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Greche e greci,
da sei mesi il governo greco conduce una battaglia in condizioni di asfissia economica mai vista, con l’obiettivo di applicare il vostro mandato del 25 gennaio a trattare con i partner europei, per porre fine all’austerity e far tornare il nostro paese al benessere e alla giustizia sociale. Per un accordo che possa essere durevole, e rispetti sia la democrazia che le comuni regole europee e che ci conduca a una definitiva uscita dalla crisi.

In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.

Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.

La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia. Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.

Queste proposte mettono in evidenza l’attaccamento del Fondo Monetario Internazionale a una politica di austerity dura e vessatoria, e rendono più che mai attuale il bisogno che le leadership europee siano all’altezza della situazione e prendano delle iniziative che pongano finalmente fine alla crisi greca del debito pubblico, una crisi che tocca anche altri paesi europei minacciando lo stesso futuro dell’unità europea.

Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.

Poche ore fa (venerdì sera n.d.t.) si è tenuto il Consiglio dei Ministri al quale avevo proposto un referendum perché sia il popolo greco sovrano a decidere. La mia proposta è stata accettata all’unanimità.

Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.

Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.

Greche e greci,
a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.

La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale. E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia. E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.

In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.

Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci.

Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras

(Traduzione di ad Aldo Piroso)
«Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce ai cittadini l’uguaglianza di diritti abbia venti servizi sanitari diversi? Non è il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne?».

Corriere della sera, 8 Giugno, 2015 (m.p.r.)

L a crisi delle Regioni è profonda, e per certi versi irreversibile. A certificarlo è il verdetto consegnatoci dalle ultime elezioni: il vuoto assoluto di programmi, il degrado della classe politica, la percezione degli Enti regionali come di istituzioni ipertrofiche, fonti di sprechi e inefficienze, hanno spinto molti elettori a disertare l’appuntamento con le urne. Di fronte a questa situazione, il silenzio dei partiti è assordante. E la riforma del titolo V della Costituzione rischia di essere insufficiente. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a se stessi e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Occorre il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. E occorre porsi domande scomode: hanno senso 20 sistemi sanitari diversi, sedi faraoniche, una quantità enorme di dipendenti? Hanno senso gli statuti speciali? E hanno senso Regioni con un numero di abitanti paragonabili al quartiere di una grande città?

L a crisi delle Regioni è profonda e per certi versi irreversibile. Il verdetto che ci hanno consegnato le ultime elezioni regionali, con il loro strascico di polemiche, veleni e sospetti, è senza appello. La campagna elettorale ha offerto spettacoli indecenti: e non parliamo soltanto della vicenda dei cosiddetti «impresentabili», ma anche di certi spregiudicati traslochi da uno schieramento politico all’altro. Abbiamo assistito a fatti come quelli di un governatore di sinistra che si è candidato con la destra pur di rimanere in partita, o di ex neofascisti accolti a braccia aperte dalla sinistra. Di tutto si è parlato tranne che di contenuti e programmi. Per un semplice motivo: non c’erano.

E se ne sono accorti anche gli elettori. Il drammatico calo della partecipazione al voto, che già aveva toccato il fondo in occasione delle elezioni in Calabria e ancor più in Emilia-Romagna, è una manifestazione di sfiducia da parte dei cittadini che più lampante non si potrebbe. Un cittadino su sei, di quelli che avevano votato alle precedenti regionali, non si è presentato al seggio. Sempre più le Regioni vengono percepite come istituzioni ipertrofiche di dubbia utilità, fonti di sprechi e inefficienze. Ed è sinceramente difficile non sospettare che servano più a chi viene eletto che non agli elettori. Dei consiglieri regionali inquisiti per l’uso improprio di fondi pubblici si è perso il conto. Sono centinaia. Nella generale mediocrità della classe dirigente, il livello di competenze e di moralità di certa politica locale è se possibile ancora più modesto. Con un degrado progressivo e inesorabile, come ha opportunamente sottolineato ieri sulle colonne di questo giornale Sabino Cassese.
Il problema della qualità della classe politica sta diventando drammatico, e nel caso dei consigli regionali (e talvolta anche comunali) ha motivazioni precise. Una volta eletti i candidati alle assemblee non avranno alcun potere concreto, se si eccettua quello di approvare la legge di bilancio e riscuotere un compenso non marginale: a loro viene chiesto soltanto di portare più voti possibile. E siccome il fine giustifica i mezzi, ecco che non si va troppo per il sottile. Non si chiedono credenziali né si accertano i profili morali. Meno che mai si pretende la rinuncia a metodi clientelari. Prevale così chi controlla spregiudicatamente i consensi, e non si fanno domande che sarebbe doveroso rivolgere a chi passa da destra a sinistra e viceversa senza aver avuto crisi di coscienza o particolari folgorazioni sulla via di Damasco: l’unica cosa che importa è il numero di voti che il trasloco garantisce. Un capitale che deve fruttare. L’elezione in un consiglio regionale o di una grande città si tinge così di squallidi toni affaristici. Chi porta in dote migliaia di voti si aspetta evidentemente un ritorno. Ecco la realtà.
Ciò che è peggio, di fronte a questa situazione il silenzio dei partiti è assordante. Nessuno vuole aprire gli occhi, riconoscere la crisi drammatica in cui è precipitata una politica locale mediocre, sempre più concentrata esclusivamente nella sopravvivenza del proprio potere quando non affogata nella corruzione, come dimostrano le storie agghiaccianti di Mafia capitale. Ma che il giocattolo sia ormai rotto, è assodato. Una classe dirigente seria e responsabile ne dovrebbe prendere atto e agire di conseguenza prima che la situazione precipiti.
Cominciando dal nodo oggi sicuramente più critico: le Regioni, appunto. Per la piega che hanno preso le cose, la riforma del titolo V della Costituzione rischia a questo punto di essere solo un pannicello caldo, insufficiente per quel cambiamento radicale di rotta che sarebbe necessario. Serve ben altro, se vogliamo che le Regioni smettano di essere in larga misura centri di potere fini a stessi, spreconi e clientelari, e diventino strumenti al servizio dei cittadini. Servirebbe il coraggio di mettere in discussione i meccanismi elettorali, il ruolo e le competenze, le funzioni istituzionali, i poteri reali. Fino in fondo, e non soltanto con una riverniciatina al Titolo V. Servirebbe il coraggio di dare risposte a domande che pochi hanno avuto l’ardire di porre.
Ha senso l’esistenza di Regioni come il Molise e la Valle D’Aosta, che hanno un numero di abitanti paragonabile al quartiere di una grande città, oppure come la stessa la Basilicata? Hanno ancora un senso gli statuti speciali che hanno trasformato certe autonomie in privilegi inconcepibili, facendo esplodere le spese? Ha senso che le Regioni abbiano una quantità enorme di dipendenti spesso inutili, e spesso assunti con meccanismi niente affatto trasparenti magari attraverso le centinaia di società controllate, a loro volta quasi sempre inutili? Ha senso che grazie a quei sistemi nei consigli regionali sia impiegato almeno il quadruplo delle persone che lavorano alla Camera dei Deputati? Ha senso che le Regioni investano somme faraoniche in sedi istituzionali scimmiottando lo Stato centrale, imbarcandosi in operazioni immobiliari insensate? Ha senso che un Paese dove la Costituzione garantisce sulla carta ai propri cittadini l’uguaglianza dei diritti fondamentali abbia venti servizi sanitari diversi, con Regioni che al Nord garantiscono le cure odontoiatriche gratuite a chi guadagna fino a 80 mila (ottantamila) euro l’anno e al Sud devono invece chiudere i servizi di emergenza per carenze igieniche? Ha un senso tutto questo, e altro ancora? Non è arrivato il momento di guardarsi allo specchio, e discuterne seriamente?

Contro questa pessima riforma della "buona scuola", perché è nella «struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano». La Repubblica, 19 maggio 2015 (m.p.g.)

La scuola è una grande questione nazionale. La più grande. Qui si intrecciano e qui si incontrano i drammi della disoccupazione giovanile e dell’integrazione di milioni di immigrati, qui si giocano le sorti presenti e future della cultura italiana come sapere e coscienza diffusa di cittadinanza. Che la questione della riforma della scuola venga vissuta come un conflitto tra governo e sindacati o tra governo e una specie di Fort Alamo della sinistra irriducibile, cioè come uno dei tanti conflitti sociali di un paese smarrito e impoverito, è qualcosa di intollerabile; è anche il segno della sconfitta che ci aspetta tutti alla prova di un passaggio decisivo.

La domanda che bisogna farci è: come siamo arrivati a questo punto? Per rispondere bisogna partire da lontano. L’on. Alfredo D’Attore in un’intervista al manifesto di sabato 16 maggio, ha accusato Renzi di avere imbroccato una strada che «amplifica le disuguaglianze e scardina un sistema nazionale di formazione su base universalistica». In realtà la cosa è più antica. Si aprì all’epoca lontana in cui il partito progenitore di quello di D’Attorre approvò la riforma dell’Università del suo ministro Berlinguer.

Fu allora che passò il paradigma economicista e classista della divisione tra serie A e serie B a tutti i livelli: tra le università condannate a un’autonomia che deresponsabilizzava lo Stato e cancellava la distinzione tra pubbliche e private, tra le lauree, divise fra triennali e quinquennali ma soprattutto tra quelle del sud e quelle del nord, tra insegnamento e ricerca — privata quest’ultima di investimenti necessari, declassata quella ad affabulazione oratoria da scuola media mentre passava in uso il linguaggio dei «crediti », grottesco scimmiottamento del valore supremo, il danaro, la banca. Intanto saliva il danaro richiesto per le tasse mentre si impoverivano biblioteche e laboratori. Intanto il mondo della docenza accademica si incanagliva nei suoi antichi difetti e il rapporto tra insegnamento e ricerca veniva sottomesso al potere dei rettori e a quello di consigli di amministrazione aperti al mondo della finanza e dell’impresa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, anche se non lo si vuole vedere. Somme immense sono state investite nel funzionamento di una agenzia di valutazione scelta dall’arbitrio politico che ha inventato sistemi spesso grotteschi e sempre costosi di “valutazione”.

Di fatto nelle università come nelle scuole tutte si è bloccato il ricambio con danni immensi per il paese. E si è perduta l’idea della funzione comune di tutto l’insieme della scuola pubblica. Si capisce così perché dall’università non si levi oggi quel coro di voci in difesa della scuola che sarebbe giusto e necessario. Eppure è nella struttura pubblica del sistema scolastico a tutti i livelli che risiede la difesa della democrazia italiana dai pericoli che la assediano.

Chi si straccia le vesti davanti alla fine del bicameralismo dovrebbe farlo assai più davanti al percorso liquidatorio della scuola pubblica: un percorso da tempo avviato da una classe politica spesso penosamente incolta, selezionata con le liste bloccate, incapace di rispettare l’unica categoria insieme alla magistratura che eserciti la sua professione dopo avere studiato a lungo e dopo essersi sottoposta a pubblici concorsi. Senza una scuola dello Stato italiano che garantisca a tutti i cittadini la stessa qualità di offerta educativa, senza docenti selezionati in università statali di pari dignità e livello, senza concorsi pubblici, è difficile sperare che rinasca quell’unica condizione fondamentale perché l’incontro tra professore e allievo torni a essere quello giusto: la passione del docente per quello che fa. È solo lei che potrà lasciare una traccia positiva nella vita del giovane. Lo attesta il dialogo tra il maestro Fiorenzo Alfieri e suo nipote Leonardo nel libro Strade parallele. Ma per questo occorre che il docente sia ben preparato e abbia tutto il riconoscimento sociale cui ha diritto. E che raggiunga il suo luogo di lavoro senza dipendere dalla chiamata di un preside.

Non si dimentichi che la scuola ha creato la lingua degli italiani e con la lingua la letteratura ben prima che se ne occupassero il cinema e la televisione. È nella scuola che i diritti astrattamente descritti nella Costituzione diventano esercizio quotidiano, materia primaria di confronto e di palestra civile nel rapporto tra culture, religioni, questioni di colore e di sesso. Così è sempre stato. Si pensi alla figura della maestra suicida di Porciano, ai tempi della legge Coppino, quell’Italia Donati che portava nel nome le speranze del paese appena unificato. Alla creazione di questa scuola si sono dedicati i maggiori ingegni dell’Italia risorgimentale.

Se gli italiani non sono più il “volgo disperso” descritto da Manzoni, se la Recanati di Leopardi non è più un “borgo selvaggio” ma ha uno splendido Liceo dove anche gli ultimi nipoti dello zappatore e della “donzelletta” possono studiare, è per merito di un percorso faticoso ma fondamentale di costruzione di una buona scuola. O vogliamo tornare alle biblioteche e ai soldi di famiglia, ai precettori privati e ai colleges per i più fortunati lasciando gli altri a incanaglirsi nelle scuole e nelle università di serie B?

Gli italiani che credono davvero nella democrazia, e che al tempo stesso riescono a informarsi di ciò che il Palazzo Renzi gli sta preparando devono essere davvero pochi, se così pochi ne scendono in piazza .

Il manifesto, 17 maggio 2015

Quel che sarà il par­la­mento ita­liano dopo che il dise­gno ren­ziano sarà giunto in porto è ampia­mente noto. La Camera dei nomi­nati e della mag­gio­ranza gover­na­tiva a priori fun­zio­nerà senza intoppi come cassa di riso­nanza e rati­fica; il Senato dei gerar­chi e dei pode­stà per­fe­zio­nerà l’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo. Il tutto per la legit­ti­ma­zione «demo­cra­tica» delle deci­sioni di palazzo Chigi. A quel punto l’Italia sarà un caso unico di Repub­blica mono­cra­tica domi­nata da un capo di governo ple­ni­po­ten­zia­rio, eletto da una mino­ranza di cit­ta­dini e posto in con­di­zione di con­trol­lare le auto­rità di garan­zia e tutti i poteri dello Stato, ecce­zion fatta (fino a quando?) per la magistratura.

Tra poco — pro­ba­bil­mente tra un annetto — que­sto pro­gramma comin­cerà a rea­liz­zarsi orga­ni­ca­mente. Ma non dob­biamo aspet­tare nem­meno pochi mesi per assa­po­rarne i primi frutti avve­le­nati. Quanto sta acca­dendo con la «riforma» della scuola è un’anticipazione molto istrut­tiva di ciò che ci attende. Un indi­zio e una prova tec­nica, som­mi­ni­strata per testare il paese e per assue­farlo al nuovo che avanza.

Rara­mente, forse mai prima d’ora, si era assi­stito alla scena di un ramo del par­la­mento ita­liano che vota in tran­quil­lità a favore di un prov­ve­di­mento di indi­scu­ti­bile rile­vanza (che modi­fica in pro­fon­dità strut­ture e modo di ope­rare di un set­tore vitale della società, e le con­di­zioni mate­riali di lavoro e di vita di milioni di cit­ta­dini) men­tre l’intero com­parto inve­stito da quel prov­ve­di­mento esprime la pro­pria asso­luta con­tra­rietà. Lo scio­pero del 5 mag­gio e la mani­fe­sta­zione con­tro le prove Invalsi pos­sono essere giu­di­cati come si vuole, ma su una cosa non sarebbe serio ecce­pire. Entrambi atte­stano l’unanime avver­sione del com­plesso mondo della scuola — inse­gnanti, stu­denti, per­so­nale tec­nico e ammi­ni­stra­tivo — a un modello che non per caso ruota intorno a due car­dini della costi­tu­zione neo­li­be­rale: la sedi­cente meri­to­cra­zia (foglia di fico pro­pa­gan­di­stica a coper­tura del ritorno a logi­che cen­si­ta­rie, auto­ri­ta­rie e oli­gar­chi­che) e la pri­va­tiz­za­zione della sfera pubblica.

C’è tutto som­mato di che stu­pirsi per la pron­tezza e pre­ci­sione della dia­gnosi che inse­gnanti e stu­denti hanno fatto della «buona scuola» ren­ziana. Evi­den­te­mente l’ideologia mer­ca­ti­sta non ha ancora total­mente invaso l’anima del paese. O forse la realtà della scuola ita­liana è tal­mente evi­dente nelle sue con­trad­di­zioni e mise­rie da non per­met­tere quelle ope­ra­zioni di cosmesi — di camou­flage, direbbe qual­cuno — che fun­zio­nano altrove. Stu­denti, ope­ra­tori della scuola e tanti geni­tori sanno troppo bene che cosa in realtà si nasconde die­tro la ver­go­gnosa reto­rica dell’«eccellenza» e dell’«autonomia», della «sele­zione» e della logica pre­miale del «merito». E die­tro il ricatto della sta­bi­liz­za­zione della metà dei pre­cari in cam­bio dell’accettazione dell’intera «riforma».

In un paese che figura sta­bil­mente all’ultimo posto della clas­si­fica Ocse per la per­cen­tuale di Pil inve­stita nella for­ma­zione dei gio­vani le chiac­chiere restano a zero. A chia­rire come stanno le cose prov­ve­dono gli edi­fici fati­scenti e i tanti soldi come sem­pre rega­lati alle pri­vate. Le col­lette per com­prare la carta igie­nica e il toner delle stam­panti. E i bassi salari degli inse­gnanti di ogni ordine e grado, respon­sa­bili anche del poco rispetto che taluni geni­tori mostrano nei riguardi di chi si impe­gna per istruire i loro vene­rati rampolli.

Sta di fatto che con­tro la «riforma» ren­ziana la scuola ha messo in campo una pro­te­sta pres­so­ché uni­ver­sale, ben­ché anni di divi­sioni tra le orga­niz­za­zioni sin­da­cali e un’eccessiva timi­dezza nelle ini­zia­tive di lotta rischino di vani­fi­care le mobi­li­ta­zioni. Non solo la scuola si è fer­mata in occa­sione delle agi­ta­zioni, ma è in fer­mento da set­ti­mane e mani­fe­sta senza reti­cenze un con­sa­pe­vole e argo­men­tato dis­senso. Pec­cato che tutto que­sto al par­la­mento non inte­ressi né poco né punto. Quel che si mostra allo sguardo degli osser­va­tori è uno scon­cer­tante paral­le­li­smo, quasi che «paese legale» e «paese reale» non fos­sero distinti ma dia­let­ti­ca­mente con­nessi, bensì pro­prio dislo­cati su pia­neti diversi. Per cui quanto accade nell’uno - le agi­ta­zioni, le pre­oc­cu­pa­zioni, il disa­gio, la pro­te­sta - non turba l’impermeabile auto­re­fe­ren­zia­lità dell’altro, ormai (di già) assor­bito nella rece­zione e pro­mo­zione della volontà del reuc­cio che si balocca alla lava­gna col suo appros­si­ma­tivo idioma burocratico.

Certo, non è la prima volta che si assi­ste a un feno­meno del genere. Qual­cosa di simile è già acca­duto col Jobs act, varato men­tre le fab­bri­che erano in sub­bu­glio per la can­cel­la­zione dell’articolo 18. Ma si sa che le que­stioni di lavoro e in par­ti­co­lare di lavoro ope­raio divi­dono il paese (e gli stessi sin­da­cati) e offrono ai governi ampi var­chi per ope­rare for­za­ture. Il caso della scuola è diverso per la sua con­no­ta­zione essen­zial­mente inter­clas­si­sta e per que­sta ragione pre­fi­gura pla­sti­ca­mente il qua­dro al quale dovremo abi­tuarci nel pros­simo futuro. Pro­te­sti pure il paese, scen­dano pure in piazza i cit­ta­dini, si mobi­liti quel che resta dell’opinione pub­blica. La cit­ta­della della poli­tica non si degna nem­meno di veri­fi­care la per­ti­nenza delle doglianze, tanto basta a se stessa e può fare da sé, in una mise­ra­bile rie­di­zione dell’autocrazia di antico regime. Può darsi che que­sta non sia che un’illusione e che un pro­gramma incen­trato sull’autonomia del poli­tico si riveli, oltre che inde­cente, impra­ti­ca­bile in virtù della reat­ti­vità del corpo sociale. Ma di certo risulta evi­dente a quale pove­ris­sima cosa si saranno ridotti, in tale sce­na­rio, par­la­men­tari e par­titi. Men­tre la poli­tica avrà negato se stessa con l’essersi anche for­mal­mente ridotta a mera fun­zione di domi­nio di una casta sulla cit­ta­di­nanza costretta a obbedire.

La parola alla saggezza. Se queste tre omissioni non saranno corrette vivremo «un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica».

L’internazionale, 11 maggio 2015

Il disegno di legge Giannini e altri, “Riforma del sistema nazionale di istruzione”, e i documenti governativi che lo hanno preceduto e lo accompagnano sono stati colpiti da molte critiche puntuali, tante da rendere difficile il compito di riassumerle. Lo hanno fatto su Internazionale due recenti messe a punto di Christian Raimo il 5 maggio e Mauro Piras il 7 maggio e mi rimetto a queste.

