In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.
Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia. Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.
Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.
Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.
Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.
Greche e greci,
a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.
La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale. E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia. E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.
In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras
Corriere della sera, 8 Giugno, 2015 (m.p.r.)
L a crisi delle Regioni è profonda, e per certi versi irreversibile. A certificarlo è il verdetto consegnatoci dalle ultime elezioni: il vuoto assoluto di programmi, il degrado della classe politica, la percezione degli Enti regionali come di istituzioni ipertrofiche, fonti di sprechi e inefficienze, hanno spinto molti elettori a disertare l’appuntamento con le urne. Di fronte a questa situazione, il silenzio dei partiti è assordante. E la riforma del titolo V della Costituzione rischia di essere insufficiente. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a se stessi e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Occorre il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. E occorre porsi domande scomode: hanno senso 20 sistemi sanitari diversi, sedi faraoniche, una quantità enorme di dipendenti? Hanno senso gli statuti speciali? E hanno senso Regioni con un numero di abitanti paragonabili al quartiere di una grande città?
L a crisi delle Regioni è profonda e per certi versi irreversibile. Il verdetto che ci hanno consegnato le ultime elezioni regionali, con il loro strascico di polemiche, veleni e sospetti, è senza appello. La campagna elettorale ha offerto spettacoli indecenti: e non parliamo soltanto della vicenda dei cosiddetti «impresentabili», ma anche di certi spregiudicati traslochi da uno schieramento politico all’altro. Abbiamo assistito a fatti come quelli di un governatore di sinistra che si è candidato con la destra pur di rimanere in partita, o di ex neofascisti accolti a braccia aperte dalla sinistra. Di tutto si è parlato tranne che di contenuti e programmi. Per un semplice motivo: non c’erano.
Contro questa pessima riforma della "buona scuola", perché è nella «struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano». La Repubblica, 19 maggio 2015 (m.p.g.)
La scuola è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.
La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer.
Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca — privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”.
Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese. E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.
Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi. Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside.
Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione. È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.
Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?
Il manifesto, 17 maggio 2015
Tra poco — probabilmente tra un annetto — questo programma comincerà a realizzarsi organicamente. Ma non dobbiamo aspettare nemmeno pochi mesi per assaporarne i primi frutti avvelenati. Quanto sta accadendo con la «riforma» della scuola è un’anticipazione molto istruttiva di ciò che ci attende. Un indizio e una prova tecnica, somministrata per testare il paese e per assuefarlo al nuovo che avanza.
Raramente, forse mai prima d’ora, si era assistito alla scena di un ramo del parlamento italiano che vota in tranquillità a favore di un provvedimento di indiscutibile rilevanza (che modifica in profondità strutture e modo di operare di un settore vitale della società, e le condizioni materiali di lavoro e di vita di milioni di cittadini) mentre l’intero comparto investito da quel provvedimento esprime la propria assoluta contrarietà. Lo sciopero del 5 maggio e la manifestazione contro le prove Invalsi possono essere giudicati come si vuole, ma su una cosa non sarebbe serio eccepire. Entrambi attestano l’unanime avversione del complesso mondo della scuola — insegnanti, studenti, personale tecnico e amministrativo — a un modello che non per caso ruota intorno a due cardini della costituzione neoliberale: la sedicente meritocrazia (foglia di fico propagandistica a copertura del ritorno a logiche censitarie, autoritarie e oligarchiche) e la privatizzazione della sfera pubblica.
C’è tutto sommato di che stupirsi per la prontezza e precisione della diagnosi che insegnanti e studenti hanno fatto della «buona scuola» renziana. Evidentemente l’ideologia mercatista non ha ancora totalmente invaso l’anima del paese. O forse la realtà della scuola italiana è talmente evidente nelle sue contraddizioni e miserie da non permettere quelle operazioni di cosmesi — di camouflage, direbbe qualcuno — che funzionano altrove. Studenti, operatori della scuola e tanti genitori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde dietro la vergognosa retorica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della «selezione» e della logica premiale del «merito». E dietro il ricatto della stabilizzazione della metà dei precari in cambio dell’accettazione dell’intera «riforma».
In un paese che figura stabilmente all’ultimo posto della classifica Ocse per la percentuale di Pil investita nella formazione dei giovani le chiacchiere restano a zero. A chiarire come stanno le cose provvedono gli edifici fatiscenti e i tanti soldi come sempre regalati alle private. Le collette per comprare la carta igienica e il toner delle stampanti. E i bassi salari degli insegnanti di ogni ordine e grado, responsabili anche del poco rispetto che taluni genitori mostrano nei riguardi di chi si impegna per istruire i loro venerati rampolli.
Sta di fatto che contro la «riforma» renziana la scuola ha messo in campo una protesta pressoché universale, benché anni di divisioni tra le organizzazioni sindacali e un’eccessiva timidezza nelle iniziative di lotta rischino di vanificare le mobilitazioni. Non solo la scuola si è fermata in occasione delle agitazioni, ma è in fermento da settimane e manifesta senza reticenze un consapevole e argomentato dissenso. Peccato che tutto questo al parlamento non interessi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli osservatori è uno sconcertante parallelismo, quasi che «paese legale» e «paese reale» non fossero distinti ma dialetticamente connessi, bensì proprio dislocati su pianeti diversi. Per cui quanto accade nell’uno - le agitazioni, le preoccupazioni, il disagio, la protesta - non turba l’impermeabile autoreferenzialità dell’altro, ormai (di già) assorbito nella recezione e promozione della volontà del reuccio che si balocca alla lavagna col suo approssimativo idioma burocratico.
Certo, non è la prima volta che si assiste a un fenomeno del genere. Qualcosa di simile è già accaduto col Jobs act, varato mentre le fabbriche erano in subbuglio per la cancellazione dell’articolo 18. Ma si sa che le questioni di lavoro e in particolare di lavoro operaio dividono il paese (e gli stessi sindacati) e offrono ai governi ampi varchi per operare forzature. Il caso della scuola è diverso per la sua connotazione essenzialmente interclassista e per questa ragione prefigura plasticamente il quadro al quale dovremo abituarci nel prossimo futuro. Protesti pure il paese, scendano pure in piazza i cittadini, si mobiliti quel che resta dell’opinione pubblica. La cittadella della politica non si degna nemmeno di verificare la pertinenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé, in una miserabile riedizione dell’autocrazia di antico regime. Può darsi che questa non sia che un’illusione e che un programma incentrato sull’autonomia del politico si riveli, oltre che indecente, impraticabile in virtù della reattività del corpo sociale. Ma di certo risulta evidente a quale poverissima cosa si saranno ridotti, in tale scenario, parlamentari e partiti. Mentre la politica avrà negato se stessa con l’essersi anche formalmente ridotta a mera funzione di dominio di una casta sulla cittadinanza costretta a obbedire.
