Repubblica, 4 ottobre 2016 (c.m.c.)
«L’oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono, salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum ». Eugenio Scalfari, che scriveva queste parole nell’editoriale di domenica scorsa, ci stimola con la sua lapidaria catalogazione a chiederci se questa riproposizione di Robert Michels sia utile a capire ( e soprattutto a gestire) la forma di governo nella quale viviamo, il governo rappresentativo. Un governo che agli elitisti antidemocratici del primo Novecento sembrava null’altro che un’astuta riedizione dell’oligarchia appunto, con le masse illuse che bastasse votare per vivere in democrazia.
Parlare di democrazia rappresentativa all’interno di questo universo concettuale, attivato proprio quando l’odiata democrazia si presentava sulla scena europea, ha poco senso. Meno ancora ne ha pensare di rubricare il governo rappresentativo come democratico. Nello schema duale proposto da Scalfari — decidere direttamente oppure essere governati da un’oligarchia — è difficile far posto al governo rappresentativo. Difficile, anche, vedere lo scivolamento del governo rappresentativo verso una concentrazione oligarchica del potere.
Però la democrazia rappresentativa non è un ossimoro. Ha un’identità e una tradizione sua specifica, con un pantheon di studiosi ( certamente diversi tra loro) di tutto rispetto, a partire da Montesquieu e Condorcet, dai Federalisti americani a J. S. Mill, autori a Scalfari familiari. Circa vent’anni fa Bernard Manin ha sistematizzato queste idee e proposto il governo dei moderni come un “ governo misto”, che tiene insieme forma oligarchica e forma democratica.
L’oligarchia non è democrazia. E quando ha un fondamento nel consenso elettorale libero e ciclico può combinarsi con la democrazia (per questo, Madison rifiutava il termine oligarchia e parlava di “aristocrazia natuale”, per distinguerla da quella cetuale che non discende dalla selezione elettorale).
L’elemento democratico non sta solo nel voto (eguale nel peso e individuale) ma nel voto che prende corpo all’interno di una società plurale, fatta di un reticolo di opinioni, liberamente formate, comunicate, associate, discusse e cambiate.
È il libero e plurale dibattito che dà alla selezione elettorale (di natura aristocratica, secondo gli antichi e i moderni) un carattere democratico. Quindi la democrazia elettorale e discorsiva limita l’oligarchia, non è oligarchia.
Perché è importante tenere insieme i pochi e i molti, o se si preferisce la distinzione di chi compete (poiché per competere occorre mostrare un’identità distinguibile) con la dimensione dell’eguaglianza democratica?
Tra le tante ragioni che si potrebbero addurre, una soprattutto merita attenzione: per impedire la solidificazione del potere dei selezionati; ovvero per scongiurare la formazione di una classe separata, oligarchica. La temporalità del potere (la sua brevità di esercizio) che l’elezione immette nel sistema e la subordinazione dell’eletto (o del candidato) all’opinione di ordinari cittadini: questo fa della democrazia rappresentativa non un ossimoro e non una malcelata oligarchia, ma un governo unico nel suo genere, che contesta l’identificazione della democrazia con il voto diretto.
E fa comprende perché nelle democrazie moderne la lotta, perenne, è sulle regole che presiedono alla formazione del consenso, all’organizzazione elettorale, e infine alla limitazione del tempo in cui il potere è esercitato. Nella tensione mai risolta fra diffusione e concentrazione del potere (democrazia e oligarchia) sta la dinamica della democrazia rappresentativa.
Il manifesto, 4 ottobre 2016 (p.d.)
Riforme. Dalla post-democrazia di fatto alla post-democrazia di diritto».
ilmanifesto, 2 ottobre 2016 (c.m.c.)
Sino ad oggi il dibattito sul referendum si è mosso tra questi due poli: le precisazioni dei costituzionalisti contrapposte e l’odio per la casta e la politica della gente.
L’esempio più chiaro di questa contrapposizione è stato il dibattito di venerdì scorso tra Renzi e Zagrebesky. Si è trattato del classico dialogo tra sordi o meglio, tra due persone che parlano lingue diverse.
Zagrebesky faceva appello alla teoria, in particolare ai principi giuridici che una costituzione deve rispettare per essere accettabile.
Renzi conduceva il dibattito in nome del «fare». Ed usava la tecnica all’americana di abbattere, a qualsiasi costo, la credibilità dell’avversario con attacchi, neanche tanto velati a gufi, parrucconi, professori, che paralizzano il fare, trincerandosi nelle loro torri d’avorio da «pensionati d’oro».
Mentre Zagrebesky cercava di spiegare le ragioni del no, Renzi voleva solo demolire l’immagine del suo avversario agli occhi della gente comune.
Ma a parte questa impostazione all’americana, per cui sicuramente si era allenato con coach e spin doctor, anche il dialogo appariva privo di senso. Perché quando Zagrebesky illustrava un concetto, Renzi lo traduceva velocemente in un problema concreto a cui le sue leggi avrebbero da tempo trovato soluzione.
Come se di fronte a Socrate che parla del concetto di cavallinità, Renzi rispondesse: abbiamo disciplinato l’uso del cavallo su strada con numerose normative che riguardano l’uso del basto e la ferratura.
Probabilmente pur essendo in televisione il dibattito era seguito da un pubblico «alto» che ha seguito il discorso del professore Zagrebesky. Ma il grosso della campagna si giocherà in contesti più popolari ed oggi l’astrazione, la concettualizzazione, sembrano provenire da un passato «dipinto col pelo di cammello».
Secondo me il discorso dovrebbe invece partire da un punto di vista globale. In che modo una revisione della Costituzione, può avere conseguenze non solo sulla politica, ma anche sull’economia e perché banche e multinazionali sponsorizzano il SI con tanta aggressività da minacciare tutte le possibili disgrazie nel caso di vincita del NO?
E qui il discorso si fa difficile.
Il motivo è che le analisi globali vengono giudicate ideologiche quando non cospirazioniste. E si dice che bisogna giudicare le cose in modo semplice, a partire dal contenuto concreto della legge. Che prevede comunque meno indennità da pagare e rappresenta quindi un risparmio.
Sono figlio di una generazione che ha appreso a dubitare di ogni evidenza.
Con il crollo del muro di Berlino è venuto meno anche il concetto di lotta di classe. Se non esistono socialmente interessi in contrasto, perché dovrei diffidare?
Intanto la forbice sociale si è così divaricata da creare la crisi permanente dei consumi. Oggi ci insegnano che l’arricchimento di pochi genera benessere e lavoro per tutti. Peccato che questa redistribuzione dei redditi sul territorio tardi a realizzarsi. In realtà nella crisi proletariato e classe media si sono impoveriti, sino a cadere in miseria, ma i ricchi sono diventati infinitamente più ricchi di quanto non lo fossero prima della crisi stessa.
Io continuo a dubitare. Ci hanno convinto che la lotta di classe è pura ideologia per praticarla contro di noi e vincerla senza che ce ne rendessimo conto.
«La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi», ha dichiarato Buffet. Oggi le tutele sociali devono essere espulse dalla costituzione per rendere le masse prive di potere contrattuale ed assoggettabili.
L’attuale disegno di riforma costituzionale a firma Boschi, è stato steso sotto le direttive della banca J.P. Morgan, che ha definito le costituzioni dei paesi del Sud Europa «comuniste».
Se ormai il comunismo non c’è più, per le élites finanziarie anche il semplice testo costituzionale pecca di estremismo. Perché, a differenza che negli Stati Uniti, le nostre costituzioni partono da un concetto di democrazia che non esalta l’individuo e la sua lotta contro tutti, ma la società e la cooperazione in quanto connaturate alla natura umana. «L’uomo è un animale politico».
Non esiste democrazia senza bene comune. Una democrazia di individui in lotta per il bene personale è un ossimoro. Questo è tanto più valido in un’epoca in cui le élites sono multinazionali e depredano ogni territorio a cui hanno libero accesso.
Vorrei ricordare il precedente del referendum di dieci anni fa.
Allora fu respinta la riforma perché, in virtù dei suoi molteplici conflitti di interessi, gli italiani ritennero pericoloso dare tutto il potere a Berlusconi. Gli interessi di Berlusconi erano comunque dentro i confini del Paese. Il suo ulteriore arricchimento poteva aver ricadute di occupazione e fiscali qui. Anche Mussolini, a suo tempo, con la legge Acerbo, gemella dell’Italicum, concentrava il potere nelle sue mani per promuovere l’autarchia.
Oggi banche e multinazionali non hanno residenza se non in paradisi fiscali.Esse impongono trattati come il TTIP che avranno la conseguenza di avvelenarci senza neppure un ritorno in chiave di lavoro o di ricchezza. Trattati come questo vanno sottoscritti in fretta, prima che l’opinione pubblica si opponga e prima che si formi un’opposizione parlamentare.
L’eutanasia dell’opposizione perseguita da Renzi in vari modi ed oggi con la riforma elettorale, ha questo scopo. «Lasciatemi lavorare» significa: lasciatemi decidere senza controllo, affidando il paese a chi ritengo opportuno.
Questo sistema di governo in cui apparentemente il potere è affidato al popolo, ma il popolo è di fatto esautorato di ogni potere si chiama post-democrazia.
Ecco, con la riforma costituzionale, siamo chiamati a ratificare una post-democrazia di fatto per trasformarla in una post-democrazia di diritto.
I
l trattato per il commercio tra Unione europea e Canadà ha gli stessi contenuti del TTIP: privilegia gli interessi economici delle aziende ai diritti sociali e ambientali dei cittadini: la democrazia all'oligarchia dei potenti. %Attac, 30 settembre 2016.
Mentre il TTIP sembra in netta difficoltà (ma massima attenzione ai colpi di coda di una sua approvazione “light”- ministro Calenda lancia in resta- nel prossimo incontro del 3 ottobre a New York), diventa sempre più concreto il “piano B” delle grandi multinazionali e delle lobby finanziarie per far rientrare dalla finestra quello che per ora, grazie alla straordinaria mobilitazione internazionale, sembra faticare ad entrare dalla porta.
Stiamo parlando del CETA, ovvero dell’accordo di libero scambio tra UE e Canada, che il prossimo 27 ottobre verrà ufficialmente firmato per giungere al voto del Parlamento Europeo entro dicembre.
Si tratta del primo vero accordo commerciale su larga scala dell’Ue con una grande nazione occidentale, il Canada, e promette vantaggi commerciali per 5,8 miliardi di euro all’anno, un risparmio per gli esportatori europei di 500 milioni di euro all’anno (grazie all’eliminazione di quasi tutti i dazi all’importazione) nonché -ca va sans dire- 80mila nuovi posti di lavoro.
Dunque qual è il problema? Lo stesso del TTIP e di tutti gli accordi di libero scambio, che servono a mettere in sicurezza il modello liberista, ponendo definitivamente i profitti e gli interessi delle grandi imprese fuori dal Diritto e dai diritti.
A CETA approvato, la maggior parte delle multinazionali americane, già attive sul territorio canadese, potranno citare in giudizio nei tribunali internazionali privati le aziende europee, avvalendosi della clausola Ics (Investment court system, ovvero il sistema giudiziario arbitrale per la difesa degli investimenti), omologo all'organismo arbitrale inserito nel TTIP.
Sarà il Parlamento Europeo a rappresentare le preoccupazioni dei cittadini? Come per tutti gli altri trattati, anche il CETA è stato negoziato con il minimo coinvolgimento dei parlamentari europei e l’accordo, composto da più di 1500 pagine, è stato reso disponibile in tutte le lingue dell’Unione solamente dal luglio 2016.
Saranno i Parlamenti nazionali a non ratificare un accordo che viola i diritti sociali e del lavoro, privatizza i beni comuni e mette a rischio la sicurezza ambientale e alimentare? Naturalmente, la gran parte dei parlamentari non sa nemmeno di cosa si stia parlando, ma nel caso avessero intenzione di informarsi per poter decidere, ecco servito per loro l'ennesimo attentato alla democrazia: è notizia recente l'appello di 41 Parlamentari europei -in prima fila Alessia Mosca del PD- che chiedono che il CETA entri in vigore senza la ratifica dei Parlamenti nazionali!!
Dovrà essere ancora una volta la mobilitazione dei cittadini a fermare il CETA, il TTIP e tutti gli accordi che vogliono che diritti, beni comuni e democrazia siano considerati variabili dipendenti dai profitti.
Sarà un autunno caldo e la mobilitazione per fermare CETA e TTIP non potrà che incrociare la battaglia per il NO al referendum costituzionale.
Perché entrambi parlano di democrazia: una cosa troppo seria per lasciarla in mano agli interessi finanziari.
Il manifesto, 1 ottobre 2016 (c.m.c.)
Stavolta Matteo Renzi si è preparato benissimo. Per il secondo confronto in «Sì o No» su La7, condotto da Enrico Mentana, il presidente del consiglio si è fatto il mazzo come uno studente che all’esame universitario che sa di dover affrontare il luminare. Ripassando il dossier anche sul volo di ritorno dal funerale di Shimon Perez a Gerusalemme. E si capisce tanta solerzia: il premier deve affrontare il professore Gustavo Zagrebelsky, uno dei più blasonati esponenti del no, già presidente della Corte Costituzionale.
Ma agli esami la tensione gioca brutti scherzi. Renzi attacca la sua mitraglietta, «sono trent’anni che la classe politica dice che si deve semplificare il bicameralismo, dal decalogo Spadolini dell’82», ma il professore, come farebbe ad un esame, inizia con una bonaria presa in giro: «Vedo intanto che forse ha ripensato ai discorsi sui parrucconi, rosiconi, gufi, altrimenti non avrebbe perso tempo, come stasera, con uno di loro…», e si concede persino una battuta: credeva al massimo di poter incontrare la ministra Boschi. Renzi neanche sorride, ha dimenticato la sua polemica sui professoroni, e oggi finalmente un po’ se ne vergogna: «Non mi sono mai permesso di dire che lei è un parruccone». Il professore ribatte: «Spero che non parli di gufi per l’avvenire», ma Renzi è nervoso, «Prof, venga al merito». Più tardi però sarà lui a dimenticare il merito attaccare Zagrebelsky su sue precenti posizioni. Anche lì Zagrebelsky non se ne cura, spiega che i contesti sono importanti: «Se avessimo voluto parlare delle sue contraddizioni…».
I due vengono da due mondi diversi. Renzi incalza con domandine da Lascia o raddoppia, perfette per la tv. «Davvero crede che ci sia un rischio di svolta autoritaria? In che articolo della riforma?». E il professore dialoga con calma e con pazienza che poco hanno a che vedere con i tempi della tv, si concede persino paradossi: «Rischiamo di passare da una democrazia a una oligarchia. La Costituzione di Bokassa non è molto diversa da quella degli Stati Uniti, ma ha una resa diversa, che dipende dal contesto. E la questa riforma ha una resa che dipende dall’Italicum». Renzi ammette che la legge elettorale va cambiata ma «il sistema dei capilista bloccati non piace neanche a me».
