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Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.

Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato.

Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o a una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”. In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata.

È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi. Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Québec fu costretto a fare marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.

Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà. Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.

I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia. Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di tre dei cinque paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali. Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali.

Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate. Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.

In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.

Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]

Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto: “…i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”.

Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era “compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.

Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.

È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.

[1] Haegel F., « Mémoire, héritage, filiation : Dire le gaullisme et se dire gaulliste au RPR », Revue française de science politique, vol. 40, no 6,‎ 1990, p. 875

«Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo».

la Repubblica, 10 settembre 2017 (c.m.c)

La democrazia senza partiti e contro i partiti è stata negli ultimi tre decenni la risposta, non soltanto emotiva, alla caduta della democrazia dei partiti nella polvere della corruzione, portata in tribunale per aver mercanteggiato con i soldi pubblici il sostegno di privati potenti e gruppi di potere. I partiti hanno gestito le istituzioni e la macchina elettorale, come si supponeva che dovessero fare — ma lo hanno fatto non per perseguire obiettivi di interesse generale e tra loro alternanti, ma per mantenere la posizione dentro le istituzioni. Tra i frutti della risposta emotiva al declino della democrazia dei partiti vi è il Vaffa Day, il movimento dei cittadini al quale Beppe Grillo ha dato voce - gentismo invece che partitismo.

Ma la ruggine contro la democrazia dei partiti precede di molto il fatidico 1992. Nasce insieme alla repubblica dei partiti, in Assemblea Costituente c’erano anche i rappresentanti dell’Uomo Qualunque, il movimento-partito di Guglielmo Giannini, anch’esso con un’ideologica gentista e anti-partitista, liberale e anti-statalista, orientata a destra. Molte pulsioni dell’uomoqualunquismo sono ricomparsi nel Vaffa Day. Ma l’antipartitismo ebbe anche propaggini più a sinistra; per esempio con una visione comunitaria di democrazia che doveva unire competenza e partecipazione, creare un ordine sociale strutturato per gruppi di funzioni complementari invece che per individui. Simile a questo fu il sogno di Adriano Olivetti di una “democrazia senza partiti”, dal quale emerse il co-fondatore del M5S, Gianroberto Casaleggio.

La sua impronta sul movimento è ben espressa nel volume pubblicato insieme a Beppe Grillo, Siamo in guerra, dove si profetizza una visione di “mondo nuovo” fatto di connettività, senza partiti e possibilmente senza istituzioni statali perché senza un “dentro” e un “fuori”. La totalità della Rete come preambolo di una società totale tecnocratica e senza più parzialità partigiane: il mito di una società coesa e integrata per autonoma cogestione — un mito libertario e tuttavia non individualista; organico ma senza gerarchie. Questo doveva essere il progetto del non-partito M5S.

Scriveva Norberto Bobbio che i critici della rappresentanza politica sono anche critici della democrazia dei partiti. Il loro sogno è di avere una rappresentanza diretta o una delega con mandato imperativo (come propose appunto Grillo nel 2013, quando il suo gruppo portò un esercito di rappresentanti in Parlamento), così da togliere libertà agli eletti e superare la detestata divisione “dentro/fuori”. Ma quale sarebbe l’esito di questo mito totalizzante? L’esito sarebbe una democrazia di partiti personali, ammoniva Bobbio, in cui i signori Bianchi o Rossi chiedono voti in nome di quel che dicono e sono. Votandoli, tuttavia, si finirà per dar vita veramente a un Parlamento di plenipotenziari che faranno quel che vorranno poiché loro saranno il partito, decidendo senza limiti l’azione legislativa e di governo. Al di fuori di una piccola città-Stato, la democrazia senza partiti è un tremendo sistema di potere che possiamo chiamare “rappresentativo patrimoniale”, un termine che è un ossimoro, poiché la rappresentanza moderna è stata la pietra tombale del patrimonialismo.

Eppure, la storia è capace di darci ossimori e sorprese. E a leggere Supernova di Nicola Biondo e Marco Canestrari si ha il timore di trovarsi di fronte a una forma di potere davvero inedita e molto inquietante. Il libro parla del M5S nell’età di Luigi Di Maio come la chiusura del cerchio: la trasformazione da puro movimento anti-partito a movimento di qualcuno, del leader designato Di Maio. “A quel punto il Movimento non sarà altro che lui”. Proprio come aveva paventato Bobbio riflettendo sull’ondata di anti- partitismo, allora solo all’inizio.

La transizione assai veloce dal “movimento di tutti” al “partito di qualcuno”, dal gentismo al personalismo senza contrappesi (poiché la Rete stessa è stata esautorata) ci conferma la grande diffidenza che dobbiamo nutrire nei confronti della propaganda anti-partitica. I partiti- associazione, con statuti pubblici (possibilmente attenti a trovare contrappesi al potere del leader nel potere degli iscritti e di organi collegiali di discussione e decisione), sono una garanzia e un baluardo contro i partiti- di-qualcuno, anche quando il qualcuno non è un ricco uomo d’affari. Quel che appare dalle trasformazioni del M5S è che il “capitale” del consenso-via-audience può generare una versione post- moderna di patrimonialismo: dove il patrimonio è l’assenza di struttura e la presenza differita via Rete di un pubblico indefinito.

».

la Repubblica, 8 settembre 2017 (c.m.c)

Il ruolo dei Parlamenti nel combattere le disuguaglianze e nel costruire società inclusive” è uno dei tre temi che verranno affrontati al G7 dei Parlamenti che si incontrerà oggi e domani tra Roma e Napoli. Gli altri due sono i rapporti con i cittadini e l’ambiente. Pur senza sopravvalutare la portata di incontri che hanno, nel migliore dei casi, una valenza più simbolica che altro, è interessante che i rappresentanti dei parlamenti dei paesi più sviluppati, inclusa l’Italia che li ospita, si pongano un tema che fino a non molto tempo fa era considerato fuori moda, oltre che troppo connotato come “di sinistra”.

Rimesso con forza all’attenzione anche dagli ultimi rapporti Ocse, soprattutto a seguito degli effetti asimmetrici della crisi, esso è entrato nel dibattito e nell’agenda politica. Le disuguaglianze di reddito, infatti, sono aumentate in quasi tutti i paesi e ancor più quelle nella ricchezza, con l’Italia che si trova nel gruppo dei paesi con maggiore disuguaglianza, benché sotto gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma sopra Francia e Germania. A complicare la questione, per l’Italia, sta il fatto che il tasso di disuguaglianza è più alto nelle regioni più povere, nel Mezzogiorno, a conferma che vi è un nesso, come sottolinea anche l’Ocse, non solo tra disuguaglianza e povertà, ma anche tra disuguaglianza e difficoltà nello sviluppo.

Le disuguaglianze non riguardano, per altro, solo quelle nel reddito e nella ricchezza, ma la divisione del lavoro e delle opportunità tra uomini e donne, le chances di mobilità sociale, di sviluppo e valorizzazione del proprio capitale umano e di partecipazione sociale, tra persone di diversa origine sociale. Per non parlare delle disuguaglianze tra aree geografiche del mondo che, insieme alle guerre e alle dittature, sono all’origine di gran parte dei fenomeni migratori.

Se vi è consenso ormai abbastanza diffuso che le disuguaglianze possano costituire un problema per la tenuta e lo sviluppo di una società, il dissenso si sposta sulle cause e anche sul tipo di disuguaglianze che sono percepite, appunto, come problema e, di conseguenza, come oggetto di possibili policy. Gran parte del successo dei populismi si basa sulla individuazione di un particolare tipo di disuguaglianza, o di relazione tra diseguali, con una dicotomizzazione netta tra “noi” e “loro”, che si tratti di autoctoni delle fasce di popolazione più marginalizzate contro gli immigrati, dei giovani contro i vecchi, dei “cittadini” contro i “politici”, dei “poveri” contro “i ricchi”, dei paesi mediterranei contro il nord Europa (e viceversa).

Queste dicotomizzazioni aiutano a raccogliere consensi, ma non a effettuare analisi adeguate della situazione, quindi a sviluppare quelle politiche integrate e di largo raggio che sole possono contribuire a ridurre le disuguaglianze, non solo ingiuste, ma inefficienti dal punto di vista dello sviluppo e del ben-essere collettivo. Si tratta, necessariamente, di un mix di politiche redistributive, che proteggano dagli effetti della disuguaglianza, e di politiche pre-distributive, che intervengano sui vincoli alla formazione e valorizzazione del capitale umano (fin da bambini), che rimuovano gli ostacoli alla partecipazione, che intervengano a impedire la formazione di rendite monopolistiche nel mercato.

È qui che si definisce, a mio parere, il ruolo dei parlamenti, se si pongono il compito del contrasto alle disuguaglianze. Proprio perché sono l’arena in cui si confrontano interessi diversi, hanno, avrebbero, un’opportunità unica di costruire un discorso pubblico e una azione legislativa non polarizzate/polarizzanti, e neppure frammentate per accontentare questo o quel gruppo, ma sistematiche e inclusive. Ove il termine “inclusive” dovrebbe significare politiche, e leggi, che si coordinano nell’obiettivo di contrastare le disuguaglianze, definendo chiaramente interconnessioni, ma anche priorità e gradualità, al fine di rafforzarsi reciprocamente, ma anche di non contraddirsi e creare nuove forme di disuguaglianza - una eventualità ricorrente, ahimè, in molte politiche italiane.

Questo compito di coordinamento delle politiche e di monitoraggio delle conseguenze delle proprie decisioni dovrebbe essere fatto proprio dai parlamenti anche in un’ottica internazionale. Mi rendo conto che si tratta di un auspicio ingenuo, specie in questo periodo dove tornano i nazionalismi e i muri. Ma è una questione che non può essere elusa se si vogliono davvero contrastare le disuguaglianze.

« la Repubblica, 6 settembre 2017 (c.m.c)

Tra le sfide più ardue che gravano sui governi democratici di società multietniche vi è quella di riuscire a tenere insieme la richiesta di libertà con la richiesta di sicurezza, perché la prima tende a essere aperta e inclusiva (con ambizioni ideali universalistiche) mentre la seconda è escludente (arrivando anche a propagandare deliri nazionalisti). Il bisogno di mantenere alta la fiducia della maggioranza, spinge spesso i governi a mostrare più volentieri i muscoli. Ma nei casi delle società multietniche, la regola più coraggiosa e lungimirante (e in questo senso, la più prudente) è quella che sa ispirare politiche che limitino l’insicurezza senza deragliare dal binario delle libertà civili e dell’inclusione.

Una strada in questa direzione è quella che mostra la vicinanza delle istituzioni a chi è culturalmente vulnerabile; dare sicurezza comporta mostrare anche la faccia della prossimità, non soltanto quella della coercizione. Questa strategia si adatta a tutti i Paesi democratici multietnici, all’Italia in particolare, la cui politica della sicurezza deve saper guardare oltre le decisioni emergenziali sulle frontiere. Come interagire con i “diversi” che abitano nel Paese? Come possono le istituzioni democratiche far sentire la loro vicinanza a chi è oggetto di discrimazione? E come può la maggioranza culturale riuscire a comprendere che questo è nel suo stesso interesse?

Un tentativo di dare risposta a questa domanda è suggerito dalla pubblicità a tappeto che compare nei vagoni della metropolitana di New York e con la quale il governatore Andrew Cuomo annuncia un numero verde collegato al Dipartimento dei diritti umani per denunciare casi di discriminazione, subita o di cui si è stati testimoni. Il programma fa parte di un progetto inaugurato lo scorso anno con l’intento di dare a coloro che subiscono discriminazione una qualche certezza di ascolto, il senso di non essere soli contro un nemico coriaceo e contagioso come il pregiudizio. Il programma si affianca a un altro in funzione da anni sulla denuncia di casi di violenza, di stupro e di persecuzione o stalking. Questo nuovo servizio si concentra sulla discriminazione verbale o gestuale; ed è nato in coincidenza con la campagna elettorale di Donald Trump che ha marcato un’eccezionale impennata nell’uso esplicito di linguaggio discriminatorio, una pratica che sta avvelenando la sfera pubblica in questa società multirazziale, e però anche razzista in diverse parti del Paese e fasce della popolazione.