L’internazionale, 11 maggio 2015
Il disegno di legge Giannini e altri, “Riforma del sistema nazionale di istruzione”, e i documenti governativi che lo hanno preceduto e lo accompagnano sono stati colpiti da molte critiche puntuali, tante da rendere difficile il compito di riassumerle. Lo hanno fatto su Internazionale due recenti messe a punto di Christian Raimo il 5 maggio e Mauro Piras il 7 maggio e mi rimetto a queste.
Tutti i critici, direi, si sono concentrati nel contrastare, smentire, sforzarsi di correggere singoli punti del disegno di legge fino a chiederne con ragione il ritiro, senza fermarsi a segnalare quel che nei testi non c’è. Però, come imparano gli studenti di prima annualità di buoni corsi di linguistica generale o filosofia del linguaggio o semiotica e comunicazione, un testo ci parla di un argomento non solo con quel che ci dice in esplicito, ma anche con quel che ne tace.
Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola.
1. La buona scuola che c'è
Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti.
All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti confessi (per l’Istat si era ed è analfabeti se tali ci si dichiara). Nelle classi giovani in età scolastica, per ragazzine e ragazzini, il titolo di licenza elementare (non il diploma, non la laurea) era riservato a un’élite, un terzo. Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei.
Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, Esperienze pastorali, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello, nella convinzione che lontano dalla città avrebbe fatto meno danni. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, direbbe Ludovico Ariosto. Il ritardatario aggregato alla pattuglia, il rompiscatole mandato al confino si chiamava Lorenzo Milani.
Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta. Anche gli odiatori del populismo devono ammetterlo. La reazione cominciò dagli strati popolari, dalle campagne più povere del latifondo. Le famiglie capirono, sentirono, che dovevano mandare figlie e figli a scuola, sola alternativa al dispatrio.
Le statistiche ancora raccontano con i loro numeri, per chi si dà la briga di andarle a consultare, questa storia. Ragazze e ragazzi tra tardi anni quaranta e metà cinquanta affollarono le elementari e cominciarono a conquistare in grande maggioranza la licenza elementare prima preclusa invece alla grande maggioranza dei genitori, a non parlare dei nonni.
Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti, ma ancora lontane dal 100 per cento.
Il fatto è che una gran parte degli insegnanti resisteva e continuò a resistere. Erano convinti che il loro compito fosse censire, fermare e mandar fuori dai piedi i somari, gli svogliati, i testoni. Non erano stati attrezzati a capire che il loro compito era esattamente il contrario: fare in modo che i somari imparassero a non ragliare, gli svogliati ad avere voglia di studiare, i testoni a usare la testa per capire e orientarsi nella società. Facile a dirsi, non a farsi. Nel corso degli anni, gli e le insegnanti non solo delle elementari, ma anche delle medie inferiori hanno imparato a farlo. Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza.
Interessante: il massimo di inclusività va a braccetto con la qualità più elevata dei risultati. Così è nel resto del mondo, così è stato ed è per la nostra scuola elementare. Comunque, in complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee.
Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere. Questa scuola è la sola istituzione che ha aiutato la società italiana a evadere dalla prigione dell’analfabetismo primario, totale, e a conquistare almeno l’alfabetizzazione strumentale per il 95 per cento e quella pienamente funzionale (vedremo poi) per il 30 per cento. Mai erano stati raggiunti livelli così alti in tre mezzi secoli di storia patria.
“Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi. E sapeva benissimo quante cose non funzionavano nella nostra scuola, come ha ricordato giorni fa Claudio Giunta.
Ma, interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.
2. La Costituzione
Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli.
1.La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via.
2.La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo).
3.Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare sempre libera degg’io: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo).
In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto).
Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…)
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo).
La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere.
La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. È un’omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani?
3. Il neoanafletismo
Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi. Quasi due anni fa Internazionale ha pubblicato l’essenziale di questi dati. In paesi con scuole eccellenti, come Giappone, Finlandia, Olanda la percentuale di persone adulte al di sotto dei livelli minimi necessari a capire un testo e a usare basilari concetti matematici e scientifici tocca quasi il 40 per cento. Tocca il 50 per cento in Corea del Sud, altro paese di buona scuola, buona davvero, supera la metà nel Regno Unito e Germania, arriva a toccare e superare il 60 per cento in Francia e Stati Uniti, raggiunge infine il 70 per cento in Spagna e Italia.
Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono, Per l’Italia va osservato che, se si tengono presenti anche i dati sulla capacità di problem solving (uso delle conoscenze per risolvere problemi non routinari nelle singole discipline), la percentuale delle persone sotto i livelli minimi di competenza sale all’80 per cento.
Questa massa cospicua di neoanalfabeti interessa due volte la scuola ordinaria. Interessa una prima volta perché in qualche misura la scuola, specie quella media superiore, è complice della dealfabetizzazione adulta, nel senso che non riesce a fare abbastanza per garantire che i livelli buoni cui porta ragazze e ragazzi si fissino e durino nel tempo dell’età adulta e anziana. Cosa relativamente di poco peso di fronte al danno che la scuola riceve da questa massa.
Sappiamo bene da studi di ogni sorta e paese che il livello culturale delle famiglie incide in modo determinante sull’andamento degli apprendimenti scolastici dei ragazzi. Otto su dieci dei ragazzi e delle ragazze che la scuola si trova di fronte vengono da famiglie in cui non entrano libri e giornali e non si praticano collegamenti a banda larga con internet e Google.
Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. Una commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Gli estensori dei testi renziani devono averlo considerato materiale da rottamare e fare stare sereno.
Male assai: proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è life long learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: la sconoscono come si dice in Sicilia. Secondo norme già vigenti e secondo le analisi della commissione di cui s’è accennato sono le scuole il luogo deputato a far da centro a un sistema di life long learning e anche di continuum training, formazione continua. Esse possono e devono diventare “fabbriche della cultura”. Su tutto ciò silenzio tombale di Renzi e di quelli che omericamente si possono dire “quelli a lui d’intorno”.
Matteo Renzi pareva partito con buone intenzioni. La prima era ottima: aveva fatto capire che di scuola , del complesso della scuola, si sarebbe occupato in prima persona, quale capo del governo. Sembrava che avesse capito che così in effetti richiede la intricata complessità economica, amministrativa, culturale e politica della realtà scolastica di un grande paese sviluppato. Così, di conseguenza, nei maggiori paesi del mondo le grandi svolte delle politiche scolastiche ed educative sono gestite direttamente dai capi di governo o di stato.
