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Ancora meno liberi gli USA. Vietato l’ingresso aimusulmani. La Corte suprema ha dato ragione all’editto di Donald Trump

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La Repubblica, 2«Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti».Nei primi anni della democrazia, le giornate elettorali erano giorni di festa. Chi ha una certa età e un minimo di memoria, ricorda che ai seggi c’era chi si recava con il “vestito buono” e non solo perché era domenica. Si festeggiava la riconquistata libertà. Un’abissale distanza dai rassegnati rituali dei giorni nostri, quando due elettori su tre hanno disertato, non trovando valide ragioni nemmeno per quel piccolo atto di impegno politico che è la scheda depositata nell’urna. Ora finalmente, l’astensione di massa è entrata nella discussione politica. Ma di che cosa si discute? Soprattutto di come attirare o recuperare alla propria parte i voti perduti; di come pescare qualcosa in quel grande bacino di astenentisi che è diventato il più grande partito italiano, più grande di tutti gli altri messi insieme. Insomma, i partiti pensano ai propri interessi facendo promesse sempre meno credute, per sedurre gli elettori e intercettarne i voti. In prossimità delle elezioni, cioè, fanno esattamente ciò che è la causa della frustrazione della democrazia. In Italia c’è il suffragio universale: vero e falso. Vero, perché il diritto di voto è riconosciuto a tutti; falso, perché solo una minoranza lo esercita. È la differenza tra ciò che è in potenza (il diritto) e ciò che è in atto (l’esercizio del diritto). Il voto è diritto di tutti e molti non lo usano. Così la democrazia, che dovrebbe essere il sistema politico della larga partecipazione, diventa “olicrazia”, il regime in cui il governo è nelle mani di minoranze. Senza che si cambino le leggi, cambia la forma di governo.

C’è, innanzitutto, una questione quantitativa. Un tempo, “l’astenuto” era l’eccezione. Nelle prime elezioni repubblicane, nel 1948, i cittadini che andarono al voto furono il 92,23 per cento: cioè, tolti coloro che erano impediti dagli acciacchi, dalla malattia o dall’assenza dall’Italia, tutti. A partire dagli anni ’80, si scese sotto l’80 per cento e si incominciò a riflettere. Oggi possiamo dire che non è l’astenuto l’eccezione, ma è il votante, soprattutto in certe fasce d’età e in certe categorie sociali. Una volta ci si chiedeva quali fossero le ragioni del non- voto; oggi, quali le ragioni del voto: un vero e proprio ribaltamento. Il diritto c’è, ma la maggioranza non ne fa uso. Se è vero che l’esercizio dei diritti è ciò che forma l’ossatura morale d’una società (una volta si diceva che bisogna tenere sempre strette le mani sui propri diritti), allora dobbiamo concludere che siamo diventati un popolo straordinariamente malleabile, arrendevole.
I politologi si consolano troppo facilmente osservando che l’astensionismo è diffuso dappertutto, talora in misura anche maggiore che in Italia. Parlando solo dell’Europa, le statistiche provano che siamo comunque nella media dei maggiori Paesi dei quali non si potrebbe contestare il carattere democratico (Regno Unito, Francia, Germania, Svizzera, ecc.). Si dice anzi che sarebbe il sintomo di “democrazie mature”, consolidate: ci si fida a tal punto gli uni degli altri che non si considera necessario agire in proprio. In un certo senso, gli astenuti si fanno rappresentare dai votanti.
Il sintomo, tuttavia, è ambiguo. Non dappertutto e sempre esso significa la stessa cosa. Occorrerebbe andare a fondo nelle motivazioni: molta fiducia e molta sfiducia possono produrre lo stesso effetto. La fiducia è il pilastro della democrazia, ma la sfiducia ne è il tarlo. Non c’è bisogno di sondaggi, statistiche, analisi per capire che in Italia siamo di fronte al rinascente fenomeno di massa del rifiuto della politica, e per sapere di quale mescolanza di delusione, frustrazione, rassegnazione, rabbia e disprezzo esso si alimenta. Basta un po’ di ordinarie, quotidiane frequentazioni e conversazioni.
C’è, poi anche, una questione qualitativa.
Si dice che il nostro tempo è quello del populismo e dell’antipolitica, e il dilagante astensionismo è spesso indicato come un effetto dell’uno e dell’altra. Chissà perché? I populismi, comunque li si concepisca, sono sempre regimi della mobilitazione di massa (mobilitazione, non partecipazione), mentre l’astensione è una smobilitazione. L’anti- politica, poi, è un sentimento attivo che si rivolge “ contro”: contro le istituzioni, i politici, lo Stato, e può sfociare in ribellismo e in anarchismo. L’astensionismo, forse, più precisamente potrebbe definirsi non- politica, “ impolitica”: cioè l’atteggiamento rassegnato di chi dice “ lasciatemi in pace” oppure, drammaticamente, “ ho perso ogni speranza” perché non so chi votare, a chi votarmi.
C’è poi, invece, il popolo dei votanti, il popolo composto da coloro che sanno chi votare— perché mantengono viva una fedeltà, una speranza e una fiducia — e da coloro che sanno a chi votarsi — perché hanno ricevuto promesse di favori o minacce di ritorsioni. Il voto dei primi è libero; quello dei secondi, è forzato. Coloro che appartengono al mondo di chi sa a chi votarsi di certo non si astengono. Così, tanto maggiore è il loro numero, tanto maggiore è l’incidenza del voto corrotto su quello libero. Se — supponiamo — votano in cento e i voti corrotti sono venti, i venti rappresentano un quinto del totale; se votano in sessanta e i voti corrotti sono sempre venti, i venti rappresentano un terzo del totale. Ciò significa, in breve, che l’astensionismo attribuisce un plusvalore al voto di scambio e, in genere, all’influenza delle varie forme di criminalità organizzata che operano nel nostro Paese. La crescita dell’astensione le favorisce. Si ha un bel dire che, astenendosi, i cittadini reagiscono in quel modo al degrado della politica “lanciando segnali”: nel frattempo, però, non fanno altro che dare maggiore potere a coloro contro i quali vorrebbero dirigere la loro protesta.
C’è, infine, la questione politica. Tra gli astenuti, moltissimi sono coloro che dicono: voterei certamente, se solo sapessi per chi. E molti lo dicono con amarezza, perché sanno quanto è costata in lacrime e sangue la conquista del diritto di voto, per ogni spirito democratico il più sacro di tutti. Ma, per non fare vuota retorica (“ occorre”, “ serve”, “ bisogna”), non basta ( più) invocare il “ dovere civico” di cui parla la Costituzione. Deve riattivarsi il circuito della domanda (degli elettori) e dell’offerta (di chi si candida a essere eletto). C’è stato un tempo in cui si chiedeva: tu che ti astieni, che motivo hai per non votare. Oggi, spesso, si vuole sapere da chi non si astiene che motivo ha per votare. Qui c’è la questione politica. Il voto è un mercato. La parola può sembrare odiosa e lo è se il “bene” offerto è il favoritismo, il patronage d’interessi particolari a danno di quelli comuni, il clientelismo, la promessa d’illegalità, la corruzione, la partecipazione in opache strutture d’interessi. Non siamo (ancora) a questo punto ma, se i “ giri del potere” si stringeranno ancora e l’astensione di coloro che ne sono estranei crescerà, verrà il momento in cui l’elettore che fa uso del diritto di voto sarà sospettato di collusione.
La merce offerta sul mercato elettorale può, tuttavia, essere altra: onestà, esperienza, competenza, idee e ideali concreti di vita comune. Questa è la merce che manca al popolo di chi si astiene. Se qualcuno volesse farsene un’idea approfondita, potrebbe leggere il famoso saggio di Max Weber La politica come professione. I partiti che si candidano alle elezioni, così come sono, sono all’altezza del bisogno? Oppure il tempo per correre ai ripari è passato irrimediabilmente? È difficile l’innamoramento di ritorno, ma è ancor più difficile il ritorno alla politica di chi ne è stato prima illuso e poi disgustato.
Di fronte a questo compito, tanto vasto e urgente quanto essenziale per la democrazia, gli slogan, le promesse, le alchimie, le furbizie elettorali, le incoerenze, le menzogne e le recriminazioni reciproche sono contorcimenti nel vuoto che, se possibile, danno ragioni crescenti al popolo degli astenuti che osserva. C’è nell’aria un desiderio di ricominciamento; c’è un sentimento ambiguo di “piazza pulita”. Può essere il preludio a una catastrofe o a una rigenerazione. Se sarà la prima, gli storici daranno tutta la colpa alle inadeguatezze dei partiti e dei loro dirigenti, all’arroccamento nei posti e sulle posizioni acquisite e all’incapacità di cogliere il momento, comprendendo quando i vecchi tempi sono al tramonto e occorre promuoverne di nuovi.

Si dice che il nostro tempo è quello del populismo ma i populismi sono i regimi della mobilitazione di massa, mentre il non voto è smobilitazione

il manifesto,

Intervento al Forum Internazionale «Ottobre, rivoluzione, futuro», Mosca 5 novembre 2017

Inizio ponendomi una domanda: quali sono ora, a cento anni esatti dalla rottura bolscevica, i compiti di una/un militante comunista occidentale nella sua attività giorno per giorno? E quale è il soggetto non solo puramente politico ma sociale, che può svolgere un ruolo rivoluzionario? La classe proletaria, ciò che eravamo abituati a pensare come soggetto, non esiste più nelle forme che conoscevamo.

Quella classe è stata sconfitta, è stata frantumata socialmente, economicamente, culturalmente. È geograficamente dispersa, i contratti collettivi sono sempre più sostituiti da quelli individuali. Contratti individuali attraverso i quali il lavoratore ha l’illusione di svolgere una attività autonoma e libera. L’individualismo ormai la fa da padrone dovunque. Come ricomporre quel soggetto sociale è un compito dei comunisti.

In secondo luogo credo dobbiamo riflettere sullo sviluppo delle forze produttive che non svolgono più un ruolo progressivo. Ve lo ricordate «il grande becchino» del capitalismo? Vi informo che non esiste più. Noi dobbiamo ricomporlo. Ma come fare? Voi conoscete la risposta che è stata data a questa domanda da Toni Negri e Michael Hardt.

È quella del general intellect, dei collettivi di lavoro che possono produrre nuovi spazi di liberazione e che svilupperebbero gradualmente dei soggetti anticapitalisti. Io penso che i processi di ricomposizione invece saranno molto meno spontanei, anche di come li immaginavamo nel passato. Dobbiamo lavorare di più sul progetto complessivo.

Diciamo spesso «siamo il 99% dell’umanità», ma come mai questa assoluta maggioranza non incide come dovrebbe? Ecco questo è il nostro problema: come progettare un mondo diverso.

I parlamenti ormai non decidono più nulla. La privatizzazione che abbiamo conosciuto in questi anni non è stata solo la privatizzazione dei servizi sociali o delle risorse ma anche quella del potere legislativo. Le decisioni più importanti non vengono più prese nei parlamenti ma sorgono da un accordi tra le grandi holding transnazionali che controllano i mercati globali e queste decisioni incidono sulle nostre vite molto di più di qualsiasi parlamento. Dove si trova oggi il Palazzo d’Inverno? Esiste ancora? È veramente difficile dirlo quando le decisioni sono prese molto lontano da noi.

Questo ci rimanda alla questione del partito, perché noi abbiamo bisogno di un partito. Le critiche che sono state fatte alla struttura partito da parte dei giovani sono importanti. Anche il migliore dei partiti è portato solo ad autolegittimarsi politicamente, ignorando le istanze dei movimenti.

Noi abbiamo bisogno di una nuova dialettica movimenti/partito. Il mondo è molto cambiato, esistono tante istanze diverse, non si può ridurre tutto ad uno, ma questo non si significa che il problema della strategia ce lo si possa mettere alle spalle.

Una società che non solo protesta ma anche costruisce, in questo senso credo che il ruolo dei movimenti sia stato sovrastimato. C’è bisogno di forme di organizzazione permanenti della democrazia. La democrazia non è andare a votare questo o quello ogni quattro anni ma la gestione della società.

Il superamento di questo sistema è un processo lungo che non può essere solo la conquista del potere politico, la «conquista della società» è assai più importante. La socialdemocrazia e il comunismo hanno condiviso la stessa cultura, la cultura dello statismo, l’idea della centralità della presa del potere politico. In questo orizzonte io credo che si riproponga ancora una volta quella che Gramsci chiamava la «conquista delle case matte».

E questo ci riporta al Lenin di Stato e rivoluzione in cui da una parte il rivoluzionario russo studia il problema dello Stato e della sua estinzione e dall’altro si pone il problema della costruzione nella società una nuova democrazia organizzata, quella dei soviet. I soviet o gli stessi consigli nella visione gramsciana non sono solo gli organizzatori dell’insurrezione ma anche strutture che iniziano a operare per la riappropriazione cosciente delle funzioni svolte dalla burocrazia statale, per la gestione sociale.

So che tutto ciò è difficile ma ciò potrà impedire che si imponga ancora una volta una società autoritaria, un potere separato dalla società. Se non costruiremo nella società una democrazia reale, quello che abbiamo conosciuto nel passato rischierà di ripresentarsi.

Internazionale,

Domenica 5 novembre in Sicilia si vota per eleggere il presidente della regione e i deputati dell’assemblea regionale. Gli schieramenti principali che si contendono la guida di palazzo dei Normanni sono tre. Nello Musumeci, 62 anni, ex Msi e poi An, guida una coalizione di centrodestra che comprende i partiti Forza Italia, Fratelli d’Italia, Udc e Noi con Salvini. Fabrizio Micari, 54 anni, rettore dell’università di Palermo dal 2015, è il candidato del Partito democratico, sostenuto anche dal presidente della regione, Rosario Crocetta. Giancarlo Cancelleri, 42 anni, geometra, è il candidato del Movimento 5 stelle.

Alla corsa partecipano anche Claudio Fava, 60 anni, giornalista e scrittore, sostenuto da una coalizione di sinistra, composta da Mdp, Sinistra italiana, Rifondazione comunista e Verdi. E Roberto La Rosa, 61 anni, avvocato, alla guida del movimento indipendentista Siciliani liberi.

Per tutti gli osservatori, e per gli stessi partiti che partecipano alla competizione elettorale, il voto siciliano è un passaggio fondamentale in vista delle elezioni politiche previste per marzo 2018.

I cinquestelle, dopo le inchieste a Roma e le difficoltà a Torino, cercano un rilancio proprio a partire dai risultati nell’isola: “Prima la Sicilia, poi il governo”, è stato lo slogan usato da Beppe Grillo. Il centrodestra misura la sua ritrovata unità, mentre Matteo Renzi ha provato a minimizzare: “Le elezioni siciliane non sono un test nazionale”, ha detto.

Secondo gli ultimi sondaggi, la partita è tra il candidato del centrodestra e quello dei cinquestelle. L’istituto Demos ha calcolato che Musumeci otterrebbe il 35,5 per cento delle preferenze, mentre Cancelleri il 33,2, Micari il 15,7, Fava il 13,8 e La Rosa l’1,8.

Tuttavia, c’è ancora incertezza e i candidati stanno provando a sfruttare questi ultimi giorni per convincere gli elettori. I temi più dibattuti sono astensionismo, disoccupazione, povertà, emigrazione e immigrazione.

Astensionismo

Il 5 novembre sono chiamati alle urne 4,6 milioni di siciliani, ma il 26 per cento di loro non sa che ci sono le elezioni. “È un dato che, accanto alla progressiva disaffezione dei cittadini alla politica regionale, pesa in modo significativo sulla partecipazione al voto”, dice Pietro Vento, direttore dell’istituto Demopolis che ha condotto la ricerca.

Dal 2001, il presidente della regione è eletto a suffragio diretto. In questi 16 anni, l’affluenza ha registrato alti e bassi, fino a scendere per la prima volta sotto il 50 per cento nelle elezioni del 2012.

Oggi solo il 12 per cento dei siciliani avrebbe fiducia nella regione come istituzione, mentre nel 2006 era il 33 per cento. Nel 2012, il M5s aveva capitalizzato questa disaffezione, incentrando la campagna elettorale sulla distanza dal sistema dei partiti che aveva governato fino ad allora, e diventando il partito più votato dell’isola. In questi cinque anni, intanto, nel governo guidato da Rosario Crocetta si sono alternati 59 assessori, facendo del presidente il governatore meno apprezzato in Italia.

Il centrosinistra è apparso più volte diviso nel sostegno a Crocetta, così come si era diviso nel 2010, ai tempi dell’appoggio al governo guidato da Raffaele Lombardo, fondatore del Movimento per le autonomie in seguito indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in appello per voto di scambio. Il centrodestra ha invece ritrovato l’unità dopo la spaccatura nel 2012 tra Musumeci e Gianfranco Micciché, leader storico di Forza Italia in Sicilia, che in quell’occasione decise di correre da solo.

Disoccupazione

Il lavoro è stato uno dei temi più dibattuti in questa campagna elettorale, ed è in generale un problema con cui i governi dell’isola fanno i conti da sempre. Il lavoro e, ovviamente, la mancanza di occupazione. Nel 2016 cinque regioni italiane hanno fatto registrare un tasso di disoccupazione alto più del doppio rispetto alla media dell’8,6 per cento nell’Unione europea. La Sicilia è al secondo posto in Italia per numero di disoccupati.

Povertà

Una delle conseguenze della mancanza di lavoro è un tasso di povertà tra i più alti in Italia. In Sicilia, secondo l’Istat, più della metà dei residenti – il 55,4 per cento – vive in famiglie a rischio povertà o esclusione. Nell’isola, i livelli di grave deprivazione materiale sono più che doppi rispetto alla media italiana. Mentre se si prende in considerazione la variabile del reddito, con una media di 25mila euro a famiglia la Sicilia è all’ultimo posto in Italia.

Emigrazione

Come in una specie di effetto domino, tutto questo influisce enormemente su chi decide di abbandonare l’isola. Nel 2016, i siciliani che hanno trasferito la residenza all’estero sono stati 11.501, il 17 per cento in più rispetto all’anno prima. In totale, sono più di 700mila: ragazzi, ragazze, donne, uomini e intere famiglie che in questi anni se ne sono andati e hanno contribuito a fare della Sicilia la prima regione in Italia per numero di iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire).

Nella lista delle venticinque città italiane con più iscritti all’Aire, la provincia di Agrigento ne conta quattro, un caso unico in Italia. Aragona è il comune italiano dove l’incidenza del numero dei residenti all’estero su quello dei residenti nel paese tocca il punto più alto: 8.491 persone su 9.463, l’89 per cento.

Se si considera che le statistiche non tengono conto di tutti quei siciliani che se ne sono andati ma non hanno cambiato residenza, si capisce che i numeri messi insieme finora non sono che la punta dell’iceberg di un problema ben più grave e profondo.

Immigrazione

Accanto ai numeri di chi se ne va, ci sono quelli di chi arriva. Secondo il ministero dell’interno, da gennaio 2017 a oggi, le persone sbarcate in Italia sono più di 111mila. La maggior parte di loro è arrivata nei porti di Catania, Augusta, Pozzallo, Lampedusa, Palermo e Trapani.