Tutti i critici, direi, si sono concentrati nel contrastare, smentire, sforzarsi di correggere singoli punti del disegno di legge fino a chiederne con ragione il ritiro, senza fermarsi a segnalare quel che nei testi non c’è. Però, come imparano gli studenti di prima annualità di buoni corsi di linguistica generale o filosofia del linguaggio o semiotica e comunicazione, un testo ci parla di un argomento non solo con quel che ci dice in esplicito, ma anche con quel che ne tace.

Sta nel potere delle nostre parole rendere significativi anche i silenzi. A me pare che nei testi di ispirazione renziana ci siano tre silenzi da segnalare, tre peccati di omissione. Sono silenzi che colorano malamente tutto ciò che si dice. Se non verranno corretti, devono metterci in allarme fin d’ora per le future politiche scolastiche governative e, ciò che più conta, per le sorti della nostra scuola.

1. La buona scuola che c'è


Il primo silenzio è il mancato riconoscimento per ciò che la nostra scuola ha fatto e fa. Se non abbiamo voglia o capacità di guardare in faccia la realtà del nostro paese, non capiamo che cosa dobbiamo alla scuola sia pure in assai diversi gradi a seconda dei suoi diversi livelli. Dobbiamo moltissimo ai livelli di base, alle scuole dell’infanzia ed elementari, assai meno, purtroppo, alle scuole medie superiori.

Ma anche questa differenziazione manca nella prospettiva renziana. La scuola, come fanno i giornalisti meno informati, è considerata come un blocco unitario, indifferenziato. Non se ne capiscono così i meriti e, anche, alcuni limiti.

All’inizio del cammino nell’età della repubblica la scuola e con lei l’intera società italiana si sono trovate schiacciate dall’eredità dello stato monarchico e fascista. Quasi due terzi degli ultraquattordicenni, il 60 per cento, erano privi di licenza elementare, un terzo dei quali analfabeti confessi (per l’Istat si era ed è analfabeti se tali ci si dichiara). Nelle classi giovani in età scolastica, per ragazzine e ragazzini, il titolo di licenza elementare (non il diploma, non la laurea) era riservato a un’élite, un terzo. Pochi, nel ceto intellettuale e politico, si rendevano ben conto di ciò: Umberto Zanotti Bianco, Guido Calogero, Anna Lorenzetto, Giuseppe Di Vittorio, Piero Calamandrei.

Soltanto dopo quasi dieci anni, alla pattuglia sparuta si aggiunse un giovane parroco rompiscatole del suburbio fiorentino, rimasto più noto per merito, dobbiamo dirlo, del Sant’Uffizio o simili. Il giovanotto aveva capito che era impossibile portare le parole del Vangelo a chi era immerso nell’analfabetismo e, in più, gli appariva già sedotto dalle prime ondate del consumismo, di cui nessuno, Pier Paolo Pasolini a parte, si rendeva conto. Cominciò a trafficare con le statistiche per capire quale era l’estensione del fenomeno. E scrisse un libro, Esperienze pastorali, che dispiacque alla sua chiesa, che isolò l’autore e lo relegò in una sperduta parrocchia di montagna, a Barbiana, sopra Vicchio, nel Mugello, nella convinzione che lontano dalla città avrebbe fatto meno danni. “Ecco il giudicio uman come spesso erra”, direbbe Ludovico Ariosto. Il ritardatario aggregato alla pattuglia, il rompiscatole mandato al confino si chiamava Lorenzo Milani.

Dinanzi alla realtà di dominante mancata scolarità la reazione fu lenta. Anche gli odiatori del populismo devono ammetterlo. La reazione cominciò dagli strati popolari, dalle campagne più povere del latifondo. Le famiglie capirono, sentirono, che dovevano mandare figlie e figli a scuola, sola alternativa al dispatrio.

Le statistiche ancora raccontano con i loro numeri, per chi si dà la briga di andarle a consultare, questa storia. Ragazze e ragazzi tra tardi anni quaranta e metà cinquanta affollarono le elementari e cominciarono a conquistare in grande maggioranza la licenza elementare prima preclusa invece alla grande maggioranza dei genitori, a non parlare dei nonni.

Mentre il parlamento discuteva del creare o no una scuola postelementare che onorasse il precetto costituzionale degli “almeno otto anni” di scuola “obbligatoria e gratuita” (articolo 34, comma 2), ragazze e ragazzi la scuola postelementare cominciarono a farsela da sé affollando i diversi canali che lo stato offriva e cercando di rimanerci. Varata nel 1962 la scuola media inferiore unificata, gli otto anni di scuola cominciarono a diventare realtà per percentuali crescenti, ma ancora lontane dal 100 per cento.

Il fatto è che una gran parte degli insegnanti resisteva e continuò a resistere. Erano convinti che il loro compito fosse censire, fermare e mandar fuori dai piedi i somari, gli svogliati, i testoni. Non erano stati attrezzati a capire che il loro compito era esattamente il contrario: fare in modo che i somari imparassero a non ragliare, gli svogliati ad avere voglia di studiare, i testoni a usare la testa per capire e orientarsi nella società. Facile a dirsi, non a farsi. Nel corso degli anni, gli e le insegnanti non solo delle elementari, ma anche delle medie inferiori hanno imparato a farlo. Le scuole elementari hanno raggiunto un doppio risultato: portano al loro termine il 100 per cento dei loro alunni e questi, nei confronti internazionali, si collocano tra quelli con i più alti livelli di competenza.

Interessante: il massimo di inclusività va a braccetto con la qualità più elevata dei risultati. Così è nel resto del mondo, così è stato ed è per la nostra scuola elementare. Comunque, in complesso, l’intera scuola di base è riuscita a portare alla licenza media dell’obbligo quasi il 100 per cento dei figli di famiglie in maggioranza analfabete o semianalfabete ancora quarant’anni fa e oggi in maggioranza dealfabetizzate. E perfino quello che è l’anello debole, la scuola media superiore, porta al diploma l’80 per cento di ragazzi e ragazze. E in questa scuola le nostre straordinarie ragazze nei test comparativi internazionali raggiungono punteggi superiori alla media delle loro compagne europee.

Questa è la scuola cui, senza conoscerla, voi volete mettere mano. Il vostro silenzio su ciò che la scuola ha saputo e sa fare fa temere che il vostro metter mano sia un manomettere. Questa scuola è la sola istituzione che ha aiutato la società italiana a evadere dalla prigione dell’analfabetismo primario, totale, e a conquistare almeno l’alfabetizzazione strumentale per il 95 per cento e quella pienamente funzionale (vedremo poi) per il 30 per cento. Mai erano stati raggiunti livelli così alti in tre mezzi secoli di storia patria.

“Se per strada incontro un mio collega lo saluto. Ma se incontro un insegnante mi fermo, mi cavo di capo il cappello e mi inchino”: così amava dire Guido Calogero nei lontani anni cinquanta e ne hanno conservato memoria quelli che lo hanno conosciuto e hanno condiviso con lui il confino come Carlo Azeglio Ciampi. E sapeva benissimo quante cose non funzionavano nella nostra scuola, come ha ricordato giorni fa Claudio Giunta.

Ma, interrompendo a tratti i suoi preziosi lavori specialistici di filosofo e di storico del pensiero antico e andando in giro per le scuole a conoscerne e capirne i problemi, aveva imparato quanto è duro, quanto è degno di riconoscenza e stima il lavoro di chi insegna. Voi cappelli non ne portate più, ma fermarvi e inchinarvi potreste e dovreste.

2. La Costituzione


C’è un secondo silenzio. Guardiamo con freddezza e distacco alle cose. Nel fare quel che ha fatto e fa, la scuola ha fatto e, tra tagli e insulti, continua a fare il dover suo, occorre dire. È un dovere costituzionale, le scuole non possono sottrarsi. L’insegnamento è libero, dice la Costituzione (articolo 33, primo comma), ma la scuola no, non è libera o lo è solo entro i paletti che la Costituzione ha fissato.

Diffidenti o preveggenti i costituenti stabilirono una serie di vincoli.

1.La scuola deve essere “aperta a tutti” (articolo 34 comma primo: la frase è di sei parole, brevissima, e starebbe bene sull’ingresso di tutte le scuole): Gianni e Deborah non ci piacciono, ma non possiamo cacciarli via.

2.La scuola deve essere anzitutto e comunque luogo di un’istruzione “obbligatoria e gratuita” “impartita per almeno otto anni” (articolo 34 comma secondo).

3.Di conseguenza nemmeno la repubblica può cantare sempre libera degg’io: severa, la Costituzione le dice che deve istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (articolo 33, comma secondo).

In altre parole istruirsi è sì un diritto soggettivo di cittadini e cittadine, ma “rendere effettivo questo diritto” non è una faccenda privata, è un dovere della e per la repubblica, che, vincendo i pianti dei ministri del tesoro, deve trovare i mezzi per consentirne l’esercizio (articolo 34, comma quarto).

Non bisogna essere esimi costituzionalisti per capire perché tanta attenzione per la scuola. La Costituzione è scritta con grande chiarezza (per questo ha perfino vinto un premio Strega). Proprio perché “aperta a tutti” e perché “obbligatoria per almeno otto anni” la scuola è l’unico luogo istituzionale in cui per forza devono ritrovarsi, almeno nei loro anni giovani, “tutti i cittadini (…)
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (articolo 3, comma primo). È qui, nella scuola, che la repubblica può adempiere al suo “compito” (questa parola fu pensata, scelta e confermata con cura dai costituenti): “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli (…) che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…) all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (articolo 3, comma secondo).

La scuola della repubblica è il luogo privilegiato per vincere le limitazioni della libertà e dell’eguaglianza, rimescolare le carte della stratificazione sociale, trasformare le diversità in ricchezza culturale comune, favorire lo sviluppo delle persone, costruire le premesse per l’effettiva partecipazione attiva alla vita del paese. Voi che mandate i figli all’American talent school non sapete che cosa gli fate perdere (o lo sapete ma non v’importa niente): la progressiva costruzione di una società di persone libere.

La scuola dunque, come vide Piero Calamandrei e tornarono poi a spiegare i ragazzi di Barbiana, non è un pezzo qualunque dello stato, ma è un “organo costituzionale”. È entro questi limiti che la repubblica “detta le norme generali sull’istruzione” (articolo 33, comma secondo). Buone norme per la scuola devono richiamarsi sempre alla sua natura di delicato, essenziale organo costituzionale. La “Buona scuola” ne tace. È il secondo, preoccupante silenzio. È un’omissione voluta? Oppure è una sciatteria, una dimenticanza non voluta “con l’aggravante della buona fede”, come diceva don Milani?

3. Il neoanafletismo


Terzo silenzio, infine. Almeno dagli anni ottanta, alcuni sospettavano che gli analfabeti in Italia non fossero solo quelli che si autocertificavano tali ai censimenti dell’Istat. Furono tentate stime. Poiché si accertava che il 20 per cento delle ragazze e dei ragazzi uscivano dalla scuola media con più o meno gravi difficoltà di accesso a testi scritti, si ipotizzò che questa percentuale potesse proiettarsi sulla popolazione adulta. L’ipotesi era ottimistica.

Oggi, dopo tre indagini osservative internazionali (fondate su osservazioni, non su autovalutazioni) sappiamo che in tutti i paesi ricchi e consumistici una parte consistente di popolazione, dopo avere raggiunto in età scolastica livelli anche eccellenti di competenza nella comprensione della lettura, nella scrittura, nel calcolo, nel ragionamento scientifico, in età adulta tende a dealfabetizzarsi. Quasi due anni fa Internazionale ha pubblicato l’essenziale di questi dati. In paesi con scuole eccellenti, come Giappone, Finlandia, Olanda la percentuale di persone adulte al di sotto dei livelli minimi necessari a capire un testo e a usare basilari concetti matematici e scientifici tocca quasi il 40 per cento. Tocca il 50 per cento in Corea del Sud, altro paese di buona scuola, buona davvero, supera la metà nel Regno Unito e Germania, arriva a toccare e superare il 60 per cento in Francia e Stati Uniti, raggiunge infine il 70 per cento in Spagna e Italia.

Fattore determinante non è evidentemente da sola la qualità della scuola, ma sono gli stili di vita che allontanano chi è uscito da scuola dalla voglia di tenersi informato, di ragionare, di partecipare in modo attivo alla vita sociale. E così le competenze acquisite a scuola si indeboliscono, si avvizziscono, perfino muoiono, Per l’Italia va osservato che, se si tengono presenti anche i dati sulla capacità di problem solving (uso delle conoscenze per risolvere problemi non routinari nelle singole discipline), la percentuale delle persone sotto i livelli minimi di competenza sale all’80 per cento.

Questa massa cospicua di neoanalfabeti interessa due volte la scuola ordinaria. Interessa una prima volta perché in qualche misura la scuola, specie quella media superiore, è complice della dealfabetizzazione adulta, nel senso che non riesce a fare abbastanza per garantire che i livelli buoni cui porta ragazze e ragazzi si fissino e durino nel tempo dell’età adulta e anziana. Cosa relativamente di poco peso di fronte al danno che la scuola riceve da questa massa.

Sappiamo bene da studi di ogni sorta e paese che il livello culturale delle famiglie incide in modo determinante sull’andamento degli apprendimenti scolastici dei ragazzi. Otto su dieci dei ragazzi e delle ragazze che la scuola si trova di fronte vengono da famiglie in cui non entrano libri e giornali e non si praticano collegamenti a banda larga con internet e Google.

Da decenni, in altri paesi, si sono sviluppati antidoti specifici: un’ampia offerta di corsi per l’istruzione degli adulti. In Italia siamo astralmente lontani da ciò. Una commissione nominata nel 2013 dai ministri Carrozza e Giovannini (istruzione e lavoro nel governo Letta) produsse nel febbraio 2014 un rapporto analitico su quel che scuole e imprese potevano e dovevano fare per contenere e ridurre la massa dei dealfabetizzati. Gli estensori dei testi renziani devono averlo considerato materiale da rottamare e fare stare sereno.

Male assai: proposte serie sulla scuola non possono mettere da parte quello che la scuola può e deve fare per l’istruzione degli adulti. Oltre tutto i renziani amano molto gli anglismi e l’espressione tecnica in uso per la cosa è life long learning, imparare per tutta la vita. Ma loro non l’hanno usata, e non per purismo: la sconoscono come si dice in Sicilia. Secondo norme già vigenti e secondo le analisi della commissione di cui s’è accennato sono le scuole il luogo deputato a far da centro a un sistema di life long learning e anche di continuum training, formazione continua. Esse possono e devono diventare “fabbriche della cultura”. Su tutto ciò silenzio tombale di Renzi e di quelli che omericamente si possono dire “quelli a lui d’intorno”.

Matteo Renzi pareva partito con buone intenzioni. La prima era ottima: aveva fatto capire che di scuola , del complesso della scuola, si sarebbe occupato in prima persona, quale capo del governo. Sembrava che avesse capito che così in effetti richiede la intricata complessità economica, amministrativa, culturale e politica della realtà scolastica di un grande paese sviluppato. Così, di conseguenza, nei maggiori paesi del mondo le grandi svolte delle politiche scolastiche ed educative sono gestite direttamente dai capi di governo o di stato.

Così invece non è stato nella tradizione italiana, dove, a parte casi isolati come quello di Giovanni Giolitti e lampi di interesse di Romano Prodi ai tempi del Prodi uno, si è creduto che le politiche scolastiche potessero esser lasciate ai ministri dell’istruzione. Questi però non hanno competenze e poteri rispetto a troppe facce del problema, a cominciare dai riassetti del bilancio dello stato necessari se davvero si vuole intervenire sul complesso della realtà educativa. Sono riassetti che comportano decisioni che può e deve prendere solo chi guida l’intera compagine governativa, non un singolo ministro, a meno che non abbia una delega in bianco come (ma solo per due anni) fece Mussolini con Giovanni Gentile.

4. Matteo Renzi
Matteo Renzi pareva deciso a innovare prendendo in mano lui stesso il gran groviglio educativo e l’intento era e resta in sé positivo. Il risultato per ora è molto insoddisfacente.

Una seconda buona intenzione manifestata all’inizio è stata insistere sulla natura solo parziale degli interventi che annunziava: non chiamatela riforma, ebbe a dire il presidente, sono solo singoli provvedimenti più immediatamente necessari, la riforma la faremo, ma verrà dopo. Invece e però da un certo punto in poi la buona intenzione è svanita e in comunicazioni governative, nei mezzi di informazione e infine nel testo consegnato al parlamento si è parlato di riforma, parola pesante che, a usarla correttamente, implica l’esistenza di un ripensamento adeguato e di una revisione radicale e complessiva di uno stato di cose.

Le buone intenzioni del capo del governo, svaporando, hanno infine portato il 27 marzo al disegno di legge presentato al parlamento dai tre ministri di settore, Giannini, Madia e Padoan. Le omissioni di cui si è detto qui sono pesanti. Se non saranno corrette prefigurano un tempo di dura lotta perché la nostra scuola continui a essere, secondo costituzione, la scuola della nostra repubblica.

Il modello di rapporto tra potere e società al quale si ispira l'Innovatore è vecchio di qualche secolo. Eccolo puntualmente descritto in un articolo tratto da

La tecnica della scuola, il quotidiano della scuola online, 8 maggio 2015

Nel lontano medioevo il re, i vassalli, i valvassori e i valvassini rappresentavano una precisa struttura piramidale utile a esercitare il potere dei potenti sul territorio. Il re nominava il vassallo come suo fedele rappresentante. Il vassallo diventava così il responsabile di un feudo acquisendo il diritto di goderne i frutti ed i benefici, in altre parole il comando delle terre, dei braccianti e dei castelli.
In cambio i vassalli garantivano piena obbedienza al loro Re. I vassalli a loro volta potevano nominare i valvassori, altri nobili di rango inferiore, che diventavano loro fedeli e gestivano parte dei possedimenti. Il valvassore (etimologicamente, dal latino: vassus vassorum) era quindi un vassallo non direttamente dipendente dal sovrano ma da un altro vassallo. Infine c'erano i valvassini, ultimo gradino della piramide, scelti dai valvassori che potevano ancora suddividere ed investire altri nobili di rango più basso. Questa ragnatela di potere permetteva di controllare il territorio e di padroneggiare la servitù della gleba. Nella scuola di oggi pare esistere la stessa struttura piramidale.

Il Re che decide di annunciare riforme che impattano sull'impegno lavorativo dei docenti, i vassalli che cercano di far apparire il cambiamento delle regole come unica soluzione per uscire dalla situazione di stallo organizzativo in cui si trova la scuola, i valvassori di rango inferiore che dicono: "Io sto con il Re" e infine i valvassini che dicono: "Io sto con il valvassore".

Questo potere vorrebbe far sfumare le proteste della servitù della gleba, ovvero di quella docenza che non conta, ma deve solo ubbidire e possibilmente non fiatare, perché indebolire l'immagine del Re non fa bene a quell'Europa sempre prodiga nel chiedere sacrifici e austerità.

Ma nel Medioevo non esistevano i sindacati capaci di fare immediata opposizione costruttiva, come ad esempio la Gilda di Rino Di Meglio, e soprattutto non esisteva il web, luogo di vera condivisione di idee per una servitù della gleba 2.0, che con un solo clic può mettere in discussione qualsiasi struttura piramidale.

Con la nuova legge elettorale sembra concludersi il ciclo di distruzione della democrazia in nome della governabilità, iniziato sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso. Ultima speranza istituzionale, la Corte costituzionale: prima che il tiranno riesca a cambiarla. Articoli di AndreaFabozzi e Alfio Mastropaolo. Il manifesto, 7 maggio 2015

MATTARELLA FIRMA DOPO RENZI
di Andrea Fabozzi,
Promulgata la nuova legge elettorale. Il capo del governo anticipa il capo dello stato. Entrambi i presidenti diffondono via twitter l’annuncio. Palazzo Chigi aggiunge una dedica entusiasta
Mat­teo Renzi ha fir­mato alle nove del mat­tino, Ser­gio Mat­ta­rella nel pome­rig­gio. Entrambi i pre­si­denti hanno imme­dia­ta­mente dif­fuso la noti­zia via twit­ter, ma il pre­si­dente del Con­si­glio ha aggiunto una foto — la mano destra con la biro, il foglio fer­mato con l’indice della sini­stra — e una dedica: «A tutti quelli che ci hanno cre­duto, quando era­vamo in pochi a farlo». Delle due firme quella impre­vi­sta è la prima, quella di Renzi. Ha anti­ci­pato il pre­si­dente della Repub­blica, quando è noto che il capo del governo deve con­tro­fir­mare le leggi una volta pro­mul­gate dal capo dello stato. La for­mula che si intra­vede sul foglio twit­tato da Renzi è la clas­sica che accom­pa­gna la pub­bli­ca­zione in Gaz­zetta Uffi­ciale — «La pre­sente legge, munita del sigillo dello stato, sarà inse­rita nella Rac­colta uffi­ciale degli atti nor­ma­tivi…» — ma la firma di Mat­ta­rella ancora non c’era. È arri­vata, ine­vi­ta­bil­mente, poco dopo.

