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Due giornalisti sullo stesso argomento.La conclusione è la stessa: i mass media barano e gonfiano un fenomeno che non c'è. Ma l'uno (Vittorio Emiliani) parla schietto, l'altro (ci perdoni Corrado Augias) è un po' ipocrita e difende la corporazione.

la Repubblica, 12 aprile 2017

Vittorio Emiliani domanda


CARO Augias, i Tg e anche molti quotidiani sono pieni di sangue, omicidi e femminicidi, gente che vuole armarsi. Un quadro che moltiplica per mille le insicurezze. Risponde al vero? No. Gli immigrati residenti sono saliti da 3 a 5,4 milioni nell’ultimo decennio (+83,7%), mentre gli omicidi sono drasticamente diminuiti: da oltre 600 a 438 (-27%). Nel 1991 erano ancora 1.910, la metà attribuita a mafia-camorra-’ndrangheta. In Italia si assassina meno che in Finlandia, Belgio, Grecia, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria e Danimarca. Per non parlare degli Stati Uniti. Siamo alla pari, o leggermente sotto, a Francia, Spagna, Olanda, Germania. Lì i Tg nazionali danno forse notizia di “un nuovo omicidio” in qualche sperduto paese? Da noi sì, e con grande evidenza.
Dal 2010 agli inizi del 2013 (fonte Polizia di Stato), anche le vittime di femminicidio risultano diminuite dell’8,5 %. E per i migranti? Le richieste di asilo da noi risultano pari a meno di 1400 per 1 milione di abitanti, mentre in Ungheria sono oltre 17.500, in Svezia oltre 16.000, in Austria quasi 10.000, in Finlandia 6.000 e in Germania 5.441. Parlare di “invasione” è improprio. Ma perché allora i media ci fanno comparire come un popolo di omicidi, con extra-comunitari pronti ad uccidere, sommersi di rapine, furti e altro?
Corrado Augias risponde

COME diceva mia nonna non si deve fare d’ogni erba un fascio. I titoli dei giornali di destra sono una cosa, quelli degli altri una diversa. Le ragioni sono note, evidente la strumentalità politica: più c’è paura più guadagnano le destre che proliferano sui sentimenti forti: paura e rabbia sociale. Al netto di questa diversità, la stampa dà comunque troppa evidenza ai fatti di sangue? È possibile. Intanto siamo noti nel mondo per essere un popolo molto emotivo, i più cattivi si riferiscono a noi come “i brasiliani d’Europa”. Non è giusto, ma i pregiudizi non vanno tanto per il sottile. Ci sono anche altre ragioni per il fenomeno denunciato nella lettera. I grandi mutamenti in corso hanno colpito nel profondo. Non si tratta soltanto del rapido impoverimento delle classi medie, ma di un insieme di cambiamenti che sta sconvolgendo abitudini consolidate e lo stesso profilo della vita associata soprattutto nelle cittadine e nei paesi.
La paura sociale è come la temperatura, conta non il termometro ma la percezione. Un immigrato pazzo che a Milano uccide i passanti a colpi di mannaia, un pregiudicato serbo che nel ferrarese spara al primo accenno di resistenza a una rapina, scuotono gli animi più di ogni più rassicurante (e veritiera) statistica. Nei giorni scorsi il questore di Milano diceva: gli omicidi sono diminuiti e le richieste di porto d’armi aumentate a dismisura. C’è una logica? Non c’è, nelle reazioni nervose ed emotive la logica non c’è mai. E la stampa che Emiliani mette sotto accusa? A parte gli eccessi strumentali cui accennavo, la stampa un po’ fa il suo mestiere, un po’ - diciamolo - ci marcia. Gli omicidi intimoriscono ma, paradossalmente, attraggono, sono un tema ghiotto. Basta pensare a quanti ne consuma ogni giorno la televisione.
Incredibile. In questo paese la tolleranza e il rispetto per le religioni diverse da quella dominante non si trovano presso la Corte costituzionale né sulla “libera stampa”, ma nell’editoriale di un giornale diocesano.

La Difesa del popolo, settimanale diocesano di Padova, 11 aprile 2017

Zaia e la maggioranza brindano alla decisione della Corte Costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee". Non è discriminatoria, dicono i giudici. Ma è davvero ragionevole?

«E’ un’indiscutibile vittoria. Ancora una volta la correttezza dei principi con cui il Veneto opera e legifera è stata riconosciuta dalla Consulta. Ora mi auguro che questa nuova sentenza induca il Governo ad una minore conflittualità verso il Veneto, che non è il nemico, ma una Regione che conosce la legge e la rispetta». Zaia brinda così alla decisione della Corte costituzionale che ha respinto, dichiarandolo infondato, il ricorso contro la legge recante “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Al cui centro, in realtà, vi sono le norme per cui era stata definita a suo tempo "legge anti moschee".

La legge è uscita praticamente indenne dal vaglio dei giudici, a parte la bocciatura di quanto stabilito riguardo l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto. Una decisione definita "sorprendente" da Zaia, che ricorda come il ministro dell’Interno Minniti abbia da poco "sottoscritto un accordo con la comunità islamica moderata italiana che prevede proprio l’uso della nostra lingua nelle moschee”.

Il ricorso del governo puntava a mettere in luce il possibile carattere discrezionale - e dunque discriminatorio - delle scelte dei sindaci in materia di autorizzazioni, ma la Corte Costituzionale non ha ritenuto di intervenire dal momento che la legge prende in considerazione tutte le diverse possibili forme di confessione religiosa, senza introdurre alcuna distinzione in ragione della stipula o meno di un’intesa con lo stato.Anzi, i giudici definiscono “conforme al dettato costituzionale la possibilità che le autorità comp etenti operino ragionevoli differenziazioni” e sottolineano che “si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”.

Da oggi in poi, dunque, chiunque voglia aprire un nuovo luogo di culto deve stipulare con il sindaco una convenzione che prevede tra l’altro un «impegno fideiussorio adeguato a copertura degli impegni presi».Le nuove «attrezzature religiose» dovranno avere strade di accesso adeguate, opere di urbanizzazione primaria, ampie superfici dedicate a parcheggio, oltre naturalmente a tutti gli standard sanitari minimi.

Non solo: i luoghi di culto e gli annessi potranno sorgere esclusivamente nelle cosiddette zone F dei vecchi piani regolatori, cioè le aree funzionali che i comuni inseriscono a discrezione nei piani urbanistici e che oggi contengono tipicamente ospedali, chiese, impianti sportivi o altro. Per realizzarle dunque sarà determinante la volontà dei sindaci.

Ma che cosa si intende con attrezzature religiose? È presto detto: qualsiasi tipo di struttura che abbia a che fare con una fede religiosa. Il nuovo articolo 31 bis della legge urbanistica regionale non esclude infatti nulla. Ma proprio nulla.
Anzitutto ci sono le chiese, ma anche i sagrati, e poi le abitazioni per i ministri del culto ma anche del personale di servizio (quindi le case delle perpetue e dei sacrestani, se si guarda alla chiesa cattolica). Sono soggetti alla normativa anche gli edifici destinati alla formazione religiosa o ad attività «educative, culturali, sociali, ricreative e di ristoro», compresi oratori e simili senza fini di lucro. E ancora tutti gli edifici sede «di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione».

Ma il passaggio che più ha fatto e sicuramente farà ancora discutere è quello che sottopone alla convenzione anche le aree scoperte «utilizzate per il culto, ancorché saltuario. Se l'obiettivo era quello di impedire per questa via la preghiera del venerdì ai fedeli di religione musulmana o il proliferare di luoghi di culto improvvisati, non sfuggono a nessuno le conseguenze che un'applicazione ferrea della legge potrebbe avere e che all'epoca erano state al centro degli emendamenti e del voto contrario dell'opposizione.Si pensi alla parrocchia che decide di realizzare un campo da gioco in un terreno di proprietà attiguo alla chiesa: il sindaco potrà vietarlo perché le aree in cui sorgono le nostre parrocchie non sono di tipo F. Stesso discorso vale per una comunità che volesse costruire in centro paese una nuova scuola per l’infanzia.
Ma si arriva ai casi assurdi per cui, siccome la legge norma anche gli spazi all’aperto usati saltuariamente per il culto, un gruppo scout dovrà sottostare alla legge urbanistica per le proprie attività.
Per non parlare dei gruppi che si ritrovano a pregare nelle case private: la legge infatti vale anche per tutte le strutture in cui una «comunità di persone in qualsiasi forma costituite» si dedichino «all’esercizio di culto o alla professione religiosa».

Tutto costituzionale - ha deciso la suprema corte - ma non per questo meno preoccupante. E per certi aspetti francamente paradossale.

»

. il manifesto, 22 marzo 2017 (c.m.c.)

La crisi politica, che segna l’Europa a sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, non è semplice da interpretare per la sua sovrapposizione di contraddizioni interne ed esterne.
Il contributo europeo alla popolazione e all’economia mondiali è in calo.

E l’Europa deve ridefinire il suo ruolo di fronte all’ascesa di nuove potenze e di fronte alla crisi climatica globale. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e la Brexit forniscono un nuovo sistema di coordinate.

La crisi è anche interna. Dopo due decenni di riforme economiche neoliberiste e di austerità, che hanno distrutto le prospettive future di quasi un’intera generazione di giovani, soprattutto nell’Europa meridionale, sarebbe necessario un piano di ricostruzione sociale in Europa. Ma questa visione non si è fatta strada ai vertici dell’Unione Europea, come ad esempio lascia intendere il Libro Bianco sul futuro della Ue, pubblicato all’inizio di marzo.

Si è forse trattato, di fronte a molti e indistricabili problemi, di una mossa intelligente il fatto che il Presidente della Commissione europea, J.C. Juncker, non abbia presentato una proposta politica coerente, ma quattro scenari di una futura integrazione europea: «Business as usual», lo smantellamento della Ue in una zona di libero scambio, la concentrazione della Ue su alcune politiche chiave, una Ue fondata su specifici accordi o l’estensione dell Ue verso una completa unione economica, finanziaria e fiscale.

I popoli europei stanno voltando le spalle in misura preoccupante all’integrazione europea, come lo stesso Juncker è costretto ad ammettere. Tuttavia, ciò ha portato solo in casi eccezionali, in particolare nel Sud, a un rafforzamento della sinistra. La regola sembra piuttosto essere che le persone traducono la loro insoddisfazione e la paura del futuro in crescente razzismo e nazionalismo. Si può dunque interpretare il Libro Bianco anche come un tentativo della «grande coalizione» formata da democristiani, socialdemocratici e liberali, di assumere una posizione difensiva contro la destra populista. Può questa tener testa alla pressione del nazionalismo?

Althusser insegna a trovare l’essenziale in ciò che non viene dichiarato. La principale omissione nel Libro Bianco è l’assenza di qualsiasi riferimento ai Trattati esistenti della UE. Questa riluttanza potrebbe essere la – del tutto realistica – valutazione per cui, nel quadro degli attuali rapporti, non sia praticabile alcun cambiamento della struttura giuridica fondamentale. Ma ciò significa che per l’Unione Europea si prospetta più un «qualcosa in più del solito» che una «grande riforma». Più efficiente, più rapida, certo. Ma questo non è affatto sufficiente per trovare una via d’uscita dalla crisi.

Le società europee sono sbilanciate. Comprendere ciò significa riconoscere che il compromesso durato finora, che ha sostenuto le società europee e la Ue, con Welfare state, alta occupazione e miglioramento del tenore di vita per molti, è stato rotto dalle classi dominanti sotto il segno del neoliberismo. Il risultato consiste nella disoccupazione di massa che minaccia soprattutto l’Europa meridionale e orientale, nell’abbandono di una generazione perduta e nel mettere i popoli europei l’uno contro l’altro e contro il resto del mondo. La crescita delle destre radicali non è la causa della disintegrazione dell’Europa, bensì una delle sue conseguenze.

L’Unione Europea si è dimostrata negli ultimi decenni sorda alle preoccupazioni e alle sofferenze delle sue cittadine e dei suoi cittadini. Si è sentito dire molte volte che l’Europa deve cambiare rotta. Al cuore della crisi politica europea si trova la mancanza di una vera democrazia, che può contare su sempre meno persone in grado di influenzarne lo sviluppo in senso democratico. La seconda, stridente omissione nei futuri scenari della Commissione Europea, è la realistica definizione del principale deficit nella costruzione europea, la mancanza di una democrazia reale. Ma la prosecuzione e il rafforzamento del precedente federalismo autoritario non possono certo essere considerati la via d’uscita dalla crisi di fiducia tra cittadini e Unione europea.

Mai nella storia la democrazia è stata gentilmente concessa dalle élite dominanti. Essa è stata sempre conquistata da movimenti di massa in processi rivoluzionari. L’Europa ha bisogno di un movimento rivoluzionario di massa, democratico o la sua integrazione pacifica rischia di fallire una seconda volta.

Il Libro Bianco, pubblicato dalla Commissione europea per l’anniversario dei Trattati di Roma, ha deluso molti che attendevano un cambiamento economico e sociale della Ue introdotto «dall’alto». Esso non migliorerà le condizioni delle donne e degli uomini che vivono nell’Unione europea e dipendono dalla vendita del proprio lavoro. Ed esso non presenta ai popoli europei nessuno di quei cambiamenti istituzionali, che potrebbero combinare, in prospettiva, autodeterminazione e democrazia transnazionale.
Mossa intelligente o no, il dibattito sul futuro dell’Europa è aperto. Vi sarà qualche possibilità di successo se sarà un dibattito in cui le popolazioni europee, i sindacati, i movimenti sociali e le forze politiche assumeranno l’Europa come «comune».

* Walter Baier è direttore della rete transnazionale Transform!Europe.
Traduzione dal tedesco di Beppe Caccia

».

la Repubblica, 21 marzo 2017 (c.m.c.)

I signori della paura segnano le generazioni. Dimmi chi ti ha spaventato e ti dirò quanti anni hai. Per gli italiani nati fino agli anni Settanta il terrorismo ha il volto mascherato dei rapitori di Aldo Moro in via Fani, la faccia dei brigatisti in gabbia che rivendicano gli omicidi durante i processi, i sacchi di sabbia con i nidi di mitragliatrice ai posti di blocco nei centri storici di Roma, Milano, Torino, Genova. Per gli europei più giovani il terrore è raccontato dai cadaveri ai tavolini dei bar, dalle stragi ai concerti e sui lungomare, dai volti esaltati dei giovani soldati del califfato che rivendicano su Youtube gli omicidi che stanno per compiere. Per gli abitanti di Aleppo e delle tante aree del mondo sotto le bombe il terrorismo ha la stessa faccia della guerra e per distinguere l’uno dall’altra bisogna attendere la fine del conflitto e il racconto del vincitore.

L’uscita di emergenza dal terrorismo italiano degli anni Settanta costò centinaia di morti, famiglie distrutte, ma fu trovata. La vera discussione di allora fu per molti aspetti la stessa di oggi: si deve sospendere la democrazia per difendersi da chi l’attacca? Nonostante le tentazioni di destra e di sinistra per varare leggi da stato di polizia, si può dire che l’Italia sconfisse il terrorismo seguendo il principio per cui la democrazia si difende con la democrazia, perché sospendere il nostro sistema di garanzie rappresenta la prima vittoria per chi lo sta attaccando.

L’Europa e, più in generale l’Occidente, possono sperare nel 2017 di seguire la stessa strada? Il terrorismo che dice di ispirarsi a una religione si può combattere con le stesse armi che funzionarono contro il terrorismo ideologico di quarant’anni fa?

Strenuo oppositore delle legislazioni eccezionali, il politologo francese Bernard Manin ne parlerà domenica 2 aprile a Biennale Democrazia, con il direttore di Repubblica Mario Calabresi. Essere contrari alle leggi eccezionali in un Paese che continua a rimanere nel mirino dei terroristi e che ha istituito lo stato di emergenza fin dal 2015 non è facile. Manin spiegherà il suo punto di vista. Il dilemma è quello tra sicurezza e libertà anche se è tutto da dimostrare l’assunto per cui alzando muri ai confini e aumentando i controlli di polizia si sia davvero più sicuri.

Di quel dilemma parlano i giuristi Mauro Barberis e Geminello Preterossi coordinati il 30 marzo da Pier Paolo Portinaro. Una terza via tra chiudersi nel castello e lasciare totale libertà anche ai nemici è probabilmente quella che a livello internazionale ha tradizionalmente perseguito l’Italia. Ma anche in questo campo, ha segnalato più volte il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, manca un coordinamento europeo tra intelligence, lacuna drammaticamente emersa anche dopo i recenti attentati. Spataro ne parla con l’inviato del Corriere della Sera Giovanni Bianconi. «Non è solo una questione di sicurezza ma di cultura», dice Christiane Taubira, ex ministra della giustizia in Francia con i governi Ayrault e Valls. Proprio la sua opposizione alle misure antiterrorismo varate dopo le stragi l’ha indotta a dimettersi dall’incarico. Venerdì 31 marzo racconterà il suo scomodo punto di vista.

Per combattere il terrore dei nostri giorni è indispensabile capire da dove nasce. Ed è questo un altro dei punti di discussione nell’Occidente. Non è irrilevante sapere se tutto parte da una radicalizzazione delle correnti più estreme dell’Islam o se, al contrario, è stata la voglia di rivolte radicali a trovare nel Corano la scusa per darsi una struttura culturale e religiosa di sostegno.

La prima ipotesi, quella dell’Islam che si radicalizza e arriva a conquistare le nostre città, come ideale prosecuzione della guerra santa per estendere il Califfato oltre la penisola arabica, è forse la spiegazione più rassicurante per l’Occidente. E per questo suona incompleta. La storia sociale delle banlieues parigine racconta che, almeno in quei luoghi, la rivolta sociale ha preceduto e di molto la radicalizzazione islamista. Come se l’integralismo religioso rappresentasse l’ultima àncora a cui attaccare la rabbia sociale dopo che la politica francese di destra e di sinistra l’aveva catalogata come una rivolta marginale: «Racaille», plebaglia, aveva esclamato il ministro degli interni dell’epoca, Nicolas Sarkozy. Era il 26 ottobre 2005.

