il manifesto, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)
«Mi hanno davvero irritata i commenti che fin dai primi exit poll disegnavano il voto come frutto del populismo. Il No ha dietro sicuramente tante ragioni, diverse tra loro e variegate, ma non dimentichiamo chi si è espresso sul merito della riforma costituzionale. E soprattutto, non permettiamo ai partiti populisti di intestarsi la vittoria». La sociologa Chiara Saraceno ci aiuta ad analizzare il referendum di domenica: dalla delusione dei giovani nei confronti del «rottamatore» Matteo Renzi fino alle accuse di «trumpismo» indirizzate a chi ha bocciato la proposta targata Pd.
L’accusa mossa ai sostenitori del No, a parte l’ormai celebre «accozzaglia» populista, è quella di un Paese che non sa innovarsi, che conserva e si rinchiude nelle sue paure. Da sociologa ci vede almeno un fondo di verità?
Come ho detto mi hanno molto irritato i commentatori che riducono tutto a «populismo». Il fronte del No è molto composito, hanno pesato motivazioni diverse, ma è sbagliato secondo me metterle tutte sotto il cappello del populismo e ancor di più del conservatorismo, di quelli che non vogliono cambiare niente. Ricordiamo anche i tanti che, indipendentemente dall’essere o meno a favore del governo, non apprezzavano questa riforma della Costituzione.
C’è anche chi ha votato «di pancia», come ad esempio Grillo ha invitato a fare.
Certamente, quasi tutte le opposizioni presenti in Parlamento, dai Cinquestelle alla Lega, fino a Forza Italia, per quanto con motivazioni diverse tra loro, hanno comunque espresso un voto contro Renzi. Però, ecco, da qui a dire che hanno vinto i «trumpisti» all’italiana ce ne corre: anche perché, ripeto, tanti hanno votato nel merito. E anche dietro a quel dissenso che si può essere manifestato in un voto contro il governo è sbagliato vedere solo «populismo»: ci possono essere ragioni di disagio, di malcontento, che abbiamo il dovere di individuare e analizzare, a maggior ragione per non lasciarle interpretare solo dai populisti.
A che tipo di disagio si riferisce?
Prendiamo l’Italicum: ad alcuni ha dato fastidio che una legge elettorale fosse imposta, senza contare che poi – nelle ultime settimane – si era addirittura disposti a cambiarla. Ma allora perché avete fatto quella forzatura? E poi ci sono ad esempio le periferie: tanti abitanti delle nostre città sono stanchi di essere tirati fuori solo per la politica della paura, vogliono partecipare. Interpretiamo questo voto anche come un desiderio di partecipazione per chi ha poca voce.
E i ragazzi e le ragazze? Hanno votato in massa contro il premier più giovane che l’Italia abbia mai avuto. Non è strano che Renzi non sia riuscito a intercettarli?
La retorica degli ultimi due anni è stata tutta all’insegna della «modernizzazione» e della «rottamazione», ma evidentemente qualcosa non ha funzionato. Va detto innanzitutto che i giovani sono eterogenei: alcuni in passato hanno votato perfino contro riforme delle pensioni che andavano a loro vantaggio. Diciamo in generale che non è che siano per forza più bravi o intelligenti rispetto ad altre fasce d’età: però, certo, la loro condizione non è migliorata granché con questo governo. Sono forse quelli più delusi da Renzi: probabilmente perché il premier aveva promesso tanto, direi troppo rispetto a quello che poteva realmente dare. E l’ultima finanziaria non mi pare pensi troppo a loro: pensioni, quattordicesime per chi ha già un reddito, bene che si aiutino gli anziani in difficoltà, ma per gli under 30 cosa si è fatto?
Per il futuro dell’Italia alcuni vedono una chiusura in sé stessa, una virata antieuropeista. Lei è d’accordo?
Assolutamente no, e anzi direi che per alcuni versi l’Italia mi sembrava più chiusa e rancorosa prima del voto di domenica. Certo, ora tantissimo dipenderà da chi riuscirà a intestarsi la vittoria, e importante sarà riuscire a interloquire con i tanti cittadini che hanno votato sul merito, per difendere la Costituzione. E, insieme, riuscire a sottrarre linfa ai partiti populisti, interpretando e rispondendo al disagio di chi ha votato «di pancia» o per mandare a casa il governo Renzi.
Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2016 (p.d.)
Venerdì, Stefano Rodotà si è alzato per intervenire alla festa del No organizzata dal
Fatto a chiusura della campagna elettorale: è stato accolto da un interminabile applauso del pubblico che lo ha acclamato “Presidente”. Archiviato il risultato, gli abbiamo chiesto una lettura del voto, non solo per la nettissima prevalenza del No ma anche per l’alta affluenza.
Professore, il risultato è stato solo una sconfitta politica di Renzi o anche una risposta al minaccioso sottotesto, “o me o la Costituzione”?
Che questa sia una sconfitta di Renzi è del tutto evidente: lo confermano le parole del presidente del Consiglio di domenica notte. La mia impressione è che l’oggetto del conflitto, alla fine, fosse impadronirsi della Costituzione sottraendola alla possibilità di continuare a essere luogo di principi e di confronto. E facendola diventare uno dei tanti strumenti di un’azione politica tutta rivolta alla chiusura. La Costituzione invece è diventata la strada per uscire da questa
impasse: il che dimostra una diffusa consapevolezza culturale. Si sono confrontate diverse visioni: una certa cultura costituzionale contro una visione dei rapporti politici e istituzionali che alla Carta negava di essere ciò che invece è. Ovvero il patto che lega i cittadini e li rende una comunità.
L'affluenza non ha permesso tentennamenti, anche per il risultato nettissimo.
Perché ai cittadini interessava e molto! Il modo di presentare il Sì e il No è stato indicativo. Il no non è stato soltanto un rifiuto, ma anche un’indicazione di recupero della cultura costituzionale di cui parlavo poco fa.
Negli ultimi anni lei si è occupato prevalentemente di diritti, in un momento di compressione dei diritti fondamentali (lavoro, tutele del lavoro, saluto, rappresentanza, sovranità): possiamo leggere il voto anche sotto questa lente?
Certamente. Segnalo che l’anno prossimo avremo di nuovo prove su questo terreno perché la Cgil ha promosso tre referendum, tra cui quello contro l’abolizione dell’articolo 18. Oggi non finisce un percorso, tutt’altro. Bisogna fare di questo risultato un’analisi che possa guidare le azioni dei prossimi mesi. Torneremo al protagonismo dei cittadini che hanno dimostrato di voler esercitare le loro prerogative in proprio. Ponendo quindi il problema della delega e della rappresentanza: a queste domande bisognerà dare risposta. Non sarà semplice, ma questi problemi non sono più eludibili.
La legge elettorale non era oggetto del referendum, ma ora bisognerà ripensarla tenendo presente il tema della rappresentanza.
Qui dobbiamo sottolineare due cose: è stato imperdonabile fare una legge elettorale – su cui è stata messa la fiducia e che è entrata in vigore dopo più di un anno dalla sua approvazione – che valeva solo per la Camera, dando per scontato che i cittadini approvassero la riforma del Senato. Una classe dirigente deve avere visione e responsabilità: l’arroganza che sottende a questa mossa è inammissibile. Senza dire che, dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, il compito primo del Parlamento era fare una legge elettorale almeno non incostituzionale. Il cuore di quella sentenza era proprio il tema della rappresentanza. Ora ci troviamo con una legge elettorale che vale per una sola Camera e sui cui c’è più di un sospetto di legittimità costituzionale. Questo sarà il passaggio cruciale: i cittadini hanno chiarito di non essere disposti a rinunciare alle loro prerogative e ai loro diritti.
Lei ha parlato di una pericolosa tendenza alla democrazia di ratifica: il Parlamento tornerà al suo ruolo di rappresentante del popolo e di legislatore?
Dovrà essere così. Ma è dirimente il modo con cui sarà eletto il nuovo Parlamento. Quale sarà la via attraverso cui i cittadini potranno selezionare i loro rappresentati? Bisogna che sia chiaro che non c’è più posto per trucchi da funamboli. I cittadini devono potersi fidare perché altrimenti questo rinnovato interesse per le decisioni comuni scemerà o prenderà altre direzioni se non altre derive. Negli ultimi anni – anzi: lustri – il Parlamento ha subìto il ricatto della fiducia su quasi tutti i provvedimenti dei governi, che hanno abusato della decretazione. Se pensiamo che il disegno della riforma era un rafforzamento del potere esecutivo a scapito del Parlamento, allora diciamo che la direzione indicata dagli elettori - non dai professori o professoroni - è un ritorno alla centralità del Parlamento. Un risultato per nulla ovvio: da tempo si dava per scontato il disinteresse dei cittadini verso la politica. Beh non è così.
I cittadini non hanno creduto al terrorismo e alle profezie nefaste. E nemmeno al fatto che non ci fosse la famosa alternativa...
I cittadini hanno creduto nella democrazia, questa è la verità. Tutte le affermazioni riconducibili all’après moi le déluge erano una negazione della democrazia. Che invece è per sua natura una vicenda aperta.
«La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto».
Blog di Walter Tocci, 1 dicembre 2016 (m.c.g.)
Rapidità-Lungaggine
Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all'indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell'altro ramo.
In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell'attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.
Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento.
Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che è costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto. Avevano promesso rapidità e ottengono la lungaggine. Le nuove leggi non si muoveranno con l’eleganza della lepre ma con il passo barcollante della papera. Per una vera riforma del bicameralismo si doveva abolire il Senato e fissare soglie di garanzia per l’approvazione alla Camera delle leggi relative ai diritti di libertà dei cittadini.
Centralismo-Autonomie
Non è mantenuta neppure la promessa del Senato delle Autonomie. Palazzo Madama si occupa dei massimi sistemi – gli accordi internazionali e addirittura la Costituzione – ma ha scarsi poteri proprio sui problemi dei Comuni e delle Regioni. Per chiarirlo bastano alcuni recenti esempi di politica comunale sui tributi locali e sulle aziende municipali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la norma sottoposta al referendum dell’acqua non sarebbero di competenza primaria del Senato.
Soprattutto il Senato non ha alcun potere proprio sull’articolo 117 che regola i rapporti tra Stato e Regioni. E tali rapporti saranno ancora più conflittuali. Non è stata infatti abolita la legislazione concorrente. Nella sanità, nell’istruzione, nel welfare, nell’urbanistica esiste ancora la legge cornice dello Stato che delimita la legislazione regionale, ma ha cambiato nome. Prima si chiamava “norme generali” e ci sono voluti dieci anni di sentenze della Corte per precisarne il significato giuridico, tanto che il contenzioso è diminuito. Ora prende il nome di “disposizioni generali e comuni” e ci vorranno altri dieci anni di sentenze per precisarne il significato con una nuova impennata dei conflitti istituzionali.
Su altre materie invece si torna al vecchio centralismo statale che avevamo abbandonato inorriditi ormai venti anni fa. Entra in Costituzione la logica del decreto "Sblocca Italia" che aveva provocato il referendum delle trivelle. Il governo pretende di decidere sulle grandi opere – la Tav, il ponte di Messina, il Mose di Venezia - passando sopra la testa delle comunità locali. Addirittura sulla tutela dell’ambiente il testo è molto confuso.
Nella Carta vigente è scritto: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Nel nuovo testo c’è una strana inversione dei termini: “la tutela dei beni culturali; l’ambiente e l’ecosistema”. Quel punto e virgola interrompe il significato della tutela che non riguarda l’ambiente, anche se si può ritenere implicita. Il papa ha dedicato un’enciclica all’ecosistema, qui la questione è indebolita con la punteggiatura.
Al contrario, le vere riforme vengono rinviate. Le Regioni a statuto speciale, ormai prive delle motivazioni della guerra fredda, non solo vengono confermate, ma mantengono la vecchia Costituzione. Dall’Est non vengono più i cosacchi ma i gasdotti; quando arrivano in Friuli decide la Regione, se proseguono in Veneto decide lo Stato. Circa otto milioni di italiani avranno una diversa Costituzione, e la chiamano uniformità.
Infine, viene rinviata la scelta più importante, la riduzione del numero delle Regioni. Eppure era l’unica riforma capace di mutare l’assetto dei poteri locali e di favorire una migliore cooperazione tra Stato e Regioni. Le scelte difficili sono eluse, quelle facili vengono assunte, ma sono realizzate in modo maldestro e raccontate in tono mirabolante
Futuro-passato
Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent'anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica.
Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di "necessità e urgenza".
Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato per obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. Non solo, può essere stravolto da un ostruzionismo di maggioranza che ritarda la discussione fino al giorno della scadenza, imponendo il voto in blocco della legge senza emendamenti; d’altronde questo esito era scritto esplicitamente nella prima versione del testo governativo; è stato poi mitigato, ma l’intenzione rimane.
Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare. Ma una Costituzione dovrebbe stabilire un equilibrio tra le prerogative della maggioranza e i diritti delle minoranze. A parole questi sono garantiti dallo Statuto delle opposizioni, ma la sua stesura è rimandata al regolamento della Camera, che comunque sarà in mano a chi detiene il premio di maggioranza. Nessuna delle violazioni che hanno già trasferito il legislativo all’esecutivo viene impedita dalla revisione. La legge Boschi, anzi, è una sorta di sanatoria costituzionale; come le cartelle di Equitalia, si mette un velo sul passato e si continua come prima.
La violazione della seconda parte frena l'attuazione della prima parte della Carta. Per ricordarne la grandezza nelle assemblee referendarie ho letto l'articolo 36: "Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Tutti i cittadini comprendono queste parole semplici e profonde, non hanno bisogno di avvocati per leggerle, a differenza del rompicapo del nuovo articolo 70 che dovrebbe definire i compiti del Senato.
Quei principi però sono smentiti nella vita quotidiana di milioni di italiani e soprattutto dei giovani. Eppure non si parla più di attuazione della Costituzione, l’argomento è stato scalzato dall’ossessione della revisione. Nei programmi elettorali non è mai mancato il bicameralismo, ma nessun leader di sinistra ha chiesto i voti alle elezioni per attuare l’articolo 36. E se dovesse essere applicato comporterebbe la cancellazione delle ultime leggi sul lavoro, dalla Treu al Jobs Act.
Diciamoci la verità. Da trent'anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.
Con il SI continua una fantasia del passato. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente rivolta al futuro.
Potenza-Impotenza
La promessa di stabilità dei governi è la principale fantasia del passato. Da più di venti anni abbiamo abbandonato la proporzionale e ci siamo dati leggi maggioritarie. Avremmo dovuto già ottenere stabilità e invece nessun governo è riuscito a vincere le elezioni successive. Gli esecutivi hanno ottenuto nuovi poteri ma non li hanno utilizzati per attuare il programma presentato agli elettori, bensì per impadronirsi delle regole e conquistare nuovi poteri senza sapere cosa farne.
Sia a destra sia a sinistra è prevalso lo spirito di parte nel cambiamento della Costituzione (2001 e 2005), della legge elettorale (Porcellum e Italicum), nelle forzature parlamentari (canguri e altre invenzioni), sono stati eletti a colpi di maggioranza i presidenti alla Camera e al Senato e talvolta anche al Quirinale. La potenza politica dei leader mediatici ha prodotto solo impotenza del governo. È un decisionismo delle chiacchiera che non è in grado di organizzare complessi e duraturi processi riformatori nella struttura statale e sociale.
Così è fallito il bipolarismo italiano, perché nessuno dei due poli ha mantenuto le promesse, né la rivoluzione liberista di Berlusconi né il riformismo sociale della sinistra. Tutto ciò ha deluso i rispettivi elettori che, in gran parte, hanno abbandonato le urne. Senza domandarsi le ragioni del rifiuto i partiti sostituiscono gli elettori mancanti con i premi di maggioranza, alimentando così ulteriore astensionismo. Il circolo vizioso conduce a una lacerazione tra democrazia minoritaria e governi maggioritari. Questi hanno i numeri in Parlamento, ma non dispongono degli ampi consensi necessari per realizzare vere riforme.
Gli artifici elettorali danno una sensazione di potenza agli esecutivi, ma presto si rivela la loro impotenza a causa del distacco dal paese reale. La governabilità è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare. L’ossessione delle riforme istituzionali ha smarrito una semplice verità. Per governare un paese ci vuole progetto ambizioso, una classe dirigente autorevole e un vasto consenso popolare. Poi possono aiutare anche piccoli rinforzi istituzionali, ma non riescono a surrogare l’impotenza dei governi. Eppure da trent'anni la classe politica rimuove le proprie responsabilità attribuendo la colpa al bicameralismo. La vittoria del NO ristabilisce le priorità. Il primo problema del paese è costringere la classe politica a rinnovare se stessa lasciando in pace la Costituzione.
Unità-Discordia
Una riforma costituzionale dovrebbe essere l’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.
Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L'impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.
Nelle ultime ore scatta l'allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto "stai sereno, Enrico" e poi lo ha sostituito; aveva promesso "mai al governo senza investitura popolare" e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l'errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.
L'establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima.
Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali.
Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.
Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel '74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di NO la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull'acqua, dopo trent'anni di liberismo, nell'inconsapevolezza della politica di sinistra, il popolo indicò nei beni comuni l'unica risorsa per uscire dalla crisi.
Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che la saggezza popolare desidera prima di tutto l'attuazione della Costituzione e vuole mettere fine al suo trentennale stravolgimento.
Come nel libro di Isaia il viandante chiede: «Sentinella, quanto dura la notte?» Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.
«Forum italiano dei movimenti per l'acqua». perUnaltracittà,
La Corte costituzionale ha sostanzialmente demolito la cosiddetta Riforma della Pubblica Amministrazione voluta dalla Ministra Marianna Madia dichiarando l’incostituzionalità di diversi articoli della legge delega tra cui quelli relativi a dirigenza, società partecipate, servizi pubblici locali e pubblico impiego.
La censura della Consulta si fonda sulla lesione del principio di leale collaborazione tra stato ed enti locali. Ciò, di fatto, demolisce anche i decreti attuativi in quanto risultano illegittimi i presupposti su cui si basano.
Per queste ragioni il Governo è stato costretto a ritirare il decreto sui servizi pubblici locali.Una marcia indietro richiesta dal movimento per l’acqua da subito con la grande mobilitazione messa in campo a partire dalla primavera scorsa che ha prodotto centinaia di iniziative e una straordinaria raccolta di firme in calce alla petizione popolare (230.000 firme consegnate al Parlamento a fine luglio).
Abbiamo sempre denunciato l’incostituzionalità di questo provvedimento che avrebbe prodotto un pericoloso vulnus democratico provando a cancellare l’esito del referendum 2011. Su questa base si era aperto un confronto con la Ministra Madia la quale più volte aveva dichiarato che il servizio idrico sarebbe stato stralciato dalla versione definitiva decreto.
Ciò avrebbe costituito solo un primo passo indietro, seppur importante, nel tentativo del Governo di sovvertire l’esito referendario. Abbiamo, infatti, sempre ribadito che andavano eliminate tutte le norme che puntavano alla privatizzazione dei servizi locali, che vietano la gestione pubblica tramite aziende speciali, oltre a quelle che permangono e creano, comunque, una disparità tra le diverse forme di gestione con un evidente favore per quelle privatistiche.Non possiamo che gioire di fronte alla capitolazione di una riforma dei servizi pubblici locali che, in ogni caso, si ispirava all’idea del mercato come unico regolatore sociale.
Una capitolazione che deriva dal combinato disposto di una grande mobilitazione sociale e dall’intervento della Consulta.
La nostra battaglia proseguirà perchè siamo convinti della necessità di una inversione di rotta nel senso della piena attuazione degli esiti referendari e della promozione di un gestione pubblica e partecipativa dell’acqua svolta nell’interesse della comunità e che restituisca il giusto ruolo alle amministrazioni locali.
Siamo anche convinti che il dibattito nel nostro paese debba ripartire proprio da questi punti e ci adopereremo affinchè l’eventuale nuovo testo di decreto sia radicalmente riformulato e la legge sull’acqua in discussione al Senato, svuotata e stravolta nel suo impianto generale, sia approvata nella sua versione originaria a partire dal ripristino dell’articolo che disciplinava i processi di ripubblicizzazione.
» Anche contro il populismo di Renzi?.
il manifesto, 2 dicembre 2016 (c.m.c.)
Ha aspettato fino quasi all’ultimo per pronunciarsi, spiega il sindaco di Genova Marco Doria, perché il voto popolare gli ha dato «una responsabilità precisa in forza di un patto stipulato in cui ovviamente non era e non poteva essere prevista qualsivoglia posizione da tenere in occasioni di un referendum». Ma il suo è un No.
Una scelta personale, ha scritto ieri su facebook in un lungo post che argomenta nel dettaglio le sue convinzioni. Una scelta «rispettosa» di quella di molti consiglieri della sua maggioranza – la forza maggiore è il Pd, e anche nella sua ‘Lista Doria’ le opinioni sono diverse. Ed è un no «di merito», non rivolto al governo di cui ha pure apprezzato «l’impegno deciso nell’affrontare il disastro del dissesto idrogeologico», quello «ad accogliere i profughi che giungono in Italia, in coerenza con inderogabili principi di solidarietà e senza lasciare spazio a razzismo e xenofobia».Quanto alla modifica costituzionale però, «nel complesso ritengo che la proposta non cambi in meglio la nostra Carta».
Il ragionamento però non finisce con il 4 dicembre. Anzi, il cuore del discorso del sindaco sta nel disegnare il dopo-referendum. Doria, indipendente di Sel e protagonista di primo piano di un’area di sindaci eletti da una coalizione che stanno di fatto muovendo il quadro della sinistra italiana, sa di avere molti occhi puntati addosso. Anche molte aspettative. E non tanto riguardo alla sua città, che pure il prossimo anno tornerà al voto: e se non ci tornasse con un centrosinistra unito potrebbe consegnare le chiavi ad altri, com’è successo un anno fa alla regione Liguria.
Ma quella delle prossime amministrative sarà un’altra storia. la questione che pone oggi Doria va al di là di Genova. I suoi colleghi Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, uno ex sindaco di Milano e l’altro sindaco di Cagliari, provenienti dalla stessa area politica, hanno fatto molti passi indietro rispetto alla nuova forza Sinistra italiana, accusandola di fatto di avviarsi verso l’isolamento. E al referendum hanno deciso di non schierarsi con il No utilizzando parole arzigogolate se non per dire Sì almeno per tenere unita l’area del centrosinistra che sostiene i governi delle loro città, fatalmente spaccata con il referendum grazie anche alla campagna pesantissima del Pd renziano.
La preoccupazione di Doria è quella del futuro del centrosinistra. «Tanti cittadini genovesi e italiani che voteranno sì o no condividono valori e visioni della società in cui mi riconosco, che sento miei», scrive. «Per affrontare le questioni del nostro tempo bisogna costruire intese che ci consentano di guardare oltre il momento del 4 dicembre, di affermare una linea che faccia crescere il paese, riduca le diseguaglianze, tuteli l’ambiente». Contrastandole spinte populistiche, scrive. «Non è un impegno agevole ma è assolutamente obbligato e deve vedere uniti tanti che il 4 dicembre non si esprimeranno nello stesso modo».
«Ciò che accadrà nei prossimi mesi a Washington è la prova di quanto sia importante, vitale per la democrazia, avere un luogo di riflessione con legislatori indipendenti e non un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci ammanettati alla disciplina di partito». il manifesto
, 1° dicembre 2016 (c.m.c.)
A che serve un senato indipendente dalla camera e dal presidente? A nulla, è un doppione, un intralcio, uno spreco di soldi e rallenta le decisioni, rispondono Renzi e la Boschi. Se guardassero agli Usa potrebbero scoprire che, per esempio, serve a evitare la guerra nucleare, un conflitto con la Cina, l’invasione di Cuba, il taglio delle medicine ai pensionati. Tutte sciocchezze, naturalmente, meglio decidere in fretta, da palazzo Chigi.
A Washington, invece, la mitologia dell’Uomo-Solo-Al-Comando non ha ancora fatto presa del tutto e quindi il senato rimane un luogo di discussione dove la disciplina di partito non è garantita.
Quando Trump entrerà in carica il 20 gennaio, in senato ci saranno quasi sicuramente 52 repubblicani e 48 democratici, ma non è detto che su ogni progetto della Casa bianca si trovi una maggioranza. Per esempio, se Trump decidesse di fare ciò che ha promesso di fare in campagna elettorale, riportare la tortura nella prassi della Cia, avrebbe molte difficoltà: molti senatori repubblicani, guidati dall’ex candidato alla presidenza John McCain, glielo impedirebbero.
Il caso di McCain, pilota in Vietnam e prigioniero dei vietnamiti per molti anni, è interessante perché Trump non esitò a insultarlo come «perdente» proprio per essersi fatto catturare dal nemico.
McCain, 80 anni compiuti, è probabilmente al suo ultimo mandato e quindi non deve temere rappresaglie dal partito se violasse la disciplina di voto: con l’eccezione delle spese militari, nel nuovo senato sarà una figura indipendente.
Un altro senatore con l’etichetta repubblicana è Rand Paul, eletto nel Kentucky, figlio di un celebre deputato del Texas antimilitarista, Ron Paul. Il padre aveva votato contro la guerra in Iraq e proposto di ritirarsi dalle Nazioni unite, il figlio è più mainstream ma rimane ma uno spirito libertario più che conservatore e potrebbe rifiutarsi di votare i forti aumenti del bilancio della difesa.