Il pre­si­dente della Repub­blica non ha accom­pa­gnato la pro­mul­ga­zione con un breve mes­sag­gio, al modo in cui qual­che volta aveva fatto Gior­gio Napo­li­tano, così smen­tendo quanti ave­vano pre­vi­sto qual­che parola dal Colle sul neces­sa­rio col­le­ga­mento dell’Italicum alla riforma costi­tu­zio­nale. La legge che il par­la­mento ha man­dato al pre­si­dente si sarebbe pre­stata a qual­che osser­va­zione, visto che è pre­vi­sto che resti sospesa per oltre un anno (fino al luglio 2016). La Corte costi­tu­zio­nale (con il voto dello stesso Mat­ta­rella) anche nella sen­tenza del 2014 che ha abbat­tuto il Por­cel­lum aveva ricor­dato come il paese non può restare un solo giorno senza una legge elet­to­rale appli­ca­bile. Eppure il par­la­mento scri­ven­done una nuova ha deciso di lasciarla tra paren­tesi. E non si è pre­oc­cu­pato nem­meno di fare gli inter­venti neces­sari a ren­dere appli­ca­bile da subito il Con­sul­tel­lum, cioè il sistema resi­duato dalla sen­tenza della Corte (e dalla Corte stessa pre­vi­sti). La sospen­sione, infine, è addi­rit­tura senza limite per il senato, posto che l’Italicum vale per la sola camera e il sistema è desti­nato a restare incom­pleto fino a che non sarà abo­lito il senato elet­tivo. Su tutto que­sto Mat­ta­rella non ha rite­nuto di pre­ci­sare nulla.

Il pre­si­dente non ha avuto alcuna osser­va­zione da fare nean­che sulle più volte sol­le­vate que­stioni di inco­sti­tu­zio­na­lità della legge, ma in que­sto secondo caso si tratta di una scelta assai più pre­ve­di­bile e com­pren­si­bile alla luce delle pre­ro­ga­tive del capo dello stato. È invece pro­prio su que­sto, cioè sul non aver rifiu­tato del tutto la firma, chie­dendo alle camere una nuova deli­be­ra­zione, che il Movi­mento 5 Stelle ha preso imme­dia­ta­mente — e pesan­te­mente — ad attac­care il pre­si­dente della Repub­blica, al quale pure si era rivolto con grandi spe­ranze nell’ultimo inter­vento alla camera prima del voto finale. Men­tre dal pre­de­ces­sore di Mat­ta­rella, Gior­gio Napo­li­tano, è arri­vato un pre­ve­di­bile mes­sag­gio di con­senso: «È un rag­giun­gi­mento impor­tante, era ine­vi­ta­bile appro­vare l’Italicum che del resto non è arri­vato in un mese ma in oltre un anno».

Sono pas­sati in realtà tre mesi scarsi da quando il testo della legge elet­to­rale è stato cri­stal­liz­zato in senato, imme­dia­ta­mente prima dell’elezione di Mat­ta­rella. Nulla è cam­biato da allora, il pre­si­dente lo cono­sce bene e dun­que non ha senso giu­di­care «rapida» la sua firma, arri­vata il giorno stesso in cui la legge è uffi­cial­mente appro­data sulla sua scri­va­nia. Dieci anni fa Carlo Aze­glio Ciampi lasciò tra­scor­rere otto giorni prima di pro­mul­gare il Por­cel­lum, ci pensò bene, ma la legge fu ugual­mente giu­di­cata inco­sti­tu­zio­nale dalla Con­sulta, molti anni più tardi.

In attesa dei giu­dici della Corte Costi­tu­zio­nale davanti ai quali sarà cer­ta­mente por­tata (prima o poi) anche que­sta legge elet­to­rale, si sono fatte sen­tire le agen­zie inter­na­zio­nali di rating. Fitch ha scritto che l’approvazione dell’Italicum «nel medio ter­mine raf­for­zerà il pro­filo di cre­dito del paese ridu­cendo i rischi poli­tici che gra­vano sulle poli­ti­che eco­no­mi­che e di bilan­cio». Men­tre secondo il Finan­cial Times con la nuova legge elet­to­rale si mette fine all’«ossessivo sistema di pesi e con­trap­pesi che ha rego­lar­mente pro­dotto coa­li­zioni di governo insta­bili» e si «accre­sce la forza dell’esecutivo». Forse per­sino troppo: One worry is that it may place too much power in the hands of the executive

LA DEMOCRAZIA «NORMALE»

di Alfio Mastropaolo

L’esecutivo decide, il parlamento finge di controllare, ma registra, la popolazione si adegua. Non tutta: quella piccola parte che paga, detta le sue condizioni

Stiamo final­mente diven­tando una demo­cra­zia “nor­male”. Cioè una demo­cra­zia in cui l’esecutivo decide, il par­la­mento finge di con­trol­lare, ma regi­stra, la popo­la­zione si ade­gua. Se non è con­tenta, cam­bierà governo alle pros­sime elezioni.

Non tutta la popo­la­zione si ade­gua. In realtà c’è una pic­cola parte che detta all’esecutivo le sue con­di­zioni. Le detta, forte del fatto che è lei a soste­nere i mostruosi costi delle cam­pa­gne di per­sua­sione elet­to­rale. Con l’abolizione del finan­zia­mento pub­blico della poli­tica li sosterrà ancor di più. E quindi det­terà con­di­zioni ancor più strin­genti. Pos­siamo senza fatica fare ipo­tesi su quali poli­ti­che attuerà l’esecutivo. Di destra o di sini­stra che sia, o che si dica, le dif­fe­renze sta­ranno nei par­ti­co­lari, non irri­le­vanti, ma sem­pre par­ti­co­lari. L’essenziale delle scelte poli­ti­che lo deci­derà chi paga. E poi­ché, dato lo stato del nostro sistema impren­di­to­riale, a pagare saranno soprat­tutto imprese stra­niere, la pres­sione inter­na­zio­nale si accen­tuerà ulte­rior­mente. Si ade­guerà il grosso della popo­la­zione, ma si ade­guerà l’intero paese. Desti­nato a diven­tare sem­pre più mar­gi­nale e sot­to­messo nella divi­sione del lavoro planetaria.

Abbiamo già avuto qual­che avvi­sa­glia del destino che ci aspetta. Ma finora ser­vi­vano le peren­to­rie impo­si­zioni di Bru­xel­les e Fran­co­forte. D’ora il poi basterà loro sol­le­vare un soprac­ci­glio. La cupi­di­gia di ser­vi­li­smo è iper­tro­fica nelle classi diri­genti ita­liane. Ciò lascia pen­sare che riu­sci­ranno per­fino a pre­ve­nirle. Resterà qual­che pic­colo osta­colo, come la Corte costi­tu­zio­nale. Ma non durerà troppo a lungo. I giu­dici pas­sano, d’ora in poi li sce­glierà l’esecutivo, in com­butta con un’opposizione che sarà il suo dop­pio, e i giu­ri­sti pronti a met­tersi a ser­vi­zio sono una folla. Le sen­tenze capric­ciose e imba­raz­zanti come l’ultima sulle pen­sioni potremo scordarcele.

Sarebbe inge­nuo attri­buire la respon­sa­bi­lità — o il merito — di que­sta infau­sta nor­ma­liz­za­zione a Renzi. Renzi e la sua lea­der­ship sono figlie delle cir­co­stanze, lui ha pro­fit­tato delle cir­co­stanze favo­re­voli e ha ope­rato coe­ren­te­mente con la sua cul­tura, ma la nor­ma­liz­za­zione arriva da lon­tano. È dai primi anni 80 che poli­tici e intel­let­tuali per­se­guono que­sto dise­gno con grande deter­mi­na­zione. Con le parole e coi fatti. Qual­cuno si dichiara al momento insod­di­sfatto. In effetti c’è ragione per discu­tere sulla totale rimo­zione di ogni garan­zia che si veri­fi­cherà una volta con­clusa la para­bola delle riforme ren­ziane. Ma si tratta di det­ta­gli. La sma­nia di deci­sio­ni­smo sovra­sta que­sti det­ta­gli ed è molto antica.

Qual­cuno di coloro che sma­niano da quasi mezzo secolo dirà che la demo­cra­zia dei par­titi era alla para­lisi. Ma a que­sto argo­mento si può repli­care che quel modello demo­cra­tico si poteva ade­guarlo senza stra­vol­gerlo. E che le dosi mas­sicce di deci­sio­ni­smo già iniet­tate nel nostro regime demo­cra­tico hanno pro­dotto solo effetti disa­strosi. Così come non bril­lanti sono i risul­tati con­se­guiti dalle demo­cra­zie nor­mali che stanno intorno a noi. Così poco bril­lanti da met­ter in dub­bio l’idea stessa di nor­ma­liz­za­zione. La quale sicu­ra­mente con­viene ad alcuni — i poten­tati economico-finanziari — ma non alla mag­gio­ranza della popolazione.

Il signi­fi­cato della parola demo­cra­zia è incerto. O con­tro­verso. Dac­ché i regimi demo­cra­tici hanno sosti­tuito quelli libe­rali è comin­ciata una guerra per cir­co­scri­verlo è che ha avuto suc­cesso. Demo­cra­zia, si dice, è il suf­fra­gio uni­ver­sale, le libere ele­zioni, la con­cor­renza tra i par­titi. Il resto avanza. Nes­sun dub­bio che que­ste cose ci stiano. Ma la demo­cra­zia e il suf­fra­gio uni­ver­sale li si era voluti pro­prio per can­cel­lare il pri­vi­le­gio delle oli­gar­chie libe­rali e per fina­liz­zare in maniera più egua­li­ta­ria l’azione di governo. Ebbene, le demo­cra­zie sono state svuo­tate e siamo tor­nati indie­tro di oltre un secolo. In nome della demo­cra­zia nor­male.

Che farà il grosso della popo­la­zione, che è a ben vedere gros­sis­simo, come la crisi ha dimo­strato? Un esito certo è la cre­scita dell’astensione. La fru­stra­zione aumen­terà la sfi­du­cia. Gli imbe­cilli diranno che capita ovun­que ed è quindi nor­male. Cre­sce­ranno anche i sen­ti­menti di rivalsa, la cui mani­fe­sta­zione più evi­dente è il raz­zi­smo. Con que­sto sistema elet­to­rale - la Fran­cia inse­gna - il rischio che un par­tito raz­zi­sta, quan­tun­que mino­ri­ta­rio, vinca le ele­zioni, è piut­to­sto alto.

Vedremo. C’è però una terza pos­si­bi­lità. Che il grosso della popo­la­zione si ribelli. Che intenda che la demo­cra­zia nor­male serve a fre­gare ulte­rior­mente i gio­vani, gli ope­rai, gli impie­gati, gli inse­gnati, se l’è già presa coi pro­prie­tari di case e pre­sto se la pren­derà con gli avvo­cati, i pro­fes­sio­ni­sti e quant’altri. Il capi­ta­li­smo finan­zia­rio se ne infi­schia di tutti. Punta a pel­le­gri­nare infor­ma­ti­ca­mente per il pia­neta, per spe­cu­lare dove meglio con­viene. Bassi con­sumi per i più, cibo di qua­lità sca­dente e con­sumi di lusso per le vedette dello spettacolo.

Di con­tro, se que­sta por­zione lar­ghis­sima di società non cadesse nella trap­pola della guerra tra poveri e si met­tesse insieme, sarebbe un modo di difen­dersi. Biso­gna ridursi come la Gre­cia per capirlo? È vero che la Gre­cia non rie­sce a sot­trarsi ai suoi spie­tati aguz­zini. Ma è vero anche che se la Gre­cia non fosse sola, se la lotta con­tro la demo­cra­zia nor­male e il capi­ta­li­smo di rapina si allar­gasse, la par­tita si riaprirebbe

La dura critica al progetto Renzi da un costituzionalista d'ispirazione liberale. «La governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla».

Corriere della Sera, 30 aprile 2015

Più che la fiducia, ormai serve la fede. Un atto religioso, non politico. Un giuramento, non un voto. Ieri il governo ha chiesto (e ottenuto) la fiducia dai parlamentari; ma è come se l’avesse chiesta a tutti gli italiani, separando gli infedeli dai fedeli. È infatti questo il retroscritto della legge elettorale: non ne cambio più una virgola, nemmeno quella falsa clausola di salvaguardia che desterà non pochi grattacapi a Mattarella quando dovrà metterci una firma. Non lo faccio perché l’Italicum è già il meglio, perché non si può migliorare il meglio. E voi dovete crederci.

Noi crediamo alle buone intenzioni del presidente del Consiglio. Ne ammiriamo l’energia, ne appoggiamo il progetto d’innovare norme e procedure. Ma quando l’impeto riformatore investe le stesse istituzioni occorre la ragione, non la fede. E il costituzionalismo alleva una ragione scettica, diffidente nei confronti del potere. Perché ha esperienza dell’abuso, sa che l’uomo troppo potente diventa prepotente. Non sarà il caso di Renzi, ma può ben esserlo di chi verrà dopo di lui. D’altronde le regole del gioco durano più dei giocatori.

Da qui il primo dubbio che ci impedisce d’ingoiare l’ostia consacrata. L’Italicum determina l’elezione diretta del premier, consegnandogli una maggioranza chiavi in mano. Introduce perciò una grande riforma della Costituzione, più grandiosa e più riformatrice di quella avviata per correggere le attribuzioni del Senato. Ma lo fa con legge ordinaria, anziché con legge costituzionale . L’ avessero saputo, i nostri costituenti sarebbero saltati sulla sedia. Loro non volevano questa forma di governo, e infatti ne hanno stabilita un’altra.
Dunque l’Italicum stride con la Costituzione vecchia, ma pure con la nuova. Perché quest’ultima toglie al Senato il potere di fiducia, e toglie dunque un contrappeso rispetto al sovrappeso dell’esecutivo. Mentre a sua volta dimagrisce il peso dell’opposizione: con una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento, in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Eppure basterebbe poco per trasformare i vizi in altrettante virtù. Alzando la soglia dal 3 al 5 per cento, come avviene in Germania. Distribuendo il premio fra tutti gli alleati, o meglio fra i partiti coalizzati che abbiano superato quella soglia minima, per evitare che in futuro si ripeta quanto sperimentò Prodi con Mastella. Rendendo obbligatorio il ballottaggio se nessuno conquista il 45 (non il 40) per cento dei consensi, in modo che il bonus di maggioranza lo decidano sempre gli elettori, anziché il legislatore. E magari aggiungendo un bonus di minoranza, in premio al secondo partito. Come del resto succede in Champions League, dove accedono le prime due del campionato. Ne otterremmo in cambio un’opposizione più forte, non un governo più debole. Nessuno di questi correttivi demolirebbe l’impianto dell’Italicum. Il presidente del Consiglio tuttavia li ha rifiutati, declamando una parola magica: governabilità. Sta a cuore anche a noi, rendere il sistema più efficiente.
Ma la governabilità dipende dalla politica, non dalla matematica. Non basta trasformare i deputati in soldatini, e non basta un deputato in più per conseguirla. La governabilità dei numeri - su cui insiste, per esempio, D’Alimonte - è una formula rozza, oltre che fallace. Quest’ultima deriva viceversa dalla legittimazione dei governi, dunque da regole legittime e da politiche condivise. Altrimenti divamperà l’incendio, sicché a Palazzo Chigi avremo bisogno d’un pompiere. Come disse Leonardo Sciascia in Parlamento (5 agosto 1979): «governabilità nel senso di un’idea del governare, di una vita morale del governare». Ma Sciascia è morto, e neanche noi stiamo troppo bene.

I francesi sono appena andati al voto per il rinnovo dei Dipartimenti e tutti l'abbiamo considerato non solo un importante test politico, ma anche una prova di democrazia di quel Paese. Peccato che nessuno abbia fatto notare che da noi l'equivalente istituzione delle Province si è vista sottrarre questa possibilità.
Ma loro non hanno le Regioni, mi sono detto: non è vero. La Francia ha 22 Regioni elette a suffragio universale ogni 6 anni. Ma almeno non avranno il Senato: sbagliato. Anche se eletto da 150.000 grandi elettori e non vota la fiducia al governo, perché una legge sia promulgata, essa deve essere approvata da entrambe le camere.

E negli Stati Uniti, modello di democrazia occidentale? Il Senato condivide con la Camera dei Rappresentanti il potere legislativo i senatori possono presentare proposte di legge; non possono però proporre leggi tributarie (questa funzione spetta in esclusiva ai rappresentanti), anche se possono modificarle senza limitazioni. Ciascuna proposta, per divenire legge, deve essere esaminata e approvata da entrambe le camere e il Senato possiede anche alcuni poteri esclusivi, tra cui la ratifica dei trattati internazionali e l'approvazione delle nomine di molti funzionari e dei giudici federali.
Non mi pare che il problema principale su cui si misura l'efficienza e la democrazia di questi due Paesi sia il cambiamento di questi sistemi istituzionali ed elettorali: Renzi crede davvero che quello da lui delineato costituirà un loro modello di orientamento?

«Stato di crisi» di Carlo Bordoni e Zygmunt Bauman, per Einaudi. L’impoverimento e le disuguaglianze sociali hanno evidenziato l’implosione di un modello economico. L'Ue è il laboratorio dove sperimentare, in più occasioni, le varie politiche legate all’austerity».

Il manifesto, 31 marzo 2015

Un dia­logo dove uno dei par­te­ci­panti incalza l’altro, il quale si sot­trae e spinge la discus­sione su altri binari. E quando la parola torna al primo, quest’ultimo non può che ripren­dere il ban­dolo della matassa e cer­care di rites­sere le fila di una discus­sione che corre il rischio annul­larsi in una serie di mono­lo­ghi. La forma del dia­logo per affron­tare un tema è antica, la si trova nella filo­so­fia greca, ma anche in testi sacri, com­preso il vec­chio testa­mento. La sua effi­ca­cia dipende dal tema pre­scelto e dalla volontà dei pro­ta­go­ni­sti del dia­logo di misu­rarsi con punti di vista che non sem­pre coin­ci­dono. Nel caso di Stato di crisi (Einaudi, pp. 198, euro 18) è però evi­dente che Zyg­munt Bau­man e Carlo Bor­doni sono più che dispo­ni­bili a misu­rarsi con le tesi che ven­gono espresse.

Carlo Bor­doni è un socio­logo che stu­dia da tempo la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee. Ha deli­neato la deriva cul­tu­rale verso un indi­vi­dua­li­smo pro­prie­ta­rio, sot­to­li­neando i tratti di nichi­li­smo, nar­ci­si­smo che emer­gono quando una mol­ti­tu­dine – una som­ma­to­ria gene­rica di sin­goli di sin­goli, per Bor­doni — prende il posto delle classi sociali. Zyg­munt Bau­man è invece il teo­rico della moder­nità liquida.

In que­sto libro svolge il ruolo del sag­gio stu­dioso che, alla luce della sua espe­rienza, è poco incline a fare pro­prie sug­ge­stioni teo­ri­che che il sistema dei media porta alla ribalta. Misura le parole, quasi volesse sug­ge­rire al suo inter­lo­cu­tore che la crisi, il tema attorno al quale ruota il loro dia­logo, costringa a misu­rarsi pro­prio con la moder­nità, i suoi punti di forza, ma anche i vicoli cie­chi che l’hanno carat­te­riz­zata. Segnala, infatti, che in nome delle pro­messe degli esordi — libertà, benes­sere per tutti — sono state erette pri­gioni e costruiti campi di lavoro. E che per ren­dere ope­ra­tiva almeno una di quelle pro­messe, il benes­sere della nazione, sono stati indi­vi­duati dei nemici e pia­ni­fi­cato il loro ster­mi­nio. Per que­sto invita più volte a dotarsi di bus­sole che orien­tino con chia­rezza la mar­cia da intra­pren­dere nell’interregno che separa il pre­sente e un futuro che in molti vedono negato dalle poli­ti­che del neo­li­be­ra­li­smo e che altri temono come la peste, per­ché con­vinti che non potrà che peg­gio­rare le loro con­di­zioni di vita. A tale richie­sta di cau­tela pro­gram­ma­tica Bor­doni ade­ri­sce, ma più volte mette nero su bianco che — rispetto le sfide poste dalla situa­zione di crisi eco­no­mica — vanno imma­gi­nate anche rispo­ste politiche.