Tre sono le figure che nel messaggio pubblicitario indicano le identità potenzialmente oggetto di discriminazione: un uomo asiatico, una donna velata e una donna con il casco da operaio. In altre parole, le identità nazionali, quelle religiose, quelle di genere, e quelle associate alla classe lavoratrice. L’inserto pubblicitario suggerisce due interessanti piste interpretative. La prima riguarda le minoranze vulnerabili: che non sono solo quelle identitarie, come la religiosa e l’etnica, ma ora anche quella socio- economica. La classe e il genere insieme sono indicative del fatto che il lavoro dipendente e operaio è esposto alla discriminazione sia da parte di altri gruppi sociali sia da parte dei lavoratori stessi tra di loro. La seconda pista di lettura è che lo stato o la pubblica amministrazione vogliono essere percepiti vicini a coloro che hanno meno protezione sociale, economica e culturale; vogliono essere visti come un punto di riferimento che non rimane indifferente di fronte ad azioni che non sono direttamente violente e punibili.

Comportamenti che feriscono o umiliano, con gesti e parole, non sono necessariamente oggetto del codice penale. Tuttavia possono e devono trovare ascolto da parte delle autorità. Il razzismo verbale è l’uso del linguaggio con lo scopo esplicito di offendere, sminuire, avvilire in pubblico, davanti agli altri, per raccogliere consenso e ampliare l’audience a favore della discriminazione. Il razzismo può essere meglio combattuto prevenendo la sua radicalizzazione tramite il discorso — di qui l’importanza di abituare i cittadini a pensare che le istituzioni debbano presiedere a una comunità aperta, occuparsi delle forme della comunicazione dei e tra i cittadini. Lo spazio pubblico è un bene di tutti.

L’annuncio pubblicitario del governatore Cuomo può essere letto e recepito come il segno che l’autorità è consapevole di dover svolgere una funzione non soltanto repressiva, ma anche di attenzione e di vicinanza. La logica di questa politica dell’attenzione è di intervenire disincentivando, di indurre indirettamente comportamenti decenti. È prevedibile che molti nel vecchio continente, e nel nostro Paese, storcano il naso per quel che con disprezzo viene classificato “politically correct”. Tuttavia le società multietniche devono riuscire (è nel loro interesse che riescano) a strategizzare regole di comportamento e di uso del linguaggio capaci di delineare uno spazio pubblico nel quale persone diverse siano e si sentano libere di interagire in tranquillità. L’escalation della violenza verbale (oltre che fisica) nel nostro Paese dimostra quanto urgente sia questo lavoro di manutenzione dello spazio pubblico.

Dalla decisione sulla prossima legge elettorale scaturirà il parlamento che potrà modificare la costituzione. Non è all'attuale "Parlamento dei nominati" che possiamo lasciare questa decisione.

il manifesto, 24 agosto 2017

La sinistra che cerca una prospettiva unitaria dovrebbe partire dai fondamentali. Se c’è accordo su questi il passo avanti è possibile. Partiamo dal referendum del 4 dicembre 2016.

Nel 2013 la sinistra ha pagato un prezzo per non avere raccolto la spinta dei referendum vittoriosi del 2011. Grillo capì l’errore e si intestò la vittoria più di quanto non avesse meritato sul campo.
La vittoria del No ha impedito la manomissione della Costituzione. Il problema ora non è se si era schierati per il No, quanto riconoscere che andava sconfitto un disegno accentratore e autoritario.
Partire dal referendum è importante perché riguarda il futuro democratico del nostro paese, la sua qualità, il diritto di avere diritti come scrisse Rodotà, contro la normalizzazione pretesa dai processi di globalizzazione.

È un errore sottovalutare la spinta potente alla base del tentativo di modifica della Costituzione. Ci sono centri di potere finanziari e politici che chiedono da anni di cambiare le Costituzioni dei paesi del sud Europa e dell’Italia in particolare, perché troppo influenzate dalla sinistra. I documenti sono noti. Banche di affari, centri di decisione finanziaria ed economica, multinazionali, ritengono la partecipazione democratica, forse la stessa democrazia, una perdita di tempo. E premono affinché le decisioni che a loro interessano siano adottate con le stesse modalità delle aziende. Ci sono settori politici che si adeguano, ma la sinistra deve opporsi.

La globalizzazione vera è questa: decisioni planetarie adottate in pochi e ristretti centri di potere economico. La pressione per modificare la Costituzione ha questo retroterra di poteri e di cultura e punta ad adottare decisioni rapide e inappellabili. Per questo l’attacco è destinato a tornare malgrado il voto del 2016 e sarà più determinato, più incisivo di quello tentato da Renzi. Si parla apertamente di cambiare non solo la seconda parte della Costituzione (Galli della Loggia) ma anche la prima (Panebianco). Finora era mancato il coraggio di prendere di petto l’insieme della Costituzione. Ora non più.
Per questo la legge elettorale è centrale e deciderà del nostro futuro democratico. Nella Costituzione non c’è la legge elettorale. Questo ha costretto la Corte a intervenire più volte per ridare coerenza costituzionale alle leggi elettorali. È una garanzia che non ci ha impedito di votare tre volte con il Porcellum prima che venisse dichiarato incostituzionale. Nel 2018 si tornerà a votare ma non si sa con quale legge. Allo stato si voterà con due leggi che sono il risultato di due diverse sentenze della Corte su leggi diverse. Il parlamento, eletto con una legge incostituzionale, dovrebbe sentire il dovere di approvare una legge elettorale coerente per camera e senato. Purtroppo è un parlamento composto da nominati dai capi partito. I partiti sono ridotti a dependance dei loro capi. Un disastro che ha già reso il parlamento debole, senza credibilità. È evidente che in un nuovo parlamento di nominati, imbelle e subalterno, riprenderanno disegni neoautoritari, presidenzialisti, tali da ridurlo a sede di ratifica. Mentre oggi la nostra Costituzione mette il parlamento a fondamento dell’assetto democratico.

Per evitare questa regressione e per garantire che i principi della prima parte vengano attuati e non svuotati è necessario che i parlamentari vengano scelti direttamente dagli elettori.
È inaccettabile che i capi partito decidano da soli se e quale legge elettorale approvare. La camera il 6 settembre riprenderà l’esame della legge elettorale. Occorre un’iniziativa forte per impedire che vengano usati nuovi pretesti per fare saltare tutto e per evitare che torni dalla finestra quello che il referendum ha bocciato. Il 2 ottobre abbiamo convocato un’assemblea nazionale alla camera per lanciare, come l’11 gennaio 2016 per il No, una campagna di informazione e di mobilitazione per impedire anzitutto il sequestro delle decisioni. L’attenzione dell’opinione pubblica sulla legge elettorale non è paragonabile a quella sulla Costituzione, anche per un’opera di depistaggio e di informazione confusa. La sinistra alla ricerca di una sintesi dovrebbe farne un punto centrale, superando posizioni subalterne verso le forze che oggi sono maggiori anche perché il loro ruolo non viene messo in discussione.

*Vice presidente Coordinamento democrazia costituzionale

« ». la Repubblica

I cori globali contro i suprematisti bianchi sono giustificati e legittimi. Ma hanno vita breve se non lasciano subito il posto a un’analisi sociale che faccia comprendere la rivolta di Charlottesville, in Virginia, dove un uomo ha lanciato l’auto contro persone che manifestavano pacificamente contro l’ideologia della supremazia bianca. Il razzismo, nel Sud degli Stati Uniti soprattutto, è stato allevato dalla questione sociale: disoccupazione, salari bassi, assenza di previdenza e assistenza — insomma il lavoro operaio bianco, sottopagato, sfruttato e spesso assente.

È una storia vecchia quanto l’America industriale, a partire dalla ricostruzione dopo la Guerra civile. Sviluppo industriale e liberazione degli schiavi sono andati insieme. Il movimento “ Knights of Labor” di fine Ottocento fu tra quelli che diedero vita al People’s Party, additato a esempio di buon populismo. Ma il romanzo sentimentale dei buoni lavoratori ha spesso celato il fatto che il populismo era indirizzato anche contro immigrati e neri. Per i lavoratori bianchi, ungheresi, italiani o irlandesi, i neri ex-schiavi non erano poi così buoni, erano “pecore nere” che gli industriali usavano per tenere bassi i salari e rompere gli scioperi. Razzismo e questione sociale sono alle radici di un’America che le rappresentazioni edulcorate di noi europei ignorano.

Eppure, sono queste le molle che hanno fatto il bene e il male della democrazia del mondo nuovo. Il male del razzismo, che esplode a intervalli regolari e non è mai stato debellato; il male del confederalismo dietro il quale ancora oggi i bianchi suprematisti degli Stati del Sud marciano, incappucciati o non, con le fiaccole dei cercatori di neri, come in Alabama, che accoglie i visitatori con la scritta “ We dared” (abbiamo osato). Ma sono state anche le molle del bene, le politiche di giustizia distributiva iniziate con il New Deal sono state pensate anche con l’intenzione di produrre un esito virtuoso: debellare il razzismo. Se non che hanno usato meccanismi con esiti opposti.

Perché, racconta Ira Katznelson nei suoi studi sul New Deal e il razzismo, i democratici del Sud approntarono politiche sociali e occupazionali per rafforzare i lavoratori bianchi ed escludere i neri; per dare potere ai burocrati ostili all’emancipazione dei neri; per impedire che il linguaggio di anti-discriminazione entrasse nei programmi di welfare. Le politiche sociali legate al lavoro sono state volte a sostenere la manodopera bianca: in questo modo si pensava di rendere blando il razzismo.

Fu l’arruolamento dei neri insieme ai bianchi nella Seconda guerra mondiale che introdusse mutamenti in senso universalistico e inclusivo. Il G.I. Bill del 1944, pensato per aiutare i veterani bianchi a comperare casa e studiare, venne esteso anche ai veterani neri. La guerra mise fine alla giustificazione della segregazione nelle politiche sociali. Il lascito delle lotte per i diritti civili negli Anni ‘60 si materializzò nelle politiche di Jonhson, continuate da Nixon. Il razzismo si vestì di nuovi abiti, diventando reazione contro i diritti civili. E nonostante la retorica patriottica dei presidenti più recenti, il razzismo ha preso nuovo vigore in relazione soprattutto alle politiche pubbliche. Qui comincia la storia di questi giorni.

È un tema scottante e difficile da articolare senza essere accusati di razzismo indiretto. Ma deve essere affrontato perché l’ideologia white supremacist che ha armato il fanatico di Charlottesville trova linfa vitale nell’idea che le politiche federali di redistribuzione siano state pilotate da una giustizia al contrario, che per facilitare la formazione di una middle class nera si siano adottate scelte che con la crisi economica mostrano la loro limitatezza, e che provocatoriamente ora sono i bianchi a richiedere.

Provocatoriamente, ma non tanto. Le minoranze da metà Anni ‘70 hanno beneficiato di queste politiche che hanno consentito assunzioni negli uffici pubblici e privati e ammissioni ai college, grazie a clausole per cui, in alcuni casi, a parità di merito venivano agevolati candidati appartenenti a minoranze. Questa politica ha avuto un impatto notevole, e cambiato la faccia delle istituzioni che sono diventate più pluraliste.

L’esito negativo di queste politiche sulla mentalità è tra i fattori che spiegano il white supremacism. Aiutare chi ingiustamente è stato escluso (per ragioni di schiavitù o di subordinazione di genere) con politiche che violano l’imparzialità ha i suoi costi. Una società ingiusta come era quella americana alla fine della Seconda guerra poteva difficilmente essere migliorata con politiche basate sull’imparzialità. Sarebbe stato opportuno sfoderare un altro tipo di coraggio, adottare politiche sociali universalistiche con interventi statali diretti a riqualificare le scuole pubbliche per poter aggredire l’ingiustizia all’origine, senza prestare il fianco alle prevedibili critiche dei bianchi. Sarebbe stata una scelta di più lungo respiro, ma troppo socialdemocratica per essere accettata dalla cultura politica Americana, liberal e non.

L’affirmative action è stata la politica di giustizia targata liberal. Ha prodotto inclusione (certo a macchia di leopardo, più al Nord che al Sud) ma ha sedimentato nel frattempo risentimento e rabbia contro i “beneficiari” di privilegi perché neri. E da quel risentimento si deve partire, oggi, per comprendere il carattere del nuovo razzismo, che è anche razzismo di reazione: dei diseredati e non benestanti bianchi contro gli ancora più diseredati e poverissimi neri.

Poveri contro poveri, ma nel nome della razza mai della classe. E un nero assunto contro mille che mendicano basta a soffiare sul fuoco della rabbia dei lavoratori bianchi traditi da Washington: ecco la lotta per mantenere in un parco pubblico di Charlottesville la statua del generale Lee, il simbolo dell’esercito dei sudisti nella Guerra civile. Aveva ragione Tocqueville a pensare che la schiavitù avrebbe lasciato, come una piaga, un segno indelebile sul futuro della democrazia americana, anche qualora i neri fossero stati liberati dalle catene e dichiarati cittadini. Combattere in guerra li avrebbe aiutati, ma oggi la Seconda guerra è solo un lontano ricordo.