Sull’Italicum il dibattito va avanti a lungo. Zagrebelsky insiste sul combinato disposto fra le due leggi, quella elettorale equella costituzionale, e non ci sta al giochino del presidente, e cioè assicurare che la legge elettorale cambierà.E se non cambiasse? E come cambierà?
Anche sul Quirinale, i due sono agli antipodi. Zagrebelsky insiste a volare alto: «In democrazia chi vince le elezioni non ha solo vinto, è quello incaricato di un grave incarico, ma non è che per cinque anni i vinti non contino nulla. Perché mi guarda così?». Sì, perché Renzi siè preparato sul bignami della sua riforma, ma se è costretto a confrontarsi su un pensiero un po’ più lungo, sulla visione che c’è dietro la sua riforma, perde la battuta. Non capisce il senso vero delle parole del professore e quindi replica che «in tutto il mondo c’è chi vince e chi perde».
«La ragione per cui il bicameralismo paritario non funziona è che le forze politiche non sono coese», e ancora aggiunge «La riforma non funzionerà, il nuovo senato o non funzionerà o porterà ulteriori complicazioni» , continua il professore. Il premier ribatte: «Ma lei, che è stato presidente della Corte costituzionale, perché mi parla di politica?». «Perché i costituzionalisti non devono pensare non ai singoli governi. Questa riforma, più la legge elettorale, in altra forma raggiunge un risultato di premierato assoluto, più forte del presidenzialismo».
Renzi , quello che cerca i voti della destra, davanti al professore non vuole ripeterlo: «Lei sta dicendo una cosa che non e’ vera. La riforma di Berlusconi dava al presidente del consiglio il potere di sciogliere le Camere. Ma cosa sta dicendo?». Renzi torna ai vecchi cari slogan. «Noi abbiamo smosso la palude, ma perché volete tornare alla palude?». E già, la palude dei primi tempi, quando Renzi aveva il vento in poppa. Il solo fatto di accettare i confronti televisivi rende evidente che i tempi di quelconsenso sono finiti.
Ponte sullo Stretto per 100mila posti di lavoro, 80 euro, forse meno, ai pensionati più disagiati e pazienza se i tagli alla sanità li hanno resi più indifesi. Il presidente del consiglio apre e chiude i cordoni della borsa come farebbe un burattinaio con i fili del suo teatrino. Nella repubblica degli zero virgola barcollano i pilastri dello stato sociale ma in compenso l’impresa è il cuore della politica governativa a base di defiscalizzazione (a carico di chi paga le tasse) con serenata di accompagnamento, ieri cantata dal premier al colosso delle costruzioni Impregilo («Evviva le aziende che rischiano»).
Si potrebbe parlare di conflitto di interessi di un presidente del consiglio che promette ponti d’oro e quattordicesime più pesanti mentre invita a votare sì al referendum. Anche se forse sarebbe più esatto parlare di convergenza di interessi. Il Corriere della Sera lo sintetizzava nel titolo di prima pagina: «Scelta la data del 4 dicembre. Renzi: pensioni basse, raddoppia la quattordicesima». Non era un endorsement del quotidiano ma un semplice accostamento di due fatti, la constatazione di come verrà orchestrata la battaglia referendaria. Grandi opere e potere monocamerale maggioritario per farle senza opposizioni tra i piedi («Finita la parte riforma si può tornare a progettare il futuro»).
Siamo in campagna elettorale ormai già da mesi e ci resteremo fino all’inverno. Abbiamo iniziato con i gazebo sulla spiaggia e finiremo con babbo natale. Oltretutto la par condicio scatta a un mese e mezzo dal voto, quindi le prossime saranno settimane a reti unificate per il Sì come e più di quanto hanno registrato i monitoraggi televisivi fini a oggi. E con le leve offerte dal potere di governo la propaganda viene meglio. Renzi deve portare gli elettori al seggio e una legge finanziaria è merce che si vende bene al mercato elettorale.
Il No dovrà farsi forza delle sue buone ragioni che per fortuna abbondano anche se sono in compagnia di Brunetta e di Salvini, improbabili difensori di una democrazia costituzionale che dovrebbe avere nei loro rispettivi leader di riferimento, Berlusconi e i lepenisti lombardo-veneti, gli alfieri.
Sicuramente è una battaglia da combattere fino in fondo per rompere questa bolla del nuovismo renziano che tra ponte sullo Stretto e pacchi di natale ai pensionati svela le sembianze del vecchio politicante in difficoltà. Tempi lunghi e promesse sonanti indicano che il premier ha bisogno di molte settimane per risalire la corrente del consenso, appesantito com’è dalla zavorra della crescita zero. Ma con ancora davanti più di due mesi di rissosa propaganda c’è il rischio vero di un astensionismo per sfinimento.
Il quesito predisposto dall’Ufficio centrale della Cassazione per il referendum non è neutro. È vero che esso si “limita” a riprodurre il titolo della legge approvata dal Parlamento, ciò non toglie che quella formulazione non doveva essere prescelta. Per diverse e buone ragioni. Anzitutto perché – com’è noto – i “titoli” delle leggi non sono votati dal parlamento sono invece formulati da chi ha presentato il testo, nel nostro caso da Renzi e Boschi. Dunque da una parte interessata a conseguire un certo esito del referendum.
La formulazione è inoltre incompleta con riferimento all’oggetto. Si sono omesse, infatti, parti della riforma indiscutibilmente assai significative. Non si richiamano le modifiche che incidono sulla Corte costituzionale (composizione e competenze), quelle che modificano le modalità d’elezione del presidente della Repubblica, le disposizioni relative ai diversi iter di formazione delle leggi, la decretazione d’urgenza, il voto a data certa, nulla sulle nuove forme di democrazia diretta. Anche su queste parti andremo a votare ma dalla lettura della scheda referendaria non risulta.
La formulazione del quesito è stata indicata dall’ufficio centrale presso la Corte di Cassazione. In applicazione della legge? Qui si apre una questione complessa di interpretazione delle norme vigenti e dei precedenti. Da un lato, infatti, nei due referendum costituzionali che si sono svolti il quesito aveva riportato i titoli delle leggi, senonché – a differenza di oggi – essi si limitavano all’indicazione dell’oggetto della riforma nel suo complesso (riforma del Titolo V e riforma della II parte della costituzione).
Ma di fronte a un titolo fuorviante la rigorosa applicazione della lettera della legge sarebbe stata necessaria. Nel caso dei referendum abrogativi, proprio per evitare schede referendarie troppo lunghe e incomprensibili, s’è adottata la misura di far elaborare all’ufficio centrale un titolo autonomo e riassuntivo «al fine dell’identificazione dell’oggetto del referendum» (articolo 1 della legge 173 del 1995), per il referendum costituzionale non so se si poteva operare in analogia. Quel che è certo è però che difronte al vulnus di beni costituzionalmente protetti (la corretta espressione della sovranità popolare, il regolare svolgimento competizione referendaria) sarebbe stato meglio impedire che la scheda diventasse l’ultimo tentativo di indirizzare impropriamente la scelta dell’elettore.
I cittadini che per motivi di lavoro, studio o cure mediche si trovano all’estero per un periodo di almeno tre mesi nel quale ricade la data di svolgimento della consultazione elettorale, e cioè il 4 dicembre, nonché i familiari con loro conviventi, potranno votare per corrispondenza. Ma per organizzarsi il tempo stringe. L’allarme è stato lanciato dalla lista Tsipras, schieratissima per il No, che sul proprio sito (listatsipras.eu) ha pubblicato tutte le indicazioni e il modulo da scaricare.
La richiesta può essere inviata per posta, per fax, posta elettronica anche non certificata, oppure fatta pervenire a mano al comune di residenza anche da persona diversa dall’interessato (su indicepa.gov.it sono reperibili gli indirizzi di posta elettronica certificata dei comuni italiani).
Repubblica, 23 settembre 2016 (c.m.c.)
Tra le parole chiave del nuovo millennio è la più abusata. Forse la più calpestata. La dignità è anche un lemma centrale nel dizionario autobiografico di Stefano Rodotà, che dai diritti sul lavoro a quelli dentro la famiglia, dalla tecnocrazia alla tutela della privacy, ne ha fatto la bussola di una ricerca intellettuale e politica cominciata oltre mezzo secolo fa. Dignità è oggi il tema del nuovo Festival del diritto, da lui fondato a Piacenza otto anni fa.
Perché oggi si parla molto di dignità?
«È la parola che evoca direttamente l’umano, il rispetto della persona nella sua integrità. Ed è ancora più immediata di parole storiche come eguaglianza, libertà, fraternità. C’è una bellissima frase scritta da Primo Levi: per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Senza dignità l’identità è povera, diventa ambigua, può essere manipolata».
Ma la parola rischia di essere contraddetta dai fatti. L’Ue, ad esempio, esordisce nella sua carta dei diritti fondamentali con il termine dignità. Ma sembra dimenticarsene con i migranti, alzando muri.
«Sì, c’è uno scarto fortissimo. Quando nel Duemila è stato scritto quel documento, nel preambolo si è voluto rimarcare che l’Europa pone al centro della sua azione la persona. Lo sta facendo? No. Una contraddizione che incrina il patto cittadini-istituzioni».
Una promessa non adempiuta.
«Con conseguenze molto gravi. Il mancato rispetto della dignità produce un effetto di delegittimazione. Tu non mi riconosci nella mia pienezza di persona degna e io non ti riconosco nella tua sovranità istituzionale. Da qui la rabbia sociale che alimenta il terrorismo e il caos geopolitico. Difendere la dignità è difendere la democrazia».
La parola dignità ha segnato l’epoca successiva alla seconda guerra mondiale.
«Non è un caso che quando la Germania ha cercato un termine per reagire alla devastazione nazista ha trovato proprio dignità. Compare nel primo articolo della costituzione. E compare nella carta costituzionale dell’altro grande sconfitto, l’Italia».
In Italia la parola acquista una coloritura più forte.
«Sì, le si affianca un attributo fondamentale: dignità sociale. La dignità è anche nel rapporto con gli altri. Tu non puoi negarla al prossimo nel momento in cui la rivendichi per te stesso. I costituenti italiani strapparono la dignità da una condizione di astrattezza, fornendole una solida base materiale. Prendiamo l’articolo 36: il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del suo lavoro e sufficiente a garantire a sé e alla sua famiglia un’esistenza dignitosa. Cosa volevano dire i nostri padri? La dignità non è a costo zero. Esistono diritti che non sono a costo zero».
L’aver introdotto nella nostra carta il pareggio di bilancio indebolisce questi diritti?
«Non c’è dubbio. L’articolo 81 è un vincolo fortemente restrittivo e non necessario. Giustificato con il solito ritornello: ce l’ha chiesto l’Europa».
La crisi economica ha giocato contro.
«Sì. Ma ha inciso soprattutto la pretesa di spostare nella sfera economica il luogo dove si decidono i valori e le regole. Questo ha comportato uno spostamento del potere normativo: poiché sono io quello che gestisco il danaro e investo, sono io che detto le regole. Il tramonto dello Stato costituzionale dei diritti».
La dignità è una parola flessibile, adatta alla contemporaneità liquida. Come cambia nell’epoca della tecnologia?
«Un primo importante cambiamento riguarda la costruzione stessa dell’identità. Quando io posso raccogliere una serie di informazioni su una persona, e sono anche in grado di fare valutazioni prospettiche — se ha fatto questo, farà anche quest’altra cosa — in sostanza io sto partecipando alla costruzione della sua identità».
L’identità e dunque la dignità vengono manipolate. Ma c’è un’altra offesa della dignità che riguarda le persone che mettono in piazza la propria intimità. Con esiti che possono condurre al suicidio.
«Qui entriamo in un terreno molto complicato. Quando io metto in circolazione delle informazioni che mi riguardano devo sapere che la rete determina effetti di moltiplicazione. E quando io ricevo informazioni che riguardano altre persone dovrei riconoscere una sfera privata che non posso manipolare».
Ma come si tutela la dignità dei sentimenti in rete?
«La prima cosa che mi viene da dire: tieniteli per te. Ma il problema dei sentimenti è un problema di relazione: sono in gioco i miei rapporti con un’altra persona, con un gruppo. E allora bisogna porre dei paletti: prima di far circolare contenuti che riguardano altri devo preoccuparmi che ci siano il consenso o la consapevolezza di quelle persone».
Un altro versante riguarda la dignità del morire. In Italia non esiste ancora una legge sul testamento biologico.
«E per fortuna, oserei dire. La legge prospettata era molto restrittiva, rispetto a una coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale che nel 2008 riconobbe il diritto del governo del corpo esercitato in piena autonomia. Il legislatore ha il vizio o la propensione a impadronirsi della vita delle persone. In Italia abbiamo diffidenza verso le decisioni autonome: la libertà non è vista come bene da salvaguardare ma rischio da tenere sotto controllo».
Dalle tecnoscienze alla bioetica, dalla privacy ai diritti d’amore, dignità è la parola chiave del suo impegno.
«Sì, ma l’ho scoperto piano piano: la dignità è un modo antropologico di vivere. Se io riconosco a una persona dignità, non posso comportarmi come se questa consapevolezza non l’avessi mai acquisita».
Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2016 (p.d.)
Un muro separa ancor oggi la Cipro turca dalla Cipro greca: 12mila soldati greci da una parte, circa 40mila soldati turchi dall’altra. Il progetto fu sbrigativo: nel 1963 il generale inglese Peter Young prese una matita verde e tracciò una linea sulla mappa di Nicosia, creando la sola capitale divisa rimasta al mondo. Il muro di Nicosia sbudella case e strade con una terra di nessuno fatta di costruzioni sbrecciate e vicoli devastati che chiamano Zona Morta.
In attesa che Donald Trump vinca le presidenziali e costruisca il muro tra Usa e Messico (il suo “impenetrable, physical, tall, powerful, beautiful, southern border wall”), formazioni di ultradestra dilagano in Europa.