Oggi che la “racaille” alimenta i campi di addestramento per foreing fighters in Siria rispondere alla domanda: «Come si diventa terroristi?» è fondamentale. L’inviata di guerra Francesca Borri, il sociologo Stefano Allievi e lo scrittore Giuseppe Catozzella ne parlano il 31 marzo coordinati da Renzo Guolo. Sperando di trovare un’uscita di emergenza dalla logica dello scontro tra civiltà che ha ormai ruotato di novanta gradi il suo asse e oggi si combatte esplicitamente tra Nord e Sud del mondo.

il manifesto, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
È tempo di ripensare le forme reali della democrazia costituzionale. C’è bisogno di ritrovare il fondamento pluralista e conflittuale che la qualifica. È necessario guardare alla realtà divisa, alle lacerazioni che colpiscono i corpi delle persone concrete.

Dobbiamo abbandonare i falsi miti per costruire il futuro. Abbiamo bisogno di quel che Stefano Rodotà ha definito un «costituzionalismo dei bisogni».

Alcuni eventi – accidenti della storia – possono assumere un valore simbolico e spingerci a guardare al di là dell’immediatamente rilevante. Così, i referendum sul lavoro potrebbero riuscire ad andare oltre alla miseria dei voucher per squarciare il velo sul degrado della democrazia sociale. Anche, la straordinaria reazione che si è espressa il 4 dicembre può diventare un inizio: non solo il rifiuto di una riforma della Costituzione peggiorativa dell’esistente, ma anche l’indicazione di una rotta verso politiche costituzionali più democratiche e partecipate. La lotta per la democrazia è oggi più aperta di ieri.

La storia passata insegna che il sistema politico tenterà di sterilizzare queste vicende riducendoli a meri “fatti”, per poter proseguire come se nulla fosse accaduto. Ma non sempre sarà facile sottrarsi al cambiamento. Il sistema politico in questo momento sta affrontando la questione della legge elettorale. Costretto dalla circostanza che un organo di garanzia costituzionale ha realizzato l’inimmaginabile: un giudice ha scritto in vece del parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale. Con qualche ottimismo possiamo sperare che si recuperi finalmente un equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui pretermesse della rappresentanza. Bene, non si può che essere soddisfatti.

Eppure, volendo spingere lo sguardo oltre il «fatto», mi chiedo: anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica? Non dubito che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria. Tuttavia, mi chiedo su quali fondamenta si vuole ricostruire la rappresentanza politica in seno al parlamento.

Una legge d’impianto proporzionale realizzerebbe, certamente e finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa? Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione collettiva. Temo si possa correre il rischio di garantire una rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione sociale. Sicché un cambiamento da tempo atteso, di segno assai positivo, rischierebbe di reggersi su gambe d’argilla. Imposto dalla forza dei giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.

Se vogliamo dare solide fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche a ciò che v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale. In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza politica e non soltanto le sue forme istituzionali.

Quel che mi sembra di poter rilevare è che non ha senso parlare del rapporto di rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al rappresentato. Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto. Da un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa stessa volontà.

Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni (dal parlamento in particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione.

Riscoprire le virtualità della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche rappresentare un rischio.

Può costituire un inizio se tramite la partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro dell’organizzazione dei poteri il parlamento come luogo del compromesso politico e sociale. Può altresì rappresentare un rischio qualora le dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare così diffuso oggi, non solo in Italia.

Ed è per questo che, oltre alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparsi delle forme di organizzazione dei poteri. Le sorti della democrazia partecipativa sono legate a quelle della democrazia rappresentativa.

Dunque, ripensare l’organo della rappresentanza, il parlamento. Anzitutto rivendicando un riequilibrio della forma di governo, la quale si è andata progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo. È questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia pluralista e conflittuale diventa anzitutto necessario liberare il parlamento dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi, aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.

Il parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente svuotato, schiacciato dal peso del governo e abbandonato al suo triste destino da un popolo distratto e indifferente. Potrà salvarsi solo se riesce a dare voce al rappresentato, ai soggetti storici reali. La forza autonoma dei parlamenti nelle società complesse si rinviene nella capacità di questi di essere effettivamente rappresentativi delle divisioni, luogo di scontro e composizione dei conflitti.

Un ruolo costituzionale che non può essere assimilato a quello del governo che deve, invece, promuovere una politica generale mantenendo un’unità di indirizzo politico, a scapito delle minoranze. Al parlamento, istituzione del pluralismo, si affiancherebbe così il governo, istituzione dell’unità maggioritaria. In un equilibrio tra poteri definito dal sistema costituzionale e dalla nostra forma di governo parlamentare.

Anche il rappresentato però dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene. Dovremmo noi tutti tenere ben presente che le sorti del parlamento si legano indissolubilmente a quelle della democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione. Una democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare. Una democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze politiche.

Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non possono fare a meno di un popolo sovrano, ma neppure di parlamenti autonomi. Riscoprire la complessità sociale e la centralità del parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli esecutivi, tuttavia non ci si può sottrarre, anche in questo caso si tratta di iniziare una lunga marcia.

il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2017 (p.d.)

La verità è dappertutto in fuga, sfrattata dalla post-verità (detta anche ). Ma nella nostra martoriata penisola è in rotta perfino la voglia di conoscere la verità dei fatti. Ci vorrebbero schiere di antropologi per analizzare questa peste sociale, ma proviamo almeno ad abbozzare tre possibili ragioni: il pettegolezzo, la memoria corta, l’abitudine al servo encomio.
Per cominciare: si tende a parlare non dei problemi che ci affliggono, ma delle chiacchiere che li circondano, amicizie inconfessabili, incontri clandestini, smentite imbarazzanti, segreti traditi, accordi sotterranei. Una ragione c’è: attraverso il filtro del gossip anche il più pressante dei problemi si polverizza, diventa una nebbia lontana. Da un lato, chi ogni giorno richiama ostinatamente fatti, prove, indizi; dall’altro, chi sfacciatamente nega tutto, intrecciando versioni contrastanti, furbizie, allusioni a mezza bocca. Ma in questo muro contro muro, come evitare che i dati di fatto e le vane vociferazioni sembrino avere egual peso? La pubblica opinione, sale della democrazia, resta disarmata, spinta a discutere non dei fatti ma degli schieramenti, delle appartenenze, del “chi sta con chi”. Di qui il frequente riflesso automatico di chi, colto con le mani nel sacco, si difende non opponendo fatti a fatti, ma dicendosi vittima di inveterate inimicizie.
Secondo meccanismo, la memoria corta. E qui basti un esempio, le scommesse sulla durata del governo e sulla data delle elezioni, fondate essenzialmente sulle frane e gli abissi che si aprono in zona Renzi nonché sulle intemperanze e i lanciafiamme dell’ex-leader, a non sui temi più impellenti della politica: per non dir altro, la gigantesca evasione fiscale, la disoccupazione giovanile, l’impoverirsi di quelle che furono le classi medie. Cade sempre più nel dimenticatoio anche quel colabrodo destinato al naufragio che sono le due divergenti leggi elettorali di Camera e Senato: entrambe di impianto residuale, dopo i tagli operati dalla Consulta. Sembra impossibile che il Parlamento sappia esprimere una legge elettorale decente, che non venga poi bocciata per manifesta incostituzionalità. Eppure, se e quando votare lo discutiamo pensando in primis a Renzi e alle disavventure del suo clan, senza nemmen sognare una legge elettorale che sia fatta per eleggere non i più graditi ai capipopolo, ma i migliori e i più competenti.
Infine, la conversione dal servo encomio al codardo oltraggio, nei confronti del medesimo ex-leader, che si è vista prima strisciare e poi esplodere a partire (guarda caso) dal pomeriggio del 5 dicembre. Al qual proposito, meglio lasciare la parola a chi ci guarda da lontano,anche se non ci vuol bene. L’ormai famoso documento JPMorgan che dettava ai Paesi “della periferia meridionale” (nominando espressamente l’Italia) l’impellente necessità di riforme costituzionali menzionò anche la necessità di battere il «consenso basato sul clientelismo politico». Questa fu l’unica fra le raccomandazioni da tanto pulpito ad essere ignorata dal governo Renzi, viceversa impegnatissimo a distribuire cariche e prebende sulla base di appartenenze tribali, ubbidienze, fedeltà, mappe del Granducato.
Su questo sfondo, il conformismo degli organi d’informazione e l’inclinazione a servire che è da secoli una delle costanti della storia nazionale (inclusi gli “intellettuali”) si travestono spesso da ottimismo: dare le buone notizie e tacere su quelle cattive vien ritenuta una forma di patriottismo.
Ecco perché nella Press Freedom Map elaborata da Freedom House e permanentemente esposta nel Newseum di Washington a un passo dalla Casa Bianca (dove, sia detto per inciso, le vetrine sono dell’italiana Goppion), il nostro è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo, a indicare che i suoi organi d’informazione sono classificati come “parzialmente liberi”. Come risulta dal sito relativo (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Press_Freedom_Index), la classificazione si basa su parametri che riguardano il pluralismo dell’informazione, l’indipendenza dei media e la loro tendenza ad auto-censurarsi, le pressioni politiche a cui sono soggetti. Nella mappa, il verde (più o meno intenso) indica i Paesi (come Svezia, Canada o Australia) che godono di maggiore libertà di informazione; il rosso bolla quelli (come Russia, Cina, Messico) dove la libertà è fortemente limitata. Il giallo segnala le zone del mondo che sono “a metà”; dove la libertà d’informazione ci sarebbe, ma per una serie di ragioni, dalle pressioni politiche all’autocensura alla sottomissione volontaria al potere, non viene pienamente esercitata. Ed è in questa compagnia che si trova l’Italia. Nella classifica 2016 offerta dallo stesso sito, svettano i Paesi a massima libertà di opinione: la Finlandia e i Paesi scandinavi, ma anche Nuova Zelanda, Costa Rica e Svizzera, seguiti da Austria (11° in classifica), Germania (16°), Canada (18°), Spagna (34°), Stati Uniti (41°), Francia (45°). In fondo alla classifica, Eritrea (180°), Nord Corea (179°), Cina (176°), Turchia (151°). E l’Italia? È al 77° posto, subito prima di Benin e Guinea-Bissau ma dopo la Moldavia (76°); fra i Paesi dell’Europa occidentale solo l’Albania (82°) e la Grecia (89°)hanno una performance peggiore della nostra.
Non è un grandissimo blasone, per il Paese di Dante, di Machiavelli, di Gramsci. Ma aiuta a capire perché da noi trionfa la post-verità.

George L. Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione».

la Repubblica, 14 febbraio 2017 (c.m.c.)


Come difendersi dai populismi in tempi di crisi: la lezione postuma dello storico George L. Mosse.

Trump cavalca il risentimento di una middle class convinta di poter tornare a passati splendori a suon di protezionismo e discriminazione. Marine Le Pen incendia le folle ben oltre i confini francesi rilanciando parole d’ordine come «padroni a casa nostra» e un mitico «risveglio dei popoli». In Italia la destra cerca di ricompattarsi sotto l’ombrello “sovranista” (il neologismo per chi vuole smontare l’euro e l’Ue in nome del feticcio della sovranità nazionale). Lo scorso sabato, i fantasmi del luglio ’60 hanno scosso Genova in occasione del convegno “Per l’Europa delle patrie”, organizzato da Forza Nuova, ospiti d’onore alcuni leader dell’estrema destra europea neonazista e negazionista.

In L’umanità in tempi bui Hannah Arendt raccomandava di farsi «pescatori di perle», le perle di pensiero di chi ha penetrato con sguardo acuto i tempi oscuri. Di fronte ai rigurgiti del peggior Novecento, mentre gli intellettuali statunitensi si rimettono umilmente a studiare i prodromi del fascismo italiano, a noi può tornare utile rileggere uno dei più grandi e influenti storici del Novecento, George L. Mosse.

Nato nel 1918 e morto nel ’99, ebreo tedesco (rampollo di un’illustre famiglia di editori, sfuggì al nazismo riparando negli Usa) e omosessuale (fece coming out negli anni Ottanta) fu un outisder da ogni punto di vista: caratteristica che contribuì non poco a formare il suo sguardo libero, originale e provocatorio. Con La nazionalizzazione delle masse (1975) impresse alla storiografia la “svolta culturale” che rivoluzionò gli studi sui fascismi e le masse in politica nel XX secolo. Il suo vasto programma di ricerca, pervaso da un forte afflato etico, ruotò in gran parte attorno a un problema ancora attualissimo: la debolezza delle democrazie parlamentari nei momenti di crisi.

Il tema percorre sia La nazionalizzazione che un’altra grande opera, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste (1980), in particolare la sezione in cui tenta di tracciare una teoria generale del fascismo. Una sintesi del suo pensiero emerge nella lunga Intervista su Aldo Moro, una disamina della crisi della democrazia italiana nel quadro internazionale (riproposta da Rubbettino nel 2015). Correva l’anno 1979, ma le riflessioni di Mosse intorno allo statista Dc assassinato, rilette oggi, offrono una griglia d’analisi pertinente ai problemi che ci assediano. A tratti, sono quasi profetiche.

Premessa: la libertà, politica ed economica, non può sopravvivere senza le strutture del sistema parlamentare, ma la storia ha mostrato che il “meno peggio” tra i sistemi politici è molto fragile, quando si trova sotto pressione. Non serve una guerra mondiale: basta una crisi economica seria e prolungata. Anche se il fascismo non si ripresenterà mai nelle stesse forme degli anni Trenta, i germi di crisi e dissoluzione del sistema permangono.

Il deficit originario che affligge la democrazia parlamentare, spiega Mosse, è l’inefficacia dei suoi meccanismi di partecipazione, limitati essenzialmente al momento del voto, come già avvertiva Rousseau. Questi si sono ancor più ristretti con la crisi dei grandi partiti, tradizionali strumenti di integrazione delle masse. Finché la maggior parte delle persone riesce a vivere dignitosamente, il sistema va avanti per inerzia; quando la scarsità incombe, le tensioni riemergono.

La democrazia parlamentare vive di mediazioni basate sulle facoltà critiche e razionali, ma la cittadinanza, continua Mosse, smette con facilità di avvertirne i benefici quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, manca una prospettiva per il futuro. In questi frangenti, il “leader forte” che risolve, in cui identificarsi, appare rassicurante, anziché una minaccia: non a caso, secondo recenti sondaggi, in Italia lo auspicano 8 cittadini su 10.

Mosse evidenzia un paradosso ancora attualissimo: per essere statisti di successo nei sistemi parlamentari contemporanei bisogna diventare in certa misura “leader carismatici”, capaci di muovere le passioni più che appellarsi alla ragione — anche se è quest’ultima a essere essenziale in una democrazia sana. L’irrazionale ha una presa molto maggiore su una popolazione alienata, quando il mondo appare pericoloso e incomprensibile.

Per questo oggi il mito della nazione, cioè la più potente idea-guida del XIX e XX secolo, capace di creare coesione, mobilitare passioni e superare le divisioni di classe, profondamente radicata nella cultura occidentale, s’è ridestata con vigore. Ripiegare nella comunità nazionale offre l’allucinazione consolatoria del ritorno a un passato mitizzato, a misura d’uomo, contro un mondo dominato dal potere misterioso del denaro.

La frustrazione, infatti, è incanalata contro “le banche” e “l’Europa”, incarnazioni delle grandi forze spersonalizzanti del capitalismo finanziario, arcinemico individuato già più di un secolo fa (e sopravvissuto allo spettro gemello del marxismo). Il bisogno di rassicurazione è tutt’uno con quello di avere la sensazione di partecipare, di contare qualcosa, anziché essere condannati all’impotenza e all’irrilevanza.

È una delle chiavi del boom del Movimento 5 stelle, unico soggetto parzialmente alternativo alle destre: al rassicurante carisma del capo e a originali riedizioni dei grandi raduni ritualizzati unisce la retorica dell’“uno vale uno” e un ventaglio di strumenti, dai meet up alle consultazioni online, che soddisfano il bisogno di partecipazione, sebbene in modo più apparente che sostanziale. Anche perché molte persone non hanno gli strumenti intellettuali per comprendere la differenza, e questo ci porta all’ultima considerazione. Anche se non mancano della capacità di leggere una realtà sempre più complicata, le persone hanno comunque bisogno di «cogliere la vita nel suo complesso e a capire da sé», scrive Mosse (ne L’uomo e le masse). Per questo, le teorie del complotto e i “falsi” costruiti per compiacere credenze diffuse hanno tanta presa.

Ossessionato dall’interrogativo di Machiavelli, «come può l’uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?», Mosse incitava a non rassegnarsi a un presunto declino della democrazia. Accanto a misure politiche adeguate, le forze progressiste devono elaborare strumenti per soddisfare il bisogno di partecipazione. Un buon suggerimento viene da Barack Obama: nel discorso d’addio ha rievocato il “community organizing” con cui si fece le ossa a Chicago, una tecnica di empowerment della cittadinanza assai efficace, poco nota in Italia (per saperne di più communityorganizing. it).

L’importante è non restare inerti. Mosse e tante altre guide possono aiutarci a ragionare sul passato, che è uno strumento vivo a nostra disposizione, non un presagio di condanna.

« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)

Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.

Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.

Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.

Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi.

C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.

I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia elettorale”.

È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso.

A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria ».

Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.

In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più che un sospetto.

Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti. Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.

Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno mandata delusa la loro “attesa”.

Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è fallito.

Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile.

Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio. Del resto, ogni sistema elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle due, è meglio?

«Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia».il manifesto, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

La pronuncia della Corte costituzionale non ha sciolto i nodi politici, ma ha certamente aperto una fase nuova passando la palla alle forze in parlamento. E mentre è vero per i giuristi che la lettura di una sentenza richiede le motivazioni, così non è necessariamente per i politici. Per quel che serve, il risultato è già definito: no al ballottaggio, sì al premio con soglia e ai capilista bloccati. Dei tre elementi essenziali dell’Italicum, solo uno cade. Si discuterà molto della continuità della pronuncia sull’Italicum rispetto alla sentenza 1/2014 sul Porcellum. Ma conta che con la normativa di risulta il disegno politico-istituzionale di Renzi – concentrazione del potere sul leader e sull’esecutivo, asservimento delle assemblee elettive, riduzione degli spazi di partecipazione democratica – è intaccato ma non cancellato. La disproporzionalità possibile tra voti e seggi rimane molto – troppo – alta. E il voto bloccato sui capilista può comunque produrre l’effetto che i deputati siano in gran parte sottratti alla scelta degli elettori.
In queste ore traspaiono i calcoli di convenienza delle forze politiche. Renzi ha immediatamente assunto come obiettivo primario il 40% e il premio conseguente. Lo stesso Grillo, per M5S. Ma anche la Lega guarda con interesse al premio con soglia, come strumento di potere contrattuale verso Forza Italia. Lo stesso vale per quella parte della sinistra fuori del Pd che considera inevitabile muoversi insieme al Pd in una prospettiva di governo. E possiamo anche aggiungere quelli che nel Pd alzano i toni contro il segretario. È dubbio che – ad oggi – ci siano in parlamento i numeri per cancellare il premio, o per innalzare la soglia sopra il 40%. Quanto ai capilista bloccati, nessuno può dirlo in chiaro, ma a molti non dispiace affatto che siano sopravvissuti.
Tutto questo spiega l’accordo raggiunto alla Camera tra Pd, M5S, Lega e FdI per iniziare il 27 febbraio le danze, con l’intenzione di estendere il Consultellum camera al senato e minimi aggiustamenti. Un accordo che poi Grillo ha denunciato, avendo capito – magari un po’ in ritardo – che a M5S, per le sue peculiarità, i capilista bloccati non interessano. E che le ultime convulse ore forse hanno già superato.

