un nostro motivo di ricorso che può far cadere l’intera legge: alla Camera è stata approvata con un voto di fiducia, cioè con un procedimento speciale vietato dall’art. 72 della Costituzione per le leggi in materia elettorale e costituzionale. Legge elettorale e deforma costituzionale sono strettamente legate. Non sarebbe un buon viatico per il Sì al referendum un pronunciamento negativo sulla legge elettorale.

Quali sono le possibili conseguenze del referendum?
Se vince il Sì il Senato non sarà più eletto dai cittadini direttamente, ma dai consigli regionali. A differenza di quanto molti pensano, il Senato non è stato abolito. E’ stata abolita la democrazia nell’elezione del Senato. Se vince il No il Senato sarebbe eletto con una legge elettorale non proporzionale, ma con soglie di accesso alte, cioè l’8% per le liste singole e il 20% per le coalizioni. Ma tutto dipende da cosa decide la Corte Costituzionale, se i giudici si svegliano. Se salta la deforma costituzionale tuttavia non sta in piedi nemmeno la legge elettorale pensata solo per la Camera dei Deputati.

Secondo lei il governo potrebbe mettere mano all’Italicum prima delle prossime elezioni politiche?
Dipende da come vanno i ballottaggi del 19. Se Renzi li perde tornerà il premio alle coalizioni.

Uno degli argomenti del Sì è la stabilità di governo. Se vincono i no – dicono – ci sarà il caos. Come risponde?
Un governo che non risolve la crisi economica e toglie il diritto di voto per il Senato è meglio che se ne vada. Il governo deve terrorizzare gli elettori perché non ha altri argomenti.
Siamo sopravvissuti a 63 primi ministri, sopravviveremo a 64.

«Qualche sera fa in una trasmissione televisiva è stato intervistato un uomo che vive in quei luoghi [Rosarno]. Gli veniva chiesto che cosa pensasse della sua situazione. Con tono pacato e in un impeccabile italiano ha detto soltanto: "Ho perduto la speranza". No, questa non può essere la società nella quale accettiamo di vivere». La Repubblica, 17 giugno 2016

LA società esiste”. Queste tre semplici parole colgono le forti dinamiche sociali rivelate dal recentissimo voto amministrativo, e così rovesciano la fin troppo nota affermazione di Margaret Thatcher — «la società non esiste, esistono solo gli individui» — che tanto ha pesato in questi anni, influenzando pure la recente politica italiana. L’esigenza di guardare alla società è sottolineata da tutti quelli che hanno dato la giusta rilevanza al modo in cui si è distribuito il voto tra i quartieri centrali delle città e i quartieri periferici. Ma il voto ha pure messo in evidenza l’irrilevanza sociale di movimenti e gruppi assai influenti invece nella dimensione politico-parlamentare. E sono emerse le condizioni materiali del vivere, che rinviano all’impossibilità di separarsi dai diritti sociali.

Come queste diverse dimensioni possano comporsi e intrecciarsi non è questione facile, che tuttavia non può essere affrontata con le categorie abituali. Se si considera proprio il rapporto centro/ periferie, non ci si può semplicisticamente rifugiare nello schema borghesia/classe operaia, la cui inadeguatezza è rivelata, ad esempio, dalle analisi sui votanti per il Movimento 5Stelle — prevalentemente giovani, con notevole scolarizzazione, professionalmente caratterizzati. Si potrebbe essere tentati di concludere che siamo di fronte ad una nuova incarnazione di quello che Paul Ginsborg, considerando l’opposizione al berlusconismo nel primo decennio di questo secolo, definì “ceto medio riflessivo”. Ma rispetto a quelle esperienze, peraltro difficilmente riconducibili tutte al medesimo denominatore, finora sembrano mancare la consapevolezza di agire come unico gruppo sociale, l’esercizio comune e organizzato di virtù civiche pubblicamente contrapposte al malgoverno.

Oggi l’elemento unificante è rappresentato dal riconoscersi in un soggetto politico già esistente, appunto il Movimento 5Stelle. Su questo dato di realtà bisogna ragionare, liberandosi di un altro schema, l’antipolitica, divenuto ormai una semplificazione che esenta dall’obbligo di misurarsi con una realtà in movimento. È di un’altra politica che si va alla ricerca, seguendo motivazioni diversificate, a partire da un bisogno di rappresentanza, non più soddisfatto dai partiti esistenti, di cui si coglie piuttosto l’ormai consolidata deriva oligarchica, divenuta così forte e sfrontata da respingere sullo sfondo il fatto che questo sia un modo d’essere che riguarda lo stesso Movimento 5Stelle.

Sono i paradossi di una situazione che ha visto proprio il disconnettersi tra politica e società, con una ossessiva ricerca del bene assoluto della decisione che travolge ogni altra esigenza e porta verso una concentrazione oligarchica del potere. Così stando le cose, ogni rifiuto dell’oligarchia diviene un segno importante per la permanenza della logica democratica. Si è giustamente detto che la democrazia rischia di ridursi da “due a uno”, identificata con chi detiene il potere di governo in un momento determinato, sì che l’alternativa viene poi presentata come impossibile o addirittura come pericolosa. Il voto del 5 giugno deve essere considerato anche da questo punto di vista, dunque come una indicazione per un recupero della pienezza della democrazia.

L’esistenza della società si fa ancora più evidente se il voto delle periferie, ma non di queste soltanto, viene considerato anche come l’espressione di un disagio sociale sempre più diffuso, che ha la sua origine in un impoverimento non soltanto economico, ma derivante da una riduzione dei diritti. Commentando proprio i risultati elettorali, Piero Ignazi ha giustamente richiamato l’attenzione su una strategia che restringe l’attenzione per i diritti a quelli “libertari” e ignora quelli sociali. Strategia non nuova, nella quale si coglie una illusione “compensativa” di cui le vicende storiche hanno mostrato l’infondatezza e che contrasta con l’ormai riconosciuta indivisibilità dei diritti. Quando ci si domanda se sia ricominciata una stagione dei diritti, com’è avvenuto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si possono dare risposte che prescindano da uno sguardo d’insieme, dunque da una considerazione primaria anche dai diritti sociali.

Lavoro, salute, istruzione, abitazione e trasporti ci portano nel cuore della vita quotidiana, dove il rapporto tra i cittadini e le istituzioni viene percepito nella sua materialità. Qui il ritorno ad una contrapposizione tra società e individui può produrre politiche che portano ad una distribuzione delle risorse non solo a pioggia (o, come ora si dice, lanciate da un elicottero), ma che poi si traduce nell’abbandono di razionali strategie politiche e si affida ad un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Ma così non si recupera la fiducia dei cittadini, ma si istituzionalizza una loro condizione di dipendenza, con inevitabili conflitti tra gruppi per la spartizione di risorse scarse, In questo senso il voto dei cittadini continuerà ad interrogarci, perché ciò di cui parliamo si chiama eguaglianza, dignità, solidarietà. L’Europa distoglie il suo sguardo, e Andrea Bonanni ha ben raccontato le ragioni di una rinuncia a politiche costituzionali dei diritti nella quale il populismo ha trovato e continua a trovare il suo alimento.

Ma proprio la riflessione critica imposta dai risultati elettorali offre all’Italia una opportunità per guardare finalmente alla società per quella che è, riconoscendo che viene continuamente messo in discussione “il diritto all’esistenza”, che trova un suo esplicito riconoscimento nell’articolo 36 della Costituzione, dove il diritto alla retribuzione è direttamente collegato all’”esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia. Proprio partendo da questa premessa, da tempo si discute dell’introduzione di un reddito garantito, definito da molti appunto come reddito “di dignità”. Una misura, questa, che in Italia ancora non esiste e che, lo ha sottolineato Chiara Saraceno, “potrebbe essere uno degli strumenti per non essere ricattati”, dunque per attribuire alle persone una garanzia indispensabile per il rispetto dei loro diritti fondamentali. Questo tipo di reddito può assumere forme diverse, ben analizzate in un libro dedicato a Il reddito di base da Elena Granaglia e Magda Bolzoni, e rappresenterebbe un essenziale elemento per la ricostruzione delle basi materiali della dignità. Se si vuole continuare a pronunciare quella parola senza farla divenire complice di un permanente imbroglio retorico, bisogna ricostruire le condizioni della sua effettiva rilevanza, della sua materialità, del suo essere componente essenziale di quello che deve essere definito il “costituzionalismo dei bisogni”.
Ma non posiamo fermarci qui. La società italiana, ce lo ricordano periodicamente le vicende delle campagne di Rosarno, conosce ormai una vera e propria schiavitù. Nessun dato elettorale ci parla di queste persone. Ma questo ci autorizza ad ignorarle, a concludere d’avere la coscienza tranquilla perché è stata approvata una legge sul caporalato? Gli schiavi ci sono, mangiamo i pomodori che raccolgono, ma sembra che vi sia ormai un tacito consenso sul fatto che in Italia possano vivere persone per le quali la disattenzione istituzionale e civile esclude la dignità. Abbiamo alzato la voce contro la diffusione del Mein Kampf di Hitler, dunque di un testo che ha posto le premesse perché agli ebrei fosse negata la dignità e quindi la vita. Di fronte agli schiavi, privati di dignità e diritti, rimaniamo silenziosi. E non possiamo dire di non sapere.


Si sono concluse da poco le elezioni comunali del 5 giugno 2016. Su un blog della provincia di Cuneo, leggo quanto segue: Chiuse le urne delle elezioni comunali 2016: in Granda ha votato il 67,51%. Al top Crissolo 82,85%, maglia nera per Pezzolo Valle Uzzone (55,60%).

La notizia non mi lascia indifferente. Pezzolo Valle Uzzone è un Comune dell’Alta Langa assai esteso (più di 26 kmq), con moltissime frazioni e poco più di trecento abitanti. Si tratta di quei piccoli Comuni che molti politici, che stanno altrove, a Roma o comunque in aree urbane centrali, vorrebbero chiudere, prendendo oltretutto a riferimento soltanto il numero degli abitanti, e non anche l’estensione territoriale. E che invece, visti da questi territori interni dell’”osso appenninico”, marginali rispetto ai principali indicatori di accessibilità, rappresenta un presidio fondamentale per la vita della comunità che vi abita e ne mantiene vivo il paesaggio. In questa tornata elettorale, peraltro, i non molti giovani presenti e disponibili si erano presentati in un’unica lista, valutando un po’ ridicolo dividersi.

Come possibile che in un territorio così gli abitanti abbiano corso il rischio di avere una tornata elettorale nulla, e di veder nominato un commissario al posto del Sindaco? Davvero chi vive in questo territorio ha scelto di non recarsi alle urne? Anche negli altri piccoli Comuni contermini, le percentuali alle ultime elezioni sono state appena superiori, sfiorando quindi il rischio di non raggiungere il quorum.

In realtà a Pezzolo ha votato non il 55,6%, bensì l’85,7% degli aventi diritto residenti nel comune. A cosa è dovuta la differenza fra queste due cifre? Ai 144 aventi diritto al voto residenti all’estero (prevalentemente in America Latina), che per una norma bizzarra, a differenza di quanto avviene nelle elezioni politiche, nelle elezioni amministrative non possono votare per corrispondenza, ma soltanto recandosi di persona alle urne. Nessuno ovviamente l’ha fatto.

Man mano che approfondisco la questione, la bizzarria delle norme italiane in proposito si rivela ben più profonda, e conseguente all’organizzazione (partitica?) degli interessi elettorali relativi al voto degli italiani residenti all’estero. Certo, questo diritto esiste anche in altri paesi. Ma non certo regolato come in Italia.

In Italia la materia è gestita dall’AIRE (associazione italiani residenti all’estero). Sulla pagina del Ministero dell’Interno dedicata a questa Associazione si può leggere che

«Possono iscriversi all’AIRE non soltanto i cittadini italiani che espatriano per un periodo superiore all’anno, ma anche I cittadini italiani nati e residenti fuori dal territorio nazionale, il cui atto di nascita sia trascritto in Italia e la cui cittadinanza italiana sia accertata dal competente ufficio consolare di residenza.

«Iscriversi all'AIRE è un obbligo prescritto dalla legge istitutiva dell'AIRE. Il rispetto di tale obbligo è un dovere civico che comporta la possibilità di esercitare con regolarità il diritto di voto e di ottenere certificati dal comune di iscrizione e dal consolato di residenza».