Paul è inoltre un conservatore dal punto di vista fiscale, quindi in nome della riduzione del deficit potrebbe creare difficoltà al piano di investimenti nelle infrastrutture che Trump vuole lanciare per adempiere alla promessa di «creare buoni posti di lavoro» per gli americani.
Il terzo senatore che ama poco Trump, e che sembrava a un certo punto potesse rappresentare l’alternativa dell’establishment del partito all’outsider megalomane, è Ben Sasse del Nebraska. Sasse aveva dichiarato già in febbraio che in nessun caso avrebbe sostenuto Trump, lo ha accusato di avere una concezione monarchica della presidenza e, dopo la nomination, ha addirittura chiesto pubblicamente il suo ritiro dalla corsa elettorale. Sasse è stato eletto in Senato solo nel 2014, quindi non ha l’anzianità e il peso di McCain, ma è molto popolare per la sua rettitudine: quando altri politici repubblicani annunciarono in settembre che votavano per Trump, sia pure turandosi il naso, pubblicò sulla sua pagina Facebook un video intitolato I Won’t Back Down, non indietreggerò.
E una settimana fa ha pubblicato una risposta ai giornalisti che analizzavano le posizioni dei senatori rispetto alla nuova amministrazione intitolata: «I doveri costituzionali precedono la lealtà di partito e gli obiettivi politici».
La lista dei senatori che potrebbero respingere o ridimensionare i progetti di Trump, oltre alle sue nomine, comprende altri cinque repubblicani: Collins (Maine), Murkowski (Alaska), Portman (Oregon), Rounds (South Dakota) e Blunt (Missouri). Non sono omogenei, tutt’altro, ma potrebbero infischiarsene della disciplina di partito (che in senato conta meno che la percezione di cosa pensa la loro base elettorale nello stato di provenienza).
In compenso, Trump potrebbe raccattare qualche voto, parecchi se è abile, tra i senatori democratici di stati rurali che hanno votato per lui, in particolare tra quelli il cui mandato scade nel 2018. Il senatore Joe Manchin del West Virginia, dovrà affrontare degli elettori che hanno dato a Trump il 68% dei consensi, due settimane fa: difficile che voglia salire sulle barricate contro un leader che ha promesso di liberalizzare l’estrazione del carbone, ostacolata dall’amministrazione Obama per ragioni ecologiche.
Altri senatori democratici in stati dominati quest’anno dai repubblicani come Heidi Heitkamp (North Dakota), Jon Tester (Montana) e Joe Donnelly (Indiana) potrebbero ritagliarsi un «ruolo costruttivo» verso l’amministrazione, soprattutto se il programma di Trump di investire in infrastrutture si concretizzerà in una forma accettabile per i democratici. In ogni caso, ciò che accadrà nei prossimi mesi a Washington è la prova di quanto sia importante, vitale per la democrazia, avere un luogo di riflessione con legislatori indipendenti e non un dopolavoro di consiglieri regionali e sindaci ammanettati alla disciplina di partito.
comune-info, 30 novembre 2016 (c.m.c.)
Al 4 dicembre mancano ancora pochi giorni, pochi giorni di una campagna durata lunghi mesi: era aprile quando a fianco della raccolta firme si tenevano i primi incontri sul testo Renzi-Boschi. Sono stati mesi intensi, faticosi certo e corredati da una continua, e crescente, tensione, ma sono stati mesi in cui è emersa la ricchezza sparsa nella società.
La potenza mediatica e comunicativa del sì, per tacere dei ricatti politici ed economici, è lampante, ma la campagna, condotta dai comitati del no nei territori, attraverso dibattiti, presidi, volantinaggi, ha mostrato la vivacità esistente sul territorio, una vivacità plurale, fatta di tanti pezzi: sedi dell’Anpi, quanto resta dei partiti della sinistra radicale, gruppi attivi nel sociale, comitati per l’acqua pubblica, movimenti a difesa del territorio e dell’ambiente, associazionismo cattolico, centri sociali, qualche segmento dei sindacati.
Ne emerge una società come corpo vivo, non solo: la mobilitazione del tessuto sociale di auto-organizzazione collettiva sul referendum mostra la consapevolezza dell’inserimento della specifica lotta/impegno sociale in una visione alternativa più ampia, nella quale le singole lotte si percepiscono come parte di un contro-progetto rispetto al modello dominante. Una visione in cui la Costituzione rappresenta ancora un punto di riferimento importante. Una lettura utopica? Non credo, certo, la cittadinanza sociale attiva non è un fenomeno di massa, ma può costituire la base per (ri-)costruire una politica, e un soggetto politico, che metta al centro le esigenze di giustizia ed emancipazione sociale.
Da un lato, dunque, un nuovo riconoscimento per la Costituzione, una sua rivitalizzazione; una conferma e una concretizzazione del carattere fondamentale della «partecipazione effettiva» (art. 3, c. 2, Cost.). Ciò, in palese contrasto con una riforma che mira sempre più ad espellere dallo spazio politico il pluralismo e la partecipazione.
Non penso solo alle norme sulla democrazia diretta, come quelle che elevano le firme necessarie per una proposta di legge di iniziativa popolare da 50.000 a 150.000 (lasciando immutata la non considerazione delle proposte stesse da parte del parlamento, perché nulla garantisce il rinvio a future e discrezionali regole stabilite dai regolamenti parlamentari [n.d.r.: dalla maggioranza]).
Penso all’impianto complessivo di un progetto che, concentrando poteri nell’esecutivo, attraverso il depotenziamento dei possibili contrappesi, marginalizza sempre più le minoranze, mostrando insofferenza per qualsivoglia manifestazione di dissenso e/o di partecipazione che non sia quella di un voto che mira ad individuare una maggioranza (o una minoranza artificialmente resa tale) al cui comitato direttivo – o, meglio, ancora, al suo vertice (il presidente del consiglio) – sono affidate le sorti del Paese per cinque anni.
Dall’altro lato, non si può negare che sia in atto una lotta sulla Costituzione, che rischia di dimidiarne l’essere “patto sociale”: vi sarà una parte che stenterà a riconoscervisi. Facciamo in modo che non sia il corpo vivo della società. Diciamo No ad un modello decisionista strumentale alla competitività escludente della razionalità neoliberista, nel nome della Costituzione, con il suo riconoscimento del conflitto sociale e il suo progetto di emancipazione sociale, di partecipazione e di limitazione del potere.
«La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla».
Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 28 novembre 2016 (c.m.c.)
L’abbiamo capito. Tutti. Anche chi fa finta di non capire, per interessi personali di vario genere. Questa riforma della Costituzione è voluta dalla finanza (JP Morgan), dagli Usa, dalla Ue e dai mercati. Questi ultimi “guardano con preoccupazione” (sic) all’Italia, temendo che a vincere sia il No. E poi vi è ancora qualcuno che ci ripete che siamo in democrazia: la democrazia sarebbe scelta sovrana del popolo sulle questioni politiche ed economiche. Oggi non siamo in democrazia esattamente per via del ricatto e della dittatura dei mercati e di enti che nessuno ha mai eletto e che decidono in luogo del popolo.
La democrazia – occorre averne contezza – non si risolve nel voto, né nella libertà di espressione, che pure contribuiscono a definirla. La democrazia è anche e soprattutto potere del popolo di determinare sovranamente la vita economica e politica della comunità. La dilagante tecnocrazia del mercato sempre meno accetta la sopravvivenza della democrazia e, per questo, opera per neutralizzarla.
Come ci ha insegnato la Grecia del referendum del 2015, la democrazia oggi è tollerata fintantoché le scelte del demos ampiamente manipolato coincidono con quelle altrove prese dall’élite finanziaria dominante. In caso di dissidio – ce l’ha insegnato sempre la Grecia col referendum del 2015 – devono essere le scelte dell’élite a prevalere. Stiamo pronti, dunque: l’élite e i mercati hanno scelto chi deve vincere.
E se vincerà invece il No essi saranno pronti a reagire, di modo che il loro dominio non subisca interferenze né limitazioni. L’assolutizzazione del mercato e l’economicizzazione integrale del mondo della vita (Marx) hanno come loro condizione necessaria di realizzazione la neutralizzazione, la spoliticizzazione e la desovranizzazione (Schmitt).
Un'analisi dei possibili scenari post-referendum attraverso considerazioni pragmatiche e soprattutto meno drammatiche che tendono ad alleggerire la tensione delle ultime battute provenienti dai due fronti .
La Repubblica, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
E se invece questo referendum non fosse un finimondo? Se il 5 dicembre scoprissimo che non è cambiato nulla? Gettiamo in un cestino gli ansiolitici, proviamo a spalancare gli occhi sugli scenari che ci attendono. Sono quattro, come le stagioni.
Ma il loro paesaggio è già dipinto, quale che sia il responso delle urne. Primo: la Costituzione. Siamo alle prese con la sua riforma da trent’anni; se lasciamo passare questo treno, chissà quando ne incroceremo un altro. Quindi l’alternativa è fra rivoluzione e stagnazione. Sicuro? Dal 1989 in poi sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, che hanno corretto 30 articoli della nostra Carta e ne hanno abrogati 5.
Insomma: di riforme ne abbiamo cucinate, eccome. Però piccole, leggere. Sono le macroriforme che ci risultano indigeste. È successo con 3 Bicamerali, è risuccesso nel 2005 con la Devolution di Bossi e Berlusconi. Invece nel 2012 l’introduzione del pareggio di bilancio, promossa dal governo Monti, ottenne la maggioranza dei due terzi in Parlamento, tanto da rendere impossibile il referendum.
E adesso? Comunque vada, s’apre una stagione di microriforme. Se vince il Sì, perché la Grande Riforma sarà stata già timbrata, lasciando spazio solo a qualche aggiustamento; d’altronde anche il presidente Renzi, anche il ministro Boschi, ammettono che il loro testo presenta talune imperfezioni da correggere.
Se vince il No, lo stesso. Ne trarremo giocoforza la lezione che gli italiani accettano soltanto interventi chirurgici, puntuali, sulla Costituzione. E in entrambi i casi procederemo a piccoli passi, senza sbalzi, senza troppi scossoni. Se non altro, eviteremo d’inciampare.
Secondo: la legge elettorale. Verrà emendata, a prendere sul serio il «foglietto » ( copyright Bersani), ovvero l’accordo siglato all’interno del Pd: e dunque via il ballottaggio, premio di governabilità, sistema di collegi. Ma anche a non prenderlo sul serio, resta pur sempre l’esigenza d’approvare una nuova legge elettorale, immediatamente dopo il referendum. O quella della Camera, o quella del Senato. Difatti: se la riforma costituzionale cade nelle urne, insieme ad essa cade anche l’-I-talicum (che presume una sola Camera politica); quindi tocca rimpiazzarlo. Se invece la riforma sopravvive, ci sarà da scrivere la legge elettorale del Senato, per renderlo operante. Mutando l’esito del voto popolare, non mutano gli effetti.
Terzo: il governo. Dovrebbe restare indenne da un’eventuale bocciatura: è un esecutivo, non un’Assemblea costituente. E ha davanti un referendum, mica una mozione di sfiducia. Invece no, non in questo caso. Il quesito che ci interrogherà fra dieci giorni si è caricato d’elementi politici, fino a oscurare il merito costituzionale. Sbagliato, però inevitabile; dopotutto votiamo (per la prima volta) su una riforma battezzata dalla stessa maggioranza, dallo stesso esecutivo ancora in sella. Dunque se prevale il Sì, Renzi rimane a cavallo; altrimenti verrà disarcionato. Davvero? Lui è pur sempre l’azionista di maggioranza del partito di maggioranza alla Camera, grazie al premio somministrato dal Porcellum. Sicché dopo Renzi c’è Renzi, oppure un renziano.
Quarto: le elezioni. Quando si vota? Dipenderà dal referendum, dicono tutti gli analisti. Se vince il No, elezioni anticipate; altrimenti la legislatura toccherà la sua scadenza naturale, nel 2018. Errore: si voterà comunque in primavera.
Anche se vince il Sì, soprattutto in questo caso. Per una ragione politica: a quel punto, il presidente del Consiglio passerà all’incasso, come farebbe chiunque altro nei suoi panni. Per una ragione istituzionale: si può tenere in vita, per un paio d’anni ancora, un Senato abrogato dal voto popolare? Sarebbe come se nel 1948, dopo l’entrata in vigore della Carta repubblicana, si fosse lasciato sopravvivere il Senato regio, come un fantasma intrappolato nella città dei vivi. Sicché mettiamoci tranquilli: il voto del 4 dicembre è solo un antipasto. E il pasto cuoce già nel forno. Speriamo di non farne indigestione.
»
il manifesto, 25 novembre 2016 (c.m.c.)
Contrordine. La vittoria del No non fa più paura. L’Economist, anzi, si schiera apertamente e non ci va leggero: «Gli italiani dovrebbero votare No. Renzi ha sprecato quasi due ad armeggiare con la Costituzione. Prima l’Italia torna a occuparsi delle riforme vere meglio è per tutta l’Europa. Il nuovo Senato sarebbe un magnete per la peggiore classe politica.