Politica e istituzioni sono entrate in un corto circuito dal quale faticano a uscire. Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017 perché recidivo nella volontà di forzare gli argini costituzionali, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia. Come può cogliere il senso del voto referendario del 4 dicembre, che è stato soprattutto il rigetto di un modo arrogante e chiuso all’ascolto di esercitare il potere, di ridurre il governo al comando? È proprio questa filosofia del governare che può alla fine trovarsi confermata se si accetta la normativa di risulta per la camera così com’è, magari estendendola al senato. A questo obiettivo punta Renzi quando chiede il voto subito, con argomenti collaterali quali lo slittamento dei referendum Cgil, e il voto prima di una legge di stabilità che quest’anno si preannuncia dura. Cresce la fronda nel Pd, e persino un ministro prende posizione contro il voto subito.

Ma il disegno in campo si contrasta davvero in altro modo: costruendo a sinistra un progetto politico alternativo rispetto a quello portato avanti, e in parte realizzato, dagli ultimi governi. Un progetto che dia una nuova centralità ai diritti e ai bisogni della persona, come la Costituzione vuole, sul quale far convergere tutta la sinistra degna di questo nome e quella parte del paese che si è riaccostata all’impegno civile con il voto del 4 dicembre. Un progetto che sia competitivo nel paese, qualunque sia la regola elettorale che alla fine si sceglierà.
Per un progetto e una sinistra di tal genere è utile una robusta correzione in chiave proporzionale della normativa di risulta. Non basta ad escluderla il trito argomento della governabilità, come ha argomentato Floridia su queste pagine. Se tale fosse l’esito della confusione di oggi, avremmo ritrovato – quale che fosse la data del voto – un paese civile che pensavamo di avere perduto.

«TTIP ( trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti) e CETA ( la sua versione in minore tra Ue e Canada), in realtà sono delle scorciatoie per via commerciale di operazioni molto coerenti di ridisegno della filiera delle decisioni e delle responsabilità».

MicroMega online, 30 gennaio 2017 (c.m.c.)

«Penso che avremmo tutti bisogno di sederci dopo questi fatti e discutere di come dovrebbero essere costruite in futuro le politiche commerciali». La commissaria europea al Commercio Cecilia Malmström probabilmente non immaginava che due oscuri trattati dai nomi incomprensibili come TTIP e CETA avrebbero spopolato nei media internazionali, portato oltre tre milioni di cittadini europei a promuovere e firmare una e portato in piazza negli ultimi tre anni oltre quattro milioni di cittadini di tutti e 27 i paesi membri, 50mila solo a Roma il 7 maggio 2016.

Ma quello che queste persone hanno capito, e che i loro governi sembrano voler ignorare, è che TTIP (Transatlantic Trade and Investment partnership, il trattato di liberalizzazione commerciale tra Europa e Stati Uniti) e CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement, la sua versione in minore tra Ue e Canada), in realtà sono delle scorciatoie per via commerciale di operazioni molto coerenti di ridisegno della filiera delle decisioni e delle responsabilità.

In questi giorni c’è chi vuole far passare il CETA come un argine al trumpismo: peccato che il premier Justin Trudeau – che il Parlamento europeo ospiterà a Strasburgo a metà febbraio per godersi in prima fila la deprecabile approvazione del CETA e che posta selfie con bambini rifugiati – abbia salutato l’elezione di Trump, che pure lo svillaneggia spesso su Twitter, come «la possibilità di assicurare a canadesi e americani il giusto successo con un maggior lavoro comune su commercio e sicurezza» [i], e abbia gioito per lo sblocco da parte di Trump della costruzione dell’Oleodotto Keystone XL, stoppato da Obama perché ritenuto devastante per l’ambiente, definendo la scelta di Trump «una decisione molto importante per il Canada che ho sempre sostenuto». [ii]

Trump fermerà il TTIP e la globalizzazione? Proprio no: il suo programma prevede una raffica di accordi commerciali bilaterali e di chiuderli uno dopo l’altro a un ritmo veloce. Peter Navarro, direttore del nuovo Consiglio Nazionale del Commercio della Casa Bianca, ha detto che insieme al ministro al Commercio Wilbur Ross spingeranno per accordi che stringano i requisiti delle regole di origine, che diano un giro di vite al dumping dell’acciaio e dell’alluminio e riducano il deficit commerciale americano richiedendo alle nazioni partner di comprare più prodotti americani.

Per questo Trump prende tempo sul TTIP: proverà a negoziare un accordo bilaterale con la Gran Bretagna, già annunciato, e ad imporre un vantaggio più netto per gli Usa all’Europa, indebolita dalla Brexit. E il rischio è che per evitare l’isolamento commerciale e imporre la svolta antidemocratica auspicata, la Commissione europea accetti il TTIP a tutti i costi, come oggi spinge verso il CETA nonostante il quadro politico sia assolutamente diverso da quello in cui l’ha negoziato.

Il vero obiettivo di TTIP e CETA, infatti, è spostare il baricentro delle decisioni dai Parlamenti nazionali ed europei a commissioni tecniche ad hoc dove ”esperti” incaricati dei Governi Usa e canadese, insieme ad altri “esperti” individuati per decisione autonoma della Commissione europea, stabiliranno quando una marmitta sia abbastanza sicura, ma anche quanto piombo o ormoni sia giusto che siano presenti nel cibo che mangiamo, solo alla luce dei potenziali vantaggi commerciali per chi li produce ed esporta. Ma c’è di più: con questi trattati si punta a introdurre una corsia legale preferenziale, un tribunale arbitrale riservato alle imprese dove esse possano contestare le leggi pur emanate a tutela dei diritti dei cittadini, qualora danneggino i loro interessi commerciali. Una scelta che l’associazione dei magistrati tedeschi, DRB, ha giudicato “senza basi legali”[iii].

Da Seattle a Bruxelles: che cos’è che non va

Era dai tempi della rivolta a Seattle nel 1999 contro l’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization – WTO) e dal G8 di Genova 2001 nel nostro Paese, che sindacati, associazioni e movimenti non erigevano barricate fisiche e politiche contro la deregulation commerciale. Questa volta, però, un’inedita alleanza, anche al di là dell’Atlantico, con piccole e medie imprese dei settori agroalimentare e manifatturiero, oltre duemila Regioni tra cui Abruzzo, Lombardia, Toscana, Trentino Alto Adige e Val D’Aosta e città europee [iv], e con magistrati e esperti di diritto e commercio, hanno inceppato i rispettivi esecutivi. Il TTIP, rispetto al quale Trump si era dichiarato critico ma che oggi col suo staff sta valutando a fondo, essendo sensibili i vantaggi per le esportazioni Usa da esso prefigurato, è fermo da oltre 5 mesi ma, dicono i negoziatori “basterebbe un po’ di volontà politica per portarlo a compimento”[v].

Il CETA, invece, sarà sottoposto al voto del Parlamento europeo a metà febbraio, se non interverranno ostacoli. Mentre Germania, Francia, Austria e persino piccoli stati federali come la belga Vallonia hanno sollevato criticità rispetto ai due trattati, il Governo Renzi ne è stato fiero campione[vi]: “L'Italia è stato l'unico Paese che ha inviato una lettera alla Commissione europea autorizzandola a considerare il CETA una competenza esclusivamente europea”, ha spiegato il ministro competente Carlo Calenda chiedendo a Malmstrom di tagliare fuori il suo Paese e gli altri 26 dal processo di ratifica[vii] del trattato per accelerarne l’iter[viii]. E’ difficile spiegarsi il perché.

TTIP e CETA sono fondati essenzialmente sugli stessi tre pilastri: un primo nucleo di regole per facilitare l’accesso al mercato con l’abbattimento di dazi e tariffe e a nuove regole per l’accesso ai servizi e agli appalti pubblici della controparte. Un secondo nucleo di regole si concentra sulla cooperazione normativa tra le sue parti, affrontando gli ostacoli tecnici agli scambi, la sicurezza alimentare e la salute degli animali e delle piante, le regole riguardanti gli specifici settori produttivi. Il tutto da armonizzare in appositi comitati bilaterali fuori dal controllo parlamentare, per rendere il commercio più facile, non il cittadino più tranquillo. C’è poi un terzo nucleo normativo che si concentra su specifici ambiti come sviluppo sostenibile, energia e materie prime, proprietà intellettuale e indicazioni geografiche, concorrenza, protezione degli investimenti, piccole e medie imprese.

Se entrasse in vigore solo il primo pilastro in CETA e TTIP, i due trattati raggiungerebbero appena 1/3 delle proprie potenzialità. E’ con l’avvicinamento delle regole tra le due sponde dell’Atlantico, sia con il CETA sia con il TTIP, che si raggiungono i cosiddetti “migliori” risultati commerciali. Usiamo le virgolette perché per il TTIP, infatti, parliamo di un modesto incremento del PIL inferiore allo 0,5% in USA e UE entro i primi 13 anni di applicazione del trattato, a fronte di un incremento delle esportazioni dell’UE verso gli USA del 60% circa e di quelle degli USA verso l’UE di oltre l’80%[ix]. Con il CETA si parla di un piccolo aumento di PIL per l’Europa in dieci anni tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%, a fronte di un aumento delle esportazioni rispettivamente del 24.2% e del 20.4% [x].

Se si applicano alle analisi, però, i modelli econometrici usati dalle Nazioni Unite al posto di quelli della Banca Mondiale, e si prendono dunque in considerazione più variabili oltre al saldo netto commerciale, scopriamo questi flussi commerciali aggiuntivi in arrivo da oltreoceano andrebbero a sostituire quote dal 30 al 70% di interscambio tra Paesi dell’Unione (fenomeno noto come Trade diversion), e gli scarsi guadagni previsti si tradurrebbero in danni certi. Per il TTIP si arriva a quantificare, sempre in 13 anni, una perdita di reddito da lavoro tra i 165 e i 5mila euro per ciascun lavoratore europeo a seconda del Paese e una moria di circa 600mila posti di lavoro, la maggior parte tra Germania, Francia e Italia.

Il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia[xi]. Con il CETA entro il 2023 il governo canadese perderà lo 0,12% delle sue entrate da tasse commerciali, mentre in Europa si registrerà una perdita media di entrate dello -0,16% per cui si arriveranno a tagli nella spesa pubblica fino allo -0.20% in Canada e allo -0.08% in UE che si proietteranno in maggiori perdite nei Paesi europei con i settori pubblici più consistenti come Francia (-0,20%) e Italia (-0.20%)[xii].

Chi negozia e chi controlla

Tutti i dubbi espressi emergono da valutazioni indipendenti. Anche se l’Europa prevede che per ogni accordo vengano realizzate analisi ex ante anche sul piano della sostenibilità, i negoziati sono condotti senza che nessuno se non i negoziatori– e quindi per l’UE la Commissione e i suoi esperti - possano accedere agli annessi dove sono indicati i livelli numerici delle armonizzazioni e degli abbattimenti.

Una corretta quantificazione, così, si può effettuare solo una volta che le due parti abbiano concluso il negoziato che è sottoposto a riservatezza come prevede il Trattato di Lisbona [xiii]. Esse, dunque, sono più accurate per il CETA, che è stato concluso e legalmente riordinato, meno per il TTIP i cui allegati tecnici sono stati messi a disposizione solo degli analisti indipendenti dai leakage (sottrazione e pubblicazione non autorizzata di testi rocambolescamente recuperati) condotti sotto la propria responsabilità legale da organizzazioni internazionali come Wikileaks, Greenpeace o le campagne StopTTIP dei Paesi europei tra cui l’Italia[xiv].

Sul sito della Commissione europea, infatti, dal 2014, pur dopo un richiamo formale a una maggiore trasparenza mosso dall’Ombudsman europeo[xv] su ricorso di un gruppo di Ong europee, sono disponibili una decina di proposte europee di testo del TTIP e molta propaganda. I parlamentari europei, dopo quell’autorevole intervento, possono consultare il TTIP, senza allegati, per un turno di un’ora circa, in apposite stanze dove accedono dopo perquisizione e vengono controllati a vista perché non prendano altro che appunti personali su carta e senza citazioni letterali del testo, disponibile nella sola lingua inglese[xvi]. Lo stesso i parlamentari nazionali, e solo dal 2016[xvii].

Il CETA, invece, i parlamentari europei, che devono votarlo, e quelli nazionali, che dovranno ratificarlo, non l’hanno letto prima della conclusione del negoziato. La ministro al Commercio canadese ha ammesso in un recente incontro a Bratislava di non averlo mai letto, e di “fidarsi dei suoi esperti”. Ne aveva un’idea in itinere, oltre ai lobbisti di mestiere, solo un pugno di esperti di Ong e sindacati (tra cui chi scrive) che lavorava grazie a “copie abusive”, perché l’intervento dell’Ombudsman è arrivato quando ormai il suo iter era quasi concluso, forse anche grazie a tanta riservatezza.

Il CETA, pericoloso sconosciuto

Nel CETA si ritrovano tutte le caratteristiche che hanno generato tanta preoccupazione intorno al TTIP. Il CETA, ad esempio, crea l’Investment Court System (ICS): un sistema di risoluzione delle controversie sugli investimenti che permette alle imprese di citare in giudizio gli Stati canadesi e l’UE dinnanzi a un tribunale arbitrale qualora una legge o regola introdotta o vigente danneggiasse i propri interessi. L’ICS sostituisce nominalmente il controverso meccanismo Investor to State Dispute Settlement (ISDS) presente nel TTIP, ma ne mantiene inalterati tutti gli aspetti controversi, contrariamente a quanto richiesto dal Parlamento europeo nella risoluzione del luglio 2015[xviii].

I membri delle corti ICS, poi, sono avvocati commerciali cui è concesso di svolgere attività libero professionale, con rischi di conflitti di interesse. II diritto di legiferare degli Stati non è adeguatamente protetto, perché nelle cause ICS viene tenuta in considerazione solo la lettera del CETA, e non la giurisprudenza dei singoli Stati o dell’Unione. L’Europa, ad esempio, nel 1997 in piena allerta mucca pazza bloccò l’importazione di carne contenente ormoni appellandosi al principio di precauzione, uno dei principi distintivi dell’UE[xix].

Nominalmente anche il Canada rispetta il principio di precauzione [xx]., ma insieme agli Usa si appellò contro il bando presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO (DSB), e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.[xxi]

Molte corporation americane, tra le quali Walmart, Chevron, Coca Cola e ConAgra, hanno controllate canadesi, e il CETA potrebbe permettere loro di operare nei mercati europei in condizioni di favore e di utilizzare l’ICS anche senza TTIP. Con la cooperazione normativa in vigore, poi, l’UE dovrà consultare il Canada prima di introdurre nuove leggi o regolamenti, e prima che tutti gli altri portatori di interessi si esprimano. Per questo oltre 100 esperti giuristi di tutta Europa hanno chiesto alla Commissione di fermare i negoziati e di aprire un confronto più serio e sull’impatto democratico di CETA e TTIP: «chiediamo con forza di non indebolire ne’ minare lo stato di diritto e i principi democratici sui quali i nostri Stati Membri e l'Unione Europea sono stati fondati – scrivono - fornendo agli investitori esteri un sistema giudiziario e legale parallelo non necessario, sistemicamente sbilanciato e strutturalmente inadeguato».[xxii]

A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta[xxiii] nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli[xxiv], uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester[xxv] dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che «chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge» perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.

L'attacco al Mediterraneo e il Governo Italiano

Quello che ha colpito del Governo Renzi (Gentiloni ancora non si è espresso nel merito) e della parte del Parlamento europeo che ne segue le orme da Bruxelles, è che il loro tifo pro TTIP e CETA ne autolimita la capacità politica. Un pugno di parlamentari europei del Belpaese, infatti, si è unito con una propria lettera alla richiesta del ministro Calenda di tagliare fuori i parlamenti nazionali dal processo di ratifica del trattato[xxvi], nonostante contro questa scelta si sia giù espressa la Commissione[xxvii], ma anche il nostro Parlamento, a partire dalla sua presidenza[xxviii], addirittura ospitando un importante incontro alla Camera dei deputati in cui parlamentari di tutti i gruppi politici, e lo stesso ministro Calenda, hanno ascoltato i fondati motivi di preoccupazione di numerose realtà da Coldiretti a Greenpeace, dalla Cgil alle Acli, a Slow Food, Legambiente, Arci, Attac.

Lo stesso Governo che fa la voce grossa con l’Europa per la sua miopia sulle migrazioni, e giustamente critica Trump per le sue politiche razziste, ignora un dato importante: i maggiori flussi commerciali provenienti da oltreoceano taglieranno di netto import ed export tra Europa, in primis l’Italia, e la sponda Sud del Mediterraneo.

L’ultimo Rapporto ICE 2016 spiega che già oggi le esportazioni italiane sono cresciute verso gli USA almeno in volume se non in valore, perché ci siamo avvantaggiati del cambio più favorevole. Si è ridotta però la presenza italiana in Africa: in rapporto alle esportazioni dell’area dell’euro, la quota italiana nell’Africa settentrionale è scesa nel 2015 sotto la soglia del 20 per cento, per la prima volta nell’ultimo decennio[xxix]. SACE, la società che assicura le nostre esportazioni all’estero, identifica il Nord Africa e l’Europa, il nostro mercato interno come spazi più strategici per l’Italia di Usa e Canada, soprattutto per l’agroalimentare[xxx].