Così invece non è stato nella tradizione italiana, dove, a parte casi isolati come quello di Giovanni Giolitti e lampi di interesse di Romano Prodi ai tempi del Prodi uno, si è creduto che le politiche scolastiche potessero esser lasciate ai ministri dell’istruzione. Questi però non hanno competenze e poteri rispetto a troppe facce del problema, a cominciare dai riassetti del bilancio dello stato necessari se davvero si vuole intervenire sul complesso della realtà educativa. Sono riassetti che comportano decisioni che può e deve prendere solo chi guida l’intera compagine governativa, non un singolo ministro, a meno che non abbia una delega in bianco come (ma solo per due anni) fece Mussolini con Giovanni Gentile.
Una seconda buona intenzione manifestata all’inizio è stata insistere sulla natura solo parziale degli interventi che annunziava: non chiamatela riforma, ebbe a dire il presidente, sono solo singoli provvedimenti più immediatamente necessari, la riforma la faremo, ma verrà dopo. Invece e però da un certo punto in poi la buona intenzione è svanita e in comunicazioni governative, nei mezzi di informazione e infine nel testo consegnato al parlamento si è parlato di riforma, parola pesante che, a usarla correttamente, implica l’esistenza di un ripensamento adeguato e di una revisione radicale e complessiva di uno stato di cose.
Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.
La tecnica della scuola, il quotidiano della scuola online, 8 maggio 2015
Il Re che decide di annunciare riforme che impattano sull'impegno lavorativo dei docenti, i vassalli che cercano di far apparire il cambiamento delle regole come unica soluzione per uscire dalla situazione di stallo organizzativo in cui si trova la scuola, i valvassori di rango inferiore che dicono: "Io sto con il Re" e infine i valvassini che dicono: "Io sto con il valvassore".
Questo potere vorrebbe far sfumare le proteste della servitù della gleba, ovvero di quella docenza che non conta, ma deve solo ubbidire e possibilmente non fiatare, perché indebolire l'immagine del Re non fa bene a quell'Europa sempre prodiga nel chiedere sacrifici e austerità.
Ma nel Medioevo non esistevano i sindacati capaci di fare immediata opposizione costruttiva, come ad esempio la Gilda di Rino Di Meglio, e soprattutto non esisteva il web, luogo di vera condivisione di idee per una servitù della gleba 2.0, che con un solo clic può mettere in discussione qualsiasi struttura piramidale.
Il presidente della Repubblica non ha accompagnato la promulgazione con un breve messaggio, al modo in cui qualche volta aveva fatto Giorgio Napolitano, così smentendo quanti avevano previsto qualche parola dal Colle sul necessario collegamento dell’Italicum alla riforma costituzionale. La legge che il parlamento ha mandato al presidente si sarebbe prestata a qualche osservazione, visto che è previsto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costituzionale (con il voto dello stesso Mattarella) anche nella sentenza del 2014 che ha abbattuto il Porcellum aveva ricordato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elettorale applicabile. Eppure il parlamento scrivendone una nuova ha deciso di lasciarla tra parentesi. E non si è preoccupato nemmeno di fare gli interventi necessari a rendere applicabile da subito il Consultellum, cioè il sistema residuato dalla sentenza della Corte (e dalla Corte stessa previsti). La sospensione, infine, è addirittura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è destinato a restare incompleto fino a che non sarà abolito il senato elettivo. Su tutto questo Mattarella non ha ritenuto di precisare nulla.
Il presidente non ha avuto alcuna osservazione da fare neanche sulle più volte sollevate questioni di incostituzionalità della legge, ma in questo secondo caso si tratta di una scelta assai più prevedibile e comprensibile alla luce delle prerogative del capo dello stato. È invece proprio su questo, cioè sul non aver rifiutato del tutto la firma, chiedendo alle camere una nuova deliberazione, che il Movimento 5 Stelle ha preso immediatamente — e pesantemente — ad attaccare il presidente della Repubblica, al quale pure si era rivolto con grandi speranze nell’ultimo intervento alla camera prima del voto finale. Mentre dal predecessore di Mattarella, Giorgio Napolitano, è arrivato un prevedibile messaggio di consenso: «È un raggiungimento importante, era inevitabile approvare l’Italicum che del resto non è arrivato in un mese ma in oltre un anno».
Sono passati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elettorale è stato cristallizzato in senato, immediatamente prima dell’elezione di Mattarella. Nulla è cambiato da allora, il presidente lo conosce bene e dunque non ha senso giudicare «rapida» la sua firma, arrivata il giorno stesso in cui la legge è ufficialmente approdata sulla sua scrivania. Dieci anni fa Carlo Azeglio Ciampi lasciò trascorrere otto giorni prima di promulgare il Porcellum, ci pensò bene, ma la legge fu ugualmente giudicata incostituzionale dalla Consulta, molti anni più tardi.
In attesa dei giudici della Corte Costituzionale davanti ai quali sarà certamente portata (prima o poi) anche questa legge elettorale, si sono fatte sentire le agenzie internazionali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio termine rafforzerà il profilo di credito del paese riducendo i rischi politici che gravano sulle politiche economiche e di bilancio». Mentre secondo il Financial Times con la nuova legge elettorale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e contrappesi che ha regolarmente prodotto coalizioni di governo instabili» e si «accresce la forza dell’esecutivo». Forse persino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive
di Alfio Mastropaolo
L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni
Non tutta la popolazione si adegua. In realtà c’è una piccola parte che detta all’esecutivo le sue condizioni. Le detta, forte del fatto che è lei a sostenere i mostruosi costi delle campagne di persuasione elettorale. Con l’abolizione del finanziamento pubblico della politica li sosterrà ancor di più. E quindi detterà condizioni ancor più stringenti. Possiamo senza fatica fare ipotesi su quali politiche attuerà l’esecutivo. Di destra o di sinistra che sia, o che si dica, le differenze staranno nei particolari, non irrilevanti, ma sempre particolari. L’essenziale delle scelte politiche lo deciderà chi paga. E poiché, dato lo stato del nostro sistema imprenditoriale, a pagare saranno soprattutto imprese straniere, la pressione internazionale si accentuerà ulteriormente. Si adeguerà il grosso della popolazione, ma si adeguerà l’intero paese. Destinato a diventare sempre più marginale e sottomesso nella divisione del lavoro planetaria.