Ogni eventuale beneficio della riforma è secondario rispetto ai rischi, in cima ai quali c’è quello di un uomo solo eletto al comando. Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe che molti in Europa temono. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico come ha fatto tante volte». De profundis. Che arriva dal prestigioso settimanale britannico dell’Economist Group controllato dalla Exor – la holding degli Agnelli – proprio nel giorno in cui Renzi andava a Cassino a raccogliere l’endorsement di Sergio Marchionne.
La Bce è molto più felpata e tuttavia getta a sua volta acqua sul fuoco. «Non si possono prevedere le conseguenze di una vittoria del No e i rendimenti dei titoli di Stato hanno subito movimenti al rialzo perché i mercati iniziano a valutare il rischio referendum», esordisce il vicepresidente Vitor Constancio. Poi però rassicura: «La Bce è pronta a esercitare un ruolo di stabilizzazione come ha sempre fatto». La rete di protezione è pronta.
La strategia della sdrammatizzazione trova pronto riscontro in Italia, anche all’interno del Fronte del Sì e nel Pd. Aveva iniziato Dario Franceschini, mercoledì scorso, ripetendo che anche se la riforma fosse sconfitta Renzi non dovrebbe affatto dimettersi. Rilancia oggi il governatore della Toscana Enrico Rossi: «Renzi può continuare a governare sostenuto dal partito. Credo che questa, qualunque sia l’esito del referendum, sia l’ipotesi migliore per il Paese e per la sinistra».
Il pompiere numero uno, però, è Silvio Berlusconi. Ripete che non sarà comunque Forza Italia a chiedere la testa del premier: «Ha la maggioranza, quindi sarà una sua decisione». Il leader azzurro sta facendo quel che aveva da tempo annunciato ai suoi. Dopo aver atteso l’ultimo scorcio di campagna è entrato in campo con la massima determinazione occupando quanti più spazi mediatici possibile e sgombrando il campo da ogni voce su un suo sostegno segreto alla riforma: «E’ pericolosa, apre la strada a una possibile deriva autoritaria». Aggiunge di suo la battuta forse più cattiva di cui sia mai stato fatto oggetto Matteo Renzi: «Ha sbagliato lavoro: come presentatore televisivo io lo avrei preso subito».
Ma se fino al referendum l’ex Cavaliere gioca la stessa partita degli altri sostenitori del No, le cose cambieranno un minuto dopo. Soprattutto, ma non esclusivamente, se la riforma verrà sconfitta. I suoi alleati Salvini e Meloni hanno fretta. Vorrebbero capitalizzare l’eventuale successo subito dopo la modifica della legge elettorale e forse persino prima, anche a costo di votare con un sistema diverso per Camera e Senato.
Il dinamico ottantenne è deciso a federarsi con loro, sostiene di avere già un progetto preciso. Ma sui tempi non se ne parla. Con o senza Renzi premier Berlusconi vuole prendere tempo, modificare la legge elettorale, iniziare a discutere di una riforma costituzionale condivisa. E’ certo di avere nella manica l’asso del Quirinale: «Non credo che il presidente potrebbe mai consentire elezioni con l’Italicum. Ci sarebbe il rischio di ritrovarci Grillo al governo».
L’argomento non è precisamente istituzionale e tanto meno corretto, ma ha il suo peso. Non è l’unico però. Il punto essenziale è che il No alla riforma suonerebbe automaticamente come bocciatura anche della legge elettorale. Per Renzi, che ne ha già promesso la modifica, difenderla sarà impossibile. Sulla carta ci sarebbe il tempo per varare una legge nuova e votare in primavera. Nei fatti è quasi impraticabile e una volta superata l’estate sciogliere le Camere con pochi mesi di anticipo non avrebbe senso. Come l’Economist ha indicato, se vincerà il No è quasi certo che la legislatura arriverà alla sua scadenza naturale.
Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Il No renderà difficile mettere nuove toppe». il manifesto, 17 novembre 2016 (c.m.c.)
Al referendum del 4 dicembre votare sul governo «sarà inevitabile», spiega Giorgio Galli, decano della politologia italiana, docente di dottrine politiche all’Università degli Studi di Milano, studioso del «bipartitismo imperfetto» della Prima Repubblica quando Dc e Pci si confrontavano senza che questo producesse alternanza. Negli ultimi anni, fra l’altro, ha analizzato le riforme di Renzi (in L’urna di Pandora delle riforme, con l’avvocato Felice Besostri). Dunque si voterà su Renzi «innanzitutto perché lui stesso ha intrecciato la riforma e il suo futuro di presidente del consiglio. Per questo gli italiani voteranno più su sui mille giorni del governo che sulla riforma».
Il suo giudizio sui mille giorni di Renzi qual è?
Non molto positivo. È riuscito a fare molto meno di quello che aveva promesso. L’economia resta stagnante. Oggi sfida l’Europa come un euroscettico ma è un’oscillazione notevole rispetto al forte investimento di credibilità che aveva fatto sull’Europa.
Dal famoso semestre di presidenza del Consiglio dell’Unione oggi siamo allo sbianchettamento delle bandiere europee.
Nella prima parte della campagna referendaria ha sostenuto che a differenza dei suoi predecessori aveva ottenuto importanti risultati in Europa. Ora invece rinuncia a questo aspetto e mette in evidenza la forza con cui avanza le richieste.
Renzi dice: il Sì è cambiamento, il No è conservazione.
È il contrario. Il Sì è la continuità del sistema politico. Il capitalismo non garantisce più lo sviluppo, quello italiano è ormai sinonimo di stagnazione permanente. In questa stagnazione si cercano di porre continuamente delle pezze a un sistema politico al capolinea. Si è cominciato con la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale: una toppa per tenere in piedi un sistema. Poi le prime larghe intese con tutto il centrodestra, le seconde con una parte del centrodestra. Tutti tentativi di rappezzare un sistema in grave difficoltà. L’ultimo di questi tentativi è il governo Renzi. Rafforzarlo significa rafforzare la continuità di questi rammendi. Il No, al contrario, renderà difficile mettere nuove toppe.
La vittoria del No rappresenta la possibilità di rompere la continuità?
Il No è la possibilità che i giochi si riaprano. Con un trauma, ma piccolo. Del resto ormai in tutti i paesi europei si esprime, in diversi modi, esigenze di cambiamento molto radicali.
Renzi invece oggi si presenta come una forza antisistema. Dice: «Il sistema è tutto schierato per il No». È singolare che un governo si presenti antisistema. E comunque è evidente il contrario: dalla Confindustria alle banche fino all’ambasciatore americano, il sistema è pesantemente schierato dalla parte di Renzi.
Però non tutto il No è «antisistema». Il No di Berlusconi, ammesso che alla fine voti No, è chiaramente di altra natura.
Berlusconi sa, e dal suo punto di vista è giusto, che una vittoria del No lo metterebbe in una posizione di forza quando si ricostituirà un qualche tipo di Patto del Nazareno, cosa che accadrà in ogni caso. Ma la vittoria del No va al di là del contingente interesse tattico di ciascun protagonista. Sarebbe un’altra prova nella sfida al potere economico, abbastanza in linea con quello che succede in Europa, anche se con caratteristiche diverse.
Brexit è considerata una vittoria del vituperato populismo.
La democrazia rappresentativa è in crisi ovunque, in Europa e non solo. E non a causa di alcuni anni di populismo ma a causa di decenni di svuotamento del potere politico da parte del potere economico. Oggi il problema delle democrazie occidentali sono le 500 multinazionali che governano il mondo, non i populismi. E il piccolo trauma sarebbe prenderne atto. Finché il potere politico sarà quasi impotente di fronte al potere economico la continuità è garantita. Il No è la critica alla continuità. Una possibile sfida al sistema.
Negli Usa Trump è una sfida al sistema?
Al di là dei protagonisti, negli Usa come nella Brexit si è espresso il voto degli svantaggiati della globalizzazione. E a questa crisi c’è una declinazione italiana. Ne ho appena scritto in Scacco alla superclass (Mimesis Edizioni, ndr), ovvero scacco a quel mondo che si riunisce a Davos non per decidere i destini del mondo – lo fa in altri luoghi – ma per celebrare il proprio ruolo. Nella postdemocrazia il potere economico ha preso la supremazia su quello politico. O la democrazia rappresentativa affronta il potere economico o è destinata a decadere.
In Italia comanda la finanza, non il governo Renzi?
Nella stessa misura dei governi che lo hanno preceduto. La crescita del populismo è l’espressione di questa crisi. Che si affronta solo se il controllo dei cittadini si estende dall’area della politica a quella dell’economia.
È l’elogio della cittadinanza a 5 stelle?
I 5 stelle sopravvalutano la democrazia elettronica. Il sogno di Casaleggio in fondo era una democrazia diretta fatta di tecnologia informatica. Invece fare in modo che i cittadini si riapproprino della loro condizione è molto più complicato.
«L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione».
La Repubblica, 13 novembre 2016 (m.p.r.)
Milioni di americani martedì scorso hanno espresso un voto di protesta, ribellandosi a un sistema economico e sociale che antepone ai loro interessi quelli dei ricchi e delle grandi imprese. Ho dato forte appoggio alla campagna elettorale di Hillary Clinton, convinto che fosse giusto votare per lei. Ma Donald J. Trump ha conquistato la Casa Bianca perché la sua campagna ha saputo parlare a una rabbia molto concreta e giustificata, quella di tanti elettori tradizionalmente democratici. L’esito elettorale mi addolora, ma non mi sorprende. Non mi sconvolge il fatto che milioni di persone abbiano votato Trump perché sono nauseate e stanche dello status quo economico, politico e mediatico.
Le famiglie lavoratrici vedono che i politici si fanno finanziare le campagne da miliardari e dai grandi interessi per poi ignorare i bisogni della gente comune. Da trent’anni a questa parte troppi americani sono stati traditi dai vertici delle aziende. L’orario di lavoro è aumentato e gli stipendi diminuiti, i lavori pagati dignitosamente si spostano in Cina o in Messico. Queste persone sono stufe di avere capi che guadagnano 300 volte più di loro, e che il 52 per cento di tutti i nuovi proventi vada all’un percento della popolazione. Molte delle città rurali, un tempo belle, sono ormai spopolate, i negozi in centro chiusi e i giovani vanno via da casa perché non c’è lavoro - tutto questo mentre tutta la ricchezza delle comunità va a rimpinzare i conti delle grandi imprese nei paradisi fiscali. I lavoratori americani non possono permettersi servizi per l’infanzia decorosi e di buon livello. Troppe famiglie sono in condizioni disperate e sempre più spesso la vita si accorcia per colpa della droga, dell’alcol e dei suicidi.
Trump ha ragione: gli americani vogliono il cambiamento. Ma mi chiedo che tipo di cambiamento gli offrirà. Avrà il coraggio di opporsi ai potenti di questo paese, i responsabili delle difficoltà economiche patite da tante famiglie o dirotterà invece la rabbia della maggioranza sulle minoranze, sugli immigrati, i poveri e gli indifesi? Avrà il coraggio di opporsi a Wall Street, di adoperarsi per sciogliere le istituzioni finanziarie “troppo grandi per fallire” e imporre alle grandi banche di investire nella piccola impresa e creare posti di lavoro?
Sarò aperto a riflettere sulle idee proposte da Trump e su come si possa lavorare assieme. Però, siccome il voto popolare nazionale lo ha visto sconfitto, farà bene a dare ascolto alle opinioni dei progressisti. Ricostruiamo le nostre infrastrutture fatiscenti e creiamo milioni di posti di lavoro ben pagati. Portiamo il salario minimo a un livello dignitoso, aiutiamo gli studenti a sostenere i costi dell’università, garantiamo il congedo parentale e per malattia e incrementiamo la sicurezza sociale. Riformiamo il sistema economico che permette a miliardari come Trump di non pagare un centesimo di tasse federali. E non permettiamo più che i ricchi finanziatori delle campagne elettorali comprino le elezioni.
Nei prossimi giorni proporrò anche una serie di riforme per ridare slancio al Partito Democratico. Sono profondamente convinto che il partito debba liberarsi dai vincoli che lo legano all’establishment e torni a essere un partito di base della gente che lavora, degli anziani e dei poveri. Dobbiamo aprire le porte del partito all’idealismo e all’energia dei giovani e di tutti gli americani che lottano per la giustizia economica, sociale, razziale e ambientale. Dobbiamo avere il coraggio di sfidare l’avidità e il potere di Wall Street, delle case farmaceutiche, delle compagnie assicurative e dell’industria dei combustibili fossili.
Allo stop della mia campagna elettorale ho promesso ai miei sostenitori che la rivoluzione politica sarebbe andata avanti. E questo è più che mai il momento giusto. Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Se restiamo uniti senza permettere che la demagogia ci divida per razza, genere o origine nazionale, non c’è nulla che non possiamo realizzare. Dobbiamo andare avanti, non tornare indietro.