UNCTAD, inoltre, avverte che l’area nordafricana è colpita da una “deindustrializzazione prematura” causata da “aperture dei mercati unilaterali” quindi dal trentennio di liberalizzazioni subite a partire dagli anni Ottanta dalle politiche economiche e commerciali imposte dalla Banca Mondiale ma anche da partner commerciali come l’Europa, che hanno «ridotto la capacità degli Stati di orientare gli investimenti e pianificare», trasformando la disoccupazione da ciclica a cronica[xxxi].

In queste aree, da cui gli orribilmente stigmatizzati “migranti economici” scappano per l’impossibilità di trovare un futuro, il TTIP porterebbe, stando alle analisi condotte dalla Fondazione Bertelsmann favorevole all’accordo, a una riduzione dei già magri redditi pro-capite nell’area dal 2 fino a più del 5%[xxxii].

Il CETA, stando invece alla Tufts University[xxxiii], spazzerà via almeno 80 mila posti di lavoro a ridosso della sua entrata in vigore nelle aree extra accordo, a partire proprio dal Mediterraneo. Spingere per l’approvazione di questi trattati da parte dell’Italia è come accenderci una miccia sotto ai piedi e chiederci di essere ringraziato per il buon affare che pure un paio di nostre grandi imprese avranno fatto nel vendergli l’ordigno.

Buon compleanno Europa

La comunicazione della Commissione Europea del 14 ottobre 2015 “Commercio per tutti – Verso una politica commerciale e di investimento più responsabile” è il documento strategico su cui si basa la strategia commerciale dell’UE. Pur sostenendo operazioni come TTIP e CETA, si ammette la necessità di implementare una politica commerciale più attenta ai temi della trasparenza e della sostenibilità.[xxxiv]

Il Parlamento UE, con la Relazione(2015/2105(INI) relatrice l’italiana Tiziana Begin, ha chiesto al Consiglio europeo, cioè a tutti i nostri Governi, di rendere pubblici i mandati negoziali di tutti i trattati. E ancora, con la Relazione sulle norme sociali e ambientali, i diritti umani e la responsabilità delle imprese (2015/2038(INI) di cui è stata relatrice un’altra italiana, Eleonora Forenza, il Parlamento europeo ha anche chiesto alla Commissione di effettuare valutazioni ex ante ed ex post dell'impatto di tutti gli accordi commerciali sulla sostenibilità e sui diritti umani.

Il 60esimo compleanno dei Trattati di Roma che hanno istituito la Comunità economica europea, che cadrà il 25 marzo prossimo e verrà celebrato a Roma con tutti gli onori, offre l’occasione migliore per ripensare le relazioni economiche e commerciali dentro e fuori l’Europa, e sarebbe auspicabile farlo nel modo più ampio, più rigoroso ma capace di visione che fosse possibile. A Bruxelles come a Roma mancano ad oggi, da quanto si è visto, esecutivi capaci di farlo da soli.

*giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch, Osservatorio italiano su Clima e commercio

NOTE

[i] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-trump-canada-us-relations-1.3843142

[ii] http://www.cbc.ca/news/politics/trudeau-cabinet-keystone-xl-1.3949754

[iii] http://www.dw.com/en/german-judges-slap-ttip-down/a-19027665

[iv] La lista di qui https://stop-ttip-italia.net/zone-no-ttip/

[v] http://trade.ec.europa.eu/doclib/docs/2017/january/tradoc_155242.pdf

[vi] http://www.eunews.it/2014/10/14/renzi-il-ttip-ha-lappoggio-totale-e-incondizionato-del-governo-italiano/23167

[vii] La lettera originale pubblicata da Stop TTIP Italia https://stop-ttip-italia.net/2016/06/18/esclusivo-stopttip-italia-pubblica-la-lettera-di-calenda-su-ceta/

[viii] http:/www.politico.eu/article/eu-faces-last-chance-to-save-canada-trade-deal

[ix] http://ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/14-03CapaldoTTIP.pdf, p. 8

[x] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 23

[xi] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 27

[xii] Ibidem p. 25

[xiii] Una critica del 2010 a questa impostazione http://europaduepuntozero.blogspot.it/2010/05/leuropa-ed-il-commercio-internazionale.html

[xiv] https://stop-ttip-italia.net/documenti/

[xv] http://www.ombudsman.europa.eu/it/cases/summary.faces/it/58670/html.bookmark

[xvi] Il racconto di Tiziana Begin http://www.repubblica.it/economia/2015/10/19/news/ttip_tiziana_beghin-125417169/

[xvii] Il racconto di Giulio Marcon (Si) https://www.commo.org/post/70181/ttip-marcon-si-nella-sala-lettura-del-trattato-unora-per-800-pagine-non-e-vera-trasparenza/

[xviii] http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2015-0252+0+DOC+XML+V0//IT

[xix] http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=URISERV%3Al32042

[xx] Health Canada, “Decision-Making Framework for Identifying, Assessing and Managing Health Risks—1 August 2000.”

[xxi] WTO, 2009, European Comminutes—Measures Concerning Meat and Meat Products (Hormones), https://www.wto.org/english/tratop_e/dispu_e/cases_e/ds26_e.htm

[xxii] https://stop-ttip.org/wp-content/uploads/2016/10/Legal-Statement_IT.pdf

[xxiii] https://correctiv.org/recherchen/ttip/blog/2016/10/17/alles-bleibt-angeblich-gleich-trotz-ceta/

[xxiv] Una collezione di pareri in questo articolo https://corporateeurope.org/international-trade/2016/10/great-ceta-swindle?page=0%2C1

[xxv] https://twitter.com/snlester/status/784013175742136320?lang=de

[xxvi] https://stop-ttip-italia.net/2016/10/15/quando-un-europarlamentare-chiede-di-esautorare-un-parlamento-nazionale/

[xxvii] europa.eu/rapid/press-release_IP-16-2371_it.pdf

[xxviii] http://www.ilvelino.it/it/article/2016/07/05/ttip-boldrini-ce-bisogno-di-riflettere-sia-rimodulato-su-principi-equi/320e44b6-9c6d-4858-89cb-854eb08108f8/

[xxix] Ice p. 123

[xxx] SACE, Rapporto Restart 2015-2018, Figura 4, in http://www.sace.it/docs/default-source/ufficio-studi/pubblicazioni/restart---rapporto-export-2015.pdf?sfvrsn=2

[xxxi] http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/tdr2016_en.pdf p. IX

[xxxii] Bertelsmann foundation in EP: «The TTIP’s potential impact on developing countries» DG EXPO/B/PolDep/Note/2015_84 http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2015/549035/EXPO_IDA(2015)549035_EN.pdf

[xxxiii] http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/wp/16-03CETA.pdf, p. 28

[xxxiv] Trade for all: Towards a more responsible trade and investment policy.

Il testo integrale della comunicazione è consultabile in diverse lingue sul sito della Commissione Europea al seguente indirizzo: http://trade.ec.europa.eu/doclib/cfm/doclib_results.cfm?docid=153846

Erano tre le incostituzionalità di immediata e sfacciata evidenza dell’Italicum.

Al ballottaggio che tale sistema elettorale prevedeva e che è stato soppresso, si aggiungevano (e si aggiungono) sia il premio (per di più esorbitante) del 14 per cento dei 630 seggi della Camera a quella lista che avesse ottenuto il 40 per cento dei voti, sia la nomina a deputati dei capilista (e dei secondi di lista) da parte dei capipartito delle liste che ottenevano seggi all’elezione della Camera dei deputati.

Questo terzo vizio è stato solo ridotto, ma non sanato. È stato invece conservato il cosiddetto premio di maggioranza. Non se ne comprende il perché (che è difficile che ci sia).

Leggeremo la sentenza ma, per ora, non ci convince affatto il rigetto dell’eccezione di incostituzionalità del “premio”.

Non ci convince proprio partendo dalla incostituzionalità, accertata dalla Corte, del ballottaggio per i 340 seggi tra liste che avessero ottenuto anche una bassissima percentuale di voti al primo scrutinio ed anche al secondo, incostituzionalità clamorosamente evidente. Ma lo è perché un meccanismo di tal tipo contraddice la misura del consenso. La misura cioè di quanto è necessario, indefettibile, inalienabile ed incomprimibile in democrazia per l’esercizio del potere. Tanto più se potere normativo, che riguarda quindi lo status di cittadino, i suoi diritti, le sue pretese, i suoi doveri, i suoi obblighi, i suoi oneri.

Non va mai dimenticato, eluso, rimosso, taciuto, sminuito il nucleo duro dei sistemi elettorali, che è quello del consenso numerico certo, da cui deriva la maggioranza reale da accertare a sua volta in modo incontrovertibile, non manipolandola, non falsificandola sostituendo numeri e gonfiando somme.

Se si qualifica negativamente la quantità del consenso espresso col voto in caso di ballottaggio tra liste con ridotto numero di voti sia al primo che al secondo turno ad ogni fine giuridicamente rilevante, deve non diversamente rilevare la quantità del consenso, se si tratta di voti ottenuti da una lista che consegua il 40 per cento dei voti all’elezione della Camera dei deputati. Quale magia espande nell’ordinamento costituzionale italiano, nei rapporti interpersonali, nel futuro dell’italica gente, quel 40 per cento, resta un arcano.

Forse no. Fu del 40 per cento il numero dei voti conseguiti, alle ultime elezioni al Parlamento europeo, dalla lista del Pd. Il 40 per cento dei voti si attribuì in quell’occasione l’ex Presidente del Consiglio Renzi. Che ritenne, con ogni probabilità, che fosse fatale quel numero per lui e ineluttabile per i suoi luminosi successi. Non aveva, invece, e non poteva aver altro ruolo, quel numero, che quello di rivelare la distanza che lo separava e lo separa da quella metà più uno che segna, da sempre, la maggioranza numerica dei voti di ogni aggregata pluralità umana.

Conseguire un numero di voti che si avvicina a quella metà, significa solo che la maggioranza reale, quella vera ha negato a quella più ambiziosa minoranza il potere della metà più uno.

Sovviene un raffronto cui segue una riflessione.

È del 40,89 per cento il numero dei sì al referendum del 4 dicembre contro il 59,11 dei no. Con questo risultato il corpo elettorale ha respinto la legge costituzionale che sconvolgeva l’ordinamento parlamentare della Repubblica, una legge della massima rilevanza costituzionale, certo, ma comunque una legge, una sola legge.

E ora una domanda: un risultato di tal tipo può essere rovesciato, quanto ad effetti, per legittimare una maggioranza parlamentare, un legislatore per cinque anni ? Il 40 per cento di una lista sola o anche di più liste collegate può legittimare l’acquisizione di 340 seggi parlamentari? Tanti quanti necessari – si pretende – per assicurare la governabilità secondo i suoi pasdaran?

A quanto ammonta, di grazia, il costo della governabilità imposto alla democrazia? A quanto ammonta inoltre il prezzo della personalizzazione del potere per la nomina a deputato dei capilista anche se lasciano alla sorte di optare per il collegio di derivazione?

Or son pochi mesi, riconobbi alla Corte costituzionale il merito esclusivo di garante della Costituzione. La legittimazione del premio di maggioranza mi induce ora a riflettere su quel giudizio.

«La Consulta che aveva bocciato le liste bloccate ora partorisce una legge che aumenta il numero di deputati scelti dai capi: potrebbero essere persino tre su quattro».Sembra che siano diventati grandi pasticcioni i giudici della Corte costituzionale. L'irresistibile declino di tutti i cervelli oppure asservimento alla politica? Morale, chi ci rimette è la democrazia.

IlFatto quotidiano, 27 gennaio 2017

È un paradosso, ma capita spesso che le cose abbiano un andamento circolare: quel che resta dell’Italicum, dopo la sentenza della Consulta dell’altroieri, è sostanzialmente un Porcellum 2.0, cioè la legge che la stessa Corte costituzionale aveva bocciato tre anni fa. “È paradossale, ma per certi versi è davvero così”, dice Federico Fornaro, senatore Pd di rito bersaniano, uno di quegli uomini di partito che sa tutto di leggi elettorali in teoria e, soprattutto, in pratica: “Si può dire che, dando quasi per scontato che nessuno prenderà il premio di maggioranza oltre il 40%, nella prossima Camera i deputati nominati dai vertici dei partiti passeranno dal 50-60% dell’Italicum col ballottaggio vigente al 70-75% di questa versione aggiornata dalla Consulta”. In teste significa, come vedremo nel dettaglio, tra i 426 e i 456 parlamentari su 630 totali.

Breve spiegazione. Intanto si parla solo della Camera: in Senato vige infatti un sistema – residuato dalla sentenza con cui la Consulta ha ucciso il Porcellum – in cui si elegge chi prende più preferenze nella singola lista (se ne può esprimere una). Nel 2014 la Corte dichiarò incostituzionali le liste bloccate (in cui cioè si elegge automaticamente dal posto numero 1 in giù), mercoledì ha promosso i “capilista bloccati”: l’unico nominato è il capolista, dal posto numero 2 in poi valgono le preferenze. Quanti sono i capilista bloccati? Tecnicamente parlando 91 per ogni partito, cui aggiungere gli 8 del Trentino Alto Adige e quello della Val d’Aosta, che sono però collegi “uninominali”, cioè con una lista è di un solo nome (poi ci sono i 12 eletti all’estero con un sistema a parte).

Stabilito questo, veniamo ai probabili effetti – sulla base delle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi – della legge per la Camera venuta fuori dalla sentenza della Consulta (una soglia di sbarramento bassa al 3% e premio di maggioranza che scatta solo oltre il 40% dei voti). Solo due liste hanno la legittima speranza di eleggere più di 100 deputati (i primi 100 sono infatti i capilista bloccati, cioè nominati dalle segreterie): sono Pd e Movimento 5 Stelle. Per comodità, assegniamo il 30% dei voti a entrambe che, calcolando un generoso 10% di voti dispersi sotto la soglia di sbarramento, gli consente di ottenere circa il 33% dei deputati a disposizione: al massimo 200, insomma, di cui all’ingrosso la metà eletti col voto di preferenza.

Gli altri partiti, al momento, sono tutti lontani dal 15%, che rappresenta con questo modello elettorale la soglia per ottenere 100 deputati. Significa che Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Nuovo centrodestra e Sinistra Italia avranno nella prossima Camera quasi solo parlamentari nominati: va segnalato che se tutti questi partiti – due dei quali “ballano” attorno alla soglia del 3% nei sondaggi – riuscissero a entrare in Parlamento, si ridurrebbe la quota di eletti di Pd e M5s rispetto all’esempio che abbiamo appena fatto: i nominati, insomma, sarebbero di più rispetto ai 420 abbondanti dello scenario più favorevole.

I sondaggi sono compatibili, insomma, con un risultato che porterebbe a Montecitorio poco meno di 460 deputati nominati, quasi il 75% o, se preferite, tre su quattro. Il conto, ovviamente, scende se il vecchio centrodestra dovesse optare per un listone unico che al momento è poco probabile: anche coalizzato non ha speranza di arrivare al 40% e i dissidi di linea politica tra i vari partiti non paiono sanabili facilmente.
Paradossalmente l’Italicum – che col ballottaggio assegnava il premio di maggioranza in ogni caso – produceva meno nominati della legge lasciata in vigore dalla Consulta (non che questo attenui la natura incostituzionale di quel sistema, ormai acclarata): la lista vincente, infatti, portava a casa 340 deputati solo 100 dei quali nominati. A seconda dei risultati degli altri partiti (ma superare i 100 deputati dovendosi “spartire” solo i restanti 282 eletti in Italia è eventualità assai difficile con una soglia di sbarramento così bassa) la forchetta dei nominati oscilla tra un minimo di 335 (quasi impossibile con le intenzioni di voto di oggi) e un massimo di 360, cioè da poco più del 50% a poco meno del 60% di nominato. Un’enormità, ma comunque meno del sistema prodotto con la sentenza dell’altroieri dalla Corte costituzionale, l’organo che aveva bocciato il Porcellum (anche) perché non consentiva ai cittadini di scegliere chi mandare in Parlamento.

«Una riflessione di Federico Palla, abitante dell'ecovillaggio e scuola di Naturopatia Lumen, sul metodo del consenso adottato dalla sua comunità per prendere decisioni paritarie e collettive».

Terranuova online, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)

«È mattina nel salone di meditazione, un raggio di sole illumina una vasca di rame al centro della stanza: acqua e fuoco, fiori e bastoni sono disposti armoniosamente. Iniziamo a mettere i cuscini sul pavimento, a formare un grande cerchio che contenga una trentina di persone. Stiamo preparando un LUMEN DAY, giornata periodicamente dedicata a prendere decisioni insieme, per il futuro del nostro villaggio.

L'immagine del cerchio di parola è affascinante, mi ricorda i film sugli indiani d'America o i documentari sulle tribù indigene che vedevo da piccolo. Questo riunirsi in cerchio, suggerisce da subito un'idea di uguaglianza tra persone responsabili; sedersi tutti per terra e in posizione scomoda allena la pazienza; guardarsi negli occhi permette di sentirsi unità; la parola che fa il giro del cerchio permette la partecipazione di tutti. In un'immagine sola sono racchiusi tanti elementi di un articolato processo decisionale chiamato "metodo del consenso".

Il metodo del consenso viene spesso utilizzato negli ecovillaggi e nelle piccole comunità intenzionali, ma anche in tante altre esperienze sociali che non comportano necessariamente la convivenza. L'obiettivo è arrivare a prendere decisioni condivise da tutti i componenti del gruppo.

Quello che voglio presentarvi è la nostra particolare esperienza maturata in LUMEN dopo più di vent'anni di convivenza. Così come lo intendiamo noi, il metodo del consenso stimola la responsabilità dei suoi componenti e richiede che vengano sviluppate alcune specifiche qualità umane. Oltre a quelle richiamate prima, è fondamentale imparare ad ascoltare.

Consenso deriva infatti dal latino cum sentire ovvero sentire insieme: stimola le persone ad ascoltarsi con attenzione, sia dentro che fuori. E questo è un vero e proprio lavoro interiore, poiché meccanicamente siamo portati a voler aver ragione e a non ascoltare le ragioni degli altri.

Il metodo del consenso aiuta a costruire decisioni migliori: trovando il consenso unanime vengono sostenute e applicate da tutti; sono migliori perché prendono in esame più punti di vista, tendono quindi ad essere più oggettive e lungimiranti; sono solide perché contengono in sé le soluzioni ai possibili ostacoli emersi durante il confronto allargato.

Inoltre, attraverso il confronto necessario alla loro elaborazione, contribuiscono al rafforzamento della comunità e alla crescita dei membri del gruppo.
E' possibile essere sempre tutti d'accordo?