Abbiamo già avuto qualche avvisaglia del destino che ci aspetta. Ma finora servivano le perentorie imposizioni di Bruxelles e Francoforte. D’ora il poi basterà loro sollevare un sopracciglio. La cupidigia di servilismo è ipertrofica nelle classi dirigenti italiane. Ciò lascia pensare che riusciranno perfino a prevenirle. Resterà qualche piccolo ostacolo, come la Corte costituzionale. Ma non durerà troppo a lungo. I giudici passano, d’ora in poi li sceglierà l’esecutivo, in combutta con un’opposizione che sarà il suo doppio, e i giuristi pronti a mettersi a servizio sono una folla. Le sentenze capricciose e imbarazzanti come l’ultima sulle pensioni potremo scordarcele.
Sarebbe ingenuo attribuire la responsabilità — o il merito — di questa infausta normalizzazione a Renzi. Renzi e la sua leadership sono figlie delle circostanze, lui ha profittato delle circostanze favorevoli e ha operato coerentemente con la sua cultura, ma la normalizzazione arriva da lontano. È dai primi anni 80 che politici e intellettuali perseguono questo disegno con grande determinazione. Con le parole e coi fatti. Qualcuno si dichiara al momento insoddisfatto. In effetti c’è ragione per discutere sulla totale rimozione di ogni garanzia che si verificherà una volta conclusa la parabola delle riforme renziane. Ma si tratta di dettagli. La smania di decisionismo sovrasta questi dettagli ed è molto antica.
Qualcuno di coloro che smaniano da quasi mezzo secolo dirà che la democrazia dei partiti era alla paralisi. Ma a questo argomento si può replicare che quel modello democratico si poteva adeguarlo senza stravolgerlo. E che le dosi massicce di decisionismo già iniettate nel nostro regime democratico hanno prodotto solo effetti disastrosi. Così come non brillanti sono i risultati conseguiti dalle democrazie normali che stanno intorno a noi. Così poco brillanti da metter in dubbio l’idea stessa di normalizzazione. La quale sicuramente conviene ad alcuni — i potentati economico-finanziari — ma non alla maggioranza della popolazione.
Il significato della parola democrazia è incerto. O controverso. Dacché i regimi democratici hanno sostituito quelli liberali è cominciata una guerra per circoscriverlo è che ha avuto successo. Democrazia, si dice, è il suffragio universale, le libere elezioni, la concorrenza tra i partiti. Il resto avanza. Nessun dubbio che queste cose ci stiano. Ma la democrazia e il suffragio universale li si era voluti proprio per cancellare il privilegio delle oligarchie liberali e per finalizzare in maniera più egualitaria l’azione di governo. Ebbene, le democrazie sono state svuotate e siamo tornati indietro di oltre un secolo. In nome della democrazia normale.
Che farà il grosso della popolazione, che è a ben vedere grossissimo, come la crisi ha dimostrato? Un esito certo è la crescita dell’astensione. La frustrazione aumenterà la sfiducia. Gli imbecilli diranno che capita ovunque ed è quindi normale. Cresceranno anche i sentimenti di rivalsa, la cui manifestazione più evidente è il razzismo. Con questo sistema elettorale - la Francia insegna - il rischio che un partito razzista, quantunque minoritario, vinca le elezioni, è piuttosto alto.
Vedremo. C’è però una terza possibilità. Che il grosso della popolazione si ribelli. Che intenda che la democrazia normale serve a fregare ulteriormente i giovani, gli operai, gli impiegati, gli insegnati, se l’è già presa coi proprietari di case e presto se la prenderà con gli avvocati, i professionisti e quant’altri. Il capitalismo finanziario se ne infischia di tutti. Punta a pellegrinare informaticamente per il pianeta, per speculare dove meglio conviene. Bassi consumi per i più, cibo di qualità scadente e consumi di lusso per le vedette dello spettacolo.
Di contro, se questa porzione larghissima di società non cadesse nella trappola della guerra tra poveri e si mettesse insieme, sarebbe un modo di difendersi. Bisogna ridursi come la Grecia per capirlo? È vero che la Grecia non riesce a sottrarsi ai suoi spietati aguzzini. Ma è vero anche che se la Grecia non fosse sola, se la lotta contro la democrazia normale e il capitalismo di rapina si allargasse, la partita si riaprirebbe
Corriere della Sera, 30 aprile 2015
I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.
Il manifesto, 31 marzo 2015
Il manifesto, 26 marzo 2015
Colin Crouch appartiene alla esigua, ma autorevole schiera di economisti, filosofi, sociologi «riformisti» che, rimanendo fedeli alle loro convinzioni, sono ormai indicati, dai media mainstream, come teorici radicali. Ne fanno parte studiosi come Richard Sennett, Zygmunt Bauman, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino. Negli anni tutti loro si sono applicati ad indagare le trasformazioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle identità collettive che hanno caratterizzato il Novecento. Si sono applicati al loro specifico campo disciplinare, registrando le continuità e le discontinuità nello sviluppo capitalistico. Non hanno mai nascosto la convinzione che l’economia di mercato potesse continuare a prosperare solo in presenza di robusti, seppur flessibili diritti sociali di cittadinanza che garantissero una «ragionevole» redistribuzione della ricchezza.
Crouch è inoltre lo studioso che ha, come gli altri, individuato nel welfare state il punto più avanzato raggiunto durante «il secolo socialdemocratico», per usare un’espressione coniata da Ralph Darendhorf, altra figura chiave di questa cultura politica democratica europea. Non un «radicale» dunque, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Postdemocrazia, entrambi pubblicati da Laterza - sono stati considerati una corrosiva critica del neoliberismo. Colin Crouch sarà ospite della «Biennale Democrazia».
Sono anni che la discussione sulla democrazia occupa un posto rilevante nella riflessione di filosofi, economisti, sociologi. Lei ha scritto diffusamente di regimi politici postdemocratici, caratterizzati da un paradosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e politici acquisita dalla modernità, ma i centri decisionali sono caratterizzati da logiche che difficilmente possono essere sottoposte al controllo dei cittadini. Stiamo cioè assistendo a una cambiamento della forma-stato. Può spiegare cosa intende per postdemocrazia?
Parallelamente alla discussione della democrazia, c’è quella sul «deperimento» dello stato-nazione, vista la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, come l’Unione europea, il Fondo Monetario Internazionale, il Wto o la Banca mondiale. Eppure assistiamo a una superfetazione dell’intervento statale in termini di norme amministrative che regolano la vita dei singoli. In Inghilterra, ciò è stato qualificato come «politica della vita». Da una parte dunque, perdita della sovranità, dall’altra aumento delle sfere di intervento dello Stato. Come vede lei questa situazione?