Nel 18 per cento dei casi, il loro paese d’origine è la Nigeria, il 9,5 per cento arriva dalla Guinea, il 9,4 per cento dal Bangladesh, l’8,8 per cento dalla Costa d’Avorio. A dispetto dei titoli sui mezzi d’informazione che parlano di “invasione”, la situazione negli ultimi anni è questa:

Delle 181mila persone arrivate in Italia nel 2016, in Sicilia 1.370 sono state accolte nel sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar); 4.498 sono finite negli 88 centri di accoglienza straordinaria (ce ne sono cinque volte di più in Lombardia, più del doppio in Campania, in Toscana e in Piemonte); 206 negli hotspot di Lampedusa, Pozzallo e Trapani; e 4.559 nei centri di prima accoglienza.

Nello stesso anno, le persone con permesso di soggiorno nell’isola erano 113mila, il 2,9 per cento di tutte le persone con permesso di soggiorno in Italia. Molte di loro sull’isola vivono e lavorano. Gli stranieri residenti sono infatti quasi 190mila, cioè il 3,7 per cento dei residenti siciliani.

Di fronte a questi numeri, la retorica dell’invasione si sgonfia. Eppure molti leader nazionali per sostenere i candidati locali hanno preferito mantenere il focus sull’immigrazione, invece di parlare e affrontare i numeri che raccontano una regione su cui da anni grava il rischio di fallimento.

la Repubblica

Per avere un’opinione sul divieto di pubblicare le notizie «non essenziali» contenute nelle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziaria bisogna intendersi su ciò che, qui e oggi, è davvero “essenziale”. Ferma restando l’avversione ad ogni arbitraria gogna mediatica e la necessità di non assecondare voyeurismi morbosi, sembra davvero impossibile stabilire cosa sia o non sia essenziale senza rammentare che siamo il terzo paese più corrotto d’Europa (peggio di noi solo Grecia e Bulgaria), e che (sempre secondo gli ultimi dati di Transparency Italia) la società civile e i media italiani hanno un punteggio di 42 su 100 nella stima della loro efficacia come mezzi di superamento della cultura della corruzione.

In altre parole, se vogliamo cambiare abbiamo un enorme bisogno di un discorso pubblico capace di rappresentare la corruzione per quello che è: senza sconti, senza belletti, senza censure. Abbiamo bisogno di raccontarci per come siamo: con crudo realismo. E per far questo poche cose sono efficaci come le conversazioni private di chi dice la verità perché è convinto che nessuno lo ascolti. Ebbene, le intercettazioni telefoniche che arrivano ai giornali e alle televisioni rappresentano i casi rarissimi in cui il libero, franco, cinico discorso privato irrompe nel contesto controllato, edulcorato e in ultima analisi falso, del discorso pubblico. E il risultato è spesso uno choc estremo: un salutare schiaffo collettivo.
Prendiamo il caso dell’università italiana. L’università dovrebbe essere il tempio del pensiero critico, innanzitutto del pensiero critico su se stessa. Invece, da molti anni, le nostre università stanno reprimendo il loro dissenso interno, trasformandosi in scuole di conformismo. Citiamo - tra i tanti possibili - il codice etico della più antica università d’Italia (e del mondo occidentale), l’alma
mater studiorum di Bologna. Il suo articolo 19, sulla «autonomia e libertà di critica», recita così: «L’Università promuove un contesto favorevole alle occasioni di confronto e riconosce le libertà di pensiero, di opinione ed espressione, anche in forma critica, al fine di garantire la piena esplicazione della persona, fatti salvi i limiti previsti dall’articolo 15 del presente Codice». Ma a cosa mai si riferirà questo articolo 15 che limita la libertà di critica, e cioè la stessa ragione di essere di un’università? Ecco a che cosa: alla «tutela del nome e dell’immagine dell’Università». In molti altri casi, i codici etici universitari esplicitano il fatto che anche per ricercatori e professori vale il Codice di comportamento dei pubblici dipendenti, il quale stabilisce (art. 13, comma 2) che «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione ». Il risultato è stato ampiamente raggiunto, purtroppo, perché il dissenso interno del mondo universitario (liquidato come un’offesa) è ormai rarefatto, sconfitto, irrilevante. E così non è cresciuto un pensiero critico radicale sulla deriva morale di troppa parte del sistema accademico.
E finisce che a dire la verità sia uno dei professori coinvolti nella pazzesca vicenda dei concorsi truccati di diritto tributario, il quale viene registrato mentre scandisce: «La logica universitaria è questa… è un mondo di merda… è un mondo di merda… quindi purtroppo è un do ut des». E ancora: «Qui non c’è nessun merito, ognuno ha i suoi...». E un collega: «Con che criterio sei stato escluso dal concorso? Col vile criterio del commercio dei posti …Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando». È eloquente che l’avvocato di uno degli indagati non abbia trovato niente di meglio da dichiarare se non che l’«integrità » del suo assistito sarebbe «testimoniata da una limpida e unanimemente apprezzata carriera accademica». L’unanimità omertosa viene invocata per esorcizzare i fatti emersi dal velo squarciato. Ora, chi ama l’università italiana e ne conosce la gran quantità di professori onesti e del tutto dediti alla conoscenza e agli studenti non può che gioire di questa rottura drammatica della famosa «immagine dell’università». Perché è evidente che la vera tutela dell’università, un suo riscatto, non può che passare attraverso un trauma come questo: nessuna analisi, nessuna statistica, nessuna denuncia potrebbe mai avere la forza icastica delle parole che abbiamo letto in quelle intercettazioni.
In questo, come in moltissimi altri casi, la necessaria rivoluzione culturale, quella che sola può cambiare i connotati di questo Paese, non può che essere innescata dalla capacità di dirci le cose come stanno, fino in fondo. È in questa battaglia che conoscere, leggere, meditare i passi di molte intercettazioni telefoniche diventa terribilmente, tristemente“essenziale”.

Il 27 ottobre sono state consegnate alla Camera dei Deputati le firme della campagna “Ero Straniero. L’umanità che fa bene”, a sostegno della legge di iniziativa popolare di modifica della Bossi Fini: quasi 90.000 firme, di cui più di 20.000 raccolte nei Comuni della Città Metropolitana di Milano. Il progetto di legge dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, prevede: il permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione e attività d’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri non comunitari; la reintroduzione del sistema dello sponsor (sistema a chiamata diretta); la regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”; nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali; misure per l’inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo; l’uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale; garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri; l’effettiva partecipazione alla vita democratica; l’abolizione del reato di clandestinità.

il manifesto,

«Europa. Quelle strategie capaci di ribaltare la visione, arretrata e solo finanziaria, dell’attuale classe dirigente europea. Per gestire l’immigrazione come risorsa del futuro. Non più Stati e Regioni ma piccoli e grandi Comuni, uniche entità in cui la democrazia rappresentativa può essere affiancata da forme di partecipazione diretta»

Assistiamo al progressivo svuotamento dell’Unione europea intesa come organismo politico di governo, sia di ciò che succede nei territori di sua competenza, sia dei rapporti con gli altri paesi con cui è in relazione. È la sua riduzione a pura entità contabile addetta a tradurre in prescrizioni le decisioni dell’alta finanza, senza alcuna capacità o volontà di condizionarne o prevenirne le scelte letali.

A vigilare sulla obbedienza dell’Unione e degli Stati membri c’è la Bce che controlla la borsa: non il denaro che la grande finanza mette in circolazione e poi usa secondo convenienze alle quali anche la Bce si deve adeguare, come mostra il rimpolpamento delle casse delle banche svuotate dai loro amministratori; bensì il denaro che circola tra i cittadini e tra le imprese per mandare avanti le proprie attività, e che senza denaro vengono meno; ma che ormai sopravvivono sotto la minaccia di venir paralizzate, come in Grecia due anni fa.

L’UE, gli uomini e le donne che ne occupano le istituzioni, non hanno idea di come affrontare i problemi all’ordine del giorno: quello dei profughi, sia in Europa, dove continueranno ad arrivare, che nei paesi da dove fuggono. Eppure è la questione su cui l’Unione si sta sfaldando, ricostituendo i confini tra uno Stato membro e l’altro e spingendo i rispettivi governi in direzioni opposte. E sui profughi si è creata in tutti i paesi del continente anche una faglia tra accogliere e respingere che sta facendo saltare tutti i precedenti assetti politici.

Poi ci sono le guerre che l’Unione ha lasciato crescere lungo tutti i suoi confini; a volte accodandosi agli Stati uniti, a volte gestendole direttamente, a volte lasciando incancrenire la situazione, senza prendere iniziative comuni e autonome per riportarvi la pace. Con il passare del tempo, quei confini si sono allargati fino a comprendere tutti i paesi da cui provengono i profughi che ora l’Europa e il governo italiano cercano in tutti i modi di respingere.

In terzo luogo, la lotta per il clima riguarda sia gli impegni che l’Unione non sta rispettando, sia la necessità di rendere di nuovo abitabili territori da cui le popolazioni fuggono in massa, alimentando anche, ma certo non solo, il flusso dei profughi che cercano di raggiungere l’Europa.

Poi c’é la virata nazionalista e razzista in atto che sta trascinando tutto il continente in una corsa scomposta a chi promette di respingere di più e meglio i profughi. Infine il grand guignol della secessione catalana mette in evidenza quanto cittadini e cittadine europee siano insofferenti delle regole che Unione e Stati membri si sono date. Ma anche su di essa l’Unione è più muta e immobile di una mummia; e viaggia veloce verso la sua dissoluzione.

Ci vorrà un po’ perché una burocrazia abituata a gestire come feudi le istituzioni dell’Unione e una classe politica pavida e priva di visione riconoscano di occupare niente altro che un guscio vuoto, governato non da loro, ma dal cosiddetto pilota automatico inserito da Draghi a nome e per conto dell’alta finanza. Ma prima o dopo dovranno accorgersene e suscita ilarità l’idea che a restituire carne e sangue all’Unione possa essere Macron, passione di Habermas e Scalfari, ma soprattutto marionetta e beniamino dei beneficiari dello svuotamento delle istituzioni politiche europee.

Nessuno dei problemi all’ordine del giorno può essere affrontato senza misurarsi con tutti gli altri. E se il bandolo della matassa è una ineludibile quanto improbabile svolta di 360 gradi nei confronti dei profughi – perché da questo dipende l’agibilità politica necessaria ad affrontare tutto il resto – occorre prendere atto che alla base di tutto c’è la politica di austerità a cui governi nazionali e istituzioni europee continuano a essere attaccati come un’ostrica al suo guscio. È questa la vera barriera che gli Stati dell’Unione hanno eretto, a partire dal 2008, contro l’arrivo di un numero di profughi mai superiore a quello dei migranti che arrivavano ogni anno nei decenni precedenti e con i quali l’Europa aveva realizzato la ricostruzione postbellica, il «miracolo economico» e la sua trasformazione in un’economia globale: ruolo che da dieci anni sta invece perdendo.

Oggi, chiuse in una visione meschina, miope, cinica e alla fine razzista, le classi dirigenti europee hanno imboccato un vicolo cieco che decreta la morte o l’imbalsamazione dell’Unione, ma segna anche il loro irriducibile tramonto.

All’orizzonte si affaccia ormai l’ombra nera di un passato che ritorna senza nemmeno essersi cambiato gran che d’abito.

A fermarla non possono essere personaggi che hanno ridotto il progetto di Ventotene a un morto che cammina, ma solo la costruzione di un movimento di massa che, partendo dall’unificazione delle tante forze disperse oggi impegnate in iniziative di accoglienza e di inclusione dei profughi, sappia farne la leva per affrontare anche gli altri problemi: con un programma di conversione ecologica per creare milioni di posti di lavoro con cui offrire a profughi e migranti le stesse opportunità di inclusione che spettano ai milioni di disoccupati e di precari che le politiche di austerità hanno disseminato negli ultimi dieci anni.

Con una riorganizzazione delle comunità straniere – profughi e migranti sia di recente che di antica immigrazione – che ne faccia i protagonisti di un programma di pacificazione dei loro paesi di origine.

Quello che le cancellerie europee hanno dimostrato di non sapere né voler perseguire; ma anche con tanti progetti di risanamento ambientale e sociale di quei territori che riapra la prospettiva di un ritorno volontario di tutti quelli che lo desiderano: innescando così un movimento circolare fondato su una vera cooperazione, non affidata alle multinazionali né ai governi corrotti e feroci tenuti in piedi dalle cancellerie europee, ma a organizzazioni di profughi, di migranti, delle loro comunità di origine. E da una grande leva di giovani europei desiderosi di sperimentarsi in un programma di riconversione ecologica che abbracci sia i propri paesi che quelli in cui mettere alla prova il proprio impegno solidale.

Infine, con una rifondazione dell’Europa, non come federazione di Stati né di Regioni che ne scimmiottino le politiche fallimentari, bensì di municipalità. Comuni piccoli riuniti e di decentramenti di Comuni grandi legati tra di loro attraverso processi negoziali e uniche entità in cui la democrazia rappresentativa, ormai alle corde, possa essere positivamente affiancata da una democrazia partecipata di prossimità. Per riterritorializzare mercati, produzioni agricole e attività industriali, relegando progressivamente euro e mercato mondiale a ruoli sussidiari; e per riportare così democrazia e politica al loro significato originario: quello di autogoverno.

La democrazia non è il popolo che deve decidere. “La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”.

(segue)

La democrazia non è il popolo che deve decidere. “la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”. Così Eugenio Scalfari su la Repubblica del 15 ottobre, aggiungendo che nessuno in Italia, purtroppo, la pensa come lui. Rassicuriamo Scalfari: se in Italia coloro che la pensano come lui non osano manifestarsi, in campo internazionale questa idea trova molti proseliti tra sociologi, economisti e politologi: viene chiamata “tecnocrazia” e non è molto diversa dall’aristocrazia, il governo dei filosofi-guardiani teorizzato da Platone, a parte il non trascurabile particolare di essere iscritta nel capitalismo finanziario. In questa linea, La rinascita delle città stato, libro dello stratega geopolitico Parag Khanna, il cui titolo originale, più esplicativo, è Technocracy in America.

Sostiene l’autore che la democrazia è un sistema politico datato, ormai del tutto inefficiente per affrontare le sfide del mondo contemporaneo. Propone, quindi, che al posto di una sgangherata democrazia subentri la “tecnocrazia”, una post democrazia che “ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare il massimo vantaggio inclusivo per la società) che meritocratica”. Segue un elenco dei vantaggi della tecnocrazia che “diventa una forma di salvezza dopo che una società si rende conto che la democrazia non garantisce il successo di un paese”. Tecnocrazia il cui verticismo dovrebbe essere temperato da un continuo feedback da parte dei cittadini, mediante referendum o altre forme di consultazione.

Ma quale è il significato di tecnocrazia? L’autore oscilla tra un’accezione minimale, un efficiente apparato amministrativo e burocratico al servizio della politica - ma questa non è tecnocrazia - e un significato pieno, come potere conferito e amministrato da tecnici. Esempio del primo significato è la Svizzera, citata come paese modello, mentre il secondo si materializza nella “città-stato” di Singapore, dove si è consolidata una vera tecnocrazia, ciò che implica un partito unico e un governo che si tramanda da padre in figlio.

Quattro sono le principali obiezioni che si possono opporre al politologo indiano. La prima è che non è chiaro il processo di selezione dei tecnocrati. Bene la meritocrazia, ma chi gestisce il tutto? La seconda è che ogni forma di potere tende ad autoperpetuarsi: obiettivo ultimo del potere è il potere stesso, a prescindere dalle buone intenzioni e dagli obiettivi iniziali - lo stanno a dimostrare, nella storia, le innumerevoli tecnocrazie militari che si sono trasformate in dittature. La terza obiezione è che la tecnocrazia di Parag Khanna, definita come “un governo efficiente al servizio dei cittadini”, trascura il fatto che nel mondo capitalistico i cittadini non sono un’entità omogenea, tanto più nella società americana in cui le differenze di censo e di opportunità sono gigantesche e tendono ad approfondirsi: al servizio dei cittadini o del popolo è uno slogan che occulta ogni differenza di classe o di luogo. Infine, il libro ignora completamene lo sfondo in cui opera qualsiasi governo - democratico o tecnocratico che sia - la globalizzazione del capitalismo finanziario che ha indebolito i poteri economici degli stati e ora ne sta assumendo altri, come quelli giudiziari nelle controversie sui grandi trattati commerciali.

Il tutto in una visione del mondo che assegna a ogni stato il compito di combattere una tenzone mondiale per attrarre nel proprio territorio più investimenti finanziari possibili a scapito dei concorrenti. Si capisce perciò che il paese scelto come modello dall’autore sia la “città stato” di Singapore (qui le dimensioni ridotte giocano un ruolo a favore) dove in pochi decenni una nazione arretrata si è trasformata nel paradigma di “tecnocrazia diretta” di maggior successo; dove il primo ministro Lee Kuan Yew, morto nel 2015 con successione filiale, ha “deciso di plasmare la pianificazione strategica sul modello Shell” (si spera senza ripeterne i disastri ambientali) e affida il surplus di bilancio a un proprio fondo sovrano. In linea, anche l’ammirazione per il capitalismo statale del regime cinese, regolato da un governo tecno-politico senza democrazia, mentre appare del tutto fuori luogo il riferimento alla Svizzera.

Libro allora da buttare? Tutt’altro, per almeno tre buoni motivi. Il primo è l’analisi dei guasti e delle degenerazioni della democrazia americana, documentata dettagliatamente e spietatamente. L’autore ne lamenta corruzione e inefficienza, noi lamentiamo che questa democrazia ha portato all’elezione presidenziale di Donald Trump e a un’accelerazione verso i più grandi disastri ecologici e sociali, oltre che verso la guerra. Il secondo motivo che ci riguarda da vicino è la strategia seguita da Singapore per vincere la battaglia nella concorrenza mondiale del capitale. Il maggiore investimento di Singapore è nel capitale umano, sia mettendo a disposizione degli studenti più bravi migliaia di ricche borse di studio per frequentare quotate università straniere, sia attirando i migliori esperti nei rami delle comunicazioni e delle tecnologie avanzate: l’istruzione è la priorità nazionale. Il terzo motivo è la profonda conoscenza di cosa significhi una governance efficiente (che non postula necessariamente una tecnocrazia) in una competizione in cui entrano in sinergia le risorse e il know how del capitalismo più avanzato con apparati amministrativi ben preparati. Una illustrazione che consente di misurare tutta l ‘arretratezza culturale della nostra classe dirigente, pervicacemente ancorata alle grandi opere infrastrutturali come motori di uno sviluppo vecchio di trenta anni.

In sintesi: democrazia in dosi minimali e consenso affidato a ricorrenti consultazioni, piani strategici proiettati nel futuro e non di corto respiro, enormi investimenti nel capitale umano. Ma tutto ciò si può fare anche in un regime democratico? La tesi dell’autore, che qui si rivolge soprattutto alla democrazia statunitense, è che la concorrenza elettorale, sempre più condizionata dai finanziatori che a loro volta condizioneranno le future scelte politiche, porti in sé i germi di un progressivo decadimento delle forme di governo: negli accordi sottobanco, nei veti strumentali, nelle spese inutili, in un mix di inefficienza e corruzione. L’alternativa, se non si vuole l’uomo forte, è una governance tecnocratica in cui la democrazia si esplichi in forme di consultazione e di costruzione di consenso on line (notiamo per inciso che questa è la scelta inconsapevole del movimento 5 stelle quando pensa a un governo di tecnici votato via internet).