«La tentazione autoritaria sarà sconfitta se quei popoli vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva».

Internazionale online 26 luglio 2017 (c.m.c.)

Dopo la Brexit si parlerà di una “Polexit” per la Polonia, o direttamente di una “Estexit” per l’eventuale scissione tra i vecchi paesi membri dell’Unione europea e quelli nuovi dell’Europa centrale e orientale?

La decisione presa il 24 luglio dal presidente polacco Andrzej Duda di apporre il veto su due delle tre riforme del sistema giudiziario proposte dal governo di Varsavia e adottate dal parlamento, allontana per il momento questa minaccia. Si tratta però soltanto di una tregua, una battaglia vinta nella guerra dell’autoritarismo combattuta in seno stesso all’Unione europea.

Il presidente Duda, al quale fino a oggi nessuno aveva attribuito una simile forza di carattere, ha detto di essere stato colpito dalle parole di Irena Zofia Romaszewska, 77 anni, anziana intellettuale associata all’epopea di Solidarność nell’era comunista. Essendo già vissuta in un’epoca in cui tutti i poteri erano nelle mani dei procuratori, gli avrebbe detto, non aveva voglia di riviverla. Ed era proprio questo il punto della riforma della giustizia: la fine di una separazione dei poteri e il controllo della politica sulla nomina dei giudici.

Il capo di stato polacco non è stato influenzato soltanto da questa figura storica della dissidenza, ma anche e soprattutto dalla mobilitazione dei giovani che hanno invaso le strade e le piazze di Varsavia per difendere lo stato di diritto e i valori europei.

Se lunedì scorso, con il colpo di scena che ha costretto il potere a fare un passo indietro, c’è stata una vittoria, questa va attribuita soprattutto alla mobilitazione di massa in piena estate della società civile polacca e soprattutto dei più giovani che, secondo tutti i sondaggi, sono in maggioranza legati ai valori europei e hanno una maggiore apertura mentale.

Sarebbe tuttavia bene non farsi illusioni: non per questo in Europa centrale si fermerà l’ondata illiberale partita dall’Ungheria di Viktor Orbán e ripresa dalla Polonia di Jarosław Kaczyński. Corrisponde a una visione del mondo nazionalista, sciovinista ed esclusivista che ha trovato un’ampia eco in una fase di sconvolgimenti e incertezze e che ha fatto della figura del migrante il capro espiatorio di tutti i mali e del liberalismo politico dell’Europa occidentale un simbolo di debolezza e di rinuncia.

Tanto la Polonia quanto l’Ungheria non sono del tutto convertite a questa visione, e lo testimonia il sussulto di resistenza messo in campo dalla società civile a ogni tappa di questa erosione democratica attuata metodicamente dai due governi.

La questione, aperta da tempo e ancora senza una risposta davvero convincente, riguarda la reazione della stessa Unione europea. Per la prima volta la Commissione europea ha messo in guardia la Polonia dopo il voto di tre riforme della giustizia e ha di certo tirato un gran sospiro di sollievo all’annuncio del veto presidenziale su due di esse.

Bruxelles temeva di dover passare alla fase successiva in caso di approvazione delle riforme. Il famoso articolo 7 del trattato di Lisbona, la “bomba atomica” degli statuti dell’Unione europea, prevede la sospensione dei diritti di voto di uno stato membro in caso di violazione flagrante dei suoi princìpi fondatori. Per sanzionare uno stato serve però l’unanimità, di fatto impossibile dato il sostegno evidente dell’Ungheria alla Polonia di oggi.

Per screditare una minaccia non c’è niente di meglio che agitarla senza avere gli strumenti per applicarla. Tanto più che alcuni dirigenti del Pis, il partito di Jarosław Kaczyński, hanno ammesso di volere usare le minacce europee per scatenare un’ondata di reazioni nazionaliste e non hanno esitato a paragonare la Bruxelles di oggi alla Mosca di ieri.

I principali attori dell’Ue hanno l’imperativo di ridefinire il loro comportamento, la loro strategia e i loro discorsi di fronte alle tentazioni autoritarie di alcuni stati. Non possono restare in silenzio né continuare ad agitare minacce senza futuro. L’urgenza riguarda in particolare la cancelliera tedesca Angela Merkel, la personalità più forte del Partito popolare europeo (Ppe), l’alleanza di partiti di destra nel parlamento europeo che annovera tra i suoi membri il partito Fidesz di Viktor Orbán. Una parte della destra tedesca è compiacente nei riguardi del presidente ungherese, ma la cancelliera non può permetterselo.

È però soprattutto alle società civili dei “Peco”, i paesi dell’Europa centrale e orientale nel gergo di Bruxelles, che l’Unione deve parlare. Si è vista la bandiera blu stellata dell’Europa fungere da elemento di convergenza per i manifestanti anticorruzione di Bucarest e per gli oppositori del controllo politico sulla giustizia in Polonia.

È in corso una battaglia sorda nel settore dell’informazione. In Polonia come in Ungheria, i poteri politici continuano a rafforzare il controllo sui mezzi di informazione, ovviamente su quelli pubblici, e questo emerge dal tono dei telegiornali, ma anche su quelli privati, con la partecipazione di “amici” del potere o il soffocamento di mezzi di comunicazione indipendenti, privati degli introiti pubblicitari.

L’obiettivo, come in tutti i paesi autoritari che si rispettino (per esempio la Turchia di Erdoğan oggi) è quello di limitare il più possibile le voci critiche e dissidenti per dare libero sfogo alla propaganda governativa. Così le opinioni pubbliche finiranno per trovare “normali” i provvedimenti arbitrari antimigranti, gli ostacoli allo stato di diritto, i limiti imposti alla libertà di espressione, di riunione, di manifestazione.

La visione del mondo espressa dai leader di questa “tentazione autoritaria” è rafforzata dalle influenze extraeuropee. Nelle ultime settimane abbiamo visto Donald Trump interrogarsi, in un discorso magniloquente pronunciato a Varsavia, sulla “volontà di sopravvivere” dell’Europa; e Benyamin Netanyahu incitare i leader del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) riuniti a Budapest a ribellarsi a Bruxelles, rievocando in un discorso a porte chiuse ritrasmesso da un microfono malauguratamente rimasto aperto la figura del “barbaro” alle nostre porte.

Questa tentazione può e deve essere contenuta. A farlo però saranno innanzitutto i popoli di quegli stessi paesi, se vedranno nel progetto europeo un modello di società dinamica e attrattiva, l’antitesi del mostro burocratico, intrusivo e accentratore descritto dai loro leader.

È soprattutto ridando vita al progetto europeo che si eviterà una Estexit, che non è desiderabile né oggi né in futuro, perché condannerebbe i popoli dell’Europa centrale e orientale a restare in un vicolo cieco senza futuro sotto il controllo di leader populisti. Il tempo non è molto, ma i giovani polacchi che hanno fatto arretrare la minaccia illiberale in questi ultimi giorni hanno mostrato di crederci: tocca al resto dell’Europa non deluderli.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale francese L’Obs.

Benvenuta Legambiente tra gli avversari del Ceta. Ma l'accordo della globalizzazione capitalista monaccia ben più che l'agricoltura: i diritti del lavoro, la salute, la tutela dell'ambiente. La regola che vogliono è: se c'è un conflitto tra un diritto e un maggior profitto è questo che va difeso.

il manifesto, 23 luglio 2017, con riferimenti

Attenzione a sottovalutare la portata politica e le conseguenze dell’approvazione del trattato commerciale tra Canada e Unione Europea, il cosiddetto Ceta, in votazione nei prossimi giorni al Senato.

Lo dimostra, ad esempio, il modo in cui il Pd sta organizzando il voto dei suoi parlamentari, per evitare sorprese, dopo che diversi presidenti regionali, a partire da Zingaretti, Emiliano e Zaia hanno scelto di esprimere pubblicamente il loro dissenso.

Ma lo si può leggere anche dal modo con cui il Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, sta rispondendo alle critiche e provando a rilanciare un dibattito sul tema della globalizzazione e contro l’isolamento e il protezionismo. Secondo il Ministro quanto raggiunto rappresenterebbe un enorme passo avanti in termini di riduzione dei dazi sulle merci scambiate e, in ogni caso, l’essenza di un negoziato sta nel raggiungimento di un compromesso.

Il non detto è però che il compromesso è stato trovato sacrificando sul tavolo negoziale l’agricoltura italiana.

Come per il Ttip – il trattato commerciale «gemello» con gli Stati Uniti, che aveva avuto prima uno stop da parte di Francia e Germania e poi uno definitivo con l’elezione di Trump – per i negoziatori nord americani due condizioni erano pregiudiziali: l’apertura dei mercati europei ai prodotti agricoli nordamericani e la garanzia sugli investimenti delle imprese attraverso arbitrati extragiudiziali. Ha un bel dire Calenda che bisogna fidarsi della controparte, in particolare quando ha il viso rassicurante di Justin Trudeau, e di chi fa la trattativa. Perché è proprio qui l’errore, nell’idea che si possa scambiare l’azzeramento dei dazi di cui beneficeranno le Pmi italiane, di per se positivo, con l’invasione di grano che ha avuto trattamenti intensivi con glifosate, vietato in Italia, di formaggi e salumi dai nomi fintamente italiani, di carni sottoposte a trattamenti con ormoni per l’accrescimento vietati da noi.

Proprio per queste ragioni si può essere contro questo accordo. I prodotti italiani sono infatti apprezzati dal Canada alla Cina per una qualità che ha dietro la forza di un modello economico e di biodiversità, fatto da migliaia di piccole imprese dell’agroalimentare che tutelano le proprie produzioni tipiche e si stanno sempre più riconvertendo al biologico. Non capire questo e rivendicare che 41 Dop italiane (su 289) saranno garantite, è davvero miope.

Anche perché questo trattato crea un precedente in termini di dumping ambientale e indirettamente sociale, oltre che di giurisdizioni speciali per le imprese che potrà essere copiato in tutti i futuri accordi con altri Paesi.

Invece di militarizzare i propri parlamentari, per evitare sorprese nel voto, il Pd dovrebbe riconoscere il grave errore politico che ha commesso nel lasciare la trattativa in mano a Calenda. Il quale, va riconosciuto, ha svolto anche in questo caso benissimo il ruolo di avvocato di Confindustria.

Ma per dirla con le parole di Michael J. Sandel, non tutto è in vendita, ha un prezzo o può essere oggetto di trattativa. Se i nostri amici Canadesi non sono disponibili a rivedere i trattati commerciali per aumentare gli scambi con l’Europa, se non a fronte di concessioni inderogabili, chi fa politica deve saper dire dei no. Ed è anche dallo stop a trattati di questo tipo che può nascere un confronto che guardi al mondo di domani, alle regole per il movimento delle merci ma anche ai diritti delle persone, evitando di dare spago a chi soffia su venti razzisti e isolazionisti.

Riferimenti
Vedi su eddyburg, tra i numerosi articoli dedicati al tema, quelli di Marco Bersani e di Alex Zanotelli

Controllo, omologazione, appiattimento, rimbecillimento: se gli organi di informazione perdono la loro indipendenza.

il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2017 (p.d.)


Di seguito l’intervento tenuto ieri (martedì 11 luglio) da Barbara Spinelli nel corso di un’audizione su “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”organizzata a Bruxelles dalla Commissione Libertà civili,giustizia e affari interni del Parlamento europeo (LIBE) e presieduta dal presidente LIBE Claude Moraes. Barbara Spinelli (GUE/NGL) ha preso la parola in qualità di Relatore del nuovo Rapporto del Parlamento europeo “Libertà e pluralismo dei media nell’UE”.