Questa domanda mi è stata fatta più volte e nasconde spesso due sentimenti: incredulità e timore.

Siamo nati e cresciuti in un sistema dove è normale che la maggioranza "schiacci" la minoranza, dove l'obiettivo principale non è risolvere i problemi, ma vincere la competizione. Ed è così a tutti i livelli, dal Parlamento fino alla più piccola assemblea condominiale.

Questa abitudine al disaccordo induce a pensare che non sia concretamente possibile prendere decisioni in accordo con tutti. Nasce quindi il timore che il metodo del consenso in realtà nasconda una maggioranza persuasiva e una minoranza che tende a delegare e a conformarsi al gruppo, per timore di esporsi.

Il rischio che il metodo non funzioni è reale. D'altronde anche su un sentiero di montagna il rischio di cadere da un dirupo è reale: per tale ragione è fondamentale essere attenti e conoscere in anticipo i possibili pericoli del sentiero. Chi si fa male in montagna di solito sottovaluta i rischi. Lo stesso si può dire per il metodo del consenso: bisogna documentarsi, imparare da chi lo fa da anni e fare esperienza.

E alla fine, come in montagna, i risultati che si ottengono ripagano la faticosa salita.
Ecco 7 cose da mettere nello zaino prima di partire:

Per far funzionare al meglio questo processo, è opportuno che alcuni membri ricoprano ruoli specifici, così come è opportuno scegliere tecniche e strumenti adatti al tipo di gruppo e al tipo di decisioni da prendere».

«Intervista a Gustavo Zagrebelsky di Marco Travaglio. Il presidente emerito della Corte Costituzionale boccia senza mezze misure il nuovo governo Gentiloni: “Una presa in giro per i 20 milioni di italiani che hanno votato No al referendum. È il rifiuto di guardare la realtà”. E avverte: “Rischiamo di non votare nemmeno nel 2018».

MicroMega online, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)

Professor Gustavo Zagrebelsky, è trascorso più di un mese dal referendum costituzionale e lei non ha ancora detto una parola dopo la vittoria del No. Perché?
La campagna elettorale è stata lunga e faticosa. Ora è il tempo della riflessione e di qualche bilancio. Sarebbe insensato accantonare il 4 dicembre come se quel voto non avesse rivelato una realtà più dura di tutti gli slogan.

Che Italia ha incontrato, nei suoi incontri per il No?
Una realtà che non appare nei grandi media: a proposito di post-verità… I tanti che si sono impegnati hanno ricevuto centinaia di inviti da scuole, università, associazioni, circoli d’ogni genere. Soprattutto da giovani, da molti di quelli che alle elezioni politiche si astengono, ma al referendum costituzionale hanno partecipato. Si può pensare che un 20 per cento della grande affluenza sia venuta da lì. E con ciò non voglio certo dire che il No ha vinto per merito dei giuristi e dei professori.

Perché ha vinto il No?
Credo che ci siano molte ragioni e che l’errore del fronte del Sì sia stato di far leva su una sola parola, semplice ma vuota: riforme. Si sono illusi che la figura del presidente del Consiglio e del suo governo fosse attrattiva. Si era pensato a un plebiscito in cui ci si giocava tutto e così, per reazione, si è coalizzato un fronte di partiti, pezzi di partiti e movimenti tenuti insieme dal timore della vittoria totale dell’altro. Ma lo slogan inventato dai ‘comunicatori’ – “è oggi il futuro” – non era un presagio funesto, quasi un insulto, per i tanti che vivono un tragico presente? Non sottovalutiamo poi la pessima qualità della riforma. Spesso è stato sufficiente leggerne qualche brano.

Quella l’abbiamo notata in pochi…
Col senno di poi, trovo stupefacente che molti miei colleghi, politici esperti, uomini di cultura vi abbiano trovato motivi di compiacimento. Ma, forse, non avevano letto il testo. Poi quel 20 per cento di elettori di cui parlavo, e che ottusamente ci s’incaponisce a definire “antipolitici”, hanno colto l’occasione altamente “politica” per alzare la testa in nome della Costituzione. In generale, e più in profondo, credo che molti abbiano colto i veleni contenuti in tutta questa triste vicenda che ci ha tenuti inchiodati per così tanto tempo.

Quali veleni?
Quello oligarchico e quello mercantile, che hanno insospettito molti elettori. Sono stati molti cittadini a domandarsi: ma se, come martella la propaganda del Sì, la “riforma” è solo un aggiustamento tecnico – velocità e semplificazione, peraltro contraddette da norme tanto farraginose – perché mai le grandi oligarchie italiane ed estere si spendono in modo così spasmodico perché sia approvata? Ci dev’essere sotto qualcosa di ben più grosso e, se non ce lo dicono, dobbiamo preoccuparci.

Che c’era sotto?
Il disegno di restringere gli spazi di partecipazione, cioè di democrazia, per dare campo ancor più libero alle oligarchie economico-finanziarie. I cittadini hanno presenti i propri bisogni reali: giustizia sociale e dunque fiscale, uguaglianza di diritti e doveri, attenzione a emarginati e lavoro. E si sono sentiti rispondere: più velocità, più concentrazione del potere, mani più libere per pochi decisori.

Cosa hanno voluto dire i 20 milioni di elettori del No?
Voltiamo pagina dalle politiche neoliberiste e dalla svendita del patrimonio pubblico che monopolizzano il dibattito culturale, accademico, giornalistico e politico da 30 anni e hanno prodotto tanti disastri sociali. Operazione completata con la riforma costituzionale dell’articolo 81, cioè dell’equilibrio di bilancio sotto l’egida della Commissione europea, approvata in fretta e furia sotto il governo Monti da centrodestra e centrosinistra nel silenzio generale. Ecco: proponeteci un’altra politica.

Che c’è di male nell’imporre bilanci in ordine?
L’equilibrio di bilancio comporta di fatto la rinuncia alla politica keynesiana di investimenti pubblici per creare sviluppo e lavoro, cioè la pura e semplice rinuncia alla politica. In nome del primato assoluto dell’economia finanziarizzata. Come in Grecia, dove la democrazia è stata azzerata. Nei miei incontri per il No, ho colto una gran fame di politica, cioè di una sana competizione fra politica ed economia, senza il predominio della seconda sulla prima.

Si spieghi meglio.
Fare politica significa scegliere liberamente tra opzioni: se tutto è obbligato da istituzioni esterne, grandi banche e fondi d’investimento, la politica sparisce. È la dittatura del presente, un presente repulsivo per molte persone. Nella dittatura del presente la politica sparisce e la democrazia diventa una farsa. Le elezioni diventano un intralcio, a meno che le oligarchie non siano sicure del risultato. Il sale della democrazia è l’incertezza del responso popolare. Invece si preferisce uno sciapo regime del consenso.

E, dopo il referendum, ecco il governo-fotocopia.
Distinguiamo tra Gentiloni e il suo governo. Il nuovo premier, rispetto al precedente, è una novità: è educato, parla sottovoce, dice cose di buonsenso e appare poco in tv, non spacca l’Italia tra pessimisti (anzi “gufi” e “rosiconi”) e ottimisti, fra conservatori e innovatori a parole. Quando il penultimo premier lo faceva, a reti unificate, il minimo che potevi fare era cambiare canale o spegnere la tv. Ora quella finta contrapposizione è finita. Gentiloni pare dire le cose come stanno o, almeno, non dire le cose come non stanno. E il presidente Mattarella, a Capodanno, ha richiamato l’attenzione su tante cose che non vanno. Uno statista deve dire che il futuro non è oggi, ma va costruito da oggi con enormi sacrifici, e che i sacrifici devono distribuirsi tra coloro che possono sopportarli e, spesso, hanno vissuto finora da parassiti alle spalle degli altri.

Vedo che Renzi lei non lo nomina proprio… E del governo Gentiloni che dice?
È il rifiuto di guardare la realtà, una riprova dell’autoreferenzialità del politicantismo. Quasi uno sberleffo dopo il 4 dicembre. Era troppo sperare che si prendesse atto dell’enorme significato politico del referendum, del colossale voto di sfiducia che l’elettorato ha espresso nei confronti degli autori della tentata “riforma”? Non è una questione personale: saranno tutte ottime persone. Ma è una questione politica. Invece, Maria Elena Boschi, la madrina della “riforma”, è stata promossa in un ruolo-chiave nel governo e la coautrice e relatrice, Anna Finocchiaro, è diventata ministro. Mah! L’unica novità è la ministra dell’Istruzione, subito caduta sul suo titolo di studio. Per il resto, uno scambio di posti. Ma per i nostri politici, forse perché sospettano di contare poco o nulla, chiunque può fare qualunque cosa.

Non hanno capito o fingono di non capire tutti quei No?
Con i sondaggi che danno la fiducia nei partiti avviata verso il sottozero, verrebbe da credere che Dio acceca chi vuol perdere.

Che si voti ora o nel 2018, siamo comunque a fine legislatura.
Lei ne è così sicuro? Io un po’ meno. Si dice che occorre armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato. È giusto. Ma, se non le armonizzano entro il 2018, cioè alla naturale scadenza della legislatura, che succede? Si dirà che, per forza maggiore, per il momento, non si può ancora andare al voto?

Pensa seriamente che potrebbero farlo?
Non mi stupisco più di nulla. La continuità, ribattezzata stabilità, sembra essere diventata la super-norma costituzionale. Il governo Gentiloni non ne è una dimostrazione, in attesa che si ritorni al prima del referendum?

Dicono: non si può votare subito perché il No ha mantenuto il Senato elettivo con una legge elettorale diversa da quella della Camera.
La colpa sarebbe dunque degli elettori? E non di coloro che hanno scritto leggi con la sicumera di chi ha creduto che l’esito scontato del referendum sarebbe stato un bel Sì? Così, la riforma delle Province della legge del 2014 è stata scritta “in attesa della riforma del Titolo V della Costituzione” e l’Italicum è nato sul presupposto dell’abolizione del Senato elettivo. Si può legiferare, tanto più in materia costituzionale, “nell’attesa di…”? Che presunzione! E la colpa sarebbe dei soliti cattivi che deludono le rosee attese… Suvvia…

Napolitano e Mattarella dovevano respingere le due leggi?
Io credo che ci fosse un abbaglio generalizzato: tutti pensavano che le cose sarebbero andate inevitabilmente come poi, invece, non sono andate. Era l’ideologia delle riforme, della volta buona, dell’Italia che riparte, degli italiani in spasmodica attesa da trent’anni… Che cos’è l’ideologia, se non la presunzione di spiegare il mondo a venire tramite le proprie granitiche convinzioni e di tacitare i dissenzienti come eretici? Quelli del No tante volte, in questi due anni perduti, si sono sentiti bollare d’eresia. La verità erano le riforme e i garanti delle istituzioni, se non sono stati essi stessi tra i promotori di quella verità, come il presidente Napolitano, l’hanno probabilmente subita, come il presidente Mattarella, insieme allo stuolo di commentatori e costituzionalisti che non hanno guardato le cose con il distacco che avrebbe fatto vedere loro entrambi i lati delle possibilità. Se lei mi chiede se i garanti avrebbero dovuto aprire gli occhi e moderare l’arroganza e la vanità dei “riformatori”, la risposta è sì. Ora il peccato originale di questa legislatura presenta il conto.

Peccato originale?
Nel 2014, dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum che delegittimava il Parlamento, pur lasciandolo provvisoriamente in vita, si sarebbe dovuto, appena possibile, tornare alle urne. Una legge uniforme per le due Camere, allora, c’era: quella uscita dalla sentenza, il cosiddetto “Consultellum”. Ma anche su questo s’è fatto finta di niente, contando sul fatto che i buoni risultati – su tutti la magica riforma costituzionale – avrebbero fatto aggio sul difetto di legittimità originaria, di cui nessuno avrebbe più parlato. Buoni risultati? Il giudizio l’ha appena dato il corpo elettorale.

Cosa si aspetta ora dalla Consulta, che il 24 si pronuncerà sull’Italicum?
Se valgono le ragioni scritte nei precedenti costituzionali, e non ragioni d’altro tipo, pare di capire che è incostituzionale anche l’Italicum: per i capilista bloccati cioè nominati, per il premio abnorme di maggioranza e per la difformità fra il sistema ipermaggioritario della Camera e il Consultellum proporzionale del Senato.

E sulla bocciatura del referendum della Cgil sull’abolizione dell’articolo 18?
Da ex giudice costituzionale, ho un obbligo di discrezione. Una sola osservazione: sono sconcertato dal fatto che escano notizie, fondate o infondate che siano, sugli schieramenti con nomi e cognomi formatisi nella camera di consiglio, dove dovrebbe regnare il riserbo assoluto.

Cosa si augura di qui alle elezioni?
Che si ricominci a fare politica, non con manovre di palazzo ma con progetti per l’avvenire che ci facciano uscire da questo tempo esecutivo che ha bandito la politica, se non come mera lotta per l’occupazione dei posti di potere. Tolto di mezzo il referendum, che è stato un fattore di congelamento anche delle idee, mi auguro un periodo di disgelo. Spero che si ricominci a progettare politicamente e, attorno ai progetti, si raccolgano le forze sociali disposte a partecipare. Il Pd, così come è stato negli ultimi tempi, è uno dei problemi. Il congelamento della politica è dipeso anche da quel partito che è apparso finora come incantato o inceppato dal suo presunto salvatore. Mi augurerei una terapia di disincantamento. Si sente l’esigenza di qualcuno che alzi gli occhi e guardi oltre il giorno per giorno.

A modo suo, sta cercando di ristrutturarsi il M5S: codice etico, scouting per la classe dirigente, programma, alleanze in Europa.
Stanno scoprendo la politica, evviva! Spero che si pongano il problema politico delle alleanze. In democrazia, le alleanze e anche i compromessi non sono affatto il demonio. La questione è con chi, a che prezzo e per che cosa. Chi stipula buoni accordi dà il segno della propria forza, più di chi si isola nella propria diversità. Così come è segno di forza dire, nel “codice etico”: non mi affido alla regoletta automatica secondo cui un avviso di garanzia comporta l’allontanamento dal movimento; ma mi assumo la responsabilità di leggere quel che c’è scritto e poi di dire: “Questa condotta è difendibile, faccio quadrato attorno a te; questa invece è indifendibile e ti mando via”. Sui fatti, non sull’avviso in sé. Altrimenti ci si mette alla mercé della denuncia d’un calunniatore o di un avversario, o del ghiribizzo d’un pm.

E la figuraccia in Europa, tra Farage e i Liberali?
Le darei meno peso politico: cattiva gestione d’un problema di tattica parlamentare, che accomuna sempre tutti coloro che stanno in un Parlamento. Sono altri i punti che i 5Stelle devono chiarire.

Per esempio?
Democrazia interna, selezione della classe dirigente, programma, politica estera, immigrazione. Sui migranti, a proposito di rimpatri, Grillo in fondo dice la stessa cosa del governo che veglia sulla nostra sicurezza, secondo la legge. Ma, non esistendo una posizione chiara o chiaramente percepita del M5S, qualunque cosa dica può essere accusato ora di deriva lepenista, ora di lassismo buonista.

I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.
La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile. Piuttosto, anche qui, occorre la chiarezza delle posizioni. Uscire dall’euro, come, quando e con quali conseguenze? Contestare l’Europa per distruggerla e tornare alle piccole patrie, o per rifondarla, e come? Tra tutti gli Stati attuali, o solo con il nucleo più omogeneo? E così via.

Se i 5Stelle vincono le elezioni, che succede?
Si farà di tutto per impedirglielo. Anzitutto con una legge elettorale ad hoc: quella proporzionale. Quando il Pd vinse le Europee col 41%, l’Italicum col premio di maggioranza a chi arrivava al 40% era la legge più bella del mondo. Ora che i sondaggi ipotizzano un ballottaggio vinto dal M5S, non va più bene e si vuol buttare via una legge mai usata: roba da perdere la faccia. Non per nulla la Commissione di Venezia e la Corte di Strasburgo nel 2012 (Ekoglasnost contro Bulgaria) hanno detto che non si cambia legge elettorale nell’imminenza delle elezioni. Ma anche qui arriva il conto di troppe miopie.

Quali miopie?
Dal 2013 una classe politica lungimirante avrebbe tentato di parlamentarizzare i 5Stelle. Invece li hanno demonizzati e ostracizzati. E ora non sanno più come neutralizzarli se non col proporzionale, che ci riporterà alle larghe intese Pd-Forza Italia. Nulla di scandaloso di per sé (vedi la grande coalizione tedesca). Ma in Italia il rischio è che sia l’ennesimo traffico di interessi, con fine ultimo di restare comunque a galla.

I 5Stelle non sono pronti per governare. Non le fanno paura?
Chi governa lo decidono gli elettori. Sotto certi aspetti, chiunque disponga del potere dovrebbe fare paura. A parte ciò, come già sta avvenendo dove governano i 5Stelle, le nuove responsabilità impongono loro di cambiare pelle, natura e, spero, anche toni: più oggettività e meno proclami. Se si pensa che il problema sia afferrare il potere, perché poi tutto scorra facilmente, ci si sbaglia di grosso.

Il M5S ha difeso la Costituzione dalla “riforma” , ma vuole il vincolo di mandato contro i voltagabbana, che ora vengono multati.

C’è una soluzione più semplice e costituzionale: il parlamentare è libero di cambiare partito e anche di votare come vuole, in dissenso dal suo gruppo. Ma, se lascia la maggioranza con cui è stato eletto per passare all’opposizione, o viceversa (caso molto più frequente), subito dopo deve decadere da parlamentare: perché ha tradito i propri elettori e ha stravolto il senso politico della sua elezione.

Lei vive a Torino: che gliene pare di Chiara Appendino?
Non l’ho votata, perciò posso dire in totale libertà che è una felice sorpresa. Ha detto che non tutto quel che s’è fatto prima è da buttare: ecco la forza della continuità. È più fortunata di Virginia Raggi, che a Roma ha trovato una situazione infinitamente più compromessa: lì è difficile salvare qualcosa del passato. Ma vedo che, ai 5Stelle in generale e alla Raggi in particolare, non si perdonano molte cose che si perdonano agli altri. Due pesi e due misure.