Il "deperimento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono complesse. Alla luce della globalizzazione, un fenomeno che ritengo positivo, abbiamo bisogno di trascendere lo stato-nazione, perché è un modo di organizzare e gestire la vita pubblica inadeguato rispetto i compiti politici che abbiamo di fronte. Abbiamo bisogno di queste istituzioni sovranazionali. Più che abolirle dobbiamo però lavorare a una loro democratizzazione. Questo vale anche per l’Unione Europea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direculer pour mieux sauter, come dicono i francesi, cioè di arretrare un po’ per meglio compiere un balzo in avanti. È infine vero che la politica nazionale ormai si interessa, forse troppo, delle piccole cose, in una miscela di superfetazione degli interventi sulla vita dei singoli e incapacità di fronteggiare i problemi derivanti dalla globalizzazione».
L’Europa politica e sociale è l’oggetto del desiderio del riformismo socialdemocratico europeo. Tuttavia, l’Europa sembra essere un laboratorio sociale e politico di un neoliberismo in crisi, certo, ma ancora abbastanza forte da definire draconiane politiche di austerità. Cosa nel pensa della situazione europea?
C’è stata sempre una tensione nella politica europea tra il neoliberalismo e una politica sociale, con una egemonia del primo aspetto. D’altronde non possiamo dimenticare che il progetto iniziale era di fare un mercato comune. Ma la «mercatizzazione», benché porta alcuni vantaggi, produce danni sociali. Da questo punto di vista la definizione di politiche sociali è indispensabile per riparare i «danni» prodotti dalle politiche neoliberali. Per sintetizzare: più si diffonde la «mercatizzazione», più deve crescere l’impegno per sviluppare interventi politico-sociali per stabilirne limiti e argini. Questo è accaduto, seppur parzialmente, durante i lavori delle commissioni europee presiedute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilanciamento» che può essere esercito da parte della politica. È questo un aspetto del trionfo della postdemocrazia. Affinché si sviluppi un’Europa sociale servono proteste e mobilitazioni dei cittadini. Solo in questo modo i governi, le banche e le altre istituzioni (sia nazionali, che europee che internazionali) potranno cambiare la loro agenda».
In tutto il mondo sono cresciute le diseguaglianze sociali. Anche questo rimette in discussione la democrazia. È come se nei gloriosi, meglio sarebbe dire infausti trenta anni di neoliberismo ci sia stato uno spostamento rilevante di potere nella società. Poche centinaia di migliaia di persone hanno redditi e poteri di gran lunga superiore a quelli della maggioranza della popolazione. Lei ha scritto un saggio su questo elemento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di questa tendenza alla crescita delle crescita delle disuguaglianze sociali?
Questo è il tema al centro delle analisi non solo di studiosi autorevoli come Joseph Stiglitz e Thomas Piketty, ma anche di organismi come l’Ocse e il Fondo Monetario Internazionale. Dalle loro analisi emerge un elemento comune: il negativo impatto economico dovuto alla crescita delle disuguaglianze. Concordo però con Stiglitz quando afferma che ci sono anche aspetti politici scaturiti dalle disuguaglianze sociali. Il principale è che la ricchezza economica può trasformarsi in potere politico; il quale, a sua volta, può essere usato per acquisire ulteriori vantaggi economici. Ma sta a noi interrompere questa spirale alimentata dalla «crescita incardinata sulla crescita delle disuguaglianze sociali».
Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Alessandro Pizzorno, è pervaso dalla convinzione che il conflitto di classe avesse portato a compimento la definizione dei diritti sociali di cittadinanza. Uscì quando era cominciato a spirare il vento neoliberista. Da allora i diritti sociali di cittadinanza sono stato il bersaglio preferito di molte politiche in Europa, mentre la precarietà ha fatto crescere a dismisura l’esercito dei «working poor», che hanno bassi salari e pochissimi diritti. Come vede la situazione dei rapporti di lavoro nel capitalismo?
Il declino dei sindacati - causato principalmente dal declino della gran industria e la crescita dei settori postindustriali non organizzati - ha reso più facile un attacco contro i diritti sociali di cittadinanza. Ora però è importante capire i cambiamenti nel lavoro. Le conquiste operaie e sindacali degli anni Settanta hanno come sfondo un’economia industriale, che non è ovviamente scomparsa, ma è tuttavia segnata da una sistematica condizione «congiunturale» dovuta ai continui e repentini mutamenti nell’economia. Prendiamo, ad esempio, l’articolo 18 del vostro Statuto dei lavoratori. È una norma pensata e valida in un preciso contesto storico-produttivo tesa a garantire alcuni diritti dei lavoratori, come ad esempio il licenziamento ingiustificato. L’esito delle profonde e drammatiche trasformazioni economiche è la «sparizione» di interi settori produttivi in alcuni paesi europei. Da qui la necessità di elaborare nuove tipologie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavoratori sono costretti a vivere periodi più o meno lunghi di disoccupazione, hanno bisogno di un compenso generoso per continuare a vivere. Allo stesso tempo devono accedere a corsi di formazione professionale finalizzati a trovare un nuovo lavoro. Politiche di questo tipo sono particolarmente deboli in Italia. I sindacati, più che attestarsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovrebbero attivarsi anche per lo sviluppo di politiche del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limitarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe sviluppare nuovi diritti adeguati per l’economia attuale».
Nel suo ultimo libro tradotto in Italia - Quanto capitalismo può sopportare la società - lei scrive diffusamente sulla «socialdemocrazia assertiva». Cosa intende con questa espressione?
In ogni paese europeo, i socialdemocratici sono attestati su una posizione difensiva. Credono che il trionfo del mercato e del neoliberalismo li abbiano ridotti a dinosauri in via di estinzione o a pezzi da museo. Ritengo che per i socialdemocratici si aprono nuove e inedite strade politiche da percorrere. Come ho già detto, il mercato crea problemi sociali; è proprio in questa situazione di potere del mercato che abbiamo bisogno delle politiche sociali della socialdemocrazia. Il potere del mercato, delle grandi e spesso globali imprese più mercato, la crescita delle disuguaglianze sociali prevedono la forte presenza della socialdemocrazia che può rappresentare gli interessi sociali, civili, culturali di chi è penalizzato dall’egemonia dell’economia di mercato. Certo, dovrebbe essere una socialdemocrazia innovativa, nel senso di una democrazia «femminilizzata» e verde. Il neoliberalismo non può infatti riuscire a risolvere i problemi sociali e di svuotamento della democrazia creati proprio del neoliberalismo».