Il mio sguardo sulla libertà dei media è influenzato dal fatto che per decenni ho fatto il mestiere di giornalista, ed è uno sguardo allarmato. Le condizioni della effettiva libertà dei media, della loro indipendenza da agende politiche e da gruppi di interesse economici, della loro pluralità, si sono aggravate dall’ultima volta che questo Parlamento se ne è occupato, nella relazione presentata da questa Commissione nel 2013. Mi limiterò a elencare alcuni punti che confermano tale aggravamento, e che dovremo a mio parere approfondire.
Primo punto: le fake news. In un numero crescente di democrazie il termine domina il dibattito sui media e sul funzionamento della democrazia stessa. Alcuni parlano di "post-verità", e nel mirino ci sono soprattutto internet e i social network. C'è una buona dose di malafede in queste denunce. Dovremo analizzare il nascere delle fake news andando alla loro radice, e soprattutto evitare di stigmatizzare il cyberspazio creato da internet. Le fake news non sono solo figlie di internet. Sono una malattia che ha prima messo radici nei media tradizionali, nei giornali mainstream. Sono un residuo della guerra fredda. Quasi tutte le guerre antiterrorismo del dopoguerra fredda sono state precedute e accompagnate da fake news: basti ricordare le menzogne sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Internet configura uno spazio nuovo e interattivo di informazione, che tende a condannare all'irrilevanza i giornali mainstream. Di qui un'offensiva contro questo strumento, e una serie di misure politiche che tendono a controllarlo, sorvegliarlo, imbrigliarlo. L'offensiva ricorda per molti versi la reazione all'invenzione della stampa, poi della radio e della televisione: le vecchie forze si coalizzano contro il nuovo, per meglio occultare le proprie degenerazioni. Per molti versi è un'offensiva che ricorda la polemica ottocentesca contro il suffragio universale: "troppa democrazia uccide la democrazia". Quand'anche alcuni di questi timori fossero giustificati, le loro fondamenta si sgretolano se poste da pulpiti sospetti o screditati.
Secondo punto: l'estendersi di alcuni fenomeni certo non nuovi, ma in continua espansione: le interferenze della politica e di grandi concentrazioni di interesse nell'informazione, e non solo la violenza subita da giornalisti e informatori ma anche le forme sempre più diffuse e insidiose di autocensura. Lo studio pubblicato nell'aprile scorso dal Consiglio d'Europa – "Giornalisti sotto pressione" – mette in risalto l'estendersi di questa patologia, che nel precedente Rapporto del Parlamento è nominata ma non approfondita. Non viene spiegata la paura che genera l'auto censura (il moltiplicarsi delle interferenze politiche, editoriali, di lobby pubblicitarie) e soprattutto non viene sottolineato il legame causale che lega paure e autocensure alle condizioni sempre più miserevoli in cui informatori e giornalisti si trovano a operare. La vera radice delle fake news come dell'autocensura viene occultata ed è a mio parere il group think, che possiamo descrivere come espressione di un conformismo razionalizzato imposto da gruppi di potere politici o economici. Per usare le parole impiegate da William H. Whyte, che coniò questo termine negli anni '50, si tratta di una "filosofia dichiarata e articolata che considera i valori del gruppo" – quale esso sia – " non solo comodi ma addirittura virtuosi e giusti". La parola è meno moderna di fake news ma più precisa.
Terzo punto, importante nelle democrazie dell'Unione: il cosiddetto dilemma di Copenaghen. I Paesi candidati all'adesione devono rispettare le norme sulla libertà di espressione della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione dei diritti dell'uomo (rispettivamente gli articoli 11 e 10), ma una volta entrati tutto sembra loro permesso: negli ultimi decenni ne hanno dato prova le interferenze politiche nella libertà di stampa in Italia, Spagna, Polonia, Ungheria. Da questo punto di vista la Carta mi pare più avanzata della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, visto che esige non solo la libertà ma anche la pluralità dei media.
Quarto punto:i whistleblower. Nel rapporto del 2013 si fa riferimento in due articoli alla necessità di proteggerli legalmente, ma manca una normativa europea e nel frattempo si moltiplicano leggi di sorveglianza sempre più punitive nei loro confronti, specie su internet. Dovremo insistere su questo punto con maggiore forza.
Quinto punto: ne ho già parlato e concerne gli effetti della crisi economica non solo sulla libertà, ma sulla sussistenza stessa dei media. Se aumentano l'autocensura e l'interferenza arbitraria nel lavoro di giornalisti e informatori, è anche perché il loro mestiere è tutelato per una cerchia sempre più ristretta, e più anziana, di operatori. Cresce il numero di precari che danno notizie per remunerazioni ridicole, se non gratis. I diritti connessi al Media Freedom devono essere legati organicamente alla Carta sociale europea e al diritto a un lavoro dignitoso.
Infine, sesto punto:i rimedi. Abbiamo gli articoli della Carta, della Convenzione. Per farli rispettare, è urgente la creazione di un meccanismo che controlli la democrazia nei media. Mi riferisco alla relazione In't Veld, che il Parlamento ha approvato nell'ottobre scorso. Il meccanismo che essa propone è uno strumento che coinvolge gli esperti della società civile, dunque tutti voi presenti in questa audizione. Se approvato da Commissione e Consiglio, sarà in grado di intervenire prima di mettere in campo le misure castigatrici previste dai Trattati come l'articolo 7, chiamato "opzione nucleare" perché applicabile solo all'unanimità e quindi praticamente inutilizzabile.

«Il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’isolamento di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche"».

la Repubblica, 12 luglio 2017 (c.m.c.)

Il fascismo non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria.

Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti). Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.

La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.

Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata. I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono.

Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.

Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.

Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.

Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta. Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.

In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individua-listica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie.

Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato. Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.

Recensione al libro di Revelli, che chiarisce i significati e le ambiguità' del termine populismo, e illustra i vari populismi di oggi.

Il Sole 24ore, 1 luglio 2017 (i.b.)

Il termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?

Il libro di Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania e Italia).

Tra i tanti «populismi» individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato, dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una «malattia infantile» del ciclo democratico).

Quello attuale è, invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto “ascensore sociale”».

La lotta di classe “orizzontale” si è, così, trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato, buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti «homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario, «purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood, famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».

Specie nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson. Nell’iniziare l’age of commonman, 1830-1840 (quella che Tocqueville aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i potenti più potenti».

Nel 1892 viene poi fondato il National People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale, e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano irobber barons».

Con il senno di poi, non era difficile capire le ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi».

Coloro che si avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor, direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai radar dei media».

Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in relazione alla Brexit, alla Germaniafelix – che ha «le sue zone d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.

Nel nostro paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti governi.

Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un «cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione, specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di governo». Un populismo «dall’alto».

Si può, in conclusione, curare questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?

«Mantenere indefinitamente nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma rischia di produrre estraneità e rancore». l

a Repubblica, 18 giugno 2017 (c.m.c.)

Diritti sociali contro diritti civili: un copione che in Italia si ripete spesso, non tanto per spingere i primi quanto per bloccare i secondi. Come se i diritti civili (degli altri, naturalmente, non i propri) fossero un lusso che può essere sempre rimandato, e le difficoltà economiche o la mancanza di diritti sociali un buon alibi per non rispettare neppure quelli civili. È successo, a suo tempo, per i diritti delle donne, più recentemente per quelli delle persone omosessuali. Quando non li si negavano tout court, si diceva che dovevano aspettare, che c’erano altre priorità più urgenti.

Un po’ sorprendentemente, con una notevole dose di cinismo, hanno fatto proprio questo copione anche i Cinquestelle. Il loro aspirante futuro premier Di Maio, per spiegare perché il Movimento non voterà la legge sulla cittadinanza, ha denunciato: «È mai possibile che prima di pensare al lavoro, o a un piano per dare incentivi e sgravi alle imprese che assumono giovani, oppure a un reale sostegno per le famiglie monoreddito con figli a carico, il Pd pensi a far approvare lo ius soli?».

Non sarò certo io a negare che in questo paese manca un sostegno adeguato al costo dei figli e che politiche del lavoro che si limitano al lato dell’offerta non vanno molto lontano. Ma non vedo come questo possa essere contrapposto al diritto di chi nasce e cresce nel nostro paese, sentendosene parte e seguendo le sue leggi, di esserne riconosciuto pienamente come cittadino, se lo desidera, senza essere costretto in un limbo che di fatto lo riduce ad uno status di apolide: perché non è cittadino italiano, ma neppure di fatto del paese da cui provengono i suoi genitori e dove, se questi sono rifugiati, spesso non può neppure andare.

Negando l’importanza di questo riconoscimento, un movimento che si riempie la bocca della parola “cittadinanza” e “cittadini” non sembra davvero aver compreso in che cosa consiste l’essere cittadino: non il sangue, o il colore della pelle, e neppure la nazionalità dei propri genitori, ma l’identificazione con una collettività, incluso l’accesso ai diritti e doveri che ne derivano, così da maturare la disponibilità a partecipare alla formazione del bene comune.

Negare questo accesso, mantenendo indefinitamente sulla soglia e nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma miope, perché rischia di produrre quel senso di estraneità e di rancore che può sfociare in fenomeni estremi di disidentificazione con la nostra società. Per altro, la legge in discussione, niente affatto affrettata come suggerisce da parte sua Alfano, desideroso anch’egli di defilarsi, stante che se ne sta discutendo da anni e da due anni è già passata al vaglio della Camera, configura uno Ius soli molto temperato.

Richiede che almeno uno dei genitori abbia ottenuto il permesso di lungo soggiorno, quindi abbia risieduto regolarmente in Italia per almeno cinque anni, o, in alternativa, che il bambino o ragazzo (nato qui o arrivato entro i dodici anni) abbia completato almeno un ciclo di studi quinquennale. Non vi è nessun rischio di incentivare arrivi di massa di donne incinte, o pronte a diventarlo, che trasformeranno l’Italia in un enorme reparto di maternità, come ha evocato qualcuno. Il percorso verso la cittadinanza continua ad essere impegnativo.

Anche l’altra obiezione di Di Maio — che la questione della cittadinanza deve essere affrontata a livello europeo — appare strumentale, oltre che paradossale in bocca ad un cinquestelle che di solito condanna gli interventi della Ue come attacchi alla sovranità. Non si capisce perché l’Italia debba demandare alla Ue di regolare l’accesso alla cittadinanza italiana, visto che finora tutti gli altri paesi, anche quando hanno modificato le proprie norme negli ultimi anni, non lo hanno fatto.

Quindi coloro che sono diventati cittadini tedeschi o irlandesi o francesi con regole diverse dalle nostre, in quanto cittadini europei possono circolare liberamente, venendo anche in Italia. Cominciamo a definire le nostre regole e poi impegniamoci pure a verificare l’opportunità di una armonizzazione a livello Ue. Ma non usiamo questa scusa per rimanere fermi e negare la cittadinanza a chi cresce, gioca, studia quotidianamente fianco a fianco con i nostri figli e nipoti, condividendone abitudini, interessi, desideri, aspirazioni.

«Storia antica e complessa, ma mai invecchiata, se è vero che ritorna puntualmente a galla quando ci si pone la questione di chi sono i nostri concittadini».

la Repubblica, 17 giugno 2017 (c.m.c.)

Vi è nell’idea dello Ius soli una ragione così umana e fondamentale della quale ci sfugge la portata se prestiamo attenzione alle cronache parlamentari: l’idea che la condizione di tutti noi su questa terra sia quella di ospiti e viaggiatori, più o meno nomadi o stanziali, più o meno accasati da qualche parte o pendolari. Chi più chi meno, tutti abbiamo radici trasportabili (e che molto spesso trasportiamo per davvero), e siamo nati per caso qui o là. E questo la dice lunga sulle roboanti s-ragioni della destra, leghista o pentastellata che sia. Pochi riflettono sul fatto che giustificare democraticamente, o addirittura con l’appello ai diritti umani, i confini degli Stati, è molto complicato, anzi impossibile — chi ci ha provato è caduto in tante aporie che ha dovuto alla fine riconoscere che di Stati c’è bisogno; che sono una fatticità impossibile da ignorare; che, insomma, i confini rispondono a ragioni di prudenza.

Insoddisfatti di queste ragioni storiche, alcuni filosofi hanno cercato a partire dall’Ottocento di dare ragioni più spesse, e perfino natuali o congenite alle culture nazionali — gli Stati sono allora diventati etici, o perché resi essi stessi un valore primario (che veniva prima dei sudditi che contenevano) o perché al servizio di un valore ritenuto ancora più alto, la nazione. E da quel momento, da quando queste idee sono state propaganda elettorale, una divisione nuova è emersa nelle dispute ideali e politiche: fra posizioni che riprendevano le radici universalistiche, religiose o secolari, e posizioni nazionalistiche. Insomma, destra e sinistra, si sono da quel momento misurate anche in ragione della posizione di fronte alla priorità della persona o invece delle appartenenze nazionali. Storia antica e complessa, ma mai invecchiata, se è vero che ritorna puntualmente a galla quando ci si pone la questione di chi sono i nostri concittadini, e che cosa fa di un residente che paga le tasse e parla la nostra lingua, un cittadino italiano a tutti gli effetti.