Legit­ti­mità perduta

Il titolo del libro in que­stione chia­ri­sce tut­ta­via quale sia il timore di Carlo Bor­doni. Lo Stato di crisi attorno al quale discu­tono i due stu­diosi non si rife­ri­sce solo alla crisi che dal 2007 in poi ha get­tato nel panico e nel lastrico milioni di per­sone. L’impoverimento, la disoc­cu­pa­zione di massa, l’aumento espo­nen­ziale delle disu­gua­glianze sociali hanno reso evi­dente l’implosione di un modello eco­no­mico e sociale che era stato impo­sto per­ché il pre­ce­dente mostrava evi­denti segni di logo­ra­mento; per que­sto si è impo­sta la con­vin­zione che ha avuto la capa­cità di costruire un forte e niente affatto effi­mero con­senso, di rimuo­vere, con le buone ma anche con le cat­tive, i vin­coli posti dal cosid­detto regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­stica fordista.

Sono ormai pas­sati trent’anni da quando alcuni lea­der poli­tici (Mar­ga­ret That­cher e Ronald Rea­gan) e un nutrito gruppo di eco­no­mi­sti invi­ta­vano con voce sua­dente a lasciare liberi gli spi­riti ani­mali del mer­cato per­ché — così facendo — tutto sarebbe andato per il meglio. Le cose non sono andate per niente bene, ma l’idea che il libero mer­cato fosse il miglior modo di pen­sare e di far fun­zio­nare l’economia è stata egemone.

Non è sem­pre con­vin­cente la gene­ra­liz­za­zione che i due autori fanno, spe­cial­mente quando met­tono in secondo piano il fatto che il neo­li­be­ri­smo ha modi­fi­cato a favore delle imprese, e del capi­tale, i rap­porti di forza. Le posi­zioni di Bau­man e Bor­doni col­gono però il segno quando sot­to­li­neano che, con la crisi, il neo­li­be­ri­smo, ha perso con­senso e legit­ti­mità, anche se non si capi­sce con chia­rezza quale sia il modo di pro­durre che possa far ripar­tire la loco­mo­tiva dell’economia mondiale.

Il neo­li­be­ri­smo, infatti, ha costi­tuito una discon­ti­nuità rispetto al pas­sato. Dif­fi­cile ripro­porre un ritorno al wel­fare state su base nazio­nale, viste le inter­di­pen­denze che carat­te­riz­zano l’economia mon­diale. Un modo per sbro­gliare la matassa potrebbe par­tire però dall’analisi di come ha col­pito la crisi. Sono cre­sciute le disu­gua­glianze nel capi­ta­li­smo euro­peo e sta­tu­ni­tense; i diritti di cit­ta­di­nanza sono diven­tati merci da acqui­stare sul mer­cato dei ser­vizi sociali; la pre­ca­rietà è diven­tata l’alfa e l’omega nei rap­porti di lavoro.

Cose note, meno evi­dente è invece il fatto che sono state defi­nite vie d’uscita dalla crisi del neo­li­be­ri­smo all’interno dello stessa regime di accu­mu­la­zione. L’Unione euro­pea è, da que­sto punto di vista, un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di uscita dalla crisi attra­verso le poli­ti­che di auste­rity.
Ad altre lati­tu­dini, sono ope­ra­tive solu­zioni che, sem­pre in nome del libero mer­cato, vedono lo stato svol­gere, attra­verso un governo gestito con mano ferma di un par­tito comu­ni­sta, una dut­tile e comun­que evi­dente fun­zione pia­ni­fi­ca­trice. Non è tut­ta­via que­sto che i due autori vogliono indagare.

Un futuro da ricreare

Il libro oscilla dalla volontà di offrire una foto­gra­fia non sfo­cata della realtà con­tem­po­ra­nea e l’ambizione di costruire una vera e pro­pria capa­cità inter­pre­ta­tiva dello stato di crisi, appunto, che nelle pagine di que­sto libro ha molto a che fare con la crisi della modernità.
E se Bau­man pre­fe­ri­sce, come è noto, par­lare di moder­nità liquida, Bor­doni avanza il sospetto che più di fine della moder­nità si debba par­lare di una sorta di venir meno di un intera costel­la­zione cul­tu­rale, poli­tica e eco­no­mica basata sul l’idea di pro­gresso, dove il futuro non poteva essere che migliore del pas­sato.

Ele­mento cen­trale della sua rifles­sione è appunto la «demas­si­fi­ca­zione» delle società con­tem­po­ra­nee: pro­spet­tiva ana­li­tica che il socio­logo polacco inqua­dra però come un ele­mento pro­prio della moder­nità, che al sem­pre messo al cen­tro il sin­golo, che poteva certo atten­dere per con­se­guire i suoi obiet­tivi, ma era con­sa­pe­vole che tutti gli sforzi erano fina­liz­zati alla sua feli­cità.

La parola chiave, magica del libro è dun­que inter­re­gno, cioè di una tran­si­zione da un modo di pro­du­zione all’altro. Quel che però è assente dal libro che la crisi, cioè lo stare pro­prio in un inter­re­gno, è una con­di­zione non con­giun­tu­rale, ma sta­bile del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo. In altri ter­mini, l’interregno sarà la realtà «sta­bile» della vita asso­ciata. E che in que­sto inter­re­gno si defi­ni­ranno poli­ti­che sociali e eco­no­mi­che per gestire una realtà che ha sì messo in qua­ran­tena l’idea di pro­gresso, ma senza rinun­ciare a defi­nire le regole bron­zee del capi­ta­li­smo nella pro­du­zione della ricchezza.

C’è sem­pre un però da met­tere in campo: che la crisi, così come vivere nell’interregno, diventi una pos­si­bi­lità per affer­mare quel ren­dere realtà un bino­mio che ha accom­pa­gnato la moder­nità: cioè quella pos­si­bi­lità di vivere insieme, ma da liberi e eguali.

«Un’intervista con lo studioso inglese, ospite della 'Biennale Democrazia' di Torino. La necessità di una puntuale critica al potere dei giganti e di una complementare capacità innovativa della sinistra europea».

Il manifesto, 26 marzo 2015

Colin Crouch appar­tiene alla esi­gua, ma auto­re­vole schiera di eco­no­mi­sti, filo­sofi, socio­logi «rifor­mi­sti» che, rima­nendo fedeli alle loro con­vin­zioni, sono ormai indi­cati, dai media main­stream, come teo­rici radi­cali. Ne fanno parte stu­diosi come Richard Sen­nett, Zyg­munt Bau­man, Ales­san­dro Piz­zorno e Luciano Gal­lino. Negli anni tutti loro si sono appli­cati ad inda­gare le tra­sfor­ma­zioni del mondo del lavoro o il venir meno di quelle iden­tità col­let­tive che hanno carat­te­riz­zato il Nove­cento. Si sono appli­cati al loro spe­ci­fico campo disci­pli­nare, regi­strando le con­ti­nuità e le discon­ti­nuità nello svi­luppo capi­ta­li­stico. Non hanno mai nasco­sto la con­vin­zione che l’economia di mer­cato potesse con­ti­nuare a pro­spe­rare solo in pre­senza di robu­sti, sep­pur fles­si­bili diritti sociali di cit­ta­di­nanza che garan­tis­sero una «ragio­ne­vole» redi­stri­bu­zione della ricchezza.

Crouch è inol­tre lo stu­dioso che ha, come gli altri, indi­vi­duato nel wel­fare state il punto più avan­zato rag­giunto durante «il secolo social­de­mo­cra­tico», per usare un’espressione coniata da Ralph Daren­d­horf, altra figura chiave di que­sta cul­tura poli­tica demo­cra­tica euro­pea. Non un «radi­cale» dun­que, anche se i suoi ultimi studi - Il potere dei giganti e Post­de­mo­cra­zia, entrambi pub­bli­cati da Laterza - sono stati con­si­de­rati una cor­ro­siva cri­tica del neo­li­be­ri­smo. Colin Crouch sarà ospite della «Bien­nale Democrazia».

Sono anni che la discus­sione sulla demo­cra­zia occupa un posto rile­vante nella rifles­sione di filo­sofi, eco­no­mi­sti, socio­logi. Lei ha scritto dif­fu­sa­mente di regimi poli­tici post­de­mo­cra­tici, carat­te­riz­zati da un para­dosso: in essi sono vigenti tutti i diritti civili e poli­tici acqui­sita dalla moder­nità, ma i cen­tri deci­sio­nali sono carat­te­riz­zati da logi­che che dif­fi­cil­mente pos­sono essere sot­to­po­ste al con­trollo dei cit­ta­dini. Stiamo cioè assi­stendo a una cam­bia­mento della forma-stato. Può spie­gare cosa intende per postdemocrazia?

«Si, viviamo una situa­zione para­dos­sale, come lei sug­ge­ri­sce. Oltre che un para­dosso, i regimi poli­tici euro­pei e sta­tu­ni­tense sono una forma di atro­fia della demo­cra­zia. La glo­ba­liz­za­zione lo rende evi­dente, così come rende mani­fe­sto il fatto che la demo­cra­zia (che rimane prin­ci­pal­mente nazio­nale) cessa di esi­stere sulla soglia dei posti dove si pren­dono le deci­sioni più impor­tanti sull’economia. Il declino delle iden­tità di classe e della reli­gione, ele­menti fon­da­men­tale nella defi­ni­zione delle iden­tità poli­ti­che nei primi decenni dei pro­cessi di demo­cra­tiz­za­zione, priva gli elet­tori di legami con il mondo poli­tico. Ma anche i par­titi poli­tici ormai si sen­tono lon­tani dalla popo­la­zione e usano i metodi del «mar­ke­ting» come sur­ro­gato dei legami venuti meno con chi dovreb­bero rappresentare. La cat­tura dell’attenzione creata dal mar­ke­ting poli­tico crea però legami arti­fi­ciali, con­tin­genti; e dun­que non con­vin­centi. La cre­scita della dise­gua­glianza rende infine molto più facile che le élite e le grandi imprese con­trol­lino la poli­tica. Que­sto com­porta una tra­sfor­ma­zione della forma dello stato. Ciò che stiamo assi­stendo è la for­ma­zione di uno stato post-feudale sal­da­mente nelle mani della nuova ari­sto­cra­zia delle grandi imprese. Uno stato, tut­ta­via, che ha una legit­ti­ma­zione demo­cra­tica. Alle élite non serve quindi più una dit­ta­tura per eser­ci­tare il potere.

Paral­le­la­mente alla discus­sione della demo­cra­zia, c’è quella sul «depe­ri­mento» dello stato-nazione, vista la ces­sione di sovra­nità ad orga­ni­smi sovra­na­zio­nali, come l’Unione euro­pea, il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale, il Wto o la Banca mon­diale. Eppure assi­stiamo a una super­fe­ta­zione dell’intervento sta­tale in ter­mini di norme ammi­ni­stra­tive che rego­lano la vita dei sin­goli. In Inghil­terra, ciò è stato qua­li­fi­cato come «poli­tica della vita». Da una parte dun­que, per­dita della sovra­nità, dall’altra aumento delle sfere di inter­vento dello Stato. Come vede lei que­sta situazione?

Il "depe­ri­mento" dello stato-nazione è sotto gli occhi di tutti. Per me, però, le cose sono com­plesse. Alla luce della glo­ba­liz­za­zione, un feno­meno che ritengo posi­tivo, abbiamo biso­gno di tra­scen­dere lo stato-nazione, per­ché è un modo di orga­niz­zare e gestire la vita pub­blica ina­de­guato rispetto i com­piti poli­tici che abbiamo di fronte. Abbiamo biso­gno di que­ste isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali. Più che abo­lirle dob­biamo però lavo­rare a una loro demo­cra­tiz­za­zione. Que­sto vale anche per l’Unione Euro­pea. Per quanto riguarda l’Europa siamo di fronte a un caso direcu­ler pour mieux sau­ter, come dicono i fran­cesi, cioè di arre­trare un po’ per meglio com­piere un balzo in avanti. È infine vero che la poli­tica nazio­nale ormai si inte­ressa, forse troppo, delle pic­cole cose, in una miscela di super­fe­ta­zione degli inter­venti sulla vita dei sin­goli e inca­pa­cità di fron­teg­giare i pro­blemi deri­vanti dalla globalizzazione».

L’Europa poli­tica e sociale è l’oggetto del desi­de­rio del rifor­mi­smo social­de­mo­cra­tico euro­peo. Tut­ta­via, l’Europa sem­bra essere un labo­ra­to­rio sociale e poli­tico di un neo­li­be­ri­smo in crisi, certo, ma ancora abba­stanza forte da defi­nire dra­co­niane poli­ti­che di auste­rità. Cosa nel pensa della situa­zione europea?

C’è stata sem­pre una ten­sione nella poli­tica euro­pea tra il neo­li­be­ra­li­smo e una poli­tica sociale, con una ege­mo­nia del primo aspetto. D’altronde non pos­siamo dimen­ti­care che il pro­getto ini­ziale era di fare un mer­cato comune. Ma la «mer­ca­tiz­za­zione», ben­ché porta alcuni van­taggi, pro­duce danni sociali. Da que­sto punto di vista la defi­ni­zione di poli­ti­che sociali è indi­spen­sa­bile per ripa­rare i «danni» pro­dotti dalle poli­ti­che neo­li­be­rali. Per sin­te­tiz­zare: più si dif­fonde la «mer­ca­tiz­za­zione», più deve cre­scere l’impegno per svi­lup­pare inter­venti politico-sociali per sta­bi­lirne limiti e argini. Que­sto è acca­duto, sep­pur par­zial­mente, durante i lavori delle com­mis­sioni euro­pee pre­sie­dute da Delors e da Prodi. Quel che manca oggi è invece l’opera di «bilan­cia­mento» che può essere eser­cito da parte della poli­tica. È que­sto un aspetto del trionfo della post­de­mo­cra­zia. Affin­ché si svi­luppi un’Europa sociale ser­vono pro­te­ste e mobi­li­ta­zioni dei cit­ta­dini. Solo in que­sto modo i governi, le ban­che e le altre isti­tu­zioni (sia nazio­nali, che euro­pee che inter­na­zio­nali) potranno cam­biare la loro agenda».

In tutto il mondo sono cre­sciute le dise­gua­glianze sociali. Anche que­sto rimette in discus­sione la demo­cra­zia. È come se nei glo­riosi, meglio sarebbe dire infau­sti trenta anni di neo­li­be­ri­smo ci sia stato uno spo­sta­mento rile­vante di potere nella società. Poche cen­ti­naia di migliaia di per­sone hanno red­diti e poteri di gran lunga supe­riore a quelli della mag­gio­ranza della popo­la­zione. Lei ha scritto un sag­gio su que­sto ele­mento (Il potere dei giganti). A che punto siamo di que­sta ten­denza alla cre­scita delle cre­scita delle disu­gua­glianze sociali?


Que­sto è il tema al cen­tro delle ana­lisi non solo di stu­diosi auto­re­voli come Joseph Sti­glitz e Tho­mas Piketty, ma anche di orga­ni­smi come l’Ocse e il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Dalle loro ana­lisi emerge un ele­mento comune: il nega­tivo impatto eco­no­mico dovuto alla cre­scita delle disu­gua­glianze. Con­cordo però con Sti­glitz quando afferma che ci sono anche aspetti poli­tici sca­tu­riti dalle disu­gua­glianze sociali. Il prin­ci­pale è che la ric­chezza eco­no­mica può tra­sfor­marsi in potere poli­tico; il quale, a sua volta, può essere usato per acqui­sire ulte­riori van­taggi eco­no­mici. Ma sta a noi inter­rom­pere que­sta spi­rale ali­men­tata dalla «cre­scita incar­di­nata sulla cre­scita delle disu­gua­glianze sociali».

Uno dei suoi primi libri, scritto e curato assieme con Ales­san­dro Piz­zorno, è per­vaso dalla con­vin­zione che il con­flitto di classe avesse por­tato a com­pi­mento la defi­ni­zione dei diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Uscì quando era comin­ciato a spi­rare il vento neo­li­be­ri­sta. Da allora i diritti sociali di cit­ta­di­nanza sono stato il ber­sa­glio pre­fe­rito di molte poli­ti­che in Europa, men­tre la pre­ca­rietà ha fatto cre­scere a dismi­sura l’esercito dei «wor­king poor», che hanno bassi salari e pochis­simi diritti. Come vede la situa­zione dei rap­porti di lavoro nel capitalismo?

Il declino dei sin­da­cati - cau­sato prin­ci­pal­mente dal declino della gran indu­stria e la cre­scita dei set­tori postin­du­striali non orga­niz­zati - ha reso più facile un attacco con­tro i diritti sociali di cit­ta­di­nanza. Ora però è impor­tante capire i cam­bia­menti nel lavoro. Le con­qui­ste ope­raie e sin­da­cali degli anni Set­tanta hanno come sfondo un’economia indu­striale, che non è ovvia­mente scom­parsa, ma è tut­ta­via segnata da una siste­ma­tica con­di­zione «con­giun­tu­rale» dovuta ai con­ti­nui e repen­tini muta­menti nell’economia. Pren­diamo, ad esem­pio, l’articolo 18 del vostro Sta­tuto dei lavo­ra­tori. È una norma pen­sata e valida in un pre­ciso con­te­sto storico-produttivo tesa a garan­tire alcuni diritti dei lavo­ra­tori, come ad esem­pio il licen­zia­mento ingiu­sti­fi­cato. L’esito delle pro­fonde e dram­ma­ti­che tra­sfor­ma­zioni eco­no­mi­che è la «spa­ri­zione» di interi set­tori pro­dut­tivi in alcuni paesi euro­pei. Da qui la neces­sità di ela­bo­rare nuove tipo­lo­gie di diritti a difesa del lavoro. Se i lavo­ra­tori sono costretti a vivere periodi più o meno lun­ghi di disoc­cu­pa­zione, hanno biso­gno di un com­penso gene­roso per con­ti­nuare a vivere. Allo stesso tempo devono acce­dere a corsi di for­ma­zione pro­fes­sio­nale fina­liz­zati a tro­vare un nuovo lavoro. Poli­ti­che di que­sto tipo sono par­ti­co­lar­mente deboli in Ita­lia. I sin­da­cati, più che atte­starsi nella sola difesa dell’articolo 18, dovreb­bero atti­varsi anche per lo svi­luppo di poli­ti­che del lavoro. Allo stesso tempo, però, il governo non può limi­tarsi a volere l’abolizione dell’articolo 18: dovrebbe svi­lup­pare nuovi diritti ade­guati per l’economia attuale».

Nel suo ultimo libro tra­dotto in Ita­lia - Quanto capi­ta­li­smo può sop­por­tare la società - lei scrive dif­fu­sa­mente sulla «social­de­mo­cra­zia asser­tiva». Cosa intende con que­sta espressione?

In ogni paese euro­peo, i social­de­mo­cra­tici sono atte­stati su una posi­zione difen­siva. Cre­dono che il trionfo del mer­cato e del neo­li­be­ra­li­smo li abbiano ridotti a dino­sauri in via di estin­zione o a pezzi da museo. Ritengo che per i social­de­mo­cra­tici si aprono nuove e ine­dite strade poli­ti­che da per­cor­rere. Come ho già detto, il mer­cato crea pro­blemi sociali; è pro­prio in que­sta situa­zione di potere del mer­cato che abbiamo biso­gno delle poli­ti­che sociali della social­de­mo­cra­zia. Il potere del mer­cato, delle grandi e spesso glo­bali imprese più mer­cato, la cre­scita delle disu­gua­glianze sociali pre­ve­dono la forte pre­senza della social­de­mo­cra­zia che può rap­pre­sen­tare gli inte­ressi sociali, civili, cul­tu­rali di chi è pena­liz­zato dall’egemonia dell’economia di mer­cato. Certo, dovrebbe essere una social­de­mo­cra­zia inno­va­tiva, nel senso di una demo­cra­zia «fem­mi­ni­liz­zata» e verde. Il neo­li­be­ra­li­smo non può infatti riu­scire a risol­vere i pro­blemi sociali e di svuo­ta­mento della demo­cra­zia creati pro­prio del neoliberalismo».

«Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica».

La Repubblica, 25 marzo 2015

Il più radicale degli utopisti, Platone, decise che la repubblica doveva impedire che la classe politica avesse famiglia e proprietà, le due condizioni che compromettevano la selezione dei guardiani in base al merito richiesto per il governo della città (coraggio e conoscenza) perché inevitabile ragione di parzialità: prima vengono i figli e la famiglia (allargata ai clientes che valgono a renderla più rispettabile) e prima viene la cura dei propri averi (che si somma a quella per la famiglia).