Strana concezione del “dovere civico”: nessun obbligo di contribuire alla vita del paese e della comunità di riferimento, ma possibilità di eleggere le rappresentanze che decideranno come regolamentare i nostri diritti e doveri di abitanti.

Tutti gli iscritti all’AIRE possono ottenere lo status di aventi diritto al voto, anche se non hanno mai messo piede in Italia e mai lo metteranno, e se non contribuiscono in alcun modo a far funzionare il nostro paese. Non soltanto alle elezioni politiche, ma anche alle elezioni amministrative, incluse quelle comunali.

Sulle pagine web del Ministero dell’Interno dedicato alle elezioni comunali del 5 giugno 2016 si legge infatti che:

«Gli italiani residenti all’estero possono votare alle elezioni amministrative venendo in Italia a votare presso il comune di iscrizione nelle liste elettorali. A tal fine i comuni inviano ai nostri connazionali all’estero le cartoline-avviso con l’indicazione della data della votazione. Per le elezioni amministrative non è, infatti, previsto il voto per corrispondenza all’estero».

Anche nelle elezioni comunali possono dunque votare tutti i cittadini iscritti nelle liste elettorali del Comune stesso, indipendentemente dal fatto di risiedervi o meno, pagarvi le tasse ecc. Questa bizzarra (per non dir di peggio) disposizione produce una serie di effetti collaterali, in particolare nei piccoli Comuni in aree marginali, dove l’emigrazione nel passato è stata assai forte.

Nelle elezioni dei Comuni con popolazione fino a 15.000 abitanti, nel caso di un solo candidato a Sindaco e di una sola lista (situazione assai frequente nei Comuni con meno di 1000 abitanti), devono essere infatti soddisfatte due condizioni: la lista deve aver riportato voti validi superiori al 50% dei votanti, e deve aver votato almeno il 50% degli aventi diritto. Se queste due condizioni non vengono soddisfatte l’elezione è nulla. Sulla carta sembrano condizioni ragionevoli. Sembrano: in realtà la possibilità, per chi risiede all’estero anche da tre generazioni, di essere iscritto alle liste elettorali del Comune nel quale era nato un suo avo, può far sballare tutti i conti. Ragion per cui nel Comune di Pezzolo Valle Uzzone, ad esempio, gli elettori sono assai superiori ai residenti: 410 elettori, contro 345 residenti (non tutti elettori, ovviamente, per ragioni anagrafiche o di cittadinanza: gli aventi diritto al voto residenti sono solo 266).

La questione del diritto di voto agli italiani residenti all’estero che non pagano le tasse nel nostro paese, e in gran parte dei casi non contribuiscono nemmeno al pagamento dei tributi locali non possedendovi beni immobili, è abbastanza inquietante in generale, con riferimento sia alle elezioni amministrative che a quelle politiche, circa la natura pasticciata delle nostre istituzioni.

Da un lato infatti i loro voti determinano chi ci governa, e quindi quali saranno le politiche fiscali, previdenziali, del lavoro, del territorio, dell’ambiente del nostro paese, politiche che riguardano innanzitutto chi vive e lavora in Italia. Perché una persona che aveva il bisnonno o trisnonno italiano, ma che ha sempre vissuto e pagato le tasse all’estero, dovrebbe poter con il proprio voto contribuire a determinare queste scelte?

Dall’altro esiste un’incongruenza interna alle stesse norme che consentono il diritto di voto agli iscritti alle liste dell’AIRE. Per le elezioni politiche e per le consultazioni referendarie, infatti, è richiesto l’esercizio di una specifica opzione di voto e consentito il voto per corrispondenza (quei voti serviti, ad esempio, a eleggere Razzi: qualcuno ce l’ha presente?).

Per le elezioni comunali no. Tutti gli iscritti all’AIRE riconosciuti come elettori di diritto contribuiscono quindi a determinare il quorum, ma possono votare soltanto recandosi di persona al seggio. Pur essendoci la possibilità di ottenere il rimborso (dallo Stato italiano, ovvero da tutti noi che vi paghiamo le tasse) del 75% del costo del biglietto di viaggio (anche di un aereo proveniente dall’altro capo del mondo), praticamente nessuno (fortunatamente per le casse già malandate del nostro Stato) esercita questo diritto.

Ultimo particolare: ma chi decide quali iscritti all’AIRE vengono riconosciuti come elettori? I Comuni. Che a lor volta subiscono non poche pressioni in tal senso. Il Comune in questione, Pezzolo Valle Uzzone, ha diverse decine di ulteriori richieste di riconoscimento pendenti. Se le approvasse tutte, alle prossime elezioni non riuscirebbe a raggiungere il quorum nemmeno facendo votare i defunti recenti.

Qualcuno ci spiega chi ha legittimato queste norme geniali? La firma è quella del governo Berlusconi, ma le responsabilità sono anche quelle dei servizi legislativi di Camera e Senato, e del Presidente della Repubblica che le ha promulgate. E perché nessuno si pone comunque il problema di modificarle?

Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni». Corriere della Sera, 8 giugno 2016 (c.m.c.)

Caro direttore, ha sicuramente ragione Michele Salvati («Perché la riforma riguarda tutti ed è solo il primo passo», nel Corriere del 30 maggio) quando dice che la riforma costituzionale «è problema troppo serio per essere affidato ai soli costituzionalisti», ed è piuttosto «un problema storico-politico».

Ma quale problema? Quello di passare (finalmente, dice Salvati) a una «Seconda Repubblica», e quindi di distaccarci decisamente dai caratteri fondamentali della Repubblica nata con il referendum del 1946 e con la Costituente? Questa, dal mio (e non credo solo mio) punto di vista non è una prospettiva allettante, è piuttosto una minaccia.

Sono almeno venticinque anni che taluno vagheggia una «Seconda Repubblica», e i prodromi e le tendenze che si sono visti o intravisti sono tutt’altro che rassicuranti. Salvati muove anch’egli, come altri fautori delle «grandi riforme», dall’idea che il nostro sistema costituzionale sia caratterizzato da un eccesso di poteri di freno e da una endemica debolezza dell’esecutivo, visto invece come unico potere chiamato a decidere; e che ciò sia storicamente dovuto alla scelta di settanta anni fa di voler «imbrigliare un partito antisistema» (il Partito comunista) che si temeva potesse ottenere la maggioranza elettorale.

Ma davvero si pensa che se il Partito comunista degli anni Quaranta del Novecento avesse conquistato la maggioranza elettorale nel Paese il bicameralismo (per dirne una) avrebbe costituito un freno efficace a rischi di abbandono del terreno della democrazia liberale? Davvero si pensa che le forze di ispirazione schiettamente democratica che diedero vita alla Costituzione, se non ci fosse stato il Partito comunista, avrebbero scelto un diverso sistema istituzionale fortemente accentrato e basato sui poteri dell’esecutivo, abbandonando il classico terreno delle democrazie di massa europee, cioè il parlamentarismo?

In realtà il sistema parlamentare, assicurando la consonanza di legislativo e esecutivo (perché il governo non ha altra legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della maggioranza parlamentare), è quello meglio in grado di consentire ad una maggioranza di realizzare i propri programmi, non solo in via amministrativa, ma anche promuovendo e guidando la formazione delle leggi che esprimono e traducono il suo indirizzo politico. O si dovrebbe preferire un sistema all’americana, dove il presidente dura in carica quattro anni, ma ogni due anni entrambe le Camere si rinnovano (una per intero, l’altra per un terzo), e se la maggioranza del Parlamento non è d’accordo col presidente questi non ha strumenti, (né la questione di fiducia, né il potere di scioglimento anticipato delle Camere) per tradurre il suo programma in leggi e in decisioni di spesa (il bilancio dello Stato infatti dipende dal Parlamento)?

Il nostro sistema parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.

Ma, si dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con efficacia: solo un governo (anzi, un capo del governo), che possa per tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrà governare con efficacia.

Qui si svela il vero sogno dei fautori delle «grandi riforme»: il sogno (o per altri, come noi, l’incubo) dell’«uomo solo al comando». La realtà è che il sistema costituzionale è in grado di offrire ed offre la possibilità di costruire e attuare processi decisionali efficienti, ma perché essi possano operare ci vogliono delle condizioni politiche: è la politica, bellezza, viene da dire.

Al di fuori di queste, le istituzioni, di per sé, possono solo offrire strade di impoverimento della democrazia rappresentativa (occorre un unico «vincitore», e non importa quale consenso abbia dietro di sé); oppure la scorciatoia di torsioni di tipo autoritario. È questo che alla fine vogliamo?

Dire «condizioni politiche», in democrazia, vuol dire necessità che si riescano a promuovere, costruire, mantenere soluzioni sufficientemente condivise. Che non vuol dire solo, si badi, dar vita e tenere unita una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa intorno agli obiettivi cui le decisioni politiche tendono. Ciò è certo auspicabile, e il ruolo costituzionale dei partiti (intesi come strumenti di partecipazione politica, e non come puri gruppi di potere) è appunto questo. Ma la condivisione in politica ha molti aspetti.

C’è anche, ci può essere anche, una condivisione più ampia o talora perfino diversa da quella che dà vita alle maggioranze di governo. Nel 1970 la legge sul divorzio fu varata in Parlamento sulla base di un consenso (poi confermato dagli elettori) diverso da quello su cui si fondava la maggioranza di governo dell’epoca.

Più in generale, il confronto fra maggioranza e opposizioni non può reggersi solo su una aprioristica contrapposizione a tutto tondo e senza eccezioni. Può e deve contemplare piani diversi anche di condivisione e di confronto: senza che su ogni tema o sottotema la dialettica si traduca sempre e necessariamente in uno scontro senza quartiere, in cui ognuno è chiamato non tanto a sostenere le proprie idee quanto a reggere un gioco delle parti; senza che ogni convergenza al di fuori dei confini della maggioranza del momento debba spregiativamente qualificarsi come forma di negativo «consociativismo» (anche la comunità politica è fatta di consoci).

Il «miracolo» dell’elaborazione ampiamente condivisa e dell’approvazione pressoché unanime della Costituzione del 1947 (in una congiuntura politica che negli ultimi mesi della Costituente vide fra l’altro la spaccatura della maggioranza di governo, e il passaggio ad una diversa alleanza, quella centrista) si spiega proprio come il risultato prezioso voluto e raggiunto da una classe politica che capì fino in fondo il senso dell’operazione costituente e le ragioni di unità che stavano a base della Costituzione.

Ma, per venire a vicende a noi più vicine, qualcuno forse può pensare che la democrazia italiana sarebbe uscita complessivamente indenne dagli anni dello stragismo (da piazza Fontana alla stazione di Bologna) e dagli anni della sfida del partito armato (fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro), se non vi fosse stata una capacità delle forze politiche allora dominanti, di maggioranza e di opposizione, di cercare e trovare terreni di convergenza e di intesa sull’essenziale?

Mettere mano alla Costituzione, lo si dovrebbe fare sempre e solo in questo spirito. Questa è la «politica» degna del nome, non quella contro cui sempre più italiani sembrano oggi concepire solo fastidio e disprezzo, quella fatta, secondo l’immagine oggi purtroppo accreditata anche dall’alto, di «poltrone» da possibilmente sopprimere per ridurne i «costi».

Improvvisa conversione a sinistra dell'alfiere della "destra perbene"? C'è da strabuzzare gli occhi. Ma forse vale solo per gli USA, che sono così lontani.

Corriere della Sera, 4 giugno 2016

È molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti. Ma come ha scritto qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di quest’anno l’impensabile sta diventando possibile. E dunque le cose potrebbero forse andare altrimenti.

Potrebbe accadere che per varie ragioni — non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria mail personale per molte comunicazioni ufficiali — la sua popolarità, già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare che il Partito democratico possa allora decidere di puntare sul senatore Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.

Il fatto è che nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.

Per l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e autoritari.

Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta rovinosa.

La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e degli affari.

È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».

Ma che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore, il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).

Populismo democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però — si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso» diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del declassamento sociale.

Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia, come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che evoca i demoni sancendo tutti i tabù.

L’Europa però non sembra capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto vero con il sentire profondo delle proprie società.È la conferma altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico.

In realtà nessun luogo come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico» costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive» di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude Juncker.