La Repubblica, 25 marzo 2015
La Repubblica, 22 marzo 2015
Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacchè. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell’elenco dei Paesi “virtuosi” noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all’ultimo posto in quella europea perché in quest’ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell’Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l’anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel ‘96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.
L’attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. «Non c’è attenzione che quando si ha fame/ non c’è guardiano attento se non dorme/ non c’è tranquillità senza paura /non c’è una fede senza infedeltà». Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.
***
Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d’alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.
Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro po- sti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d’età.
In apparenza qualche cosa di buono c’è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l’apparenza della sua sovranità e diventa plebe.
Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.
Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su La politica e la pubblica amministrazione. La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L’applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai “grand commis” cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.
Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l’interesse legittimo dei cittadini inquinasse l’amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.
Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L’effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.
Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente.
Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.
L’Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c’è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l’Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.
Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall’uscita dall’euro.
Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d’Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.
Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un’apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.
Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).
Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?
Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).
Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione
di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.
Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non barare al gioco e non cambiare le regole in corso d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future consultazioni e senza far saltare il banco.
Il governo rappresentativo vuole un consenso delle norme e delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.
La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.
Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.
Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà stava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.
Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro
prio come quando descrisse il destino bonapartista della Repubblica francese del 1848, nel contesto della trasformazione globale del capitale. L’Italia microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce- nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere la revisione cesaristica della Costituzione del 1948. La Costituzione è un nobile compromesso tra par ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.
La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.
La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.
E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.
È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.
Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.
Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.
Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.
Il manifesto, 11 marzo 2015
di Massimo Villone, 10.3.2015
Un brutto giorno per la Repubblica. Come era nelle previsioni, la Camera approva la riforma costituzionale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 astenuti, che alla Camera non contano. Movimento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favorevoli a Renzi. Ma è facile vedere, richiamando il consenso ai soggetti politici realmente espresso nel voto del 2013, che una Camera depurata dalla droga del premio di maggioranza dichiarato illegittimo con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale oggi avrebbe bocciato la proposta. Non è la Costituzione della Repubblica. È la costituzione del Pd con escrescenze. Una costituzione di minoranza.
Questo conferma tutte le critiche sulla mancanza di legittimazione a riformare la Costituzione di un parlamento fulminato nel suo fondamento elettorale. E dunque non abbiamo affatto un paese più semplice e giusto, come esulta Matteo Renzi. Invece, abbiamo in prospettiva una Costituzione che non riflette la realtà del paese.
Il voto della Camera ci consegna quel che sarà, molto probabilmente, il testo definitivo della riforma. Si richiede un nuovo passaggio in Senato per chiudere con l’approvazione di un identico testo la fase della prima deliberazione richiesta dall’art. 138 della Costituzione. Ma è ragionevole prevedere che Renzi alzerà barricate contro ogni ulteriore modifica, che potrebbe del resto toccare solo le parti ora emendate dalla Camera.
Immutata la sostanza. Lievemente migliorata la “ghigliottina” per cui il governo poteva pretendere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e proprio potere di vita o di morte sui lavori parlamentari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata materia riservata all’autonomia delle Camere attraverso i regolamenti parlamentari. Da domani — scritta in Costituzione — sarà invece un vincolo sul parlamento nei confronti del governo. Peggiorata la riforma del Titolo V, dove viene annacquato con inedite complicazioni il proposito — in sé apprezzabile — di una semplificazione del rapporto Stato-Regioni.
Ma su tutto prevale la inaccettabile scelta — che rimane — di un Senato non elettivo, di seconda mano e di doppio lavoro, tuttavia investito di poteri rilevanti, tra cui spicca quello di revisione della Costituzione. Mantengono piena validità le critiche più volte espresse su queste pagine. Soprattutto per la sinergia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo significato. E se ne accentua il rilievo nel momento in cui la riforma costituzionale rimane pessima, e l’Italicum peggiora. Al già inaccettabile impianto di base, inosservante dei principi posti con la sentenza 1/2014, si aggiungono ora il premio alla sola lista, la beffa dei capilista bloccati e candidabili in più collegi, il ballottaggio. Il colpo alla rappresentatività delle istituzioni e ai processi democratici si aggrava.
La fine dichiarata da Berlusconi del patto del Nazareno aveva suscitato qualche speranza. La lettera dei “verdiniani” — Verdini è notoriamente in odore di renzismo — fa nascere dubbi sul controllo di Berlusconi sul partito. Forse una parte dei suoi si appresta a cambiare padrone, se non casacca. Nel prossimo voto in Senato — ancora in prima deliberazione — non sarà prescritta una particolare maggioranza. Ma sarà una prova generale per la seconda deliberazione ex art. 138, per cui si richiede il voto favorevole della metà più uno dei componenti l’assemblea. In Senato il dissenso potrebbe allora essere decisivo. E affossare la riforma trascinerebbe con sé anche l’Italicum, che nulla prevede per il Senato assumendone il carattere non elettivo.
Sapremo dunque già nel voto che si avvicina se la sinistra del Pd ha numeri e attributi. Sapremo se il patto del Nazareno è davvero morto. Berlusconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgambetto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la proposta che Fi aveva votato in Commissione bicamerale Allora, pur avendo i numeri, la maggioranza di centrosinistra si fermò. Questa volta non gli è riuscito. In Senato provaci ancora, Silvio. Magari faremo il tifo per te.
Nel frattempo, bisognerà spiegare al popolo sovrano che nelle istituzioni si forgiano le politiche di governo. Per le donne e gli uomini di questo paese le scelte istituzionali non sono indifferenti. Istituzioni semplificate e poco rappresentative, assemblee elettive con la mordacchia, governi che funzionano come giunte comunali (formula renziana), partiti della nazione producono politiche conservatrici, disattente verso i diritti, subalterne ai poteri forti, sorde alle diversità, e invece tolleranti verso le diseguaglianze. Già accade.
Con pensosa pacatezza Bersani finalmente avverte che l’Italicum non è votabile per la sinergia perversa con la riforma costituzionale. Corra ai ripari. Qualcuno dovrebbe spiegare a lui e all’evanescente sinistra Pd che la ditta li ha già messi in cassa integrazione a zero ore. Anche il nuovo partito non più leggerissimo di cui Renzi favoleggia li metterebbe in mobilità. Per loro, solo contratti a tutele decrescenti.