L’utopia platonica della società armonica governata da un’avanguardia di virtuosi ha ispirato fanatici della giustizia e tribunali speciali. Ma la sua diagnosi delle ragioni dell’ingiustizia è diventata un monito per chi fa le leggi: i padri tendono a riprodursi nei figli, i possidenti negli eredi. Gaetano Mosca cercò di fare di questa generalizzazione una regola: in ogni società, gli individui lottano per la preminenza e la conservazione dello che li posiziona in alto, e quindi per il controllo dei mezzi che li agevolano in questo compito. Nelle società politiche basate sulla selezione elettorale, questi mezzi sono quelli che consentono la creazione della reputazione e della fama: circa la reputazione è la costruzione di un cerchio di amici o accoliti che più conta; circa la fama presso gli elettori che dovranno convalidare la selezione è il controllo dei mezzi di propaganda e informazione.
Ma il primo stadio della scalata della classe politica è la conquista di un gradino di preminenza per la famiglia, perché da qui si può con più facilità procedere alla conservazione dello status. In una ricerca sul nepotismo nella società americana, Seth Stephens-Davidowitz ha calcolato la probabilità statistica con la quale i figli dei politici entreranno in politica stimando che un “figlio di” (il caso esemplare è quello dei Bush, poiché Jeb potrebbe essere il futuro presidente) ha 1.4 milioni di possibilità in più di fare carriera politica di un ordinario cittadino.
La distribuzione ineguale dell’opportunità di emergere è più alta quando il criterio di selezione è l’opinione - quindi politici e uomini e donne dello spettacolo sono particolarmente agevolati. A queste categorie se ne aggiunge un’altra che è la più arbitraria: quella dei ricchi, dei super-ricchi, dei miliardari, i quali si riproducono con regolarità e faciltà, potendo fare affidamento solo sulla loro libera scelta. Se ai politici viene richiesto comunque un poco di appealing presso il pubblico, nel caso dei ricchi lo è semplicemente ereditato senza sforzo alcuno.
Ma è la riproduzione di potere politico quel che più interessa, se non altro perché viviamo, nominalmente almeno, in una democrazia. In un sistema oligarchico non avrebbe senso spendere parola. Né ha senso nel nostro sistema perché il nepotismo, il familismo, il favore che riproduce reputazione e fama, sono insopportabili a tutti. E il sistema di giustizia, per principio fondato sull’imparzialità e il governo della legge, è lì a dimostrare che non ci deve essere giustificazione né tanto meno tolleranza per l’uso del potere anche solo per dare una mano ai propri famigliari.
Per questo Platone pensava che fosse stato desiderabile che la funzione politica venisse ricoperta da chi non aveva famiglia e proprietà. La Chiesa, che ha seguito alla lettera Platone, non ha per questo brillato di giustizia e rigore, è vero. Tuttavia, la società moderna, che riconosce la famiglia e la proprietà come fondamentali e che nello stesso tempo si impegna ad applicare la “legge uguale” per tutti, è naturalmente più esposta dei chierici al procacciamento del privilegio privato via mezzi politici.
Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica: poiché il sostegno dell’opinione è qualcosa di cui i sistemi rappresentativi non possono fare a meno, e poiché il centro dell’opinione è il sentimento di fiducia, ne deriva che l’uso preferenziale del potere, non importa quanto ampio o grave, farà crescere nei cittadini il tarlo del dubbio e della diffidenza vero tutti, con gravissimo danno al sistema. Attendere che la giustizia faccia il suo corso non è per questo prudente nel campo politico, dove è il dubbio, o l’opinione prima delle prove, ad alimentare la sfiducia.
Due temi importanti, maltrattati dal governo (e trascurati dal Parlamento): il rapporto tra politica e struttura burocratica dello Stato e dimensione politica dell'Unione europea.

La Repubblica, 22 marzo 2015

La corruzione. Sì, la corruzione. Esiste dovunque in tutti i Paesi del mondo ma nel nostro più che altrove perché il nostro è un Paese strano e si fa governare da una altrettanto strana classe dirigente che, per pigra indifferenza, rinuncia a controllare.

Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacchè. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell’elenco dei Paesi “virtuosi” noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all’ultimo posto in quella europea perché in quest’ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell’Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l’anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel ‘96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.

L’attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. «Non c’è attenzione che quando si ha fame/ non c’è guardiano attento se non dorme/ non c’è tranquillità senza paura /non c’è una fede senza infedeltà». Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.

Purtroppo il popolo (sovrano) presto si riaddormenta e il Cavaliere nero di quel momento gli rimonta in groppa e lo conduce a colpi di sproni e di briglia dove a lui conviene portarlo. Non tutti i popoli si svegliano così poco ma il nostro purtroppo è dormiglione.

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Il fattaccio Lupi rende attuale queste riflessioni, ma non è di quello che voglio parlare. Cerco di capire dove si annida il serpente della corruzione, sempre cercato e mai trovato.

Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d’alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.

Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro po- sti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d’età.

In apparenza qualche cosa di buono c’è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l’apparenza della sua sovranità e diventa plebe.

Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.

Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su La politica e la pubblica amministrazione. La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L’applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai “grand commis” cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.

Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l’interesse legittimo dei cittadini inquinasse l’amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.

Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L’effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.

Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente.

***
C’è un altro tema, forse ancor più importante di quello che fin qui è stato messo sotto osservazione. Anch’esso è avvenuto nella settimana appena trascorsa e riguarda l’Europa (e quindi anche l’Italia).

Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.

L’Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c’è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l’Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.

Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall’uscita dall’euro.

Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d’Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.

Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un’apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.

La nostra politologa preferita ci regala un'illuminante analisi del regime verso il quale, a colpi di frusta, ci avviamo. Segnaliamo in particolare il suo scritto a chi ancora nutre qualche illusione sulla democraticità del piccolo Cesare, oppure tarda a staccarsene.

Italianieuropei, marzo 2015, scaricato da Accademia.edu

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica).

Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione La riforma della Costituzione avviata dal Partito Democratico, unita alla nuova legge elettorale, che la completa, rischia di portare l’Italia verso una democrazia di stampo cesaristico. Quale sicurezza può darci un assetto istituzionale privo del contrappeso al potere costituito rappresentato dal bicameralismo, con una diminuita prerogativa del diritto di suffragio e ostaggio del potere del leader, dell’esecutivo e della sua maggioranza?

Il Partito Democratico ha deciso di riformare la Costituzione della Repubblica Italiana da solo. Il compito è stato facilitato dall’Aventino delle opposizioni e si giustifica con la certezza del suggello plebiscitario che verrà (detto impropriamente “referendum” dalla Costituzione del 1948). La strategia e il processo di riforma suggeriscono il carattere del nuovo sistema istituzionale che questi cambiamenti disegnano: una democrazia cesaristica (che sarebbe piaciuta a Sieyès e Schmitt e per nulla a Condorcet e Kelsen).

Nulla di nuovo sotto il sole nazionale, si dirà. L’Italia unita ha mostrato di avere un rapporto di orphanage e nostalgia rispetto alla figura di Cesare, un papa secolare, un monarca non ereditario ma capo politico che incorpori, rappresentandola, la nazione; non come il presidente di una Repubblica parlamentare (o anche presidenziale) ma come il leader che sta nella battaglia politica quotidiana e che governa, che sbaraglia il pluralismo partitico, che tiene insieme esecutivo e legislativo perché possiede una maggioranza ampia (grazie al premio di maggioranza) che può ignorare l’opposizione e idealmente decidere senza deliberazione collettiva (a decidere è anzi il partito, ovvero il suo segretario, anche nella funzione della costruzione delle liste elettorali e della designazione dei capilista, in pectore una classe ramificata nelle Regioni di sostenitori della sua politica). Esito ne sarà un Parlamento prima di tutto organo e sede della maggioranza e solo di riflesso della funzione

di controllo che dovrebbe esercitare l’opposizione; solo di riflesso, perché questa funzione ha efficacia solo se le opposizioni hanno una voce non flebile e non fungono da materiale d’arredo, seggi che occupano uno spazio. Ci troviamo alle soglie di un cesarismo per consenso elettorale e un Parlamento monocamerale che la legge elettorale predisporrà verso una forte vocazione maggioritarista: concordia fidei et populi.

Nella storia politica del nostro paese governare con il dissenso e il pluralismo si è dimostrato più gravoso che allinearsi sotto un’insegna. Governare per mezzo della discussione e del dissenso, secondo una definizione canonica del governo rappresentativo, è un lavoro duro che chiede stamina e pazienza, insieme a tolleranza e fiducia nell’avversario, qualità etico-politiche ardue da formare e riprodurre. Fidarsi degli avversari – vivere 
tra partigiani amici – comporta diverse cose insieme: prima di tutto, a chi governa impone di non 
barare al gioco e non cambiare le regole in corso
d’opera; e per chi perde e va all’opposizione implica continuare a stare al gioco sperando nelle future
consultazioni e senza far saltare il banco.

Il governo
rappresentativo vuole un consenso delle norme e
delle regole proprio perché vive di conflitto politico e non di politica consensualista. Quando il consenso delle norme e delle regole stenta e non piace è al secondo, al consenso politico o propagandistico, che ci si rimette. Unire il popolo in un’idea, in una fede, in un uomo o in un partito è tutto sommato non troppo complicato in un paese che ha una secolare tradizione religiosa pressoché omogenea e, soprattutto, l’abituale familiarità con un leader che incorpora la fede e i fedeli sotto l’egida della suprema autorità. Il popolo italiano è unito in alcune credenze e abitudini di fondo (religiose e morali), cioè è unito nei mores, anche se è fazioso e litigioso nella divisione della torta politica, per dirla con James Harrington, ovvero nelle questioni direttamente legate agli interessi locali, territoriali, di fazione o di ceto.

La società civile è molto divisa e quasi incapace di trovare una simpatia unitaria (brutale nel linguaggio e nelle forme di interazione la descriveva Giacomo Leopardi). Essa è però desiderosa di avere una rappresentazione unitaria che si adatti ai suoi mores. L’unità del corpo cattolico-nazionale in una figura rappresentativa: una visione antiliberale della rappresentanza che ha sul suolo patrio una radicata attrazione e una sperimentata pratica.

Con l’eccezione di alcuni anni di interregno segnati da momenti conflittuali – di transizioni da un’unità consensuale a un’altra –, le fasi lunghe della politica nazionale sono state consensuali: o per consenso trasformista o per consenso dispotico o per consenso elettorale. Tanto per restare alla nostra epoca: dopo una dura fase di conflittualità politica seguita alla fine del consenso gestito dalla guerra fredda, oggi ritorniamo al partito nazionale e della nazione, incarnato in un leader e con il progetto di una nuova carta costituzionale.

Alla quale nuova Costituzione si doveva arrivare a tutti i costi. Non vi è alcuna emergenza ovviamente. La gestione di questa riforma – dirigistica a tutti i costi, anche spedendo sull’Aventino le minoranze – è coerente all’esito desiderato: la Costituzione trasformata in un decreto governativo che il Parlamento ha dovuto approvare (sapendo molto bene che nessun tempo limite esiste in questo caso, perché nessun decreto costituzionale può esistere e perché nessuna norma impone notti bianche a votar dormendo – anche se l’ideologia dell’emergenza ha governato l’intero processo di discussione costituzionale conquistando tutti, anche i critici). Questa è la logica dell’emergenza unitarista, del traghettamento verso la concordia fidei et populi.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà
stava procedendo da più di due decenni: il bisogno
di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egregiamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggioranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Il nuovo assetto istituzionale, con la riforma elettorale che lo completa, sancisce quel che nella realtà tava procedendo da più di due decenni: il bisogno di un capo, un bisogno che Silvio Berlusconi non
ha rappresentato se è vero che ha diviso radicalmente l’opinione politica, esaltando invece di sedare l’opposizione, sia sulla carta stampata o nell’opinione pubblica ufficiale che nelle piazze. Vinta quella battaglia durissima per difendere la Costituzione (e che la Costituzione ha egre- giamente aiutato a vincere), la stanchezza ha come atterrato i guerrieri in tutti i partiti e nell’opinione pubblica e sociale. Oggi c’è voglia di concordia. Con l’esito che, concluso il suo compito, la Costituzione del 1948 non sembra più adatta alla nuova concordia. Essa fu scritta, del resto, con l’intento esplicito di scongiurare l’emergere di maggio- ranze granitiche, di capi e poteri verticali personalistici – scritta con la memoria fresca della concordia fascista. Ma le nuove generazioni non hanno questa memoria sotto la loro pelle e nella loro mente; e possono con baldanza ritornare a esprimere al meglio il mos cesaristico antico. E il momento è arrivato.

Servirebbe la penna arguta, ironica e graffiante di un Carlo Marx per parlare del bonapartismo italiano, fuoco sotto la cenere e oggi rigenerato per plebiscito da un Parlamento di fatto già monocamerale, da una società vogliosa di ricambio generazionale e cetuale, da un capitalismo corporate law model, un ordine, più che liberale, in effetti feudale, basato sulla devoluzione massiccia del pubblico sovrano statale (quale che sia, nazionale o sovranazionale, come si vede dalla resistenza dell’Unione europea a essere più che un’unione monetaria). A confermare questa tendenza è la politica del governo italiano: con la messa sul mercato delle banche popolari; con la dichiarazione contenuta nel progetto della Buona scuola per cui lo Stato dichiara di non voler più coprire le spese delle scuole statali; con la trasformazione piena e completa del lavoro in una merce. Questa politica amica del corporate law delle multinazionali ha un’ideologia unificante nella favola bella del merito individuale, artefice delle nostre vittorie e sconfitte, condito con la carità cristiana per chi fallisce. Liberismo per i vincitori, religione per i vinti. Nei convegni e nelle riviste specializzate questo fenomeno è analizzato come un esito della trasformazione del pubblico in un ordine legale e istituzionale funzionale al capitale multinazionale, a una lex mercatoria che va a sostituire poco alla volta il diritto pubblico degli Stati e i lacci costituzionali. Se Marx dovesse descrivere la trasformazione italiana da democrazia parlamentare a democrazia cesaristica lo farebbe, pro

prio come quando descrisse il destino bonapartista
 della Repubblica francese del 1848, nel contesto
della trasformazione globale del capitale. L’Italia
microcosmo. Ma non è necessario immaginare sce-
nari da filosofia della storia ottocentesca per leggere
la revisione cesaristica della Costituzione del 1948.
La Costituzione è un nobile compromesso tra par
ti. Ha successo se le parti in gioco riescono a incap
sulare i loro calcoli di utilità contingente all’interno
di una utilità bene intesa. È questa la premessa per il perseguimento di quel che chiamiamo “interesse generale”.

La saggezza costituzionale non è pertanto identica alla saggezza pratico-politica, perché non è celebrativa del presente e delle sue strategie di breve periodo in quanto deve saper prevedere le possibili disfunzioni che la sua applicazione può comportare e deve saper incanalare il comportamento degli attori politici e istituzionali in modo che la sua autorità non sia mai scalfita ma, al contrario, irrobustita. In questa capacità di anticipare il peggio e di neutralizzarlo sta la sua saggezza e la ragione della sua durata. Domanda: che sicurezza può darci una Costituzione votata al cesarismo e al maggioritarismo? Se scrivere Costituzioni, dice Stephen Holmes, è paragonabile alla saggezza di Peter sobrio che pensa a sé nel caso che si ubriachi, allora questa nuova Costituzione è davvero poco saggia, perché non ci protegge da potenziali leader pessimi, dalle ubriacature populiste, quali che siano.

La saggezza costituzionale è opera non di imperativi categorici, rigidi per loro natura, ma dell’imperativo ipotetico: se vuoi A devi volere B. Bisogna chiedersi allora quale sia la posta in gioco, il fine, di questa riforma. Sapevamo certamente i fini della Costituzione del 1948: i diritti che garantiscono le eguali libertà sono contenuti nella prima parte e la struttura dello Stato è così fatta da renderli sicuri perché protesa a limitare il potere della maggioranza, quale che essa sia. Forse i nostri Costituenti non avevano una forte cultura liberale, ma l’esperienza fascista li ha fatti liberali obtorto collo, e grazie a ciò abbiamo avuto una Costituzione democratica ottima. Essi avevano molto chiara l’idea che sarebbe illogico pensare che la prima parte sia fatta di principi immobili, adattabili alle più diverse ingegnerie costituzionali.

E per questa ragione dobbiamo usare l’imperativo ipotetico per valutare il senso della Costituzione. Dobbiamo sapere che ogni Costituzione segue questa logica: se vuoi A devi volere B. Ovvero, i modi di attuazione della democrazia elettorale, la struttura istituzionale dello Stato, i rapporti tra i poteri sono condizioni che devono servire a far funzionare la macchina dello Stato garantendo e rafforzando al contempo i diritti fondamentali contenuti nella prima parte. Ad esempio: in un’unità statale non federale i diritti civili e politici fondamentali sono sicuramente meglio garantiti se la sovranità popolare non grava sul corpo sociale in maniera assoluta e libera quanto più possibile da vincoli. La regola di maggioranza rende la forza della sovranità popolare – soprattutto negli Stati unitari – quasi assoluta, resa fatale dal fatto di riposare sulla volontà stessa dei cittadini.

È per contenere senza conculcare il potere invincibile del numero che si rendono necessari due tipi di contrappesi: il potere giuridico e le forze sociali. Il loro contropotere consiste nel fare affidamento sul giudizio (che è potere negativo per eccellenza) e sul pluralismo degli interessi, dei corpi associativi, delle idee. Spezzare l’omogeneità e l’unione concordataria del corpaccione sovrano è la condizione per ottenere un rispetto compiuto dei diritti sanciti nei fondamenti.

Per rendere più certa la limitazione del potere costituito, ai contrappesi giuridici e della società civile si devono aggiungere quelli istituzionali, ad esempio il bicameralismo (non perfetto ma comunque eletto per suffragio diretto) e i sistemi elettorali che non riconoscono come essenziale solo il diritto della maggioranza di governare ma anche quello dell’opposizione di avere una voce capace di controllare, limitare e, se necessario, bloccare il potere della maggioranza, infine di essere una permanente alternativa possibile.

Il disegno istituzionale deve essere giudicato in relazione allo scopo che intende ottenere e all’efficacia con la quale l’ottiene. In questo senso esso è un esercizio di imperativo ipotetico. E l’imperativo ipotetico che guida la nuova Costituzione in corso d’opera ci porta in una direzione che non assomiglia a quella che volevano i nostri Costituenti; ci porta verso una democrazia cesaristica. Per questo, abbiamo tutte le ragioni per esserne intimoriti e preoccupati, poiché le parti della Costituzione del 1948 non sono come camere stagne: quando si cambia una parte i mutamenti si riflettono sulle altre parti. La prima parte, quella che sancisce i diritti eguali, è messa a repentaglio da un Parlamento monocamerale, da una diminuita prerogativa del diritto di suffragio (un ritorno addirittura all’ottocentesco suffragio indiretto) e da un’impennata di potere dell’esecutivo e della sua maggioranza.

Qui potete scaricare il testo in formato .pdf, leggerlo nella formattazione originale e, se proprio volete, stamparvelo (preferibilmente su carta riciclata), leggerlo e annotarlo con comodo.

Una giornata memorabile. Con tristezza per oggi, e timore per domani.Articoli di Massimo Villone, Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi.

Il manifesto, 11 marzo 2015

UNA COSTITUZIONE DI MINORANZA

di Massimo Villone, 10.3.2015

Un brutto giorno per la Repub­blica. Come era nelle pre­vi­sioni, la Camera approva la riforma costi­tu­zio­nale Boschi-Renzi, già votata in Senato. 357 sì, 125 no, 7 aste­nuti, che alla Camera non con­tano. Movi­mento 5 Stelle fuori dall’Aula. Numeri certo favo­re­voli a Renzi. Ma è facile vedere, richia­mando il con­senso ai sog­getti poli­tici real­mente espresso nel voto del 2013, che una Camera depu­rata dalla droga del pre­mio di mag­gio­ranza dichia­rato ille­git­timo con la sen­tenza 1/2014 della Corte costi­tu­zio­nale oggi avrebbe boc­ciato la pro­po­sta. Non è la Costi­tu­zione della Repub­blica. È la costi­tu­zione del Pd con escre­scenze. Una costi­tu­zione di minoranza.

Que­sto con­ferma tutte le cri­ti­che sulla man­canza di legit­ti­ma­zione a rifor­mare la Costi­tu­zione di un par­la­mento ful­mi­nato nel suo fon­da­mento elet­to­rale. E dun­que non abbiamo affatto un paese più sem­plice e giu­sto, come esulta Mat­teo Renzi. Invece, abbiamo in pro­spet­tiva una Costi­tu­zione che non riflette la realtà del paese.