In Germania l’Afd di Frauke Petry ha appena stracciato la Cdu di Angela Merkel in Meklenburgo, è già nei parlamenti di tre Laender e l’anno prossimo entrerà di certo nel Bundestag. In Francia il Front National di Marine Le Pen è ormai il primo partito. In Olanda il Pvv anti-europeo e anti-immigrati di Geerd Wilders avrebbe, negli ultimi sondaggi, un quarto delle intenzioni di voto. Il Belgio ha nel governo i nazionalisti fiamminghi dell’N-Va di Bart De Wever ha il 33%. La Slovacchia ha già un elettore su cinque che vota l’estrema destra, e i neonazisti del Sns di Marian Kotleba hanno l’8% e tre ministri. In Ungheria Jobbikha preso il 20% alle politiche del 2014 e il partito nazionalista euroscettico Fidesz esprime il premier, Viktor Orban. Un tribunale ungherese ha chiesto la condanna (rischia a due anni) di Petra Laszlo, la cineoperatrice che nel settembre scorso aveva fatto lo sgambetto ai i migranti in fuga dalla polizia. In Polonia il presidente Duida e la premier Szydlo appartengono al partito ultraconservatore Pis. In Grecia i neonazisti di Alba dorata sono la terza forza con il 7%. In Austria lo xenofobo Fpoe aveva perso di un soffio la presidenza - ma il ballottaggio andrà ripetuto. E nel Regno Unito l’euroscettico Ukip di Nigel Farage ha vinto la Brexit obbligando i tory a cambiare guida (Theresa May) e linea (a destra). Altri muri in arrivo.
Il manifesto, 6 settembre 2016 (p.d.)
È solo in Italia che questa espressione insignificante e fuorviante ha fatto strada, grazie al contributo indefesso di costituzionalisti di corte affetti da «nuovismo» cronico e sempre pronti ad assecondare le voglie dei potenti di turno, i quali chiedono più spazi per il (loro) governo e meno impedimenti alle (loro) decisioni. Ma il costituzionalismo non era nato per limitare, controllare, controbilanciare il potere di chi ha potere? La domanda è retorica, ma le risposte sul punto sono quasi sempre balbettanti.
Tuttavia, anche prendendo per buona l’etichetta di «democrazia governante», ci sono almeno tre ragioni per cui l’attuale progetto di revisione costituzionale non ci consegnerà una struttura di governo più stabile in grado di prendere decisioni più efficienti. La prima ragione è, per così dire, di contesto. Le democrazie nazionali – come ha scritto Peter Mair nel suo libro postumo (Ruling the void, 2013) tradotto da Rubbettino – sono destinate, e lo saranno sempre di più, a «governare il vuoto», a decidere tra alternative che non esistono, a regnare sul nulla. Ormai, le decisioni che contano e che incidono sui «margini di manovra» dei governanti nazionali sono prese altrove, al di fuori del recinto statale, da istituzioni sovranazionali dove il volere dei cittadini e la sovranità del popolo arrivano soltanto di riflesso, come un’eco lontana quasi impercettibile. Chi sognava una democrazia governante ha, dunque, sbagliato bersaglio e avrebbe fatto meglio a guardare all’Europa, non all’Italia.
La seconda ragione per cui questa fantomatica democrazia-che-decide è una, neanche troppo pia, illusione è che alla sua base c’è una diagnosi fallace. Da almeno un ventennio è sotto i nostri occhi, ma fingiamo di non vederlo: non è il «motore» (cioè l’impianto istituzionale) ad essersi inceppato, ma è il pilota, chi sta al posto di comando che non è più in grado di svolgere adeguatamente il proprio mestiere. Lo dico più chiaramente: non sono (tanto) le istituzioni che non funzionano, ma sono i partiti e i loro dirigenti, che avrebbero il compito di guidare il sistema politico, a non essere all’altezza della loro funzione. Ma, pur di non ri-formare se stessi, si industriano in ambiziosi progetti istituzionali destinati a girare perennemente a vuoto: avremo (ci dicono) un motore più veloce, ma non sapremo dove, come e con chi andare. E il riformismo dall’alto – si sa – ha sempre fatto pochissima strada, non solo in Italia.
L’ultima ragione della fallacia della cosiddetta democrazia governante in salsa italiana è che, pur progettata allo scopo prevalente di prendere decisioni rapide e «in tempi certi», manca clamorosamente il suo bersaglio.
L’impianto istituzionale che emerge dalle riforme elettorali e costituzionali ci consegna un senato sgangherato per composizione e confuso nelle sue funzioni. Il nuovo procedimento legislativo non sarà più snello, lineare o chiaro, ma dovrà percorrere un tortuoso iter – distinguendo ogni disegno di legge per tipologia, per materia e, in certi casi, anche per contenuto (generale o specifico) – che sarà foriero di numerosi conflitti inter-istituzionali e non produrrà né più leggi (come chiedono i «riformatori») né leggi migliori (come vorrebbero gli italiani).
Neanche la nuova legge elettorale, il tanto sbandierato Italicum, ci aiuterà a costruire una democrazia del buon governo. Restare immobilizzati in carica per cinque anni, a dispetto delle prestazioni e delle capacità dei governanti, oltre ad essere in contrasto con i principi del parlamentarismo, non è affatto sinonimo di stabilità politica. L’Italicum produrrà una rigidità istituzionale tipica del presidenzialismo, senza averne importato pesi e contrappesi. Alla fine, ci troveremo con un governo statico e stagnante, incapace di prendere buone decisioni, ma inamovibile dal potere.
Cercavano una democrazia governante e ci stanno propinando una «democrazia sgovernata». Meglio l’esistente che l’indecente.
Il manifesto, 6 settembre 2016 (p.d.)
Nel giro di pochi mesi, due referendum hanno scosso l’Unione europea e la stessa sinistra europea: nel luglio 2015 l’Oxi in Grecia, e nel giugno 2016 la Brexit nel Regno unito.
Una parte della sinistra europea, esasperata dalla miscela di autoritarismo e fallimento economico che caratterizza l’Ue, propone ora di «rompere con l’Ue»; è la Lexit. DiEM25, il transnazionale Movimento per la democrazia in Europa, rifiuta questa logica e offre un’agenda alternativa ai progressisti del continente.
Il punto non è se la sinistra debba scontrarsi con l’establishment dell’Ue e le sue politiche abituali. La questione è invece in quale contesto, e all’interno di quale narrazione politica comune questo scontro debba svolgersi. Esaminiamo le tre opzioni.
L’euroriformismo standard, praticato tipicamente dai socialdemocratici, sta perdendo rapidamente terreno. Si fonda su un errore: l’Unione europea non soffre di un deficit di democrazia al quale si possa porre rimedio con «un po’ più di democrazia», «più Europa», «riforma delle istituzioni europee» eccetera.
L’Ue è stata intenzionalmente costruita per tenere il demos fuori dai processi decisionali affindandoli a un cartello composto dalle grandi imprese europee e dal settore finanziario.
Nel quadro dell’attuale regime e delle attuali istituzioni dell’Ue, «più Europa» e riforme graduali equivarrebbero alla formalizzazione e legittimazione dell’Unione dell’austerità europea secondo le linee del Piano Schäuble. Questo acuirebbe la crisi che colpisce i cittadini europei più deboli, renderebbe più attraente la destra xenofobica e in ogni caso accelererebbe la disintegrazione europea.
Un’opzione evocata, fra gli altri, da Tariq Ali: per sconfiggere la misantropia della destra xenofobica dovremmo far nostra la sua proposta di referendum nazionali per l’uscita dall’Ue.
Ma è realistico pensare che, proponendo dei referendum per l’uscita dall’Ue, la sinistra possa «bloccare le forze della destra xenofoba e nazionalista guadagnando l’egemonia e ridirezionando la rivolta popolare?» E questa campagna è coerente con i principi fondamentali della sinistra? DiEM25 risponde con due no, e per questa ragione rifiuta l’opzione Lexit.
La Lexit pone seri pericoli. I sostenitori della Lexit pensano davvero che oggi la sinistra possa vincere la battaglia per l’egemonia contro la destra xenofobica appoggiando le richieste di quest’ultima circa la costruzione di nuove barriere e la fine della libertà di movimento? E allo stesso modo, pensano davvero che la sinistra vincerà la guerra delle idee e della politica contro l’industria dei combustibili fossili sostenendo la rinazionalizzazione della politica ambientale?
Sotto la bandiera della Lexit, a mio giudizio, la sinistra subirà gigantesche sconfitte su entrambi i fronti.
DiEM25 propone un movimento paneuropeo di disobbedienza civile e governativa con l’obiettivo di consolidare un’opposizione democratica alle scelte delle élites europee a livello locale, nazionale e di Ue.
Come DiEM25 non crediamo che l’Unione europea si possa riformare con i canali abituali della politica europea. La nostra controproposta è uno scontro con l’establishment europeo sulla base di una campagna di disobbedienza alle «leggi» dell’Ue a livello locale, regionale e nazionale, senza però pensare all’uscita dall’Unione.
La posizione del DiEm25 sull’Ue riflette il tradizionale internazionalismo della sinistra, che è una componente essenziale di DiEM25.
DiEM25 propone una ribellione che porti a una democrazia autentica a livello dei governi locali e nazionali e dell’Ue. Non diamo priorità all’Ue rispetto al livello nazionale, né a quest’ultimo rispetto al livello regionale e locale.
In un recente intervento Stefano Fassina sostiene (citando Ralf Dahrendorf) che la democrazia a livello di Ue «non è possibile… perché un popolo europeo, un demos europeo per una democrazia europea, non esiste». Continua Fassina: «Fra gli idealisti e gli euro-fanatici, alcuni continuano a pensare che l’Unione europea si possa trasformare in una sorta di Stato nazionale, solo più grande: gli Stati uniti d’Europa.»
Questa obiezione di sinistra all’appello di DiEM25 per un movimento paneuropeo è interessante e stimolante. Sostiene che la democrazia è impossibile a livello sovranazionale perché un demos deve essere caratterizzato da un’omogeneità nazionale e culturale. Marx non sarebbe affatto d’accordo! E posso immaginare lo stupore degli internazionalisti di sinistra, i quali hanno sognato e combattuto per una repubblica transnazionale dall’Atlantico all’Oriente.
La sinistra ha sempre sostenuto che l’identità è qualcosa che si crea con la lotta politica (di classe, contro il patriarcato, contro gli stereotipi, per l’emancipazione dall’Impero ecc.).
DiEM25, proponendo una campagna paneuropea di disobbedienza alle élites transnazionali, per creare un demos europeo che realizzi una democrazia europea, è in sintonia con l’approccio tradizionale della sinistra: proprio quell’approccio criticato da Fassina e dagli altri che sostengono il ritorno alla politica basata su una nazione/un parlamento/una sovranità , riducendo l’internazionalismo alla «cooperazione» fra gli Stati nazionali europei.
Nello stesso spirito gramsciano, DiEM25 insiste sul fatto che la nostra ribellione europea dovrebbe avvenire a ogni livello: città, regioni, capitali nazionali e Bruxelles, a parità di priorità. Solo una rete paneuropea di città ribelli, prefetture ribelli, governi ribelli, un movimento progressista può diventare egemone in Italia, Grecia, Regno unito, ovunque.
Qualcuno potrebbe chiedere: «Perché allora fermarsi al livello dell’Ue? In quanto internazionalisti, perché non militate per una democrazia su scala planetaria?» La nostra risposta è che lo facciamo. Abbiamo forti legami con la «rivoluzione politica» di Bernie Sanders negli Stati uniti e con militanti nei vari continenti. Ma dal momento che la storia bene o male ha partorito un’Europa senza frontiere, con politiche comuni in campo ambientale e in vari altri campi, la sinistra (per definizione internazionalista) deve difendere quest’assenza di frontiere.
A chi definisce utopistico il nostro movimento per una democrazia paneuropea, rispondiamo che si tratta di un obiettivo legittimo e realistico per il lungo periodo.
Non possiamo sapere se l’Ue si democratizzerà o si dissolverà. Lottiamo per la prima eventualità preparandoci comunque ad affrontare la seconda.
L’Agenda europea di DiEM25 propone una campagna unificante grazie alla quale un’Internazionale progressista europea possa contrastare l’Internazionale nazionalista che è in continua crescita.
Lanciare e sviluppare una grande campagna internazionalista in tutta Europa per un’Unione democratica significa che l’Ue non possa e non debba sopravvivere nella sua forma attuale.
Una campagna che ha come coordinate la denuncia dell’incompetenza dell’establishment autoritario dell’Ue; il coordinamento della disobbedienza civile, civica e governativa in tutta Europa. Illustrare con la struttura stessa di DiEM25 come una democrazia paneuropea possa lavorare a tutti i livelli e in tutti gli ambiti
Tutto questo mira alla elaborazione di un’agenda europea omnicomprensiva con proposte intelligenti, modeste e convincenti per «aggiustare» l’Ue (e anche l’euro) e al tempo stesso per gestire progressivamente la disintegrazione dell’Ue e dell’euro, se e quando l’establishment la provocherà.
La Repubblica, 29 agosto 2016 (c.m.c.)
La tragedia di questi giorni, con il suo corredo di ricerca delle responsabilità, non per il terremoto, ma per le sue conseguenze evitabili in termini di distruzione e di morte, ci mette di fronte alle troppe semplificazioni con cui si è affrontata e si affronta tuttora, in vista del referendum, la riforma costituzionale, da parte sia di chi è a favore sia di chi è contro. Una delle “ragioni forti” avanzate dai sostenitori della riforma è che, superando il bicameralismo perfetto, si sveltirebbe il processo legislativo, rendendo più efficienti ed efficaci i processi decisionali.
Purtroppo le cose non stanno così. Qualsiasi siano i limiti del bicameralismo perfetto (e ci sono), il processo legislativo in Italia non è rallentato principalmente dalla necessità del doppio passaggio, ma da leggi scritte male, che richiedono “interpretazioni autentiche”, o che individuano male (per superficialità del legislatore, scarsa conoscenza dei fenomeni, cattivo uso delle informazioni) i propri obiettivi e perciò, inevitabilmente, li mancano. Si potrebbero fare diversi esempi in molti settori.
Il caso degli incentivi per l’adeguamento antisismico nelle zone a rischio è, ahimè, esemplare. Da un lato, ci si è affidati alla capacità e volontà dei comuni di informare e incoraggiare i propri abitanti circa questa possibilità, come se la sicurezza fosse un optional affidato esclusivamente all’iniziativa e predilezione privata, non parte di un bene comune di cui tutti siamo responsabili nelle nostre azioni.
Mentre un comune può decidere, in nome del decoro urbano, sul colore delle facciate e delle persiane e se e dove si può appendere il bucato, o anche di mettere le valvole per misurare il calore erogato, non può imporre a un cittadino, a un condominio, di mettere a norma antisismica la sua abitazione, tantomeno controllare se lo ha fatto.