Anche a giornali e tv si perdonano bugie e falsità, mentre per il Web s’è perfino coniato il neologismo della “post-verità”.
Come se, prima del Web, l’informazione fosse il regno della verità! Da sempre la menzogna è un’arma del potere, lo teorizzava già Machiavelli. Il che non significa che la si debba accettare. Anzi, occorre combatterla, perché la verità è, invece, l’arma dei senza potere contro i prepotenti. La Verità non esiste, ma la verità sì. Almeno sui dati e sui fatti oggettivi. Poi le interpretazioni sono libere.

Si dice che il successo di Trump, della Brexit e dei 5Stelle contro gli establishment è colpa delle fake news sul Web.
Troppo facile. Le bufale del Web sono così dozzinali che chi ha un minimo di conoscenza può facilmente respingerle, perché quella è una comunicazione orizzontale: verità e bugie, spesso anonime o firmate da ignoti, non hanno autorevolezza e si elidono reciprocamente. Invece la somma delle bugie o delle reticenze diffuse dalla stampa e dalle tv sono firmate, dunque più autorevoli, ergo meno smentibili, perché quella è una comunicazione verticale. Occorrerebbe bloccare gli interventi anonimi sul Web, così sarebbe più facile distinguere chi è credibile e chi no. Se poi qualcuno diffama, si creino procedure giudiziarie rapide. La difesa della reputazione delle vittime è inconciliabile con i tempi lunghi. Ma le fake news diffuse per turbare l’ordine pubblico sono già ora materia penale. Per il resto, questa storia della post-verità mi pare un discorso falso: come se, prima, non esistesse e vivessimo nel paradiso della verità.

Che intende dire?
Da quando gli elettori disobbediscono regolarmente agli establishment, questi cercano scuse per giustificare le proprie sconfitte e per mettere le mani sull’unico medium che ancora non controllano: la Rete. Si sentono voci autorevoli domandare: ma non vorremo mica far votare gli ignoranti, anzi i “populisti”? Se lo chiedeva già Gramsci: è giusto che il voto di Benedetto Croce valga quanto quello di un pastore transumante del Gennargentu? La risposta, di Gramsci ieri e di ogni democratico oggi, è semplice: se il pastore vota senza consapevolezze, è colpa di chi l’ha lasciato nell’ignoranza; e se tanta gente vota a casaccio, è perché la politica non gli ha fornito motivazioni adeguate. Questi signori pensino a come hanno ridotto la scuola, la cultura e l’informazione: altro che il Web!

Grazie, professore.

la Repubblica, "Robinson", 8 gennaio 2017 (c.m.c.)

Quante parole servono per esprimere una regola? E quante regole servono per disciplinare l’universo? A giudicare dall’esperienza che andiamo maturando noi italiani, parole e regole non sono mai abbastanza. E il 2016 che abbiamo ormai alle spalle è stato forse l’anno più prolifico della nostra storia nazionale. Come d’altronde mostra la sua creatura maggiore, benché abortita poi dagli elettori: la riforma costituzionale.

Dove campeggiava, a mo’ di gonfalone, il nuovo articolo 70: 430 vocaboli, al posto delle nove smilze parolette dettate dai costituenti. Con un labirinto di rinvii, di citazioni, di riferimenti ad altre norme della Costituzione. Sicché, ove quella riforma fosse entrata in vigore, il Senato avrebbe conservato la potestà legislativa «per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma». Più che una norma, una rubrica telefonica.

Questo stile parossistico, questa stessa incontinenza semantica e verbale tracima da tutta la legislazione che ci ha inondato l’anno scorso. Noi, per lo più, non ci facciamo caso, non avviciniamo il nostro sguardo alla lingua del diritto. Sappiamo di questa o quella legge perché ne parlano i giornali o la tv, perché ci ronzano in testa le polemiche fra maggioranza e opposizione, non per averne letto il testo inforcando un paio d’occhiali.

Dovremmo farlo, invece, almeno qualche volta. Dopotutto, nessuno s’azzarderebbe a esprimere giudizi su un quadro o su un romanzo soltanto per sentito dire. E dopotutto le leggi non riguardano unicamente gli addetti ai lavori, così come l’arte non appartiene ai critici d’arte. Entrambe sono destinate al pubblico, e siamo noi, il pubblico.

A immergere lo sguardo nell’oceano delle Gazzette ufficiali, scopriremmo così che la legge sulle unioni civili — forse la più lieta novella del 2016 — s’articola in un solo articolo di 69 commi, è insomma disarticolata, o meglio inarticolata, un po’ come nella trilogia di Samuel Beckett, dove ogni frase corre per pagine intere. Verremmo a sapere che il decreto sulla semplificazione degli enti di ricerca (n. 218 del 2016) semplifica aggiungendo al comma 515 sancito chissà dove un comma 515 bis, rivolto alle « amministrazioni pubbliche di cui al comma 510 » .

Finiremmo poi per inciampare nel nuovo Codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) dove s’addensano 181 errori nei suoi 220 articoli, come ha denunziato Gianantonio Stella. Infine sbatteremmo il muso contro la legge sui disabili ( n. 112 del 2016), ornata d’un periodo che infila sette genitivi sulle gengive del lettore: «nelle more del completamento del procedimento di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 13 del decreto…».

Se si dovessero studiare tutte le leggi, non rimarrebbe il tempo di trasgredirle, diceva Goethe. Anche volendo, però, è ormai diventato impossibile studiarle, giacché è impossibile capirle. Le prove? Basta rileggerne insieme qualche brano, pescando fra le novità legislative più celebrate del 2016. Per esempio, l’abolizione di Equitalia (articolo 1 del decreto legge n. 193 del 2016): « Dalla data di cui al comma 1, l’esercizio delle funzioni relative alla riscossione nazionale, di cui all’articolo 3, comma 1, del decreto- legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è attribuito all’Agenzia delle entrate di cui all’articolo 62 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, ed è svolto dall’ente strumentale di cui al comma 3».

Oppure la riforma delle partecipate ( articolo 24 del decreto legislativo n. 175 del 2016): « Le partecipazioni detenute, direttamente o indirettamente, dalle amministrazioni pubbliche alla data di entrata in vigore del presente decreto in società non riconducibili ad alcuna delle categorie di cui all’articolo 4, commi 1, 2 e 3, ovvero che non soddisfano i requisiti di cui all’articolo 5, commi 1 e 2, o che ricadono in una delle ipotesi di cui all’articolo 20, comma 2, sono alienate o sono oggetto delle misure di cui all’articolo 20, commi 1 e 2».

O infine la riduzione delle camere di commercio ( articolo 4 del decreto legislativo n. 219 del 2016): « Al fine di contemperare l’esigenza di garantire la sostenibilità finanziaria anche con riguardo ai progetti in corso per la promozione dell’attività economica all’estero e il mantenimento dei livelli occupazionali con l’esigenza di riduzione degli oneri per diritto annuale di cui all’articolo 28, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, le variazioni del diritto annuale conseguenti alla rideterminazione annuale del fabbisogno di cui all’articolo 18, commi 4 e 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 580, valutate in termini medi ponderati, devono comunque garantire la riduzione dei relativi importi del 40 per cento per il 2016 e del 50 per cento a decorrere dal 2017 rispetto a quelli vigenti nel 2014».

Questo demone nomenclatore non rende le nostre leggi più precise; semmai le rende incomprensibili, dunque sommamente imprecise. La precisione, in una norma, risiede nella sua chiarezza espositiva. E la chiarezza del diritto può anche sfiorare, perché no?, l’eleganza letteraria. Non a caso Stendhal diceva d’ispirarsi al code Napoléon, per trarne ritmo ed eleganza narrativa. E non a caso Terracini, nel 1947, chiese a tre letterati d’alleggerire la Costituzione, di renderla più sobria, più aggraziata, prima che l’Assemblea costituente l’approvasse.

D’altronde diritto e letteratura sono ufficialmente uniti in matrimonio dal 1973, da quando la pubblicazione di The Legal Imagination di J.B. White battezzò il Law and Literature Movement. E non si contano gli illustri personaggi che furono insieme giuristi e letterati, da Cicerone a Francis Bacon, che arrivò a trasformare un suo scritto giuridico in un saggio letterario ( Dell’usura, 1625). Senza dire di Giambattista Vico, che nella Scienza nuova ( 1725) introdusse il concetto di «giurisprudenza poetica», riconoscendo nella poesia un connotato dell’antica giurisprudenza.

No, non dipende dal diritto, dai suoi vocabolari, il timbro delirante di queste ultime leggi. La loro oscurità deriva piuttosto da una crisi morale, che nel 2016 ha continuato ad aggravarsi. Perché la corruzione s’estende poi al linguaggio, perché attraverso le parole risuonano le cose. L’estetica comprende in se stessa l’etica, lo dice per l’appunto la parola. E noi rischiamo di perdere entrambe le parole, entrambe le cose. ?

«La democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono».

la Repubblica, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

La democrazia può morire anche di verità, non solo di menzogne. Uno slogan, ma non del tutto. La politica della verità quando si applica alle opinioni — delle quali si nutre il forum dei paesi a regime costituzionale democratico — è una ghigliottina pronta a tagliare idee e simbolicamente teste.

Il diritto che tutela la libertà di opinione esiste proprio per coloro che cantano fuori del coro o che esprimono preferenze che ad altri non piacciono e magari bollano come false. Ma che cosa sia una “falsa” preferenza o opinione nessuno può dirlo. E nessun tribunale può deciderlo, nemmeno quello di giudici competenti e indipendenti: abitando le opinioni la zona grigia del né vero né falso ma dell’opinabile e del variabile, non si sa di quale competenza si parli; e poi, essendo quella dei magistrati una mente che, fuori delle procedure e delle norme scritte, si riempie di idee altrettanto partigiane e parziali di quelle di ogni altro cittadino, non è chiaro di quale indipendenza si parli.

La giuridificazione delle opinioni è una proposta preoccupante e potenzialmente tremenda nelle conseguenze. Ovviamente si parla di opinioni, non di informazioni scientifiche o commerciali – le etichette dei medicinali o dei prodotti alimentari non portano “opinioni” ma informazioni testate, e in questi casi la menzogna è truffa, anche pericolosa, perseguibile per legge.

I sostenitori della giuridificazione usano l’argomento causale per difendere la loro proposta: fanno, per esempio, riferimento ad alcune news false che hanno circolato sul web durante la campagna elettorale americana. Possono provare che c’è stato un rapporto lineare di causa-effetto tra quelle news false e l’esito elettorale, che ogni voto repubblicano sia stato generato da quelle news? Non lo possono, ovviamente, e quindi non possono accampare alcuna “prova” che suffraghi il bisogno di un’authority che vagli le opinioni – come se chi compone questo tribunale sia un santo senza emozioni e opinioni!

Il mito platonico del filosofo (o giudice) è da scartare perchè la democrazia vuole ed è uno spazio aperto dove si confrontano opinioni diverse e anche opposte; e dove i cittadini sono naturalmente disposti a dissentire e ad essere partigiani di ciò in cui credono. Questa non è una malattia da curare, ma il gioco stesso della politica democratica che si preserva con il pluralismo (e un giornalismo che prediliga le inchieste ai sondaggi).

Quindi, se un’opinione politica (non-scientifica) balzana attraversa il web e raccoglie proseliti strada facendo, la soluzione migliore è che siano i cittadini a contestarla. La caccia alle balle sarebbe una bella forma di cittadinanza attiva nell’era della democrazia del web, che ha l’ambizione di produrre informazione fai-da-te. Se si va oltre il giornalismo di professione e la sua deonotologia, la responsabilità di sorvegliare si estende a tutti, facendo della produzione della notizia un “bene della comunità” intera.

Alla proposta del “tribunale governativo”, Beppe Grillo ha opposto «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie dei media». Una proposta che fa raggelare il sangue, non perché realizzabile ma proprio perché irrealizzabile. Immaginiamolo questo tribunale buono (del popolo): dovrebbe stare in seduta permanente, notte e giorno perché la produzione di opinioni non si ferma mai; dovrebbe identificare il nome e il cognome della persona che ha generato una opinione, cosa impossibile perché le opinioni sono una composizione di varie altre idee e non hanno padri e madri indiscussi; dovrebbe leggere milioni di parole e ordinarle per capitoli, argomenti, generi. Alla fine, questo tribunale del popolo o è un’altra App o è una bufala esso stesso, perché nessun cittadino “scelto a sorte” potrebbe svolgere una tale funzione. Ma proprio perché irrealizzabile, esso rischierebbe di essere un terribile e totalmente arbitrario tribunale dell’inquisizione.

La democrazia il tribunale ce l’ha naturalmente, ed è quello dell’opinione pubblica, che Jeremy Bentham definì l’organo che tutto giudica e che però genera anche l’oggetto del giudizio. L’opinione “fa” e “giudica” se stessa, dunque. Non la fanno i giudici che con la lente della verità epistemica credono di poter setacciare l’agorà. Ma non la fa neppure un tribunale popolare, una idea priva di senso e che, nel peggiore dei casi, può solo essere un comitato popolare di salute pubblica, sulla falsariga di quelli che vennero sperimentati dal Terrore giacobino e da quelli stalinista e fascista.

«Nessuna censura, la Rete deve essere credibile» tuona Grillo. Ha ragione. Ma se così è, risponda con confutazioni a chi propone la giuridificazione, non proponendo il peggio. Rilanciare sul peggio è una politica sconsiderata che porta acqua proprio al mulino della censura perché crea partiti: quello della giuridificazione contro quello della giuria di popolo. E quale che sia il vincitore, l’esito sarebbe un male per tutti. Le opinioni si combattono con le opinioni, e quindi con la libertà di cambiare opinione (e di denunciare le bufale).

il manifesto, 3 gennaio 2017 (c.m.c.)

Quindici anni di euro, non è l’ora di fare un tagliando alla moneta unica?
Il bilancio va fatto ed è sicuramente critico – risponde Mario Pianta, professore di politica economica a Urbino e tra i fondatori di Sbilanciamoci! – partendo dalle due stelle polari che hanno guidato tutto il percorso di integrazione, da Maastricht nel ’92 fino all’unione monetaria. Il primo di questi due punti di riferimento è il neoliberismo come orizzonte della politica economica, cioè una politica che dà la priorità ai mercati e rinuncia a un intervento pubblico di rilievo nel guidare i processi, con un’ondata di privatizzazioni massiccia che anche nel nostro paese è stata il biglietto d’ingresso per entrare nel club. La seconda stella di questa traettoria è la finanza che a partire dagli anni ’90 su scala planetaria e anche europea, attraverso una totale liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha pesantemente condizionato i contesti politici e economici a livello nazionale.

La quantità di governatori delle banche centrali e di ministri che vengono o vanno in grandi banche internazionali come Goldman Sachs – ultimi esempi macroscopici l’ex presidente della Commissione Barroso appena assunto e Trump che mette al dipartimento del Tesoro un loro banchiere – dà il segno di questa egemonia della finanza internazionale. Il risultato di questo imprinting è che l’euro non ha trainato alcuno sviluppo dell’economia reale, ma è vissuto di bolle finanziarie poi sfociate nella crisi del 2008 mentre si è verificato un aumento delle diseguaglianze all’interno dei paesi e un aumento della polarizzazione e della divergenza tra paesi del centro e della periferia nell’Unione.

L’euro si è quindi rivelato una forza centrifuga?
Questa modalità e traettoria ha avviato meccanismi di polarizzazione per cui i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi, i paesi deboli più deboli, i paesi forti più forti. Mentre l’Unione ha dimenticato di affrontare temi grandi come la responsabilità comune del debito pubblico dei paesi dell’area euro, la regolamentazione bancaria, l’implementazione di una politica fiscale espansiva e comune in grado di far uscire l’Europa dalla stagnazione, tre questioni che sono diventate centrali nella crisi del debito del 2011 con fattori come lo spread e i fallimenti delle banche nazionali, cosa che ora sta vivendo l’Italia ma sono fattori che sono esplosi in tempi diversi nei vari paesi.

La moneta unica serve o è più un fardello dell’Europa?
Non ci sono scorciatoie. È illusorio aprire un dibattito sull’uscita dall’euro come soluzione a questa complessità. Certo che se si mantiene la totale libertà dei capitali e non si adottano drastiche misure come una cancellazione significativa del debito pubblico in euro non si può escludere la fuoriuscita delle economie più deboli come la nostra dall’area euro. Ma se in Grecia fosse tornata la dracma la situazione ora sarebbe peggiore.

Anche a sinistra c’è chi dà la colpa all’euro della svalutazione del lavoro e dei salari.
Lo spostamento di 15 punti percentuali di reddito dai salari ai profitti è un fenomeno che si è verificato in tutti i paesi occidentali, con o senza euro. Ha a che fare con i rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Con la Brexit e l’euroscetticismo di destra montante l’euro può saltare?
Se non cambia niente a Berlino e a Bruxelles, dove non si capisce neanche come gestire la Brexit, l’instabilità e l’incertezza aumenteranno insieme a stagnazione e diseguaglianze. L’euro può saltare ma la transizione sarebbe gestita da governi e retoriche reazionarie per far accettare i sacrifici. L’unica via è ricostruire un blocco sociale post liberista e una egemonia culturale e politica in grado di proporre un orizzonte di cambiamento su scala nazionale all’altezza delle sfide.

Una riflessione del premio Nobel per l’economia Paul Krugman su ciò che chiamano populismo: semplice, ma quanto mai inquietante per noi Europei.

Newyorktimes.com, "The opinion page", 23 dicembre 2016. Tradotto per eddyburg da Maria Cristina Gibelli


POPULISMO, VERO E FALSO
(in calce in lingua originale)

I movimenti autoritari che esprimono un’avversione profonda nei confronti delle minoranze etniche sono in marcia in tutto il mondo occidentale. Sono al governo in Ungheria e Polonia, e prenderanno presto il potere in America. E si stanno organizzando anche oltre le frontiere: il Freedom Party austriaco, fondato da ex nazisti, ha siglato un accordo con il governo russo e condivide la scelta di Trump in merito al Consigliere per la Sicurezza Nazionale.

Ma come dovremmo definire questi gruppi? Molti corrispondenti stanno usando il termine “populisti”: un termine che appare sia inadeguato che ingannevole. Penso che il razzismo possa essere considerato populista nel senso che rappresenta il punto di vista di una parte della popolazione che non appartiene alla élite. Ma le altre caratteristiche di questo movimento – la dipendenza da teorie del complotto, l’indifferenza alle norme del diritto, la propensione a punire coloro che esprimono una visione critica – possono davvero essere collocate sotto l’etichetta di “populismo”?