Il voto della Camera ci con­se­gna quel che sarà, molto pro­ba­bil­mente, il testo defi­ni­tivo della riforma. Si richiede un nuovo pas­sag­gio in Senato per chiu­dere con l’approvazione di un iden­tico testo la fase della prima deli­be­ra­zione richie­sta dall’art. 138 della Costi­tu­zione. Ma è ragio­ne­vole pre­ve­dere che Renzi alzerà bar­ri­cate con­tro ogni ulte­riore modi­fica, che potrebbe del resto toc­care solo le parti ora emen­date dalla Camera.

Immu­tata la sostanza. Lie­ve­mente miglio­rata la “ghi­gliot­tina” per cui il governo poteva pre­ten­dere a data certa il voto su un testo di sua scelta. Un vero e pro­prio potere di vita o di morte sui lavori par­la­men­tari. Ora rimane solo la data certa, e non è poco. Fino ad oggi sarebbe stata mate­ria riser­vata all’autonomia delle Camere attra­verso i rego­la­menti par­la­men­tari. Da domani — scritta in Costi­tu­zione — sarà invece un vin­colo sul par­la­mento nei con­fronti del governo. Peg­gio­rata la riforma del Titolo V, dove viene annac­quato con ine­dite com­pli­ca­zioni il pro­po­sito — in sé apprez­za­bile — di una sem­pli­fi­ca­zione del rap­porto Stato-Regioni.

Ma su tutto pre­vale la inac­cet­ta­bile scelta — che rimane — di un Senato non elet­tivo, di seconda mano e di dop­pio lavoro, tut­ta­via inve­stito di poteri rile­vanti, tra cui spicca quello di revi­sione della Costi­tu­zione. Man­ten­gono piena vali­dità le cri­ti­che più volte espresse su que­ste pagine. Soprat­tutto per la siner­gia con l’Italicum, che va colta in tutto il suo signi­fi­cato. E se ne accen­tua il rilievo nel momento in cui la riforma costi­tu­zio­nale rimane pes­sima, e l’Italicum peg­giora. Al già inac­cet­ta­bile impianto di base, inos­ser­vante dei prin­cipi posti con la sen­tenza 1/2014, si aggiun­gono ora il pre­mio alla sola lista, la beffa dei capi­li­sta bloc­cati e can­di­da­bili in più col­legi, il bal­lot­tag­gio. Il colpo alla rap­pre­sen­ta­ti­vità delle isti­tu­zioni e ai pro­cessi demo­cra­tici si aggrava.

La fine dichia­rata da Ber­lu­sconi del patto del Naza­reno aveva susci­tato qual­che spe­ranza. La let­tera dei “ver­di­niani” — Ver­dini è noto­ria­mente in odore di ren­zi­smo — fa nascere dubbi sul con­trollo di Ber­lu­sconi sul par­tito. Forse una parte dei suoi si appre­sta a cam­biare padrone, se non casacca. Nel pros­simo voto in Senato — ancora in prima deli­be­ra­zione — non sarà pre­scritta una par­ti­co­lare mag­gio­ranza. Ma sarà una prova gene­rale per la seconda deli­be­ra­zione ex art. 138, per cui si richiede il voto favo­re­vole della metà più uno dei com­po­nenti l’assemblea. In Senato il dis­senso potrebbe allora essere deci­sivo. E affos­sare la riforma tra­sci­ne­rebbe con sé anche l’Italicum, che nulla pre­vede per il Senato assu­men­done il carat­tere non elettivo.

Sapremo dun­que già nel voto che si avvi­cina se la sini­stra del Pd ha numeri e attri­buti. Sapremo se il patto del Naza­reno è dav­vero morto. Ber­lu­sconi ha inteso fare a Renzi lo stesso sgam­betto che fece a D’Alema nel 1997, quando affossò in Aula la pro­po­sta che Fi aveva votato in Com­mis­sione bica­me­rale Allora, pur avendo i numeri, la mag­gio­ranza di cen­tro­si­ni­stra si fermò. Que­sta volta non gli è riu­scito. In Senato pro­vaci ancora, Sil­vio. Magari faremo il tifo per te.

Nel frat­tempo, biso­gnerà spie­gare al popolo sovrano che nelle isti­tu­zioni si for­giano le poli­ti­che di governo. Per le donne e gli uomini di que­sto paese le scelte isti­tu­zio­nali non sono indif­fe­renti. Isti­tu­zioni sem­pli­fi­cate e poco rap­pre­sen­ta­tive, assem­blee elet­tive con la mor­dac­chia, governi che fun­zio­nano come giunte comu­nali (for­mula ren­ziana), par­titi della nazione pro­du­cono poli­ti­che con­ser­va­trici, disat­tente verso i diritti, subal­terne ai poteri forti, sorde alle diver­sità, e invece tol­le­ranti verso le dise­gua­glianze. Già accade.

Con pen­sosa paca­tezza Ber­sani final­mente avverte che l’Italicum non è vota­bile per la siner­gia per­versa con la riforma costi­tu­zio­nale. Corra ai ripari. Qual­cuno dovrebbe spie­gare a lui e all’evanescente sini­stra Pd che la ditta li ha già messi in cassa inte­gra­zione a zero ore. Anche il nuovo par­tito non più leg­ge­ris­simo di cui Renzi favo­leg­gia li met­te­rebbe in mobi­lità. Per loro, solo con­tratti a tutele decrescenti.

RIFORMA, NON È FINITA MA QUASI
di Andrea Fabozzi

La pre­si­dente Bol­drini, la mini­stra Boschi, il sot­to­se­gre­ta­rio Scal­fa­rotto, trenta depu­tati e nes­sun altro alle dieci alla camera, quando si aprono le dichia­ra­zioni di voto sulla riforma costi­tu­zio­nale. Aula vuota, sei­cento assenti per una seduta che durerà solo due ore e mezza. Par­tenza lenta di una gior­nata non memo­ra­bile, eppure deci­siva per la legge che riscrive 47 arti­coli della Costi­tu­zione. Epi­logo (quasi) di trent’anni di chiac­chiere, secondo la nota rico­stru­zione ren­ziana offerta in replica dal vice Gue­rini. Per il voto i ban­chi si riem­piono, e anche con il no di Forza Ita­lia la riforma figlia del patto del Naza­reno con­qui­sta una comoda mag­gio­ranza asso­luta: 357 sì.

Ai gover­na­tivi man­cano una qua­ran­tina di voti; 21 sono del Pd dove in tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), 7 sono assenti giu­sti­fi­cati e 11 non par­te­ci­pano per­ché in dis­senso. Una mino­ranza, que­sti ultimi, della mino­ranza; il dis­senso era stato più forte al senato nel primo pas­sag­gio sette mesi fa. La gran parte dei ber­sa­niani vota sì: rico­no­scono nella riforma un peri­co­loso «cam­bia­mento pro­fondo della forma di demo­cra­zia par­la­men­tare» (Bindi) eppure valu­tano che «non si può far fal­lire il per­corso» (Cuperlo). Dicono un altro sì, ma assi­cu­rano che «è l’ultima volta» se «non si ria­prirà il con­fronto» se «non ci sarà equi­li­brio» con la legge elet­to­rale. Cioè l’Italicum che Renzi ha detto e ripe­tuto di non voler cam­biare.

Due spic­chi dell’emiciclo restano vuoti anche al momento del voto, sono quelli del Movi­mento 5 Stelle che non rinun­cia all’Aventino. Appare solo il dele­gato Toni­nelli e la sua dichia­ra­zione di voto comin­cia con «fasci­sti» e fini­sce con «diso­ne­sti». Ma in mezzo ha una cita­zione impor­tante: le parole di fuoco con­tro la riforma costi­tu­zio­nale impo­sta dal governo Ber­lu­sconi, discorso del 2005 di Ser­gio Mat­ta­rella.

Sel invece torna in aula, depu­tati e depu­tate quando con una mano votano (no) con l’altra alzano una copia della Costi­tu­zione. Ora la legge costi­tu­zio­nale torna a palazzo Madama. Se il senato appro­verà l’identico testo della camera, da ieri si pos­sono comin­ciare a con­tare i tre mesi di «pausa di rifles­sione» prima che Mon­te­ci­to­rio possa dare l’ultimo sì a mag­gio­ranza asso­luta: dun­que nel caso più favo­re­vole al governo il 10 giugno.

È dif­fi­cile, dal momento che ci sono le ele­zioni regio­nali die­tro l’angolo: saranno giorni di con­trap­po­si­zioni accese e di pause nei lavori par­la­men­tari. Ma non impos­si­bile, visto che al senato spetta adesso un com­pito assai limi­tato. Solo gli arti­coli che la camera ha modi­fi­cato rispetto al testo votato dai sena­tori potranno essere rimessi in discus­sione. E solo gli emen­da­menti stret­ta­mente legati alle novità potranno essere ammessi.

È diret­ta­mente il rego­la­mento dell’assemblea a rispon­dere alle spe­ranze ecces­sive della mino­ranza Pd. Meglio dimen­ti­care da subito gli «ulte­riori miglio­ra­menti al testo di riforma costi­tu­zio­nale» in cui dicono di con­fi­dare i ber­sa­niani. I sena­tori potranno rimet­tere mano solo a una decina di arti­coli. Il dop­pio voto con­forme esclude modi­fi­che alla com­po­si­zione del nuovo senato, alla moda­lità di ele­zione di secondo livello, alla gra­tuità del man­dato, al fatto che la fidu­cia sarà votata solo alla camera, al potere di ini­zia­tiva legi­sla­tiva, al nuovo quo­rum del refe­ren­dum… C’è spa­zio solo per rive­dere le fun­zioni di quello che sarà il nuovo senato e per poche altre que­stioni. Alcune effet­ti­va­mente miglio­rate dalla camera, dun­que da maneg­giare con cura: le regole del pro­ce­di­mento legi­sla­tivo, le moda­lità di ele­zione dei giu­dici costi­tu­zio­nali, la pos­si­bi­lità di esame pre­ven­tivo della Con­sulta sulla leggi elet­to­rali. Altre al con­tra­rio modi­fi­cate solo in appa­renza, come i quo­rum per l’elezione del pre­si­dente della Repub­blica e per la dichia­ra­zione di stato di guerra: due pas­saggi deli­cati che restano sostan­zial­mente nella dispo­ni­bi­lità del primo par­tito. Sarà pos­si­bile anche inter­ve­nire sugli elen­chi delle mate­rie di com­pe­tenza sta­tale e di com­pe­tenza regio­nale, le modi­fi­che della camera sono state all’insegna del centralismo.
Ma a que­sto punto sarà più facile sabo­tare la riforma che cor­reg­gerla. Ecco allora l’incognita: visti i numeri del senato, se Ber­lu­sconi non rien­trerà nella par­tita e i suoi lo segui­ranno ancora, i dis­si­denti del Pd (che ad ago­sto furono 16) potreb­bero essere deci­sivi. La trat­ta­tiva si gio­cherà in paral­lelo con l’Italicum che dopo le regio­nali dovrebbe appro­dare alla camera. Renzi vuole che sia appro­vato defi­ni­ti­va­mente a Mon­te­ci­to­rio, ma è una legge che, accanto ai difetti strut­tu­rali, con­tiene un certo numero di errori tec­nici che andreb­bero (almeno quelli) cor­retti. La mino­ranza Pd dovrebbe però muo­versi tra camera e senato in maniera com­patta. Quello che è suc­cesso ieri porta a escluderlo.

BERSANI: COSÌ SIAMO ALL’IMPENSABILE.
«L’ULTIMOSÌ» DELLA SINISTRA PD. FORSE
di Daniela Preziosi


«La riforma costi­tu­zio­nale è nel campo del pen­sa­bile. Ma se la si abbina al modello dell’Italicum, un modello iper-maggioritario con par­la­men­tari per lo più nomi­nati e senza che si capi­sca chi sia il nomi­nante, si entra nel campo dell’impensabile. E non ci può essere disci­plina di par­tito che tenga». Fac­cia scura, tono alte­rato, Pier Luigi Ber­sani esce dall’aula e si sfoga con i cro­ni­sti. In mat­ti­nata è stato rice­vuto dal pre­si­dente Mat­ta­rella.
«Que­sto è l’ultimo sì», giura in Tran­sa­tlan­tico. «Il patto del Naza­reno non c’è più, ora non si dica che non si tocca niente. O si modi­fica in modo sen­sato l’Italicum o io non voto più sì sulla legge elet­to­rale e di con­se­guenza sulle riforme per­ché il com­bi­nato dispo­sto crea una situa­zione inso­ste­ni­bile per la demo­cra­zia». Poi l’offerta a Renzi: «Se accetta di modi­fi­care l’Italicum chi dis­sente come me gli garan­ti­sce che al senato i voti ci saranno tutti». Ma l’offerta cade nel vuoto. La mino­ranza Pd chiede meno nomi­nati e pre­mio di mag­gio­ranza alla coa­li­zione (e non alla lista) e appa­ren­ta­menti al secondo turno. Ma in molti si accon­ten­te­reb­bero di un gesto: come sul jobs act. Per ora avver­tono, si appel­lano, si aggrap­pano alla spe­ranza che Renzi ’apra’. C’è chi dà per pros­simo «un tavolo con Gue­rini». Ma in serata la mini­stra Boschi è sprez­zante: «Se chi ha vinto il con­gresso non può dare dik­tat, non lo può fare nem­meno chi l’ha perso».

Ren­zi­sem­bra irre­mo­vi­bile: il merito della riforma per lui non il punto, il punto è la sua deter­mi­na­zione a non ripor­tare l’Italicum al senato, camera infida da quando Forza Ita­lia nega i voti. Dun­que la legge non si tocca «nean­che di una vir­gola». Così l’ex area Cuperlo, che pre­para la «reu­nion» per il 21 a Roma (il 14 a Bolo­gna però Spe­ranza riu­ni­sce l’ala ’dia­lo­gante’) vede deli­nearsi all’orizzonte la scom­messa finale: o un ’ser­rate i ran­ghi’ o il defi­ni­tivo ’si salvi chi può’.

Le cin­quanta sfu­ma­ture della mino­ranza Pd pra­ti­cano tre voti diversi. In tre si asten­gono (Capo­di­casa, Galli e Vac­caro), in sette non par­te­ci­pano al voto (fra gli altri Fas­sina, Boc­cia, Civati, Pasto­rino), gli altri votano sì turan­dosi il naso. La dichia­ra­zione a nome del gruppo è affi­data a Lorenzo Gue­rini, non a Spe­ranza, pre­si­dente dei depu­tati. Per Alfredo D’Attorre que­sto sì è «l’ultimo atto di respon­sa­bi­lità». In aula prima di lui Rosy Bindi parla di «ultimo voto favo­re­vole» per­ché senza modi­fi­che «nelle vota­zioni pre­ce­denti», vuole dire ’suc­ces­sive ma è un lap­sus rive­la­tore, «non par­te­ci­però al voto e nel refe­ren­dum starò dalla parte dei cit­ta­dini». Il refe­ren­dum con­fer­ma­tivo è uno degli spet­tri: «Che faremo, una cam­pa­gna con­tro le riforme di Renzi?», è il rovello di molti. Gianni Cuperlo annun­cia il sì ma avverte che «senza modi­fi­che cia­scuno si assu­merà le sue respon­sa­bi­lità». Più tardi la sua area Sini­stra­dem riba­sce l’ultimatum in un docu­mento fir­mato da 24 par­la­men­tari (fra gli altri Amici, Argen­tin, Bray, De Maria, Fon­ta­nelli, Miotto, Pollastrini).

Ste­fano Fas­sina non par­te­cipa al voto e dichiara, rivolto più ai suoi che all’aula: «Abbiamo appreso dal pre­si­dente del Con­si­glio l’indisponibilità a cor­reg­gere la legge elet­to­rale». Come dire: è inu­tile pro­met­tere bat­ta­glia se poi alla fine vi alli­neate sem­pre. Pippo Civati lo dice espli­ci­ta­mente: «Dopo il voto di sta­mani quasi l’intero testo della riforma risulta inat­tac­ca­bile. Chi ha votato a favore con­di­vide le scelte com­piute e ne porta la respon­sa­bi­lità». Dal senato Chiti prende atto che «nella cosid­detta mino­ranza Pd ci sono dif­fe­renze poli­ti­che profonde».

Che la mino­ranza sia spap­po­lata e che la gran parte avrebbe votato sì lo si è pla­sti­ca­mente visto alla riu­nione di lunedì sera. Cuperlo è orien­tato per il non voto, ma a deve pren­dere atto che le sue truppe si stanno sfi­lac­ciando, per attra­zione verso Renzi ma anche per mani­fe­sta impo­tenza dell’opposizione interna. Idem Ber­sani. Il risul­tato è la solita pro­messa: la bat­ta­glia è riman­data alla pros­sima volta. Oggi tutti giu­rano che sull’Italicum andranno fino in fondo.
Ma sono in pochi a cre­dere di impres­sio­nare Renzi. Ci crede Davide Zog­gia: «Renzi non è sicuro di avere i voti sull’Italicum, lo dimo­stra il fatto che ha riman­dato il voto a dopo le regio­nali». Anche per­ché, spiega D’Attorre, «per la psi­co­lo­gia del par­la­men­tare medio una nuova legge elet­to­rale equi­vale a ele­zioni anti­ci­pate, anche se nella realtà non è così». Quindi sull’Italicum i più agguer­riti della mino­ranza si sono auto­con­vinti che non saranno soli. «Vi vedo per­plessi», dice D’Attorre ai cro­ni­sti allon­ta­nan­dosi. Poi si ferma un attimo: «Lo sono anche io»
Una dittatura che si fa chiamare governance. Del resto, er un regime tirannico è impensabile sottoporre i massmedia (un potere che è Quarto solo per ragioni cronologiche) a una gestione pluralistica: occorre riportarlo sotto il governo del tiranno. Perciò Renzi...

La Repubblica, 9 marzo 2015

Il cavallo di viale Mazzini avrà tra poco in groppa un solo cavaliere. Un vero amministratore delegato, con poteri ampi, come in qualunque azienda privata. «Modello codice civile», spiegano nel governo. E nominato direttamente dall’esecutivo.

È questa la principale innovazione della governance Rai immaginata da Renzi per superare la legge Gasparri. Un modello che porta a rottamare l’attuale gestione mista Cda-direttore generale, nel tentativo di allontanare i partiti dall’amministrazione diretta dell’azienda. Ma che, accentrando in capo al governo la scelta dell’amministratore unico, non mancherà di sollevare polemiche.

In ogni caso ci siamo, la svolta è vicina. «In settimana - scrive Renzi nella sua enews - iniziamo l’esame in consiglio dei ministri per chiuderlo velocemente. Poi la palla passa al Parlamento con lo stesso metodo della scuola». Significa l’abbandono ufficiale del decreto a favore di un disegno di legge. Di cui, tuttavia, nella prossima riunione del governo saranno discusse soltanto le linee guida. E qui sta l’altra novità, in fatto di metodo. Come avvenuto per “la buona scuola”, anche il progetto Rai sarà oggetto di una consultazione. Stavolta non troppo allargata, ma limitata a una trentina di esperti del settore già individuati e preallertati: comunicatori, giornalisti, professori universitari, giuristi, associazioni, economisti. Un processo di affinamento, tramite lo studio di questi «pareri», che porterà al disegno di legge definitivo.

Il modello, studiato da tempo a Palazzo Chigi fa perno sulla separazione netta tra la gestione e il controllo. «L’importante - anticipa Renzi - è affidare a un amministratore la responsabilità di guidare l’azienda senza continuamente mediare con il Cda sulle scelte operative. Se non porta risultati viene cacciato via, ma deve poter decidere come fanno tutti i manager». Resta ancora aperto il problema di «quale equilibrio di potere tra chi nomina l’amministratore e chi controlla». In sostanza il nodo non è stato ancora sciolto. Si capisce che il premier non intende rinunciare, come invece suggeriscono i grillini, alla commissione di Vigilanza. Anche perché sarebbe inutile cancellare la Vigilanza se comunque si intende affidare a un organismo parlamentare il controllo delle linee di indirizzo del servizio pubblico. Ma la Vigilanza (ovvero i partiti) sarà privata del potere decisivo che le ha affidato la Gasparri, ovvero quello di indicare i nove membri del Consiglio d’amministrazione. Allora a chi spetterà l’indicazione del Cda? Qui si entra in un terreno in parte ancora da definire. Uno di questi fili porta a un Consiglio di sorveglianza con membri nominati dal governo e dall’Autorità di garanzia. Il quale, a sua volta, dovrebbe scegliere il Cda vero e proprio, ridotto da nove a cinque componenti. Un altro filo riporta invece tutto in capo al Parlamento (che non convince la presidenza del con- siglio perché verrebbe meno la separazione tra gestione e controllo), al quale resterebbe l’elezione del Cda come del resto elegge altri organi di garanzia quali i componenti della Consulta o del Csm. I nomi dei cinque sarebbero però pescati in una “rosa” indicata da soggetti esterni come l’Agcom, la Conferenza Stato-Regioni, il Consiglio dei rettori, la Corte Costituzionale. Mentre a palazzo Chigi non trova ascolto l’idea del movimento cinque stelle di affidare a un sorteggio tra candidati con il curriculum giusto la scelta del Cda. Per Renzi è «ridicolo» anche solo parlarne.