Ai governativi mancano una quarantina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), 7 sono assenti giustificati e 11 non partecipano perché in dissenso. Una minoranza, questi ultimi, della minoranza; il dissenso era stato più forte al senato nel primo passaggio sette mesi fa. La gran parte dei bersaniani vota sì: riconoscono nella riforma un pericoloso «cambiamento profondo della forma di democrazia parlamentare» (Bindi) eppure valutano che «non si può far fallire il percorso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assicurano che «è l’ultima volta» se «non si riaprirà il confronto» se «non ci sarà equilibrio» con la legge elettorale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripetuto di non voler cambiare.
Due spicchi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movimento 5 Stelle che non rinuncia all’Aventino. Appare solo il delegato Toninelli e la sua dichiarazione di voto comincia con «fascisti» e finisce con «disonesti». Ma in mezzo ha una citazione importante: le parole di fuoco contro la riforma costituzionale imposta dal governo Berlusconi, discorso del 2005 di Sergio Mattarella.
È difficile, dal momento che ci sono le elezioni regionali dietro l’angolo: saranno giorni di contrapposizioni accese e di pause nei lavori parlamentari. Ma non impossibile, visto che al senato spetta adesso un compito assai limitato. Solo gli articoli che la camera ha modificato rispetto al testo votato dai senatori potranno essere rimessi in discussione. E solo gli emendamenti strettamente legati alle novità potranno essere ammessi.
Renzisembra irremovibile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua determinazione a non riportare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Italia nega i voti. Dunque la legge non si tocca «neanche di una virgola». Così l’ex area Cuperlo, che prepara la «reunion» per il 21 a Roma (il 14 a Bologna però Speranza riunisce l’ala ’dialogante’) vede delinearsi all’orizzonte la scommessa finale: o un ’serrate i ranghi’ o il definitivo ’si salvi chi può’.
Le cinquanta sfumature della minoranza Pd praticano tre voti diversi. In tre si astengono (Capodicasa, Galli e Vaccaro), in sette non partecipano al voto (fra gli altri Fassina, Boccia, Civati, Pastorino), gli altri votano sì turandosi il naso. La dichiarazione a nome del gruppo è affidata a Lorenzo Guerini, non a Speranza, presidente dei deputati. Per Alfredo D’Attorre questo sì è «l’ultimo atto di responsabilità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favorevole» perché senza modifiche «nelle votazioni precedenti», vuole dire ’successive ma è un lapsus rivelatore, «non parteciperò al voto e nel referendum starò dalla parte dei cittadini». Il referendum confermativo è uno degli spettri: «Che faremo, una campagna contro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annuncia il sì ma avverte che «senza modifiche ciascuno si assumerà le sue responsabilità». Più tardi la sua area Sinistradem ribasce l’ultimatum in un documento firmato da 24 parlamentari (fra gli altri Amici, Argentin, Bray, De Maria, Fontanelli, Miotto, Pollastrini).
Stefano Fassina non partecipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal presidente del Consiglio l’indisponibilità a correggere la legge elettorale». Come dire: è inutile promettere battaglia se poi alla fine vi allineate sempre. Pippo Civati lo dice esplicitamente: «Dopo il voto di stamani quasi l’intero testo della riforma risulta inattaccabile. Chi ha votato a favore condivide le scelte compiute e ne porta la responsabilità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosiddetta minoranza Pd ci sono differenze politiche profonde».
La Repubblica, 9 marzo 2015
Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.
È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.
In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.
Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.
L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.
Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.
Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».
«».
Il manifesto
In una paese normale, abitato da gente normale, dove anche i media di conseguenza sono normali, le notizie che appaiono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pensando il Viminale, quindi il ministro Alfano, su Decoro/Degrado farebbero accapponare la pelle.
Leggo testuale dal giornale di ieri “Sicurezza, più militari e accattonaggio vietato vicino ai monumenti”. E aggiungo “Più poteri ai sindaci di difendere i centro storici ed i monumenti delle nostre città. Al sindaco dovrebbero essere concessi dei poteri di ordinanza relativi all’ordine pubblico, modello movida, per rendere alcune zone del centro off limits anche all’attività di accattonaggio e carità molesta”. Oggi invece prende forma una idea che a giudicare folle, se non bestiale, è dir poco. Sempre dal Messaggero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipotesi Daspo per prostitute e mendicanti”. E nell’articolo viene spiegato meglio “Affidare maggiori poteri di polizia a questori e prefetti anche in materia di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la possibilità di intervenire su temi che vanno dalla prostituzione al cosiddetto accattonaggio, passando per i locali notturni troppo rumorosi, con provvedimenti interdittivi. Per fare l’esempio più noto alle cronache, l’ipotesi su cui sta lavorando il ministero dell’Interno, darebbe a questori e prefetti la possibilità di applicare anche in queste materie ordinanze analoghe al Daspo, il provvedimento col quale attualmente possono impedire l’ingresso allo stadio ad alcuni tifosi, a prescindere da eventuali responsabilità penali.”
Quindi, i cervelloni del Viminale, hanno pensato di mettere un freno alla prostituzione (che ad esempio nel centro cittadino è praticamente inesistente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (perché la povertà è un reato ed esibirla è di cattivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accattoni” daspati non potranno entrare nel centro di Roma e dovranno continuare ad arrangiarsi magari buttandosi su qualche via consolare fuori dai municipi del centro. Oppure le prostitute oltre a dover fronteggiare gli aguzzini che le schiavizzano, la violenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimenticavo: già esistono provvedimenti simili, visto che è possibile dare il foglio di via “agli indesiderati”.
Ma che significa “decoro”? Un normale dizionario spiega che il decoro è un “complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita dignitosa dovrebbe essere un obiettivo di qualsiasi governo, contrastare la povertà idem. Il problema è che non si combatte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto associato all’insicurezza. I “bloggers antidegrado” accozzaglia discutibile di personaggi che lanciano le loro crociate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto contro i disservizi della città diventano punto di riferimento per gli stessi amministatori cittadini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovista nei cassonetti. Se i mezzi pubblici sono fatiscenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patrimonio pubblico/artistico di questa città è tenuto male è colpa degli hooligans venuti da fuori o di chi mendica, crendo un circolo vizioso che contrappone gli indigenti ai cittadini, come se entrambi non fossero parte dello stesso tessuto sociale. Con i suoi pro e i suoi contro. Nel frattempo nessuno denuncia il fatto che gli stessi governarnti, attraverso i tagli alla cultura e ai servizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cercano di sconfiggere a colpi di ordinanze.