« È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce. E invece il clima, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito». La Repubblica

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».

Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.

Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica - con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum.

Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.

Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge - la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra.Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi.

Per dirla con Benigni - ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale - per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

«A Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre "piazze piene, urne vuote": il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».

Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

Roma. Alla vigilia del voto amministrativo e in attesa del «ponte» più lungo che ci porterà alle elezioni di domenica, anche Pietro Nenni sarebbe costretto a cambiare il suo slogan. Perché a Roma, Milano, Napoli, Torino, siamo ben oltre il celebre «piazze piene, urne vuote»: il rischio vero, con l’astensionismo che galoppa, è che ci siano «piazze vuote e urne vuote».

I segnali ci sono tutti, specie sotto il Campidoglio, dove lo tsunami di Mafia Capitale, la traumatica fine dell’esperienza del «marziano» Ignazio Marino, gli scontri nel Pd, la spaccatura nel centrodestra (fino a poche settimane fa erano ancora quattro i candidati in campo) producono due effetti: non solo il possibile «vento» a Cinque Stelle che spingerebbe Virginia Raggi, ma anche la difficoltà enorme — per tutti i partiti, ma soprattutto per i dem — di organizzare un evento, un comizio, persino una cena. A Milano, Napoli e Torino va un po’ meglio, ma le piazze del 2011, la «rivoluzione arancione» di Giuliano Pisapia e di Luigi de Magistris, i 40 mila di piazza del Duomo o le adunate a piazza del Plebiscito, sono un ricordo. Tutto è più soft, più circoscritto. Beppe Grillo diserterà piazza del Popolo dove chiude la Raggi (con Claudio Santamaria sul palco), Renzi si è «rinchiuso» ieri sera con Roberto Giachetti all’Auditorium della Conciliazione, Alfio Marchini si sposta sul litorale di Ostia, Giorgia Meloni e Stefano Fassina addirittura in periferia.

E, in queste settimane, trovare qualcuno disposto a partecipare ad eventi di vario tipo è stata un’impresa, prova ne sia che c’era molta più gente a piazza di Pietra alla presentazione del libro di Goffredo Bettini, vecchio «guru» del centrosinistra romano, che in certi comizi in giro per la città.

Dario Franceschini si è imbufalito per un appuntamento sulla cultura, in un cinema vicino al Parlamento, andato deserto. Lo stesso Giachetti, in un’altra occasione, era già in viaggio per Corviale (periferia estrema) quando lo hanno avvertito: «Non venire, non c’è nessuno». Il deputato dem Umberto Marroni, su WhatsApp , aveva creato un gruppo per pubblicizzare l’incontro dal titolo «Una stagione di riforme», il 31 maggio. Risposta, una sfilza di «ha abbandonato il gruppo», di proteste («mi avete fatto attaccare i manifesti e non mi avete neppure trovato il posto di lavoro promesso»), di «non partecipo, non mi scrivete più». E alla cena da Eataly , a «casa» di Oscar Farinetti, organizzata dalla civica di «Bobo», via mail era stato chiesto a tutti i candidati di portare «almeno venti persone»: i candidati, in tutto, sono circa 350, ma alla cena c’erano appena 150 persone.

Marchini, per evitare i flop, seleziona al massimo gli appuntamenti: poche (e mirate) manifestazioni, per il resto molto «porta a porta». Vale anche per Giorgia Meloni, che dopo il «lancio» della sua campagna elettorale sulla terrazza del Pincio torna domani a Tor Bella Monaca.

Non va molto meglio a Milano con Sala e Parisi che hanno scelto chiusure «minimal»: Parisi sarà a piazza Gae Aulenti, mentre Sala dalla Darsena dovrà spostarsi «causa maltempo» in un luogo chiuso. Ma anche qui conta il clima generale. All’Alcatraz, per il concerto della «Sinistra per Milano» con Vecchioni, Morgan e Rocco Tanica c’erano 300 spettatori. E l’8 maggio, quando Silvio Berlusconi era al Teatro Manzoni, dopo un po’ la gente ha cominciato ad andarsene: «C’è la festa della mamma». Scena simile è capitata a Maria Elena Boschi, alla Stazione Marittima di Napoli: a causa dei ritardi sul programma, i due pullman organizzati sono andati via proprio quando la ministra stava iniziando il suo discorso, lasciando Boschi con la sala semivuota. Un po’ meglio va a de Magistris, che tra cantanti (vedi Bennato ed altri), artisti, militanti, le sue uscite da capopolo (vedi quella su Renzi) riesce a «smuovere» un po’ di più le folle, ma anche a Napoli si tratta più di microeventi, qualche salotto buono, sale ristrette. E i Cinque Stelle? Anche per loro l’aria pare un po’ cambiata rispetto al passato. A Torino, per Luigi Di Maio, complice la pioggia, non c’era il pienone. Stessa cosa a Roma, quando la Raggi ha presentato i suoi candidati a Cinecittà, nella piazza del funerale di Vittorio Casamonica. Anche per l’attesa dei risultati la scelta di Virginia è molto «privata»: dentro M5s circola voce che, domenica sera, ci sarà una cena a casa di Di Maio oppure di Di Battista. E poi tutti al comitato elettorale della favorita alle elezioni romane, in un semplicissimo ufficio in zona Ostiense .

«I diritti e i doveri scritti nel ’46 rappresentano le regole della coesione sociale». Scritti di Gianfranco Pasquino, Michele Ainis, Sabino Cassese, Guido Crainz.

La Nuova Venezia, la Repubblica, Corriere della Sera, 2 giugno 2016 (m.p.r.)

La Nuova Venezia
ECCO PERCHÈ LA NOSTRA ITALIA
È UNA REPUBBLICA ESIGENTE
di Gianfranco Pasquino

Per nessuno scopo, analitico, interpretativo, propositivo, la Costituzione italiana può essere divisa nettamente in due parti: una attinente ai diritti (e doveri), l’altra all’ordinamento dello Stato. I principi ispiratori dei Costituenti e la loro visione complessiva informano chiaramente e coerentemente entrambe le parti. Tutte le componenti della Costituzione italiana si tengono insieme e segnalano che qualsiasi revisione, anche minima, deve essere valutata con riferimento al suo impatto complessivo. La tesi che argomento e svolgo nel libro La Costituzione in trenta lezioni (Utet 2015) è che nessuna Costituzione è mai semplicemente un documento giuridico. Le Costituzioni migliori, a cominciare da quella degli Stati Uniti d’America e a continuare con quella della Germania contemporanea, sono documenti eminentemente politici. Mirano a plasmare la vita di una comunità, a darle le regole di comportamento e di rapporti fra persone, associazioni, istituzioni.
Anche la Costituzione italiana mira a fare, limpidamente, tutto questo. Plasma la Repubblica democratica, evidenziando, fin dall’inizio, che la Repubblica sono i cittadini, siamo noi. Ai cittadini - elettori, rappresentanti, governanti - spetta il compito di rimuovere gli ostacoli all’effettiva partecipazione alla vita della comunità (articolo 3). Con questa indicazione, i Costituenti miravano a costruire le premesse della coesione sociale e a dare senso e identità ad una comunità di sconosciuti, usciti da vent’anni di fascismo che aveva teso a isolarli e a punirli se si associavano e se parlavano di politica.
A questi sconosciuti, anche agli stessi uomini e donne nell’Assemblea Costituente, apparve subito necessario ricordare l’importanza della partecipazione, sottolineare il riconoscimento del pluralismo e delle capacità associative, anche in partiti politici (articolo 49), mettere in evidenza che le cariche pubbliche, in politica, nelle istituzioni, nella burocrazia debbono essere adempiute con «disciplina e onore» (articolo 54). Ai detentori di cariche istituzionali, fra i quali si trovano, naturalmente, anche i magistrati, si raccomanda di tenere in grande conto sia la separazione dei poteri affinché ciascuno di loro svolga i compiti specifici affidatigli sia l’equilibrio affinché nelle loro inevitabili interazioni nessuna istituzione cerchi di sopraffare le altre e tutte operino in un complesso gioco di freni e contrappesi.
Forse, nella predisposizione di questi freni e contrappesi si colloca anche il fin troppo spesso menzionato complesso del tiranno, ma che i freni e i contrappesi siano la base sulla quale operano tutte le democrazie migliori appare innegabile. La Costituzione è un documento politico esigente. Funziona tanto meglio quanto più i cittadini, i rappresentanti e i governanti non si limitano a rivendicare diritti, ma si impegnano a svolgere fino in fondo i doveri ai quali vengono chiamati: educare i figli, votare, pagare le tasse in proporzione al loro reddito, riconoscere e rispettare il diritto d’asilo e porlo in pratica.
La Costituzione ha accompagnato e, oserei dire, ha guidato la crescita dell’Italia da Paese rurale, agricolo, ampiamente analfabeta, sostanzialmente impoverito e distrutto dal fascismo e dalla Guerra fino a farlo diventare l’ottava potenza industriale del mondo. Tuttavia, è sempre esistita una qualche insoddisfazione nella società e nella politica per obiettivi, il più importante dei quali è la crescita culturale e sociale, che non venivano raggiunti. Insomma, la società italiana non diventava, non è ancora diventata abbastanza civile. Né, oramai da anni, fa progressi, ad esempio, in materia di pagamento delle tasse o di contenimento e «respingimento» della corruzione. Questi gravissimi inconvenienti non sono evidentemente attribuibili alla Costituzione e ai suoi articoli, tantomeno alla sua ispirazione, agli accordi e ai compromessi, spesso fecondi, che i Costituenti raggiunsero fra loro, offrendo una non banale e non criticabile lezione di metodo.
Se, come ho detto e ribadisco, «la Repubblica siamo noi», allora dobbiamo criticare gli italiani, individualisti e egoisti, che pensano di cavarsela da soli e di non dovere nulla allo Stato e ai loro concittadini; gli italiani «familisti amorali», che orientano e giustificano qualsiasi loro comportamento con l’esclusivo perseguimento di vantaggi per la loro famiglia; gli italiani che si fanno forti della loro appartenenza a qualche corporazione (burocrazia, magistratura, classe politica, giornalismo); gli italiani che screditano qualsiasi forma di impegno e si rifiutano di riconoscere il merito e di premiarlo. Questi sono gli italiani che non hanno saputo né voluto capire che soltanto agendo nel rispetto delle regole, dei diritti, dei doveri scritti nella Costituzione, la Repubblica, di cui celebriamo i settant’anni, raggiungerà una apprezzabile qualità democratica e si accompagnerà ad una società davvero, finalmente civile.

La Repubblica
LA LEZIONE DEL 2 GIUGNO
di Michele Ainis

Italia in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti, però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele. Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante, comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.

Eppure il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.

Ecco perché cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.

E il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non si riconosca nella Repubblica italiana?

D’altronde lo stesso referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo di ripulsa.

Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento. Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni. Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.

Corriere della Sera
LE STELLE RESTANO LONTANE?
di Sabino Cassese

«Credevamo che le stelle fossero a portata di mano», ha scritto un testimone di quei giorni, quando, disfatto lo Stato monarchico e fascista, il 2 giugno 1946, il popolo fece sentire la propria voce scegliendo la Repubblica ed eleggendo l’assemblea che un anno e mezzo dopo avrebbe dato all’Italia una Costituzione.

A un Paese autarchico, chiuso all’esterno, si sostituì una nazione che si uniformava alle norme del diritto internazionale e limitava la propria sovranità per assicurare pace e giustizia nel mondo: nel 1949 l’Italia aderì al Trattato del Nord Atlantico, nel 1951 alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nel 1957 alla Comunità economica europea e a quella dell’energia atomica.

Per vent’anni non erano state consentite libertà di parola e di associazione. Queste furono ripristinate e ai maggiori partiti si iscrissero 4 milioni di persone (la popolazione italiana era allora di 46 milioni), mentre alle elezioni partecipò il 90 per cento degli aventi diritto. Negli anni 70 si aprì una nuova stagione di diritti (come parità tra uomo e donna, Statuto dei lavoratori, divorzio).

Per cent’anni, la scuola era rimasta classista, con corsi separati per i figli della borghesia e per quelli degli operai e contadini, e all’assistenza sanitaria avevano avuto diritto gli iscritti alle «mutue». Nel 1962 fu introdotta una scuola media unica e nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale, aperto egualmente a tutti.