Noi, in Italia, abbiamo tecnocrati che hanno dato pessima prova di sé. Per fortuna ci teniamo la nostra democrazia ammaccata, anche se tutte le recenti disposizioni legislative sono mirate a ridurre la sovranità del popolo, valga la recentissima legge elettorale. Abbiamo un parlamento inefficiente e espropriato delle proprie funzioni. Investiamo in ricerca, istruzione, università, preparazione dei giovani e dei licenziati, meno della metà degli altri paesi europei e una frazione rispetto a Singapore, fatte le debite proporzioni. Siamo governati non da una “tecnocrazia”, ma da una “castocrazia”, fatta da politici attenti solo a carriera e privilegi, da lobbisti spregiudicati quando non corruttori, da anziani banchieri e da costruttori garantiti dallo stato (a favore delle banche e qui il cerchio si chiude). Ovvio che la “castocrazia” italiana, non sappia disegnare altri orizzonti di sviluppo se non quello delle infrastrutture inutili o dannose, il cemento al posto del cervello. E poiché tutto questo ha un costo, i politici continuano a mettere sul tavolo un patrimonio che non è loro, ma di tutti: territorio, ambiente, paesaggio.

la Repubblica

Per Walter Benjamin la capitale dell’Europa era Parigi; per l’ironico e ostinato Robert Menasse dovrà essere Bruxelles. In questo modo il vincitore del Deutscher Buchpreis (premio letterario tedesco) formula un’esile speranza, temperata da una storiella divertente su una serata trascorsa con un giornalista tedesco in un fumoso caffè della capitale belga. Menasse racconta che il giornalista, dopo aver redatto un articolo per il suo giornale di Francoforte dalla lontana galassia di Bruxelles, se lo vide rimandato indietro con un’annotazione: «Non raccontare cose così complicate. Scrivi solo quanto costerà di nuovo a noi tedeschi».

Lo scarso interesse che i nostri politici, manager e giornalisti mostrano per la costruzione di un’Europa capace di iniziativa politica non potrebbe essere illustrato meglio. Da anni ormai una stampa timida e deferente corre in aiuto della classe politica tedesca, facendo di tutto per non tediare l’opinione pubblica col tema dell’Europa. La tendenza a infantilizzare il pubblico si è manifestata nel modo più evidente in campagna elettorale, con la rigorosa limitazione dei temi ammessi all’unico dibattito televisivo tra Merkel e Schulz. Del resto, già per tutto il decennio dell’ancora irrisolta crisi finanziaria, alla cancelliera e al suo ministro delle Finanze è sempre stato consentito di presentarsi, in stridente contrasto con i fatti, come veri “europei”.

Adesso compare sulla ribalta un politico come Emmanuel Macron, pieno di riguardi verso la cancelliera (ormai indebolita e incalzata dal suo stesso partito), ma capace di sollevare il velo sul compiaciuto autoinganno. Le menti “realiste” delle grandi testate tedesche sembrano temere le parole del presidente francese perché potrebbero aprire gli occhi al loro pubblico, mostrando che il re, con il suo robusto nazionalismo economico, è nudo. Nei primi capitoli di un recente libro con il sottotitolo Come la Germania mette a rischio un’amicizia, Georg Blume raccoglie una triste documentazione sul nuovo tono altezzoso della stampa e della politica tedesche nei confronti della Francia e dei francesi. I commenti su Macron oscillano tra indifferenza, arroganza e fuoco di sbarramento preventivo. E a parte un titolo dello Spiegel, anche la risonanza dell’ultimo così importante discorso del presidente francese (pronunciato il 26 settembre scorso alla Sorbona, e in cui Macron rilancia un’idea forte di Europa «sovrana, unita e democratica »,ndr) è stata scarsa o nulla.
Con questa materia, adatta per scrivere una commedia, la prossima coalizione di governo “Giamaica” (dai tre colori di Cdu, Fdp e Verdi) potrebbe imbastire una vera e propria tragedia, se, ad esempio, un ministro delle Finanze quale Christian Lindner divenisse l’esecutore testamentario di Schäuble. In un “non paper” scritto per l’Eurogruppo, il dimissionario ministro delle Finanze ha ideato un programma fatto apposta per bloccare ogni compromesso col presidente francese. Schäuble lega la creazione di un fondo monetario europeo alle sue idee ordoliberali volte a prevenire ogni temuta partecipazione democratica. In tal modo l’intero ordine economico-finanziario sarebbe sottratto alle decisioni politiche e rimarrebbe prerogativa di un’amministrazione tecnocratica.
Con questo sfogo potrei anche chiudere il mio discorso. Ma la situazione è troppo seria. Il prossimo governo tedesco dovrà raccogliere (sempre che qualcuno ne abbia voglia) la palla lanciatagli dal presidente francese e che sta ora dalla sua parte del campo. Basterebbe una politica del rinvio per sprecare un’occasione storica unica.
Raramente le contingenze storiche hanno creato una situazione così chiara come nel caso dell’ascesa al potere di questa personalità così fascinosa, forse irritante, ma in ogni caso fuori dal comune. Nessuno si sarebbe potuto aspettare che un ministro del governo Hollande, senza appartenenza di partito, potesse creare da solo, in modo apparentemente egocentrico, un movimento politico capace di capovolgere l’intero sistema dei partiti. Sembrava un’impresa contraria a ogni buon senso demoscopico.
Eppure una persona sola, senza seguito, è riuscita ad ottenere la maggioranza dei voti nel breve spazio di una campagna elettorale di coraggioso confronto, incentrata sull’approfondimento della collaborazione europea e opposta al crescente populismo di destra sostenuto da un francese su tre. Era davvero improbabile che un uomo come Macron potesse diventare presidente di un paese come la Francia, con una popolazione da sempre più euroscettica di quella lussemburghese, belga, tedesca, italiana, spagnola o portoghese.
Osservando le cose obiettivamente, però, è altrettanto improbabile che il prossimo governo tedesco abbia la lungimiranza di trovare una risposta costruttiva alla domanda posta da Macron. Per me sarebbe un sollievo se riuscisse almeno a riconoscere la rilevanza della questione. È già abbastanza difficile che un governo di coalizione segnato da tensioni interne abbia la volontà di rivedere le due scelte strategiche imposte da Angela Merkel all’inizio della crisi finanziaria: l’approccio intergovernativo, che assicura alla Germania un ruolo guida nel Consiglio europeo, e la politica dell’austerità, che la Germania ha potuto imporre ai Paesi del Sud dell’Unione, grazie a questa supremazia, assicurandosi vantaggi sproporzionati.
Ed è ancora più improbabile che questa cancelliera non adduca la scusa dell’indebolimento della sua posizione politica interna per spiegare al fascinoso contraente che purtroppo non può far propria la sua compiuta prospettiva di riforma. Del resto, le prospettive le sono state sempre estranee. Per altro verso – ed è questa la questione su cui mi interrogo – può questa personalità politica (che non ho mai conosciuto personalmente), figlia di un pastore protestante, così accorta e coscienziosa, finora favorita dal successo ma anche riflessiva, può essa avere un interesse a finire i sedici anni di cancellierato in questo ruolo inglorioso? Vuole davvero lasciare la scena politica dopo quattro anni di esitazioni ed erosione del potere? O saprà mostrare una vera statura e saltare oltre la propria ombra, a dispetto di tutti coloro che già speculano sul suo declino?
Anche lei sa che l’unione monetaria europea è d’interesse vitale per la Germania e che, sul lungo periodo, essa non può essere stabilizzata finché si approfondiscono le forti differenze tra le divergenti economie del Nord e del Sud dell’Europa in termini di reddito, tasso di disoccupazione e debito pubblico. In Germania, lo spettro dell’“unione di trasferimento” offusca lo sguardo su questa dinamica distruttiva. È possibile porvi rimedio solo se si crea una concorrenza davvero equa oltre le frontiere nazionali, e se si persegue una politica di contrasto alla crescente desolidarizzazione sia tra le popolazioni nazionali sia all’interno delle varie nazioni. Basti pensare alla disoccupazione giovanile. Macron non si limita a concepire una visione. Egli richiede concretamente che l’Eurozona vada avanti nell’armonizzare le imposte sulle imprese, in un’efficace tassazione delle transazioni finanziarie, nella graduale convergenza dei differenti regimi di politica sociale, nella costituzione di un pubblico ministero europeo per le regole del commercio internazionale, eccetera.
D’altra parte, non sono queste singole proposte, già note da tempo, a distinguere da tutto ciò a cui siamo abituati il comportamento, le iniziative e i discorsi di questo politico. Ciò che colpisce sono tre tratti caratteristici: - il coraggio nella costruzione politica; - l’impegno dichiarato di voler trasformare il progetto elitario europeo in un’auto-legislazione democratica dei cittadini; - il modo convincente di porsi di una persona che ha fiducia nella forza della parola che articola il pensiero.
Con una scelta lessicale molto francese, il 26 settembre scorso, il presidente si è rivolto a un pubblico studentesco, ma anche alla classe politica tedesca, evocando ripetutamente quella “sovranità” che oggi non può più essere garantita dallo Stato nazionale, ma solo dall’Europa. In un mondo a soqquadro, solo con la protezione e la forza dell’Europa unita i suoi cittadini possono difendere i propri comuni interessi e valori. Macron fa valere la sovranità “autentica” contro quella chimerica dei “sovranisti” francesi, denuncia il gioco indegno dei governi che a casa prendono le distanze dalle leggi che essi stessi votano a Bruxelles, e non teme di invocare la rifondazione di un’Europa capace di agire sia al proprio interno che verso l’esterno.
Con “sovranità” si intende questo rafforzato potere che i cittadini europei danno a se stessi. Quali passaggi da compiere verso un’istituzionalizzazione della capacità di iniziativa politica comune, Macron indica una collaborazione più stretta nell’Eurozona a partire da un bilancio comune. La proposta cruciale e dibattuta è la seguente: «Un (tale) bilancio può andare di pari passo solamente con una guida politica forte, un ministro comune e un controllo parlamentare esigente a livello europeo. Soltanto la zona euro con una moneta internazionale forte può fornire all’Europa il quadro di una potenza economica mondiale».
Con la pretesa di intervenire politicamente sui problemi di una società mondiale che cresce sempre più interdipendente, Macron si distingue, come solo pochi altri, dal ceto dei funzionari politici cronicamente non all’altezza dei problemi, opportunisticamente omologati e ridotti alla politica del giorno per giorno. Non si crede ai propri occhi: c’è davvero ancora qualcuno che vuole modificare lo status quo? Esiste ancora chi ha il coraggio sconveniente di opporsi alla coscienza fatalista dei fellahin ciecamente subalterni alla presunta forza coercitiva degli imperativi sistemici di un ordine economico mondiale personificato da organizzazioni internazionali distaccate e altezzose? Se ho bencompreso, Macron fa valere un interesse che, sino ad oggi, nei nostri sistemi partitici, stretti tra il neoliberalismo ordinario del “centro”, l’anticapitalismo appagato dei nazionalisti di sinistra e la stantia ideologia identitaria dei populisti di desta, non è stato sufficientemente analizzato né, di conseguenza, rappresentato. Una parte dell’insuccesso dei socialdemocratici è dovuto al fatto che la loro politica, in linea di principio aperta alla globalizzazione, propulsiva sui temi europei e, al contempo, attenta ai danni e alle distruzioni sociali provocate da un capitalismo sfrenato; questa politica, che coerentemente spinge per una necessaria riregolazione trasnazionale dei mercati, nonostante gli sforzi di Sigmar Gabriel non ha acquisito un profilo riconoscibile. Lo spazio di azione per attuare una tale politica, Gabriel avrebbe potuto ottenerlo solo come ministro delle finanze di una rinnovata Große Koalition, bendisposta nei confronti di Macron.
La seconda circostanza che distingue Macron dalle altre figure è la rottura di un tacito consenso. Sinora, la classe politica ha dato per scontato che l’Europa dei cittadini fosse un costrutto troppo complesso e la finalité – lo scopo dell’Unione europea – una questione troppo complicata perché i cittadini potessero occuparsene direttamente. Le attività correnti della politica di Bruxelles sono cosa per esperti o, semmai, per lobbisti ben informati, mentre i capi di governo sono impegnati a rimandare o eludere i problemi più gravi tra gli interessi nazionali in conflitto. Ma, soprattutto, i partiti politici sono unanimi nella volontà di evitare i temi europei nelle elezioni nazionali, a meno che non si presenti l’occasione di addossare ai burocrati di Bruxelles i problemi domestici. E ora Macron vuole fare piazza pulita di questa mauvaise foi. Un tabù lo ha già infranto mettendo al centro della campagna elettorale la riforma europea, e persino vincendo, un anno dopo la Brexit, questa offensiva contro «le passioni tristi dell’Europa».
È nota la formula secondo la quale la democrazia è l’essenza del progetto europeo. Detta da Macron essa acquista credibilità. Non sono in grado di giudicare l’attuazione delle riforme politiche annunciate in Francia. Si dovrà vedere se egli manterrà la promessa “social-liberale” di assicurare il difficile equilibro tra la giustizia sociale e la produttività economica. Come uomo di sinistra non sono un “macroniano” – sempre che esista qualcosa del genere. Ma il modo in cui egli parla dell’Europa fa la differenza. Macron chiede considerazione per i padri fondatori che hanno creato un’Europa senza popolazione perché allora erano esponenti di un’avanguardia illuminata.
Lui però adesso vuole fare di quel progetto elitario un progetto di cittadinanza e, contro i governi nazionali che nel Consiglio europeo si bloccano a vicenda, chiede che si compiano dei passi chiari verso l’autodeterminazione democratica dei cittadini europei. Così egli rivendica per le elezioni non solo un diritto di voto, ma anche la designazione di candidati appartenenti a liste transnazionali. Ciò favorirebbe, in effetti, la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non può divenire un luogo in cui gli interessi sociali possono essere generalizzati e valorizzati oltre i meri confini nazionali.
Se vogliamo valutare correttamente l’importanza di Emmanuel Macron è necessario considerare anche un terzo aspetto, una qualità personale: sa parlare. Non si tratta solo di un politico che riesce a guadagnarsi l’attenzione, la stima e il potere grazie alla capacità retorica e a una certa sensibilità verso la parola scritta. È piuttosto la scelta precisa delle frasi ispiratrici e la forza di articolazione del discorso a conferire allo stesso pensiero politico acume analitico e una prospettiva lungimirante. Da noi, Norbert Lammert è stato l’ultimo a richiamare alla memoria i dibattiti al Bundestag di Gustav Heinemann, Adolf Arndt e Fritz Erler agli albori della Repubblica federale. Naturalmente la qualità della professione del politico non si misura dal talento oratorio. Tuttavia, i discorsi possono cambiare la percezione della politica nella sfera pubblica, elevarne il livello e ampliare l’orizzonte del dibattito pubblico, migliorando inoltre la qualità non solo dei processi di formazione della volontà politica, ma anche dello stesso agire politico.
In un mondo dove l’assenza di forma dei talk show diventa il metro di riferimento per la complessità e lo spazio del pensiero politico pubblicamente ammesso, Macron si distingue per lo stile dei suoi interventi. A quanto pare ci manca la capacità di percepire tali qualità, e di collocare il quando e il dove di un discorso. Ad esempio, quello tenuto di recente da Macron al Municipio di Parigi in occasione delle celebrazioni per la Riforma è interessante non solo nel contenuto. Si è trattato di un abile tentativo di utilizzare lo sguardo retrospettivo sulla storia delle lotte confessionali in Francia per adattare una dottrina di Stato – il severo laicismo francese – alle istanze di una società pluralistica. Ma l’occasione e l’argomento del discorso erano anche un gesto di apertura verso la cultura protestante del Paese confinante – e verso la collega di confessione evangelica a Berlino. Naturalmente, la pretesa e lo stile con cui viene rappresentato il potere dello Stato ci sono divenuti estranei, al più tardi dallo sguardo nostalgico di Carl Schmitt sul contro-illuminismo francese del XIX secolo. Può darsi che ci manchi quel senso della gravitas di una vita nel palazzo dell’Eliseo che Macron onora nel colloquio avuto con loSpiegel. Ma la conoscenza più intima della filosofia hegeliana della storia, con cui reagisce alla domanda su Napoleone come «spirito del mondo a cavallo», è comunque di grande effetto.
Questo articolo è apparso su Der Spiegel del 21 ottobre 2017 © Jurgen Habermas Traduzione di Walter Privitera e Fiorenza Ratti

il manifesto,

La legge Rosato interrompe la serie delle leggi a impianto proporzionale con forti correttivi maggioritari dichiarate parzialmente incostituzionali dalla Consulta (l’Italicum, mai utilizzato, e il Porcellum, con il quale si è votato nel 2006, nel 2008 e nel 2013).

Si torna a un sistema misto, come quello della prima riforma elettorale della Repubblica, la legge Mattarella del 1993 (con la quale si è votato l’anno successivo e poi ancora nel 1996 e 2001). Ma adesso la proporzione tra i seggi assegnati con l’uninominale maggioritario e i seggi assegnati con il sistema proporzionale è quasi rovesciata. Nella riforma del 1993 i seggi uninominali erano il 75% e quelli del proporzionale il 25%. Con il «Rosatellum» i seggi assegnati con l’uninominale sono poco meno del 37%, proporzionali tutti gli altri. Nel dettaglio, alla camera si assegnano 232 seggi con l’uninominale – chi prende anche un solo voto in più conquista il seggio – al senato 116. Il resto dei seggi sono assegnati con il sistema proporzionale, 398 alla camera (di cui 12 all’estero) e 199 al senato (di cui 6 all’estero).

A differenza del vecchio Mattarellum e degli altri sistemi misti utilizzati nel mondo, la nuova legge elettorale italiana non prevede la possibilità di voto disgiunto. Si può esprimere un solo voto, che dalla lista proporzionale si estende automaticamente al candidato nel collegio uninominale, o che si estende – vedremo successivamente secondo quale complicato calcolo – dal candidato nel collegio a una delle liste che lo sostengono. L’elettore può esprimere due voti, ma solo se sceglie una lista collegata al candidato dell’uninominale; se il secondo segno è tracciato al di fuori dello stesso rettangolo la scheda viene invalidata.

Non era così con il Mattarellum, che prevedeva due schede per l’elezione dei deputati, una per scegliere il candidato nel collegio e un’altra per votare una qualsiasi delle liste in gara nella parte proporzionale. Non è così nel sistema tedesco che prevede due voti sulla stessa scheda; il secondo voto, per la parte proporzionale, decide il numero di seggi che vanno a ciascuna lista ed è libero: l’elettore può scegliere anche un partito che non sostiene il candidato prescelto nell’uninominale.

La nuova legge prevede le coalizioni, i candidati nel collegio uninominale possono essere sostenuti da un solo partito o da un insieme di liste. In questo secondo caso hanno naturalmente più possibilità di arrivare primi e conquistare il seggio. Le coalizioni però devono essere identiche su tutto il territorio nazionale (con il Mattarellum non era così, infatti Berlusconi nel 1994 si presentò in alleanza con la Lega al nord e con gli ex missini di Fini al sud). Le coalizioni non devono presentare un simbolo comune per accompagnare i candidati nei collegi (come fu ad esempio l’Ulivo), né un programma comune. È rimasto solo l’obbligo per le singole liste di presentare un programma e indicare il capo della forza politica.

Si tratta in tutta evidenza di coalizioni destinate a durare solo il tempo delle elezioni. È vero che essendo i parlamentari liberi di votare o meno la fiducia a un governo (divieto di mandato imperativo) la rottura non si può escludere neanche con leggi più vincolanti – e infatti la coalizione Italia bene comune tra Pd e Sel si è rotta pochi mesi dopo le ultime elezioni. Ma adesso la coalizione non deve presentare neanche un programma comune; in teoria i programmi delle liste che sostengono lo stesso candidato nel collegio potrebbe essere persino opposti (ad esempio: Lega per uscire dall’euro, Forza Italia per restarci).