Tuttavia, i membri europei di queste alleanze emergenti – un asse del male? – hanno offerto alcuni benefici reali ai lavoratori. Il partito ungherese Fidesz ha ridotto i mutui e abbassato le tariffe dei servizi (energia, gas, acqua). Il Partito polacco Law and Justice ha aumentato gli assegni familiari e i salari minimi e abbassato l’età pensionabile. Il Front National francese si presenta come il difensore di un esteso welfare state – ma soltanto per le persone giuste.

Il Trumpismo è però differente. La retorica che ha accompagnato la campagna elettorale può anche aver incluso la promessa di mantenere il Medicare e la Social Security intatti e di rimpiazzare l’Obamacare con qualcosa di ‘terrific’. Ma tutto sta a indicare che assisteremo a una manna che pioverà sui miliardari accompagnata da tagli selvaggi nei programmi destinati non solo ai poveri ma anche alla classe media. E la classe lavoratrice bianca, che ha garantito a Trump il 46% dei voti, si sta configurando come la grande perdente. Non conosciamo ancora le sue ricette politiche dettagliate. Ma le scelte dei ministri già mostrano in che direzione sta spirando il vento.

Le sue scelte in merito a chi presiederà al Bilancio, e alla Salute e Servizi alla persona sono orientate a favore dello smantellamento dell’Affordable Care Act e a favore della privatizzazione del Medicare. La sua scelta del Ministro del lavoro è andata a favore di un tycoon del fast-food che è stato un oppositore vociante sia dell’Obamacare che dell’aumento dei salari minimi. E i Repubblicani hanno già presentato in Parlamento delle proposte per un taglio deciso della Social security, incluso un aumento drastico dell’età pensionabile.

Che effetto potranno avere queste politiche? L’Obamacare ha prodotto una grande riduzione dei non assicurati nelle regioni che quest’anno hanno votato per Trump; e abrogandola, tutti questi vantaggi sarebbero annullati. L’ Urban Institute, una istituzione non partigiana, stima che l’abrogazione porterebbe alla perdita della copertura assicurativa per 30 milioni di Americani – 16 dei quali bianchi non ispanici.

E certamente non ci sarà una alternativa “terrific”: i piani dei Repubblicani porteranno a coprire soltanto una frazione delle persone che saranno escluse: saranno favoriti i più giovani, più in salute, più ricchi. Convertendo Medicare in un sistema di voucher si realizzerà un taglio severo dei benefici, in parte perché porterà a una riduzione della spesa pubblica, in parte perché una parte significativa della spesa sarà dirottata sui margini e i profitti delle compagnie di assicurazione. E aumentare l’età pensionabile necessaria per ottenere la Social Security colpirebbe soprattutto gli Americani la cui aspettativa di vita sta stagnando o si è ridotta, o quelli che sono disabili e hanno difficoltà a proseguire nel lavoro – tutti problemi che sono strettamente correlati ai voti che sono andati a Trump.

In altre parole, il movimento che sta per prendere il potere non è lo stesso che caratterizza i movimenti di estrema destra europei. Possono condividere il razzismo e il disprezzo per la democrazia; ma il populismo europeo è perlomeno in parte reale, mentre il populismo di Trump si sta rivelando del tutto falso, una truffa venduta agli elettori della classe operaia che avrà un brusco risveglio. Il nuovo regime ne pagherà il prezzo politico?

Bene, non ci conterei. Questo epico adescamento, questo tradimento dei sostenitori di Trump offre certamente ai Democratici una opportunità politica. Ma ci sarà un impegno enorme per scaricare altrove le colpe. Si affermerà che il collasso della assistenza sanitaria è responsabilità degli errori di Obama; che il fallimento di possibili alternative riformatrici è responsabilità dei Democratici recalcitranti; ci saranno infiniti tentativi di distrazione dell’attenzione della popolazione.

Aspettiamoci più acrobazie “Carrier-style” (il salvataggio di 1000 posti di lavoro nell’Indiana sbandierati nella campagna elettorale di Trump) che, naturalmente, non aiutano i lavoratori, ma che hanno dominato l’informazione partigiana. Aspettiamoci attacchi esasperati contro le minoranze. E vale la pena ricordare ciò che i regimi autoritari tradizionalmente fanno per spostare l'attenzione dalle loro politiche interne fallimentari; cioè, spostare l’attenzione su questioni estere. Magari una guerra commerciale contro la Cina, e magari qualcosa di peggio.

Occorre che l’opposizione faccia tutto quello che può per sconfiggere queste strategie di distrazione di massa. Soprattutto, non dovrebbe lasciarsi risucchiare in una collaborazione che la porterebbe a condividere almeno in parte la responsabilità delle scelte. Gli autori di questa truffa dovranno portarne l’intera responsabilità

POPULISM, REAL AND PHONY

by Paul Krugman
Authoritarians with an animus against ethnic minorities are on the march across the Western world. They control governments in Hungary and Poland, and will soon take power in America. And they’re organizing across borders: Austria’s Freedom Party, founded by former Nazis, has signed an agreent with Russia’s ruling party — and met with Donald Trump’s choice for national security adviser.

But what should we call these groups? Many reporters are using the term “populist,” which seems both inadequate and misleading. I guess racism can be considered populist in the sense that it represents the views of some non-elite people. But are the other shared features of this movement — addiction to conspiracy theories, indifference to the rule of law, a penchant for punishing critics — really captured by the “populist” label?

Still, the European members of this emerging alliance — an axis of evil? — have offered some real benefits to workers. Hungary’s Fidesz party has provided mortgage relief and pushed down utility prices. Poland’s Law and Justice party has increased child benefits, raised the minimum wage and reduced the retirement age. France’s National Front is running as a defender of that nation’s extensive welfare state — but only for the right people.

Trumpism is, however, different. The campaign rhetoric may have included promises to keep Medicare and Social Security intact and replace Obamacare with something “terrific.” But the emerging policy agenda is anything but populist.

All indications are that we’re looking at huge windfalls for billionaires combined with savage cuts in programs that serve not just the poor but also the middle class. And the white working class, which provided much of the 46 percent Trump vote share, is shaping up as the biggest loser.

True, we don’t yet have detailed policy proposals. But Mr. Trump’s cabinet choices show which way the wind is blowing.

Both his pick as budget director and his choice to head Health and Human Services want to dismantle the Affordable Care Act and privatize Medicare. His choice as labor secretary is a fast-food tycoon who has been a vociferous opponent both of Obamacare and of minimum wage hikes. And House Republicans have already submitted plans for drastic cuts in Social Security, including a sharp rise in the retirement age.

What would these policies do? Obamacare led to big declines in the number of the uninsured in regions that voted Trump this year, and repealing it would undo all those gains. The nonpartisan Urban Institute estimates that repeal would cause 30 million Americans — 16 million of them non-Hispanic whites — to lose health coverage.

And no, there won’t be a “terrific” replacement: Republican plans would cover only a fraction as many people as the law they would displace, and they’d be different people — younger, healthier and richer.

Converting Medicare into a voucher system would also amount to a severe benefit cut, partly because it would lead to lower government spending, partly because a significant fraction of spending would be diverted into the overhead and profits of private insurance companies. And raising the retirement age for Social Security would hit especially hard among Americans whose life expectancy has stagnated or declined, or who have disabilities that make it hard for them to continue working — problems that are strongly correlated with Trump votes.

In other words, the movement that’s about to take power here isn’t the same as Europe’s far-right movements. It may share their racism and contempt for democracy; but European populism is at least partly real, while Trumpist populism is turning out to be entirely fake, a scam sold to working-class voters who are in for a rude awakening. Will the new regime pay a political price?

Well, don’t count on it. This epic bait-and-switch, this betrayal of supporters, certainly offers Democrats a political opportunity. But you know that there will be huge efforts to shift the blame. These will include claims that the collapse of health care is really President Obama’s fault; claims that the failure of alternatives is somehow the fault of recalcitrant Democrats; and an endless series of attempts to distract the public.

Expect more Carrier-style stunts that don’t actually help workers but dominate a news cycle. Expect lots of fulmination against minorities. And it’s worth remembering what authoritarian regimes traditionally do to shift attention from failing policies, namely, find some foreigners to confront. Maybe it will be a trade war with China, maybe something worse.

Opponents need to do all they can to defeat such strategies of distraction. Above all, they shouldn’t let themselves be sucked into cooperation that leaves them sharing part of the blame. The perpetrators of this scam should be forced to own it.

«Ultimo arriva il capo dell’Antitrust Pitruzzella: un’agenzia statale bonifichi il web. L’Europarlamento ha approvato una risoluzione che definisce sospetta ogni critica all’Ue».

Il Fatto Quotidiano, 31 dicembre 2016 (p.d.)

La verità è un concetto complesso e spesso nel dibattito pubblico finisce per coincidere con l’opinione dominante. La “post-verità” invece - che è il modo in cui da qualche tempo le persone ben nate chiamano le leggende metropolitane, specie se diffuse sui social network - rischia di diventare un concetto manganello con cui esiliare dal pubblico dibattito tutto quel che non è mainstream: Brexit, l’elezione di Trump, il nostro referendum del 4 dicembre, tutto porta il segno della “post verità”, la quale ovviamente aiuta “i populisti”, altra parola manganello di cui non è chiaro il significato. Sembra più un fenomeno di rimozione: bisognerà pur trovare una spiegazione al fatto che gli elettori continuano a votare in maniera difforme rispetto a come gli dicono di fare il 90% dei media (su input, per così dire, dei loro referenti economici e politici). Colpa della post-verità.

E come si difende invece la “verità” che piace alla gente che piace? Un pezzo dell’establishment ha cominciato a pensare che si debba farlo in sostanza con la censura. Da ultimo, ieri, il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella. “La post-verità è uno dei motori del populismo ed è una minaccia per le nostre democrazie”, ha dichiarato nientemeno che al Financial Times: “Siamo a un bivio: dobbiamo scegliere se vogliamo lasciare Internet così com’è, un Far West, oppure se imporre regole in cui si tiene conto che la comunicazione è cambiata. Io ritengo che dobbiamo fissare queste regole e che spetti farlo al settore pubblico”.

In sostanza, Pitruzzella propone una rete di agenzie pubbliche che si occupino di bonificare il web (“pronta a intervenire rapidamente se l’interesse pubblico viene minacciato”) sulla base di parametri di verità stabiliti dallo Stato o, meglio, dalla maggioranza politica protempore (è appena il caso di ricordare che Pitruzzella, avvocato assai vicino a Renato Schifani, sta su quella poltrona su nomina dei presidenti di Camera e Senato). “La mia non è una proposta volta a creare forme di censura,ma a rafforzare la tutela dei diritti nella rete”, ha spiegato poi.

Il presidente dell’Antitrust, però, non è impazzito: il dibattito sulle fake news (notizie false) agita le élite intellettuali, politiche ed economiche sulle due sponde dell’Atlantico. L’Europarlamento, ad esempio, ha approvato il 23 novembre una risoluzione “per contrastare la propaganda nei confronti dell’Ue da parte di terzi”: un testo delirante che ha come centro una “guerra della bufala” (ma non la mozzarella) contro la Russia e un’altra contro la propaganda dell’Isis, ma che si presta - volendo - a usi più estensivi. Intanto nel testo si ricorda che libertà d’espressione e pluralismo dei media sono benedetti, ma “quest’ultimo può tuttavia essere in certa misura limitato”. Poi si propone una sorta di lista nera delle “fonti dei media che in passato siano state ripetutamente impegnate in strategie di disinformazione”(qualunque cosa significhi). È comunque considerato sospetto fare “propaganda ostile nei confronti dell’Ue” o “screditare le istituzioni Ue e i partenariati transatlantici” (la Nato).

Questa è la formula della dannazione: “Sebbene non tutte le critiche nei confronti dell’Ue siano necessariamente propaganda o disinformazione, i casi di manipolazione o di sostegno legati a Paesi terzi e intesi ad alimentare e a esacerbare tale critica danno adito a dubbi sull’affidabilità dei messaggi”. Tradotto: se criticate l’Ue siete tipi sospetti, probabilmente al soldo di Putin o dell’Isis. Un singolare delirio maccartista. Tornando in Italia, il tema è caldo da quando 20 milioni di italiani hanno bocciato la riforma costituzionale. Ovviamente Renzi ha usato l’argomento da par suo: “Abbiamo perso sul web. Lo abbiamo lasciato ai diffusori di falsità” (ce l’ha col M5s). Il Guardasigilli, Andrea Orlando, ha invece detto al Foglio che una soluzione per “disincentivare la post-verità” è “la trasformazione di Facebook in qualcosa di simile a un editore” (cioè rendere l’azienda responsabile per i contenuti degli utenti, idea che piace anche alla Merkel).

Come spesso capita è dall’antica saggezza democristiana - che in questo caso ha le fattezze del viceministro Antonello Giacomelli (Pd) - che arriva un richiamo al buon senso: “Attenti a non trasformare Facebook in un gigantesco alibi per coprire fenomeni più profondi e complessi o semplicemente il nuovo che avanza”.

«Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento».

connessioniprecarie online, 24 dicembre 2016 (c.m.c.)

Già si vedono i primi fallimenti dell’antitrumpismo, versione riveduta e corretta dell’italico antiberlusconismo di una quindicina di anni fa. Il riconteggio dei voti, richiesto dalla candidata verde Jill Stein per presunti brogli in Wisconsin, dove Trump ha prevalso su Clinton per soli 22 mila voti, si è concluso con l’assegnazione di 130 voti in più a Trump.

L’appello ai grandi elettori repubblicani per non confermare la vittoria di Trump, sostenuto con centinaia di migliaia di firme, non ha ottenuto alcun effetto. L’idea che sta alla base di queste iniziative è che Trump rappresenti un vulnus per l’assetto istituzionale americano che rimane, pur con alcune distorsioni, democratico e in salute.

Il preambolo della Costituzione americana, We the people, diventa il feticcio continuamente agitato, come se di per sé costituisse un antidoto al tycoon newyorchese. Ma dopo i tre strappi avvenuti negli ultimi 16 anni, tutti a svantaggio dei democratici, – Gore che prende più voti di Bush senza diventare presidente, i democratici con più consensi ma in minoranza, con 30 deputati in meno dei repubblicani alla Camera dei rappresentanti nel 2012 e i quasi 3 milioni di voti di scarto di Clinton rispetto a Trump – la distanza tra il sistema rappresentativo americano e la volontà degli elettori contraddice anche gli stessi principi della democrazia liberale.

La contraddizione si approfondisce se si guarda a una Hillary Clinton che vince nettamente nel 15% delle contee (in pratica le due coste), dove si produce il 65% del Pil, e Trump nel restante 85%, in quello che viene chiamato paese-cavalcavia. Detto in altri termini, una maggioranza elettorale e una potenza economico-finanziaria concentrate territorialmente che vengono sconfitte da una minoranza di elettori diffusa e articolata in una varietà di interessi anche contrapposti.

Come Trump e il suo establishment riusciranno a far convivere, non certo a comporre, l’estrema destra della Alt-Right con le concrete rivendicazioni degli operai del Michigan delusi dal sindacato e dal partito democratico rimane una domanda aperta. Anche se, osservando come si è mosso in questi due mesi scarsi il transition-team, il gruppo creato da Trump per gestire le nomine della futura amministrazione e il suo posizionamento politico, alcuni elementi vengono alla luce.

Dopo una prima fase in cui la scelta era orientata a ricucire con il gruppo dirigente del partito repubblicano, attenuando le fratture, si è repentinamente cambiato registro quando Trump e il suo staff, nel tour di «ringraziamento» post-elettorale attraverso gli Stati Uniti, hanno realizzato che, per mantenere il consenso, non potevano discostarsi molto da quell’immagine di populista autoritario e decisionista costruita nelle primarie e nella campagna elettorale. Un’immagine appunto che mette in tensione l’intero sistema istituzionale e rappresentativo senza però arrivare alla rottura conclamata. È la forza e la debolezza di Trump: non adeguarsi ma nemmeno rompere, pena essere travolto dal terremoto che lui stesso ha provocato.

Una presidenza, dunque, che sarà segnata da un defatigante e continuo work in progress, con l’incidente politico e diplomatico sempre dietro l’angolo. Tutto ciò può reggere a condizione che il conflitto sociale sia represso o, nella peggiore delle ipotesi, perimetrato e confinato politicamente e territorialmente. Non è un caso che nelle dichiarazioni di Trump e negli incarichi annunciati della prossima Amministrazione l’incompatibilità, implicita o esplicita, sia stata individuata nella lotta dei Sioux a Standing Rock, in Black Lives Matter e nella campagna per un salario minimo di 15 dollari all’ora.

La lotta iniziata dai Sioux Lakota contro l’oleodotto che inquinerà le falde acquifere dei loro territori ha progressivamente assunto il valore politico della contestazione generale. Una resistenza che dura da mesi, che ha richiamato nel Nord Dakota rappresentanti di centinaia di tribù di nativi e qualche migliaio di attivisti e che inquieta il team di Trump, che teme innanzitutto una possibile riedizione a Standing Rock dell’occupazione, armi alla mano, di Wounded Knee organizzata alcune centinaia di Sioux Oglala dell’American Indian Movement nel marzo-aprile del 1973.

In seconda battuta il timore deriva dalla possibile riproduzione in una grande metropoli dell’occupazione di spazi urbani e della possibilità che vengano autogestiti con un’organizzazione più strutturata di quella dimostrata da gran parte del movimento Occupy. Senza sottovalutare poi la possibilità che si attivino non prevedibili percorsi di politicizzazione, come ad esempio quelli dei giovani Sioux in dissenso con i consigli degli anziani che gestiscono i campi della protesta nel Nord Dakota.

Quanto a Black Lives Matter, nonostante la coalizione di gruppi, collettivi, associazioni che vi si riconoscono non stia attraversando, dopo l’elezione di Trump, una fase particolarmente dinamica di attivismo, essa mantiene tuttavia una capacità di mobilitazione che può ripresentarsi in ogni momento a causa di uno degli innumerevoli omicidi di afroamericani che la polizia continua a compiere. La necessità di un salto qualitativo, come quello tentato con Ferguson Action dopo l’esplosione della rivolta di due anni fa nella città del Missouri, continua a essere evocata.

Se in Black Lives Matter si consolidasse la tendenza che, anziché interpretare tutto come la volontà di affermazione di un suprematismo bianco, legge il razzismo istituzionale come il modo del «normale» funzionamento politico e sociale della cosiddetta società post-razziale americana, si aprirebbero spazi inediti di soggettivazione all’interno delle comunità afroamericane. Black Lives Matter continua a essere su un crinale tra la necessità di sostanziare politicamente e socialmente il razzismo istituzionale e la difficoltà a emanciparsi dal peso della tradizione delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. È chiaro che, se dovesse imboccare decisamente la prima strada, per la presidenza Trump si aprirebbe un fronte difficilmente governabile con la sola repressione.