L’ Italia unificata aveva accettato forti divari al suo interno. Nel 1950 la riforma agraria iniziò a eliminare i latifondi meridionali e la Cassa del Mezzogiorno portò al Sud risorse per l’agricoltura e le opere pubbliche.

Ai Comuni, vissuti per cent’anni sotto il controllo statale, venne riconosciuta autonomia.

Il progresso civile e quello tecnologico hanno fatto il resto: la scuola media unificata, migrazioni interne e industrializzazione, televisione hanno finalmente condotto all’unificazione linguistica e Internet è divenuto un formidabile strumento per assicurare la trasparenza della gestione pubblica.

Ma sono state soddisfatte le grandi attese e mantenute tutte le promesse fatte settant’anni fa? Si era combattuto per chiudere completamente col fascismo. Molte sue istituzioni, invece, rimasero in vita, specialmente nel campo dell’economia. Gli italiani speravano in un nuovo Stato, ricostruito dalle fondamenta: si dovettero invece accontentare di una modifica del vertice (la Costituzione), mentre il resto rimase immutato, nel segno della continuità. La stessa Costituzione ebbe una «lentissima attuazione», come lamentato da uno dei suoi ispiratori, Massimo Severo Giannini: la Corte costituzionale cominciò la sua attività solo nel 1956, solo nel 1963 le donne potettero diventare giudici, i consigli regionali furono eletti nel 1970, ogni forma di censura teatrale venne soppressa solo nel 1998, prima della proiezione in pubblico i film debbono ancora ottenere un nulla osta.

La Costituzione prometteva che le ragioni della società prevalessero su quelle degli individui: invece, al benessere privato fa oggi riscontro povertà pubblica (basta entrare in una scuola o in un ospedale, o semplicemente camminare per le strade della capitale, per rendersene conto). Si voleva che il potere pubblico fosse limitato da contrappesi: invece, è stato solo ritardato da impedimenti. Si volevano evitare le degenerazioni del parlamentarismo: invece, abbiamo avuto 63 governi (nello stesso arco di tempo la Germania ne ha avuto 24), mentre il Parlamento fa troppe leggi e rinuncia ad esercitare la sua funzione di controllo del governo. All’ordine giudiziario è stata riconosciuta indipendenza, ma la politica è rispuntata nel suo seno, mentre i processi sono troppo lenti e la giustizia si fa sempre attendere. Il Sud di oggi è molto diverso da quello di ieri, ma la distanza tra Sud e Nord è aumentata nuovamente. I dislivelli di statalità sono cresciuti, perché intere zone non sono sotto controllo pubblico, ma nel dominio di ordinamenti criminali. Lo Stato non si è mai dotato di una «noblesse d’Etat», in grado di emanciparlo dalla morsa degli interessi e dalla corruzione. La capitale della nazione, nella sua struttura fisica, somiglia più a una città africana che a una metropoli europea, quale dovrebbe essere. L’unità nazionale rimane fragile, la «costituzione materiale» resta diversa da quella formale, le stelle rimangono lontane.

La Repubblica
IL PAESE SPAESATO
CHE ANCORA S'INTERROGA SULLA SUA REPUBBLICA

di Guido Crainz

Molte le occasioni mancate: ce lo ricordano la diserzione dal voto e la corruzione dilagante. Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove». Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.

Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”. Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni.
Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove. Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa. E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione.
Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento. Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ». Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica - spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.

La Repubblica, 27 maggio 2016
Profughi, debiti, disoccupazione: la crisi dell’Europa sembra non aver fine. Per una parte crescente della popolazione, la sola risposta leggibile è quella del ripiegamento nazionale: usciamo dall’Europa, torniamo allo Stato-nazione e tutto andrà meglio. Di fronte a questa promessa illusoria — ma che ha il merito della chiarezza — il campo progressista non fa che tergiversare: certo, la situazione non è brillante, ma bisogna persistere e attendere che le cose migliorino, e in ogni caso è impossibile cambiare le regole europee. Questa strategia mortifera non può durare. È venuto il momento che i Paesi più importanti della zona euro riprendano l’iniziativa e propongano la costituzione di un nocciolo duro in grado di prendere decisioni e rilanciare il nostro continente.

Bisogna cominciare facendo piazza pulita di quell’idea secondo cui lo stato dell’opinione pubblica impedirebbe di toccare i trattati europei: i cittadini detestano l’Europa attuale, quindi non cambiamo nulla. Il ragionamento è assurdo, e soprattutto falso. Per essere più preciso: rivedere l’insieme dei trattati conclusi dai 28 Paesi per istituire l’Unione Europea, in particolare in occasione del trattato di Lisbona del 2007, probabilmente è prematuro; il Regno Unito e la Polonia, per citarne solo due, hanno programmi che non sono i nostri. Ma questo non significa che si debba restare inoperosi: ci sono tutte le condizioni per concludere, parallelamente ai trattati esistenti, un nuovo trattato intergovernativo fra i Paesi della zona euro che lo desiderano.
La prova migliore è quello che è stato fatto nel 2011-2012. In pochi mesi, i Paesi dell’Eurozona negoziarono e ratificarono due trattati intergovernativi con pesantissime conseguenze sui bilanci pubblici: uno istituiva il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, un fondo provvisto di 700 miliardi di euro per venire in aiuto ai Paesi dell’Eurozona); l’altro, chiamato «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria », e volgarmente noto come fiscal compact, fissava le nuove regole di bilancio e prevedeva sanzioni automatiche da applicare agli Stati membri.

Il problema è che questi due trattati sono serviti solo ad aggravare la recessione e la deriva tecnocratica dell’Europa. I Paesi che richiedono il sostegno del Mes devono firmare un «protocollo di intesa» con i rappresentanti della famigerata «trojka» (articolo 13 del trattato del Mes). In poche righe è stato concesso a un pugno di tecnocrati della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, a volte competenti e a volte molto meno, il potere di supervisionare la riforma dei sistemi sanitari, pensionistici, fiscali e così via di interi Paesi, il tutto nella quasi totale assenza di trasparenza e controllo democratico. Quanto al fiscal compact (articolo 3), fissa un obbiettivo assolutamente irrealistico di disavanzo strutturale massimo dello 0,5 per cento del Pil. Precisiamo che si tratta di un obbiettivo di disavanzo secondario, che quindi tiene conto anche degli interessi sul debito: quando i tassi di interesse risaliranno, significherà che per decenni tutti i Paesi che avranno accumulato debiti significativi in seguito alla crisi (cioè la quasi totalità dei Paesi della zona euro) dovranno mantenere un avanzo primario enorme, del 3-4 per cento del Pil.
Ci si dimentica, en passant, che l’Europa fu costruita negli anni Cinquanta proprio sulla cancellazione dei debiti passati (di cui beneficiò in particolare la Germania), e che furono quelle scelte politiche a consentire di investire nella crescita e nelle nuove generazioni.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo bell’edificio — Mes e fiscal compact — è sottoposto al controllo del consiglio dei ministri dell’Economia della zona euro, che si riunisce a porte chiuse e ci annuncia regolarmente, nel pieno della notte, di aver salvato l’Europa, salvo poi renderci conto, il giorno seguente, che i suoi membri non sanno neppure loro cosa hanno deciso. Bel successo per la democrazia europea del XXI secolo.
La soluzione è evidente: bisogna rimettere in cantiere quei due trattati e dotare la zona euro di istituzioni democratiche autentiche, in grado di prendere decisioni chiare a seguito di discussioni condotte alla luce del sole. L’opzione migliore sarebbe costituire una camera parlamentare dell’Eurozona, composta di rappresentanti dei Parlamenti nazionali, in proporzione alla popolazione di ciascun Paese e ai diversi gruppi politici. Questa camera dovrebbe deliberare su tutte le decisioni finanziarie riguardanti direttamente l’Eurozona, a cominciare dal Mes, il controllo dei disavanzi e la ristrutturazione dei debiti. Potrebbe votare anche un’imposta comune sulle società e un bilancio dell’Eurozona che consenta di investire nelle infrastrutture e nelle università.
Questo nocciolo duro europeo sarà aperto a tutti i Paesi, ma nessuno deve poter bloccare chi desidera avanzare più in fretta. Concretamente parlando, se la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, che rappresentano insieme più del 75 per cento della popolazione e del Pil della zona euro, pervengono a un accordo, questo nuovo trattato intergovernativo deve poter entrare in vigore.
In un primo momento, la Germania probabilmente avrà paura di essere messa in minoranza in questo Parlamento. Ma non potrà rifiutare apertamente la democrazia se non vuole correre il rischio di rafforzare in modo irrimediabile il campo anti-euro. Soprattutto, questo nuovo sistema rappresenta una proposta equilibrata: si apre la strada a cancellazioni del debito, ma nello stesso tempo si obbliga coloro che ne vogliono beneficiare — come la Grecia — a sottomettersi per il futuro alla legge della maggioranza. Un compromesso è a portata di mano, se solo si accetterà di mettere da parte conservatorismi ed egoismi nazionali.
«. Il manifesto, 27 maggio 2016 (c.m.c.)

Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.

Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».

Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.

Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.

Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.

Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.

I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.

Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.

Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.

La Repubblica, 24 maggio 2016 (c.m.c.)

Era chiaro fin dall’inizio che la richiesta di tregua all’interno del Pd avanzata da Renzi mirava a tutt’altro che a una moratoria della politica. Occupando l’intero orizzonte con l’enfasi sull’epocale obiettivo della riforma costituzionale, si volevano creare le condizioni propizie per costruire nel fuoco di una lotta senza quartiere un’altra politica e un altro partito. Man mano che passano le giornate, e l’attivismo del Presidente del Consiglio si fa sempre più frenetico e compulsivo, tutto questo diviene più evidente, un rullo compressore viene lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo, e di questo contesto bisogna tenere conto perché la discussione sul referendum costituzionale corrisponda alla sostanza delle cose.

Innovato il linguaggio con la parola “rottamazione”, Renzi ne ha via via esteso l’uso dalle persone ai corpi sociali, poi alle istituzioni e, infine, alla stessa storia. La storia, perché ormai è evidente che si è costruito un oggetto polemico totale, un ancien régime che coincide con tutta la passata vicenda repubblicana della quale, a dire del Presidente del Consiglio, o ci si libera con un colpo solo o si sprofonda nell’impotenza, nell’inciucio.

Chi conosce un po’ di storia, sa quale ruolo possa giocare il richiamo a un regime precedente. Oggi, tuttavia, non si tratta di affrontare una questione teorica, ma di rispondere a una domanda precisa: quanto è attendibile la presentazione renziana della storia della Repubblica?

Di fronte a questa domanda vi è una responsabilità di storici e scienziati politici. L’informazione corretta, non falsificata, è premessa indispensabile per il voto consapevole dei cittadini, e chi ha le conoscenze necessarie deve metterle a disposizione di tutti. Rischia altrimenti di consolidarsi un modo di discutere che colloca il voto referendario tra un passato inguardabile e un futuro infrequentabile, se diverso da quello affidato al testo della riforma. Un anno zero, l’evocazione del caos, l’associazione del “no” con l’irresponsabilità.

Poiché si sollecita la discussione sul merito, bisogna segnalare l’insistente falsificazione della posizione di coloro i quali nel passato avevano proposto l’uscita dal bicameralismo perfetto. Proposte che smentiscono la tesi di un radicato conservatorismo, ma che andavano nella direzione opposta da quella seguita dalla riforma, perché mantenevano al centro una legge elettorale proporzionale come garanzia essenziale per gli equilibri costituzionali. Vi sono poi episodi minori, anche se rivelatori dell’approssimazione di chi parla, per cui i governi della storia repubblicana da 63 ogni tanto diventano 69 e si giunge addirittura ad adottare logiche da seduta spiritica annunciando che Enrico Berlinguer avrebbe votato “sì”, con una falsificazione clamorosa dei suoi atti e delle sue posizioni.

La storia della Repubblica non è una zavorra da buttare via senza un fremito. Nelle tambureggianti rievocazioni di Marco Pannella e della sua azione per i diritti civili bisogna dare a ciascuno il suo e ricordare anche che gli anni Settanta furono un tempo di vera rivoluzione dei diritti civili, politici e sociali. Di pari passo con divorzio e aborto andarono i diritti dei lavoratori, la scuola, la salute, la carcerazione preventiva, la maggiore età a 18 anni, l’obiezione di coscienza al servizio militare, gli interventi su carceri e manicomi e una riforma del diritto di famiglia scritta con uno spirito ben più aperto di quello che ha accompagnato la legge sui diritti civili.