Traduzione di Emilia Benghi The New York Times Company
La Repubblica, 11 novembre 2016
LE ISTITUZIONI sono come il corpo umano: per animarle, serve uno spirito che ci soffi dentro. Ma lo Zeitgeist, lo spiritello che governa il nostro tempo, ha il fiato grosso, l’alito cattivo. Succede, quando ti monta in gola la paura. Quando il presente ti sgomenta, il futuro ti spaventa. E quando gli altri, tutti gli altri, t’appaiono come una minaccia, un esercito invasore.
Da qui Brexit, Trump, nonché gli altri sconquassi che si profilano sul nostro orizzonte collettivo. Ma da qui inoltre una domanda, che investe i destini stessi della democrazia. Quali istituzioni nell’epoca dell’insicurezza? E c’è ancora spazio per libertà e diritti mentre prevale la paura?
Non che la democrazia sia una creatura ingenua, senza sospetti né timori. Al contrario: diffida degli uomini, e perciò diffida del potere. Sa che è inevitabile, giacché in ogni società c’è sempre stato chi governa e chi viene governato. Ma al tempo stesso sa che i governanti abuserebbero della propria autorità, se non avessero redini sul collo. L’uomo è un diavolo, non un santo. Sicché occorre una regola che imbrachi il potere, che gli tagli le unghie, che gli impedisca di farci troppo male.
La democrazia nacque così, nella Grecia di 25 secoli fa. Nacque con il sorteggio e con il voto popolare, con la rotazione delle cariche, con i limiti alla loro durata. E nel Settecento fu poi rinverdita dalla teoria di Montesquieu: «che il potere arresti il potere», altrimenti nessuno potrà mai dirsi libero. Come affermava, nel modo più solenne, l’articolo 16 della Déclaration, vergata dai rivoluzionari francesi nel 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione».
Insomma, la democrazia si fonda su una promessa di diritti. E i diritti, a loro volta, hanno una doppia vocazione. Sono indivisibili, nel senso che spettano a ciascun individuo, perché in caso contrario si trasformerebbero in altrettanti privilegi. Sono universali, nel senso che tendono a superare le frontiere, come mostrano le innumerevoli Carte dei diritti siglate in ambito internazionale. Da qui il tratto forse più essenziale dei sistemi democratici: l’accettazione dell’altro, l’apertura verso lo straniero. Secondo l’antico rituale greco della xenia, l’accoglienza tributata agli ospiti.
Ma adesso questa prospettiva viene revocata in dubbio, spesso rovesciata nel suo opposto. Le istituzioni modellate dai nuovi sentimenti di paura si ripiegano in se stesse, si rinchiudono in atteggiamenti puramente difensivi. Alzano muri, come in Ungheria e in Bulgaria. Erigono barriere alla circolazione delle persone e delle merci, come ha auspicato Donald Trump durante la sua campagna elettorale, rispetto all’immigrazione messicana e ai trattati commerciali con la Cina o con l’Europa. Sono nazionaliste, isolazioniste, xenofobe. Hanno in sospetto il pluralismo delle identità culturali e religiose. Odiano le procedure cui la democrazia affidava la tutela dei diritti, perché quando ti senti minacciato vuoi dal governo una reazione rapida, efficace. E vuoi un governo forte, senza troppi contrappesi. Come negli Usa: Trump ha dalla sua tutto il Congresso, non succedeva ai repubblicani dal 1928.
Tuttavia c’è un paradosso in questa nuova condizione. Perché la democrazia della paura si regge anch’essa su un’attesa di diritti, pur negando diritti agli stranieri. Dice, in sostanza: sono stati loro a toglierci il lavoro, la prosperità, la sicurezza. Dunque ricacciamoli indietro, respingiamoli al di là delle nostre frontiere, se necessario con le maniere spicce; dopo di che ci impadroniremo dei nostri vecchi diritti. Ma allora la domanda è un’altra: può esistere un’entità politica antidemocratica verso l’esterno, che si conservi democratica al suo interno? La storia non ci offre precedenti. Abbiamo conosciuto invece, e molte volte, l’esperienza inversa: per esempio nell’Atene del V secolo, dopo la sconfitta militare nella guerra del Peloponneso.
Ma dopotutto è la democrazia medesima a costituire un’eccezione, una scheggia della storia. A osservare la corsa dei millenni, i regimi teocratici e dispotici esprimono di gran lunga la regola, come la guerra rispetto al tempo di pace. Forse non si tratta che di questo, forse la regola sta riconquistando il suo primato sull’eccezione.
La Repubblica, 10 novembre 2016, con postilla
Dopo aver dedicato una vita all’ascolto delle periferie, sono un po’ stufo dello sconcerto dei bempensanti per le bastonate elettorali inflitte dalle Destre al pensiero “no border”. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso brusco risveglio davanti al caffellatte del mattino o al ritorno in ufficio. “Incredibile”, “Non me l’aspettavo”, “Voto shock”, “I sondaggisti hanno sbagliato”, eccetera. È successo in Gran Bretagna col no a Bruxelles, in Francia con la minaccia lepenista, in Est Europa col ritorno dei populismi, persino in Italia col voto alla Lega Nord e poi ai Cinquestelle. Ora torna ad accadere col voto americano.
Eppure è sempre lo stesso film. In Europa come in America vincono le periferie frustrate e senza voce, quelle banlieue spaventate dalla globalizzazione che nessuno ascolta e che riescono a esprimersi solo al momento del voto. Lo schema si ripete da troppo tempo perché io non cominci a sospettare che qui realmente ci sia una coazione all’errore. Che non si voglia capire, e che sia in atto nel pensiero democratico una clamorosa fuga dalla realtà. Mi chiedo: quanto i democratici frequentano realmente questi luoghi, ne ascoltano il malessere e parlano con la gente comune? Come impostano le loro campagne elettorali? Nei club esclusivi o fra la gente?
Se c’è una cosa che ho capito nella mia vita raminga, è che si impara più in tram che dalle analisi di un luminare, più dal bar d’angolo che da un costoso sondaggio. I treni russi mi hanno avvertito con largo anticipo di quello che stava per succedere in Ucraina e le volontà imperiali della Russia di Putin. Il mitico bus “Greyhound” americano mi allertò, a suo tempo, della popolarità di un Reagan cui nessun ufficio studi dava ancora un briciolo di credito. Facendo l’Appia a piedi ho sentito distintamente il crescente influsso della camorra su Roma. Ora io non pretendo che i politici si carichino uno zaino sulle spalle per battere a piedi i loro collegi. Mi basterebbe che salissero su un mezzo di trasporto pubblico per sentire la pancia del Paese.
Tornando all’America – ma in realtà la questione è planetaria - la domanda è: Hillary è mai andata in tram? Temo di no. Non che il miliardario Trump ci sia mai salito se non per farsi filmare dalle tv. Ma Trump parla il linguaggio della gente. Si rivolge alla pancia. Hillary parla alla testa del Paese, con algidi teoremi, competenza, alleanze altolocate e statistiche. Non basta. Il pensiero democratico deve urgentemente dotarsi di un linguaggio diverso per non condannarsi a perdere per altri trent’anni. Per un motivo elementare: tra le ragioni della pancia e quelle della testa, vincono sempre le prime. E allora, come uscirne?
Certo, la Destra populista non ha mai offerto soluzioni ai problemi di queste periferie decisive per le sorti del mondo democratico. Ha venduto quasi sempre illusioni. Ha fornito semplicemente megafoni e amplificatori al malessere. Ha indicato un nemico, anche per evitare che qualcuno mangi la foglia e capisca la sua corresponsabilità nei confronti di quel malessere. Di più: essa trae voti dall’emarginazione che essa stessa crea con la sua ideologia “darwinista”, basata sulla legge del più forte, del pistolero cow-boy. Ma un megafono è meglio di niente. È sempre meglio di un vuoto ripetitore del silenzio e delle quotazioni Nasdaq di Wall Street.
E allora come smascherare questo gioco, come smarcarsi rispetto alle ragioni dello stomaco e alle false promesse degli arruffapopoli? La soluzione sta sempre lì, in quella grande metafora della vita quotidiana che è il trasporto pubblico. Treni di seconda classe, stazioni, fermate d’autobus, sale d’aspetto. Cesare Zavattini disse: il cinema italiano è finito nel momento in cui i registi hanno smesso di andare in tram. Per ragioni analoghe, Berlinguer chiese a Bettino Craxi se era mai andato in tram, e lui rispose altezzoso che no, perché aveva l’autista. Peccato rispose Enrico, impareresti molto. Craxi non volle imparare.
È viaggiando con la gente che impari ad ascoltare, a porti nel modo giusto di fronte ai piccoli drammi del quotidiano che affliggono la maggioranza. Impari a condividere. Familiarizzi con l’abc dell’empatia, che nessun talk show ti darà mai. Soprattutto impari a non tacere di fronte alle bestialità, a replicare con fiammate di passione alle ragioni dell’odio. Impari a rispondere picche alle urla dei beceri, e a farlo in modo nuovo, offrendo a tanta buona gente un esempio cui fare riferimento. Apprendi come usare quella cosa che sta esattamente a metà fra le ragioni della pancia e quelle della testa. Il cuore. La pompa delle nostre passioni, che i democratici sembrano aver perduto.
Papa Francesco, prima di sbarcare in Vaticano, prendeva il tram per spostarsi spesso senza scorta nelle immense periferie di Buenos Aires. È lì che ha imparato prima ad ascoltare e poi a parlare con il cuore. È per questo che oggi egli è più popolare di qualsiasi politico nel mondo dei democratici senza più casa. Quando mi spendo nelle scuole e parlo a aule piene di adolescenti spaesati, spesso saturi di web e senza più maestri nemmeno in famiglia, vedo che essi apprezzano due sole cose in chi li incontra. Non la competenza professorale, ma le scarpe impolverate e la passione ardente del cuore. È grazie a queste sole armi che vedo accendersi i loro occhi.
È quello il passepartout. Quello l’argine fondamentale all’imbarbarimento del linguaggio, alimentato dai “social” e dalla Tv spazzatura, che potrebbe portare molto male all’Europa e al mondo. Andate in tram, cari politici. O vi ci dovrete attaccare.
postilla
Bella la metafora del tram. Il titolo di un libro di un architetto che mi è piaciuto molto e di cui continuo a raccomandare la lettura (Carlo Melograni, Progettare per chi va in tram, 2004) andava nella stessa linea di pensiero delle frasi di Cesare Zavattini e di Enrico Berlinguer, riportate da Rumiz nel suo articolo. Ma i tempi sono cambiati, e così la formazione dei pensieri nelle teste. Adesso le teste degli uomini che vanno in tram sono foggiate dai persuasori occulti che hanno contribuito a formare il "pensiero comune" (leggi qui come).
E i governanti furbi, come il nostro Renzi certamente è, hanno imparato a loro volta il mestiere. La moneta cattiva della bugia ha cacciato la moneta buona della verità. Quanti di quelli che oggi considerano Barack Obama e Hillary Clinton due eroi lo pensano in base alle belle parole che hanno pronunciato, e non sanno di quanto sangue siano coperte le loro mani, quanti uomini e donne abbia ucciso la loro politica nel mondo, quanta morte abbiano portato le loro guerre e quanta miseria il loro sistematico appoggio a Wall Street. È diventato sempre più difficile comprendere "quello che è", e - come ha detto Rosa Luxemburg - è diventato sempre più rivoluzionario
«». La Repubblica 9 novembre 2016 (c.m.c.)
C’è un luogo comune sull’America che è rimbalzato nei media tradizionali e sui social media in queste settimane: a fronte dei colpi bassi tra i candidati e degli scandali, svelati o annunciati addirittura da agenzie pubbliche come l’Fbi, cadono i miti sull’America delle regole e della democrazia. Un luogo comune che non coglie nel segno perché non è una novità che la politica americana superi l’immaginazione quanto a spietata durezza.
La storia americana è scandita dall’uso di colpi bassi e di violenza in politica: omicidi di presidenti (a partire dal grande Lincoln fino al giovane Kennedy) e candidati (l‘ultimo Robert Kennedy), scandali che hanno fatto cadere presidenti (Nixon), campagne dal linguaggio populista violento e razzista (del democratico Wallace), infine finanziamenti miliardari alle campagne elettorali che servono addirittura a misurare il gradimento dei candidati, per cui chi è semplicemente “popolare” non ha nei fatti le stesse possibilità di vincere di chi ha dalla propria le multinazionali e le oligarchie di partito (un tema che Bernie Sanders ha più volte sollevato nelle primarie contro Hillary Clinton).