È rimasta però l’indicazione del capo del partito, da una parte una previsione extra costituzionale (nel nostro sistema parlamentare è il presidente della Repubblica che sceglie a chi dare l’incarico per formare il governo), dall’altra un’indicazione inutile, visto che con questa legge e questo quadro politico le alleanze per il governo si faranno in parlamento. Rompendo le coalizioni. Sono tre le soglie previste da questa legge, due sono soglie di sbarramento al di sotto delle quali non si ha diritto all’assegnazione di seggi: il 3% per le liste singole e il 10% per le coalizioni.

Le soglie sono calcolate a livello nazionale, anche (ed è la prima volta nella storia elettorale italiana) per il senato. Alle coalizioni che raggiungono il 10% e hanno al loro interno almeno una lista che supera il 3% vengono riconosciuti anche i voti di quelle liste che non hanno superato lo sbarramento ma hanno raggiunto almeno (è la terza soglia) l’1% dei voti validi. Il sistema incoraggia la presentazione di micro liste che non possono aspirare al 3% ma possono arrivare all’1%. (esempio: Mastella rimette in piedi l’Udeur). La loro funzione è quella di regalare i voti al resto della coalizione, in particolare ai partiti maggiori.

Queste micro liste non avranno loro eletti, ma è prevedibile che vengano altrimenti ricompensate dagli alleati maggiori. La soglia di sbarramento nazionale per il senato è in apparente contraddizione con l’articolo 57 della Costituzione secondo il quale «il senato della Repubblica è eletto a base regionale».

Il caso dei voti delle micro liste trasferiti agli alleati maggiori non è l’unico in cui la legge Rosato prevede una sorta di interpretazione della volontà dell’elettore. Accade anche per le schede in cui l’elettore traccia un segno solo sul candidato di una coalizione all’uninominale.

In assenza di indicazione della lista, quel voto per la parte proporzionale viene diviso tra tutte le liste della coalizione in proporzione alla quantità di voti diretti che quelle liste hanno raccolto. Oltre a introdurre il voto decimale e a rendere complicato lo spoglio delle schede, questo sistema forza la volontà dell’elettore (che, ricordiamolo, senza voto disgiunto non è libero di scegliere una lista fuori dalla coalizione) e regala un consenso superiore a quello reale ai partiti maggiori. Lo stesso accade con i voti delle micro liste.

Questo non è senza conseguenze, perché può accadere che in un collegio proporzionale un partito risulti troppo votato.

I seggi nella parte proporzionale si assegnano sulla base di liste bloccate di quattro candidati. Dopo la sentenza della Corte costituzionale contro il Porcellum, si è diffusa la convinzione che le liste bloccate non sono incostituzionali purché siano corte e i candidati riconoscibili dall’elettore. Quattro nomi si prestano sicuramente a essere riconosciuti anche perché possono essere (e lo saranno) stampati sulla scheda.

È però previsto – è stato aggiunto al testo base in commissione alla camera – che i candidati nel collegio uninominale possano essere candidati anche altre cinque volte nei collegi plurinominali. Sono i «pluricandidati». Proprio questa ultima previsione, di garanzia per i candidati «blindati», contribuirà al fenomeno delle liste «incapienti». I listini, cioè, che sono rimasti corti anche se in ogni collegio plurinominale si assegneranno fino al doppio dei seggi (otto rispetto a quattro candidati per partito), potrebbero non bastare in caso di candidati eletti anche in altri collegi e in caso di liste gonfiate dai voti regalati dai micro partiti.

E se il listino non basta, è previsto un complicato meccanismo di recupero del seggio che passa dal salvataggio del candidato sconfitto nell’uninominale (alla faccia del principio maggioritario) alla promozione dei primi esclusi in altri collegi della stessa circoscrizione o di un’altra circoscrizione, fino addirittura allo spostamento dei voti su altre liste alleate.

E così i listini corti finiscono per ottenere l’effetto opposto alla riconoscibilità degli eletti, nascondendo all’elettore i reali destinatari del loro voto. Non solo è esclusa la possibilità di votare in maniera disgiunta, ma non è previsto nemmeno lo scorporo dei voti che c’era invece nel Mattarellum per il senato.

Lo scorporo è quel sistema che, sottraendo dal totale dei voti della lista i voti del candidato collegato vincitore nel collegio, impedisce al voto di chi ha scelto il candidato vincente nel collegio di pesare due volte, anche cioè per la quota proporzionale. Nel caso in cui l’elettore tracci il segno solo sul candidato all’uninominale di una coalizione, il voto proporzionale si distribuisce a pioggia su tutte le liste che lo sostengono sulla base di un meccanismo simile all’8 per mille nella dichiarazione dei redditi. Il voto cioè viene diviso in parti decimali e assegnato alle liste proporzionalmente ai consensi diretti che queste hanno ricevuto.

Forza Italia e Pd, che immaginano di concentrare la campagna elettorale sui candidati nei collegi, non hanno voluto lo scorporo per danneggiare le liste che hanno candidati con meno chance di vincere nelle sfide maggioritarie. Tutta la legge è impostata perché possa funzionare la campagna per il voto utile. Utile cioè a vincere anche con uno scarto minimo nel collegio. Questi voti «carpiti» dal candidato si trasferiscono poi o direttamente (con un secondo segno) o indirettamente (con il meccanismo «8 per mille») sulle liste.

Mentre non è chiaro se potrà essere considerata valida la scheda in cui risulti tracciato un solo segno grande, a comprendere tutto il rettangolo della coalizione: candidato nel collegio e tutte le liste.

Saranno molti i casi di schede contestate e sarà complicato e lento il conteggio. Ma soprattutto non è detto che i piani di chi punta sul voto utile vadano a segno. Perché nella scheda facsimile si può vedere come il nome del candidato nel collegio risulti assai piccolo – non è previsto per lui un simbolo di coalizione. Dunque i simboli delle liste saranno visivamente prevalenti, soprattutto nel caso delle liste che correranno da sole, fuori dalle coalizioni e senza alleati. Come il Movimento 5 Stelle.

il manifesto,


«Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare - "sul presidente del Consiglio pressioni fortissime" - ma invita a salvare l'esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata»

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta. E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

il manifesto,

«Nel suo discorso del 10 ottobre, Puigdemont ha fatto un mezzo passo indietro. Darebbe prova di responsabilità Rajoy se facesse altrettanto. Dubito che lo faccia, ma sarei felice di sbagliare». A parlare è Alfonso Botti, storico, ispanista e firma nota ai lettori del manifesto. Docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è condirettore della rivista «Spagna contemporanea» e dal 2015 di «Modernism».

Si è occupato di nazionalismi e del rapporto tra cattolicesimo e modernità tra Otto e Novecento – Nazionalcattolicesimo e Spagna nuova, 1881-1975 (1992), La questione basca (2003), Storia della Spagna democratica (2006) con C. Adagio – facendo alcune incursioni nella storia politica spagnola più recente: Politics and Society in Contemporary Spain. From Zapatero to Rajoy (2013), curato con B.N. Field. Gli abbiamo chiesto di aiutarci a dare una profondità storica a quanto sta accadendo oggi in Catalogna.

Partiamo dalla storia. Con l’avvento della Repubblica, la Catalogna e i Paesi baschi ottennero i loro primi Statuti di autonomia in una Spagna finalmente decentrata. Anche per questo i militari si sollevarono provocando quella guerra civile che spazzò via, con la democrazia, l’autogoverno catalano (e basco). Come è cambiata la questione dei nazionalismi periferici nel corso del Novecento?

«Vedo due costanti nell’evoluzione storica dei due nazionalismi: emergono (e riemergono) in concomitanza delle crisi economiche e si radicalizzano ogni qualvolta Madrid li reprime o respinge richieste di maggiore autonomia. Più forte dell’esplicita richiesta d’indipendenza è sempre stata la domanda di sovranità, cioè del diritto di decidere. Il quale, certo, è stato anche un’eufemistica copertura delle reali aspirazioni, ma lasciava aperta la strada a soluzioni di tipo federale. Aggiungo che non bisogna dimenticare che la Spagna (insieme al Portogallo) è l’unico paese europeo nel quale non sono sorti movimenti xenofobi e populisti di destra. Forse anche perché la presenza dei nazionalismi catalano e basco, entrambi fortemente europeisti, ha agito da deterrente».

Quali sono state le trasformazioni nella composizione politica e sociale del movimento indipendentista catalano?

»A differenza di quello basco (che nacque cattolico integralista e si democratizzò dalla metà degli anni Trenta), il nazionalismo catalano è stato ideologicamente più articolato e punto di confluenza di repubblicani, federalisti, moderati, cattolici democratici e conservatori. Storicamente vi si avverte l’egemonia di una parte della borghesia catalana, con innervature popolari. La novità degli ultimi anni è la forte presenza giovanile, per la quale – sintetizzando – direi che la nazione ha funto da rifugio alla crisi dei progetti fondati sulla classe».

Si può parlare anche di una ripresa di un «nazionalismo spagnolo»? In che modo le vicende catalane degli ultimi anni hanno modificato l’identità nazionale a pochi anni dal lancio del progetto di Zapatero di una «Spagna plurale»?
«Dietro il «patriottismo della Costituzione» ha senz’altro ripreso vigore il vecchio nazionalismo spagnolo, che tuttavia in questo modo sembra prendere le distanze dalla visione centralista tipica della destra spagnola. Con Zapatero era riaffiorata una sensibilità storicamente presente nella tradizione socialista: quella disponibile a discutere un nuovo modello di paese, fondato su una pluralità di nazioni e magari su un federalismo asimmetrico. Problema complesso e di difficile soluzione, ma che almeno Zapatero aveva colto come urgente, facendo sì che il nuovo Statuto catalano, che conteneva la controversa definizione della Catalogna come nazione, fosse approvato dalle Cortes nel 2006. I popolari di Rajoy ricorsero al Tribunale costituzionale, con le conseguenze che ora abbiamo davanti agli occhi.
Centinaia di sacerdoti catalani si sono schierati a favore del referendum, i loro vescovi hanno invitato al dialogo».

Come interpretare il ruolo della Chiesa spagnola in questa fase e anche in relazione alla sua storia?
«Sulla questione nazionale la faglia che divide la società spagnola e catalana attraversa anche la Chiesa da oltre un secolo. Negli ultimi mesi ho studiato sui documenti dell’Archivio Segreto Vaticano l’atteggiamento della S. Sede di fronte ai nazionalismi catalano e basco, costantemente alla ricerca di quella legittimazione che da Roma non ebbero mai. Anzi, la S. Sede stigmatizzò a più riprese il clero nazionalista perché faceva politica, come se quello spagnolista non facesse altrettanto».

La linea di Podemos e quella dei socialisti. Quale percorso alle spalle? E oggi in che modo l’esplosione della questione indipendentista interroga questi due soggetti e, più in generale, le diverse sinistre spagnole?

«Durante la lotta antifranchista socialisti e comunisti sostennero il principio dell’autodeterminazione di catalani e baschi. Morto Franco, cambiarono bruscamente posizione e con la Costituzione del 1978 pensarono di aver trovato la quadratura del cerchio. Podemos e l’area post-comunista si collocano nel solco di quella tradizione, il PSOE forse vorrebbe, ma non può. La vecchia guardia dei Felipe González, Alfonso Guerra e il socialismo andaluso di Susana Díaz tengono in ostaggio Pedro Sánchez. Voglio essere chiaro: a mio avviso non è di sinistra essere nazionalisti, mettere mano alla Costituzione sì».

Quali sarebbero le conseguenze di una secessione per i settori sociali subalterni?

«Le classi popolari hanno pagato i tagli alla spesa pubblica voluti da Artur Mas. Per questo la CUP ha imposto la sua sostituzione alla guida della Generalitat. L’indipendentismo catalano nasconde le proprie profonde divisioni dietro la bandiera della secessione, ma disegnando uno scenario del tutto virtuale non potrebbe governare una Catalogna indipendente. La CUP pensa che l’indipendenza favorirà i lavoratori. Fa venire in mente quel socialismo che nel 1914 pensò che la guerra avrebbe creato le condizioni per la rivoluzione in Europa. Sappiamo tutti cosa venne dopo».

C’è chi ha osservato che non è più possibile contestare il governo centrale senza essere etichettati come indipendentisti e viceversa per quanto riguarda le critiche all’indipendentismo. Quali conseguenze hanno avuto le vicende degli ultimi mesi sulla tenuta del sistema democratico? Si può parlare di un pericolo di “semplificazione” del dibattito politico spagnolo?

«Siamo di fronte alla più grave crisi istituzionale, politica e sociale dal ritorno della democrazia in Spagna. L’attuale polarizzazione delle posizioni cancella le sfumature e con esse la politica nella sua accezione più alta. Lo avverto nelle posizioni dei tanti amici e colleghi catalani e spagnoli con i quali sono in contatto quotidiano. C’è solo da sperare che il sussulto di sensatezza che ha attraversato nei giorni scorsi la Spagna all’insegna del parlem si estenda. Le centinaia di migliaia di catalani andati alle urne configurano un fenomeno di disubbedienza civile, pacifica e di massa che un governo democratico dovrebbe saper leggere e considerare come problema politico a cui dare risposta».

il Fatto quotidiano, 18 ottobre 2017 «

Sulla nuova legge elettorale e il patto scellerato che ne ha assicurato l’approvazione alla Camera si è ormai detto tutto. O quasi. Un punto mi pare sia rimasto ancora al margine nei commenti di questi giorni: il reale rapporto fra la legge e il crescente astensionismo. La legge Rosato istiga alla sfiducia nelle istituzioni perché disprezza la Costituzione e le sentenze della Consulta, insiste sulle liste bloccate, è pensata come una conventio ad excludendum di alcuni partiti ai danni di altri; inoltre, ha costretto il governo a un improprio voto di fiducia che lo delegittima, e, se sarà firmata da Mattarella, ne appannerà la figura.

La sfiducia nelle istituzioni genera astensionismo, questo lo dicono tutti; ma il prevedibile calo di affluenza alle urne viene di solito presentato come un by-product della legge elettorale, un effetto previsto ma collaterale. E se allontanare i cittadini dalle urne fosse invece, in una strategia perversa ma tutt’altro che fantapolitica, scopo primario di una legge come questa? Gli indizi abbondano, a cominciare dai grandi festeggiamenti dopo le Europee del 25 maggio 2014 per il 40,81 % del Pd, definito da Renzi “risultato storico”.

Nei commenti di allora (verificare per credere) ben pochi notarono che la coalizione di ferro fra non votanti e schede bianche o nulle superava di molto, col suo 49,63%, il risultato del Pd. E che la percentuale Pd, se calcolata sul totale dell’elettorato, valeva in realtà solo il 20,64%. Ma i trionfalismi di Renzi travolsero la scena politica italiana, innescando l’arrogante marcia di una riforma costituzionale scritta coi piedi e approvata a occhi chiusi da un Parlamento di nominati. La sicumera con cui si dava per scontata la vittoria nel referendum era dovuta al calcolo che alle urne si presentassero da una parte solo i fedelissimi (per convenienza o per inerzia) e dall’altra un manipolo di “gufi” ormai condannati a vani piagnistei. Il referendum del 4 dicembre, grazie a una mobilitazione di imprevista ampiezza, portò invece alle urne milioni di persone (specialmente giovani) che affossarono la stolta riforma e chi vi si era prestato.
Ma questa inversione di tendenza, anche per la natura assai composita degli elettori del No, non incide minimamente sulla tendenza a un astensionismo crescente, dimostrato anche dai voti alle elezioni regionali (47,4% di votanti in Basilicata, un drammatico 37,67% in Emilia; in Sicilia vedremo). Intanto, nulla fanno i nostri governi per recuperare alla democrazia i 22 milioni di cittadini che non votarono alle Europee. Perso il referendum, non è cambiato il piano di chi vuole impadronirsi di un’Italia in cui la fiducia nelle istituzioni cala ogni giorno: avere sempre più voti (in percentuale) su sempre meno votanti. E, tramontato il sogno di una maggioranza solitaria del Pd, raggiungere comunque questo risultato mediante una qualche larga intesa, riesumando Verdini e Berlusconi e rastrellando voti a qualsiasi costo. Per poi ritentare, con sprezzo del referendum, lo stravolgimento della Costituzione già fallito una volta.

Perciò, un anno dopo aver contestato l’appoggio alla riforma costituzionale del presidente emerito Napolitano con una lettera aperta pubblicata da Repubblica il 4 ottobre 2016 (con risposta di Napolitano), stavolta mi trovo in pieno accordo con le sue pesanti osservazioni sul cosiddetto Rosatellum. Ma non sarebbe forse l’ora, alla vigilia di nuove elezioni, di fare il bilancio degli errori compiuti all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 ? Allora il Pd, anziché tentare altre coalizioni anche di limitato scopo e durata, scelse l’abbraccio mortale con Berlusconi. Allora il capo dello Stato pretese irritualmente dal presidente incaricato Bersani di garantire una maggioranza parlamentare prima di presentarsi alle Camere, e Bersani piegò la testa rinunciando al mandato. Allora Beppe Grillo derise apertamente chi invitava M5S e Pd a negoziare una coalizione d’obiettivo, con il programma di risolvere annose questioni come una sana legge elettorale e una legge sul conflitto d’interessi, e i due appelli in merito (9 marzo: Un patto per cambiare, se non ora, quando? e poi 10 marzo: Facciamolo!), pur raccogliendo 200 mila firme in pochi giorni, restarono lettera morta.

Molto è cambiato da allora, ma qualcosa di uguale è rimasto: la scarsa democrazia interna dei partiti, dal Pd al M5S, che favorisce l’astensionismo creando condizioni favorevoli a una politica che sull’astensionismo fa leva; mentre i fuoriusciti dal Pd non trovano nemmeno la strada per far blocco tra loro. La legge elettorale contribuisce a tener fissa la bussola del discorso politico sul “come” e non sul “che cosa”, sulle coalizioni e non sulle necessità del Paese, sui giochi di potere e non sui programmi di governo. Proprio nessuno vuol provare a porvi rimedio? Nessuno vuol provare a capovolgere le regole del gioco, facendo leva sulla democrazia interna di partito e su un chiaro progetto di attuazione dei diritti costituzionali per riportare alle urne quegli stessi giovani elettori che il 4 dicembre mostrarono fiducia nella Costituzione?

la Repubblica,

Dopo le elezioni tedesche, anche quelle austriache confermano le trasformazioni politiche in corso nel vecchio continente, la cui faccia sta decisamente prendendo una fisionomia di destra, e perfino nazi-fascista. Il populismo è lo stile e la strategia che le vecchie idee di destra (il razzismo, l’intolleranza, l’ideologia identitaria nazionalista, il mito maggioritarista e anti-egualitario) adottano per conquistare gli elettori moderati. I partiti di destra sono quelli che meglio usano questa strategia; ne hanno anzi bisogno per uscire dall’isolamento nel quale l’ideologia socialdemocratica li aveva condannati per decenni.

Sebastian Kurz, alla guida del partito dei popolari, ha trasformato il suo partito in un movimento elastico, aggressivo sui social, attento all’immagine e capace di usare gli argomenti giusti: la paura dell’immigrazione, la preoccupazione per la precarietà occupazionale, l’erosione del benessere.