Fu un tempo di sintonia tra politica e società, tra politica e cultura, ma non fu il solo, e bisogna ricordarlo non con spirito nostalgico, ma per ristabilire una qualche verità storica e istituzionale, perché quel rinnovamento avvenne basandosi proprio sulla Costituzione.

Certo, sarebbe antistorico fermarsi qui e sottovalutare le dinamiche che hanno poi percorso il sistema politico- istituzionale, ponendo anche seri problemi di efficienza. Vi è, tuttavia, una questione di grande rilievo che investe proprio il tema dei diritti, la cui garanzia è affidata alla legge. Ma, quando venne scritta la Costituzione, la legge era il prodotto di un Parlamento eletto con il sistema proporzionale, sì che la garanzia nasceva dal pluralismo delle forze politiche, nessuna delle quali poteva impadronirsi dei diritti dei cittadini. In un Parlamento ipermaggioritario, come quello ora previsto, questa garanzia può svanire e il partito vincitore diventa partito pigliatutto non solo di seggi, ma di diritti.

Quando s’invoca la discussione sul merito, questi sono punti ineludibili, che ci consentono di cogliere nel loro insieme gli effetti di un cambiamento in cui riforma costituzionale e sistema elettorale sono assolutamente connessi. Il maggiore tra questi è proprio la riduzione della cittadinanza, per il combinarsi dell’affievolimento della garanzia dei diritti e della sottorappresentazione dei cittadini. Non dimentichiamo che il Porcellum venne dichiarato incostituzionale proprio perché determinava una «illimitata compressione della rappresentatività» del Parlamento, «alterando il circuito democratico fondato sul principio di eguaglianza». Vizi, questi, che ricompaiono nell’Italicum e di cui si occuperà la Corte costituzionale.

Poiché, tuttavia, l’abbassamento della soglia di garanzia è evidente, risolvendosi in una vera espropriazione per i cittadini, questi hanno la possibilità di reagire nel momento in cui si esprimeranno con il voto referendario.
Stando sempre attenti al merito, si incontrano due questioni paradossali. Persino accesissimi sostenitori della riforma riconoscono che poi saranno necessari aggiustamenti, altri condizionano il loro voto a cambiamenti della legge elettorale. Ma come? Si dice che stiamo combattendo la madre di tutte le battaglie, stiamo traghettando la Repubblica dal buio alla luce e invece sembra che si possano ancora cambiare le carte in tavola in una affannosa ricerca di consenso, ribadendo quella logica di inciucio preventivo all’origine dei tanti vizi della riforma.

Più sorprendente ancora è l’argomentazione di chi descrive il diluvio, il caos che inevitabilmente si determinerebbero se la riforma fosse bocciata, perché si dovrebbe tornare al voto intrecciando diverse leggi elettorali per Camera e Senato con problemi di governabilità. Singolare argomentazione, perché proprio i critici della riforma avevano messo in evidenza questo rischio ed è davvero da apprendisti stregoni, o da irresponsabili, prima creare le condizioni di un possibile fallimento, quindi agitarlo come uno spauracchio.

E poi chi dice che alle annunciate dimissioni di Renzi di fronte ad un “no” debba seguire lo scioglimento delle Camere? La democrazia ha le sue risorse, produce i suoi anticorpi, si potrebbe anzi avviare una seria stagione riformatrice, visto che proprio sui punti caldi del bicameralismo o monocameralismo, del governo, dei sistemi elettorali più adeguati erano venute proposte precise e diverse dal semplice accentramento dei poteri e della democrazia d’investitura.

Futile, a questo punto, diviene il balletto intorno alla personalizzazione del referendum, alla richiesta che Renzi non lo trasformi in un plebiscito su di sé. Le cose stanno così fin dall’inizio. Il Presidente del Consiglio continuerà ad esibire la sua pedagogia sociale su Facebook, invaderà ogni spazio pubblico. Ma questo non fa scomparire i cittadini, che sono lì, sempre meglio informati e sempre più determinati.

Trasparenza trasparente: «un codicillo inserito all’ultimo nel testo sull’accesso agli atti chiude un’altra porta».

Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2016 (p.d.)

Se l’incarico è gratis la trasparenza può attendere. Tempo tre mesi e a Palazzo Chigi arriverà il commissario per il digitale e l’innovazione Diego Piacenti, vicepresidente di Amazon, il colosso americano dell’e-commerce sotto accertamento fiscale per i profitti realizzati in Italia. Nel frattempo il governo ha varato un decreto sulla trasparenza della Pa digitale ispirato al Freedom information act (Foia), la legge che negli Stati Uniti da cinquant’anni garantisce l’accesso ad ogni informazione in possesso dello Stato. Ma di Mr. Amazon, applicando i nuovi obblighi in capo alle amministrazioni, non saranno pubblicati l’atto di nomina, il curriculum, la dichiarazione dei redditi, eventuali partecipazioni insomma tutto quello che serve a rilevare eventuali conflitti d’interesse.

Per averli bisognerà bussare a Palazzo Chigi, sempre che non ci siano “eccezioni”e cavilli con cui verranno negati. Tutta colpa di un codicillo in filato all’ultimo, in perfetto italian style, a un testo che era stato raddrizzato in corsa dopo molte critiche e viene ora salutato come un importante passo avanti sulla trasparenza. Quel neo rischia però di segnarne mezzo indietro e di spalancare praterie a chi vorrà approfittarne.

La breccia arriva all’articolo 14 della legge, quello che disciplina gli obblighi di pubblicazione per i titolari di “incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali”. Sotto questo cappello, nel testo licenziato, è spuntato un comma 1-bis che esenta dall’obbligo di pubblicazione gli incarichi conferiti dalle amministrazioni a titolo gratuito “ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione”. La portata dell’eccezione si coglie a pieno se messa in relazione con la famosa circolare Madia che a novembre ha esentato i pensionati dal divieto gli incarichi svolti a titolo gratuito riaprendo il vaso di Pandora delle consulenze. La ratio è la stessa: l’assenza di oneri per lo Stato come lasciapassare per nomine di qualunque tipo.

L’anno scorso Renzi, per dire, ha designato 7 consiglieri economici, tutti rigorosamente a titolo gratuito. Erano davvero il meglio su piazza? Non si sa, ma sono gratis e tanto basta. Filippo Sensi è il suo portavoce, quello che con abilità e imperio detta agenda e agenzie ai giornali. Le sue incursioni per orientare titoli e spifferi non sono sempre gradite. Ma nel 2014 aveva fatto il suo ingresso alla Pcdm, insieme ad altri 27 professionisti, tutti titolari d’incarico a titolo gratuito, e tanto bastava. Certo, l’anno dopo si è rifatto con uno stipendio da capogiro (170 mila euro lordi l’anno) che supera perfino quello del premier. Anche nella spartizione delle poltrone nel cda della Rai è esploso il caso, quando si è scoperto che quattro consiglieri su sette erano pensionati. E dunque o rinunciavano al posto o all’emolumento. A scendere anche ministeri, regioni e comuni hanno scoperto la manna del consulente pro-bono, quello che non guasta perché non costa.

E così le amministrazioni di ogni livello sono permeate di frotte d'incompetenti, parenti ed eterni imbucati in ogni dove. Una pletora di lavoratori che non guarda al vil denaro ma in cambio ottiene beni anche più preziosi: favori, protezioni, le famose “entrature” che a volte nella vita fanno la differenza. Così, come ha ricordato pochi mesi fa Michele Ainis, si svuota a cucchiaiate il principio che fonda la Repubblica sul lavoro. Il primo articolo della Costituzione diventa l’ultimo, perché tutto è lecito se non costa. A questo lasciapassare, per effetto del Foia all’italiana, si aggiunge ora la copertura per eventuali situazioni di incompatibilità, un male endemico degli incarichi di nomina politica. Sotto questo profilo la nuova legge peggiora la vecchia del 2012. Fa calare un velo proprio sugli incarichi che, in assenza di un compenso in denaro, meglio si prestano a contropartite poco chiare. E che al motto “più trasparenza” saranno meno tracciabili.

Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 (p.d.)

“Mi accorgo che i giornali sono tutti uguali”, diceva Nanni Moretti nel suo Aprile mentre incollava, una dopo l’altra, pagine di testate diverse fino a creare un “unico grande giornale”. Era l’inizio del ventennio berlusconiano, oggi molto è cambiato, ma in questi mesi si assiste a una coincidenza di tempi: mentre si avvicinano gli appuntamenti più rilevanti per la politica (il referendum costituzionale di ottobre, le prossime elezioni politiche), si sblocca il settore dell’editoria che all’improvviso inizia a reagire ai traumi della crisi con un processo di aggregazioni e concentrazioni. Che spinge i grandi gruppi più vicini all’orbita del governo renziano. Ecco la fotografia della rivoluzione in corso.

RCS. La cordata di Andrea Bonomi e dei soci storici (Mediobanca, Della Valle, Pirelli, UnipolSai) ha presentato un’offerta migliore di quella dell’editore puro Urbano Cairo, sostenuto da Intesa Sanpaolo. Bonomi ha un fondo di private equity, vuole fare soldi (e l’unico modo è facendo operazioni sulla parte sportiva, Gazzetta dello Sport e Marca), agli altri il Corriere serve per pesare politicamente. E Mediobanca, regista della cordata, vuole rimanere al centro di un sistema finanziario che vive di operazioni legate al settore pubblico e alle grandi imprese controllate dal governo. Per Palazzo Chigi un Corriere del la Sera così non sarà certo un problema (mentre quello attuale, che ha approfittato della frammentazione dell’azionariato per ritrovare indipendenza, è parecchio sofferto). La battaglia tra Cairo e gli altri si deciderà entro l’estate.

STAMPUBBLICA. A marzo, l’annuncio della fusione tra Gruppo Espresso (Repubblica, Espresso, giornali locali, radio) e Itedi (Stampa, Secolo XIX) ha messo le basi di un grande gruppo editoriale controllato dalla Cir dei De Benedetti e da Exor di John Elkann. Un grande gruppo con i conti in ordine,ma i cui soci hanno una lunga lista di interessi fuori dall’editoria che lambiscono la politica: la Cir ha appena venduto parte del suo business sanitario a F2i, fondo partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti, la Fiat che John Elkann presiede è parte integrante della proiezione internazionale di Matteo Renzi (che spesso si consulta con Carlo De Benedetti). Sorgenia, la società energetica che era controllata dalla Cir, è naufragata sotto il peso di scelte sbagliate e se la sono accollata le banche creditrici, a cominciare da Mps. Al presidente di Sorgenia, Chicco Testa, i renziani di governo avevano promesso il posto di ministro dello Sviluppo, ma ci sono state troppe polemiche. Il presidente del Gruppo Espresso, Carlo De Benedetti, non si è mai espresso pubblicamente sul referendum di ottobre, ma ha affidato il giornale a Mario Calabresi, già direttore di una Stampa molto renziana. A Repubblica ha confermato la stessa linea (in questi giorni però qualche spazio lo
hanno avuto anche i sostenitori del “no”).

CALTAGIRONE. Altro gruppo sano che ha interessi soprattutto nella politica romana: è sufficiente ricordare la campagna contro la candidata sindaco Virginia Raggi, M5S, appena ha provato ad avvicinarsi all’Acea, ex municipalizzata di cui il Gruppo Caltagirone è il primo azionista privato. Con il governo ha buoni rapporti, ma ha rifiutato di farsi carico del Corriere della Sera. Però ha deciso di uscire dalla Fieg, la federazione degli editori. Uno strappo che – temono i giornalisti – darà ancora più potere ai gruppi editoriali riducendo l’autonomia di chi scrive che potrebbe non avere più le tutele del contratto nazionale di categoria.

IL FOGLIO. A parte una piccola quota (pignorata dai giudici) in mano a Denis Verdini, il Foglioè passato per intero all’imprenditore immobiliare Valter Mainetti dopo che il finanziere Matteo Arpe ha deciso di non voler fare l’azionista di minoranza. Mainetti appoggia in pieno la linea renziana del direttore Claudio Cerasa, che ha appena lanciato una campagna per convincere l’ex editore Silvio Berlusconi (che aveva intestato il quotidiano alla ex moglie Veronica Lario) a sostenere il “Sì” al referendum di ottobre.