L’altro grande capitolo riguarda il contratto di servizio pubblico, che disciplina i rapporti tra lo Stato e la più grande azienda culturale italiana. Quello attuale è scaduto nel 2012 e il governo ha intenzione di sfruttare l’occasione del rinnovo per ridefinire la «mission» della Rai e metterla in linea con la riforma complessiva. Il presidente della Vigilanza, Roberto Fico, ne ha già discusso con il sottosegretario Giacomelli e ha lanciato una campagna online («Firmerai.it») per sollecitare il ministero a firmare il nuovo contratto. Che prevede «più protezione per i bambini, più lingue straniere, più servizi per i disabili, più trasparenza». Per assicurare una programmazione di lungo periodo, la durata del contratto da triennale viene reso decennale. Così la Rai conoscerà in anticipo quanto incasserà dal gettito statale di anno in anno.

Ed è questo l’ultimo, importante capitolo della riforma. Dopo il decreto Irpef, che ha tagliato il bilancio di viale Mazzini di 150 milioni, il governo ha deciso che è arrivata l’ora di inserire il canone nella bolletta elettrica già dal prossimo anno. In modo da azzerare la mostruosa evasione dell’imposta. Il Sole24ore ha calcolato infatti che ci sono regioni, come la Campania, dove il canone è un perfetto sconosciuto. In alcuni comuni del casertano come Casal di Principe o Parete è in regola appena il 9% delle famiglie, mentre a Ferrara a pagare sono il 93,5% dei cittadini. Se d’ora in avanti chi non paga il canone si vedrà staccare la luce, un sollievo per i contribuenti sarà l’importo dimezzato rispetto agli attuali 113 euro.

Renzi ha dunque deciso di rinunciare al decreto legge, in obbedienza alla nuova “dottrina Mattarella”, ma non è detto che il disegno di legge incontrerà un cammino facile in Parlamento. Qualche punto di contatto con i grillini c’è stato, ma Forza Italia non intende cedere. E difende con le unghie la “sua” legge. Maurizio Gasparri parla di un «colpo di Stato» e chiede «il rispetto dei vincoli ribaditi dalla Consulta che al Parlamento e non al governo ha affidato il ruolo di garante nella scelta del vertice aziendale». Renzi tira dritto per la sua strada. «Figuriamoci se mi faccio dare lezioni di democrazia da Gasparri».

«».

Il manifesto

In una paese nor­male, abi­tato da gente nor­male, dove anche i media di con­se­guenza sono nor­mali, le noti­zie che appa­iono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pen­sando il Vimi­nale, quindi il mini­stro Alfano, su Decoro/Degrado fareb­bero accap­po­nare la pelle.

Leggo testuale dal gior­nale di ieri “Sicu­rezza, più mili­tari e accat­to­nag­gio vie­tato vicino ai monu­menti”. E aggiungo “Più poteri ai sin­daci di difen­dere i cen­tro sto­rici ed i monu­menti delle nostre città. Al sin­daco dovreb­bero essere con­cessi dei poteri di ordi­nanza rela­tivi all’ordine pub­blico, modello movida, per ren­dere alcune zone del cen­tro off limits anche all’attività di accat­to­nag­gio e carità mole­sta”. Oggi invece prende forma una idea che a giu­di­care folle, se non bestiale, è dir poco. Sem­pre dal Mes­sag­gero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipo­tesi Daspo per pro­sti­tute e men­di­canti”. E nell’articolo viene spie­gato meglio “Affi­dare mag­giori poteri di poli­zia a que­stori e pre­fetti anche in mate­ria di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire su temi che vanno dalla pro­sti­tu­zione al cosid­detto accat­to­nag­gio, pas­sando per i locali not­turni troppo rumo­rosi, con prov­ve­di­menti inter­dit­tivi. Per fare l’esempio più noto alle cro­na­che, l’ipotesi su cui sta lavo­rando il mini­stero dell’Interno, darebbe a que­stori e pre­fetti la pos­si­bi­lità di appli­care anche in que­ste mate­rie ordi­nanze ana­lo­ghe al Daspo, il prov­ve­di­mento col quale attual­mente pos­sono impe­dire l’ingresso allo sta­dio ad alcuni tifosi, a pre­scin­dere da even­tuali respon­sa­bi­lità penali.”

Quindi, i cer­vel­loni del Vimi­nale, hanno pen­sato di met­tere un freno alla pro­sti­tu­zione (che ad esem­pio nel cen­tro cit­ta­dino è pra­ti­ca­mente ine­si­stente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (per­ché la povertà è un reato ed esi­birla è di cat­tivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accat­toni” daspati non potranno entrare nel cen­tro di Roma e dovranno con­ti­nuare ad arran­giarsi magari but­tan­dosi su qual­che via con­so­lare fuori dai muni­cipi del cen­tro. Oppure le pro­sti­tute oltre a dover fron­teg­giare gli aguz­zini che le schia­viz­zano, la vio­lenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimen­ti­cavo: già esi­stono prov­ve­di­menti simili, visto che è pos­si­bile dare il foglio di via “agli indesiderati”.

Ma che signi­fica “decoro”? Un nor­male dizio­na­rio spiega che il decoro è un “com­plesso di valori e atteg­gia­menti rite­nuti con­fa­centi a una vita digni­tosa, riser­vata, cor­retta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita digni­tosa dovrebbe essere un obiet­tivo di qual­siasi governo, con­tra­stare la povertà idem. Il pro­blema è che non si com­batte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto asso­ciato all’insicurezza. I “blog­gers anti­de­grado” accoz­za­glia discu­ti­bile di per­so­naggi che lan­ciano le loro cro­ciate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto con­tro i dis­ser­vizi della città diven­tano punto di rife­ri­mento per gli stessi ammi­ni­sta­tori cit­ta­dini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovi­sta nei cas­so­netti. Se i mezzi pub­blici sono fati­scenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patri­mo­nio pubblico/artistico di que­sta città è tenuto male è colpa degli hoo­li­gans venuti da fuori o di chi men­dica, crendo un cir­colo vizioso che con­trap­pone gli indi­genti ai cit­ta­dini, come se entrambi non fos­sero parte dello stesso tes­suto sociale. Con i suoi pro e i suoi con­tro. Nel frat­tempo nes­suno denun­cia il fatto che gli stessi gover­narnti, attra­verso i tagli alla cul­tura e ai ser­vizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cer­cano di scon­fig­gere a colpi di ordinanze.

L’esempio romano è asso­lu­ta­mente para­dig­ma­tico: dopo i 5 anni di Ale­manno e le varie ordi­nanze anti-alcol nel cen­tro cit­ta­dino, la nuova giunta aveva pro­messo che non avrebbe con­tra­stato “la movida” a colpi di ordi­nanze varie. Pro­messe man­te­nute per una estate per poi ade­guarsi nean­che un anno dopo alle pre­ce­denti ammi­ni­stra­zioni gra­zie anche a una cam­pa­gna media­tica avvol­gente, che vede schie­rati tutti i media a difesa non del “pub­blico” ma del “pri­vato”. A difesa, dicono, del “cit­ta­dino” men­tre tra­sfor­mano interi quar­tieti in “diver­ti­men­ti­fici”, alla fac­cia del cit­ta­dino stesso.

Ed è sin­go­lare che nella città dello scan­dalo Atac, Ama, Mafia Capi­tale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si con­ti­nui a tro­vare nel “degrado/decoro” il pro­blema da risol­vere, da affron­tare. Il pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, la crisi eco­no­mica, ha di sicuro cre­sciuto le sac­che di povertà in città. Le barac­che, parte del tes­suto urbano dal dopo­guerra fino alla seconda metà degli anni 70, diven­tano inac­cet­ta­bili e peri­co­lose. Ci ripor­tano indie­tro nel tempo è ci mostrano l’altra fac­cia della metro­poli, quella in cui potremmo finire un giorno. Con­ti­nuare a tro­vare il nemico in alcune sac­che di cit­ta­dini, eco­no­mi­ca­mente svan­tag­giate, è la dimo­stra­zione dell’uso poli­tico che si fa del con­cetto di “decoro” è il modo con cui i governi rie­scono a far pas­sare ogni misura secu­ri­ta­ria. Del resto le ordi­nanze cit­ta­dine, di vari sin­daci, in maniera di decoro, sono qual­cosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo tro­vati di fronte a misure tal­mente ridi­cole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così male­det­ta­mente serio.

Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qual­cosa che coin­volge ammi­ni­stra­zioni di destra e di sini­stra, per una tra­sver­sa­lità peri­co­losa. Una ideo­lo­gia per­versa, mora­li­sta, che non crea cit­ta­di­nanza, non crea soli­da­rietà ma pic­coli sce­riffi armati di smart­phone pronti a foto­gra­fare il men­di­cante di turno o chi rovi­sta nei cas­so­netti. I nuovi nemici da com­bat­tere sono quelli che rac­col­gono le bri­ciole di quel che con­su­miamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “acces­si­bi­lità ai con­sumi”. Un egoi­smo sociale, mora­li­sta appunto, che fa del cit­ta­dino edu­cato che non butta le carte in terra, un buon cit­ta­dino. Che crea dise­gua­glianze invece di costruire un tes­suto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di libe­rarci dalle paure. Che trova il degrado nella pro­sti­tuta e non nello sfrut­ta­tore, nelle reti della tratta, o anche sem­pli­ce­mente nel cliente della pro­sti­tuta, il pro­blema. Impor­tante è che non par­cheggi in dop­pia fila e che paghi pun­tual­mente il biglietto

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CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo edi­to­riale Euge­nio Scal­fari ha sol­le­vato un tema d’importanza cru­ciale: il declino della demo­cra­zia par­te­ci­pata. Rav­vi­san­done la ragione nell’indifferenza dei cit­ta­dini. Che la demo­cra­zia sia in dif­fi­coltà è fuor di dub­bio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle tra­sfor­ma­zioni cui la demo­cra­zia è sot­to­po­sta e che hanno deru­bri­cato da demo­cra­zia par­te­ci­pante a demo­cra­zia respin­gente. L’Italia non è un caso unico. Le demo­cra­zia respin­genti ci sono ovun­que e in Ita­lia la si è comin­ciata a fab­bri­care da un quarto di secolo fa.

Renzi sta solo met­tendo il tetto all’edificio di una demo­cra­zia che odia i cit­ta­dini. L’odio per i cit­ta­dini si mani­fe­sta anzi­tutto sul ter­reno delle poli­ti­che. L’austerità è comin­ciata tre anni fa. Ma le decur­ta­zioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parec­chio si è aggra­vata a dismi­sura la pres­sione fiscale sui red­diti medi e bassi. E sono enor­me­mente peg­gio­rate le con­di­zioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qua­lità sta decli­nando da un pezzo, nel pub­blico e nel pri­vato. In com­penso chi comanda non pensa a dismet­tere lussi inu­tili e dan­nosi, come la Tav e gli F35, né tan­to­meno si mostra dispo­sto a ridurre gli inde­centi pri­vi­legi di cui godono i poli­tici e butta solo fumo negli occhi.

La seconda mani­fe­sta­zione di odio per i cit­ta­dini sta nel respin­gerli come tali. Votare non è un gesto natu­rale. Per molti, spe­cie i gio­vani, è un atto che va inco­rag­giato. Sia tra­mite le per­for­man­ces della poli­tica, che al momento non aprono nean­che più alla spe­ranza, sia sot­to­li­nean­done l’importanza. Sia mediante un’azione costante di col­ti­va­zione del civi­smo un tempo svolta dalla scuola e dai par­titi.

L’istruzione ha pure la fun­zione di socia­liz­zare i gio­vani alla vita col­let­tiva e alla par­te­ci­pa­zione poli­tica. Ben cono­sciamo le con­di­zioni lamen­te­voli in cui la scuola è ridotta e lo spre­gio con cui sono trat­tati gli inse­gnanti. Quanto ai par­titi, il loro sof­fo­ca­mento è stato deli­be­rato. In nome di una demo­cra­zia che decide, li si è disat­ti­vati, pro­met­tendo che a col­ti­vare il civi­smo avrebbe prov­ve­duto la società civile. Solo che la società civile, peral­tro ambi­gua, non com­pensa l’attività di edu­ca­zione e inci­ta­mento che i par­titi di massa svol­ge­vano su vasta scala. Sono rima­sti i par­titi impro­pria­mente detti per­so­nali, che sono cir­co­scritte cosche affa­ri­sti­che, riser­vate ai super­pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, che non sanno nem­meno com’è fatto il mondo e che nutrono uni­ca­mente ambi­zioni di potere.

I cit­ta­dini non sono scioc­chi e osser­vano tutto que­sto. Pos­sono magari illu­dersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indi­gnati e arrab­biati. Di quali mezzi tut­ta­via dispon­gono per mani­fe­stare la loro sofferenza?

Ci hanno per­fino pro­vato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irri­le­vante di elet­tori ha pro­vato a ribel­larsi votando per Beppe Grillo. Ma per sco­prire ben pre­sto che il suo incon­te­ni­bile nar­ci­si­smo media­tico è solo ser­vito a ste­ri­liz­zare la loro indi­gna­zione, spia­nando la strada alle bru­ta­lità del ren­zi­smo. Quando non c’è nar­ci­si­smo, com’è suc­cesso in Gre­cia, pare stia andando anche peg­gio. Un popolo intero sta san­gui­no­sa­mente pagando le dis­si­pa­zioni di una ristretta casta di poli­ti­canti e di potenti. Ma tutta l’Europa con­giura affin­ché la sua ribel­lione elet­to­rale, che ha cac­ciato i respon­sa­bili, non pro­duca alcun aggiu­sta­mento. Die­tro la grande nar­ra­zione – let­te­ra­ria, cine­ma­to­gra­fica, media­tica, gior­na­li­stica e spesso anche acca­de­mica – del disin­canto e dell’indifferenza, cova insomma una ribel­lione silen­ziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.

Un po’ più di atten­zione andrebbe pre­stata ai dati sull’astensione. Il nostro gar­bato capo del governo si fa forte del 40% di con­sensi otte­nuti alle euro­pee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elet­tori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro con­senso. Non è poco per riven­di­care un grande con­senso popo­lare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elet­tori arrab­biati smet­tesse di aste­nersi e cedesse alle lusin­ghe di uno dei tanti lea­der popu­li­sti che ci sono in giro ne sca­tu­ri­sca un esito elet­to­rale che chiuda per­sino la depri­mente bot­tega della demo­cra­zia respingente

«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015

Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.

Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.

Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.

Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.

Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.

A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.

Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.

La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.

Se c'è ancora chi non ha compreso che cos'e di nefasto il regime instaurato dal partito do Renzo Renzi, e ha deciso di non voler cambiare idea non legga questo lucidissimo, accorato articolo. LaRepubblica, 25 febbraio 2015


VIVIAMO un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità.

Il tempo esecutivo e nonpolitico è anche tempo della tecnica che soppianta la democrazia. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa. La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un’ (altra) ideologia.
Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue — segue per conseguenza — l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche. Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè — per usare uno slogan — come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ ente viene presentato e imposto come se fosse l’ essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, eccetera.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta — come dicevano i costituzionalisti d’un tempo — la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umili spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro — deputati e senatori — che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo.

Nella democrazia costituzionale — l’opposto della tirannia della maggioranza — non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua.

Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso — non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante — è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del Csm, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

L’articolo è una sintesi del testo che Gustavo Zagrebelsky presenterà per la discussione a Firenze venerdì e sabato all’associazione Libertà e Giustizia

Un capo del governo pienamente post-democratico (sostanzialmente a-democratico) gestisce il declino italiano e fa passare la cura da cavallo Ue senza Memorandum». S

bilanciamoci.info, 20 febbraio 2015

La fotografia scattata un anno fa dallo speciale di “Sbilanciamo l’Europa” sull’alba del renzismo si rivela perfettamente a fuoco ancor oggi, in quello che potremmo definire il “meriggio del renzismo”. Non certo “grande” come quello dello Zarathustra di Nietzsche, ma, allo stesso modo, capace di mostrare le cose senz’ombre e per questo “rivelatore dell’enigma dell’eterno presente”.

S’individuavano allora i suoi tratti di continuità con il doroteismo democristiano, con l’aziendalismo mediatico berlusconiano e con l’affabulazione post-socialista e neo-liberista blairiana. Si mostrava il carattere sostanzialmente conservatore, se non reazionario, della sua rete sociale di riferimento (di “blocchi sociali” non si può più parlare nella nostra società liquida), collocato prevalentemente sul versante del “privilegio”, cioè di chi nel generale declino sociale conta di salvarsi, grazie a protezioni, giochi finanziari e posizioni di rendita.

Soprattutto si denunciava l’“internità” del suo progetto all’“agenda liberista” della finanza internazionale e della cupola che domina l’Europa, mascherata sotto una retorica tribunizia da “palingenesi totale”. Un novum, nel panorama antropologico-politico, che permetteva fin da allora di parlare dell’“apertura di una nuova fase”, segnata da uno stile di governo ormai pienamente post-democratico (e sostanzialmente a-democratico).

Ed è proprio questo elemento che si è drammaticamente confermato, fino ad assumere carattere dominante, nell’anno di governo che ci sta alle spalle. Sia le cosiddette “riforme istituzionali” sbozzate con la scure dei colpi di mano parlamentari, sia quelle “sociali” (meglio sarebbe chiamarle anti-sociali) come il decreto Poletti e il Jobs Act, ma anche – non dimentichiamolo, il decreto Sblocca Italia – ricalcano, in forma imbarazzante, le linee guida della Troika, senza neppure uno scostamento di maniera. Riproducono, introiettate come proposte “autonome”, gli stessi punti dei famigerati Memorandum imposti, manu militari dai Commissari europei, a paesi come la Grecia (che di quelle cure è socialmente morta), ma anche come la Spagna (che si dice abbia i “conti a posto” ma una disoccupazione sopra il 25%), come il Portogallo (14% di disoccupati, quasi il 50% di pressione fiscale), e come l’Irlanda (debito delle famiglie sopra il 200% del loro reddito). Si chiamano privatizzazioni, abbattimento del reddito e dei diritti del lavoro, de-costruzione dei sistemi di welfare, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali, riduzione della Pubblica Amministrazione, limitazione della democrazia e dell’autonomia delle assemblee rappresentative, neutralizzazione dei “corpi intermedi”.

Il tutto coperto da una narrazione roboante e “rivendicativa”, fatta di “pugni sul tavolo”, lotta alla “casta” e sua rottamazione, caccia al gufo e apologia della velocità, “cambiamenti di verso” e taglio delle gambe ai frenatori, denuncia dell’inefficienza degli organi rappresentativi (Senatus mala bestia), attacco ai sindacati e in generale alle rappresentanze sociali. È, appunto, il “populismo dall’alto”. O il “populismo di governo”: una delle peggiori forme di populismo perché somma la carica dissolvente di quello “dal basso” con la potenza istituzionale della statualità. E piega il legittimo senso di ribellione delle vittime a fattore di legittimazione dei loro carnefici. Non è difficile leggere, dietro la struttura linguistica del discorso renziano, le stesse immagini e gli stessi stilemi dell’apocalittica grillina, l’enfasi da “ultima spiaggia”, la denuncia dei “parassiti”, la stigmatizzazione dei partiti politici (compreso il proprio), e lo stesso perentorio “arrendetevi” rivolto ai propri vecchi compagni diventati nemici interni. Simile, ma finalizzato, in questo caso, a una semplice sostituzione di leadership interna. A una sorta di “rivoluzione conservatrice”.