Insomma, l’America è ammirevole non per la sua purezza ma per l’esplicita confessione delle impurità della politica e per quella straordinaria forza delle istituzioni e dell’opinione che resistono a scandali e a violenze. Cinismo verso la politica e convinzione della rettitudine delle persone ordinarie: su questo dualismo si è costruito il mito del populismo americano “buono”, che mai ha tracimato dal regime costituzionale. L’immaginario di un eccezionalismo americano nella valutazione del populismo è durato almeno fino a Donald Trump.
La novità immessa nella politica americana — forse la maggiore novità — sta qui: nel fatto che gli americani, ultimi tra tutti i paesi democratici, abbiano scoperto che il populismo “cattivo” è possibile. Il “popolo” può essere personificato da un pessimo leader e identificato con un linguaggio fortemente negativo e negazionista: negativo, come in altri momenti del passato (pensiamo appunto a Wallace) e anche negazionista, come mai prima d’ora. Negazionismo: Trump ha dichiarato da settimane di poter negare il risultato di queste elezioni (se perdesse), perché esito di una campagna condotta in maniera fraudolenta sia da parte della candidata Hillary che da parte dei media liberal, e delle élites acculturate dei college Ivy.
Sugli “errori” di Hillary sappiamo: errori per aver usato, quando era segretario di Stato, telefoni pubblici e privati indifferentemente, senza fare distinzione tra le questioni personali e quelle politiche. Un errore di valutazione e il segno di un’abitudine al potere (che Hillary frequenta a vario titolo, privato e pubblico, da alcuni decenni), che non sembra aver tuttavia messo a repentaglio gli interessi nazionali. Ma a Trump importa poco il fatto materiale.
Il fatto nuovo di questa campagna è, come si diceva, un altro: Trump ha accusato ripetutamente i media “liberal” di aver fatto una campagna tendenziosa, di aver premeditato la disinformazione (lo ha ripetuto anche la moglie Melania in due interviste televisive) per farlo perdere. Il
New York Times è stato la sua bestia nera (effettivamente impegnato in una campagna schieratissima e senza alcuno sforzo di oggettività), ma anche la Cnn, benché meno tendenziosa.
Perché questa reazione al modo in cui è stata condotta la campagna elettorale? Per preparare l’azione anti-Casa Bianca nel caso egli dovesse perdere le elezioni. È questa anticipazione di accusa di illegittimità insieme al turpiloquio linguistico usato quotidianamente il fatto nuovo di questa campagna presidenziale. I timori restano sia in caso di vittoria di Trump (per il carattere e lo stile della sua politica) sia nell’ipotesi di una sua sconfitta (per le conseguenze destabilizzanti che sono state minacciate). Questa è la novità di queste presidenziali: la sistematica campagna denigratoria non solo verso la candidata (questo sarebbe nella norma) ma anche verso le istituzioni.
La virulenza verbale di Trump ha sdoganato il politically incorrect con conseguenze future che possono essere spiacevoli, come l’escalation dell’intolleranza e la discriminazione delle minoranze — gli immigrati (latino- americani soprattutto), i musulmani (stranieri e americani), le donne acculturate che perseguono carriere nelle professioni. Insomma, il cielo del Nuovo Mondo sembra essere gravido di nuvoloni neri, sia che vinca o che perda Trump, una figura di non-politico la cui campagna ha marcato un’escalation notevole nel processo di delegittimazione in un’America che soffre ancora le conseguenze di una politica imperiale improvvida che l’ha impoverita e incattivita.
«Chiusi i locali dell'organizzazione per la difesa dei diritti umani. L'autorità si giustifica citando mancati pagamenti. L'organizzazione si difende: "Siamo in regola". Sulla situazione lo spettro della legge contro le ong non gradite alla Russia di Putin».
Il Fatto Quotidiano online, 3 novembre 2016 (p.d.)
Gli uffici di Amnesty International a Mosca sono stati sigillati la notte scorsa dalle autorità. Questa mattina, i dipendenti di Amnesty hanno trovato serratura e sistema d’allarme disinnescati, l’elettricità tagliata e l’ingresso dell’ufficio sigillato. Motivo? Ufficialmente, per le autorità, la ong non ha pagato l’affitto della sede. Sulla porta è stato apposto un foglio della “Città di Mosca” in cui si comunica che i locali “sono di proprietà di una città della Federazione russa“, intimando il divieto di accesso se non accompagnati da un funzionario del Comune. Gli impiegati hanno chiamato il numero di telefono indicato sul foglio ma senza ricevere risposta.
I locali sono stati concessi in affitto ad Amnesty dal dipartimento delle proprietà pubbliche, ovvero il Comune, con un contratto di 20 anni. Serghiei Nikitin, responsabile del ramo russo dell’associazione per la difesa dei diritti umani, ha fatto sapere che Amnesty International paga regolarmente l’affitto. Aggiungendo inoltre di “non avere idea” del perché la sede sia stata chiusa e augurandosi che quanto avvenuto non sia da ricollegare all’attività dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani.
“Non sappiamo cosa abbia portato le autorità russe a impedire al nostro staff di entrare negli uffici: una brutta sorpresa di cui non avevamo ricevuto alcun avvertimento”, ha commentato in una nota pubblicata sul sito dell’organizzazione John Dalhuisen, direttore di Amnesty per l’Europa e per l’Asia centrale. “Considerato il clima in cui attualmente lavora la società civile in Russia – ha aggiunto Dalhuisen – ci sono diverse spiegazioni plausibili, ma è troppo presto per trarre qualsiasi conclusione. Stiamo cercando di risolvere la situazione il più velocemente possibile”.
Al momento sono 147 le organizzazioni non governative russe considerate come ‘agente straniero’, secondo la legge varata nel 2012. Amnesty è stata una delle prime organizzazioni proposte come “indesiderabili“, in attuazione alla legge contro le strutture accusate di minacciare la “sicurezza dello stato”. Ma, ad oggi, non compare nell’elenco di cui invece fanno parte altre sette organizzazioni.
Molte verità nella riflessione sul "cadavere della democrazia" presentata sotto la maschera di un'intervista di Stefano Benni a se stesso. Il potere in un mondo non abitato più da cittadini, ma da clienti, connessi, degenti, spettatori, fanatici e fuggiaschi. Il
Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2016
Il tono paradossale delle risposte del Cornelius Noon è considerato il nuovo genio maledetto della filosofia politica. Nato nel 1943 in Irlanda, è professore alla Trans Allegheny University di Weston in West Virginia. Da anni le sue lezioni sono seguitissime, e si dice sia stato consultato da molti capi di Stato e finanzieri. Finora non aveva mai lasciato una sola riga scritta sul suo pensiero, ma qualche mese fa ha cambiato idea e il suo libro Pluricracy stampato in poche copie dalla Hydra Press ha suscitato polemiche feroci e verrà pubblicato dalle maggiori case editrici mondiali. In esclusiva siamo riusciti ad avere questa intervista, impresa non facile, perché Noon è famoso per il suo carattere intrattabile e la sua bizzarria.
Il primo capitolo del suo controverso libro si chiama: “Il cadavere delle democrazie”. Un po’ forte, non crede?
«Niente affatto. Le democrazie non esistono più, anche se il pensiero politico si rifiuta di ammetterlo. Per anni, nell’ambitus della differenza tra democrazia e dittatura, è nata e ha prosperato l’illusione di una forma politica “migliore” o “meno peggio” delle altre. L’illusione è caduta, ma la parola democrazia viene ancora abbondantemente usata anche se questa forma di governo, nel senso di “governo del popolo” o di “volontà dei più” non ha più nessun riscontro nella realtà. La pluricrazia è la forma di governo, anzi la forma di occupazione del pianeta che l’ha sostituita. Gli alieni sono scesi sulla terra e siamo noi».
Come dobbiamo intendere il suo termine “pluricrazia”?
«Sarebbe più corretto dire
system of pluricracies o SOP, secondo l’orrenda sigla coniata dai miei divulgatori. Una forma di potere globale non eletta e non elettiva, con fini e mezzi diversi dalla democrazia. Potremmo dire che è parassitaria della democrazia, anche se per i greci il termine “parassita” aveva un significato diverso da quello moderno. Le democrazie rimandavano a una forma di Stato che accoglieva le richieste e i bisogni dei cittadini, prometteva di proteggerli e pur con mille imperfezioni, dava alle diverse morali, e alle contrapposte esigenze, una risposta unica, o ritenuta unica. Ora tutti possono vedere che in ogni parte del mondo sono nate forme di potere-occupazione, strutturate come veri apparati statali, con parlamenti, gerarchie, forze militari, costituzioni interne. Non si ispirano a nessuna idea di democrazia e fanno a meno di lei senza sforzo».
Potrebbe farci qualche esempio?
«La tecnocrazia, la plutocrazia finanziaria più o meno mafiosa, la teocrazia, persino la farmacocrazia e le ludocrazie-onagrocrazie culturali. Agiscono tutte con progetti, scopi e morali proprie. Preferiscono a volte operare in una finzione di democrazia, o allinearsi a una dittatura, ma la loro ideologia è quanto di più lontano ci possa essere dal rispetto del volere popolare. Il consumatore, il cliente, il connesso, il degente, lo spettatore, il fanatico sono i loro sudditi, non il cittadino. Li chiamano talvolta poteri forti ma sono piuttosto poteri folli, che disprezzano la vecchia ratio del bene comune. Anche se talvolta scelgono un volto per apparire, preferiscono essere invisibili. Ascoltano solo voci selezionate da loro: la banca dati, l’audience, il sondaggio, il call center hanno sostituito la piazza. Recentemente ho sentito il termine social-democrazia, col trattino, per celebrare il web. Invenzione dolce e consolatoria. Il web è un’oligarchia, anzi ha creato gli ultimi monarchi. Steve Jobs è l’ultimo dei semi-dei prometeici».
Uno dei suoi concetti più dibattuti è quello di Stato-schermo. Quindi lo Stato esiste ancora?
«Anche un anarchico non può fare a meno di una bandiera, diceva De Selby. Lo Stato è uno schermo sul quale le pluricrazie proiettano la loro immagine in modo rassicurante. Ma lo Stato non ha più nessun contenuto, è fatto di trame scritte altrove, di recite dove ruotano i cast di maggioranza e opposizione, di attori brillanti o tragici. Se mi chiedessero a cosa somigliano Trump e Hillary, direi Gambadilegno e la fata di Cenerentola. Ogni vera decisione è presa dal SOP, che la trasferisce allo Stato-schermo perché la trasmetta ai cittadini. Le pluricrazie sanno bene che cose come il voto, la legge, l’esercito, i confini, la bandiera e la Nazionale di calcio sono rassicuranti. Essere in balia dell’informe spaventerebbe. Si accetta che la squadra del cuore venga comprata da un miliardario russo o da uno sceicco, ma guai a cambiare i colori della maglia. Bisogna avere uno schermo su cui proiettare lamenti e rabbia, nell’illusione di essere considerati. L’ultima forma della democrazia è la frenocrazia, la possibilità per ognuno di lagnarsi e dare la colpa a qualcuno della propria infelicità. Ma è un Paraclausithyron, un lamento a una porta chiusa».
Lei è totalmente pessimista. Ma è possibile il progresso o la pace con le pluricrazie?
«Il progresso di tutti non esiste più, esiste soltanto il progressivo rafforzamento delle pluricrazie. In quanto alla pace la guerra moderna non è più tra Stati, basta vedere la frammentazione del conflitto mediorientale per rendersene conto. È un continuo scontro tra avidità contrapposte, ammantato di motivazioni religiose, storiche o etniche, più complesso e imprevedibile delle guerre del passato. Uno Stato potrebbe volere la pace, ma lo spingeranno in guerra i suoi petrolieri o i produttori di armi, i suoi servizi segreti deviati o un gruppo religioso bramoso di anime e di territorio, un impero mafioso, o un’azienda che ha bisogno di materie prime e nuovi mercati. È più facile immaginare una guerra nucleare tra Google e Microsoft, o tra AT&T e Verizon, o tra Hollywood e Bollywood, che tra Usa e Russia».
E le dittature?
Neanche le dittature esistono più. Sono film un po’ più pulp, schermi in cui ha grande importanza il primattore, una figura unica di leader, con l’aggiunta degli effetti speciali di un poderoso apparato militare e un controllo dei media più spietato. Ma nessun dittatore può permettersi di andare contro il SOP, nessun tiranno ha più l’esclusiva della tortura, o della censura. Per restare sul suo trono deve piegarsi a una o più pluricrazie, spesso è soltanto un componente del loro consiglio di amministrazione.».
Quindi lei non ha soluzioni?
«No, e se le avessi me le avrebbero già prese con la forza. Le pluricrazie hanno vinto. Non so se troveranno una forma di convivenza o distruggeranno il pianeta nella battaglia per la supremazia. Quello che è certo è che non lasceranno più spazio a nessuna forma democratica che non sia secondaria e sottomessa. Il parassita ha divorato l’ospite. Solo la nascita di una nuova coscienza della libertà, una totale disconnessione della nostra vita dal sistema pluricratico potrebbe salvarci, ma io non spero più. Singoli gruppi possono inserirsi negli spazi vuoti dell’invasione del SOP, ma questi spazi sono sempre più stretti e stritolanti»
Si dice che lei sia consigliere di Bill Gates e di Putin. Ma che consigli potrebbero avere da lei?