L’Austria è tra i Paesi più ricchi d’Europa e con una popolazione residente straniera che sfiora il 15%. La campagna elettorale di Kurz è stata radicalmente personalistica (il suo nome ha dato il nome alla lista) e ossessivamente imbastita sulla paura, tanto da fare apparire l’Austria come un Paese straniero agli austriaci, sul baratro economico e con il rischio di avere una maggioranza religiosa islamica. La personalizzazione e la radicalizzazione del messaggio hanno fatto volare il suo partito. Altrettanto vincente la strategia del partito di estrema destra neo-nazista, detto della libertà, guidato da Heinz-Christian Strache che potrebbe essere alleato del partito di Kurz.

La ricetta per il governo del Paese di questa ipotetica coalizione è un misto di protezionismo e liberismo: chiusura delle frontiere agli immigrati, difesa dell’identità culturale cattolica, sicurezza e taglio delle tasse. Liberisti e nazionalisti alleati. Il restyling dei due partiti di destra ha pagato, smussando il messaggio nazista e islamofobico e insistendo su una strategia che da qualche anno sta facendo proseliti a destra.

La critica alla tecnocrazia di Bruxelles non porta più alla proposta di uscire dall’Unione. L’Europa va conquistata, non lasciata. Il populismo transnazionale di destra non propone il ritorno agli stati nazionali indipendenti, non ha nostalgie per un’Europa pre-Trattato di Roma. Comprende l’utilità dell’Unione e vuole però guidarla in conformità a quella che il leader ungherese Viktor Orbán (il primo ad aver lanciato la proposta di una destra populista transnazionale) ha definito come l’identità spirituale del continente: la cristianità. La secolarizzazione, soprattutto nella parte occidentale del continente, è un fatto difficilmente negabile. E quindi l’appello alla cristianità ha poco a che fare con la spiritualità religiosa e molto con l’identità nazionale. Il populismo di destra è oggi un progetto identitario transnazionale.

La storia del populismo è innestata nella storia della democrazia; una competizione con la democrazia costituzionale sulla rappresentanza e la rappresentazione del popolo, che nei Paesi europei è in effetti la nazione. La tendenza a identificare il popolo con un’entità organica omogenea è il motore che muove questa potente interpretazione della sovranità come sovranità di una parte, maggioritaria, contro un’altra, per umiliare l’opposizione e soprattutto le minoranze culturali.

Le democrazie del dopoguerra hanno neutralizzato questa tendenza olistica articolando la cittadinanza nei partiti politici. E il dualismo destra/sinistra è stato un baluardo di protezione della battaglia politica dalle pulsioni identitarie, nazionaliste e fasciste. La fine di questa distinzione è oggi il problema; essa è stata favorita dalla sinistra stessa che, nel solco del blarismo ha sostenuto la desiderabilità di andare oltre la divisione destra/sinistra. Una iattura che ha preparato il terreno alla destra.

L’uso di strategie comunicative populiste si dimostra vincente anche perché l’audience è informe e con deboli distinzioni idelogiche; facile da conquistare con messaggi generici, gentisti diremmo, ovvero basati sul buon senso e capaci di arrivare a tutti indistintamente. La caduta di partecipazione elettorale, che l’erosione della distinzione destra/ sinistra ha portato con sé, è un segnale preoccupante di cui purtroppo quel che resta della sinistra non si avvede. L’esercito elettorale di riserva è pronto, depoliticizzato abbastanza da essere catturato da messaggi populisti di destra, generici, e molto semplici.

Il caso austriaco, come quello tedesco di poche settimane fa, è quasi da manuale nel dimostrare quanto danno abbia fatto alla democrazia la convinzione che destra e sinistra appartengano al passato. Di questa insana idea si approfitta la destra, che da parte sua non ha mai messo quella distinzione in soffitta.

il manifesto, 14 ottobre 2017.

«Riconosco che con il reddito d’inclusione approvato dal governo Gentiloni si è fatto qualcosa ma il 60% dei poveri è tagliato fuori. Mi piacerebbe che si trovassero i soldi subito per le sofferenze umane, sono stanco di sentir parlare di sofferenze bancarie. Che cosa dobbiamo aspettare? Le nuove elezioni politiche? La povertà è un reato, un crimine di civiltà».

Lo ha detto Don Luigi Ciotti intervenendo all’iniziativa «Ad Alta Voce» tappa romana in piazza San Giovanni Bosco, a Cinecittà, della carovana contro le diseguaglianze e per il reddito di dignità promossa dalla Rete dei Numeri Pari in trenta città. «Sono il segno – ha detto il fondatore di Libera – che se una resistenza c’è già stata in Italia, ma oggi ci vuole una nuova resistenza, per seminare il positivo. È il noi che vince. Il cambiamento ha bisogno del contributo di ciascuno di noi».

L’intervento è stato fatto in chiusura dell’incontro organizzato nel cuore del Tuscolano, in piazza Giulio Agricola, davanti alla gigantesca basilica di San Giovanni Bosco, la stessa che è stata ingiustamente resa nota nel 2015 dai funerali di Vittorio Casamonica, già considerato uno dei «Re di Roma», accusato di usura, racket e traffico di stupefacenti. La stessa chiesa fu negata nel 2006 per i funerali di Piergiorgio Welby, militante del Partito Radicale, deceduto dopo l’intervento del personale medico che decise di rispondere alla sua volontà di terminare la sua agonia. La «Rete dei numeri pari» ha voluto organizzare l’incontro per dimostrare l’esistenza di una società diversa. «Da qui vogliamo dire che esiste un’altra Italia – ha detto Giuseppe De Marzo (Rete Numeri Pari) che pensa che la solidarietà sia un elemento distintivo della democrazia e provano a evidenziarlo costruendo percorsi di mutualismo in tutto il paese». In piazza si è tenuto un pranzo sociale, mentre il giornale di strada «Shaker, pensieri senza fissa dimora» – prodotto dal centro di accoglienza e di prima assistenza ai senza fissa dimora «Binario 95» alla stazione Termini – è stato distribuito dai suoi redattori.

Dal palco della manifestazione è stata declinata un’agenda politica basata sul diritto alla casa, su quello allo studio, sui diritti delle donne e la dignità delle persone. A questi temi Don Ciotti ha aggiunto due nodi importanti: lo «Ius soli» e la legge elettorale. «Lo Ius Soli – ha detto – è una legge giusta, mi fa piacere l’impegno del presidente del Consiglio ad approvarlo in questa legislatura». E sulla legge elettorale: «È terribile, è la democrazia che viene calpestata». «L’inclusione sociale sta alla base della democrazia – ha aggiunto Don Ciotti – Alzate la voce quando gli altri scelgono un comodo silenzio. Se molti diritti sono stati calpestati è anche colpa nostra che non li abbiamo difesi abbastanza». «La speranza si costruisce partendo dai poveri ha aggiunto – Da lì si deve partire – ha aggiunto – ad alta voce, per restituire l’economia alla vita, perché se così non è, non sappiamo che cosa farcene di questa economia».

la Repubblica,.» (c.m.c.)

La maggior parte dei commentatori della legge elettorale in discussione in Parlamento assume come punto di vista le ragioni, buone o cattive che siano, dei partiti e di coloro che ne fanno parte. Ma, una legge elettorale deve essere considerata anche, anzi soprattutto, dalla parte degli elettori, i cui diritti mi paiono sottovalutati, per non dire ignorati. I cittadini, invece che come protagonisti di quel momento-clou della democrazia che sono le elezioni, sono trattati come pedine d’un gioco nelle mani di chi sta sulla loro testa. In democrazia, dovrebbe essere piuttosto il contrario. Si tratta di cose ovvie e il fatto che debbano essere dette indica di per sé che si è perso il contatto con la realtà.

In primo luogo, non qualunque legge elettorale è compatibile con il rispetto dell’elettore, ma solo la legge sufficientemente chiara da essergli facilmente comprensibile. Si deve sapere qual è il valore del proprio voto, cioè come verrà utilizzato nel procedimento elettorale che parte da lui e si conclude con l’assegnazione dei seggi in Parlamento. La storia dei sistemi elettorali in Italia è una storia di progressiva complicazione, giunta ora al punto dell’incomprensibilità.

È nata perfino una nuova figura professionale: quella degli esperti-tecnici di sistemi elettorali. Solo loro ne capiscono qualcosa e non sempre sono d’accordo su ciò che credono di avere capito. Ogni complicazione rispetto a idee chiare e semplici corrisponde all’interesse particolare di questo o di quel partito o gruppo politico, onde è facile concludere: tante complicazioni, altrettante manipolazioni. Oggi siamo arrivati a un vertice forse non più superabile. Si dirà: i sistemi elettorali, tutti, sono congegni complicati. Ma, c’è un limite che sarebbe bene non superare per evitare che i cittadini, quando vanno a votare, non sappiano quello che fanno, che siano marionette mosse da fili che nemmeno riescono a vedere e a comprendere. Esagerazione? Si vada agli articoli 77, 83 e 83 bis della legge ora approvata dalla Camera e si dica se si capisce qualcosa circa il computo e la valenza del voto per l’elezione dei candidati nelle due quote previste, la quota uninominale e quella proporzionale.

Il legislatore si è reso conto della perversione e ha pensato due cose. La prima è di affiancare “esperti” agli organi cui spettano lo scrutinio e la proclamazione dei risultati e degli eletti (questa, per la verità, non è cosa nuova, ma una conferma che sul legislatore elettorale le complicazioni esercitano un’irresistibile forza attrattiva). La seconda è di scrivere sulla scheda elettorale le “istruzioni per l’uso”. Così l’elettore, ricevuta la scheda, dovrebbe studiare prima di votare. Se ha dei dubbi, forse potrebbe interpellare il presidente del seggio. Il presidente del seggio, eventualmente, potrebbe voler sentire qualche parere, perché si tratta di cose importanti.

Basta immaginare che cosa potrebbe accadere per rendersi conto della ridicolaggine o, se si vuole, della presa in giro. Molti saranno scoraggiati dall’andare a votare, più di quanti già siano. La platea dei votanti, e con essa la democrazia, si sta contraendo a coloro che in qualche modo e per qualche ragione militano in un partito o in un movimento. Ma, le elezioni non dovrebbero essere solo per i “militanti”. Si diffonde così l’idea della politica come cosa riservata a una nuova oligarchia che degli interessi generali poco si cura, preferendo dedicarsi principalmente agli interessi suoi e a regolarli al proprio interno. A qualunque oligarchia e anche a questa, la partecipazione politica importa niente. Anzi, è un fastidio. Per questo la crescente diserzione dalle urne non suscita preoccupazione, non suona come un campanello d’allarme.

Ancora dal punto di vista dei diritti dell’elettore, un punto critico della legge è il voto unico che vale per due fini diversi. Il sistema elettorale è congegnato in modo tale da sommare una parte di eletti con un sistema uninominale maggioritario (il 36 per cento) con un’altra parte di eletti secondo un sistema proporzionale di lista (il 64 per cento). Per questa seconda parte, le liste dei candidati sono prestabilite dai partiti e sono bloccate, non esistendo il voto di preferenza. Qui s’innesta la polemica sui “nominati”, che continueranno a prosperare per i due terzi o, dicono alcuni, per il cento per cento, posto che anche i candidati nei collegi uninominali saranno necessariamente indicati dai partiti. Di questo si è discusso ampiamente e non è il caso di ritornarci su.

Invece da discutere è il meccanismo per cui l’elettore è chiamato a esprimere il suo unico voto per scegliere il candidato nel collegio uninominale e quel suo voto è calcolato anche per eleggere i candidati nelle liste proporzionali a lui collegate. Uninominale e proporzionale sono due sistemi basati su logiche addirittura opposte. Mescolarli significa di per sé fare confusione e adulterare artificiosamente la rappresentanza che può essere concepita o nell’un modo o nell’altro, ma non e nell’uno e nell’altro: le idee di giustizia elettorale sono incompatibili. Come può lo stesso voto valere la prima volta per un sistema e la seconda per il sistema opposto? Si dirà: anche in passato c’è stato questo mescolamento, con il sistema detto Mattarellum. Tuttavia, allora l’elettore disponeva di due voti, per l’una e per l’altra quota della rappresentanza. Oggi, egli può trovarsi nella contraddittoria posizione di volere eleggere il candidato maggioritario, ma di non voler contribuire a eleggere i candidati proporzionali della lista bloccata preconfezionata per lui (qualcuno direbbe: propinata) dal partito, oppure viceversa.

È un sistema tecnicamente bastardo che nell’uno o nell’altro caso coarta la libera volontà dell’elettore. Anche a questo proposito si vede con quanto poco rispetto i cittadini elettori siano considerati dal loro legislatore. Poiché più volte la Corte costituzionale in passato e con insistenza ha ritenuto illegittimi i sistemi di voto che coartano in questo modo la libera volontà dell’elettore, cioè i sistemi nei quali non è garantito il rapporto uno a uno, una scelta un voto, è facile di previsione che i dubbi d’incostituzionalità su questo punto tutt’altro che marginale siano difficilmente superabili.

Si poteva sperare che l’occasione della legge elettorale fosse colta per cercare di colmare l’enorme fossato che separa la maggioranza dei cittadini dalle espressioni della politica. Bisogna riconoscere che l’occasione è andata sprecata, che anzi ciò che abbiamo davanti agli occhi è l’allargamento del fossato. Che cosa ci dicono le piazze contrapposte al “palazzo”? Le prime ribollenti, il secondo che procede imperterrito come se niente fosse. Che cosa ci dice l’astensione già altissima che si preannuncia ancora più alta, a testimonianza di umori, questi sì, antipolitici perché intrisi di rabbia e di repulsione nei confronti di una politica sempre più, come si dice, “autoreferenziale”? C’è poco da consolarsi guardando all’astensionismo di altri Paesi: là c’è disinteresse ma qui c’è disprezzo. E dove tra i rappresentanti e i rappresentati c’è disistima diffusa, lì la democrazia è a rischio. Il coperchio può saltare da un momento all’altro e sprigionare energie di qualunque temibile natura. C’è qualcuno che seriamente si rende conto di questo pericolo?

Tra governanti e governati, quale che sia il sistema costituzionale, è sempre esistito un solco. È inevitabile. La dimensione, però, è variabile, e la democrazia non può permettersi che s’allarghi oltre misura. Oggi la misura è certamente già superata. Solo il fatto che vi sia un movimento che finora ha parlamentarizzato e quindi politicizzato lo scontento impedisce di vedere chiaramente quanto il solco sia largo e profondo. Per rendersene conto basterebbe ascoltare i discorsi che si fanno liberamente nelle strade e nelle piazze tra persone che, una volta, si sentivano parti d’una comunità politica e ora non più. Vogliono solo essere lasciati in pace. Con questo popolo dei diseredati della politica, i politici hanno progressivamente perso il contatto.

Per lo più, nel migliore dei casi, ascoltano quello che resta dei loro militanti e dei loro elettori e lì tra loro, ovviamente, trovano consolazioni. Ma, così, si condannano ad avere una visione distorta e tranquillizzante della realtà. Oppure, avvertono pericoli e s’inquietano. Ma, per arginare questo risentimento, invece di conoscerne e riconoscerne le ragioni, finiscono per rinforzarlo chiudendosi nel bunker ch’essi stessi hanno eretto a propria difesa. Tanti mezzi difensivi sono utilizzabili; tra questi anche le leggi elettorali. Che le elezioni servano a una classe politica per difendersi, e non per aprirsi, non è, però, cosa della democrazia.

il manifesto

E’ imperdonabile dopo una legge elettorale rigettata dalla Consulta per i suoi tratti incostituzionali. Imperdonabile che una legge rigettata e prodotta per emendare una precedente formula invalidata perché anch’essa contraria ai principi della Carta, il governo riprovi nel mestiere della manipolazione della tecnica di trasformazione dei voti in seggi. Un capo politico che ha per ideologia la “rottamazione” non può che sprigionare una immensa carica distruttiva.

Desta semmai meraviglia che gli osservatori che lo hanno a lungo incensato parlino solo oggi di “colpo di mano” o persino di legge “fascistellum” non cogliendo che le laceranti prove di forza in aula sono i frutti del tutto prevedibili dell’ideologia della rottamazione. Che Renzi conduca all’eutanasia il suo non-partito è irrilevante. Che distrugga, con la sua opera provocatoria, anche degli assi portanti della repubblica è invece una cosa piuttosto grave.

Il successo del no a dicembre era un macigno scagliato non solo contro il governo, costretto ad archiviare la grande riforma che “da 70 anni il paese attendeva”. Conteneva anche una censura esplicita verso la condotta poco accorta di ben due presidenti. Di sicuro non si può invocare il soccorso del Quirinale per arginare prove di arbitrio che attengono per intero alla deriva della cultura politica del Pd che è diventato il principale attore dell’agguato alla costituzione. Ma la campana del 4 dicembre ha suonato anche per il Colle.

Che dopo 10 anni di elezioni illegali di nuovo aleggi lo spettro di una condotta corsara per fabbricare una legge conveniente ai capi (per la nomina del ceto politico obbediente e per la penalizzazione dei concorrenti alla conquista di Palazzo Chigi) è uno scenario che non può che allarmare i custodi. Il capo dello Stato, in condizioni normali, deve tenersi lontano dal gioco politico. Quando però si persevera nell’emergenza, e la competizione si svolge con forzature illiberali delle regole, il distacco non è di sicuro un inchino doveroso all’autonomia della politica ma un gesto di indifferenza al gioco che diventa sempre più sporco.

Rispetto all’abuso di potere, il capo dello Stato è uno degli argini di cui il sistema dispone. Quando nel 2005 Ciampi non si oppose, come invece doveva, al Porcellum seguì una condotta censurabile perché la nuova legge era approvata a ridosso del voto e non si era ancora affermata la consuetudine di un possibile pronunciamento della Consulta. Quindi, in quel tempo, il presidente era il custode fondamentale dell’ordinamento e il suo silenzio sulla legge Calderoli comportò guasti sistemici prolungati. Accettare il conflitto tra poteri è un bene per l’equilibrio delle istituzioni, un malinteso spirito conciliativo provoca invece tensioni istituzionali irreparabili.

Il fatto nuovo della possibilità di un coinvolgimento della corte nel giudizio di costituzionalità del diritto elettorale attenua certamente la responsabilità del controllo iniziale spettante al capo dello Stato. Il sistema delle garanzie alla fine, inventando il controllo della Consulta, ha ritrovato il modo di espellere un intervento incostituzionale denominato Porcellum prima e Italicum dopo. Però la ristrettezza dei tempi che separano dal voto, questa volta non consente un tempestivo vaglio della Consulta per ristabilire la legalità contro gli abissi di una nuova legge elettorale imposta a colpi di voti di fiducia.

Il calcolo (per Renzi e Salvini) è di celebrare il voto di marzo con una formula imposta manu militare con tutti i suoi evidenti vizi per poi rinviare alla prossima legislatura il compito eventuale di rimediare alla manomissione ormai compiuta. Per questo spregiudicato uso del potere, il Quirinale non può rifugiarsi nello scudo della responsabilità affievolita: i margini di correzione a protezione del principio di legalità sono tutti nella penna del presidente.

Il rischio sistemico, dinanzi a deputati nominati in liste solo approvate dal popolo, e con i risvolti di incostituzionalità paventati da Napolitano nella figura del “capo della coalizione”, è di tramutare il presidente in funzionario della minoranza che rinunciando all’intervento sanzionatorio priva l’equilibrio dei poteri di un supporto terzo che è indispensabile.

La conseguenza della firma concessa all’Italicum è stata attenuata dalla riparazione ex post della Consulta. Però sono ancora attive le pesanti conseguenze di una scommessa istituzionale che, su una mera ipotesi (assetto monocamerale), ha costruito il meccanismo elettorale maggioritario per la sola camera.