Abbiamo visto come in uno dei comuni distrutti pochissimi avessero fatto richiesta dell’incentivo (e quei pochi sono stati beffati dall’incompetenza di un impiegato). Dall’altro lato, la legge che destina gli incentivi a chi abita nelle zone antisismiche esclude la detrazione del 65 per cento del costo di adeguamento antisismico per le seconde case. Ma nei piccoli centri spesso le seconde case sono la grande maggioranza (il 70 per cento secondo alcune stime), anche se sono divenute tali nel passaggio generazionale.
Lo abbiamo visto e sentito in questi giorni, apprendendo come molti dei paesi distrutti triplicassero ogni estate i propri abitanti, con chi tornava per le vacanze nella casa che era stata dei genitori o dei nonni, quando non si trattava di nipoti in visita dai nonni in attesa che ricomincino le scuole. Il ridotto numero di richieste per gli incentivi può essere in parte dovuto a questa esclusione, che di fatto ha considerato le seconde case un “non rischio” non solo per i loro proprietari, ma anche per i loro vicini.
Un altro esempio, sempre di drammatica attualità dato che riguarda come e da chi sono fatti i lavori, è la riforma degli appalti, cruciale per evitare costruzioni ex novo, o ristrutturazioni, fatte male per negligenza o delinquenza, come sembra sia avvenuto anche in edifici pubblici dei paesi coinvolti. Come si è ricordato su questo giornale, il decreto legislativo 50 è stato sì pubblicato il 19 aprile 2016 sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, nonostante si tratti già di un testo molto ponderoso, rimane un testo di fatto “vuoto”, perché mancano del tutto gli innumerevoli decreti di attuazione. È un fenomeno purtroppo ben noto nel processo legislativo italiano, dove molte leggi rimangono inapplicate non per dolo, ma per mancanza dei regolamenti necessari.
Più che ai guai del bicameralismo siamo di fronte ad un modo di legiferare bizantino, che rimanda sempre ad un altro passaggio, mentre nei vuoti si incuneano la negligenza, l’arroccamento difensivo della burocrazia (meglio non fare per non incorrere in sanzioni), quando non il malaffare. Sono questioni che non riguardano, ovviamente, la Costituzione e la riforma costituzionale. Anche se i “danni collaterali”, le distruzioni e le morti evitabili con una maggiore cura dell’ambiente e delle infrastrutture, con una più diffusa e capillare assunzione di responsabilità, hanno leso i principi costituzionali del diritto alla vita e alla sicurezza. Sono questioni che riguardano, appunto, il processo legislativo.
Mettere tutta l’attenzione sulla riforma costituzionale, come se lì si annidassero tutti i problemi o tutte le soluzioni, rischia di eludere quello che, a mio modesto parere, è il problema centrale del processo legislativo italiano, che andrebbe profondamente ripensato.
La Repubblica, 12 agosto 2016 (c.m.c.)
Da tempo democrazia e diritti si allontanano, e gli effetti del fallito golpe in Turchia confermano in modo eloquente questa tendenza. I governi hanno dato la loro solidarietà ad Erdogan con l’argomento che istituzioni democraticamente votate non possono essere cancellate con un colpo di forza. Ma poi non reagiscono adeguatamente di fronte alla cancellazione di diritti fondamentali – libertà personale, informazione, manifestazione del pensiero -, delle garanzie giurisdizionali, e alla quotidiana mortificazione delle persone, accompagnate addirittura dalla sospensione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Torna così la concezione della democrazia come semplice procedura, di cui si ignorano le necessarie precondizioni. Si perde la trasformazione che ha potuto far parlare di una “età dei diritti”, proprio perché l’istituzione di uno “spazio dei diritti” aveva individuato un connotato essenziale dello Stato costituzionale.
L’Unione europea aveva colto questo passaggio. Nel 1999 aveva istituito una convenzione incaricata di scrivere una sua carta dei diritti fondamentali, motivando questa sua scelta con parole particolarmente impegnative: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità ».
Veniva così riconosciuta l’inadeguatezza di un sistema istituzionale nel quale l’integrazione dei mercati ed una moneta unica non erano per sé soli considerati capaci di conferire tale legittimità. All’integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata realizzata al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell’Unione europea si accompagnava addirittura un deficit di legittimità, che esigeva una ridefinizione complessiva del rapporto delle istituzioni europee con i cittadini, avviando una vera e propria fase costituente.
Impostazione presto abbandonata, anche se il trattato di Lisbona aveva formalmente attribuito alla Carta dei diritti fondamentali lo stesso valore giuridico dei trattati. E questo è avvenuto attraverso una vera e propria “decostituzionalizzazione”, con un ritorno al primato della dimensione economica, e quindi con un riconoscimento dei diritti solo quando essi si presentavano e si presentano come manifestazione della legge di mercato.
In questo modo il riferimento alla democrazia assume un significato di ritorno al passato, diviene una mossa conservatrice. Disconnessa dai diritti, offre come in passato la sua legittimazione ad un potere personale o accentrato che abbia avuto la possibilità o l’accortezza di fondarsi su una procedura formale.
Diversi paesi europei rivolgono ad Erdogan parole sdegnate, intimandogli di non ricattarli. Ma è proprio l’Unione europea ad aver creato questa situazione con il suo abbandono della dimensione dei diritti, accettando che alcuni suoi Stati, a cominciare dall’Ungheria, realizzassero limitazioni gravi della libertà di manifestazione del pensiero e dell’indipendenza della magistratura, di quella costituzionale in specie. Le reazioni dell’ultimo periodo sono tardive e vengono dopo una lunga fase in cui l’Unione ha esercitato un potere autoritario e solo formalmente democratico, con pesanti cancellazioni dei diritti come ormai è generalmente riconosciuto per la vicenda della Grecia.
Questo conflitto, o comunque contraddizione, è reso ancor più evidente dall’ipocrisia dei governi che oppongono all’Is una dichiarata volontà di non accettare un mutamento di valori e diritti, ma che poi, nei fatti, lo praticano con l’argomento della lotta al terrorismo. Di nuovo un distacco tra una democrazia tutta formale e una sorta di impotenza dei diritti.
Ma proprio sui diritti si sta determinando una confusione anche nella discussione pubblica. Si sostiene che non si può parlare di diritti se non accompagnandoli con una sottolineatura dei doveri. Che cosa vuol dire? Spesso parlar di doveri è un modo neppure tanto indiretto di avanzare proposte limitative dei diritti sociali. In generale, però, la tesi è anche insostenibile perché la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea attribuiscono al dovere della solidarietà un valore fondativo.
La solidarietà tra gli Stati è stata cancellata: basta considerare la gestione dei migranti. Per le persone dovrebbe valere quanto è scritto nell’articolo 2 della Costituzione, ove al riconoscimento dei diritti si accompagna «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale». Qualcuno legge ancora questa norma, o pur’essa è stata travolta dalla regressione culturale che stiamo vivendo?
Il tema dei diritti si è anch’esso globalizzato, è divenuto cosmopolitico, nessuno può sottrarsi alla sua considerazione. E si possono così registrare tentativi di trovare nuove connessioni tra democrazia e diritti, per evitare l’impotenza della prima e la mortificazione dei secondi. Se si guarda al costituzionalismo del Sud del mondo – alla linea che ancora congiunge Brasile, Sudafrica, India – si coglie nelle leggi e nelle decisioni dei giudici una attenzione concreta per i nuovi diritti fondamentali: cibo, salute istruzione. Due costituzionalismi si confrontano e la costruzione della democrazia viene appunto fatta dipendere dal grado di tutela effettiva dei diritti, che assume un carattere prioritario. I diritti si congiungono alla vita materiale, e così progressivamente reinventano la nozione di cittadinanza, vista come l’insieme dei diritti che spettano a ciascuno quale che sia il luogo del mondo in cui si trova.
Questa era la promessa dell’Unione europea, che dichiara di mettere «la persona al centro della sua azione». Promessa presto tradita, anche se ha comunque consentito alla magistratura di costruire un nuovo e impegnativo diritto fondamentale – “il diritto all’esistenza”. Dobbiamo concludere che, nel silenzio o nell’ostilità delle istituzioni europee, sono i giudici a costruire l’Europa possibile, realizzando una nuova connessione tra diritti e democrazia fondata sui bisogni effettivi delle persone? Per giungere a questo risultato, bisogna liberarsi dall’ipoteca rappresentata dalla considerazione della legge di mercato come nuova legge naturale. La connessione così cercata esige invenzioni istituzionali che restituiscano ai diritti una legittimità non dipendente dalla relazione obbligata con la logica proprietaria. Questo accade grazie all’attenzione per i beni comuni, per la conoscenza come bene pubblico globale, per un reddito di dignità. Deperisce la legittimazione assoluta della proprietà come unico fondamento legittimo dell’azione pubblica.
Ma la ricerca di una connessione nuova si coglie anche in mosse concrete della politica. Nel programma di Hillary Clinton compaiono la garanzia del salario minimo, il diritto universale di mandare i figli all’asilo, una ridefinizione delle imposte, la presa di distanza dai trattati con l’area del Pacifico e con quella europea, finora negoziati senza trasparenza e volti a trasferire al sistema delle imprese poteri di governo del mondo che darebbero scacco ai poteri democratici.
La considerazione della vita materiale delle persone si presenta così come il punto d’avvio di una rinnovata consapevolezza della necessità di muovere dai loro diritti, come via per lo stesso successo elettorale.
Forse, però, le parole più limpide sono venute da Angela Merkel, quando ha dichiarato di fondare i suoi valori sulla premessa che «la dignità delle persone è intoccabile ». Non solo viene così stabilito il nesso più forte possibile tra azione di governo e riconoscimento integrale dei diritti grazie ad una parola forte come “dignità”. Si ribadisce in un momento difficile che vi è una sola, vera legittimazione della stessa azione di governo. L’orizzonte torna ad essere occupato dai diritti, che in tal modo non solo si ricongiungono con la democrazia, ma ne ridefiniscono continuamente il significato.
L’invenzione dei diritti si presenta così come un processo con una altissima capacità di trasformare il mondo e di dare risposte alle novità proposte da scienza e tecnologia. Risposte che si sottraggono alla pura logica di mercato, perché trovano la loro legittimazione proprio nel permanente rilievo della loro connessione con la logica della democrazia.
Repubblica, 5 agosto 2016
CHI ha detto che la storia è maestra di vita? Chi ha aggiunto che nessuna pagina di storia si ripete mai due volte? Non è vero, non alle nostre latitudini. Ne è prova il film proiettato nelle sale cinematografiche italiane in questi pomeriggi estivi: Porcellum 2, la vendetta. Perché il dibattito sulla riforma della legge elettorale sembra un film già visto, un déjà- vu.
Cadeva il 2011, cadeva il IV gabinetto Berlusconi. E i partiti dichiararono l’urgenza di sbarazzarsi del Porcellum, spronati — allora come oggi — dai moniti di Napolitano. Questione impellente, dirimente, conturbante. Tant’è che a un certo punto il nuovo presidente del Consiglio (Mario Monti) carezzò l’idea d’intervenire sulla legge elettorale per decreto. Ma il decreto no, non si può fare, dissero i soloni del diritto. Mentre nel frattempo i soloni dei partiti s’arrovellavano su soglie di sbarramento, premi di maggioranza, collegi uninominali o plurinominali, apparentamenti, ballottaggi. Trascorse così il 2012, poi il 2013. Quando i leader di destra e di sinistra, di sopra e di sotto, trovarono un soprassalto d’unità timbrando una tacita intesa: fermi tutti, tanto c’è pur sempre la Consulta a toglierci le castagne dal fuoco. Che infatti emise il suo verdetto attraverso la sentenza n. 1 del 2014: e nacque il Consultellum.
In seguito l’Italicum ne ha preso le veci, salutato da grandi squilli di fanfara. Dopo le amministrative di primavera, tuttavia, e in vista del referendum costituzionale d’autunno, la politica si è accorta (meglio tardi che mai) che l’Italicum può ben essere una trappola per la maggioranza di governo, e soprattutto per la democrazia italiana. Da qui un concerto di proposte, da qui un coro d’appelli a riformare la riforma elettorale. La sinistra Pd presenta il Bersanellum. I Giovani turchi puntano sul sistema greco. I Cinque Stelle insistono sul loro Democratellum. Alfano, e con lui Franceschini, chiede di spostare il premio: dalla lista alla coalizione. Concorda Sala, neosindaco di Milano. Concorda il centro- destra, o ciò che ne rimane. Accelerano due ministri (Orlando e Martina): facciamo presto, prima del referendum. Il vicesegretario del Pd (Guerini) apre ai cambiamenti. Il segretario (Renzi) apre all’apertura.
Domanda: e allora perché non è successo nulla? Perché manca ancora un testo condiviso, o almeno una bozza, un protocollo, una lettera d’intenti? Risposta: per le stesse ragioni che a suo tempo bloccarono la riforma del Porcellum: veti incrociati, opposte convenienze. Sicché, oggi come ieri, va in scena l’antica strategia dello scaricabarile. La sua prima rappresentazione si trova nella Bibbia ( Genesi, 3, 9-13). Il Padreterno domandò ad Adamo: perché hai mangiato il frutto proibito? E lui: me l’ha dato Eva. Allora il Padreterno ne chiese conto a Eva, e lei: fu il serpente ad ingannarmi. In questo caso l’inganno parrebbe un po’ meno funesto per le sorti dell’umanità, però la sequenza è sempre uguale. E infatti il governo dichiara che la correzione della legge elettorale tocca al Parlamento, il Parlamento traccheggia aspettando la Consulta. Che deciderà il 4 ottobre, mettendosi in groppa il peso del barile.
Ma su chi si scarica lo scaricabarile? Sulla Corte costituzionale, certo, già tirata per la giacca dalla riforma Boschi, con quella competenza non richiesta (e non gradita) che le assegna un giudizio preventivo sulle nuove leggi elettorali. Ma il danno ricade altresì sul sistema politico, perché la Consulta non ha ago e filo per cucire, ha solo un paio di forbici. Può tagliare qualche lembo dell’Italicum, non può confezionare un abito di sartoria. Non a caso, due anni fa, il Consultellum lasciò tutti insoddisfatti. Infine il barile si rovescia addosso ai cittadini, ed è questo il danno principale. Giacché lo scaricabarile innesca una catena di supplenze che nocciono alla certezza del diritto, come succede quando la politica — per impotenza o negligenza — nega una legge sui diritti civili. Per esempio quella sul fine vita, e allora il mestiere del supplente tocca al sindaco (170 registri dei testamenti biologici adottati in altrettanti Comuni). Oppure la
stepchild adoption, e allora diventa supplente il magistrato (con l’avallo della stessa Cassazione: sentenza n. 12962 del 2016).