«Sono calunnie. Io riesco a malapena a consigliare qualche libro ai miei alunni. Sono un pensatore, e come tutte le forme di intelligenza autonoma, sono destinato a scomparire. Ho deciso di lasciare qualcosa di scritto perché per un attimo potrebbe intralciare le pluricrazie e costringerle a uno sforzo per disinnescare il mio discorso. Ma entro pochi mesi, il mio pensiero sarà ingoiato dal loro magma, oppure in nome delle mie parole nascerà una pluricrazia perversa».
Lei detesta, ricambiato, quasi tutti i suoi colleghi. Ma nella sua teoria si è ispirato a qualcuno?
«La mia non è teoria, è opsis. All’inizio ho seguito con interesse De Selby, Deleuze, Jankelevith e Starobinski, ma anche loro sono rimasti prigionieri del democentrismo. Penso che la scomparsa di Laurel e Hardy, e poi il grido di Bacon abbiano annunciato il declino del pensiero occidentale. Ma la data che segna la fine dell’illusione democratica è la morte di John Lennon. Voi italiani siete adoratori della parola “Vip” ma contate meno di un miliardario cinese».
E la Cina?
«Finirà in pezzi. Adesso basta, devo andare a mangiare, oggi c’è il purè».
Un’ultima domanda : il dramma dei migranti?
«Non si “emigra” più, si fugge e basta, Al SOP di tutto questo non frega nulla, le pluricrazie non hanno né patria né confini né ricordi. A loro non interessa la sofferenza degli individui, ma quella dei bilanci. Le pluricrazie rendono invivibili i Paesi con sfruttamento e guerre costringendo la gente a fuggire, poi costringono gli Stati-schermo e i volonterosi a occuparsene. Sono agenzie turistiche sataniche.
Una parola di speranza?
«La chieda alle pluricrazie, ne hanno di diverse e molto seducenti»
«Assassinato da un commando il leader dei Campesinos. La lotta ambientalista contro il latifondo e le morti di regime».
Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2016 (p.d.)
Quando si incontra, anche se per poco, uno dei cosiddetti “giusti del mondo”, non è detto che lo si incontrerà una seconda volta. Queste persone spesso vivono in Paesi solo apparentemente democratici e sono in costante pericolo di vita. Dell'incontro con uno di loro, José Angel Flores, a Tocoa, un villaggio dell'Honduras nel maggio scorso, mi rimarrà la sua simpatia, onestà, coraggio e un documento: “Questo documento è la prova che Juan Orlando Hernandez dopo essere diventato presidente della Repubblica due anni fa, ha smentito le promesse che ci aveva fatto quando era presidente del Parlamento”.
Martedì scorso Flores, 62 anni, è stato ucciso da quattro uomini incappucciati che lo hanno crivellato di colpi mentre si trovava nella sua a bitazione con altre persone. Dopo una mattinata trascorsa in una sala congressi di Tocoa a spiegare a una delegazione di osservatori internazionali per i diritti umani le minacce subite dal MUCA, il Movimento Campesino Unificado dell’Aguan (una provincia del nord) che presiedeva, Flores mi aveva accompagnata a vedere le piantagioni di palma africana che lui e i suoi compagni rivendicano da anni. Nonostante fosse da tempo nel mirino e non avesse però alcuna scorta, José Angel continuava a criticare l'elite latifondista e mineraria protetta dal presidente della Repubblica e capo del governo conservatore di questo Paese centroamericano da sempre feudo Usa.
Un paese ricco di risorse naturali, ma con soli otto milioni di abitanti, precipitato in un vortice di violenza dal golpe del 2009. Prima del colpo di stato militare che destituì il presidente Manuel Zelaya, reo di aver stretto un patto economico con l'allora presidente venezuelano comunista Hugo Chavez, l'Honduras era il secondo stato più povero dell'America Latina ma non ancora il più violento come invece è diventato in questi 7 anni, secondo i dati Oms e a giudicare dallo spaventoso numero di morti ammazzati. Rapine, sequestri, regolamenti di conti tra bande di delinquenti comuni, di narcotrafficanti ma anche come esito delle lotte degli ambientalisti e dei campesinos contro lo strapotere delle multinazionali. Gli assassini di questi attivisti vanno ricercati spesso tra le file delle forze dell'ordine e dell'esercito come dimostra l'inchiesta sull'esecuzione nel marzo scorso della leader degli indigeni Lenca, Berta Caceres, premiata nel 2015 con la massima onorificenza internazionale per la protezione dell'ambiente.
Dall'intervento dei militari che rovesciò Zelaya, la povertà, bloccatasi con le riforme del presidente deposto, è ripresa a galoppare assieme alla violenza. Ciò che impressiona di questo paese è la quantità di uomini armati che difendono ogni negozio e locale come in un far west tropicale. Assieme alle armi dei vigilantes, si aggirano, portate a tracolla dei militari americani i mitragliatori d'assalto. In Honduras c'è la più grande base militare statunitense del Centro America, ed è proprio a pochi chilometri dall'abitazione di José Angel Flores. “Con il pretesto di investire qui, gli imprenditori stranieri chiedono in cambio una vera e propria autonomia, una cessione di fatto del territorio sovrano, che dà loro la possibilità di imporre un costo del lavoro ancora più basso e di sfruttare l'ambiente secondo le loro regole”, denunciava Flores. Una denuncia che aveva mosso al governo più volte anche la Caceres e gli altri cinque ambientalisti uccisi quest'anno. Nel Comitato For the Application of Best Practices, l'organo che deve regolare queste Zone, figurano anche Michael Reagan, uno dei figli del defunto presidente degli States, Mark Skousen, ex analista economico della Cia, Mark Klugmann, autore dei discorsi di Reagan e Bush padre.
Pochi giorni fa il regista Oliver Stone ha ricordato il ruolo degli Usa dietro al colpo di stato che ha sferrato il colpo di grazia all'Honduras da dove transita l'80% della cocaina che entra negli Usa. “Ovunque siamo andati abbiamo fatto danni, come recentemente in Honduras, dove Hillary Clinton, nel 2009 segretario di Stato, ha responsabilità nella cacciata di Zelaya da parte dei militari”. Al contrario di Obama, la probabile prima donna a diventare presidente degli Usa nega ancora che si trattò di un golpe. “Non capisco perché ancora non ammette, come hanno fatto Obama, l'Onu e il resto del mondo, che quello avvenuto è stato un golpe”, ha detto al Fatto l'ex presidente Zelaya.
. MicroMega online, 17 ottobre 2016 (c.m.c.)
«Macché semplificazione e tagli a sprechi, le ragioni della riforma vanno indagate altrove: Renzi si è piegato alla volontà dei poteri forti, Jp Morgan ci ha dettato le modifiche costituzionali».
Dalla voce non sembra stia parlando un ottantenne. Ragiona, analizza e spiega le ragioni per le quali sta sostenendo la campagna del NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale, è uno dei massimi esperti in materia. Lo contattiamo telefonicamente, combattivo, ha desiderio di sviscerare nel dettaglio la riforma per convincere soprattutto gli indecisi al voto.
La riforma voluta dal presidente Matteo Renzi riduce il numero dei senatori, stabilisce nuovi rapporti tra Stato e Regioni, oltre a semplificare l’annosa questione della burocrazia e cancellare carrozzoni come il Cnel… Cosa non la convince?
Sono spot propagandistici, senza alcuna logica. La riduzione dei costi e la semplificazione non si raggiungono col soffocamento del Senato, uno degli organi massimi dell’espressione della sovranità popolare. Tra l’altro la Ragioneria di Stato ha smentito i numeri del governo e, con la riforma, si risparmierebbero soltanto 51 milioni. Ci sono altri modi per racimolare soldi. Anche la questione dello snellimento dell’iter legislativo è mendace. Agli esami degli atti i tempi si allungheranno.
Beh, però si pone fine alla “navetta” tra i due rami del Parlamento…
Su molte materie rimane obbligatorio l’esame di una e dell’altra Camera. In caso di divergenze di vedute tra Camera e Senato, il conflitto dovrà essere risolto dai due presidenti e, qualora non trovassero un accordo, la questione andrebbe fino alla Corte Costituzionale dove trascorrerà almeno un anno dalla sentenza. Un iter così, lo capisce chiunque, è lungo e assurdo.
Insisto, i fautori del Sì dicono che il Senato interverrà su poche leggi e soprattutto c’è l’occasione di superare il bicameralismo paritario, come già avviene in Francia e Germania. Lei è per difendere a priori il bicameralismo?
In dottrina il bicameralismo può essere imperfetto, alcune materie possono passare soltanto alla Camera e non al Senato. Il governo, invece, con tale riforma fa un pasticcio, il provvedimento è scritto male e pieno di incongruenze. Il Senato sarà formato da nominati, ovvero da sindaci e consiglieri regionali senza vincolo di mandato, tanto valeva eliminarlo del tutto e rimanere con una Camera Alta. Infine, la questione dei tempi di approvazione di una legge: è una questione di volontà politica, non di bicameralismo paritario. Quando la maggioranza ha deciso – si pensi all’introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – ha modificato la Carta in poche settimane. Quando si vuole, le leggi vengono varate velocemente, anche adesso.
Quindi è falso che si sta ricalcando il modello del Senato tedesco?
La Camera dei Lander funziona diversamente. Nel testo della riforma si parla di “Senato delle Autonomie” ma nel dunque non ha competenze specifiche sui territori anzi schiaccia le autonomie locali.
Il pensiero di molti si può riassumere col giudizio: “Dopo anni di immobilismo, siamo di fronte a una riforma pasticciata ma sempre meglio di niente”. Come replica?
È una grande sciocchezza, meglio il niente al male. Questa riforma segna la fine della democrazia.
Veramente, come denuncia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, siamo al rischio di una deriva oligarchica? Non le sembra di esagerare? Renzi ha annientato i contrappesi creando un esecutivo forte. Ha tolto poteri al presidente della Repubblica il quale sarà, a conti fatti, eletto solo da 220 parlamentari, e ha ridotto le garanzie costituzionali alla Consulta. Nell’albero istituzionale ha tagliato le foglie facendo restare esclusivamente il tronco dell’esecutivo.
La legge elettorale – che prevede un rafforzamento dell’esecutivo – è uscita però dalla contesa referendaria e si ipotizza una modifica dell’Italicum.
Che si raggiunga una nuova legge elettorale entro il 4 dicembre è escluso da tutti, non c’è tempo. E l’Italicum è strettamente collegato con la modifica del titolo V: rischiamo un Senato esautorato di potere e una Camera con un premio di maggioranza “drogato”. Mi spiego meglio. Secondo l’Italicum, il ballottaggio si può vincere col 20/25 per cento del consenso degli elettori e ciò – considerando l’alto tasso di astensionismo – significa che il 10/15 per cento dei cittadini italiani vanno a costituire una maggioranza assoluta. Ribadisco, siamo alla distruzione della democrazia.
Ma la Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?
La nostra Carta è ottima e ha bisogno soltanto di piccoli ritocchi. Qui si fa una modifica che trasforma la forma di governo: passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse.
Scusi, governo presidenziale non è ben diverso dal dire oligarchia? Pensiamo agli Usa o la Francia, sono democrazie funzionanti…
Il problema è stabilire sempre il contrappeso al potere: negli Usa c’è il bilanciamento col Congresso se noi invece il Parlamento lo riduciamo ad un Senato di nominati ed esautorato di potere e ad una Camera che rappresenta una maggioranza del 10 per cento degli italiani, mi spiega dove sono i contrappesi?
Se vince il NO la situazione rimarrà così per anni, lo sa?
Non è vero, se vince il NO si mette in moto finalmente una forma di partecipazione popolare perché la gente sta capendo il quadro politico: siamo succubi di finanza, banche e multinazionali. E anche della Germania. Si capirà che l’Italia deve cambiare politica e riappropriarsi di se stessa. Noi stiamo svendendo il nostro territorio e la sovranità. Gli ultimi governi, dal 2011 in poi – i cosiddetti governi presidenziali – hanno perseguito le medesime politiche: al proprio interno il dominio dell’esecutivo e all’esterno l’assoggettamento ai diktat di Bce e Troika. Rischiamo di diventare come gli ebrei sotto la schiavitù di Babilonia.
La battaglia per la difesa della Costituzione si intreccia con l’Europa dell’austerity e per un ritorno alla sovranità popolare, sta dicendo questo?
Questa riforma, come tutte le leggi di Renzi, come il TTIP, come il CETA, e come molti regolamenti e direttive europee sono tutte a favore della finanza e contro gli interessi del popolo. E’ un passaggio di una storia che inizia negli anni ’80, si vuole capovolgere l’ordine sociale italiano. Non conta il valore della dignità umana, l’uomo diventa merce. Pensiamo allo Sblocca Italia: a favore della finanza, distrugge l’ambiente e regala i nostri territori ai profitti delle lobby.