Può il capo dello Stato firmare una seconda legge imposta alle camere con l’arma indebita del voto di fiducia che umilia la funzionalità del parlamento e stravolge la base di una democrazia competitiva con un uso partigiano della tecnica elettorale? La repubblica non sarebbe più la stessa, costretta ad un pendolo pauroso che oscilla tra abuso di potere e ribellione del popolo.

vocidall'estero, (c.m.c)

Riprendiamo dal sito Voci dall'estero la traduzione in italiano di un articolo comparso sulla webzine Counterpunch l'8 ottobre 2017. Si trattauna ampia analisi sulle origini e la pratica di un fenomeno finora poco esplorato ma già fortemente penetrato nelle mentalità, soprattutto della gente di sinistra: la moderna ideologia “antifascista”, che nel nome si richiama alla rispettata tradizione dei combattenti per la libertà, usurpandone il credito grazie al facile meccanismo associativo, ma nei fatti non è che una degenerazione che include nel concetto di “fascismo” tutto quel che esula dal “politicamente corretto”.All'argomento abbiamo già dedicato un'ampia rassegna su eddyburg.v

“I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” – Ennio Flaiano, scrittore italiano e coautore di soggetti e sceneggiature dei più grandi film di Federico Fellini.

Nelle ultime settimane, una sinistra totalmente disorientata è stata esortata da più parti a unirsi intorno ad un’avanguardia a volto coperto che si definisce Antifa, per antifascista. Incappucciata e vestita di nero, Antifa è sostanzialmente una variante dei Black Bloc, famosi per scatenare violenza nelle manifestazioni pacifiche in molti paesi. Importata dall’Europa, l’etichetta Antifa suona più politica. Serve anche allo scopo di stigmatizzare gli obiettivi che attacca come “fascisti”. Nonostante il suo nome europeo importato, Antifa è fondamentalmente solo un altro esempio della continua degenerazione nella violenza dell’America.

Precedenti storici

Antifa è salita alla ribalta per il suo ruolo nel rovesciamento della orgogliosa tradizione di “libertà di espressione” di Berkeley, per aver impedito di parlare lì a esponenti della destra. Ma il suo momento di gloria è stato il suo scontro con i conservatori a Charlottesville il 12 agosto, soprattutto perché Trump ha commentato che c’erano “persone valide da entrambe le parti”. Con esuberante Schadenfreude, i commentatori hanno colto al volo l’opportunità di condannare l’odiato Presidente per la sua “equivalenza morale”, dando così una benedizione ad Antifa.

Charlottesville è stata per Antifa l’occasione per il lancio di un successo editoriale: il Manuale Antifascista, il cui autore, il giovane accademico Mark Bray, è un Antifa sia in teoria che in pratica. Il libro “sta avendo un rapido successo“, si è rallegrato l’editore, Melville House. Infatti ha ottenuto subito il plauso di importanti media mainstream, come il New York Times, The Guardian e NBC, che finora non si erano distinti per precipitarsi a recensire libri di sinistra, men che mai quelli di anarchici rivoluzionari.

Il Washington Post ha accolto con favore Bray come il portavoce dei “movimenti di attivisti rivoluzionari” e ha osservato che «il contributo più illuminante del libro è quello sulla storia dell’impegno antifascista del secolo scorso, ma la sua parte più rilevante per il mondo di oggi è la sua giustificazione del soffocamento della libertà di espressione che colpisce i suprematisti bianchi».

Il “contributo illuminante” di Bray è quello di raccontare una versione lusinghiera della storia di Antifa a una generazione la cui visione dualistica della storia, basata sull’Olocausto, l’ha privata delle informazioni e degli strumenti analitici per giudicare eventi multidimensionali come la recrudescenza del fascismo. Bray presenta l’Antifa di oggi come il glorioso erede legittimo di ogni nobile causa dall’abolizionismo in poi. Ma non c’erano antifascisti prima del fascismo, e l’etichetta “Antifa” non si applica in alcun modo a tutti i numerosi avversari del fascismo.

La pretesa implicita di portare avanti la tradizione delle Brigate Internazionali che hanno combattuto in Spagna contro Franco non è altro che un ingenuo meccanismo associativo. Dato che dobbiamo rispettare gli eroi della Guerra Civile Spagnola, una parte di questa stima dovrebbe riversarsi sui loro autoproclamati eredi. Purtroppo, non esistono veterani della Brigata di Abraham Lincoln ancora vivi che possano indicare la differenza tra una grande difesa organizzata contro l’invasione di eserciti fascisti e le schermaglie sul campus di Berkeley. Come per gli anarchici della Catalogna, il brevetto dell’anarchismo è scaduto molto tempo fa, e chiunque è libero di mettere in commercio il proprio generico.

Il movimento Antifascista originale fu uno sforzo dell’Internazionale Comunista di cessare le ostilità con i partiti socialisti europei al fine di costruire un fronte comune contro i movimenti trionfanti guidati da Mussolini e Hitler.

Dal momento che il fascismo si è affermato, e Antifa non è mai stata un serio avversario, i suoi apologeti puntano sull’argomento dello “stroncare sul nascere“: “se solo” gli antifascisti avessero battuto i movimenti fascisti abbastanza presto, questi sarebbero stati stroncati sul nascere. Dato che la ragione e il dialogo non sono riusciti a fermare l’ascesa del fascismo, sostengono, dobbiamo usare la violenza di strada – che, a proposito, fallisce ancora più decisamente.

Questo è totalmente astorico. Il fascismo esaltava la violenza e la violenza era il suo banco di prova preferito. I comunisti e i fascisti combattevano per le strade e l’atmosfera della violenza ha aiutato il fascismo a crescere come un bastione contro il bolscevismo, guadagnando il sostegno fondamentale dei grandi capitalisti e militaristi nei loro paesi, che li hanno portati al potere.

Dal momento che il fascismo storico non esiste più, l’Antifa di Bray ha allargato il proprio concetto di “fascismo” per includere tutto ciò che viola l’attuale canone di Identità Politica: dal “patriarcato” (un atteggiamento prefascista, quantomeno) a “transfobia” (problema decisamente post-fascista).

I militanti mascherati di Antifa sembrano essere più ispirati da Batman che da Marx o anche da Bakunin. Storm Trooper del Partito di Guerra NeoliberaleDal momento che Mark Bray offre le credenziali europee per l’attuale Antifa Usa, è opportuno osservare ciò che Antifa rappresenta in Europa oggi.

In Europa, la tendenza manifesta due forme. Gli attivisti Black Bloc invadono regolarmente diverse manifestazioni di sinistra per distruggere le vetrine e combattere contro la polizia. Queste manifestazioni di testosterone hanno un significato politico minore, se non provocare pubblici appelli a rafforzare le forze di polizia. Sono fortemente sospettati di infiltrazioni della polizia.

Ad esempio, lo scorso 23 settembre, diverse dozzine di ruffiani mascherati in nero, tirando giù manifesti e lanciando pietre, tentavano di assaltare il palco da cui lo smagliante Jean-Luc Mélenchon doveva arringare la folla di La France Insoumise, oggi partito leader della sinistra francese. Il loro messaggio inespresso sembrava affermare che per loro nessuno può essere abbastanza rivoluzionario. Di tanto in tanto, effettivamente individuano a caso uno skinhead da picchiare. Ciò serve a confermare le loro credenziali “antifasciste”.

Usano queste credenziali per arrogarsi il diritto di diffamare gli altri, in una specie di inquisizione informale autoproclamata. Come primo esempio, alla fine del 2010, una giovane donna di nome Ornella Guyet è comparsa a Parigi alla ricerca di lavoro come giornalista in vari periodici e blog di sinistra. Ha “cercato di infiltrarsi dappertutto”, secondo l’ex direttore di Le Monde diplomatique, Maurice Lemoine, che quando l’ha assunta come tirocinante “da subito, intuitivamente, non ha avuto fiducia in lei“.

Viktor Dedaj, che gestisce uno dei principali siti di sinistra in Francia, Le Grand Soir, è stato tra coloro che hanno cercato di aiutarla, solo per avere una spiacevole sorpresa pochi mesi dopo. Ornella era diventata un inquisitore, dedito a denunciare “il cospirazionismo, la confusione, l’antisemitismo e il rosso-bruno” su Internet. Questo ha preso la forma di attacchi personali nei confronti di individui che lei giudicava colpevoli di questi peccati. Quello che è significativo è che tutti i suoi obiettivi si opponevano alle guerre di aggressione degli Stati Uniti e della NATO in Medio Oriente.

In effetti, i tempi della sua crociata coincidevano con le guerre dei “cambi di regime” che distrussero la Libia e la Siria. Gli attacchi prendevano di mira i principali critici di quelle guerre.

Viktor Dedaj era in cima alla sua lista. E c’era anche Michel Collon, vicino al Partito dei Lavoratori belga, autore, attivista e direttore del sito bilingue Investig’action. E anche François Ruffin, produttore cinematografico, editore del giornale di sinistra Fakir, eletto recentemente all’Assemblea Nazionale nella lista del partito di Mélenchon La France Insoumise. E così via. L’elenco è lungo.Le personalità prese di mira sono diverse, ma tutti hanno una cosa in comune: l’opposizione alle guerre di aggressione. Per di più, a quanto ne so, quasi tutti quelli che si oppongono alle guerre sono nella sua lista.

La tecnica principale è la colpa presunta per associazione. In cima alla lista dei peccati mortali sta la critica dell’Unione Europea, associata al “nazionalismo” associato al “fascismo” associato all’ “antisemitismo”, con una tendenza al genocidio. Ciò coincide perfettamente con la politica ufficiale dell’UE e dei governi dei suoi paesi aderenti, ma Antifa usa un linguaggio molto più duro.

A metà giugno 2011, il partito anti-UE Union Populaire Républicaine guidato da François Asselineau è stato oggetto di insinuazioni feroci su siti Internet di Antifa firmati da “Marie-Anne Boutoleau” (uno pseudonimo di Ornella Guyet). Temendo la violenza, i responsabili hanno annullato gli incontri del UPR a Lione. L’UPR ha fatto una piccola indagine, scoprendo che Ornella Guyet era nell’elenco degli oratori di un seminario del marzo 2009 sui media internazionali organizzato a Parigi dal Centro per lo Studio delle Comunicazioni Internazionali e dalla Scuola dei Media e degli Affari Pubblici presso la George Washington University. Un’associazione sorprendente per una così zelante attivista contro i “rosso-bruni”.

Nel caso in cui qualcuno abbia dubbi, “rosso-bruno” è un termine usato per macchiare chiunque abbia generalmente opinioni di sinistra – cioè “rosso” – con il colore fascista “marrone”. Questa accusa può basarsi sul fatto di avere lo stesso parere di qualcuno di destra, sul parlare sulla stessa piattaforma con qualcuno di destra, pubblicare accanto a qualcuno di destra, essere visti in una manifestazione contro la guerra a cui partecipa anche qualcuno di destra, e così via. È un qualcosa di particolarmente utile per il Partito della Guerra, poiché ai giorni nostri molti conservatori si oppongono alla guerra più della gente di sinistra, che si è bevuta il mantra della “guerra umanitaria”.
Il governo non ha bisogno di reprimere le manifestazioni contro la guerra. Ci pensa Antifa.

L’umorista franco-africano Dieudonné M’Bala M’Bala, stigmatizzato per antisemitismo dal 2002 per la sua scenetta televisiva in cui ironizzava su un colono israeliano come parte dell’ “Asse del bene” di George W. Bush, non è solo un obiettivo, ma serve come presunzione di colpevolezza per associazione per chiunque difenda il suo diritto alla libertà di parola – come il professore belga Jean Bricmont, praticamente nella lista nera in Francia per aver cercato di spendere una parola in favore della libertà di espressione durante un talk show televisivo. Dieudonné è stato bandito dai media, denunciato e multato innumerevoli volte, persino condannato al carcere in Belgio, ma nei suoi spettacoli continua a fare il pienone di sostenitori appassionati, e il principale messaggio politico è l’opposizione alla guerra.

Tuttavia, le accuse di essere tolleranti su Dieudonné possono avere gravi effetti sugli individui in posizioni più precarie, in quanto in Francia il semplice accenno di “antisemitismo” può distruggere una carriera. Gli inviti vengono annullati, le pubblicazioni rifiutate, i messaggi non ottengono risposta.

Nell’aprile del 2016, Ornella Guyet è sparita dalla circolazione, in un contesto di forti sospetti sulle sue personali associazioni.
La morale di questa storia è semplice. Rivoluzionari radicali auto-proclamati possono essere la psicopolizia più utile per il partito della guerra neoliberale.
Non voglio dire che tutti, o la maggior parte, degli Antifa siano agenti dell’establishment. Solo che possono essere manipolati, infiltrati o qualcun altro si può spacciare per uno di loro, proprio perché si autorizzano da soli e di solito sono più o meno a volto coperto.

Silenziare il necessario dibattito

Chi è certamente sincero è Mark Bray, autore di The Intifa Handbook. È chiaro da dove proviene Mark Bray, quando scrive (p.36-7): «… la soluzione finale di Hitler uccise sei milioni di ebrei nelle camere a gas, con plotoni di esecuzione, per fame e mancanza di cure mediche in campi squallidi e nei ghetti, con le percosse, facendoli lavorare fino alla morte e portandoli al suicidio per disperazione. Nel continente circa due ebrei su tre sono stati uccisi, compresi alcuni dei miei parenti».

Questa storia personale spiega perché Mark Bray sente con tanta passione il tema del “fascismo”. Questo è perfettamente comprensibile in una persona ossessionata dalla paura che “possa accadere di nuovo”. Tuttavia le ondate emotive, anche le più giustificate, non portano necessariamente saggi consigli. Le reazioni violente alla paura potrebbero sembrare forti ed efficaci quando in realtà sono moralmente deboli e praticamente inefficaci.

Siamo in un periodo di grande confusione politica. Etichettare ogni manifestazione “politicamente scorretta” come fascismo impedisce la chiarezza del dibattito su questioni che hanno molto bisogno di essere definite e chiarite. La scarsità di fascisti è stata compensata identificando la critica dell’immigrazione come fascismo. Questa identificazione, in connessione con il rifiuto delle frontiere nazionali, deriva gran parte della sua forza emotiva soprattutto dalla paura ancestrale della comunità ebraica di essere esclusa dalle nazioni in cui si trova.

La questione dell’immigrazione ha aspetti diversi in luoghi diversi. Nei paesi europei non è la stessa cosa che negli Stati Uniti. C’è una distinzione di base tra immigrati e immigrazione. Gli immigrati sono persone che meritano considerazione. L’immigrazione è una politica che deve essere valutata. Dovrebbe essere possibile discutere la politica senza essere accusati di perseguitare la gente. Dopo tutto, i leader sindacali tradizionalmente si sono opposti all’immigrazione di massa, non per razzismo, ma perché può essere una strategia capitalista deliberata per ridurre i salari.

In realtà, l’immigrazione è un soggetto complesso, con molti aspetti che possono portare a ragionevoli compromessi. Ma estremizzare il problema fa cadere la possibilità di compromesso. Facendo dell’immigrazione di massa la regina delle prove sull’essere fascisti o meno, l’intimidazione di Antifa impedisce una discussione ragionevole. Senza discussione, senza la disponibilità ad ascoltare tutti i punti di vista, la questione semplicemente dividerà la popolazione in due campi, pro e contro. E chi vincerà un tale confronto?

Un recente sondaggio* mostra che l’immigrazione di massa è sempre più impopolare in tutti i paesi europei. La complessità della questione è dimostrata dal fatto che nella maggior parte dei paesi europei la maggioranza della gente crede di avere il dovere di accogliere i rifugiati, ma non approva la continua immigrazione di massa. L’argomento ufficiale secondo cui l’immigrazione è cosa buona e utile è accettato solo dal 40%, rispetto al 60% di tutti gli europei, i quali ritengono che “l’immigrazione è un male per il nostro Paese”. Una sinistra la cui causa principale sono le frontiere aperte diventerà sempre più impopolare.

Violenza infantile

L’idea che il modo per far tacere qualcuno sia di assestargli un pugno sul muso è americana come i film di Hollywood. È anche tipica della guerra tra gang di alcune zone di Los Angeles. Fare banda con quelli “come noi” per combattere le bande degli “altri” per il controllo del territorio è caratteristica dei giovani in circostanze incerte. La ricerca di una causa può conferire a questi comportamenti uno scopo politico: sia fascista che antifascista. Per i giovani disorientati, è un’alternativa all’entrare nei Marines.

L’Antifa americano assomiglia molto a un matrimonio della classe media tra l’Identità Politica e la guerra tra gang. Mark Bray (pag. 175) mostra la sua fonte di Antifa di Washington affermando che il motivo per voler fare parte dei fascisti è di schierarsi dalla parte del “ragazzo più potente del quartiere” e tirarsi indietro in caso di paura. La nostra banda è più dura della tua.

Questa è anche la logica dell’imperialismo statunitense, che dice abitualmente dei suoi nemici: “Non lo capiscono che con la forza”. Anche se Antifa afferma di essere un movimento rivoluzionario radicale, la loro mentalità è perfettamente tipica dell’atmosfera di violenza prevalente nell’America militarizzata.

In un altro verso, Antifa segue la tendenza degli eccessi della Identità Politica che stanno schiacciando la libertà di parola in quella che dovrebbe essere la sua cittadella, il mondo accademico. Le parole sono considerate così pericolose che devono essere istituiti degli “spazi sicuri” per proteggere le persone dalle parole. Questa estrema vulnerabilità al danno causato dalle parole è stranamente legata alla tolleranza per la violenza fisica reale.

Caccia all’oca selvatica

Negli Stati Uniti, l’aspetto peggiore di Antifa è lo sforzo di guidare la disorientata sinistra americana in una caccia all’oca selvatica, seguendo “fascisti” immaginari invece di mettersi apertamente insieme per elaborare un programma positivo coerente. Gli Stati Uniti hanno la loro parte di individui strambi, aggressioni gratuite, idee pazzesche, e individuare questi personaggi marginali, da soli o in gruppi, è una distrazione enorme.

Le persone veramente pericolose negli Stati Uniti sono al sicuro a Wall Street, nei Think Tanks di Washington, negli uffici dirigenziali della sterminata industria militare, per non parlare delle redazioni di alcuni dei media mainstream che attualmente stanno adottando un atteggiamento benevolo verso gli “anti -fascisti”, semplicemente perché sono utili per concentrarsi sull’anticonformista Trump invece che su se stessi.

Antifa USA, definendo la “resistenza al fascismo” come resistenza nei confronti delle cause perse – la Confederazione, i suprematisti bianchi e, per quel che conta, Donald Trump – sta in realtà distraendo l’attenzione dalla resistenza all’establishment neoliberale dominante, che si oppone anch’esso alla Confederazione e ai suprematisti bianchi ed è già in gran parte riuscito a catturare Trump attraverso la sua implacabile campagna di denigrazione. Quel corpo dirigente che, con le sue insaziabili guerre in paesi lontani e l’introduzione di metodi di polizia, ha usato con successo la “resistenza popolare a Trump” per renderlo ancora peggiore di quanto già non fosse.