L’Italia ha un rapporto a dir poco difficile e strabico con il “diventare” cittadini, visto che ha una legge (che porta il nome di un ex-fascista, Mirko Tremaglia) che riconosce il diritto di voto a italiani di razza, a figli di bisnonni italiani, anche se mai vissuti in Italia. Quanti sono gli elettori italiani sparsi per il mondo che a malapena sanno pronunciare parole italiane, eppure hanno il diritto di decidere sulle questioni pubbliche di chi vive, lavora e paga le tasse qui, in Italia? Sono tanti, e sono un problema serio per chi sostiene le ragioni dello Ius soli. Il diritto del suffragio che fa perno sul diritto del sangue è un problema.

Si potrebbe almeno desiderare che con quella passione (a giudizio di chi scrive mal posta) con la quale si è difesa la causa del voto agli italiani all’estero, si difenda oggi la causa della cittadinanza riconosciuta a chi è nato nel nostro paese, da genitori non italiani (e con almeno uno dei due residente in Italia) e a chi, pur non essendo nato qui, ha frequentato la scuola in Italia per almeno 5 anni. Questa è una legge minima (moderata) e giusta.
Anche per una ragione sulla quale vale la pena riflettere un poco: che i popoli delle democrazie non sono come famiglie che gestiscono l’appartenenza secondo criteri affettivi, o semi-natuali, appellandosi magari a legami ancestrali, dei quali nessuno può con cognizione di causa parlare con certezza, dire dove finiscono, dove cominciano e in che cosa consistono.

I popoli delle democrazie, quelle moderne soprattutto, sono composti di persone che sono straniere tra loro e che, proprio per questo, si danno leggi basate sul principio del rispetto e dell’eguaglianza di considerazione. Si riconoscono in tal modo come non appartenenti a nessun “ceppo” natuale, simil-famigliare (o familistico) — è questa la base universalistica per la quale abbiamo ragione di pensare che le democrazie siano governi buoni; imperfetti per tante ragioni, hanno dalla loro il fatto che ci rendono davvero difficile giustificare le esclusioni, anche quando proviamo a scomodare ragioni etiche o sentimentali. Questa difficoltà è quel che ci salva dall’essere tentati, in casi di crisi economica o di follia nazionalistica, di pensare che escludere sia giusto e buono; che essere parte del demos sia un privilegio che passa per ragioni non decidibili, come il colore della pelle o l’essere nato in una parte specifica di mondo, per caso.

«Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile».

Libertà e Giustizia online, 11 giugno 2017 (c.m.c.)

L’età dell’indifferenza: questo il titolo che possiamo dare alle ricerche demoscopiche più recenti sullo stato della coscienza politica dei cittadini italiani. Indifferenza, soprattutto nel caso dei giovani tra i 18 e i 34 anni, per le tradizionali divisioni tra destra e sinistra. Lo conferma il Rapporto Giovani 2017 dell’Istituto Toniolo, realizzato in collaborazione con Fim Cisl. I giovani non sono indifferenti alle questioni di giustizia (e di ingiustizia) sociale – alla crescita della diseguaglianza, al declino delle eguali opportunità, al valore tradito del merito personale: insomma agli ideali che dal Settecento in poi sono stati rubricati sotto le bandiere delle varie sinistre. E dunque, in questo senso, non vi è indifferenza per quella divisione antica.

L’indifferenza (comprensibile) è verso i partiti che si sono fin qui incaricati di rappresentare quelle idee di giustizia, e che oggi sono giudicati (giustamente) come misere macchine elettorali, finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’ esercizio del potere e dai privilegi ad esso associati. Sono le élite politiche, il cosiddetto establishment, a generare la “politica politicata” e, insieme, ad affossare i valori della politica, le ragioni delle politiche di giustizia. Questo è il senso dell’analisi dell’ Istituto Toniolo e delle impressioni che ciascuno di noi si fa navigando online o praticando la quotidiana comunicazione casuale e non premeditata. Osserva Alessandro Rosina, a commento del Rapporto Giovani, come quello dei ragazzi sia «l’elettorato più difficile da intercettare » perché critico della retorica politica e, aggiungiamo, del monopolio del potere della voce che chi è dentro le istituzioni ha e difende.

L’esclusione dalla partecipazione alla formazione delle opinioni, non solo alle decisioni, ha effetti devastanti, perché dimostra come ad essere irrilevante non è solo il voto ma anche la voce dei cittadini.

Avere un blog, postare messaggi, commentare su Twitter: tutto questo partecipare è poco soddisfacente perché non produce effetti. Anche partecipare con le sole opinioni si rivela dispendioso perché senza un ritorno. Che il web serva a darci democrazia diretta è un’illusione. Senza partiti le voci del web restano inefficaci.

E i cittadini lo capiscono. Soprattutto i giovani, abituati ad avere “ritorni” immediati alle loro esternazioni sul web.

E invece la politica resta un muro di gomma, nonostante la facilità delle comunicazioni. Inarrivabile. Anzi, si potrebbe pensare che fino a quando l’arma della partecipazione erano i rapporti faccia a faccia, anche la parola aveva più forza. Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile. È questa impotenza a generare demoralizzazione, un malanno grave nella democrazia che è per antonomasia un fenomeno di fiducia nel potere della volontà politica, individuale e associata.

Eugenio Scalfari suggerisce spesso nei suoi editoriali di rileggere Alexis de Tocqueville. In effetti, sembra di un’attualità disarmante: la società come una grande audience, interpellata ad ogni soffio di vento per assicurarsi consenso, eppure senza effetti visibili, testabili. Una grande melassa nella quale la politica – che è invece distinzione di posizioni, partigianeria e schieramento, anche a costo di essere (o sembrare) perdenti – si scioglie in chiacchiericcio poco credibile. È questa l’indifferenza di cui si parla oggi, tra i giovani soprattutto: prevedibilmente, poiché se non c’ è più spazio per il bricolage dei collettivi, allora ci si scaglia contro chi sta dentro le istituzioni. I giovani (e meno giovani) scrive Rosina, «si chiudono» alle grandi idee propositive e «si avvicinano ai partiti anti-sistema come M5S e Lega, che sono quelli che urlano di più». Nella politica audience-melassa è l’urlo che fora il muro di niente. Non crea, ma si fa sentire.

L’ anti-establishment, che l’indifferenza per i partiti e i loro leader hanno partorito e alimentano nel corso degli ultimi anni, è la porta spalancata a quel che con un termine poco preciso viene chiamato populismo, e che sarebbe meglio chiamare anti-partitismo, uomoqualunquismo arrabbiato. A chi vuole arrivare in fretta al potere, questi sondaggi indicano che per cavalcare l’indifferenza occorre imitare la retorica demagogica e qualunquista. A chi vuole riannodare i fili di un desiderio della politica degli ideali, questi sondaggi possono indicare una strada, forse più impervia ma che potrebbe pagare domani: ricomporre un collettivo di persone unite da idee, partigiani coraggiosi che non solo denuncino ma propongano. La lotta per qualcosa che vada oltre la propria persona ha una bellezza alla quale né i giovani né i meno giovani sono insensibili.

il manifesto, 8 giugno 2017, con postilla

In vita mia, – ormai piuttosto lunga, direi, – penso che non mi sia mai capitato d’imbattermi in una situazione politico-istituzionale come quella cui stiamo assistendo in Italia da alcune settimane, e che avrà fra poco la sua ultima sanzione e ricaduta. Intendo l’accordo di ferro stretto fra i quattro maggiori partiti italiani, il Pd, Forza Italia, Movimento 5Stelle e Lega Nord, - per varare una nuova legge elettorale e andare di corsa al voto. Sì, certo, nel 1953 il tentativo della Dc di far passare la cosiddetta “legge truffa”… I pericoli corsi dalla Repubblica nel 1960 con il governo Tambroni… L’ascesa al potere nel 1992 dell’esecrabile Berlusconi… Sì, certo, tutto questo e molto altro è già accaduto nel nostro instabile e stravolto paese. Ma la differenza, rispetto alla situazione di oggi, è che in tutti questi altri casi esisteva un’alternativa, un punto di riferimento visibile e consistente, in grado di opporsi ai disegni eversivi che attraversavano la nostra repubblica.

Oggi no, non c’è, o non si vede, o non ha abbastanza forza, per ora, per farsi vedere. Ciò consente, - e questo è un dato incontestabile sul piano pratico-storico, - di procedere d’amore e d’accordo tra quattro forze politiche (apparentemente) fra loro opposte allo scopo di realizzare una rivoluzione, appunto, politico-istituzionale, da cui sarà estremamente difficile tornare indietro.

Naturalmente tutto questo non sarebbe stato possibile, se non fosse il prodotto di un processo globale che viene avanti da anni (con responsabilità ampiamente diffuse anche nelle attuali minoranze); e cioè il mutamento di natura e di destinazione di quelle forme collettive che sono state il cuore del sistema democratico in Italia, in Europa e nel mondo, e cioè i partiti politici. Concepiti all’origine, e poi vissuti a lungo, con ideologie spesso contrapposte ma con modalità sostanzialmente omologhe, come espressione di larghi (o comunque significativi) settori della società contemporanea, essi hanno perduto a poco a poco questa funzione di rappresentanza allargata e sono diventati strumenti di ristretti gruppi dirigenti, anzi, nell’ultima e più significativa fase, semplicemente di un uomo solo.

Questo, forse, nella situazione italiana non è stato colto ancora fino in fondo. Nella gestione dei partiti si è fatta avanti, e alla fine si è imposta, la pratica di una categoria eminentemente privatistica come quella dell’utile riservato a uno solo, e da lui compiutamente e ormai incontestabilmente gestito (persino con una distribuzione, che si direbbe percentuale, degli utili fra i fedeli). Ha cominciato Berlusconi; ha continuato, con indiscutibile genialità creativa, Grillo; Salvini è puramente e semplicemente nato da questo; e Matteo Renzi, a colpi di primarie, ha plasmato il Pd su tale modello, talvolta sopravanzandolo nell’audacia delle proposte innovative.

Si capisce dunque perchè “i quattro dell’Orsa maggiore”, presunti protagonisti di una lotta morale fra loro nella vita politica italiana, si siano trovati così facilmente e rapidamente d’accordo su caratteristiche e finalità della legge elettorale, di cui in questi giorni si sta parlando. Il fatto è che essi hanno un interesse comune, che va ben al di là delle possibili (e peraltro molto ipotetiche) differenze di linea. Questo interesse comune consiste nel procurare e ottenere che la situazione prima sommariamente descritta, - partiti di natura profondamente diversa rispetto a quella lasciataci in eredità dalla tradizione, - diventi parte integrante del sistema istituzionale italiano: mediante una legge elettorale che ne consenta la perpetuazione, al di là dei limiti normalmente concessi all’avvicendamento delle forze politiche di governo.

Non entro nel merito dei particolari più tecnici della futura legge elettorale, perché voci più esperte della mia lo hanno già fatto e senza dubbio continueranno a farlo, ma mi soffermo sui punti per me più qualificanti.

1) La scelta, indiscussa e indiscutibile, da parte del Sovrano (capilista bloccati o no), degli individui, - di tutti gli individui, - che andranno a rappresentare il suo Partito, - che andranno a rappresentare lui medesimo, - in Parlamento;

2) La cancellazione di qualsiasi altra forza di rappresentanza popolare, che, affiancata o contrastante con le quattro principali forze politiche, ne metta in pericolo in qualche modo, – anche limitatamente, anche discrezionalmente, - la egemonica rappresentanza di quell’area;

3) La riduzione del sistema politico italiano ai quattro partiti facitori della nuova legge elettorale , in maniera che, dopo il voto, sia lasciato indiscussamente a ognuno di loro il gioco delle maggioranze e delle minoranze il patto del Nazareno, che anticipò eloquentemente queste conclusioni della legislatura, potrebbe essere uno di modi con cui il prossimo governo verrà fatto; ma perché no, nelle condizioni date, un patto fra i due antieuropeisti amici di Trump e Putin, Grillo e Salvini? Ma le previsioni in questo senso non possono essere che avventate: diciamo che tutto diventerebbe possibile).

Le leggi elettorali dovrebbero in generale consentire di esprimere al meglio il consenso, e favorire quindi di volta in volta l’alternanza delle diverse forze politiche al governo. Questa invece serve a rendere stabile, anzi permanente, lo status quo: i quattro Sovrani si trovano d’accordo sul principio che, innanzi tutto, la rappresentanza parlamentare venga statualmente divisa fra loro quattro: alleanze e combinazioni si vedranno poi, ma non c’è da dubitare che, in base alla loro scelta originaria, qualche “inciucio” ne salterà fuori. Dunque, una sorta di “colpo di forza” in veste compiutamente democratica? Del resto, soluzioni autoritarie di ogni tipo sono sempre state rese possibili, oltre che dall’esercizio puro e semplice della violenza, anche da maggioranze democraticamente espresse, che si trovano d’accordo nel legittimare formalmente un restringimento degli stessi spazi di democrazia, che avevano reso possibile il formarsi di quelle maggioranze.