Eccolo, infatti, il prezzo dello scaricabarile: la fuga dalle regole, il disordine istituzionale. E il disordine conviene solo ai furbi, non a chi cerca riparo sotto l’ombrello del diritto. Sicché, quanto alla riforma dell’Italicum, non resta che una prece da rivolgere ai Signori della Legge: questi lavori in corso, fateli di corsa.
«Il manifesto, 4 agosto 2016
Del resto la stoffa di questa imbarazzante classe dirigente l’ha efficacemente esibita la responsabile dell’informazione del Pd, Alessia Rotta, quando ha rampognato il Tg3 di Bianca Berlinguer per non aver trasmesso il taglio del nastro dell’ennesimo cantiere della Salerno-Reggio Calabria, proprio nel giorno in cui l’abate di Rouen veniva sgozzato dai terroristi. E di questa classe dirigente Renzi è il campione nazionale.
Le nuove nomine, con annessi contratti d’oro di dirigenti e consulenti, effettivamente superano, dobbiamo riconoscerlo, gli insegnamenti del vecchio maestro di Arcore e assistere alle scene di leso pluralismo dei berlusconiani di ogni ordine e grado aggrava soltanto l’effetto-farsa. Se i vecchi e nuovi alfieri del centrodestra dovrebbero avere la decenza di tacere sulla devastazione culturale del ventennio, con i conflitti di interesse, l’overdose di nani e ballerine, gli editti bulgari, tuttavia chi sostiene che con Renzi è peggio dice la pura verità. Il perché è semplice.
Negli anni dell’impero di Arcore, resistevano una rete e un tg non allineati contro i quali si infrangevano i tentativi per emendare dal virus «comunista» anche le residue, ultime enclave di opinioni non omologate. E, a quei tempi, spesso da chi praticava lo sport del «cerchiobottismo» o da chi, a sinistra, non aveva mai studiato l’alfabeto mediatico, l’abbuffata televisiva di Berlusconi veniva confusa con il peccato di ingordigia.
In realtà il padre-padrone della televisione italiana sapeva, meglio di tutti, che per rendere efficace il nuovo verbo politico, nessuna voce dissonante doveva «sporcare», il messaggio del grande imbonitore. Una rete affilata come era Raitre o un tg che si fregiava del blasone di Telekabul, erano la classica goccia che scavava nell’opinione pubblica insinuando nel telecittadino il tarlo del dubbio, l’anomalia del pensiero critico che oggi si gioca nello scontro del referendum costituzionale. Con l’allineamento dei tre telegiornali del servizio pubblico al Renzi-pensiero, anche quella crepa si chiude.
Il manifesto, 3 agosto 2016 (c.m.c.)
È probabilmente in gioco un’idea di democrazia. Democrazia non è tanto e solo garantire a tutti libero accesso all’istruzione quanto dare a tutti delle buone ragioni per istruirsi. Così è democrazia non tanto e non solo garantire a tutti la libertà di voto quanto dare a tutti delle buone ragioni per andare a votare. Proviamo a vedere come.
Il Sì a Brexit è espressione di follia o di saggezza della folla? La maggior parte dei commentatori italiani propende per la prima spiegazione, i leader dei partiti cosiddetti populisti per la seconda. Come stanno veramente le cose? Su Repubblica, Walter Veltroni conclude una intervista di commento affermando: «Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell’Europa…».
Sempre su Repubblica, il direttore Calabresi mette sullo stesso piano democrazia diretta e sondaggi in tempo reale per dire che «la febbre di oggi è la semplificazione», che pretende di risolvere magicamente i problemi” e che non ha «bisogno di esperti e competenze»; sul suo profilo Facebook, Saviano dice di non essere tanto sicuro che con Brexit abbia vinto il popolo, perché ricorda che il Popolo, nel 1938, acclamava «Hitler e Mussolini a Roma affacciati insieme al balcone di Piazza Venezia». (Questo tipo di argomentazioni fa venire in mente il libro La pazzia delle folle, 1841, che racconta le illusioni collettive che sono alla base di gravi crisi finanziarie).
Veltroni è comunque coerente con quanto da lui proposto negli ultimi dieci anni: semplificando grossolanamente: alle folle si può dare il compito di incoronare i candidati premier, i candidati sindaci e i segretari di partito attraverso le primarie (regolate per legge), ma la sinistra deve avere il coraggio di dare ai politici che governano maggiore capacità di decisione sulle altre scelte importanti. Secondo l’ex segretario del Pd, c’è bisogno di questa «soluzione governante non democratica» in quanto società, economia e comunicazione sono iperveloci, mentre la capacità di decisione della macchina democratica è iperlenta.
L’architettura decisionale progettata da Veltroni non tiene però conto di diversi fattori, messi in rilievo dalla esperienza quotidiana e dalla letteratura scientifica, e cioè: 1) quando le decisioni politiche sono condivise dalla cittadinanza, esse trovano più veloce concreta attuazione di quando esse vengono prese dall’alto; 2) per decidere bene i politici devono avere una buona capacità di previsione, ma lo studio ventennale dello psicologo Philip Tetlock sulla capacità previsionale degli esperti mostra che quest’ultima è molto bassa e suggerisce ai leader di dotarsi di umiltà intellettuale; 3) in determinate condizioni le decisioni collettive sono più sagge di quelle dei cosiddetti esperti (La saggezza della folla, Surowiecki, 2005).
Ritornando a Brexit e non volendo entrare nel merito della decisione presa dagli elettori del Regno Unito, qui si vuole sottolineare che è superficiale l’analisi secondo cui il risultato del referendum si spiega con l’ignoranza e l’età dei votanti (leggasi: la democrazia diretta banalizza i problemi complessi, molto meglio la democrazia delle élite). Il problema non è se sia giusto o meno tenere referendum su tematiche importanti; ma come si organizzano i dibattiti che precedono il voto di questi referendum. Nei referendum popolari il dibattito avviene principalmente sui media.
Molto diversa da un punto di vista democratico sarebbe una situazione in cui, al posto dei referendum popolari, si organizzino consultazioni all’interno dei partiti politici: i dibattiti avverrebbero dentro i circoli locali dei partiti disseminati nel territorio nazionale, e potrebbero assumere la forma di discussioni deliberative ben strutturate e regolate: lavoro in piccoli gruppi, possibilità di ascoltare i pro e i contro delle diverse opzioni in campo, di fare domande agli esperti in plenaria, di approfondire attraverso materiale informativo bilanciato cartaceo/digitale, di interloquire e scambiare pareri con chi la pensa diversamente. A regolare il tutto sarebbero deputati i comitati rappresentativi delle opzioni in campo (nel caso di Brexit, un comitato per il sì e uno per il no), che avrebbero il compito di coordinarsi e di assicurare equilibrio nei dibattiti e correttezza nell’informazione.
Idealmente, in una democrazia del genere, i partiti avrebbero il compito di riacquistare il ruolo perso, di ascolto, analisi e sintesi dei bisogni di una parte della società, servendosi di tutti gli strumenti della democrazia deliberativa (Fishkin& Calabretta, 2012); i politici assumerebbero il ruolo di leader partecipativi, che in talune scelte conducono e in altre favoriscono la partecipazione; gli esperti metterebbero da parte un po’ di supponenza, aprendosi alle informazioni che non sono coerenti con le loro teorie; gli intellettuali avrebbero il compito di sottoporre le previsioni degli esperti a un processo di verifica; i cittadini sarebbero motivati ad assumersi le proprie responsabilità, a “studiare” le questioni complesse e a non scaricare tutte le colpe sui politici di turno; i giornalisti avrebbero il compito di svelare prima del voto le informazioni false al fine di propaganda…
Sono ovviamente tutti bei propositi, ma come innescare un meccanismo virtuoso che ci aiuti a realizzarli? Al fine di riacquistare la legittimità perduta (vedi Ignazi, 2014), lo dovrebbero innescare gli stessi partiti, consultando i propri iscritti/elettori sui temi più controversi, importanti e dibattuti. Non si tratterebbe di democrazia diretta, ma di democrazia rappresentativa che in alcuni casi si fa partecipativa e deliberativa (Doparie, dopo le primarie, Calabretta, 2010; , Petrucciani, 2014).
La realtà è molto diversa: più che alla rinnovata adesione a un grande progetto di democrazia, pace e prosperità, i ragionamenti di chi invitava a votare «remain» hanno richiamato alla mente il celebre invito a votare Dc col naso turato di Indro Montanelli (leggi Zizek su Internazionale e Parks sul NYTimes).
In questi anni di crisi economica e di globalizzazione sfrenata, il grave deficit di democrazia a livello nazionale e soprattutto europeo non ha offerto alternative all’elettore comune per poter esprimere il suo disappunto se non con l’astensionismo (di cui i politici continuano a non curarsi) o con la rabbia.
Solo ascoltando e facendosi influenzare deliberatamente dalla folla (divisa in tanti piccole folle nei dibattiti partitici locali), le élite riusciranno a riprendere il contatto con la gente comune e il senso comune (che secondo la interpretazione di La Capria non è l’opinione corrente, ma implica una ragionevolezza critica); solo sentendosi ascoltata e considerata, e non solo contata, la gente comune penserà di avere almeno un qualche controllo sulla propria vita e potrà essere un po’ felice.
« La Repubblica,
L'appello che lancia Francesco Ronchi nella sua lettera a Repubblica non può non colpire. Viaggiando per l’Emilia oppressa dalla calura estiva, Ronchi ha avvertito una cappa di disagio sociale e politico nei paesi dove la crisi della sinistra è ormai un declino cronico.
Una crisi che si manifesta con l’altissimo astensionismo elettorale, una crescita innegabile di consenso alla Lega, una visibile insofferenza per la politica dell’accoglienza nei confronti degli immigrati. Non comprendere l’urgenza di intervenire con un nuovo piano di politiche sociali, di mettere in moto nuove strategie di redistribuzione e di farlo con competenza e umiltà sarebbe davvero improvvido, altrettanto quanto pensare che la strada giusta sia quella della deregolamentazione o della managerializzazione dei servizi, un vizio economicista di cui la sinistra sembra oggi andare fiera. A perdere non sarebbe solo e tanto la sinistra, ma il tenore del nostro tessuto sociale nelle città e nei paesi dove viviamo, laddove si è sedimentata la nostra pratica di vita democratica.
Ronchi mette a nudo una delle ragioni macroscopiche di questo disagio delle democrazie sociali mature: il legame conflittuale tra bisogno e confini; la tensione tra universalismo dei valori e la loro applicazione tra persone che hanno bisogno di riconoscersi come eguali; la difficile relazione tra le politiche redistributive e la composizione socio-culturale della popolazione.
Il bisogno è naturalmente il punto di partenza dei criteri di giustizia ai quali si è ispirata la sinistra democratica del dopoguerra. Il bisogno lo si può giudicare e misurare secondo due grandi parametri, che non collimano tra loro necessariamente: quelli che si basano su dati misurabili e quelli che si basano su valutazioni di merito e di contesto. Il reddito per nucleo famigliare nel primo caso; e un resoconto su che cosa, con quel reddito, una persona può fare nella città o nel paese in cui vive nel secondo caso. Universalismo lineare in un caso; distribuzione di servizi attenta alle capacità che le persone hanno e a quelle che servono loro nel determinato contesto di vita nel quale devono svolgere le loro funzioni.
Come si intuisce, il primo criterio è adatto a un contesto di sufficiente omogeneità sociale — ha funzionato fino a quando lo Stato-nazione è stato il collettivo di riferimento. Come dice Ronchi, la sinistra è nata mettendo confini tra chi era parte della nazione e chi non lo era (anche i ricchi cosmopoliti). Il criterio di cittadinanza nazionale ha determinato le politiche di solidarietà sociale e ha nel suo tempo funzionato.
Certo, le ingiustizie c’erano e associazioni e partiti si incaricavano di denunciarle e correggerle. Ma quale che fosse stato il dissenso, il metro di giudizio era condiviso: il cittadino era sinolo di diritti e doveri, e quindi di servizi che mettessero una barriera alle diseguaglianze di condizione. Questo modello ha consentito di distribuire servizi all’infanzia, assegnare alloggi, accedere ai servizi pubblici in generale. Ha avuto largo successo in Emilia, integrando i meno abbienti e facendone cittadini responsabili e partecipi. La socialdemocrazia è stata tutto questo.
Come osserva Ronchi, oggi questo modello è in crisi proprio nell’Emilia. Ed è in crisi insieme alla sinistra democratica un po’ in tutta Europa, come Brexit ha dimostrato in maniera dirompente. Pensare che la fedeltà di partito o di bandiera o di leadership possa mettere a tacere questa grande insoddisfazione è semplicemente sbagliato. Il voto per fede si scontra con un disagio che è più grande e più vero — semmai, se deve essere ancora voto per fede sarà dato a una nuova religione: quella del nazionalismo identitario e xenofobo.
È evidente che il bisogno di giustizia c’è: ad essere in crisi è il modo di affrontarlo. L’immigrazione è, scrive Ronchi, il fattore al quale rivolgersi per capire perché il modello classico di redistribuzione non funziona più. E lo si vede proprio sul campo: con gli esistenti criteri distributivi i concittadini perdono rispetto agli immigrati — i quali hanno comunque redditi più bassi e soprattutto famiglie più numerose e possono accedere con più facilità ai servizi.
L’accoglienza finisce per penalizzare i cittadini e ciò non tarda a generare sentimenti di rabbia razziale, di intolleranza — trasformando le ragioni dell’insoddisfazione per come le regole di giustizia sociale funzionano in ragioni identitarie. Incolpando gli immigrati e quindi le politiche delle frontiere porose, ovvero la cultura dell’accoglienza e l’etica cosmopolitica che le forze liberali e democratiche hanno in questi anni coltivato, e che ha costruito l’Unione Europea, a partire dal Trattato di Roma.
Chiede Ronchi: «come conciliare, in quanto uomo di sinistra, il mio dovere di solidarietà con l’impossibilità oggettiva di “accogliere tutta la miseria del mondo”?». È evidente che nessuno è così onnipotente da poter “accogliere tutta la miseria del mondo”. Però possiamo fare uno sforzo di elaborazione e di ricerca per rivedere criteri e politiche sociali affinché siano in grado di dare giustizia in questa nuova condizione; affinché siano attente ai contesti e alle reali capacità delle persone.
Lo scopo è difendere la vita democratica in una realtà che è comunque multietnica. E si dovrà prestare attenzione non solo all’accoglienza, ma soprattutto all’integrazione civica. Integrare gli immigrati nel tessuto socio-politico significa istruirli non solo nella lingua, ma educarli ai diritti civili, alle regole di giustizia, al dettato della nostra Costituzione. Oggi c’è più, non meno, bisogno di politiche pubbliche; ce n’è tanto bisogno quanto ce n’era negli anni della ricostruzione postbellica — perché di ricostruzione si tratta comunque: della fiducia nelle istituzioni politiche, della stabilità sociale e della tranquillità civile.