L’uso facile del termine “fascista” ostacola la identificazione ragionata e la definizione del vero nemico dell’umanità di oggi. Nel caos contemporaneo, i più grandi e pericolosi sconvolgimenti del mondo derivano tutti dalla stessa fonte, difficile da definire, ma a cui possiamo dare l’etichetta provvisoria semplificata di Imperialismo Globalizzato. Questo equivale a un poliedrico progetto di ridefinizione del mondo per soddisfare le esigenze del capitalismo finanziario, del complesso industriale militare, della vanità ideologica degli Stati Uniti e della megalomania dei capi delle potenze “Occidentali” minori, in particolare Israele. Potrebbe essere chiamato semplicemente “imperialismo”, tranne che è molto più vasto e più distruttivo dell’imperialismo storico dei secoli precedenti. È anche molto più mascherato. E poiché non contiene alcuna chiara etichetta di “fascismo”, è difficile denunciarlo in termini semplici.

La fissazione sulla prevenzione di una forma di tirannia che sorse oltre 80 anni fa, in circostanze molto diverse, ostacola il riconoscimento della mostruosa tirannia di oggi. Combattere la guerra precedente porta alla sconfitta.

Donald Trump è un outsider a cui non sarà permesso di entrare. L’elezione di Donald Trump è soprattutto un grave sintomo della decadenza del sistema politico americano, totalmente governato dal denaro, dalle lobby, dal complesso militare-industriale e dai grandi media. Le loro menzogne stanno minando la base stessa della democrazia. Antifa ha portato avanti l’offensiva contro l’unica arma ancora nelle mani del popolo: il diritto alla libertà di parola e di riunione.

Note.

*«Où va la démocratie?», inchiesta della Fondazione per l’innovazione politica a cura di Dominique Reynié, (Plon, Parigi, 2017).

il Fatto quotidianola Repubblicail manifesto, 11 ottobre 2017. Tre opinioni sulla nuova legge elettorale che voglionopropinarci: Marco Travaglio, Enzo Mauro, Andrea Fabozzi. In calce un link da utilizzare per esprimere il vostro dissenso



il Fatto Quotidiano
UN NUOVO 4 DICEMBRE
di Marco Travaglio

Un governo illegittimo, sostenuto da una maggioranza fittizia figlia di una legge elettorale incostituzionale e spalleggiato da un capo dello Stato eletto da quella falsa maggioranza e già firmatario di una legge elettorale incostituzionale, impone la fiducia a se stesso su una nuova legge elettorale incostituzionale senza averne il potere (la legge non è di iniziativa governativa, ma parlamentare) per impedire al Parlamento di discutere, emendare ed eventualmente bocciare una norma studiata a tavolino da quattro partiti per favorire se stessi e far perdere le elezioni alla prima forza politica del Paese (il M5S) e alla sinistra non allineata, e per consentire a un pugno di capi-partito di nominarsi i due terzi delle prossime Camere, truccando le regole del gioco a pochi mesi dalle urne in barba alla raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2003 (citata anche da sentenze della Corte di Strasburgo) di non modificare le leggi elettorali nell’ultimo anno prima delle elezioni. Stiamo parlando della legge “nostra” per antonomasia: quella che regola il diritto di voto, la sovranità popolare sancita dall’articolo 1 della Carta e ora confiscata dai partiti come “cosa loro”.

I precedenti di un voto di fiducia sulla legge elettorale sono, nell’ultimo secolo, appena tre e tutti poco rassicuranti: il primo sulla legge Acerbo del 1923, che assicurò a Benito Mussolini una maggioranza in Parlamento che non aveva nel Paese; il secondo sulla cosiddetta “legge truffa” del 1953 (un modello di democrazia al confronto degli ultimi obbrobri: assegnava un piccolo premio di governabilità a chi si aggiudicava il 50% dei voti più uno); il terzo nel 2015 sull’Italicum, poi dichiarato incostituzionale dalla Corte. Infatti ieri è inorridito persino Napolitano, il che è tutto dire. Nemmeno B. aveva osato tanto nel 2005, quando impose il Porcellum, anche lui alla vigilia del voto. E dire che la legge Calderoli, portando la firma del ministro delle Riforme, era di iniziativa governativa, così come l’Italicum firmato dieci anni dopo dalla ministra Boschi: dunque in quei casi, per quanto forzata, la fiducia un senso poteva averlo. Stavolta il governo Gentiloni si era volutamente e dichiaratamente tenuto fuori dalla legge elettorale, infatti il Rosatellum-1, il Tedeschellum e il Rosatellum-2 sono stati tutti di iniziativa parlamentare. Il Rosatellum prende il nome dal capogruppo del Pd alla Camera, previo accordo con Pd, Ap, FI e Lega: due forze di maggioranza e due di opposizione. Che c’entra il governo Gentiloni?

E perché mai chi del Rosatellum non condivide il metodo (l’accordo con B. e Salvini) o il merito (coalizioni finte e solubili, nominati à gogo, niente voto disgiunto, 6 pluricandidature) dovrebbe affossare il governo? E quali cause di forza maggiore giustificano la fiducia per approvarlo in blocco, senza emendamenti né dibattiti, visto che il Parlamento ha il tempo e i numeri per votarlo con le normali procedure? E che fine hanno fatto i moniti del Quirinale contro gli abusi di fiducia anti-Parlamento?

Dinanzi a questo sterminio della democrazia parlamentare e della legalità costituzionale, ci sarebbe da attendersi una reazione delle istituzioni di garanzia, a cominciare dal presidente della Repubblica, che invece tace e acconsente (a parte i fervorini ai giudici che osano ancora aprire bocca). E dai presidenti di Camera e Senato, che già avallarono la fiducia all’Italicum, ma che ora – visto quel che stabilì la Consulta – dovrebbero pensarci bene prima di perseverare. I loro poteri – lo sostiene un gruppo di giuristi interpellati da Libertà e Giustizia – consentono di rifiutare la messa in votazione della fiducia. Se invece ignoreranno un’altra volta la legge dello Stato per piegarsi alla legge del più forte, passeranno alla storia come i complici di una stagione incostituzionale senza fine. Si leggano il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky, nell’ultima intervista a Silvia Truzzi sul Fatto: “Immaginiamo che si approvi una nuova legge elettorale in prossimità del voto e che questa legge sia incostituzionalissima, addirittura per contrasto evidente con i precedenti della Corte. Le procedure non consentirebbero di rivolgersi a essa in tempo utile. Si voterebbe con quella legge e le nuove Camere resterebbero in carica tranquillamente, ma incostituzionalmente, in virtù del principio di continuità… I politici eletti avevano tutto l’interesse a terminare il mandato parlamentare. Con la conseguenza aberrante che le sentenze della Corte non hanno sortito effetto e il gioco può essere ripetuto all’infinito: basta votare la legge quando non è più possibile ricorrere contro i suoi vizi”. Chiamatelo regime, o fascismo 2.0, o come volete. Ma una cosa è certa: la democrazia parlamentare è un’altra cosa, anzi è l’opposto. E pensare che questi impuniti hanno appena approvato la legge Fiano per rivietare il fascismo e magari abbattere qualche obelisco del Duce, salvo poi calcarne le orme con lo stesso Fiano relatore.
Chi condivide la nostra denuncia può fare molto in queste ore decisive. Aderire sul sito del all’appello anti-Rosatellum (80 mila firme in 10 giorni). Tempestare di email e messaggi sui social Laura Boldrini perché blocchi la fiducia e i parlamentari del Pd perché abbiano il coraggio di opporsi. Scendere in piazza Montecitorio oggi alle 13 con i 5Stelle e poi sempre a Roma in piazza del Pantheon alle 17.30 con Bersani (Mdp), Anna Falcone e le altre sinistre, per dire No alla deriva autoritaria e Sì alla sovranità popolare. Come al referendum del 4 dicembre 2016: anche un anno fa ci credevano pochi e rassegnati, invece fummo 19.420.271. E stravincemmo.

la Repubblica
UN COLPO DI MANO
di Ezio Mauro

NON è un colpo di Stato, come urlano i grillini in piazza, ma questa decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale è un colpo di mano: gravissimo per la materia delicata di cui tratta (una materia di garanzia per tutti) e per il momento in cui avviene, a pochi mesi dalle elezioni politiche.

Giunge così a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell’impotenza dell’intero sistema politico, e della vacuità della legislatura tutta intera, e cioè l’incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un’intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte, ma su un meccanismo in grado di restituire ai cittadini la piena potestà di scegliere i loro rappresentanti, con una regola riconoscibile dagli elettori e riconosciuta dall’intero sistema, capace di durare nel tempo al di là dei calcoli miopi di breve periodo. Restituendo così al meccanismo della rappresentanza quella stabilità e quella neutralità che sono parte indispensabile della fiducia nella politica e nelle istituzioni, oggi perduta.

C’è una contraddizione logica nel chiamare indecentemente in causa nell’atto finale il governo che non è intervenuto nel percorso della riforma - Gentiloni lo aveva sempre escluso, dunque deve spiegare cosa l’ha convinto a cambiare idea - perché faccia scattare il lucchetto della fiducia, troncando il confronto parlamentare per paura delle imboscate nascoste nel voto segreto.

PROPRIO lo spettro dichiarato dei franchi tiratori, che agita questa legge elettorale come i fantasmi abitano i castelli d’Inghilterra, è la prova patente di quanto poco i partiti-padri di questa legge si fidino della sua capacità di convincere e coinvolgere i loro parlamentari, come capita ad ogni confisca di sovranità politica da parte dei vertici più ristretti.

C’è poi una contraddizione tutta politica, clamorosa e sotto gli occhi di tutti: cosa c’entra un patto di maggioranza (riconfermato e blindato a forza con il voto di fiducia) con un provvedimento che nasce trasversale, a cavallo tra gran parte dell’area di governo e una certa opposizione, anzi per dirla tutta da un’intesa tra il Pd e Forza Italia con il concorso interessato della Lega e del partitino di Alfano? In questo modo si svilisce anche l’istituto parlamentare e lo stesso voto di fiducia, uno dei momenti più significativi del rapporto tra il governo e le Camere: qui invece ridotto a puro espediente tecnico, dove non è in gioco la fiducia e nemmeno il governo, ma entrambi diventano puri strumenti servili di un consenso indotto e forzato, con la destra che esce dall’aula per far passare in un giorno pari la fiducia ad un governo a cui si oppone nei giorni dispari.

L’ultima contraddizione - in realtà la prima - è del Pd, il partito che regge la maggioranza, il governo e ha chiesto la fiducia. In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un’autotutela ad ogni costo, dando fiato ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia.


TRE FIDUCIE, POI ALTRE TRE
di Andrea Fabozzi

«Legge elettorale. Cambia la maggioranza, a chiedere la fiducia sul Rosatellum sono il Pd con Forza Italia, Lega e Ap. Gentiloni "non era entusiasta" ma si adegua grazie alla copertura del Quirinale. Mattarella preoccupato soprattutto di andare al voto con le attuali leggi non omogenee. Renzi vuole andarci presto e per questo la forzatura, sulla quale potrebbe essere chiamata presto la Corte costituzionale, si ripeterà al senato»

Non si sente niente. Quando la presidente della camera Boldrini dà la parola alla ministra Finocchiaro per consentirle di porre la questione di fiducia sulla legge elettorale, dai banchi M5S si urla «venduta» e si lanciano fascicoli e rose rosse («per simboleggiare la morte della democrazia»), dai banchi di Sinistra italiana e Mdp si grida «vergogna». La ministra fa la sua comunicazione resistendo a un tentativo di placcaggio di La Russa, poi quasi scappa via. Si vede che non è contenta, nei giorni scorsi aveva lasciato intendere che la fiducia non era necessaria, appartiene alla corrente del ministro Orlando che è l’unico ad aver sollevato dubbi nel governo.

Gentiloni, che per mesi ha ripetuto di voler solo «seguire» e «spronare» il lavoro del parlamento sulla legge elettorale, «non era affatto entusiasta» della richiesta di mettere la fiducia arrivata dal Pd, per conto anche di Forza Italia, Lega e Ap. Il racconto è del capogruppo democratico Rosato e l’auto-retroscena fa parte dell’accordo con il capo del governo: il Pd mette in scena con il massimo della teatralità una richiesta prevedibile, perché già sperimentata con l’Italicum. Da Mattarella, oggi come allora, arriva il via libera, con una nota in cui si liquida la questione fiducia come «attinente al rapporto parlamento governo» ma si insiste sul valore positivo della riforma elettorale.

Il comunicato del Colle è identico a quello con cui due anni fa Mattarella non si oppose alla fiducia sull’Italicum, deludendo le opposizioni (anche, all’epoca, Forza Italia e Lega). In più adesso c’è la preoccupazione del presidente della Repubblica per un risultato elettorale affidato alle due leggi «non omogenee» consegnate dalla Consulta (risultato che toccherà a lui gestire) e la considerazione che ancora più pesante, perché senza reali precedenti, sarebbe stato un decreto elettorale. Sotto l’ombrello del Quirinale si posiziona anche la presidente Boldrini – «la fiducia è una prerogativa del governo» – che due anni fa aveva riconosciuto «una logica» a chi faceva notare come per il regolamento della camera non si possono chiedere fiducie quando è prescritto il voto segreto, che è sempre possibile sulle leggi elettorali.

Non mancano altri argomenti, visto che l’articolo 72 della Costituzione impone «la procedura normale di esame e approvazione» per le leggi elettorali. In questo caso gli unici due precedenti contrari precedenti all’Italicum non fanno testo, perché uno risale al fascismo (legge Acerbo) e l’altro alla legge «truffa» quando l’ostruzionismo bloccava l’aula e il presidente del senato si dimise. È infatti il precedente dell’Italicum a consentire la nuova fiducia. Allora Napolitano non era più al Quirinale, ma caldeggiò la fiducia malgrado anche quella legge contenesse l’indicazione del «capo della forza politica» che, adesso il presidente emerito ha chiesto di correggere. Fuori tempo massimo e invano.

Perché non ci sarà nessuna discussione sugli emendamenti, soprattutto quelli a voto segreto (un centinaio) che avrebbero potuto fermare il Rosatellum. Oggi le prime due fiducie, domani quella sull’articolo tre – una delega che in pratica il governo dà a se stesso per ridisegnare i collegi – e i voti sugli ultimi due articoli (senza rischi, contengono norme favorevoli a Mdp sulla raccolta delle firme). Poi, forse venerdì, il voto finale. Inevitabilmente segreto, ma che preoccupa meno il Pd rispetto agli emendamenti. Il margine di vantaggio è ampio, circa duecento voti.

Proprio l’inevitabilità alla camera dell’ultimo voto segreto, dove i franchi tiratori potrebbero conquistare il bottino pieno, abbattendo la legge, aveva alimentato gli scetticismi sulla fiducia. La giornata di ieri ha chiarito che la vera ragione di questa mossa è quella di fare presto, per ripetere lo stesso aut aut ai senatori. Dai primi di novembre – orientativamente dalla settimana che comincia il 6, ma anche in questo caso è il governo che dà le carte – il senato sarà in sessione di bilancio; l’obiettivo del Pd è di far approvare definitivamente la legge, ancora con la fiducia, entro quella data. Servirà un’altra corsa, una settimana di lavoro in commissione e una in aula.

I numeri con cui ieri a palazzo Madama è passata la legge europea (solo 118 sì) testimoniano la difficoltà. Se alla camera i berlusconiani non hanno dovuto votare la fiducia, al senato l’assenza al momento della chiama potrebbe non dare sufficienti garanzie.

Ma è un altro il rischio che governo e maggioranza accettano di correre, approvando ancora una legge elettorale con la fiducia. È vero che la precedente, l’Italicum, non è stata sanzionata dalla Corte costituzionale per questa ragione (lo è stata com’è noto per altre) ma solo perché nessun tribunale aveva sollevato il problema davanti ai giudici delle leggi. Che anzi, rifiutando di auto assegnarsi il quesito, nulla avevano detto sulla pertinenza di questo genere di dubbi di costituzionalità. Accade adesso che già venerdì (a Messina) e poi per tutto il mese di ottobre, quattro tribunali (gli altri sono Lecce, Venezia e Perugia) potrebbero accogliere queste nuove osservazioni sollecitate dall’avvocato Besostri. Il problema della fiducia sulle leggi elettorali, allora, può arrivare comunque alla Consulta. A ridosso delle prossime elezioni

Il Fatto Quotidiano ha lanciato una petizione per chiedere che gli elettori possano scegliere i parlamentari: finora le firme raccolte sono 79mila (clicca qui per firmare).

il manifesto,

Una marea bianca di decine di migliaia di persone ha invaso ieri le piazze centrali delle principali città spagnole, come Madrid, Barcellona, Valencia, Saragozza, Santiago, Siviglia e molte altre. Alle 12, convocate dall’associazione appena costituita chiamata «Hablemos/Parlem?», senza bandiere e indossando magliette bianche, hanno chiesto a gran voce che il dialogo torni a prevalere.

Una richiesta sensata, dato che né una dichiarazione di indipendenza, né una repressione selvaggia sembrano strade promettenti per stabilizzare una situazione che è arrivata a preoccupare persino i mercati e i grandi poteri finanziari che finora erano stati poco sensibili al dibattito catalano. Non c’erano partiti fra gli organizzatori di questa protesta gentile, ma alcuni membri di partiti e sindacati hanno partecipato a titolo individuale a queste manifestazioni auto organizzate in pochi giorni attraverso le reti sociali (soprattutto via twitter).

A Madrid si sono sentiti slogan come «meno odio, più conversazione», o «meno bandiere e più dialogo». Bandiere che invece non sono mancate a poche centinaia di metri dove un’altra manifestazione, assai più numerosa (si parla di 50mila persone contro le 1.500 di «bianchi» nella capitale) e decisamente schierata a destra (non a caso vi partecipava il vice segretario popolare Pablo Casado), di bandiere spagnole rojigualdas ce ’’erano una marea, in mezzo a grida da stadio «Yo soy español, español», «¡Viva España!» o l’ormai classico belligerante «Coi golpisti non si parla». La polizia ha tenuto separate le due manifestazioni.

A Barcellona per la manifestazione in favore del dialogo c’erano anche Ada Colau e Miquel Iceta, leader dei socialisti catalani, che hanno chiesto «dialogo, negoziato e patto. Si tratta di parlare e risolvere». Oltre ai palloncini bianchi liberati nel cielo, fra gli slogan che invitavano a parlare, anche quelli rivolti al presidente della Generalitat come quelli che dicevano «La Catalogna non è vostra, è di tutti» e «Fate il vostro lavoro».

La manifestazione di oggi, sempre alle 12, ma solo a Barcellona, sarà certamente molto più controversa. Organizzata dall’associazione filo-unionista «Società Civile catalana», è appoggiata entusiasticamente da Pp e Ciudadanos. Il Pp, per bocca del portavoce Fernando Martínez Maillo, ha chiesto alla «maggioranza silenziosa», che di solito non scende in piazza, di manifestare avvolta da bandiere spagnole, catalane (ma non quella indipendentista, ça va sans dir) ed europea. Soprattutto per chiedere a Puigdemont «che si fermi e riconduca la situazione e smetta di far male alla Catalogna».

Il segretario del Psoe Pedro Sánchez ha parlato invece a Valencia, dove ha detto che lo Stato spagnolo attraversa un momento «traumatico» e che secondo lui «noi cittadini viviamo e dormiamo pensando all’integrità territoriale del nostro paese». Ha appoggiato la marcia dei bianchi giacché «il Psoe è per il dialogo», in cui, ha detto, «c’entra tutto meno l’intransigenza, l’unilateralità e l’illegalità».