LIBERO. La famiglia Angelucci (vedi articolo a fianco) licenzia il direttore Maurizio Belpietro, che si congeda con un editoriale sull’importanza di votare “No” al referendum di ottobre. Al suo posto torna Vittorio Feltri, già schierato per il “Sì”.

IL SOLE 24 ORE. Da mesi i pezzi di Confindustria più contigui alla politica sono insofferenti ogni volta che il Sole 24 Ore, di cui sono editori, muove qualche critica al governo, con il direttore Roberto Napoletano. Nell’elezione del nuovo presidente Vincenzo Boccia sono state determinanti le imprese a controllo pubblico (renziano), in particolare l’Eni presieduto da Emma Marcegaglia. Da Radio 24, che fa parte del gruppo, il giornalista Oscar Giannino denuncia pressioni renziane di un governo “affamato di informazione”.

L’UNITÀ. Che come direttore resti Erasmo D’Angelis, già collaboratore di Renzi a Palazzo Chigi, o arrivi Riccardo Luna, altro consulente del premier sul digitale, il giornale non cambierà. La sua sostenibilità economica è a rischio (si parla di 250 mila euro di perdite al mese), ma almeno fino al referendum deve resistere in edicola, per diffondere l’interpretazione autentica del pensiero renziano. Poi si vedrà.

«Oggi il capitale, col referendum costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti».

Il Fatto Quotidiano, 19 maggio 2016 con postilla

Più di un referendum con cui il popolo sovrano conferma un nuovo compromesso costituzionale fra i suoi rappresentanti in Parlamento, quello che sta andando in scena è un plebiscito muscolare con cui un gruppo di potere chiama il popolo a raccolta intorno al vitalismo (fare per fare) del proprio capo. Non un referendum costituente, ma un plebiscito politico intorno al mutamento formale di un documento, la Costituzione del ‘48, già nella prassi completamente svuotata di contenuto.

Difficile non accorgersi che in tutta Europa i Parlamenti da tempo non contano più nulla. Il potere legislativo si è concentrato progressivamente nelle mani dell’Esecutivo, secondo il modello della V Repubblica di De Gaulle. Senza modificare gli apparati formali, ovunque un uomo solo al comando risponde ai diktat del potere privato, ormai molto più forte di quello pubblico.

È futile dunque contrastare la riduzione del ruolo del Senato, quando né questo né la Camera svolgono oggi alcun ruolo legislativo, visto che tutte le leggi passano con il voto di fiducia. Di che riduzione stiamo parlando? Si può ridurre il nulla? In Italia oggi la sola fonte del diritto, inesistente quando negli Anni Ottanta ero studente in giurisprudenza, né prevista dalla Costituzione, è il Dpcm (Decreto presidente Consiglio dei ministri), un atto che non solo scavalca il legislativo ma pure la collegialità dell’esecutivo, nonché il tradizionale ruolo del Presidente del Consiglio come primus inter pares.

Dunque stiamo discutendo del nulla o meglio della simbologia del potere e del valore performativo delle parole. Secondo la strategia discorsiva del governo, chi sta col Sì è riformista vuole il cambiamento, il progresso, la modernità, il fare. Chi sta col No è conservatore, corporativo, perditempo, vecchio. Francamente, gran parte delle persone che danno immagine mediatica alla contrapposizione (i cosiddetti professoroni del No), confermano una impostazione spettacolare che culturalmente ha già vinto.

Non voglio negare che in Italia, come del resto in tutta Europa, sia in atto un momento Costituente. Voglio solo dire che esso sta altrove. Il Referendum sull’acqua del 2011 aveva concretizzato una spinta volta a invertire la rotta rispetto alla costituzione materiale neoliberale e ai suoi imperativi finanziari.

Il governo Monti fu la reazione del capitale a tale spinta. Iniziò, dopo la famosa lettera di Trichet e Draghi, un processo di ritrazione della democrazia che ha reso le stesse elezioni un rituale vuoto. Oggi il capitale, col Referendum Costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Negoziato in segreto, il Ttip infligge il colpo di grazia a ciò che resta della sovranità pubblica.

Il suo impatto costituente è la ristrutturazione, tramite il diritto, del rapporto fra capitale e lavoro. Gli Stati che intervengano a favore dei lavoratori, della salute e dell’ambiente, saranno considerati responsabili di un danno al capitale privato. Stuoli di avvocati ben pagati dalle corporation faranno causa agli Stati i quali dovranno guardarsi da qualunque intervento sul libero mercato (inclusa la tutela dello sciopero) che torna costituzionalizzato come valore trascendente. Altro che riforma del Senato!

postilla
Noi preferiamo sostenere che la battaglia è anche altrove e che bisogna vincerle entrambe, proprio perchè sono strettamente collegate, nei moventi, nelle conseguenze e negli attori. La riforma costituzionale che il referendum vuole cancellare non ha il suo veleno solo nella trasformazione del senato in un club, ma nel totale stravolgimento delle istituzioni: nella sostituzione della stato in un regime feudale. Certo è che la segretezza con la quale i governi hanno proceduto alla definizione del Ttip e la vergognosa disinformazione del sistema dei mass media (divenuta, almeno nel nostro paese, uno degli attori subalterni del nuovo capitalismo) rende necessario un impegno molto consistente nella lotta contro il Ttip.

Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2016 (p.d.)

Il governo insiste a esercitare un ruolo preponderante nella campagna elettorale referendaria. Non a caso ha fortemente voluto queste modifiche della Costituzione e la nuova legge elettorale (Italicum) che sono due aspetti tra loro inscindibili. E non a caso l’approvazione in Parlamento di questi provvedimenti è stata ottenuta ricorrendo a vistose forzature regolamentari, voti di fiducia, ecc.

È la prima volta che il governo entra nelle modifiche costituzionali con tanta arroganza, iniziando di fatto a capovolgere quanto prevede la Costituzione che definisce con chiarezza l’Italia una repubblica parlamentare, quindi fondata sulla sovranità popolare e sul Parlamento che la rappresenta. Con questa pesante intromissione nelle modifiche della Costituzione inizia fin da ora ad essere il governo il vero asse portante dell’assetto istituzionale e in particolare lo è il capo del governo, in pratica un uomo solo al comando. Quanto sta avvenendo è l’anticipazione di cosa ci aspetta per l’effetto combinato della deformazione della Costituzione e della legge elettorale iper-maggioritaria (Italicum). Il governo insiste su questa strada entrando a gamba tesa nella campagna referendaria già iniziata (...).

Ora il governo lancia la raccolta delle firme sul referendum costituzionale. Lo fa perché ha capito che la raccolta che abbiamo iniziato, contro le modifiche costituzionali e per riportare l’Italicum, che assomiglia fin troppo al precedente Porcellum, nell’alveo della Costituzione, sono un punto forte di mobilitazione, di sensibilizzazione, al di là dell’obiettivo centrale di raccogliere le firme. Evidentemente Renzi e Boschi si stanno preoccupando e tentano una rincorsa promuovendo una loro raccolta di firme, cercando di rubare la scena a chi è contrario e approfittando del massiccio sostegno mediatico di cui godono. Comunque se il governo ci imita e favorisce la partecipazione a noi fa piacere perché lo sfregio più grave che si possa fare è tentare di cambiare la Carta sottobanco.

Da questa mobilitazione ispirata direttamente dal governo dobbiamo trarne anche noi, promotori dei referendum, delle precise conseguenze. Se qualcuno si illudeva che il governo avrebbe abbozzato, preparandosi ad accettare il giudizio degli elettori, ora dovrebbe avere capito che non sarà così. Del resto cosa potevamo aspettarci da un governo che ha caricato sull’esito del voto il ricatto delle sue dimissioni o, peggio ancora, del caos, con frasi degne di Luigi XIV? Stai sereno, si potrebbe rispondere al presidente del Consiglio: è solo democrazia.

Se il governo entra in campo pesantemente noi dobbiamo moltiplicare il nostro impegno, mobilitare tutte le energie disponibili per raccogliere le firme necessarie per i referendum, non solo per quello costituzionale, ma anche per i due sull’Italicum, per abolire il premio di maggioranza e restituire agli elettori il diritto di scegliere i loro eletti. Facciamo preoccupare il governo, raccogliamo le firme ora per avere una migliore campagna elettorale in ottobre, con l’obiettivo di vincere il referendum costituzionale votando un forte e secco No. Avanti tutta per raccogliere le firme, per fare iniziative, per spiegare e mobilitare le energie migliori del nostro paese e se questo darà un dispiacere a Renzi pazienza (...). Avanti tutta. Raccogliamo le firme e intensifichiamo la mobilitazio ne delle intelligenze. Battere questo tentativo di deformazione della Costituzione dipende anche da noi.

Comitati per il No

La Repubblica, 18 maggio 2016 (c.m.c.)

Caro direttore, la riforma costituzionale Boschi non merita di essere confermata dal voto popolare. Non lo merita perché risente del vizio di origine, di essere stata il frutto di un’iniziativa governativa, e non parlamentare, come sarebbe stato corretto; di essere stata oggetto di un dibattito parlamentare fortemente condizionato dal governo come se si fosse trattato di una legge d’indirizzo politico di maggioranza; di essere stata approvata da un Parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum, in base al quale era stato eletto. Il risultato della seconda deliberazione della Camera, indecoroso per una legge di revisione costituzionale, è stato il seguente: 361 voti favorevoli alla maggioranza, 7 contrari e 2 astenuti (su 630 deputati).

La riforma Boschi non merita di essere confermata dal popolo anche con riferimento ai suoi contenuti. Ne evidenzio alcuni.

1. Il Senato, oltre a cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica, verrebbe eletto dai consigli regionali, nella persona di 74 consiglieri regionali e di 21 sindaci di comuni capoluogo, non quindi direttamente dai cittadini, come invece previsto dalla Costituzione, secondo la quale «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione » (articolo 1). Con il che si è dimenticato dai riformatori che il voto dei cittadini costituisce «il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare » (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014): voto “diretto” quindi, e non “indiretto” per il tramite dei consigli regionali, perché la riforma Boschi né li qualifica né li disciplina come “grandi elettori”, come avviene in Francia con i 150mila cittadini eletti dal popolo perché a loro volta eleggano i 348 senatori.

2. Pur non essendo eletto dai cittadini, il Senato parteciperebbe alla funzione legislativa e di revisione costituzionale. Il che se da un lato sarebbe incostituzionale perché è essenziale che un organo legislativo sia direttamente legittimato dal popolo; dall’altro è inopportuno che siano i consigli regionali a eleggere i senatori, essendo noti i continui scandali della politica locale italiana.

3. Irrazionale è anche la differenza numerica dei deputati (630) rispetto ai senatori (100), che rende irrilevante la presenza del Senato — nelle riunioni del Parlamento in seduta comune per l’elezione del presidente della Repubblica e dei componenti laici del Csm — a fronte della soverchiante rappresentanza della Camera. Parimenti irrazionale è il potere attribuito al Senato di eleggere due giudici costituzionali, mentre la Camera dei deputati ne eleggerebbe solo tre.

4. Ancorché le attribuzioni del Senato siano diminuite, esse sono ancora molte e gravose. Basterebbe ricordare, oltre alle competenze legislative ordinarie e costituzionali, la valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni nonché la verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Ne segue che i 100 senatori non avrebbero tempo sufficiente per adempiere alle loro funzioni, dovendo svolgere le funzioni di consigliere regionale o di sindaco. Se poi tali funzioni venissero esercitate dai senatori eletti negli stessi giorni, i soli a essere presenti sarebbe i cinque senatori “presidenziali”, mentre se si assentassero a giorni alterni, la media dei senatori presenti si aggirerebbe intorno a 50! Infine, ancorché non eletti dal popolo, godrebbero dell’insindacabilità e dell’immunità parlamentare, col rischio che il Senato divenga il refugium peccatorum.