Questo è stato Matteo Renzi in quest’anno di gestione del potere: un “populista istituzionale”. Forse l’unica forma politica in grado di permettere al programma antipopolare che costituisce il pensiero unico al vertice dell’Europa di imporsi in un paese come l’Italia, nella crisi generale e conclamata delle forme tradizionali della politica (in particolare della “forma partito”), e nel deficit verticale di fiducia nei confronti di tutte le istituzioni rappresentative novecentesche. È stato lui il primo “imprenditore politico” che ha scelto di quotare alla propria borsa quella crisi: di trasformare da problema in risorsa il male che consuma alla radice il nostro sistema democratico. Con un’operazione spregiudicata e spericolata, che gli ha garantito finora di galleggiare, giorno per giorno, sulle sabbie mobili di un sistema istituzionale lesionato e di una situazione economica sempre vicina al collasso, senza risolvere uno solo dei problemi, alcuni incancrenendoli, altri rinviandoli sempre oltre il successivo ostacolo. E comunque “gestendo il declino” col piglio del broker (è lui, d’altra parte, che ha dichiarato senza vergognarsene che è stato il primo a capire che l’Italia era un paese “scalabile”), pronto a uscire dall’investimento un attimo prima del crollo in borsa. Novello funambolo – per ritornare alle metafore nistzscheane –, in bilico sul filo. E la residua platea elettorale a naso in su, di sotto, nel mercato, incerta tra l’aspettativa della caduta e il timore che oltre quella sua siepe ci sia solo il buio.

È stato quel buio, finora, il suo principale alleato: la promessa-minaccia che “après moi le déluge”. Dalla Grecia, a oriente, e dalla Spagna a occidente, arrivano ora lampi di luce, che potranno, nei prossimi mesi, dissipare quel buio.

«Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi leader che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto».

La Repubblica, 8 febbraio 2014

Il paradosso nel quale la crisi ci ha catapultato è far apparire rivoluzionario il linguaggio dei diritti sociali. Tsipras che attraversa l’Europa per ricordare ai suoi che le democrazie non sopravvivono se non sanno promettere altro che stagnazione, povertà e debiti, che l’austerità senza progetto confligge con le promesse delle costituzioni, non è più radicale del Presidente appena eletto. La democrazia è, essa, radicale. I leader che la impersonano non devono far altro che ricordarlo. Un promemoria che ci tenga svegli, disposti ad accettare di mettere in soffitta il discorso dei diritti, aspettando tempi migliori. E chi stabilisce quando i tempi saranno migliori?

Rimuovere gli ostacoli alla nostra libertà e eguaglianza è un lavoro dell’oggi, non di un futuro indefinito. Da quando le società hanno deciso di rinunciare alla violenza e di immettersi nel cammino della persuasione, lo slogan di battaglia ha rivestito i panni dei diritti fondamentali e delle promesse costituzionali. Non ha perso radicalità, ne ha anzi acquistata se è vero che pronunciarli fa apparire radicale un moderato.

Gli istituti di ricerca che misurano lo stato della democrazia nei Paesi occidentali segnalano un declino di fiducia dei cittadini nella capacità dei governi di determinare in meglio le sorti economiche dei loro Paesi. La crescita della corruzione e la perdita di legittimità dei partiti politici completano questo quadro piuttosto negativo. Evidenze empiriche, scrive Larry Diamond, di un decennio micidiale di «declino progressivo nell’attrazione verso la democrazia ». Decadenza, stagnazione, sfiducia rendono i governi occidentali perfino deboli competitori dei regimi autoritari, adagiati nella pratica del balbettio negativo del non possumus, quasi a sperare che i loro cittadini si adattino all’idea che diritti e principi debbano essere messi in deposito e non possano essere usati oggi. Sembra che il linguaggio dei diritti e dei principi costituzionali non si adatti ai tempi di crisi, che sia un lusso da rinviare a tempi migliori. Il pudore nell’uso di questo linguaggio è un indice della crisi che avvilisce le nostre società poiché sconfessa nella pratica quel che la democrazia promette: che i diritti siano guida del governo della vita materiale e dei bisogni. I diritti non sono sogni di visionari.

Il linguaggio dei diritti è il grano di utopia pragmatica del quale le società libere hanno bisogno affinché la politica non diventi una fotografia della stagnazione e i cittadini non vedano nello status quo l’unico orizzonte possibile. Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Sergio Mattarella ha reiterato, quasi a farne una litania, gli articoli della Costituzione. «Sussiste oggi l’esigenza di confermare il patto costituzionale che mantiene unito il Paese e che riconosce a tutti i cittadini i diritti fondamentali e pari dignità sociale e impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza».

Il bisogno di “confermare” quel patto a noi stessi per primi, di leggere a voce alta quell’Articolo 3 che, a valutare lo stato della giustizia sociale, sembra più che una promessa una favola bella. E il Presidente lo ha letto proprio pensando che viviamo in un tempo di crisi, presentandolo come un volano per reagire. La politica che ci promette di trattare tutti e tutte con dignità di liberi e uguali non è una politica dei sogni; è una politica realistica, dotata di una bussola sicura e capace. Impegnarsi a togliere gli ostacoli che limitano la nostra libertà e eguaglianza vuol dire imprimere una svolta alla politica dell’austerità, cambiare rotta e seguire le coordinate delle eguali opportunità.

«La democrazia è la lotta con cui i popoli costruiscono sistemi politici per impedire il consolidarsi di gruppi di potere. L’Ue si è sottratta a questa concezione. Abbiamo bisogno di rinegoziare i trattati europei, di eliminare misure inique come il fiscal compact e il Patto di stabilità, di tirare fuori l’Ue dalla spirale di guerre innescata dagli Usa».

Comune.info, 7 febbraio 2015

La concezione della democrazia, da sempre, esprime il volere e il potere del popolo, che le istituzioni dovrebbero prendersi cura di realizzare. La Costituzione italiana del 1948 recepisce questo concetto. Le istituzioni sono pertanto espressione del popolo e della sua volontà, e la loro legittimità nasce dalla capacità di esercitare queste funzioni mediante il potere di revocabilità degli eletti, che le elezioni e altre forme di espressione del consenso consentono. Un sistema politico, questo, che impedisce il consolidarsi di gruppi di potere e posizioni privilegiate di governo in contrasto con la volontà popolare e il bene comune.

Da qui il “disagio” dei gruppi e delle persone che percepiscono il potere politico come la continuazione del proprio potere economico e personale, e il governo della società un esercizio troppo complicato e importante per lasciarlo nelle mani del “popolo”. In questa relazione funzionale tra popolo e istituzioni si è inserito il gioco del diritto, nel tentativo, spesso riuscito, di creare un dualismo nell’unità del popolo. Questo inizia con l’introduzione dell’autonomia delle istituzioni dalla politica, cioè dall’espressione della volontà popolare, la loro successiva indipendenza, che dalle alte cariche dello Stato si estende poi alle istituzioni (Parlamento), ai singoli rappresentanti, ecc. in una corsa generalizzata verso l’esproprio della sovranità popolare.

La base teorica di questa operazione di esproprio della sovranità popolare nello Stato moderno è la scoperta dell’individuo, la sua indipendenza dall’unità dell’insieme di cui fa parte, il suo diritto a stracciare quel contratto sociale che lo lega alla comunità, la sua indifferenza al volere dei cittadini che lo hanno eletto o nominato a svolgere determinate funzioni. Siamo quindi in presenza di quella che Pietro Barcellona definisce l’affermarsi della “soggettività astratta”, “la società degli individui”, cioè di un individuo libero dai vincoli della stratificazione sociale ma che “consegna tuttavia la sua libertà all’autonomia del sistema economico e alla trasformazione dei rapporti umani in rapporti di scambio tra cose equivalenti, cioè agli automatismi delle cosiddette leggi economiche e all’oggettivazione di ogni valore nella forma del valore di scambio”. (Barcellona P., Il declino dello Stato, Dedalo Bari 1998, pp. 21-22).

Si viene così a costituire un ordine “moderno” che ruota intorno a due poli “logicamente” incompatibili: “il principio della libertà individuale che assume l’esercizio del diritto soggettivo come fonte dell’ordinamento e il principio dell’autogoverno sociale, che istituisce la sovranità popolare e la democrazia come esclusiva depositaria del potere normativo”. (Barcellona, Diritto senza società, Dedalo, p. 88.). Nei decenni dell’affermarsi e dell’imporsi della globalizzazione (1970-2000) il domino del primo principio è apparso irreversibile, il che ha dato vita a numerose teorie (alienazione, omologazione, società liquida, ecc.). Diluito così il popolo nei flussi della “storia”, quella decisa e descritta da altri, si è tentato di sostituirlo con la teoria delle élite, una volta intellettuali oggi esperti e politici, alle quali spetta il compito di elaborare e governare i destini della società.

Al disagio della democrazia si è pertanto reagito intervenendo sui due soggetti capaci di dare espressione alla volontà popolare: il popolo e le élite. L’Europa, dagli anni Settanta in poi, è diventata un importante laboratorio della sperimentazione di questo nuovo meccanismo del controllo sociale e della fine della democrazia, introdotto dalla globalizzazione e governato dall’Unione Europea. Ci si è mossi scientificamente su più linee di azione. Anzitutto manipolando i processi di formazione del consenso popolare mediante la volgarizzazione della sua cultura di base realizzate con forme moderne di retorica e populismo messe in atto con i mass-media e la televisione in particolare. Si è così prodotta la manipolazione dei bisogni, dando a vita a società che, come diceva Federico Caffè, hanno abbondanza del superfluo ma sono prive delle cose essenziali alla vita delle famiglie e delle persone. In secondo luogo ci si è concentrati sulla formazione e selezione delle élite.

Sono state rianimate le forme di ingabbiamento dei gruppi sociali e professionaliche costituiscono la base di reclutamento dei ceti burocratico-amministrativi della società, mediante il rilancio delle associazioni massoniche e convogliando i ceti intellettuali nelle fondazioni. Parallelamente si è mirato ai processi di alta formazione mediante le istituzioni della “società della conoscenza” rivolte al controllo della formazione universitaria, della ricerca, ecc.. le cui fasi comprendono la destabilizzazione dell’insegnamento universitario e della ricerca a livello nazionale e la sua sostituzione con Centri di eccellenza. (Amoroso. B., Figli di Troika, Castelvecchi, Roma, 2013). Al convergere degli effetti di queste linee di intervento dobbiamo l’affermarsi del pensiero unico.

Ma la repressione del legame sociale non ha mai prodotto la sua estinzione, anche se lo ha costretto nelle catacombe della famiglia, del locale, delle associazioni di solidarietà e religiose, ecc. Infatti questo è riesploso alla luce del sole anche attraverso le maglie ben controllate e protette dei sistemi politici e di controllo economico predisposti quando le forme di rapina hanno travalicato i confini della sopravvivenza e della sopportabilità sociale. Le elezioni europee del 2014, le ottave dal 1979, si sono tenute a maggio nei 28 Stati membri dell’UE hanno dato chiara visibilità al formarsi e crescere di una rivolta sociale. In particolare la crisi dell’eurozona, che ha colpito tutti i paesi europei e in particolare i paesi dell’Europa del sud e l’Irlanda, ha prodotto una diminuzione significativa del consenso popolare per le politiche di austerità imposte dalla Troika, e portato la sfiducia dei cittadini in tutti i paesi membri verso i trattati e le istituzioni europee a un massimo storico. Indagini campionarie svolte prima delle elezioni avevano segnalato chel’approvazione dei greci per le misure di Bruxelles era diminuita dal 32 per centodel 2010 al 19 per cento nel 2013, e in Spagna dal 59 per cento del 2008 al 27 per cento del 2023 (Gallup 8.1.2014). Giudizi positivi sulle élite di Bruxelles sono espressi da 4 paesi membri su 28 (Huffington Post, 20.1. 2014).

La ‘vocazione democratica’ dell’élite di Bruxelles è ben messa in luce dalle reazioni che questi dati hanno provocato. ‘Reazioni infondate e dovute all’estremismo di destra e di sinistra’, secondo il presidente della CE José Manuel Barroso che è solito volare alto con il suo pensiero; e quelle più terrene del ministro degli esteri tedesco Frank- Walter Steinmeler secondo cui le forze centrifughe messe in moto dalla crisi sono “pericolose” e gli euroscettici “senza cervello”. Con l’avvicinarsi delle previsioni alla data delle elezioni si è andato prefigurando un quadro che ha visto aumentare le posizioni degli oppositori alle politiche di Bruxelles dal 12 per cento al 16 – 25 per cento con il diffondersi della preoccupazione delle classi dirigenti per il rafforzarsi dei partiti euroscettici, anche se la stampa di regime era tutta impegnata a dimostrane l’inconsistenza numerica e ideologica.

Il messaggio alla vigilia delle elezioni è stato quello di votare sui temi europei e per il Parlamento europeo, senza lasciarsi coinvolgere dai malumori verso le politiche dei governi nazionali. Si è cioè tentato in modo maldestro e poco lusinghiero per i partiti nazionali di scaricare su di loro le colpe della crisi e delle politiche adottate denunciandone implicitamente il ruolo di portaborse. Messaggio in gran parte pervenuto poiché i partiti euroscettici e di opposizione si sono concentrati sui temi europei uscendo dall’ambito specifico nazionale, e affrontando i temi nodali del potere della finanza, del centralismo burocratico di Bruxelles, degli errori nel processo d’integrazione che anziché favorire la cooperazione in Europa ne ha distrutto le basi stesse del progetto.

I risultati di questo confronto politico sono noti. Quasi la metà dei cittadini europei non ha partecipato alle elezioni per dimostrare il proprio dissenso da Bruxelles.Astensione particolarmente accentuata nei paesi dell’est dei quali si erano decantati gli entusiasmi europeisti a dimostrazione della giustezza delle politiche adottate dalla CE. I votanti in Slovacchia sono stati il 13 per cento, intorno al 20 per cento nella Repubblica Ceca e in Polonia, e al 30 per cento in Romania, Bulgaria e Ungheria. Negli altri paesi la percentuale ha oscillato nella media intorno al 50 per cento ma il dato più importante è che per la prima volta i partiti critici verso l’élite di Bruxelles hanno raggiunto posizione di guida politica nei rispettivi paesi: Danimarca, Gran Bretagna, Francia, ecc. A questo punto si registra il paradosso.

La reazione di Bruxelles, e delle “teste scambiate” della sinistra, non fa riferimento alla volontà popolare di critica della Troika e delle politiche di austerità, ma alla posizione che questi partiti occupano nella politica nazionale già prima delle elezioni. Sono le posizione espresse da alcuni di questi partiti nel contesto nazionale, di critica delle politiche sociali e d’immigrazione dei propri governi, che sono assunte a valutazione del loro orientamento. L’euroscetticismo cioè si trasforma secondo i soloni e portaborse della CE in xenofobia, nazionalismo, fascismo. Con l’eccezione, ovviamente, dei partiti di sinistra, conservatori e liberali, nonostante la loro responsabilità nel produrre le cause delle guerre e delle immigrazioni in Europa, e la gestione diretta di forme incivili di governo di questi “flussi”.

Il quadro europeo uscito dalle elezioni è chiaro. Solo due paesi esprimono, anche se con forti astensioni, la loro piena soddisfazione per i piani integralistici pantedeschi europei: la Germania e l’Italia. In Germania vincono i conservatori della Merkel e in Italia quella lobby di interessi massonici e corporativi coalizzata nel Pd. Se il Pd avesse portato i suoi voti nell’ambito delle opposizioni al progetto pantedesco dell’Europa si sarebbe creata l’occasione storica di rimettere in discussione su basi solide il progetto europeo di pace e cooperazione contro quello della competizione e della guerra sostenuto dai conservatori e liberali. Se le “teste scambiate” dei vari partiti di sinistra arrivati al parlamento europeo avessero saputo riconoscere le scelte della volontà popolare espressasi nei vari paesi, ovviamente canalizzatasi verso quei partiti che sulle politiche europee avevano espresso il proprio dissenso, si poteva costruire un fronte di opposizione alla Troika che avrebbe impedito lo sconcio dell’elezione del nuovo presidente dell’UE e del consolidarsi del potere della BCE. Ma così non è stato. Il Pd ha scelto la strada della “grande coalizione” con liberali e conservatori, insieme al resto della socialdemocrazia europea. Si realizza così il patto Berlino-Roma nel quale, come negli anni Venti, confluiscono gli interessi della Germania, certamente dominante, con la stampella italiana di mussoliniana memoria oggi impersonata da Renzi nella speranza di ricavare qualche briciolo di dividendo da questo tradimento degli interessi dell’Europa.

Le élite europee, su comando dei padroni della finanza internazionale gestiti sapientemente da Mario Draghi, stanno così riscaldando i motori che porteranno al disastro del progetto europeo e dei paesi dell’Europa del sud, compresa l’Italia. Nulla è cambiato nel funzionamento della Commissione Europea. La BCE sta portando avanti coerentemente i suoi piani di esproprio dei risparmi degli europei completando l’operazione iniziata nel 2008, e introducendo misure – l’Unione Bancaria – che mettono nelle mani della peggiore finanza speculativa il sistema bancario europeo.

Di questo fa parte lo smantellamento di tutte le forme anomale – perché cooperative e di sostegno dei sistemi produttivi locali – come le Banche Popolariecc (leggi anche Governo, capitali e banche impopolari). Le recenti misure di allargamento del credito predisposte dalla BCE non solo non rispondono a nessuno dei problemi urgenti posti dalle economie dell’Europa del sud, ma sfacciatamente mettono a disposizione del sistema finanziario una quota prestabilita (del 20 per cento) per il riciclaggio dei titoli speculativi e il finanziamento delle operazioni dell’alta finanza utili anche a salvare le proprie banche dal collasso, lasciando il restante 80 per cento a carico degli stati nazionali. Ma non per tutti ovviamente, e quindi la Grecia va tenuta fuori.

Come nelle precedenti crisi mondiali la reazione e la proposta di uscita dalla crisinon avviene nei paesi forti dove questa era attesa (Francia e Italia) ma nei punti deboli del sistema (la Grecia e la Spagna). Le élite politiche e imprenditoriali di Francia e Italia sono pronte a prostituirsi per avere i resti del dividendo delle guerre e delle rapine finanziarie; il che non salva i ceti colpiti dalla crisi dallo scivolamento graduale verso la povertà e la miseria, ma forse riesce a tenere il consenso di qualche settore del pubblico e del sindacato della grande industria.Potrà la Grecia, lasciata sola, affrontare l’arroganza e lo strapotere della finanza internazionale e della Germania?

La proposta del nuovo governo greco riproduce il testo di una proposta bene elaborata (A modest proposal) rivolta ad alleggerire con la solidarietà europea il peso della crisi verso il proprio paese. Una proposta di certo fattibile e realistica che indica anche gli strumenti a disposizione dell’UE, per risolvere la crisi. Tuttavia, come feci osservare al momento della sua presentazione al seminario nell’Università di Austin negli Stati Uniti organizzato da James Galbraith, è pensabile che la UE e la BCE rivedano i propri piani di rapina in base a considerazioni di buon senso? Una spinta più forte forse potrebbe. Come abbiamo scritto nel testo Un Europa possibile: dalla crisi alla cooperazione (Amoroso e Jespersen, Castelvecchi 2012) un fronte unito di paesi dell’Europa del sud (Grecia, Spagna, Portogallo e Italia) avrebbe di certo maggiori capacità di pressione e negoziazione per arrivare a una “modesta proposta” capace tuttavia di alleviare la gravità della crisi sui ceti più colpiti e il peggio che si annuncia.

Un fronte di paesi che avrebbe la forza di imporre una rinegoziazione dei trattati europei, togliere le misure inique del fiscal compact e del Patto di stabilità, tirare fuori l’UE dalla spirale di guerre innescata dagli Stati Uniti. Una proposta che salverebbe l’Europa dal collasso inevitabile verso il quale si è avviata. Per far questo è importante che la sinistra e le altre forze che hanno espresso la loro opposizione ai piani della Troika si uniscano superando le divisioni partitiche e le etichette di destra e di sinistra che oggi servono solo a dividere i popoli europei.

La democrazia si riconquista dando voce al popolo, con buona pace di chi ama tuttora discettare sul “disagio” della democrazia.

Bruno Amoroso, presidente del Centro Studi Federico Caffè e collaboratore di Comune-info, è stato uno degli allievi e collaboratori del noto economista Federico Caffè (nel libro «La stanza rossa», per Città aperta, traccia il significato dell’avventura intellettuale e umana dell’amico e maestro). Docente presso l’università di Roskilde (Danimarca) e quella di Hanoi (Vietnam), Amoroso è tra i promotori dell’Università del Bene Comune ed è autore di numerosi articoli e libri (tra cui «Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro» per Dedalo edizioni; l’ultima pubblicazione è «L’Europa oltre l’Euro», edita da Castelvecchi).

L'errore di fondo dell'attuale pensiero dominante (e azione governativa) sulla scuola, alla luce di due giganti del pensiero rivoluzionario del XX secolo.

Comune.info, newsletter, 3 gennaio 2015

Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.

Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l´hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c´è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.

Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.

Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).

Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento – un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi – è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.

Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.

Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)

Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.

La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco.

Chiacchiere. Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola. L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.

Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma,un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.

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