La Cup invece ribadisce che martedì la sessione plenaria del Parlament catalano sarà «un’opportunità storica e un momento chiave per esercitare l’autodeterminazione» e che la loro volontà «è che effettivamente si produca una dichiarazione unilaterale di indipendenza», anche se ha riconosciuto che la Catalogna non avrà capacità per rendere effettiva la legge di transitorietà giuridica, per cose come il controllo delle frontiere, degli aeroporti, dell’economia.

Secondo gli anticapitalisti il processo costituente dovrebbe iniziare immediatamente. La Cup chiede anche che sia i cittadini, sia le istituzioni boicottino banche come Sabadell, La Caixa e il Bbva, che hanno deciso di trasferire le sedi sociali fuori dalla Catalogna per esercitare pressione sul Govern di Barcellona. I Mossos, secondo la Candidatura unitaria popolare, dovrebbero al più presto «smettere di essere la polizia della Giustizia spagnola».

Mossos che rimangono al centro di 16 indagini giudiziarie aperte in Catalogna per «disobbedienza per inattività» non essendo intervenuti domenica nelle operazioni di ritiro delle urne o di allontanamento dei votanti.

il Fatto quotidiano

«Pubblichiamo parte dell’intervento che il professor Azzariti ha tenuto nel convegno dei Comitati del No lunedì 2 ottobre 2017»

La discussione sulla riforma del sistema elettorale è diventata insopportabilmente confusa, anzi del tutto indecifrabile, almeno per chi vuole ragionare in base a valori e non solo per perseguire i propri interessi di partito, se non direttamente quelli strettamente personali. Ci vengono proposti sistemi elettorali, sempre più complessi, che sembrano fondarsi sul mistero della cabala, con il solo scopo di acquisire prima del voto un risultato politico desiderato ovvero con il fine di esorcizzare esiti non graditi.

Così è per l’ultima proposta, elaborata dagli stessi protagonisti che pochi mesi addietro si erano accordati per introdurre un sistema del tutto diverso, che ora immaginano di poter escogitare un meccanismo grazie al quale - secondo le parole dei commentatori più accreditati e dei più scaltri esponenti politici - si garantisca a Berlusconi di ottenere la leadership nel centrodestra, a Salvini di fare il pieno nei collegi del nord, ad Alfano di provare a non scomparire, a Renzi di tacitare gli avversari interni e orchestrare un trappolone per Pisapia, a quest’ultimo di affrancarsi dall’ingombrante D’Alema e abbandonare la sinistra soi-disant radicale.

È questo un terreno di discussione inaccettabile. L’espressione unicamente del livello di assoluta autoreferenzialità della politica, un’ostentazione della politica che si allontana sempre più dal mondo reale. Allora, il nostro primo sforzo credo debba essere quello di riportare con i piedi per terra il confronto sulla legge elettorale. Ricordare, che questa non serve per assicurare il risultato ai giocatori, bensì a permettere al popolo sovrano di esprimere e scegliere i propri rappresentanti.

Sulla riforma della legge elettorale mi limito qui a due considerazioni. In primo luogo, ricordo che entrambe le decisioni della Consulta sui sistemi elettorali hanno rilevato che le ragioni della governabilità - obiettivo politico legittimo - devono però essere perseguite “con il minore sacrificio possibile per la rappresentanza politica nazionale”, la quale “si pone al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo prefigurati dalla Costituzione”.
A me sembra chiaro il senso di un tale rilievo: l’ansia di governabilità che ha dominato la politica in Italia nell’ultimo quarto di secolo è andata troppo oltre ed è giunta a comprimere eccessivamente il valore supremo della rappresentatività dell’assemblea parlamentare. Dopo queste sentenze, il buon legislatore non perderebbe un attimo del suo tempo e - ringraziata la Corte per averla avvertita del pericolo incorso - rimedierebbe al mal fatto, riscoprendo le virtualità della rappresentanza politica che si pone alla base della nostra democrazia costituzionale.

V’è, poi, una seconda ragione che dovrebbe sollecitare a invertire la rotta. Ed è la constatazione dello stato in cui ci troviamo. Dopo venticinque anni di democrazia maggioritaria nessun risultato auspicato è stato conseguito: non la promessa semplificazione del sistema politico, che è invece esploso e s’è frammentato al suo interno; non la reclamata stabilità dei governi, costantemente ostaggio di maggioranze sempre più litigiose; non l’illusione della scelta del governo rimessa al corpo elettorale, che non decide ormai più nulla, non solo non sceglie il governo, ma neppure i propri rappresentanti, neppure l’ultimo dei peones.

Non solo non si sono raggiunti gli obiettivi perseguiti ma si sono pericolosamente inaridite le fonti che alimentano la democrazia costituzionale. Il Parlamento in primo luogo. Quest’ultimo io credo sia stato il peccato più grande.

Se vi è un organo sacrificato dal lungo regresso che ha accompagnato il progressivo, apparentemente inarrestabile, declino del paese questo è stato l’organo della rappresentanza popolare. Oggi il Parlamento italiano non conta più nulla, schiacciato dal governo che ne domina i lavori, impedito al confronto da regolamenti fatti apposta per poter decidere senza discutere. Il Parlamento sembra aver perduto ogni autonomia di organo costituzionale, posto ai margini della nostra forma di governo, che pure si vuole ancora qualificare come “parlamentare”. Questa “riduzione al nulla” del Parlamento è il più grave dei peccati e la più imperdonabile delle leggerezze perché - come scriveva Kelsen - “alla sorte del parlamentarismo è legata la sorte della stessa democrazia”.

In verità, il Parlamento oggi non è stato solo abbandonato dalla classe politica, che discute altrove, ma anche dal popolo che si indigna, ma non va più a votare, che non si riconosce più nelle istituzioni democratiche. Ed è questo il lato più preoccupante perché non c’è democrazia senza consenso. Invero, non c’è neppure un governo democratico senza consenso. Eppure le ultime leggi elettorali sembrano essere state pensate proprio per governare senza popolo, con l’unico scopo di avere un governo la sera stessa delle elezioni, anche se queste fossero andate deserte e comunque a prescindere dalla rappresentanza effettiva, dal peso reale delle forze in campo.

Oggi abbiamo l’occasione di rimettere al centro della nostra riflessione la questione della rappresentanza reale, cercando di ridurre il terribile gap tra rappresentanti e rappresentati; provando a recuperare un po’ di popolo alle ragioni della democrazia e del parlamentarismo.

Per far questo è necessario sfatare un po’ di luoghi comuni. Mai stati veri, sebbene ostinatamente ripetuti. Non è vero, ad esempio, che si vota per “scegliere” il governo: si votano i membri dell’organo legislativo, i rappresentanti della nazione, che poi svolgeranno le proprie funzioni senza vincolo di mandato. La democrazia parlamentare è cosa ben diversa dalla democrazia del capo. Poi, dei parlamentari autorevoli, perché realmente rappresentativi della nazione, potranno assicurare un sostegno duraturo e responsabile ai governi, i quali - dopo le elezioni, in base all’esito di esse, e dopo la nomina effettuata dal presidente della Repubblica - si presenteranno di fronte ad essi per esporre un programma di governo. Sono dunque i parlamentari a dover conferire - con mozione motivata - la fiducia al governo e non viceversa. Dunque il parlamento viene prima del governo.

Un Parlamento davvero rappresentativo non può essere il frutto esclusivo di torsioni maggioritarie, premi, sbarramenti e altre diavolerie immaginate solo per giungere ad un esito voluto. La richiesta di una legge elettorale di tipo proporzionale vuole preservare l’essenza e il valore del parlamento di una democrazia realmente pluralista.

il manifesto,

L’illegittimità è un vizio congenito. Estirparlo, dissolverlo, si dimostra impossibile. E impossibile appare anche limitarne gli effetti. La lettura del Rosatellum-bis lo conferma. La composizione attuale del parlamento, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 1 del 2014 e non sostituita, col dovuto scioglimento, da eletti col sistema elettorale risultante dalla stessa pronunzia della Corte, non sa infatti produrre che atti o proposte di atti illegittimi, appena attingano alla rilevanza costituzionale. Come dimostra la deformazione della Costituzione respinta dal corpo elettorale il 4 dicembre e l’Italicum, sanzionato dalla Corte costituzionale. Due constatazioni, queste, il cui significato e il cui valore sono del tutto assenti dal dibattito in corso alla Camera sulla legge elettorale che è interessato a tutt’altro che alla ricerca di un sistema rigorosamente coerente con la Costituzione.

Se lo fosse, infatti, il Rosatellum-bis non sarebbe stato presentato. Non lo sarebbe stato per l’eclatante, immediata, grossolana, irrimediabile violazione del principio fondante e qualificante il tipo di manifestazione indefettibile della volontà popolare, il voto. Voto che il Rosatellum schiaccia e distorce. Lo schiaccia amputandone la gamma delle potenzialità, quelle di scegliere il candidato o i candidati alla propria rappresentanza. Perché scelta che risulterà già operata nella lista da chi ha presentato la lista.

Chiarisco. L’articolo 48 della Costituzione fissa i caratteri del voto stabilendo che deve essere «personale ed eguale, libero e segreto». Lo personalizza quindi sia nell’elettore all’atto dell’esercizio del suo diritto di voto sia nel candidato per cui l’elettore vota, votandolo per chi è, oltre che per con chi si candida. Non lo personalizza certo in chi ha presentato o ha dettato la lista e nell’ordine con cui ha collocato i candidati della lista. Definendolo uguale, gli attribuisce la stessa efficacia di ognuno dei voti espressi nell’elezione che si svolge. Lo equipara quindi anche al voto di chi ha composto la lista. Qualificandolo come libero, ha voluto sottrarlo ad ogni coazione, compresa quella dell’ordine di lista. Stabilendone la segretezza ha voluto assicurare la massima garanzia ai caratteri che lo identificano.
Non poteva essere più rigorosa la configurazione del diritto di voto nella Costituzione. È la verità della democrazia che il voto deve rivelare, la credibilità di quel principio e di quella pratica che si denomina sovranità popolare. Il che significa che ogni compressione, ogni restrizione, ogni deviazione del diritto di voto coinvolge la forma di stato, incide sulla qualità della democrazia, incrina la Repubblica.

Il Rosatellum lo fa. E con conseguenze devastanti del sistema politico, quella di trasformare la figura di membro del parlamento, coinvolgendo immediatamente la stessa configurazione dell’istituzione di cui farà parte, e così il carattere e l’essenza della Repubblica parlamentare. Devastante perché preclude una credibile rappresentanza della base popolare della Repubblica che solo la proporzionale potrebbe assicurare all’attuale sistema politico italiano. Il Rosatellum è invece esattamente funzionale all’investitura dei «capi delle forze politiche che si candidano a governare», l’eversiva formula contenuta nel testo unico delle norme sulle elezioni al parlamento come modificato dal Porcellum. Formula che elude, esclude la funzione rappresentativa dell’elezione in parlamento per sostituirla con l’investitura di un «capo» di «forza politica» (si badi) non forza parlamentare. Formula che avrebbe imposto il rinvio di quella legge al parlamento per «manifesta incostituzionalità», rinvio sciaguratamente omesso dal presidente della Repubblica Ciampi.

Invece di sanare l’incostituzionalità manifesta, il Rosatellum la aggrava. Si guarda bene dal sopprimere l’istituzione dei «capi», prevede i collegi uninominali, li collega alle liste, e le blocca. Chi è eletto in parlamento da lista bloccata, come già l’eletto nel collegio uninominale, dovrà la sua elezione a chi ha compilato la lista collocandolo in modo da assicurargli il seggio che rientra tra quelli che la lista prevedibilmente otterrà. Rappresenterà così chi lo ha collocato nel posto corrispondente a quello che sarà prevedibilmente acquisito alla lista, in parlamento rappresenterà quindi il «capo» della forza politica. Non gli elettori.
Torna per altra via a riproporsi il progetto dell’uomo solo al comando, quello del capo della forza politica che prevarrà nelle elezioni. Lo avevamo sconfitto il 4 dicembre scorso. Far rispettare quella decisione del corpo elettorale è quindi obbligo costituzionale.

il manifesto,
È sul piatto il Rosatellum 2.0, il nuovo disegno di legge elettorale per Camera e Senato e per l’ennesima volta ci troviamo a discutere degli stessi problemi, 2/3 dei parlamentari nominati, pluricandidature, listini bloccati, escamotage e trucchetti disparati, che solo i più consumati esperti in materia elettorale sono in grado di stanare.

Sembrava potessero bastare i ripetuti appelli del Presidente Mattarella, che parla poco, e proprio per questo andrebbe preso molto seriamente quando lo fa. Si poteva ritenere che fossero sufficienti ben due pronunce della Corte costituzionale che, superando ostacoli di carattere processuale non indifferenti, aveva pronunciato severe censure di sistemi elettorali analogamente caratterizzati dall’intento di frodare l’elettore.

Avrebbe potuto forse dare qualche ulteriore indizio la sonora sconfitta del referendum del 4 dicembre scorso, con cui 19 milioni e mezzo di elettori hanno inteso respingere un progetto di riforma costituzionale, tanto poco chiaro nella sua formulazione e nel suo linguaggio, quanto era macroscopicamente palese la direzione nella quale spingeva le istituzioni. Nulla di tutto ciò è valso ad ottenere l’ascolto e la resipiscenza delle forze politiche che dal 2013 hanno sostenuto i governi che si sono susseguiti, nel mentre cresceva sempre più lo iato tra cittadini e politica.

Quasi qualsiasi sistema elettorale che riportasse ad avere un significato l’esercizio del diritto di voto, senza trucchi e senza inganni, sarebbe bastato.

Certo, in tanti avremmo preferito un sistema proporzionale, che rilanciasse il valore della rappresentanza politica. Ciò anche alla luce del mancato inveramento della «promessa del maggioritario» di produrre un efficiente bipolarismo, dopo tre legislature di Mattarellum che hanno lasciato sul campo le macerie di un sistema politico sempre più frammentato. Ma comunque sarebbe stato già qualcosa avere un sistema elettorale volto a garantire, anzi a ricreare, la defunta rappresentanza politica, riaffermando il principio per cui ci si candida non «per vincere», ma per rappresentare qualcuno, per contribuire a costruire in parlamento uno specchio della società, un luogo in cui si possa costruire un’idea di futuro per questo disastrato paese.

Un sistema elettorale non costruito su misura contro qualcuno, senza i consueti tranelli, e teso a recuperare i caratteri del voto previsti dall’art. 48 Cost.: libero, uguale e segreto (si perché ormai nessuna delle tre caratteristiche si può più ritenere pienamente garantita).

E invece anche stavolta non andrà così. Non so se sia un cieco istinto autodistruttivo, o un’arrogante protervia quella con cui si insiste nel voler trasformare il sistema di traduzione dei voti in seggi in un complicato escamotage per perpetuare il totale sganciamento della classe politica dalla società, per proseguire nella delegittimazione dell’istituzione parlamentare e dei partiti.

Chi insiste nel produrre sistemi elettorali in cui le segreterie di partito nominano larga parte dei parlamentari ha evidentemente perso totalmente il contatto con la realtà del paese, e solo per questo non teme la ormai dilagante rabbia verso la politica e le istituzioni.

Basterebbe salire su un autobus di qualunque città, o passare mezz’ora in una Asl o in una sala d’aspetto di uno dei tanti malandati ospedali italiani, per sentire la rabbia e il disagio che dilagano ovunque.

Non ci sono più argini che tengano questa ira. Si pensa di esorcizzarla identificandola sotto il nome di populismo ed antipolitica, ma il populismo è poi l’unico pane che si continua ad offrire al corpo elettorale, giacché non lo si rappresenta, ma lo si imbonisce e blandisce con oboli, narrazioni e barzellette, riuscendo solo ad esacerbarne il rancore.

Anche di questo discuteremo il 2 ottobre con Azzariti, Carlassare, Pace, Villone, Zagrebelsky nel convegno sulla legge elettorale promosso dal Coordinamento per la Democrazia costituzionale.

L'autore è Professore ordinario di Diritto costituzionale (Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza)

Il governo iracheno non dialogherà con il governo regionale curdo (Krg) sui risultati del referendum “incostituzionale” di ieri tenutosi nel nord dell’Iraq. A dirlo è stato ieri il premier iracheno Haider al-Abadi durante un discorso trasmesso dalla tv di stato. “Molti dei problemi della regione curda sono interni, non con Baghdad, e aumenteranno con le richieste di separazione – ha spiegato il primo ministro – I problemi economici e finanziari di cui stanno soffrendo sono il risultato della corruzione e della cattiva amministrazione”.

Al-Abadi si mostra sicuro perché sa di avere molti alleati. Innanzitutto ha il pieno appoggio dei parlamentari iracheni che ieri hanno votato la sua richiesta di dispiegare le truppe “in tutte le zone controllate dopo il 2003 dalla regione autonoma del Kurdistan”. La decisione veniva presa nelle stesse ore in cui alcune unità dell’esercito nazionale partecipavano a esercitazioni congiunte con i turchi al confine con il territorio kurdo-iracheno.

Donne di Suleymaniya testimoniano di aver votato (Reuter)

L’addestramento militare fa il paio con altre decisioni intimidatorie prese da Baghdad: sospensione degli stipendi ai dipendenti pubblici che prendono parte al voto, stop alle compagnie pubbliche che operano nelle aree contese e ordine di cedere al governo centrale il controllo dei valichi di frontiera e dell’aeroporto di Erbil. Scelte che mostrano come le autorità irachene stiano impiegando tutte le misure a loro disposizione per far desistere i “ribelli” curdi.

Oltre al sostegno interno, il premier può poi vantare quello ben più importante in campo internazionale (Usa, Onu e Europa) e regionale (Iran e Turchia). Ieri Teheran ha lanciato un’esercitazione militare al confine, chiuso lo spazio aereo ai voli da Erbil e Suleymaniya e sospeso quelli diretti in territorio kurdo. Un tale embargo potrebbe avere – se reiterato – effetti gravi su una regione di cui l’Iran è primo partner commerciale con 5 miliardi di dollari di scambi annuali.

Durissima la reazione turca: ieri il presidente Erdogan ha minacciato l’invasione del nord dell’Iraq (dove i suoi soldati in realtà già ci sono a sostegno dei peshmerga intorno Mosul) e la sospensione degli affari commerciali in campo energetico tra Ankara e Erbil, in particolare la chiusura dell’oleodotto che collega Kirkuk alla turca Ceyhan.

Misure dure, ma che al momento non fermano il desiderio curdo all’indipendenza. Masoud Barzani, il leader del Krg, ha ribadito in più circostanze che il referendum di ieri non è vincolante e che non porterà all’indipendenza immediata, ma a uno-due anni di negoziati con Baghdad. In ogni caso, ha però precisato, “non torneremo ad una partnership fallimentare con uno Stato teocratico e settario”.

Nella sua ostinazione ad andare avanti nonostante le pressioni politiche, Barzani non è affatto solo. Secondo la Tv Rudaw di stanza a Erbil, ieri l’affluenza alle urne è stata del 78% (poco più di 5 milioni gli aventi diritto al voto) con picchi del 92% nella yazidi Sinjar, l’84% a Erbil e l’80% nella multietnica Kirkuk. Stando ai risultati provvisori diffusi dalla stessa emittente televisiva, il “Sì” è al 93%. In pratica, come era prevedibile, un vero e proprio plebiscito.

Per i curdi del Krg ieri è stata una giornata di festa: con fuochi d’artificio, musica ad alto volume, balli e canti centinaia di persone sventolanti le bandiere curde hanno festeggiato in serata la certa vittoria del Sì.

Bisogna capire solo quanto questi festeggiamenti potranno davvero durare. Nena News

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