5. Il costituzionalismo moderno ha sempre ritenuto essenziale la presenza di contropoteri. Mentre il Senato non costituirebbe più un contropotere “esterno” nei confronti della Camera, non sono stati previsti dei contropoteri “interni” alla Camera, quale, ad esempio, il potere d’inchiesta da parte della minoranza, come in Germania. Per la stessa ragione è criticabile che la disciplina dello “statuto delle opposizioni” venga demandata a un regolamento della Camera. Il quale, essendo approvato dalla maggioranza assoluta dei componenti, si risolverebbe in un ulteriore privilegio per la maggioranza.

6. Il governo godrebbe dell’esclusiva fiducia della Camera dei deputati; eserciterebbe la funzione legislativa col Senato in un limitato, ma non scarso, numero di materie, mentre nelle restanti l’intervento del Senato sarebbe o eventuale o paritario rafforzato o non paritario o non paritario con esame obbligatorio, con potenziali conflitti tra le Camere. Dai due procedimenti legislativi esistenti si passerebbe agli otto o più procedimenti. Il che non costituisce una semplificazione.

7. Grazie all’Italicum che garantirebbe alla maggioranza 340 seggi alla Camera, e grazie al fatto che il presidente del Consiglio cumula la carica di segretario nazionale del Pd, il nostro ordinamento si orienterebbe verso un “premierato assoluto”, che condizionerebbe in negativo i poteri del presidente della Repubblica. Il governo avrebbe a disposizione i tradizionali poteri di decretazione d’urgenza e delegata, nonché la possibilità del voto a data certa. Al governo è stato garantito che i disegni di legge «ritenuti essenziali per l’attuazione del programma di governo», vengano approvati dalla Camera entro settanta giorni. Il che è condivisibile, ma suscita il timore che il governo finisca per restringere ulteriormente lo spazio per le iniziative parlamentari, già limitate a meno del 20 per cento del tempo. Il che significherebbe la fine del Parlamento.

«Pubblichiamo ampi stralci di un documento preparato per l’associazione Libertà e Giustizia dal professor Gustavo Zagrebelsky in vista del referendum».

Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2016 (c.m.c.)

Nella campagna per il referendum costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO, risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.

1. Diranno che “gli italiani” aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo l’estro).

Noi diciamo che da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria, ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione spostandone il baricentro a favore del governo o del leader: commissioni bicamerali varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare “per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.

2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”.

(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al “caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “ce lo chiede l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla quale volete dare risposte?

3. Diranno che le riforme servono alla “governabilità”.

(..) “Governabile” è chi si lascia docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia, presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione, sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico, rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità. A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo democratico.

4. Diranno: ma la riforma è pur stata approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia .

Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza” (testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.

Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza. (…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica, dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a compimento. (…)

5. Parleranno di atto d’orgoglio politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare al proprio interesse .

Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari, caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in spregiudicatezza).

Questo non è il primato della politica, ma delle minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì, ma sapendo che è mala politica.

6. S’inorgogliranno chiamandosi “governo costituente”.

Noi diciamo che il “governo costituente”, in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza, in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione, non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati, equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)

7. Diranno che l’iniziativa del governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che sanno, porteranno l’esempio della Francia, del generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.

Noi ci limitiamo a porre queste domande: credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)

8. Diranno che, anche ad ammettere che la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel referendum confermativo.

Noi diciamo che la riforma forse sottoposta al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi completamente allineata.

9. Diranno che non c’è da fare tante storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica, rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed efficienti.

Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento spacciato come riforma.

10. Diranno che i partiti di sinistra, già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per l’abolizione del Senato.

Noi diciamo: andate a leggere i resoconti di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario: si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza, in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)

11. Diranno che siamo come i ciechi conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”.

Noi diciamo che a noi non interessano “riforme” che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli, ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera costituente.

12. Diranno che siamo per l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla.

Noi opponiamo una classica domanda alla quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori, con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)

13. Diranno: non ve ne va bene una; la vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?

Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali efficaci. Non è stato così.

Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)

14. Diranno: come è possibile disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai “saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti, fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro tecnicamente ben fatto?

(…) Le questioni costituzionali non sono mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare – come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera.

Quanto poi alla bontà del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.

Se questo pasticcio è il prodotto dei “tecnici”, noi diciamo che hanno trattato la Costituzione come una legge finanziaria o, meglio, come un Decreto milleproroghe qualunque: sono infatti formulati così.

Quanto ai contenuti, come possono i “tecnici” non aver colto le contraddizioni dell’art. 5, noto perché su di esso si è prodotta una differenziazione nella maggioranza, poi rientrata. Riguarda la composizione del Senato e non si capisce se i senatori rappresenteranno le Regioni in quanto enti, i gruppi consiliari oppure le popolazioni; non si capisce poi se saranno effettivamente scelti dagli elettori o dai Consigli regionali. Saranno eletti – si scrive – dai Consigli regionali “In conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”. Ma, se queste scelte saranno vincolanti, non ci sarà elezione ma, al più ratifica; se non saranno vincolanti, come si può parlare di “conformità”.

Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere nell’oscurità l’assenza di chiarezza che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere queste norme.

Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi

Nella confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e, nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare insieme in società. “Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una s-costituzione. “Popolo sovrano”?

Dov’è oggi svanita la sovranità, quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11 autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà, quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da parte quando non serve più.

La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è una nostra vicenda.

In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero, per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti, rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.

Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà.

Post scriptum: C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.

15. Diranno: sarà divertente vedere dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky.

Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza. Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo, sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia? In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento, e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero.

Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno, non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare rassicurante.

Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016 (p.d.)

L'appello, stavolta, è diretto al presidente della Repubblica: è Sergio Mattarella che deve dire la sua contro quella “forma di pressione, per non dire ricatto” che sta portando avanti Matteo Renzi. A rivolgersi, “con rispetto”, al Quirinale “affinché dicesse al presidente del Consiglio che chi governa non può legare la sua sorte all'esito del referendum costituzionale”è il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky durante la presentazione del libro "Costituzione! Perché attuarla è meglio che cambiarla" di Salvatore Settis al Salone del libro di Torino.
Zagrebelsky lo fa perché con l'aut aut del capo del governo, che ha minacciato le dimissioni nel caso in cui la sua riforma fosse bocciata, “ci va di mezzo la democrazia”. Per spiegare questa forma di pressione, il giurista ricorda la frase attribuita a re Luigi XV di Francia, quel suo "Après nous, le déluge" che lascia intravedere drammatiche conseguenze in caso di sconfitta. Dopo di noi il diluvio, insiste il governo, sempre più intimorito dai sondaggi che non danno assolutamente per certa la vittoria del Sì.

Che il clima non sia dei più tranquilli, lo certifica il ministro dell’Interno Angelino Alfano: come per le prossime amministrative, pure ad ottobre - dice in un’intervista al quotidiano veronese L'Arena, sarebbe il caso di votare “anche il lunedì”. Obiettivo: aumentare l’affluenza, nonostante per il referendum costituzionale non sia previsto il quorum.

Il problema è il plebiscito, e all’appello di Zagrebelsky si unisce anche Settis: “Sarebbe opportuno che il capo dello Stato, nel pieno delle sue funzioni previste dalla Costituzione, ricordasse a Renzi che il referendum non è un plebiscito sul governo”. Tutto questo perché “invece di guardare al merito della questione, viene fatto intendere che se vince il no cade il governo e chissà che cosa succede ”. La Carta, prosegue il professore, “non prevede che all’esito di un referendum un presidente del Consiglio si debba dimettere”. Secondo Settis “se vincerà il no, e io so che è possibile, non si fermeranno”. Invece se vince il sì “sarà il trampolino di lancio per l’erosione di altri diritti”, come si è già tentato di fare in passato. “Le riforme di cui stiamo parlando oggi sono nella linea di Jp Morgan o del popolo?”, chiede Zagrebelsky a Settis, immaginando già la risposta. Così lo storico dell’arte ricorda il documento della banca americana del 28 maggio 2013 nel quale gli esperti dell’istituto d’affari criticavano i Paesi dell’Europa meridionale con parlamenti forti, governi deboli e molte tutele per i lavoratori. Tutti elementi che, secondo Jp Morgan, dovevano essere cambiati. A quel documento seguirono, due settimane dopo, le riforme proposte dall’ex premier Enrico Letta: “C’è una strana sintonia che va rilevata”, annota Settis.

E dire che l'incontro doveva avere un basso profilo. “In questo Salone del libro c’è un obbligo di correttezza - aveva premesso Zagrebelsky davanti a cinquecento persone arrivate ieri mattina -. Siamo in campagna elettorale e questo è un tema altamente politico. Dobbiamo fare un discorso di politica alta e dobbiamo fare attenzione a non
incappare nella scomunica”. L’intento si è infranto poco dopo, quando il giurista ripensa all’ultimo epiteto coniato da Renzi, quello sugli “archeologi travestiti da costituzionalisti” pronunciato la scorsa settimana alla direzione Pd per definire quelli che prima erano i “professoroni” e i “rosiconi”: “L’archeologia, checché ne dicano alcuni nostri governati, non è la ricerca di mucchi di pietre sotto la sabbia o di ossa. È la ricerca dell’arché, l’esplorazione delle fondamenta della nostra società”. Per questo lui è fiero del nuovo nomignolo: “Io mi onoro di essere della congregazione degli archeologi della Costituzione”.

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Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2016 (c.m.c.)

PER VOI CHE RAGIONATE
E NON PLEBISCITATE

C’E’ CHI CI METTE LA FACCIA,
NOI CI METTIAMO LA TESTA


“Noi crediamo profondamente in una democrazia così intesa, e noi ci batteremo per questa democrazia. Ma se altri gruppi avvalendosi, come dicevo in principio, di esigue ed effimere maggioranze, volessero far trionfare dei princìpi di parte, volessero darci una Costituzione che non rispecchiasse quella che è la profonda aspirazione della grande maggioranza degli italiani, che amano come noi la libertà e come noi amano la giustizia sociale, se volessero fare una Costituzione che fosse in un certo qual modo una Costituzione di parte, allora avrete scritto sulla sabbia la vostra Costituzione ed il vento disperderà la vostra inutile fatica” (Lelio Basso, 6 marzo 1947, in Assemblea Costituente).

1. Il NO non significa immobilismo costituzionale. Non significa opposizione a qualsiasi riforma della Costituzione che sicuramente è una ottima costituzione. Ha obbligato con successo tutti gli attori politici a rispettarla. Ha fatto cambiare sia i comunisti sia i fascisti. Ha resistito alle spallate berlusconiane. Ha accompagnato la crescita dell’Italia da paese sconfitto, povero e semi-analfabeta a una delle otto potenze industriali del mondo. Non pochi esponenti del NO hanno combattuto molte battaglie riformiste e alcune le hanno vinte (legge elettorale, legge sui sindaci, abolizione di ministeri, eliminazione del finanziamento statale dei partiti).

Non pochi esponenti del NO desiderano riforme migliori e le hanno formulate. Le riforme del governo sono sbagliate nel metodo e nel merito. Non è indispensabile fare riforme condivise se si ha un progetto democratico e lo si argomenta in Parlamento e agli elettori. Non si debbono, però, fare riforme con accordi sottobanco, presentate come ultima spiaggia, imposte con ricatti, confuse e pasticciate. Noi non abbiamo cambiato idea. Riforme migliori sono possibili.

2. No, non è vero che la riforma del Senato nasce dalla necessita’ di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi. La riforma del Senato nasce con una motivazione che accarezza l’antipolitica “risparmiare soldi” (ma non sarà così che in minima parte) e perché la legge elettorale Porcellum ha prodotto due volte un Senato ingovernabile. Era sufficiente cambiare in meglio, non in un porcellinum, la legge elettorale. Il bicameralismo italiano ha sempre prodotto molte leggi, più dei bicameralismi differenziati di Germania e Gran Bretagna, più della Francia semipresidenziale e della Svezia monocamerale. Praticamente tutti i governi italiani sono sempre riusciti ad avere le leggi che volevano e, quando le loro maggioranze erano inquiete, divise e litigiose e i loro disegni di legge erano importanti e facevano parte dell’attuazione del programma di governo, ne ottenevano regolarmente l’approvazione in tempi brevi.