Siamo dunque fra l'incudine del mutamento elettorale impostoci e il martello delle future deformazioni democratiche: non più la democrazia come un campo ampio di partecipazione, confronto e lotta, ma un serraglio ben delimitato della legge assunta a tale scopo.

Se altri argomenti non fossero persuasivi, ce n’è uno che chiarisce senza ombra di dubbi la situazione: la volontà, anche questa assolutamente condivisa e comune, di abbattere il più presto possibile il governo Gentiloni e di andare subito dopo al voto (con una campagna elettorale limitatissima nel tempo e nelle intenzioni, quasi tutta estiva: tanto che bisogno c’è di persuadere gli elettori, basta portarsi dietro, ognuno, le propri truppe). Ora, non si ripeterà mai abbastanza che l’abbattimento, in questa chiave e con tali metodi dell’attuale governo, costituisce un vulnus alla credibilità dell’Italia, ai sui bilanci, alla sua (sia pur limitata) coesione sociale (a questo proposito: esiste forse la possibilità che il Presidente Mattarella, solitamente attento a questo aspetto delle cose, respinga tale sciagura in nome dei “superiori interessi nazionali”?).

Dunque, cosa spinge “i quattro dell’Orsa maggiore” a imboccare una strada così perigliosa così in fretta? Non potrebbero anche loro, votata la “loro” legge elettorale, aspettare il naturale esaurimento della legislatura? No, non possono aspettare. Popolo, forze politiche e intellettuali, associazioni, opinione pubblica organizzata (la stampa, ad esempio, ed altro) potrebbero maturare un’opposizione più netta, più convinta, persino più ruvida, di quanto finora non sia avvenuto (ma in parte è già avvenuto). Dunque, fa parte della riuscita dell’impresa anche la rapidità fulminea con cui viene concepita, messa in opera e realizzata: anche il costringere a pensare poco, a riflettere meno e a discutere ancora meno, costituisce un connotato non irrilevante dell’intera operazione.

Un aspetto positivo va tuttavia riconosciuto alle proposte di riforma elettorale di cui abbiamo cercato di discutere. E cioè: le forze oppositive sopravviventi, quasi tutte per ora (si sarebbe detto una volta) “a sinistra”, se si presentassero al confronto politico e al voto così come sono, uscirebbero tranquillamente di scena, che è un altro fondamentale obiettivo dell’attuale riforma elettorale. La condizione della sopravvivenza, e dunque del perdurare di un effettivo gioco democratico, per quanto inizialmente difficilissimo, è che tali forze presentino un solo volto del paese: da Orlando (se possibile) a Bersani a Pisapia a D’Alema a Civati a Fratoianni…

E questo per due motivi. Il primo è il più ovvio: per entrare nel prossimo Parlamento bisognerà presentare un volto unico al paese, ossia, se si vuole entrare di più nel linguaggio elettorale di cui stiamo parlando, una sola lista.

Il secondo motivo è invece molto, molto più importante. Un’alternativa oggi non c’è: dunque va costruita, anch’essa rapidamente, finché c’è tempo. L’esperienza Macron in Francia, incomparabilmente più dignitosa e rilevante di quanto sta accadendo nel nostro paese, dimostra anch’essa tuttavia che le “vecchie sinistre”, prese ognuna per sé, nella grande maggioranza dei casi europei, non ce la fanno più a interpretare e rappresentare l’enorme mutamento che società e politica hanno attraversato in questi decenni in Europa (nel mondo?).

C’è uno spazio, identificabile con vaste aree di cultura dell’alternativa e della partecipazione, con cui sarebbe possibile anche in Italia incontrarsi e colloquiare. A patto, ovviamente, che, anche su questo versante, come sarebbe paradossale, non si realizzi un mero incontro elettorale, ma si proceda a una rifusione profonda delle forze in gioco, per arrivare a un organismo unico totalmente diverso. Non si parla più di “Costituente della sinistra”? Si torni a parlarne. La questione, infatti è tutt’altro che teorica, come ho cercato di argomentare dall’inizio di questo articolo. È, innanzi tutto, una questione di sopravvivenza: non dei singoli partiti; ma del sistema democratico-rappresentativo in Italia.

postilla
L'insieme dei gusci e dei nomi del millennio scorso saranno capaci di attrarre nell'arena delle decisioni elettorali una parte consistente del popolo di oggi?

Altreconomia. newsletter 194, 1 giugno 2017 (c.m.c.)

L’aspetto più frustrante della democrazia moderna occidentale sono le campagne elettorali. Il periodo delle promesse, dei proclami, delle minacce, dell’ipocrisia, delle fazioni che si combattono senza particolare stile, regole, rispetto reciproco. Le campagne elettorali hanno molteplici tratti distintivi. Uno di questi è la necessità di rivolgersi, con tutti i mezzi, a quella parte sempre minore di popolazione che va ancora a votare, quella che ha resistito, nonostante tutto, alla tentazione antidemocratica dell’astensione. Dentro quella parte c’è un po’ di tutto: convinzione, protesta, abitudine, senso di responsabilità, disillusione. “Con tutti i mezzi” vuol dire oggi soprattutto televisioni e social media, con il portato che questa deriva ha definitivamente assunto in termini di linguaggio, superficialità, velocità ed evanescenza.

Un altro tratto caratteristico delle stagioni pre urne è la scelta di pochi temi sui quali concentrarsi, affinché siano idonei a convincere gli elettori attraverso i mezzi a disposizione. Mascherando la scelta come “necessaria” per parlare “a tutti”, si abdica alla complessità a favore di slogan e programmi che sembrano liste della spesa. È accaduto negli Stati Uniti e in Francia, accadrà fra poco in Germania, in Gran Bretagna e, fra non molto, anche in Italia -che in realtà è entrata in una campagna elettorale perenne ormai dal periodo precedente al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.

Nelle democrazie moderne occidentali, dato il contesto storico, il tutto è facilmente riconducibile a una sola parola: paura. La paura che provano le persone -e quindi gli elettori- va rispettata. Le cose sono ben cambiate nel corso degli ultimi 20 anni, e i cambiamenti, quando non li si comprende, mettono timore. Ma se rispettare la paura è giusto, alimentarla, cavalcarla, sfruttarla è indegno. Perché quando il perno della politica è la paura dei cittadini, la risposta è innanzitutto ridimensionare i problemi reali del mondo. Ovvero i cambiamenti climatici, lo strapotere delle multinazionali che eludono le tasse, l’incredibile iniquità nella distribuzione planetaria dei redditi, l’esaurimento delle risorse, l’impunità della finanza predatoria, dei corrotti e dei corruttori, la criminalità organizzata internazionale. Troppo difficili da capire, troppo difficili da spiegare. Troppo potere da mettere in discussione. Poca volontà di contrastarlo.

Il passaggio successivo consiste nella ricerca di un capro espiatorio. E il capro espiatorio delle democrazie moderne occidentali sono i miserabili: migranti, disoccupati, mendicanti. E ovviamente chi li aiuta. Facili da attaccare, praticamente indifesi. Vittoria certa, agevole, pulita. Consenso a buon prezzo. Non tutti ci cascano ovviamente. Al Salone del Libro di Torino, a maggio, nel silenzio compiacente della platea (“la cultura è l’oppio dei popoli” direbbe Goffredo Fofi) tre ragazzi hanno contestato il ministro dell’Interno Marco Minniti per i decreti di sedicente sicurezza che portano il suo nome e quello del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Dietro il paravento di tanta retorica, l’operato del Governo punta a un modello ben lontano dall’accoglienza diffusa che ci si era prefissi, fatto anche di accordi con Paesi tutt’altro che democratici per il “contenimento” dei flussi migratori. La protesta è stata facilmente repressa, ma ci sono voluti tre ragazzi coraggiosi per dire che il re è nudo.

La paura è la stessa arma del terrorismo internazionale, che non colpisce il potere, non colpisce l’ingiustizia: colpisce gli indifesi, le vittime, chi non ha alcun potere, come quei ragazzini -e le loro famiglie- a Manchester il 22 maggio. Ragazzini per i quali la società multiculturale è la normalità. La filosofa Donatella Di Cesare parlerebbe di “fobocrazia”: «Il terrore incrina l’etica, sfida la politica, muta la forma di vita. Scaturito dalla modernità, il terrore è la forza violenta che si oppone alla globalizzazione».

Liana Milella intervista Gustavo Zagrebelsky. «Intercettazioni, no ai divieti il compito del giornalismo è fare la guardia al potere. Il magistrato cerca le prove, la stampa pubblica le notizie anche quando sono sgradite».

la Repubblica, 21 maggio 2017

«La stampa è, come si usa dire, il quarto potere. La separazione dei poteri porta con sé, come ha scritto Repubblica, la separazione dei doveri. E quindi il magistrato cerca le prove, il giornalista pubblica le notizie». Dice così Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo.

La telefonata tra i Renzi padre e figlio ha riaperto lo scontro sulle intercettazioni. Ritiene che andasse pubblicata?
«Credo che si debba fare un discorso sui principi. Il magistrato accerta reati, segue le regole del processo, e non si occupa d’altro. Il giornalista fa un mestiere completamente diverso, deve informare l’opinione pubblica su tutto ciò che è importante per la vita democratica. E per questo la Corte di Strasburgo definisce i giornalisti “cani da guardia della democrazia”. E i cani da guardia sono lì per mordere, qualche volta».

Arriviamo alla “separazione dei doveri”, il dovere del magistrato di indagare, quello del giornalista d’informare. Pensa che uno di noi debba cercare e pubblicare tutte le notizie che trova, no?
«Il giornalista deve pubblicare le notizie che sono di interesse pubblico, non quelle che soddisfano solo la curiosità del pubblico. La distinzione tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante per il giornalista, mi si passi il gioco di parole, non ha nessuna rilevanza. La pretesa per cui sarebbero pubblicabili solo le notizie penalmente rilevanti è priva di senso. E non acquista senso ripetendola all’infinito».
Forse, anche in stagioni politiche diverse, è utile alla politica tentare di imporla.
«Il “potere”, qualunque ne sia il colore, cerca di difendersi dai morsi che vengono da un’informazione non condizionata. Si tratta del pendant, sul piano dell’informazione, dell’altra regola che si è affermata in Italia: non solo le notizie, ma anche i fatti che non sono penalmente rilevanti, è come se non esistessero. Fino al punto di pretendere una sentenza penale definitiva per prenderli in considerazione. E tanto meglio se la sentenza non arriva mai».
Ammetterà che, in questi giorni, c’è stata una ricerca ossessiva delle fonti. Non si rischia andando avanti così una sorta di attentato alla stampa?
«La protezione delle fonti del giornalista è affermata sia dalla giurisprudenza nazionale sia da quella europea, ed è un principio sacrosanto che dimostra come vi sia tensione, e qualche volta contraddizione, tra le esigenze del segreto, e quella di informare l’opinione pubblica. Conflitti simili sono ben noti nei regimi liberali. La libertà di stampa è fondamentale, ma può incontrare limiti, non solo quelli che riguardano la vita privata dei singoli. Anche altri interessi pubblici possono richiedere tutela».
L’annunciata legge sulle in- tercettazioni ha innescato l’autocensura dei procuratori che con le circolari l’hanno anticipata, mettendo paletti stretti alle telefonate. Già ora decidono cosa può uscire e cosa no.
«Secondo me non è così, nel senso che quelle circolari specificano le regole che sono già nel codice di procedura penale e che riguardano l’uso o l’eliminazione di intercettazioni ai fini del processo penale. E la selezione vien fatta da un giudice, nel contraddittorio del pubblico ministero e dei difensori. Ma adesso parlavamo del lavoro del giornalista».
Eh sì, ma una volta che la toga ha etichettato come irrilevante una conversazione, che magari, come per i Renzi, è giornalisticamente interessante, va a finire che se la si pubblica si scatena il putiferio.
«È la prova che tra i doveri interni al processo e i doveri fuori dal processo, che riguardano i giornalisti, vi è una competizione che va composta tenendo conto degli interessi legittimi che sono in ballo e del valore fondamentale della libertà del giornalista, in primo luogo di cercare le notizie significative e poi di pubblicarle ».
Ma la legge che si vuole fare non comporta il bavaglio e il rischio di incriminazioni?
«Intanto si tratta di una legge delega e molto dipenderà da come il governo la eserciterà, e poi i divieti di pubblicazione esistono già...».

«Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del "foro" aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande».

il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)

Non tutti sanno che nel suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituta da «sampietrini», i cubetti di porfido caratteristici delle strade e delle piazze romane. Una scelta, questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia non è un luogo «separato» dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione.

Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata e autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del «foro» aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei «giudici», che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere.

Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo del diniego opposto da alcuni importanti magistrati alla richiesta di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante.

A Firenze, in particolare, la presidente della corte di appello e il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano il loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni.

Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale.

È bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo della legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del «Tribunale supremo», in un’aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale.

In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella «colleganza» fra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’ordine giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente a ignari cittadini, fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.


«I Comitati promotori proseguono il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari».

il manifesto 12 maggio 2017 (c.m.c.)

Il bello (si fa per dire) arriva ora. Consegnate ai presidenti di Camera e Senato le firme della petizione “Restituire la sovranità agli elettori”, il lavoro del Comitato per il No e del Comitato contro l’Italicum è tutt’altro che finito. Anzi, si può dire che comincia adesso e non saranno rose e fiori: la strada per arrivare ad una legge elettorale democratica e coerente con i principi costituzionali – che metta gli elettori in grado di eleggere un parlamento realmente rappresentativo e restituire credibilità alle istituzioni – resta irta di ostacoli.

Dopo le primarie del Pd – che anziché portare chiarezza come molti speravano e altrettanti millantavano, stanno aggiungendo confusione a confusione – le cosiddette trattative per arrivare ad un testo base per il lavoro della Commissione competente alla Camera sembrano piuttosto mercanteggiamenti da suk: l’offerta cambia a seconda dell’interlocutore, a conferma che la proposta renziana del modello tedesco era solo una boutade.

E pazienza se si sta parlando della legge elettorale, cioè la regola fondamentale della democrazia: non è all’orizzonte una visione complessiva e di lungo periodo su che tipo di parlamento (e dunque di istituzioni) si vuole. Ma questo è anche un modo per tenersi le mani libere e prendere tempo dicendo tutto e il contrario di tutto (dicesi menare il can per l’aia) e magari dimostrare che l’accordo tra i partiti è impossibile, quindi tanto vale andare a votare a ottobre.

Ecco perché è vietato abbassare la guardia e i Comitati proseguiranno il loro lavoro di monitoraggio cercando di mantenere alta nell’opinione pubblica l’attenzione a ciò che avviene nelle aule parlamentari. La settimana scorsa si è svolto un primo appuntamento importante: un convegno nel corso del quale i Comitati si sono confrontati con le forze politiche, quelle che hanno aderito alla campagna per il no nel referendum costituzionale. Nell’incontro, i Comitati hanno ribadito gli argomenti e le ragioni che hanno sostenuto la petizione sulla legge elettorale da ultimo presentata ai presidenti di Camera e Senato.

È stata rivolta alle forze politiche intervenute una forte sollecitazione a impegnarsi soprattutto per una legge di impianto proporzionale che favorisca la piena rappresentatività delle assemblee elettive e che riconosca la libertà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti cancellando il voto bloccato sui capilista. È stata sottolineata la inaccettabilità di ipotesi, pur emerse nel dibattito di questi giorni, come l’abbassamento della soglia del premio di maggioranza (o comunque la conferma del premio) o il rifiuto di aprire alle coalizioni. Ipotesi che andrebbero soprattutto a danno delle forze politiche minori. I direttivi hanno confermato il proprio perdurante impegno per una legge elettorale pienamente conforme alla lettera e allo spirito della Costituzione, di cui il paese ha estremo bisogno.

Per meglio portare avanti questo impegno, i Comitati hanno anche deciso di riorganizzarsi. La riunione congiunta dei direttivi di giovedì scorso ha avviato il percorso di unificazione delle due associazioni che sarà sancita solo dopo l’assemblea nazionale dei comitati territoriali (prevista a metà giugno) con le modifiche statutarie necessarie. Nella riunione, i direttivi hanno concentrato la loro attenzione proprio sulla legge elettorale, partendo dagli incontri con i presidenti di Camera e Senato, cui sono seguiti quelli con i presidenti delle Commissioni Affari costituzionali dei due rami del parlamento.

È stato inoltre deciso di formare due gruppi di lavoro per seguire passo passo l’iter della legge elettorale prima alla Camera poi al Senato, ipotizzando anche un rilancio della raccolta delle firme e la possibilità di organizzare iniziative e manifestazioni durante l’iter della legge elettorale. Perché le proposte in campo sembrano voler ripetere gli errori di Porcellum e Italicum: tre leggi elettorali incostituzionali una di seguito all’altra rappresenterebbero davvero un non invidiabile primato europeo.

Israele Stato-nazione. La legge è il corollario di una graduale distruzione del tessuto democratico della società israeliana. Legalizza la «caratteristica nazionale dello Stato di Israele come diritto speciale del popolo ebraico», il che significa disattendere o negare i diritti civili di tutti quelli che ebrei non sono».

il manifesto, 10 maggio 2017
Alla proposta di legge del governo israeliano che sancirebbe una forma sottile di apartheid, l’opinione pubblica internazionale ha reagito in modo debole, senza allarmarsi troppo per il fatto che la vita in Israele è già diventata un’abitudine costante alla discriminazione e al razzismo.

La legge proposta dal deputato Avi Dichter del Likud, fatta propria domenica scorsa dal Comitato ministeriale per la legislazione e che è in via di esame alla Knesset, è chiamata «Legge della nazione». Dichter, in passato comandante dello Shin Bet (i servizi segreti), aveva già proposto la legge in precedenza, come deputato di Kadima, quando la formazione era guidata da Tsipi Livni.

La legge si riferisce a questioni ben note. Nel 1948 l’Onu sancì la creazione di uno Stato ebraico. L’olocausto era recente e ben presente negli animi, e molti dei caduti nella guerra di indipendenza erano persone sopravvissute ai campi di sterminio. La dichiarazione di indipendenza che assicurava un rifugio affidabile a tutti gli ebrei garantiva al tempo stesso eguaglianza e democrazia per tutti gli abitanti del paese, indipendentemente dall’origine e dalla religione di appartenenza.

Ma nel 1967 l’occupazione di nuovi territori significò una realtà molto diversa per milioni di palestinesi; l’occupazione militare delle loro terre li spogliò dei diritti umani e politici. L’occupazione compie mezzo secolo in questi giorni. La legge recentemente proposta è il corollario di una graduale distruzione del tessuto democratico della società israeliana. Si tratta di affermare e legalizzare la «caratteristica nazionale dello Stato di Israele come diritto speciale del popolo ebraico», il che significa in maniera pura e semplice disattendere o negare i diritti civili di tutti quelli che ebrei non sono.

Negli ultimi anni l’erosione della democrazia – ricordiamo la solfa continua dell’«unica democrazia del Medio Oriente» – ha avuto una netta accelerazione. Giorno dopo giorno, si è inasprita la guerra contro le organizzazioni israeliane impegnate sul fronte dei diritti umani e della democrazia, e contrarie all’occupazione.

Le decisioni contro questi gruppi aumentano e in alcuni casi non hanno solo l’appoggio della coalizione di fondamentalisti religiosi e fascisti; anche gli opportunisti di «centro» come Lapid e parte dei laburisti si accodano all’isteria anti-araba e anti-islamica. Ormai sono tutti terroristi che ci minacciano.

Ma la guerra contro il diritto democratico e la delegittimazione dell’opposizione di quei pochi israeliani che tuttora fanno ascoltare la propria voce si rafforzano quando si tratta di palestinesi, in Israele o nei territori occupati.

La legge approvata pochi mesi fa dal Parlamento – in attesa di convalida della Corte suprema – ha stabilito la legittimità del furto delle terre palestinesi.Per dirla in modo semplice e secondo la terminologia «legale», è ora possibile confiscare terre palestinesi, anche se sono state erroneamente occupate da coloni se l’occupante dimostra di averne in qualche modo bisogno. Il procuratore generale si è opposto al governo perché ritiene che questa legge non sia costituzionale; il governo sarà difeso da un noto e stimato avvocato…che si costruisce senza permesso una nuova casa nei territori occupati!

La nuova legge proposta dal governo è semplicemente un prologo: non si tratta solo dei cittadini palestinesi di Israele, l’obiettivo reale del governo è il sistema da imporre nei territori occupati da Israele. L’annessione dei territori, auspicata dalla destra radicale, aggiungerebbe alla popolazione dello Stato ebraico milioni di palestinesi ai quali, visto il razzismo imperante, sarebbe impossibile accordare uguali diritti.

L’apartheid di fatto diventerà, con la nuova legge, un apartheid di diritto. Non si tratta di un semplice cambiamento legale o della questione delle lingue ufficiali.

Questo è importante, ma perfino secondario rispetto alla questione essenziale: Israele, che discrimina in molti modi i propri cittadini di nazionalità palestinese e assoggetta milioni di altri palestinesi a un’occupazione violenta, ufficializzerà questa situazione.

Per riassumere: l’80% degli israeliani saranno cittadini privilegiati in uno Stato «democratico», il restante 20% saranno cittadini «accettati per necessità», milioni di altri saranno i nuovi soggetti dell’apartheid nelle sue attuali manifestazioni, pseudodemocratiche.

La «legge della nazione» non è solo l’apartheid in Israele; è il velato annuncio della costruzione legale che faciliterà l’annessione dei territori occupati nel 1967 e distruggerà le poche possibilità ancora esistenti di arrivare a un accordo di pace israelo-palestinese.

Ecco una vera e propria confessione pubblica, che sonda l’opinione della comunità internazionale. Il mondo ha accettato tante nostre violenze perché siamo «vittime del terrorismo»; vedremo ora come tratterà questa confessione di discriminazione ufficiale e «legale». Un preludio dell’annessione dei territori occupati.

«L’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie».

il manifesto, 7 maggio 2017 (c.m.c.)

Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese. Un fiume colorato, vivace e combattivo, di oltre quindicimila persone provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Davanti a tutti le mamme della Terra dei fuochi e una rappresentanza di terremotati di Amatrice. E uno slogan scritto su cento striscioni e ritmato lungo tutto il corteo: «Contro la Torino-Lione c’eravamo, ci siamo e ci saremo!».
I siti dei grandi giornali – almeno mentre scrivo – ignorano un evento di cui avevano anticipato il probabile insuccesso, evocando divisioni e disaffezione e amplificando le polemiche della destra e del Pd per la partecipazione del vicesindaco di Torino. Invece è stato, ancora una volta, un esempio di democrazia. Da parte di un movimento che da venticinque anni tiene aperta la partita ed è più che mai determinato a vincerla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Ma la manifestazione dice qualcosa di più. La consapevolezza che la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è un’opera devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa e decisa in modo autoritario apre la strada a una consapevolezza ulteriore.

Quella secondo cui lo scontro in atto in Val Susa è prima di tutto una grande questione di democrazia. Perché l’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie, aggravata dalla delega agli apparati (polizia, magistratura e, addirittura, esercito) della gestione delle più rilevanti questioni politiche.

Si spiega così la durata e l’ampiezza della partecipazione, che è anche una forma di resistenza contro la violazione di diritti fondamentali delle persone e delle comunità. Una violazione che non può essere legittimata da un voto di maggioranza. Perché – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia chiude definitivamente una partita. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».

È una lezione che dovrebbe essere meditata da quel che resta di una sinistra troppo spesso interessata alle questioni istituzionali più che alle dinamiche reali e profonde del paese.

«Nelle coppie oppositive che abitano il lessico politico, quella tra sovranisti populisti e antipolitici democratici occulta la pratica democratica dei movimenti. Il filo rosso che lega i no-global a Nuit Debout è la ripresa di parola dei cittadini e la convergenza di pratiche sociali diversificate».

ilmanifesto, 3 maggio 2017 (c.m.c.)

La crisi delle istituzioni, la loro sempre più debole capacità di «rappresentare» gli interessi e le spinte al cambiamento di una maggioranza di cittadini, pur nella diversità delle loro condizioni sociali e ideali politici, sembra essere l’elemento inquietante di convergenza tra populismi di destra e di sinistra. C’è chi agita il mito del popolo sovrano per scardinare la democrazia e chi, al contrario, spera di allargarne le maglie, facendo crescere le opportunità di partecipazione.