L’esempio romano è assolutamente paradigmatico: dopo i 5 anni di Alemanno e le varie ordinanze anti-alcol nel centro cittadino, la nuova giunta aveva promesso che non avrebbe contrastato “la movida” a colpi di ordinanze varie. Promesse mantenute per una estate per poi adeguarsi neanche un anno dopo alle precedenti amministrazioni grazie anche a una campagna mediatica avvolgente, che vede schierati tutti i media a difesa non del “pubblico” ma del “privato”. A difesa, dicono, del “cittadino” mentre trasformano interi quartieti in “divertimentifici”, alla faccia del cittadino stesso.
Ed è singolare che nella città dello scandalo Atac, Ama, Mafia Capitale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si continui a trovare nel “degrado/decoro” il problema da risolvere, da affrontare. Il progressivo impoverimento, la crisi economica, ha di sicuro cresciuto le sacche di povertà in città. Le baracche, parte del tessuto urbano dal dopoguerra fino alla seconda metà degli anni 70, diventano inaccettabili e pericolose. Ci riportano indietro nel tempo è ci mostrano l’altra faccia della metropoli, quella in cui potremmo finire un giorno. Continuare a trovare il nemico in alcune sacche di cittadini, economicamente svantaggiate, è la dimostrazione dell’uso politico che si fa del concetto di “decoro” è il modo con cui i governi riescono a far passare ogni misura securitaria. Del resto le ordinanze cittadine, di vari sindaci, in maniera di decoro, sono qualcosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo trovati di fronte a misure talmente ridicole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così maledettamente serio.
Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qualcosa che coinvolge amministrazioni di destra e di sinistra, per una trasversalità pericolosa. Una ideologia perversa, moralista, che non crea cittadinanza, non crea solidarietà ma piccoli sceriffi armati di smartphone pronti a fotografare il mendicante di turno o chi rovista nei cassonetti. I nuovi nemici da combattere sono quelli che raccolgono le briciole di quel che consumiamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “accessibilità ai consumi”. Un egoismo sociale, moralista appunto, che fa del cittadino educato che non butta le carte in terra, un buon cittadino. Che crea diseguaglianze invece di costruire un tessuto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di liberarci dalle paure. Che trova il degrado nella prostituta e non nello sfruttatore, nelle reti della tratta, o anche semplicemente nel cliente della prostituta, il problema. Importante è che non parcheggi in doppia fila e che paghi puntualmente il biglietto
CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo editoriale Eugenio Scalfari ha sollevato un tema d’importanza cruciale: il declino della democrazia partecipata. Ravvisandone la ragione nell’indifferenza dei cittadini. Che la democrazia sia in difficoltà è fuor di dubbio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle trasformazioni cui la democrazia è sottoposta e che hanno derubricato da democrazia partecipante a democrazia respingente. L’Italia non è un caso unico. Le democrazia respingenti ci sono ovunque e in Italia la si è cominciata a fabbricare da un quarto di secolo fa.
Renzi sta solo mettendo il tetto all’edificio di una democrazia che odia i cittadini. L’odio per i cittadini si manifesta anzitutto sul terreno delle politiche. L’austerità è cominciata tre anni fa. Ma le decurtazioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parecchio si è aggravata a dismisura la pressione fiscale sui redditi medi e bassi. E sono enormemente peggiorate le condizioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qualità sta declinando da un pezzo, nel pubblico e nel privato. In compenso chi comanda non pensa a dismettere lussi inutili e dannosi, come la Tav e gli F35, né tantomeno si mostra disposto a ridurre gli indecenti privilegi di cui godono i politici e butta solo fumo negli occhi.
La seconda manifestazione di odio per i cittadini sta nel respingerli come tali. Votare non è un gesto naturale. Per molti, specie i giovani, è un atto che va incoraggiato. Sia tramite le performances della politica, che al momento non aprono neanche più alla speranza, sia sottolineandone l’importanza. Sia mediante un’azione costante di coltivazione del civismo un tempo svolta dalla scuola e dai partiti.
L’istruzione ha pure la funzione di socializzare i giovani alla vita collettiva e alla partecipazione politica. Ben conosciamo le condizioni lamentevoli in cui la scuola è ridotta e lo spregio con cui sono trattati gli insegnanti. Quanto ai partiti, il loro soffocamento è stato deliberato. In nome di una democrazia che decide, li si è disattivati, promettendo che a coltivare il civismo avrebbe provveduto la società civile. Solo che la società civile, peraltro ambigua, non compensa l’attività di educazione e incitamento che i partiti di massa svolgevano su vasta scala. Sono rimasti i partiti impropriamente detti personali, che sono circoscritte cosche affaristiche, riservate ai superprofessionisti della politica, che non sanno nemmeno com’è fatto il mondo e che nutrono unicamente ambizioni di potere.
I cittadini non sono sciocchi e osservano tutto questo. Possono magari illudersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indignati e arrabbiati. Di quali mezzi tuttavia dispongono per manifestare la loro sofferenza?
Ci hanno perfino provato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irrilevante di elettori ha provato a ribellarsi votando per Beppe Grillo. Ma per scoprire ben presto che il suo incontenibile narcisismo mediatico è solo servito a sterilizzare la loro indignazione, spianando la strada alle brutalità del renzismo. Quando non c’è narcisismo, com’è successo in Grecia, pare stia andando anche peggio. Un popolo intero sta sanguinosamente pagando le dissipazioni di una ristretta casta di politicanti e di potenti. Ma tutta l’Europa congiura affinché la sua ribellione elettorale, che ha cacciato i responsabili, non produca alcun aggiustamento. Dietro la grande narrazione – letteraria, cinematografica, mediatica, giornalistica e spesso anche accademica – del disincanto e dell’indifferenza, cova insomma una ribellione silenziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.
Un po’ più di attenzione andrebbe prestata ai dati sull’astensione. Il nostro garbato capo del governo si fa forte del 40% di consensi ottenuti alle europee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elettori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro consenso. Non è poco per rivendicare un grande consenso popolare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elettori arrabbiati smettesse di astenersi e cedesse alle lusinghe di uno dei tanti leader populisti che ci sono in giro ne scaturisca un esito elettorale che chiuda persino la deprimente bottega della democrazia respingente
«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015
Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.
Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.
Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.
Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.
Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.
A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.
Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.
La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.
Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015
Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.
Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia
“
Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S
bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015
La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.
S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.
Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.
Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.
Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.
È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.
La Repubblica, 8 febbraio 2014
Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.
Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».
Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.
Comune.info, 7 febbraio 2015
Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.
La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).
Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.
Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.
Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.
Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).
La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.
Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.
I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.
Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.
Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.
Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.
Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?
La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.
Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.
La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.
Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015
Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.
Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.
Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).
Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.
Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.
Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)
Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.
La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.
Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.
Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.