Nel dopoguerra, il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza capì che per ricostruire dalle macerie della guerra nazi-fascista occorreva ricostruire la società civile e la democrazia: mise insieme conoscenze e competenze per definire piani di progettazione del futuro, non per vincere una campagna elettorale: politiche sulla casa e la scuola di ogni ordine e grado, l’assistenza sanitaria e sociale, i servizi al lavoro e all’imprenditoria; e, a tenere tutto insieme, i luoghi e i servizi di cittadinanza partecipata, nei quartieri e con le associazioni della società civile.
Il socialismo alla Prampolini, ovvero l’attenzione alla vita quotiana delle persone dove esse vivono per costruire una società giusta: questa era la logica seguita nell’Emilia del dopoguerra. E forse ancora dal riformismo bisogna ripartire, adattato ovviamente a questo tempo, poiché il disagio sociale così grande e pervasivo lo si vive nel concreto della vita locale, non è un’astratta categoria a uso di esperti della comunicazione politica.
». Arcipelagomilano online, 27 luglio2016 (c.m.c.)
Dov’è Milano mentre Dacca, Nizza, Monaco, aggiungono lutti sconvolgenti a quelli già tremendi di Parigi e Bruxelles? Dov’è la voce delle istituzioni locali, mentre aerei russi e Assad bombardano gli ospedali di Aleppo, Bagdad è un rosario di carneficine prodotte da kamikaze sunniti contro sciti e reciproche vendette, Erdogan calpesta gli elementari diritti civili, le strade di Kabul tornano a essere terra di attacchi suicidi contro le minoranze?
La retorica delle condanne e le rassicurazioni governative si susseguono mettendo a nudo la debolezza della politica. Davanti all’escalation di orrori avvertiamo impotenza in raccomandazioni tipo: non lasciamoci prendere dalle paure, perché sarebbe darla vinta ai terroristi. O, ancora: le istituzioni faranno quanto possono per garantire incolumità e tranquillità (ci mancherebbe!), ma è impossibile prevedere tutto.
Si può non darla vinta agli uomini in nero e al contagio che la loro violenza ha su menti fragili; occorre però un salto di qualità nell’esprimere il senso collettivo di appartenenza alla civiltà della vita contrapposta a quella della morte. Al diffuso vissuto di frustrazione ci si può opporre proprio da Milano, per quello che la città è nel suo dna: stile ambrosiano, inventiva, sperimentazione, creatività politica e sociale; politicamente: capitale del riformismo.
Ad esempio si può ripristinare il ruolo centrale delle Assemblee elettive: Consiglio Comunale in primis. È un gesto politico, di assunzione di responsabilità; è un modo di ritrovarsi, condividere preoccupazioni, dare respiro, discernere tra quel che viene dalla pancia e quanto il cuore e la mente dovrebbero suggerire.
Dal dopoguerra ai primi Anni ’90 l’aula di Palazzo Marino è stata il luogo deputato dove la città ha riflettuto sui problemi generali che a mano a mano affliggevano il mondo. Per decenni le sedute del Consiglio si aprivano con un’introduzione generale che schiudeva orizzonti di solidarietà internazionale, dando spessore ai provvedimenti amministrativi. Faceva capolino un tasso di ideologia in quei dibattiti. Ma Milano ha vissuto la propria dimensione di Città internazionale, in grado di intrattenere rapporti culturali, stabilire scambi proficui con blocchi opposti in quanto dai banchi di Palazzo Marino e dall’emiciclo del pubblico sono passati: fatti d’Ungheria, Guerra Fredda, minaccia nucleare, disastri combinati dall’Occidente in Asia (a incominciare dal Vietnam) e in Medio Oriente, stragismo, terrorismo, povertà da ristrutturazioni industriali e delocalizzazione nei Paesi emergenti e poi nell’ex blocco sovietico.
E venne Tangentopoli, con effetti dirompenti sul piano dell’etica pubblica e degli assetti istituzionali. Costretti dal buio morale calato su Milano e dalle ripercussioni in tema di tenuta democratica dell’intero Paese, i partiti decimati dagli scandali ebbero un sussulto riformatore. Non toccarono l’impianto generale, spostando possibili modifiche della Costituzione su una Commissione Bicamerale (rinvio che paghiamo ancora oggi, alle prese con gli scontri sul “sì” e sul “no”: andrebbe ricordato a qualche leader ex Pci). La lezione di Mani Pulite finì nella riforma dei poteri locali che voleva riavvicinare politica e cittadini semplificando i meccanismi decisionali.
All’apparenza sembrò un intervento limitato: veniva introdotta l’elezione diretta dei sindaci. Fu invece una svolta ambivalente sotto il profilo della democrazia reale. Venivano poste le premesse perché i consigli comunali perdessero in rappresentatività e capacità di indirizzo politico, oltre che in termini di potere decisionale. Si finì per ridurre il confronto al momento del rinnovo dei consigli, con i partiti ridotti a comitati elettorali.
Lasciamo ad altra occasione un bilancio sulla riforma degli Enti Locali. Subito va data una risposta alla richiesta pressante di comprensione che viene dalle tragedie. È tangibile lo smarrimento emotivo che mette a rischio la tenuta in termini di psicologia sociale; disorienta lo squilibrio tra grandi sfide epocali e disegni aggressivi/difensivi di chi pensa a muri o con cinismo per un voto in più cavalca le paure; è inquietante l’afonia di energie culturali e intellettuali. Incalza la questione di individuare spazi attraverso cui la polis possa ritrovarsi e come nell’antica tragedia greca dare nome alla complessità degli umori e delle scelte, prendere coscienza, puntare sul cambiamento degli individui e del collettivo.
Riportare al centro la Casa comunale, nel senso proprio della “casa di tutti” non è un Amarcord. Si vuole invece tornare alle radici dell’esistenza umana, alla socialità, al senso di solidarietà, alla convivenza buona di uomini e di donne che si incontrano, si guardano negli occhi, si parlano, si ascoltano, cercano insieme di capire, di verificare la fondatezza delle proprie visioni del mondo in confronto alle difficoltà del tempo e alle speranze da offrire ai figli propri, alle generazioni, al vicino e allo sconosciuto che verrà perché tale è la direzione della storia.
I social sono importantissimi nella comunicazione, ma da soli non bastano a far crescere consapevolezza e democrazia. La grande utilità d’un loro uso corretto s’è vista proprio in occasione degli attentati. Come tutti i mezzi, però, in sé non sono né buoni né cattivi: il giudizio dipende dall’uso che se ne fa. E l’esperienza mostra come molte volte essi siano luoghi di affermazione di tanti “Io” isolati, che però non riescono a diventare un “Noi”. Abbiamo un gran bisogno di luoghi in cui radunarci, mettere in comune riflessioni argomentate, studiare, conoscere, approfondire, trovare dentro di noi le ragioni ultime capaci di opporre slanci vitali all’istinto di annientamento dell’altro, al tentativo di uccidere la speranza nell’umanità.
Il Fatto Quotidiano online, 24 luglio 2016 (p.d.)
Dopo le violenze in Turchia l’eurodeputata Barbara Spinelli ha promosso un appello internazionale per chiedere ai rappresentanti delle istituzioni europee di vigilare sulla situazione interna al Paese sconvolto dalla repressione delle opposizioni, delle minoranze e delle libertà civili innescata da Erdogan il golpe militare sventato il 15 luglio. La lettera, sottoscritta da importanti di accademici (Varoufakis, Etienne Balibar, e tanti altri) più un certo numero di parlamentari europei, è indirizzata a Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e al direttore generale del Consiglio d’Europa a Thorbjørn Jagland. Ecco il testo.
Gentile Alto Rappresentante /Vice Presidente Federica Mogherini,
Gentile Segretario Generale Thorbjørn Jagland,
Venerdì 15 luglio la Turchia è stata vittima di un tentativo di colpo di stato che ha provocato più di 200 vittime, per la maggior parte civili, e più di 1400 feriti. Subito dopo, il Governo turco ha avviato un’epurazione su larga scala e del tutto sproporzionata in seno all’apparato statale. Dal giorno in cui ha avuto luogo il fallito colpo di stato, fino al 20 luglio 2016, il numero complessivo di epurazioni (sospensione dagli incarichi e arresti) nel servizio pubblico ammonta a più di 61.000 persone. Le purghe hanno colpito in particolare i seguenti settori: ministero della Giustizia (2.875 giudici e pubblici ministeri); Ufficio del Primo ministro (257 dipendenti); ministero degli Affari interni (8.777 agenti di Polizia, Gendarmeria, governatori di distretti provinciali, governatori locali e personale); ministero dell’Istruzione nazionale (21.738 dipendenti sospesi); Consiglio dell’Educazione Superiore (116 professori, compresi 4 rettori, più 1.577 presidi di facoltà cui è stato chiesto di dimettersi); ministero della Famiglia e delle Politiche sociali (393 impiegati statali); ministero delle Finanze (1.500 dipendenti); Agenzia di Intelligence nazionale (100 dipendenti); Autorità di Regolamentazione del Mercato energetico (25 dipendenti); ministero dello Sviluppo (16 dipendenti); ministero delle Foreste e delle Risorse idriche (197 dipendenti); ministero dell’Energia e delle Risorse naturali (300 dipendenti); ministero dello Sport e della Gioventù (245 dipendenti); ministero dell’Ambiente e dell’Urbanizzazione (70 dipendenti); Consiglio supremo per Radio e Tv (29 dipendenti); Agenzia di Regolazione e Supervisione bancaria (86 dipendenti); ministero del Commercio e delle Dogane (176 dipendenti); Autorità garante della Concorrenza (8 dipendenti); Corte militare d’Appello (35 dipendenti); ministero della Difesa (7 dipendenti); Borsa di Istanbul (51 dipendenti).
É stata revocata la licenza di insegnamento a 21.000 docenti di scuole private.
É probabile che i prossimi saranno gli accademici. Migliaia di universitari erano già sotto inchiesta, con l’accusa di “dare sostegno” alle attività terroristiche, per aver difeso la popolazione curda nel Sud-Est della Turchia, sottoposta nel corso dell’ultimo anno a un attacco esteso e letale da parte delle forze regolari turche.
Secondo numerose fonti – tra queste il Commissario europeo per la Politica di vicinato e i Negoziati per l’allargamento Johannes Hahn – la lista delle persone da arrestare era già pronta prima che iniziasse il colpo di stato. Alcune di queste fonti asseriscono che il colpo di stato è stato messo in atto come extrema ratio contro tali liste.
Il Primo ministro turco ha sospeso le ferie di più di tre milioni di dipendenti pubblici in tutto il Paese, e ai dipendenti del settore pubblico è stato vietato di viaggiare all’estero. Inoltre, secondo un’intervista rilasciata alla CNN il 18 luglio 2016, il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan non ha escluso la possibilità di ripristinare la pena di morte nel Paese. Nel frattempo, il Governo ha dichiarato lo stato d’emergenza e la sospensione temporanea della Convenzione europea dei Diritti umani, come consentito dall’articolo 15 CEDU. Questo articolo non permette però di venir meno al rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla Convenzione.
Non esiste più, in conclusione, un sistema di pesi e contrappesi. Secondo alcuni resoconti, le persone messe sotto custodia non riescono a trovare avvocati difensori, perché nessuno si esporrebbe al rischio di difenderle e di entrare così a far parte della lista delle epurazioni.
La Turchia è firmataria della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e del Protocollo n. 6 della CEDU riguardante l’abolizione della pena di morte. Come Paese candidato all’adesione all’UE, la Turchia si è anche impegnata al pieno rispetto dei criteri di Copenhagen, tra cui la presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze, oltre all’abolizione della pena capitale.
Noi, firmatari di questa lettera, condanniamo ogni tentativo di rovesciare l’ordinamento democratico attraverso colpi di stato militari. Al tempo stesso, tuttavia, condanniamo le purghe attuate dal Governo turco in violazione dei diritti umani e dello stato di diritto. Il principio di indipendenza e d’imparzialità del potere giudiziario – insieme alla libertà dei media – è alla base dello stato di diritto e della democrazia. L’indipendenza politica dei corpi insegnanti fa parte delle condizioni di esistenza di una società libera.
Chiediamo all’Alto Rappresentante / Vice Presidente Federica Mogherini, così come al Segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland, di seguire da vicino la situazione in Turchia per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e dello stato di diritto, e chiediamo di esigere l’immediata liberazione di tutti coloro che sono stati arbitrariamente arrestati e detenuti a seguito del fallito colpo di stato militare.
Ricordiamo il recente disegno di legge adottato dal Parlamento turco che revoca l’immunità dai procedimenti giudiziari per 138 parlamentari, appartenenti per lo più al partito di opposizione HDP e alla minoranza curda. Tutto sembra suggerire che il colpo di stato offra al Governo turco l’occasione di limitare ulteriormente il ruolo delle opposizioni e la loro funzione di vigilanza democratica. Poco dopo il suo arrivo a Istanbul, la mattina del 16 luglio, Erdogan ha affermato: “Questa insurrezione è un dono di Allah, perché ci consentirà di ripulire le forze armate”.
Chiediamo quindi all’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini di esaminare la situazione, prestando particolare attenzione alla condizione della minoranza curda e delle altre minoranze nel Paese. Esortiamo allo stesso modo il Segretario Generale Thorbjørn Jagland, perché ricordi al Governo turco l’obbligo di rispettare la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e tutti i suoi Protocolli, che comprendono il diritto alla vita, al giusto processo, alla protezione da arresti arbitrari.
Sollecitiamo inoltre l’Alto Rappresentante/Vice Presidente Mogherini affinché chieda al Consiglio europeo di sospendere immediatamente l’accordo UE-Turchia firmato il 18 marzo 2016, alla luce dei recenti sviluppi e in considerazione del fatto che già al momento della firma dell’accordo la Turchia non era un “paese sicuro” per rifugiati e richiedenti asilo.