La presa di distanza dalle istituzioni non è da oggi. Che cominciassero a venire meno le ragioni storiche che le avevano fatte sembrare necessarie, e che stesse rapidamente cambiando la realtà sociale con il modificarsi dei confini tra privato e pubblico, la comparsa di forme autonome dell’agire politico, create dai movimenti fuori dalle organizzazioni partitiche e sindacali, si era già visto alla fine degli anni Sessanta.

A proposito del depotenziamento della polarità sinistra-destra, scriveva Elvio Fachinelli: «Propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e di figura, hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele/infedele, credente/non credente, razza eletta/razza reietta» (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, 1974).
Sono passati da allora alcuni decenni, ma le coppie oppositive, su cui si sono rette le civiltà finora conosciute non accennano a darsi per vinte, a partire da quella originaria che ha considerato il sesso femminile il complemento organico dell’unico umano perfetto: l’uomo.

Nell’analisi che Alfio Mastropaolo ha fatto alcuni giorni fa su il manifesto (27/04/2017) dell’esito delle elezioni in Francia, si legge: «Tutti i populismi sovranisti sono antipolitici. Spregiano la politica democratica e il suo apparato di regole e di diritti. Ma non tutti gli antipolitici sono populisti. Molti sono anti-establishment, sono contro partiti convenzionali. Magari contro le istituzioni europee. Oltre la destra e la sinistra, ma non disdegnano le istituzioni democratiche (…) gli antipolitici di sinistra vorrebbero accrescere le opportunità di partecipazione popolare». Dopo essersi rallegrato della «strepitosa vittoria» di questi ultimi e della Waterloo di quelle «piccole cittadelle del privilegio» che sono i partiti tradizionali, arriva, sconfortante, la conclusione: «La più democratica delle antipolitiche è invertebrata».

Così come era accaduto ad Obama, anche Macron, «senza una solida struttura che connetta Stato e società, è probabile che finisca tra le grinfie del business, donde proviene».

A breve distanza di tempo, mi è capitato di leggere due altri articoli che, sempre con l’attenzione a quanto succede in Francia, disegnano un quadro all’apparenza estraneo a quello che è al centro dei media, e portano dentro le polarità che conosciamo, oppositive e simili al medesimo tempo – sovranisti populisti e antipolitici democratici -, una realtà sociale e politica destinata a far scomparire ogni surrettizia e mitologica idea di popolo. Non si può dire che i movimenti «no global» – dal popolo di Seattle, al Genoa Social Forum, a Occupy Wall Street, Indignados, fino a Nuit Debout – siano «soggetti imprevisti» come furono i giovani e le donne degli anni Sessanta e Settanta. Caso mai si possono considerare la «ripresa», ora manifesta ora carsica, di una straordinaria partecipazione popolare, allargamento dell’impegno politico, creazione di forme inedite di democrazia diretta, come lo furono in passato il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo.

Il legame tra società e Stato ha fatto da tempo il suo ingresso nella sfera pubblica e se ancora si vede solo il deserto su cui crescono fatalmente nuovi totalitarismi e inconsistenti governi democratici, è perché nessuno, tra i politici, gli intellettuali, gli opinionisti, sembra vederlo e volerne parlare.

Riferendosi a Nuit Debout e ai movimenti che si sono via via succeduti nel tempo, Lorène Lavocat su Reporterre-net il 6 aprile scrive: «Il movimento non è fallito, ho visto fiorire collettivi e inziative, alcune commissioni nate in quella piazza (come quella di Educazione popolare) continuano a incontrarsi».
Si tratta di un movimento che si pone come «convergenza» di pratiche diverse «senza che si verifichi una fusione o unità».

Quel deficit di democrazia su cui aleggia oggi minaccioso il fantasma dei fascismi e nazionalismi che l’Europa ha tragicamente già conosciuto, trova qui la sua risposta più radicale e realistica al medesimo tempo: «dare ai cittadini la capacità di influire in modo continuativo sulle decisioni, ridurre al minimo l’estrema presidenzializzazione del sistema, accrescere il controllo dei cittadini sui loro rappresentanti, garantire il pluralismo dell’informazione».

Mariana Otero, che sta per far uscire un documentario sulle assemblee parigine – L’Assemblea – definisce Nuit Debout un «appello alla democrazia», ma anche un luogo in cui la si vuole già praticare come «riappropriazione del potere politico da parte dei cittadini attraverso la riconquista della parola».

Le fa eco David Graeber in un articolo di pochi giorni dopo («Effimera» 20 aprile): «spazi prefigurativi, zone di sperimentazione democratica (…) parte di una civilizzazione insorgente, planetaria per portata e ambizione, nata da una lunga convergenza di esperimenti simili realizzati in ogni parte del pianeta (…) con contributi essenziali del femminismo, dell’anarchismo, disobbedienza civile non violenta».

I movimenti che raccolgono le esigenze radicali di ogni passaggio storico e tentano di darvi una risposta con azioni creative dal basso, sono la testimonianza viva, appassionata che «un altro mondo è possibile». Ma sono anche la realtà sociale e politica che le istituzioni, dalla scuola ai partiti, sindacati, parlamenti, volutamente ignorano o reprimono con la violenza.

«». Internazionale online, 14 aprile 2017 (c.m.c.)

La primavera non è una stagione adatta all’austerità, come cantava l’artista greca Léna Plátonos negli anni ottanta. Malgrado le decisioni della troika, il crollo delle istituzioni democratiche, il ritorno dell’estetica fascista e la progressiva trasformazione dei campi profughi in campi di concentramento, ad Atene torna la primavera, e non è certo una stagione adatta all’austerità.

Il sole non si arrende ai tagli al bilancio pubblico. Gli uccelli non capiscono niente dell’aumento dei tassi d’interesse, della chiusura delle biblioteche e dei musei pubblici, delle centinaia di opere chiuse in cantina e che non saranno più mostrate ai visitatori, dell’incapacità delle strutture sanitarie pubbliche di curare i malati cronici e i sieropositivi, dell’assenza di servizi medici e scolastici per i migranti e così via.

Di tutto questo, né il sole di aprile né gli uccelli del monte Licabetto vogliono sentir parlare. In queste condizioni, cosa significa organizzare ad Atene una mostra che fino a oggi si è sempre tenuta a Kassel, in Germania? Ostinarsi a credere che la primavera non sia una stagione adatta all’austerità e che il sole brilli per tutti. O forse, piegarsi alle nuove condizioni del cambiamento climatico e accettare, come diceva Jean-François Lyotard, che anche il sole invecchi.

Tutte le forme di esclusione

La prima mostra Documenta, organizzata a Kassel nel 1955 da Arnold Bode, aveva come obiettivo quello di mostrare le opere di artisti d’avanguardia, esclusi dal regime nazista. Bode voleva riconfigurare la cultura pubblica europea in un continente devastato dalla guerra. La quattordicesima edizione si svolge con un analogo senso d’urgenza. Siamo in un contesto di guerra economica e politica. Una guerra delle classi dirigenti contro la popolazione mondiale, del capitalismo globale contro la vita, delle nazioni contro i corpi e le innumerevoli minoranze.

La crisi dei mutui subprime del 2008 è servita a giustificare una ristrutturazione politica e morale del capitalismo globale come mai era accaduto dagli anni trenta. La Grecia si è trasformata in un significante dal denso valore politico, che sintetizza tutte le forme d’esclusione prodotte dalla nuova egemonia finanziaria: riduzione dei diritti democratici, criminalizzazione della povertà, rifiuto delle migrazioni, patologizzazione di ogni forma di dissidenza.

Per questo la ricerca che ha preceduto la mostra si è svolta soprattutto a partire da Atene. Per mesi, centinaia di artisti, scrittori e intellettuali che contribuiscono a Documenta 14 sono venuti qui. Ed è per questa ragione che la mostra è stata inaugurata l’8 aprile ad Atene e si sposterà a Kassel solo il 10 giugno. Durante la fase di preparazione nella capitale greca, è stato fondamentale vivere il fallimento democratico rappresentato dal referendum dell’oxi (no) del 5 luglio 2015. Quando il governo greco si è rifiutato di accettare la decisione della cittadinanza, il parlamento è apparso come un’istituzione in rovina, vuoto, incapace di rappresentare il popolo.

Nello stesso momento piazza Sintagma e le vie d’Atene si sono riempite per giorni di voci e di corpi. La strada è diventata il parlamento. Da lì è nata l’idea del programma pubblico di Documenta 14: il Parlamento dei corpi. Dal settembre 2016 abbiamo aperto uno spazio di discussione nel parco Eleftherias, dove artisti, critici, attivisti, ballerini, autori e altre persone si ritrovano per concepire la ricostruzione della sfera pubblica in un contesto di democrazia (e non di economia di mercato) in crisi.

Una delle difficoltà (e delle bellezze) dell’organizzare questa mostra è stata la decisione del suo direttore artistico, Adam Szymczyk, di collaborare in maniera quasi esclusiva con delle istituzioni pubbliche. In tempo di guerra, l’interlocutore non potevano essere né l’establishment, né le gallerie, né il mercato dell’arte. Al contrario, la mostra va intesa come un servizio pubblico, un antidoto all’austerità economica, politica e morale.

Persone non-documentate

Durante una mostra internazionale come Documenta, tutti vogliono conoscere la lista degli artisti con le rispettive nazionalità, la proporzione di greci e tedeschi, di uomini e di donne. Ma chi può dichiararsi oggi cittadino di un paese? Sono lo statuto del “documento” e il suo processo di legittimazione che vengono rimessi in questione. Mentre nella mappa geopolitica si moltiplicano le crepe, entriamo in un’era nella quale il nome e la cittadinanza hanno smesso di essere delle condizioni banali per diventare dei privilegi, nella quale il sesso e il genere hanno smesso di essere delle designazioni evidenti per trasformarsi in stigmate o in manifesti.

Alcuni degli artisti e curatori di questa mostra hanno perso un giorno un nome o ne hanno acquisito un altro al fine di modificare le loro condizioni di sopravvivenza. Altri hanno cambiato più volte il loro status di cittadinanza oppure aspettano che sia concesso loro, o meno, il diritto d’asilo. Come chiamarli, allora? Come considerarli? Come siriani, afgani, ugandesi, canadesi, tedeschi o come semplici numeri su una lista d’attesa? Sono greche o tedesche, le centinaia di artisti greci che emigrano alla ricerca di migliori condizioni di vita a Berlino? E lo stesso vale per le statistiche di uguaglianza tra i sessi. In quale categoria includere le persone trans e intersessuali? Non-documentate.

Documenta 14 si svolge su un terreno epistemologico che si sta sgretolando. Il sacrificio economico e politico al quale è sottoposta dal 2008 la Grecia non è altro che il prologo a un più ampio processo di distruzione della democrazia, che si estende a tutta l’Europa.

Da quando abbiamo cominciato a preparare questa edizione di Documenta, nel 2014, siamo stati testimoni di questa progressiva demolizione che impregna ormai tutte le istituzioni culturali: il rifiuto dei rifugiati, il conflitto militare in Ucraina, il ripiegamento identitario dei paesi europei, la svolta ultraconservatrice dell’Ungheria, della Polonia, della Turchia, ma anche l’elezione di Trump, la Brexit e via dicendo.

Il pianeta sta dando vita a un dispositivo di “controriforma” che cerca di ristabilire la supremazia bianca maschile e di disfare le conquiste democratiche che i movimenti operai, anticoloniali, indigeni, femministi e simili erano riusciti a ottenere nel corso degli ultimi due secoli.

Una modalità inedita di neoliberismo e neonazionalismo disegna nuove frontiere e costruisce nuovi muri. In queste condizioni la mostra, nei suoi diversi modi di costruire uno spazio pubblico di visibilità e di enunciazione, deve diventare una piattaforma d’attivismo culturale. Un processo nomade di cooperazione collettiva, senza identità e senza nazionalità. Kassel travestita da Atene. Atene che muta in Kassel.

Le condizioni di vita dei sans papiers e dei senza terra, degli spostamenti progressivi, delle migrazioni e della traduzione ci obbligano a superare la narrazione etnocentrica della storia occidentale contemporanea e ad aprire nuove forme di azione democratica. Documenta è in transito. Ispirandosi a metodi della pedagogia sperimentale, decoloniale, femminista e queer, che rimettono in discussione le condizioni nelle quali alcuni soggetti politici si rendono visibili, questa mostra si afferma come apolide, con un doppio significato: interroga il legame con la patria, ma anche con la genealogia coloniale e patriarcale che ha costruito il museo dell’occidente, e che oggi desidera distruggere l’Europa.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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