Insomma, professor Maddalena, crede veramente che le Istituzioni europee, la Bce e le agenzie di rating abbiano fatto pressioni al governo Renzi per varare la riforma costituzionale?
JP Morgan l’ha chiesto esplicitamente con un documento del 2013, di 16 pagine: i governi del Sud Europa sono troppo antifascisti e democratici e vanno cambiati a vantaggio di un esecutivo forte col quale i mercati possono dialogare. Il Mercato è formato da un denaro fittizio – creato ad hoc da politici servitori – che ammonta a 1,2 quadrilioni di dollari, 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Il processo di una finanza sana che passa per il percorso finanza-prodotto-occupazione-profitto-finanza, è sostituito da finanza-finanza. Qual è l’obiettivo finale?
Qual è?
Appropriarsi dei beni esistenti, soprattutto dei Paesi più deboli e periferici. E noi, ogni giorno, stiamo svendendo pezzi importanti del nostro territorio oltre a privatizzare beni comuni e diritti basilari. Ci impoveriamo. L’articolo I della nostra Costituzione dice che siamo una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, tra i recenti dati su disoccupazione e precarietà, possiamo affermare che stiamo spogliando il lavoro dalla sua funzione e sostituendolo col massimo profitto. E’ immorale e contro l’etica repubblicana.
Per difendere la nostra Costituzione bisogna rompere con l’Europa?
La tematica è controversa. Noi dobbiamo accettare la sfida europea ma non a prezzo della nostra miseria perché gli attuali manovratori di Bruxelles stanno privilegiando la Germania. L’Europa, a trazione tedesca, viaggia a due velocità: o si contrastano le disuguaglianze e si costruisce un’Europa più equa o andremo verso la nostra fine.
«il manifesto, ottobre 29016
Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese.
Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.
Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori.
Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano.
Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità.
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.
* Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele
». Su quali specchi dovrà arrampicarsi Scalfari per replicare? Aspettiamo con pazienza.La
Repubblica, 12 ottobre 2016
L’oligarchia è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura.
Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.
Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante.
Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte.
Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue.
Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri.
Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto.
Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste.
Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”.
Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così.
Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.
Parole sagge su Renzi (che non è un ragazzotto di provincia ma un politico lucido e determinato, «che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere) sulla necessità di contrastare il suo perverso disegna strategico con una nuova capacità progettuale, dopo l'indispensabile vittoria del NO.
ilmanifesto, 9 ottobre 2016
Tutti dicono che sarebbe preferibile un confronto di merito sui singoli aspetti della riforma costituzionale, ma sia nei confronti tra partiti che nelle motivazioni di voto dei singoli elettori, prevalgono valutazioni politiche di carattere generale. Come mai?
La verità è che il voto del 4 Dicembre è un voto «politico», politico nel senso nobile di questa parola oggi tanto disprezzata.
Certo sarebbe stato più facile se la riforma fosse stata suddivisa in più provvedimenti separati in modo che il singolo elettore avrebbe potuto dire dei si e dei no secondo le sue specifiche valutazioni. Così come sarebbe stato preferibile discutere della riforma costituzionale in presenza di una legge elettorale «neutra» cioè che non interferisse con la riforma.
Ma così non è stato. Il governo ha voluto fare della riforma la sua carta di identità ed ha voluto anticipare una riforma elettorale che è addirittura valida solo per la Camera dando per scontato che il Senato elettivo non esisterà più (con la conseguenza, se vincerà il no, che si dovrà rifare la legge elettorale). Quindi la scelta iniziale del governo di fare di queste due leggi un unicum e di legare le sorti di Renzi al loro esito è stata una scelta consapevole e chiara.
Ha fatto male? Ed i tentativi di aggiustare il tiro dicendo che non si vota per Renzi e che la legge elettorale si potrà anche cambiare sono sinceri? Vedremo come evolverà la situazione. Personalmente penso che dovremo saper distinguere tra scelte tattiche e scelte strategiche e che, una volta per tutte, dobbiamo riconoscere al progetto renziano una sua coerenza ed una sua vision senza ridurlo ad un berlusconismo d’accatto. Berlusconi aveva una sua visione, ma essa era fortemente intrecciata con interessi personali che la rendevano permeabile e disponibile a compromessi.
Renzi a mio parere si colloca su quella traccia ideale, ma è un animale politico, contaminato certo anche da interessi locali ed amical-familiari, ma che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere. Una visione coltivata dalle sue parti già prima dell’avvento di Berlusconi, ma che, come si sta vedendo nel suo sapersi muovere a livello internazionale, è nuova ed è funzionale alle attuali esigenze del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. In questa fase terminale del capitalismo, infatti, i livelli decisionali si sono spostati sempre più in alto verso organismi sovranazionali ed in questo contesto assetti istituzionali che danno voce ai popoli ed alle loro rappresentanze istituzionali sono considerati lussi che non ci possiamo più permettere.
L’ideologia renziana, la rottamazione ed il cambiamento, la velocità ed il decisionismo, la relazione diretta premier-popolo facilitata dai nuovi media, non sono elementi di colore del «ragazzotto di Rignano», ma pilastri fondanti di una ideologia precisa. Ed i disegni collegati di una costituzione velocizzata, di poteri del premier rafforzati con una sola Camera composta da candidati da lui scelti ed un partito super premiato, sono i pilastri di un nuovo edificio. Un edificio tenuto insieme, nelle intenzioni, da un nuovo partito ricostruito dal basso con i comitati per il sì che nascono a sua immagine e somiglianza. Quindi un unicum ben preciso: nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito.
Questo è il disegno! Ambizioso e sul quale oggi gran parte dei vertici del partito sembra ritrovarsi.
Che fare da sinistra per contrastarlo? Certamente far cogliere la grande portata dello scontro in atto: se con un solo Sì si portano a casa tre risultati – nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito – questo vale anche per il No. Un No che vale tre potrebbe essere il nostro slogan.
Ma nei pochi giorni che abbiamo davanti dobbiamo guardare anche al dopo e cercare di dare alla politica una nuova dignità. Certo che dovremo saper argomentare il nostro no alla riforma costituzionale, criticando il tipo di Senato che viene proposto, contestando la strumentalizzazione sulla riduzione dei costi… Penso che in questo contesto dobbiamo pure riconoscere la validità di certe scelte (Cnel, limiti ai rimborsi dei consiglierei regionali…) e la necessità comunque di accelerare l’iter legislativo, anche se in modo diverso manifestando la nostra disponibilità ad un altro Senato… Ma attenzione allo stop and go di Renzi, che prima ci propone i referendum su di lui, poi di separare la riforma costituzionale dalla legge elettorale portandoci a spasso dietro ai suoi tatticismi.
Prendiamolo sul serio questo Renzi, riconosciamogli la dignità di una sua visione politica, avversiamolo nel merito del suo progetto politico. Ed ai suoi elettori che tendono a votare Sì per senso di appartenenza, rendiamo chiaro che non siamo i conservatori dell’esistente, ma quelli che nel passato hanno saputo difendere valori e diritti, ma anche cambiare e conquistare. E che l’abbiamo fatto insieme a tanti di loro. Che non è vero che dal ’44 ad oggi nulla è cambiato e che aspettavamo il venticello renziano per poter respirare.
E che, passato il referendum con la vittoria del No che auspichiamo, sappiamo che dobbiamo affrontare problemi enormi: la crisi economica e sociale dalla quale non si esce ancora, i rischi di populismo ed i pericoli del riaffacciarsi delle vecchie destre. Problemi tutti che richiedono una capacità di riaggregazione del fronte democratico e di messa al centro dei problemi del paese. Tutto il contrario delle politiche di annunci e divisioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni.
il manifesto, 7 ottobre) equella Antonio Esposito (il Fatto quotidiano 8 ottobre). Noi preferiamo parlare di "neofeudalesimo"
il manifesto, 7 ottobre 2016
CARO SCALFARi
OLIGARCHIA NON È DEMOCRAZIA
di Valentino Parlato
Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, la regola era che la politica doveva essere di tutti: tutti dovevamo impegnarci in politica perché questo era il fondamento della democrazia: “governo del popolo”. Ma ora l’aria è cambiata: Per il referendum del prossimo 4 di dicembre è assai chiaro. C’è un manifesto assai eloquente: «Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un SI».
Siamo arrivati al punto da ritenere malfattori quelli che si occupano di politica? Al punto che dire: «tu sei un politico» è un insulto? Quindi, basta anche con la democrazia che significa “governo del popolo”? Meglio il governo di pochi o di uno solo.
Il governo di pochi si chiama “oligarchia”, che già a scuola ci insegnavano che è una brutta cosa. Dire che un personaggio era un “oligarca” non era proprio un complimento. Ma ora anche Eugenio Scalfari ci spiega che sbagliamo: «Il primo errore – scrive nel suo editoriale su Repubblica di domenica 2 ottobre – riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia».
Questo inatteso innamoramento per l’oligarchia stupisce e preoccupa ed è contro tutto quello che avevamo imparato a scuola.
Preso dal dubbio sono andato a leggere la voce “oligarchia” nell’enciclopedia Treccani: «Caratteristica della o. (oligarchia) è l’esclusione di notevole parte dei liberi, spesso la maggioranza, dal pieno godimento dei diritti politici e la menomazione conseguente della dignità individuale, dei diritti e della libertà stessa degli esclusi dal potere».
Ma Treccani a parte, resta il fatto che tra democrazia (governo del popolo) e oligarchia (governo di pochi) c’è una bella differenza che Scalfari non può cancellare, come noi non possiamo ignorare che l’identificazione di democrazia e oligarchia è una deriva della finanziarizzazione e globalizzazione del capitalismo di questi nostri tempi.
Il Fatto quotidiano, 8 ottobre 2016
SCALFARI, UNA STRANA IDEA DI DEMOCRAZIA
di Antonio Esposito
Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.
Entrambe le tesi sono profondamente errate.
Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.
Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.
Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.
Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.
Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.
Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.
Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.
Riferimenti
«È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni». La
Repubblica, 8 ottobre 2016 (c.m.c.)
Guardando alle discussioni sul referendum costituzionale, sembra ogni giorno più difficile segnare un confine tra politica e antipolitica, stabilire dove finisce l’una e comincia l’altra. Un manifesto come quello che chiede ai cittadini “Vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica, le attribuisce una legittimazione che finora le era mancata. Ma quali rischi accompagnano questa legittimazione in un periodo in cui è forte la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, grande il loro bisogno di partecipazione, sempre più intensa la ricerca di modalità di rappresentanza diretta?
È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, tutt’altro che conclusa, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni. E gli interventi continui, e assai spesso aggressivi, del presidente del Consiglio certo non contribuiscono a crearne le condizioni.
Il rischio è che, quale che sia l’esito del referendum, una parte significativa dei cittadini possa non riconoscersi nel risultato del voto. Bisogna ricordare che ai tempi dell’Assemblea costituente la preoccupazione era stata proprio quella di non dividersi, tanto che fu possibile un accordo sui temi fondamentali malgrado la guerra fredda e l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti.
Il legame stretto tra la legge elettorale, l’Italicum, e la riforma costituzionale aveva suscitato legittime preoccupazioni per le forme di concentrazione di potere che avrebbe determinato, cambiando in maniera significativa gli stessi equilibri istituzionali. Le modifiche all’Italicum, più ventilate che tradotte in impegni effettivamente vincolanti e alle quali si era riferita la minoranza del Pd, condizionando ad esse il suo consenso, non potrebbero comunque avere l’effetto di rendere accettabile la riforma.
È persino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio, leggere il testo al quale è stato consegnato il compito impegnativo di riscrivere ben quarantatré articoli della Costituzione. L’intenzione dichiarata è quella di semplificare le dinamiche costituzionali, in particolare il procedimento legislativo. Ma per liberarsi dal tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati invece a un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato.
Neppure gli studiosi più esperti sono riusciti a dare una lettura univoca del numero delle nuove e diverse procedure di approvazione delle leggi. Ma l’attenzione critica si è giustamente rivolta anche alla composizione del nuovo Senato, che sembra essere stata concepita per renderne quanto mai arduo, e per certi versi impossibile, il funzionamento.
Il compito affidato ai nuovi senatori, infatti, è assai difficile da conciliare con il loro primario compito istituzionale. Si tratta, infatti, di consiglieri regionali e sindaci. E proprio il ruolo assunto in particolare dai sindaci nell’ultimo periodo, divenuti determinanti per il rapporto tra cittadini e istituzioni, rende inaccettabile o concretamente impossibile una loro presenza attiva e informata come senatori.
Non potendo svolgere una vera e incisiva funzione istituzionale, i nuovi senatori frequenteranno Palazzo Madama come una sorta di dopolavoro?