Infine chiediamo a tutti gli Stati membri dell’UE di impegnarsi con forza presso il Governo turco affinché nel Paese siano pienamente ristabiliti lo stato di diritto e i principi democratici, come condizione essenziale per futuri rapporti diplomatici e per la continuazione dei negoziati di adesione. Con i migliori saluti,
Barbara Spinelli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Albena Azmanova – Professore associato in Political and Social Thought, University of Kent, Brussels School of International Studies, UK
Étienne Balibar – Filosofo, Professore Emerito presso l’Université de Paris-Ouest, Francia, e Anniversary Chair in Modern European Philosophy, Kingston University London, UK
Seyla Benhabib – Eugene Mayer Professor in Political Science and Philosophy, Yale University, USA
Sophie Bessis – Storica, ricercatrice presso l’Institut de relations internationales et stratégiques di Parigi, Francia e Tunisia
Hamit Bozarslan – Storico e politologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Susan Buck-Morss – Filosofa politica, CUNY Graduate Center, NYC, USA
Judith Butler – Maxine Elliot Professor in Comparative Literature and Critical Theory, University of California, Berkeley, USA
Claude Calame – Storico e antropologo, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Joseph H. Carens – FRSC Professor in Political Science, University of Toronto, Canada
Maeve Cooke – Membro della Royal Irish Academy, MRIA School of Philosophy, University College Dublin, Irlanda
Vincent Duclert – Storico, Ecole des hautes études en sciences sociales di Parigi, Francia
Didier Fassin – Professore in Social Sciences, Institute for Advanced Study, Princeton, USA
Éric Fassin – Professore in Sociologie, Université de Paris-8, Francia
Shelley Feldman – International Professor, Cornell University, USA
Michael Hardt – Professor, Duke University, USA
David Harvey – Distinguished Professor, Graduate Center of the City University of New York, USA
Marianne Hirsch – William Peterfield Trent Professor in English and Comparative Literature e Direttrice dell’Institute for Research on Women, Gender, and Sexuality, Columbia University, USA
Philip Hogh – Philosophy Department, Carl von Ossietzky University Oldenburg, Germania
Jean E. Howard – George Delacorte Professor in Humanities, Department of English and Comparative Literature, Columbia University, USA
Julia Koenig – Institute for Social Pedagogy and Adult Education, Goethe University, Frankfurt am Main
Elena Loizidou – Reader in Law and Political Theory at School of Law, Birkbeck, University of London, UK
Sandro Mezzadra – Professore di Teoria politica, Università di Bologna, Italia
Jennifer Nedelsky – Faculty of Law and Political Science, University of Toronto, Canada
Rosalind Petchesky – Distinguished Professor Emerita in Political Science, Hunter College & the Graduate Center, City University of New York, USA
Ilaria Possenti – Dipartimento di Scienze umane, Università di Verona, Italia
Mary Louise Pratt – Silver Professor, Professor Emerita of Social and Cultural Analysis, Spanish & Portuguese, Comparative Literature, New York University, USA
Lynne Segal – Anniversary Professor, Psychosocial Studies, Birkbeck College, University of London, UK
Vicky Skoumbi – Caporedattore del quotidiano αληthεια (Aletheia), Grecia
Céline Spector – Professore, Department de Philosophie Université Bordeaux Montaigne e membro onorario Institut Universitaire de France, Francia
Yanis Varoufakis – Professore in Economic Theory presso l’Università di Atene, ex-ministro delle Finanze e deputato del Parlamento greco, Grecia
Frieder Otto Wolf – Freie Universität Berlin, ex-deputato del Parlamento europeo, Germania
Vladimiro Zagrebelsky – ex Giudice della Corte Europea dei Diritti Umani
François Alfonsi – Presidente dell’European Free Alliance (EFA)
Brando Benifei – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
José Bové – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Nicola Caputo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Fabio Massimo Castaldo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Fabio De Masi – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Karima Delli – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Pascal Durand – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
José Inácio Faria – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Eleonora Forenza – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
María Teresa Giménez Barbat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Ana Maria Gomes – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tania González Peñas – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Yannick Jadot – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Benedek Jávor – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Eva Joly – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Josu Juaristi Abaunz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Jude Kirton-Darling – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Stelios Kouloglou – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Merja Kyllönen – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Patrick Le Hyaric – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Paloma López Bermejo – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Lorena Lopez de Lacalle – Tesoriere della Treasurer European Free Alliance (EFA)
Marisa Matias – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Stefano Maullu – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo del Partito Popolare Europeo (PPE)
Marlene Mizzi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Ulrike Müller – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Javier Nart – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Carolina Punset – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE)
Michèle Rivasi – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Sofia Sakorafa – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Elly Schlein – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Helmut Scholz – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Branislav Škripek – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR)
Jordi Sole – Segretario generale della European Free Alliance (EFA)
Bart Staes – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Dario Tamburrano – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFDD- M5S)
Miguel Urbán Crespo – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Pello Urizar – Segretario Generale di Eusko Alkartasuna (Basque political party)
Ernest Urtasun – Deputato del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Monika Vana – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Marie-Christine Vergiat – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Sinistra unitaria europea/Sinistra verde Nordica (GUE/NGL)
Julie Ward – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici (S&D)
Tatjana Ždanoka – Deputata del Parlamento europeo, Gruppo Verdi/ALE
Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2016 (p.d.)
Ancor meno, peraltro, si riesce a comprendere come di fronte a tanto scempio i principali capi di Stato occidentali possano limitarsi a prese di posizione da “minimo sindacale”, chiedendo “il rispetto della democrazia” (Obama), oppure dichiarando che la linea della tolleranza sarebbe oltrepassata solo in caso di ripristino della pena di morte (Merkel).
In un contesto difficile, che mescola Nato, guerra contro l’Isis, esodo dei profughi siriani e flussi di migrazione in generale, intricati rapporti con Russia e Assad, va bene la realpolitik, anche in dose massiccia. Ma ci sono dei limiti non oltrepassabili.
Chi ha più consenso elettorale, governa. Vale anche per Erdogan. Ma in ogni paese che aspiri a essere democratico, il potere deve rispettare il principio di legalità e i limiti di una sfera non negoziabile: quella della dignità e dei diritti di tutti, sottratta al potere della maggioranza e tutelata da una stampa libera e una magistratura indipendente, estranei al processo elettorale ma non alla democrazia. Il rispetto di questi principi è fondamentale. Altrimenti, come già insegnava quasi due secoli fa Toqueville, subentra “la tirannide della maggioranza”.
È il caso della Turchia, dove la libertà di stampa è pressoché annientata e i magistrati sono perseguitati con liste di proscrizione, licenziamenti e arresti a migliaia. Un’apocalisse. Che il Guardian del 18 luglio ha ben sintetizzato con la formula “Attenzione ai dittatori eletti”. E tutto ciò mentre infuria la guerra al (e del) terrorismo internazionale, che ripropone il tema della democrazia come possibile,utile antidoto.
Un tema che l’Italia ha affrontato con le Br. La teoria dei brigatisti era che lo Stato democratico non esiste, è una finzione. Noi brigatisti – di cevano – un colpo dopo l’altro (cioè omicidi, “gambizzazioni” e sequestri) disveleremo il volto autentico dello Stato, reazionario e fascista, di negazione dei diritti. E quando questo volto sarà disvelato, le masse – finalmente “istruite” – si ribelleranno e si uniranno all’avanguardia organizzata di noi Br, innescando la palingenesi rivoluzionaria. In questa trappola il nostro Paese non è caduto. La risposta al terrorismo brigatista non ha mai abbandonato i principi fondamentali dello Stato di diritto.Abbiamo elaborato una legislazione “specialistica” sulla realtà dei fenomeni, costretta sì a raschiare il fondo del barile dei valori costituzionali, ma senza mai andare oltre.
Non è emerso, ammesso che davvero fosse nascosto da qualche parte, alcun volto fascista dello Stato, e questo ci ha aiutati a risolvere meglio i problemi posti dal terrorismo. La nostra esperienza (pur essendo riferita a situazioni molto diverse) può essere utile anche oggi contro il terrorismo cosiddetto islamico. Che va combattuto con forte determinazione, ma ricordando che senza diritti non c’è giustizia, e senza giustizia non c’è pace. Ispirarsi a logiche di ferma sicurezza (a fronte di un fondamentalismo sempre più intollerante e sanguinario, ormai con tecniche da macellai) è doveroso. Ma se si contrappone soltanto uno schieramento armato, se si negano diritti, istruzione, sanità, sviluppo umano, ci si avvita in un circolo vizioso, che va interrotto. Altrimenti si rischiano nuovi poteri, così assoluti da costituire un problema per le libertà e la democrazia che – si dice – si vogliono tutelare e magari esportare. E a questo proposito, la feroce repressione di Erdogan ne fa un “alleato” molto scomodo. A dire davvero poco.
La Repubblica, 21 luglio 2016, con postilla
La rapida drammatica involuzione della Turchia verso il dispotismo della maggioranza ci sveglia dal sonno dogmatico che alcuni decenni di egemonia democratica e occidentalista hanno facilitato, facendoci dimenticare che i governi fondati sul consenso non sono necessariamenti buoni. La volontà della maggioranza, anche quando radicata nella cultura nazionale, non è per questo amica dei diritti dei singoli di religione, di parola, di idee, di associazione, di insegnamento. Le resistenze dei liberali nei confronti della democrazia, se e quando questa è semplicemente governo del consenso, sono più che giustificate.
Anche le democrazie costituzionali possono presentare insopportabili pulsioni verso l’intolleranza. La moderazione ha successo se e quando la costituzione è più di un documento scritto, l’ethos che innerva il comportamento dei magistrati, dei rappresentanti politici e dei cittadini. Per attecchire come sistema di libertà, la democrazia deve poter contare su una società culturalmente aperta alle ragioni dei singoli e con una tradizione religiosa che accetti che la legge civile non sia omologata ai propri comandamenti. La debolezza dei tentativi democratici nei paesi islamici ci dice che ogni governo fondato sul consenso va giudicato non dal punto di vista dell’ampiezza del consenso ma della libertà con la quale quel consenso si forma, viene espresso e contestato. Le primavere arabe sono cadute sulla debolezza del governo della legge, che ha seguito questo tragico destino: o è diventata preda del potere religioso mediante la conquista della maggioranza parlamentare, oppure, per ostacolare o reprimere questo esito, è stata presa della forza militare. Forza della massa e forza repressiva marcano la debolezza della legge civile, e quindi della democrazia costituzionale, nei paesi islamici. Si tratta di una debolezza di laicità, cioè della cultura della separazione tra poteri e della pratica di limitazione del potere, qualunque esso sia. La degenerazione del governo basato sul consenso verso forme illiberali è connaturata a questa debolezza.
La laicità viene spesso identificata, sbagliando, con il secolarismo. Essa però non è un “ismo” o un’ideologia, ma la condizione stessa dello stato della legge e del diritto perché un’attitudine dell’autorità civile (lo Stato) verso le pratiche religiose con lo scopo di renderle capaci di convivere pacificamente con altre pratiche di natura non religiosa e di altre religioni. Laicità è un modo di organizzare la coesistenza delle libertà plurali, di far convivere persone diverse e con culture diverse. Richiede per questo l’emancipazione del diritto dalla volontà e cultura della maggioranza, la distinzione tra diritto e morale, tra opinione su quel che è equamente giusto e quel che è assolutamente bene. Rispetto delle persone, delle loro credenze e della libertà di praticare la religione o lo stile di vita che esse scelgono: questo è laicità, condizione di una società aperta, plurale e liberale che rende la democrazia un buon governo.
Come si intuisce, la laicità è una conquista, non un punto di partenza. Per crescere deve potersi appoggiare alla sovranità della legge dello Stato, condizione essenziale per la formazione di ordini liberali e costituzionali. Ricordiamo l’insegnamento del Leviatano di Thomas Hobbes: si può ottenere sicurezza o pace sociale anche senza un regime liberale e costituzionale di divisione e limitazione del potere. Ma è evidente che governi limitati possono evolvere solo una volta che la legge dello Stato abbia consolidato il suo potere su tutti i suoi sudditi e le fonti normative. È questo il paradigma che ha guidato la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk (il “padre dei turchi”, secondo il significato di “Atatürk”, ovvero il fondatore della Repubblica turca nel 1923). Atatürk diede origine allo Stato nazionale turco dopo la dissoluzione dell’Impero Turco- Ottomano, che era multietnico e multireligioso. Egli fu alla testa di uno Stato con una religione dominante che resisteva alla sua sovranità. Lo Stato turco adottò una strategia di depressione della democrazia per tener sotto controllo la religione — mise in evidenza il nesso tra democratizzazione e ismalizzazione. Atatürk fu il padre della sovranità assoluta dello Stato e, sulle orme di Hobbes, mise la religione dentro e sotto la sua potestà. Secolarizzò lo Stato per riuscire ad affermare l’autorità della legge civile su quella religiosa. La storia politica della Turchia moderna è documento vivo delle contraddizioni che possono nascere dal connubio tra stato-nazionale e sua trasformazione democratica in paesi dove l’aspetto “nazionale” è essenzialmente identificato con la tradizione religiosa che, a sua volta, cerca e vuole il controllo dello Stato. L’arte della separazione tra politica e religione è riuscita ad Atatürk a patto di impedire la democratizzazione piena e quindi l’ingresso dell’opinione della maggioranza nel potere dello Stato. Il processo in corso dopo il fallito tentativo di colpo di stato sembra dare ragione a quel vecchio progetto — o secolarismo di Stato o una radicale confessionalizzazione. In entrambi i casi è la democrazia liberale a non aver ossigeno.
postilla
Difficile il percorso verso una democrazia compiuta (e perciò condivisa dalla pluralità di popoli e di culture esistenti) in un mondo nel quale si esercita da qualche secolo il dominio di una sola delle culture che vi si sono affermate. Ancora più difficile quando la cultura dominante ha assunto l'arricchimento dei più ricchi come il suo vessillo, e la violenza della guerra come la sua arma priviegiata. In alcuni paesi, poi, non ha rinunciato neppure all'impiego della tortura.
Altraeconomia, 14 luglio 2016 (c.m.c)
Il sistema degli spazi chiusi. È lo specifico sistema di potere sulla vita di tutti che ha preso corpo con la finanziarizzazione dell’economia e della società intera. Penso a fenomeni quali i processi economici, il degrado della politica, l’emergere dei luoghi comuni di massa, il prevalere dello scoramento per la mancanza di alternative, le migrazioni forzate e il ritorno dei muri, il moltiplicarsi di scontri bellici e tensioni internazionali, la mutazione genetica delle istituzioni, la rottura dell’alleanza tra le generazioni. Questi fatti sono a sé stanti o rientrano in un quadro d’insieme?
Nel suo libro del 1949, Origine e senso della storia, il filosofo tedesco Karl Jaspers avanzava l’ipotesi per cui tra l’800 e il 200 a. C. si verificò una fioritura policentrica della coscienza dell’umanità che coinvolse Cina, India ed Europa. In queste aree del mondo affiorarono correnti spirituali che videro protagonisti maestri come Confucio, Lao-tse, Buddha, Zarathustra, Elia, Isaia e Geremia, Omero, i Presocratici, Eschilo, Sofocle, Euripide, Tucidide e Archimede.