Sono passati 4 anni dal primo sciopero a New York – illegale secondo la legge in vigore in quello stato e in quella città – dei lavoratori dei fast food per un salario minimo di 15 dollari all’ora. Un movimento nato dall’impulso di associazioni del volontariato civile e religioso e di settori attivi del movimento Occupy, che inizialmente scontava l’opposizione dei principali sindacati. In questi 4 anni si sono succedute varie fasi: dalle giornate di azione coordinate a livello nazionale alla promozione di referendum in vari Stati alla pressione sulle amministrazioni locali per adottare delibere a sostegno del salario minimo. In mezzo c’è stato anche il tentativo della SEIU, il principale sindacato dei lavoratori pubblici, di governare il movimento tentando di azzerare la rappresentanza che si era dato.

Un tentativo che ha avuto però l’effetto di un boomerang quando si è scoperto che, per raggiungere il suo scopo, la SEIU aveva assunto temporaneamente alcune centinaia di precari, dopo un breve corso di «attivismo», pagandoli meno di 15 dollari all’ora. In altri termini, un sindacato che per sostenere la lotta per un salario minimo di 15 dollari all’ora sfrutta una forza-lavoro precaria pagandola meno della rivendicazione minima che vuole perseguire. Attualmente in nessuno Stato e in nessuna città, nonostante gli impegni presi, è in vigore un salario minimo di 15 dollari all’ora.

E dalla seconda metà di novembre il conflitto è ripreso in varie città e catene di fast food. La decisione di Trump di nominare a capo del Dipartimento del Lavoro Andrew Puzder, amministratore delegato della grande catena CKE Restaurants e nemico dichiarato del salario minimo, è un messaggio esplicito. Da una parte si annunciano grandi piani di investimento per ammodernare le infrastrutture del paese, al limite dell’aborrito keynesismo, scommettendo su un rilancio dell’industria manifatturiera e quindi di posti di lavoro, anche per consolidare il consenso tra gli operai che lo hanno votato; dall’altra, si vuole ulteriormente precarizzare, se non clandestinizzare, una forza-lavoro, soprattutto migrante o di origine migrante, che lotta per il salario minimo. Un fronte aperto che preoccupa non poco l’Amministrazione che sta per entrare in carica.

Il 20 gennaio Trump assumerà i pieni poteri come presidente degli Stati Uniti e si annunciano per quel giorno e i successivi varie manifestazioni che contesteranno l’evento. Inizia anche a circolare la parola sciopero con grande dispiacere di Richard Trumka, presidente della Afl-Cio, la maggiore confederazione sindacale, che si è affrettato a smentire un loro coinvolgimento.

Che sia ancora viva la memoria dello sciopero generale del novembre 2011, organizzato a Oakland dal movimento Occupy dopo 65 anni dall’ultimo sciopero generale, violando le leggi in vigore e scavalcando le organizzazioni sindacali?

«Nessun dibattito in direzione, solo applausi per Renzi e urla contro l'unico (Tocci) che si alza a chiedere di discutere la posizione con la quale andare da Mattarella. Ma il segretario aveva già deciso, e comunicata le sue mosse agli "amici della enews". E a Giorgio Napolitano».

Il manifesto, 8 dicembre 2016 (m.p.r.)

«Adesso basta con le direzioni in cui Renzi parla da solo e agli interventi vengono lasciati appena pochi minuti», aveva detto più di un dirigente del Pd, dandosi un po’ di coraggio dopo la sconfitta del segretario al referendum. E così ieri ha parlato solo Renzi, e poi basta. Riunione finita, malgrado il tentativo di Walter Tocci – uno che ha votato No e per questo è stato accolto dalle grida «vergognati» – di far presente che la linea del partito con la quale andare al Quirinale andava almeno discussa. Non c’è tempo, Renzi deve salire al Quirinale . «Discuteremo quando la crisi si sarà risolta», ha detto il presidente del partito Orfini. Inutile far notare che la direzione è cominciata tre ore più tardi della prima convocazione, il tempo ci sarebbe stato. Invece niente, nessun intervento, nessuna discussione, E poi Renzi la linea l’aveva già comunicata, prima ancora della direzione, agli «amici della enews» dal suo sito personale. «Governo di responsabilità nazionale sostenuto anche dagli altri partiti», oppure «al voto subito dopo la sentenza della Consulta».

Questa è la posizione del Pd cioè di Renzi, le due cose ancora coincidono. Nella sconfitta il presidente del Consiglio dimissionario non è molto cambiato, ha rimandato la resa dei conti interna ma ha già annunciato che sarà «dura». E ha dato un anticipo: «So che tra noi qualcuno ha festeggiato in modo non elegantissimo, lo stile è come il coraggio non ce lo si può dare». Un attacco ai rappresentanti della minoranza – già fischiati all’ingresso della direzione da truppe renziane – accusati di tradimento e anche di vigliaccheria. Nell’attesa dell’analisi del voto (ma quella delle sconfitte non c’è mai stata), il segretario, saldo nel ruolo, comincia anche a dare le carte, e può ringraziare il tempestivo assist di Pisapia: «Dobbiamo pensare cosa significa un partito a vocazione maggioritaria nel nuovo quadro».

Significa alleanze, ovviamente, a sinistra con la formazione che l’ex sindaco di Milano ha immaginato ieri, mentre a destra c’è sempre Alfano. Ci sarebbe anche la minoranza Pd, ma ancora per poco nei piani renziani. Non per niente in nessuno dei suoi scenari viene nominato il congresso, che pure allo stato potrebbe vincere facile. Il segretario prevede di risolvere la pratica cancellando ogni traccia bersaniana dalle liste elettorali.
Il piano A, quello del governo istituzionale – in ipotesi, Grasso – è quello che sembra piacere meno a Renzi, visto che già vede il rischio di «pagare il prezzo della solitudine della responsabilità»; un coinvolgimento pieno di Forza Italia è incerto mentre è certamente escluso quello di leghisti e grillini. Ma anche il piano B, elezioni subito, è diverso da quello presentato: tanto subito non potrà essere. Mettendo in fila l’udienza della Corte costituzionale sull’Italicum (24 gennaio), il tempo anche minimo per la scrittura delle motivazioni, il tempo necessario al parlamento per adeguare i sistemi elettorali residui alle decisioni della Corte e i 45 giorni almeno che devono trascorrere tra lo scioglimento delle camere e le nuove elezioni, si arriva al più presto a fine aprile. Quasi a ridosso del vertice G7 di Taormina al quale Renzi tiene molto. Ma non è solo per questo che il presidente del Consiglio uscente immagina di poter essere ancora lui a guidare l’esecutivo «elettorale», pensa cioè di poter riavere l’incarico.

In fondo ha appena incassato la fiducia del senato, il ramo più problematico del parlamento, e con un margine persino maggiore rispetto all’esordio, nel 2014. Per evitare imbarazzi (accadde a Bersani), Renzi non farà parte della delegazione per le consultazioni, basteranno i fidati Guerini, Rosato, Zanda e Orfini. La baldanza (e il consueto ritardo di 45 minuti) con la quale si è presentato alla direzione che avrebbe dovuto «processarlo» per la sconfitta, è indicativa. Come i dettagli: poco prima di recarsi al Quirinale per (in teoria) ricevere istruzioni dal presidente della Repubblica, ci ha tenuto a far sapere di aver «parlato al telefono con Giorgio Napolitano» per «ringraziarlo». Quando l’ex capo dello stato è, con lui, il principale responsabile del disastro. A cominciare dal contrasto tra sistema elettorale e sistema istituzionale che impedisce di votare subito.

Dopo il referendum dovranno mutare molte cose, che le iniziative del sindacato dei lavoratori già hanno messo sul tappeto. «Non si può perseguire una artificiosa separazione tra l’insieme del sistema e le sue diverse componenti, isolando e privilegiando solo, o quasi esclusivamente, quelle in cui si esprime direttamente la funzione di governo».

La Repubblica, 8 dicembre 2016

UN TERREMOTO ha colpito domenica il sistema politico italiano. Ne ha sbriciolato il vertice, come dimostrano le immediate e inevitabili dimissioni del Presidente del Consiglio, e la conseguente crisi di governo. Ha bloccato il tentativo di impadronirsi della dimensione costituzionale facendola diventare affare di parte. Non ha certificato la sconfitta di una persona, ma il fallimento di un progetto politico. Questo progetto manifestava una forzatura evidente, e pericolosa, perché negava sostanzialmente la dimensione costituzionale come terreno comune di confronto, non riducibile alle esigenze della mera attualità politica. La risposta popolare, affidata a un No che ha assunto dimensioni inattese, impone ora di considerare il modo in cui si intrecciano democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Una nuova legge elettorale, di conseguenza, non dovrebbe soltanto assicurare la governabilità sulla quale tanto si insiste, ma garantire anche quella rappresentatività che la Corte costituzionale, nel giudicare illegittimo il Porcellum, ha individuato come necessario principio di riferimento.

Intanto, dal mondo sindacale, con particolare convinzione, arrivano indicazioni importanti, affidate a scelte impegnative e, in più di un caso, innovative. È stata imboccata con determinazione la strada dell’intervento diretto dei cittadini. La Cgil ha raccolto più di tre milioni di firme su temi di particolare rilievo, che già occupano un posto importante nella discussione pubblica. Si tratta della cancellazione di norme del cosiddetto Jobs Act – quelle riguardanti i voucher, divenuti sempre più strumento del precariato; la disciplina delle forme di reintegro nei casi di licenziamenti illegittimi, dopo l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori; e le norme sulla responsabilità solidale nei contratti di appalto. L’anno prossimo ci porterà dunque una stagione in cui la voce dei cittadini si farà sentire con particolare intensità.

Questa novità deve essere seriamente considerata perché conferisce una ulteriore, forte legittimazione all’istituto del referendum, divenuto ormai sempre più centrale nell’intero processo istituzionale. Una dinamica, questa, che esige certamente una continua riflessione critica, ma che tuttavia non può poi tradursi in una diffidenza che spinga a non dare il giusto rilievo a quelli che sono sempre più spesso rilevanti dati di realtà. E non può divenire l’occasione o il pretesto per non misurarsi fino in fondo con le trasformazioni che già il nostro sistema ha conosciuto proprio per effetto del moltiplicarsi delle occasioni in cui la decisione finale contempla un diretto protagonismo dei cittadini. Il fatto che il più grande sindacato italiano abbia deciso di affidarsi al referendum per dar seguito concreto a sue iniziative assai impegnative rappresenta una innovazione significativa per il processo istituzionale nel suo complesso.

La stessa eventuale sottolineatura di possibili rischi o effetti negativi è parte di una corretta analisi realistica, che tuttavia non può giustificare disinteresse o addirittura rifiuto di una novità così rilevante. Si deve piuttosto considerare il fatto che la prossima stagione politica sarà accompagnata da strategie nuove dei diversi soggetti sociali e, quindi, dalla messa a punto di forme politiche coerenti con questi cambiamenti. Il sindacato si sta muovendo con modalità che inducono a ritenere che intende riprendere quel ruolo in largo senso istituzionale che gli era stato lungamente congeniale e che si era venuto indebolendo, o addirittura perdendo, in una stagione che ha visto la dichiarata ostilità del governo verso i corpi intermedi fino a escludere la legittimità stessa della loro consultazione. Si sta operando una continua e progressiva modifica delle condizioni che rendono possibile le stesse forme dell’azione collettiva e le loro modalità. Una eventuale disattenzione sindacale per questi mutamenti avrebbe come effetto una perdita di peso e di evidenza del sindacato stesso.

Diventa in questo modo chiaro che non si può perseguire una artificiosa separazione tra l’insieme del sistema e le sue diverse componenti, isolando e privilegiando solo, o quasi esclusivamente, quelle in cui si esprime direttamente la funzione di governo. La presenza sindacale, in particolare, contribuisce a riportare l’attenzione sul merito delle questioni e a liberare almeno in parte la fondamentale materia costituzionale dall’impronta personalistica che ne ha finora marcato persino eccessivamente la discussione. Nessuna politica sociale può assumere consistenza in un contesto in cui unico, o comunque principale, riferimento rimanga il solo governo.

« La Repubblica, 7 dicembre 2016 (c.m.c.)

Il dato più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.

Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.

Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%. Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse.

Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte. Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.

Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare. Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare.

L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale ».

L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.

In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.

La riforma Renzi- Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate.

Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti. Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.

«Il giornalismo ufficiale ha smesso di leggere e raccontare la realtà per farsi parte e difensore dell'establishment e come tale è percepito dall'opinione pubblica. Le sue opinioni, non "separate dai fatti" ma semplicemente contro i fatti, non influenzano più nessuno».

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2016 (m.p.r.)

Ero sicuro del trionfo del No al referendum costituzionale fin dalla scorsa estate e gli evidenti errori di Matteo Renzi nella campagna referendaria hanno infine confermato le mie certezze.

Questo non perché io sia dotato di particolari virtù profetiche - perdo regolarmente le scommesse sul calcio - ma perché da molti anni faccio un bellissimo e privilegiato mestiere, il giornalista, che comporta l'abitudine a leggere la realtà così com'è e non come la vorremmo o come la interpretano le ideologie o i sondaggi. Attraversando la vita reale nei luoghi di lavoro, al supermercato, sugli autobus o al bar, era solare che Renzi stesse viaggiando a tutta velocità contro un muro.

La questione allora è: perché nessuno l'ha capito? Non parlo tanto di Matteo Renzi e della sua mediocre corte. Il governo che ci lasciamo alle spalle è stato fra i più dilettanteschi della storia della Repubblica. Verrebbe da dire: infantili. Capita a tutti di sbagliare, naturalmente, ma almeno da professionisti, come direbbe Paolo Conte, in un mondo adulto. Renzi ha sbagliato da dilettante, scommettendo tutto su una partita persa in partenza. Matematicamente persa in partenza, come scrivevo già a giugno.

Al vizio d'origine - un calcolo insensato - il premier ha aggiunto una strategia fallimentare, puntando come elemento di forza sull'estrema personalizzazione lideristica del quesito e fidandosi del sostegno di un coro di media che comprendeva la Rai più governativa di sempre, le reti Mediaset e molti grandi giornali. Senza capire che oggi l'endorsement o comunque la simpatia dei grandi media d'informazione non costituisce un vantaggio, ma piuttosto un handicap.

Il giornalismo ufficiale ha smesso di leggere e raccontare la realtà per farsi parte e difensore dell'establishment e come tale è percepito dall'opinione pubblica. Le sue opinioni, non "separate dai fatti" ma semplicemente contro i fatti, non influenzano più nessuno. E il ricorrente tentativo di terrorizzare il pubblico come si fa con i bambini, minacciando l'arrivo dell'uomo nero se non faranno i buoni, suona ormai patetico come la visione di uno spaventapasseri di stracci in un campo di grano.

Non per caso Grillo e Farage, Trump e Podemos, sia pure con le enormi differenze fra loro, hanno fatto dell'attacco sistematico ai grandi media un mantra di successo. Queste forze avanzano nel consenso non "nonostante" le scomuniche di giornali e tv perbene che li etichettano come populisti, ma in buona parte grazie a quelle.

Con la stessa superficialità e ignoranza del paese reale esibite lungo la stagione narcisistica del renzismo, ora i media perbene scoprono di colpo tutte le critiche al capo mai espresse in tre anni e grondano di consigli al piccolo principe per evitare la sconfitta di ieri, e dunque oggi utilissimi. Si può affrontare la questione in vari modi. Alimentando una polemica fra giornalisti, di cui poco importa.

Oppure facendo del moralismo, altrettanto irrilevante, per segnalare la propria diversità di liberi pensatori controcorrente rispetto agli allineati guardiani del potere. Ma la faccenda è altra e ben più seria. Riguarda la totale separatezza delle classi dirigenti dalla vita quotidiana dei cittadini. Tutte le oligarchie tendono a trasfigurare la realtà e piegarla ai propri interessi.

Ma per due secoli la funzione dell'informazione è stata appunto quella di mediare fra classi dirigenti e cittadini, riportando la discussione pubblica dentro confini reali e razionali. Oggi i media appaiono ancora più lontani dal reale di quanto non lo siano le oligarchie e il potere si abbevera a fonti d'informazione che confermano ogni giorno una visione distorta della società, scambiando le narrazioni di chi comanda per fatti concreti. Nel rimproverare i nuovi media di diffondere una "post verità" i vecchi media non si rendono conto di essere loro stessi ormai dei falsari.

Per tornare al referendum, non c'era davvero bisogno di aspettare il voto del 4 dicembre per capire che gli esclusi e i dimenticati, i giovani disoccupati e precari, le periferie del Nord, le regioni del Sud, tutti coloro insomma che non contano nulla per questa economia malata, il giorno in cui avrebbero potuto contare si sarebbero precipitati a votare contro il sistema.

La speranza è che almeno la lezione sia servita. Lo vedremo nelle prossime difficili settimane. Perso il referendum, Renzi è passato al piano B, che prevede elezioni subito. Aveva giurato che avrebbe abbandonato la politica e dovrebbe ritirarsi su una panchina con un cartoccio di fish and chips come David Cameron, che in fondo ha perso di poco e non contro una marea di No.

Chiederà invece il voto anticipato perché è l'unico modo di conservare la poltrona di segretario del Pd, avendo dovuto per la forza dei fatti (e non per coerenza, non siamo ridicoli) rinunciare a quella di premier. Ed è anche l'unico modo per completare il suo inconsapevole mandato storico, che sembra quello di demolire il sistema politico italiano ed europeo.

Checché ne dicano i suoi sciocchi consiglieri, gli stessi che avevano festeggiato con un "ciaone" l'inizio della fine con il referendum sulle trivelle, il Pd di Renzi non riuscirà mai a trasformare in consensi diretti il 40 per cento di Sì alla riforma. Anzi, se sarà confermato l'Italicum, il Pd in questa condizione rischia di non arrivare neppure al ballottaggio.

Alla fine sarebbe il trionfo dei 5 Stelle, persone che vivono nella realtà e non nel palazzo e per questo sono destinati a crescere nel consenso. Purtroppo non sono ancora attrezzati per governare. L'italia rischia così un cortocircuito che getterebbe nel buio l'intera Europa.

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