No, non è vero che il Senato era responsabile dei ritardi e delle lungaggini. Nessuno ha saputo portare esempi concreti a conferma di questa accusa perché non esistono. Napolitano, deputato di lungo corso, Presidente della Camera e poi Senatore a vita, dovrebbe saperlo meglio di altri. Piuttosto, il luogo dell’intoppo era proprio la Camera dei Deputati. Ritardi e lungaggini continueranno sia per le doppie letture eventuali sia per le prevedibili tensioni e conflitti fra senatori che vorranno affermare il loro ruolo e la loro rilevanza e deputati che vorranno imporre il loro volere di rappresentanti del popolo, ancorche’ nominati dai capipartito.

3. No, non è vero che gli esponenti del NO sono favorevoli al mantenimento del bicameralismo. Anzi, alcuni vorrebbero l’abolizione del Senato; altri ne vorrebbero una trasformazione profonda. La strada giusta era quella del modello Bundesrat, non quella del modello misto francese, peggiorato dalla assurda aggiunta di cinque senatori nominate dal Presidente della Repubblica (immaginiamo per presunti, difficilmente accertabili, meriti autonomisti, regionalisti, federalisti). Inopinatamente, a cento senatori variamente designati, nessuno eletto, si attribuisce addirittura il compito di eleggere due giudici costituzionali, mentre seicentotrenta deputati ne eleggeranno tre. E’ uno squilibrio intollerabile.

4. No, non è vero che e’ tutto da buttare. Alcuni di noi hanno proposto da tempo l’abolizione del CNEL. Questa abolizione dovrebbe essere spacchettata per consentire agli italiani di non fare, né a favore del “si’” ne’ a favore del “no”, di tutta l’erba un fascio. Però, no, non si può chiedere agli italiani di votare in blocco tutta la brutta riforma soltanto per eliminare il CNEL.

5. Alcuni di noi sono stati attivissimi referendari. Non se ne pentono anche perché possono rivendicare successi di qualche importanza. Abbiamo da tempo proposto una migliore regolamentazione dei referendum abrogativi e l’introduzione di nuovi tipi di referendum e di nuove modalità di partecipazione dei cittadini. La riforma del governo non recepisce nulla di tutta questa vasta elaborazione. Si limita a piccoli palliativi probabilmente peggiorativi della situazione attuale. No, la riforma non è affatto interessata a predisporre canali e meccanismi per una più ampia e intensa partecipazione degli italiani tutti (anzi, abbiamo dovuto registrare con sconforto l’appello di Renzi all’astensione nel referendum sulle trivellazioni), ma in particolare di quelli più interessati alla politica.

6. No, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro. Il governo continuerà le sue propensioni alla decretazione per procurata urgenza. Impedirà con ripetute richieste di voti di fiducia persino ai suoi parlamentari di dissentire. Limitazioni dei decreti e delle richieste di fiducia dovevano, debbono costituire l’oggetto di riforme per un buongoverno. L’Italicum non selezionerà una classe politica migliore, ma consentirà ai capi dei partiti di premiare la fedeltà, che non fa quasi mai rima con capacità, e di punire i disobbedienti.

7. No, la riforma non interviene affatto sul governo e e sulle cause della sua presunta debolezza. Non tenta neppure minimamente di affrontare il problema di un eventuale cambiamento della forma di governo. Tardivi e impreparati commentatori hanno scoperto che il voto di sfiducia costruttivo esistente in Germania e importato dai Costituenti spagnoli è un potente strumento di stabilizzazione dei governi, anzi, dei loro capi. Hanno dimenticato di dire che: i) è un deterrente contro i facitori di crisi governative per interessi partigiani o personali (non sarebbe stato facile sostituire Letta con Renzi se fosse esistito il voto di sfiducia costruttivo); ii) si (deve) accompagna(re) a sistemi elettorali proporzionali non a sistemi elettorali, come l’Italicum, che insediano al governo il capo del partito che ha ottenuto più voti ed è stato ingrassato di seggi grazie al premio di maggioranza.

8. I sostenitori del NO vogliono sottolineare che la riforma costituzionale va letta, analizzata e bocciata insieme alla riforma del sistema elettorale. Infatti, l’Italicum squilibra tutto il sistema politico a favore del capo del governo. Toglie al Presidente della Repubblica il potere reale (non quello formale) di nominare il Presidente del Consiglio. Gli toglie anche, con buona pace di Scalfaro e di Napolitano che ne fecero uso efficace, il potere di non sciogliere il Parlamento, ovvero la Camera dei deputati, nella quale sarà la maggioranza di governo, ovvero il suo capo, a stabilire se, quando e come sciogliersi e comunicarlo al Presidente della Repubblica (magari dopo le 20.38 per non apparire nei telegiornali più visti).

9. No, quello che è stato malamente chiesto non è un referendum confermativo (aggettivo che non esiste da nessuna parte nella Costituzione italiana), ma un plebiscito sulla persona del capo del governo. Fin dall’inizio il capo del governo ha usato la clava delle riforme come strumento di una legittimazione elettorale di cui non dispone e di cui, dovrebbe sapere, neppure ha bisogno. Nelle democrazie parlamentari la legittimazione di ciascuno e di tutti i governi arriva dal voto di fiducia (o dal rapporto di fiducia) del Parlamento e se ne va formalmente o informalmente con la perdita di quella fiducia. Il capo del governo ha rilanciato. Vuole più della fiducia. Vuole l’acclamazione del popolo. Ci “ha messo la faccia”.

Noi ci mettiamo la testa: le nostre accertabili competenze, la nostra biografia personale e professionale, se del caso, anche l’esperienza che viene con l’età ben vissuta, sul referendum costituzionale (che doveva lasciare chiedere agli oppositori, referendum, semmai da definirsi oppositivo: si oppone alle riforme fatte, le vuole vanificare). Lo ha trasformato in un malposto giudizio sulla sua persona. Ne ha fatto un plebiscito accompagnato dal ricatto: “se perdo me ne vado”.

10. Le riforme costituzionali sono più importanti di qualsiasi governo. Durano di più. Se abborracciate senza visione, sono difficili da cambiare. Sono regole del gioco che influenzano tutti gli attori, generazioni di attori. Caduto un governo se ne fa un altro. La grande flessibilità e duttilità delle democrazie parlamentari non trasforma mai una crisi politica in una crisi istituzionale. Riforme costituzionali confuse e squilibratrici sono sempre l’anticamera di possibili distorsioni e stravolgimenti istituzionali. Il ricatto plebiscitario del Presidente del Consiglio va, molto serenamente e molto pacatamente, respinto.

Quello che sta passando non è affatto l’ultimo trenino delle riformette. Molti, purtroppo, non tutti, hanno imparato qualcosa in corso d’opera. Non è difficile fare nuovamente approvare l’abolizione del CNEL, e lo si può fare rapidamente. Non è difficile ritornare sulla riforma del Senato e abolirlo del tutto (ma allora attenzione alla legge elettorale) oppure trasformarlo in Bundesrat. Altre riforme verranno e hanno alte probabilità di essere preferibili e di gran lunga migliori del pasticciaccio brutto renzian-boschiano. No, non ci sono riformatori da una parte e immobilisti dall’altra. Ci sono cattivi riformatori da mercato delle pulci, da una parte, e progettatori consapevoli e sistemici, dall’altra. Il NO chiude la porta ai primi; la apre ai secondi e alle loro proposte e da tempo scritte e disponibili.

La Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, piegandoli alla sua volontà. Così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.». Il manifesto, 13 maggio 2016

Messina è la tredicesima città italiana per abitanti, la terza città metropolitana della Sicilia, una città con una grande storia alle spalle che sta morendo a fuoco lento per via del Presidente del Collegio dei Revisori Conti, dottore Dario Zaccone, che da cinque mesi blocca la giunta Accorinti, impedendogli di approvare il bilancio previsionale 2015. Per capire come stanno le cose dobbiamo fare un passo indietro.

Renato Accorinti è stato eletto sindaco della città di Messina nel giugno del 2013 dopo uno spareggio con Felice Calabrò, esponente del Pd sostenuto dall’ex onorevole Francantonio Genovese.

Al primo turno Accorinti, uno dei leader del movimento No Ponte e del movimento non violento italiano, aveva ottenuto il 23 per cento dei voti scavalcando il rappresentante di Forza Italia, l’on Garofalo, ma la sua lista «Cambiamo Messina dal basso» aveva ottenuto solo il 9% e quattro consiglieri. Calabrò che al primo turno aveva ottenuto il 49,9 per cento dei voti e non era stato eletto per soli 60 voti andò baldanzoso al ballottaggio, ma perse nettamente. Questa anomalia si è tradotta in un Consiglio comunale dove la giunta Accorinti poteva contare solo su 4 consiglieri su 40, con una parte consistente dei consiglieri legata strettamente al grande capo Francantonio Genovese, finito agli arresti domiciliari per essersi appropriato di oltre 800mila euro di corsi professionali finanziati dalla Ue, e oggi colpito da un altro capo d’imputazione per aver portato in Svizzera capitali per 16 milioni di euro.

Il 19 dicembre scorso, Genovese appena uscito dagli arresti domiciliari ed in attesa del processo, convoca una assemblea all’Hotel Royal per festeggiare il suo passaggio dal Pd a Forza Italia, partito al quale immediatamente aderiscono 11 consiglieri comunali Pd su 14, facendo così diventare Fi il primo partito del Consiglio Comunale di Messina ed il Pd l’ultimo o quasi. Non solo. Dal ritorno sulla scena di Genovese cambia tutto il panorama politico messinese e, soprattutto, cambia l’atteggiamento di Dario Zaccone, commercialista e consulente di alcune imprese che fanno capo all’impero di Francantonio Genovese, uno degli uomini più ricchi della Sicilia.

Da quel momento, Zaccone che negli anni precedenti aveva dimostrato di svolgere tranquillamente il suo mestiere, cambia registro e adotta una strategia di logoramento della giunta Accorinti: dal 9 dicembre ad oggi la giunta Accorinti ha approvato sette, dicasi 7 volte, il bilancio previsionale 2015 e regolarmente Zaccone ha espresso parere negativo. Per chi si intende anche un po’ di bilanci sa che approvare oggi un bilancio preventivo 2015 è un gioco da ragazzi. Nel senso che non c’è più nulla da «prevedere» e che, non trattandosi di un consuntivo dove possono sorgere problemi con i residui, si tratta di elencare le spese fatte. Semplice. Lo capirebbe anche un bambino, ma non avviene.

Nel frattempo viene arrestato Paolo David, già capogruppo Pd ed oggi Forza Italia, per voto di scambio mafioso e i consiglieri comunali tremano nuovamente. Come era successo nello scorso mese di novembre quando ricevettero un avviso di garanzia 23 consiglieri comunali per quello che fu chiamato lo scandalo di «gettonopoli», ovvero dei Consiglieri comunali che si prendevano un gettone di presenza senza partecipare ai lavori delle Commissioni, ma ponendo solo la firma.

Sono gli stessi Consiglieri che qualche giorno prima stavano raccogliendo le firme per sfiduciare Renato Accorinti che sembra sia nato sotto una buona stella perché ogni volta che sembra pronta la sfiducia succede qualcosa che la blocca. Ma, nulla può fare un’amministrazione dalle mani pulite quando il potere usa gli strumenti della burocrazia per distruggerti. E Zaccone è in buona compagnia: anche la Corte dei Conti ha chiesto il default del Comune, malgrado sia stato presentato da tempo al Ministero un Piano di rientro dal debito enorme (circa 500 milioni) accumulato dalle precedenti amministrazioni, comprese quelle di Genovese sindaco e successivamente del suo delfino Buzzanca. Una Corte dei Conti che già nell’aprile del 2014 dichiarava il Comune in pre-dissesto finanziario e stabiliva quali voci di spesa fossero ammissibili e quali non lo fossero (in primis la cultura e la promozione turistica). Un abuso di potere incredibile. Tu, Corte Conti puoi chiedermi di non sforare il tetto della spesa, ma non come devo spendere a casa mia. È come se una banca a cui chiedi un prestito ti imponga una lista della spesa, di ciò che puoi comprare o meno.

Così si affossa la democrazia che nei Comuni trova le sue fondamenta. Se la Ue attraverso lo strumento del debito sta ricattando interi paesi, non solo la Grecia, e piegandoli alla sua volontà, così in Italia governo centrale, con i continui tagli ai trasferimenti agli enti locali, e Corte dei Conti, che conduce una sua politica di austerity, stanno affossando i Comuni dove la maggioranza dei cittadini voleva cambiare registro.

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