Giunsero così a una straordinaria maturazione la coscienza della dignità umana, il senso della libertà e della responsabilità, il riconoscimento della comune condizione che lega tutti. Jaspers considera quella svolta come un asse della storia, che fu «il punto in cui fu generato tutto quello che, dopo di allora, l’uomo è riuscito a essere» (Mimesis, p. 19). Perciò egli parla di epoca assiale, nella quale furono aperti inediti spazi culturali, comunitari, politici. Ogni progresso vero schiude alla libertà della comunità umana un territorio prima sconosciuto.
Nel confrontare la fioritura di allora con la tendenza dell’epoca presente viene da pensare che noi siamo in un’epoca assiale rovesciata, in una stagione storica in cui ciò che è più elevato nel vivere umanamente viene mortificato.
Nell’etimologia del termine finanza c’è il significato del «portare alla fine, estinguere». La società finanziarizzata chiude gli spazi alle esperienze essenziali e le spegne.
Penso al valore delle relazioni interpersonali senza che debbano essere mediate dal denaro; al radicamento delle persone nella propria casa, lingua e patria; al lavoro come espressione della creatività e della responsabilità sociale di ciascuno; al rapporto con la natura; alla facoltà di costruire una vita comune mediante l’azione politica nella sua forma democratica; all’esercizio del pensiero critico, che salva dal conformismo e dalla menzogna. Tutte queste esperienze e capacità hanno bisogno di un loro spazio: affettivo, territoriale, sociale, ambientale, politico, mentale.
A uno sguardo d’insieme che colga l’andamento del sistema di potere vigente si rende visibile la tendenza a chiudere questi spazi. L’umanità del nostro tempo soffre di claustrofobia perché gli ambiti più preziosi dell’esperienza sociale vengono surrogati da stretti percorsi obbligati e da spazi soltanto virtuali.
Uno dei processi che attuano tale tendenza è quello della fine dello spazio politico. Le “riforme” del governo Renzi su Costituzione e legge elettorale non sono riducibili al protagonismo del premier, né al progetto di rimodernare la Costituzione del 1948. Il significato radicale di tali “riforme” è quello di completare la chiusura degli spazi per la partecipazione democratica e per la rappresentanza delle istanze più vive nella società.
La scelta di tale chiusura deriva dall’idea secondo cui il mercato governa più velocemente della democrazia e risponde a ogni esigenza, la politica non serve più. Fare politica partecipando in prima persona, elaborando idee, discutendo, lottando, dialogando, progettando è ormai come insistere a usare la macchina da scrivere invece del computer.
Resta quasi soltanto la pseudopolitica fatta di carrierismo, corruzione e servilismo verso la finanza. Perciò è urgente ribellarsi a questo incantamento e contrastarlo alla prima occasione: il referendum costituzionale di ottobre.
«». La Repubblica
BREXIT ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché non aveva beni da difendere o carriere da coltivare.
Così pensava per esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili posizioni.
Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli “ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare risposta certa.
Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire l’accesso alla decisione politica.
Le avvisaglie della rivolta delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che prende il nome di «teoria epistemica», l’idea cioè che la democrazia sia buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate — producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.
Certo, ammettono i teorici della «democrazia competente», tutti sono potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene.
Per il momento, il ragionamento sulla «democrazia competente» si interrompe qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante.
La rivolta delle élite contro la democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì «la società del narcisismo» e della conseguente disaffezione nei confronti della richiesta popolare di eguaglianza.
Le classi privilegiate, scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in forte tensione con la democrazia medesima: quella della «democrazia della competenza» contro la «democrazia dell’eguaglianza», quella di una cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.
Emanciparsi dal lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad alta voce?», si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?».
Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È Michael Pascoe sulla rivista Business Day che propone queste osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare «l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.
Il Fatto Quotidiano online, 3 luglio 2016 (c.m.c.)
Poche persone sembrano averlo compreso ma il referendum di ottobre è destinato ad essere la scadenza elettorale più importante almeno degli ultimi cinquant’anni: non si decide chi governerà nei prossimi cinque anni il Paese o qualche città, scelte sempre importanti ma modificabili in un arco di tempo tutto sommato non lunghissimo.
In ottobre decideremo la qualità della nostra vita democratica che accompagnerà noi e le future generazione nei prossimi decenni; per essere ancora più espliciti e più realisti, decideremo se potremo ancora usare la parola democrazia per descrivere lo Stato nel quale vivremo.
Il combinato disposto tra l’Italicum, nella sua attuale versione, e la riforma costituzionale elaborata da Renzi e approvata dal Parlamento, mette in discussione non solo scelte che affondano le loro radici nella lotta di Liberazione del nostro Paese, ma i presupposti stessi sui quali si è formata l’idea di Stato democratico nel mondo occidentale.
Infatti il premio di maggioranza attribuito dall’Italicum al partito vincitore del ballottaggio, indipendentemente dal risultato raggiunto nel primo turno, sommato alle modalità di formazione del nuovo Senato, previste dalla controriforma costituzionale (che garantiscono un’ulteriore sovrarappresentazione del partito maggiore rispetto ai risultati ottenuti nelle varie regioni) rendono, tra l’altro, fortemente probabile la possibilità che il partito al governo possa eleggere da solo il Presidente della Repubblica e possa fortemente aumentare il proprio peso nell’elezione dei membri laici del Csm. Ne consegue che in tal modo verrebbero drasticamente posti in discussione sia il bilanciamento tra le varie istituzioni dello Stato, sia l’indipendenza della magistratura dal potere politico.
Se a questo si aggiunge il forte prevalere del potere esecutivo sul potere legislativo, che già si verifica quotidianamente attraverso il moltiplicarsi dei decreti e attraverso la modifica dei regolamenti d’aula e della loro concreta interpretazione, ne consegue che ad essere posto in discussione è lo stesso principio della separazione dei poteri, elemento costitutivo di qualunque Paese democratico dalla Rivoluzione francese in poi. Quanto all’indipendenza del “quarto potere“, l’informazione, questa da noi è ormai da tempo una chimera (salvo poche e coraggiose eccezioni).
Non va inoltre dimenticato che con l’Italicum, cade anche il principio cardine di una testa=un voto. I voti, infatti, con il sistema maggioritario a doppio turno, non avrebbero tutti lo stesso peso, anzi potrebbe anche capitare che il voto attribuito al partito che risulterà vittorioso arrivi a contare, nell’elezione dei parlamentari, addirittura il doppio, se non il triplo, del voto dato ad un’altra lista. L’intreccio tra l’Italicum e la controriforma costituzionale rappresenta quindi un disegno unitario perseguito da Renzi per concentrare l’insieme del potere/dei poteri nelle mani di un solo partito, che, con i capilista bloccati nei vari collegi, significa concretamente la concentrazione di un enorme potere nelle mani di un uomo solo, il leader del partito di maggioranza.
Tutto ciò è ancor più scandaloso se si pensa che la controriforma costituzionale è stata realizzata attraverso un colpo di mano della sola maggioranza senza ricercare alcun confronto con le opposizioni parlamentari, come dovrebbe essere ovvio in materia di modifiche costituzionali.
E’ anche bene precisare che tutto quanto sta avvenendo nulla ha a che vedere con la lotta ai privilegi dei politici, né con la riduzione dei costi della politica: obiettivi sacrosanti ma che possono essere raggiunti con ben altre soluzioni e che vengono invece strumentalizzati dall’attuale esecutivo per altri, inconfessabili, obiettivi politici.
Alla luce di tutto ciò è di inaudità gravità il sostegno fornito a questo abberrante disegno dalla minoranza Pd, la preoccupazione di salvare il posto e di non dispiacere al capo non può portare a sacrificare principi fondanti della democrazia.
Quelli che vengono definiti i lacciuoli dai quali sarebbe necessario liberarsi altro non sono che contrappesi per evitare di scivolare nuovamente in un sistema autoritario; contrappesi costruiti non a caso da chi aveva sperimentato sulla propria pelle la dittatura e aveva studiato a fondo i meccanismi attraverso i quali un partito si era impadronito di tutte le istituzioni del Paese. Oggi perché questo avvenga non è necessario un colpo di Stato coi militari per strada.
Altraeconomia, 30 giugno 2016 (p.d.)
Gianni Tognoni è il segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, fondato nel 1979 come emanazione pratica della Carta di Algeri. Il TPP, come lo descrive il suo segretario, è “un’isola di resistenza, coscienza e collegamenti internazionali” che ha affrontato 42 sessioni (tutte le sentenze sono consultabili sul sito), l’ultima a Colombo in Sri Lanka, muovendosi dall’America Latina alle Val Susa. E che farà un bilancio a Roma, il 4 e il 5 luglio alla Camera dei deputati, in occasione di un convegno internazionale in occasione dell'anniversario della Carta.
Tognoni, come e perché nel luglio 1976 è nata la Carta di Algeri?
Il contesto storico entro il quale è maturata la Carta era caratterizzato da due componenti tra loro contraddittorie. Una era la fine del vecchio modello della colonizzazione e del prevalere dei movimenti di liberazione delle aree centrali, salvo l’apartheid che si sarebbe concluso vent'anni dopo; intorno al 1975, infatti, le ultime colonie formali del Portogallo terminavano la loro esistenza e finiva la guerra del Vietnam. Dall'altra parte, però, c’era la situazione assolutamente contraddittoria riassunta dai fatti del marzo 1976, quando l’Argentina concludeva con il suo colpo di Stato una nuova ricolonizzazione militare ed economica. Si riaprì un enorme laboratorio di moti coloniali - come evidenziato da tre sessioni del tribunale Russell sull'America Latina - fondato sulla violazione massiva dei diritti umani e dei popoli, praticamente inedita. La cosiddetta comunità internazionale fu spettatrice, a parte qualche importante esercizio di solidarietà. Bene, dinanzi a questa esperienza di forte contraddizione emerse il ruolo di un diritto internazionale nelle mani degli Stati quando questi non erano in grado di riconoscere in maniera formale ciò che stava succedendo. Basti pensare che nel 1978 si tenne il campionato del mondo in Argentina. Era necessario riprendere l’agenda lasciata consapevolmente aperta nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, in cui gli Stati, al di là di una menzione dei "Popoli" fatta solamente nel preambolo, erano i protagonisti assoluti e autonomi, liberi da qualsiasi limite esterno.
L’idea di Lelio Basso e di altri giuristi che all'epoca lavoravano in maniera attiva nella formulazione delle ultime convenzioni internazionali delle Nazioni Unite, fu quella di ricreare nuove categorie, ridando ai popoli presenti simbolicamente nel preambolo una loro visibilità e rappresentatività. La Carta di Algeri diventa un’area su cui sviluppare una resistenza alle nuove forme di colonialismo o repressione per dare - o ridare - ai popoli il ruolo di soggetti e non soltanto di "elettori" di governi. Allora non si parlava nemmeno di Corte penale internazionale (fondata il primo luglio 2002, ndr).
È a partire da quell'esigenza che è nato il Tribunale permanente dei popoli?
Sì, il Tribunale rispondeva alla convinzione che fosse veramente importante dare visibilità e legittimità - seppur attraverso uno strumento sussidiario, non dotato di potere immediato di intervento - alle lotte che in maniera diversa si dovevano condurre per evitare il riprodursi su base massiccia di fenomeni di colonizzazione.
Basso ripeteva nei suoi discorsi che la dichiarazione Algeri, legalmente, era soltanto un "foglio di carta", ma in qualche modo, come nella biografia di qualsiasi movimento di liberazione, era un iniziale strumento di lotta e di ricerca collaborativa. Era una svolta per il diritto internazionale.
Quali sono stati i “risultati” principali di questi quarant'anni di “vita” della Carta e dei suoi strumenti?
I bilanci storici sono sempre controversi. Dal punto di vista oggettivo, il diritto internazionale non ha fatto passi in avanti. La Corte penale internazionale è stato un prodotto molto tardivo e sostanzialmente quasi obbligato visto quello che era successo negli anni 90 con il genocidio in Rwanda, o le guerre nella ex Jugoslavia, o nel Golfo. Rimane il fatto che i Paesi "centrali" non ne hanno ratificato il trattato di istituzione, dichiarandosi così non vincolati a questa proposta di tribunale internazionale. Il TPP ha avuto dei ruoli sicuramente positivi dal punto di vista dell'utilizzo delle sue sentenze da parte di quelli che sono stati movimenti di liberazione. Penso al riconoscimento del Fronte Polisario dopo la sessione sul Sahara Occidentale del novembre 1979, all'attenzione per Timor Est - giugno 1981 - portata anche in sede di Nazioni Unite a seguito dell'invasione "tollerata" da parte dell'Indonesia, al caso di El Salvador (febbraio 1981), o delle Filippine, dove la sentenza sul caso "Filippine - Popolo Bangsa Moro" è stata riconosciuta come essenziale per creare una forma di opposizione vincente. Si è sollevata l’attenzione sull’Afghanistan, nel maggio 1981 e nel dicembre 1982, dopo l’illecita invasione dell'Unione sovietica e l'utilizzo di armi proibite, o sul genocidio armeno (aprile 1984), rimettendo all’ordine del giorno qualcosa che veniva, come adesso, accantonato per equilibri europei. Ricordo anche il lavoro sulla "non possibile impunità" rispetto ai crimini commessi in America Latina, che è stato alla base dell’operazione di memoria poi condotta in Argentina, Brasile, Uruguay e Cile.
Ecco, senza darsi illusioni, il ruolo del Tribunale è stato quello di trasferire strumenti pratici per lotte reali dei popoli - come ha fatto la sentenza sul Nicaragua dopo l'invasione degli Stati Uniti, ripresa anche dalla Corte internazionale dell’Aja -.
In più di un’occasione ha definito la Corte penale internazionale come un’occasione mancata.
Il suo grande limite è aver stralciato dalle proprie competenze il contrasto ai crimini economici, che invece sono sempre più al centro dell’attenzione del Tribunale. Qualificare oggi i diritti fondamentali dei popoli non come variabile dipendente dalle dinamiche economiche ma come elemento centrale di autodeterminazione - sto pensando alla sessione sulla Tav in Piemonte, dove l’esercizio della partecipazione popolare è stato piegato agli interessi di un’opera - è un qualcosa di cui non si discute più. E i trattati dominano sulle costituzioni.
Come sono cambiati i “popoli” cui guarda il Tribunale?
È mutato il termine. Prima, ai “popoli” si dava un’identità comunitaria, un gruppo che rivendicava diritti. Oggi i popoli sono trasversali dal punto di vista del rapporto con i poteri economici che ne condizionano (o negano) i diritti. In Europa, è il caso dei migranti, uno dei casi cui guarderemo da qui in avanti insieme alla finanza “illegittima”.