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Terribili ombre di un passato che credevamo sepolto. Aveva ragione Bertold Brecht: il ventre che generò il nazismo è ancora fecondo.

La Repubblica, 20 dicembre 2015

In Danimarca si pensa di vendere a caro prezzo il biglietto di ingresso ai migranti. La ministra per l'integrazione Stoejberg ha presentato una proposta di legge per "espropriare" all'ingresso tutti i migranti di ogni bene al di sopra di una piccola cifra. Un pagamento anticipato delle spese di asilo e di assistenza. È una notizia che merita di essere attentamente considerata da tutti i cittadini europei. È un passo ulteriore nell'inedito esperimento di rapporti tra popoli migranti e popoli stanziali in atto ai nostri giorni. Non del tutto inedito, tuttavia.

Esso ci richiama alla mente quella tripartizione di ruoli che secondo lo storico Raul Hilberg si disegnò ai tempi del genocidio nazista e divise i contemporanei dei fatti tra carnefici, vittime, spettatori. Ci si chiede se sia possibile applicare questa tripartizione ai nostri tempi. Quali siano le vittime è evidente: in Europa attendiamo fra poco l'arrivo del milionesimo migrante per chiudere il bilancio del raccolto di questo anno. L'estate scorsa se ne attendevano ottocentomila e sembravano già troppi.

Nel conto ci sarebbe da considerare anche quelli morti per via. All'Università di Amsterdam si censiscono i casi di "Death at the borders of Southern Europe". È l'elenco dei caduti di una guerra senza fine. A differenza di quelli delle guerre mondiali europee del '900 questi morti sono rappresentanti con una info-grafica fatta di tanti puntini dai colori diversi: in blu chiaro quelli identificati, in blu scuro quelli senza nome. Soldati ignoti della grande guerra in atto. Ma le vittime non sono solo quelle morte in viaggio. La strada dell'Europa è dura e piena di imprevisti anche per via di terra. I piedi dei bambini e delle donne migranti fanno pensare a quelli della sirenetta di Andersen.

La nostra Europa così poco unita sembra divisa solo dalla diversa asprezza delle prove a cui sottopone i dannati della terra. E gli europei, cioè noi, sembrano impegnati in mutevoli giochi di ruolo: oggi carnefici ieri spettatori. Pronti comunque anche a livello politico ufficiale a rigettare responsabilità sul vicino e sempre protetti da chi caccia le cattive notizie nelle pagine interne dei giornali: come quella dei cinque bambini annegati due giorni fa nelle acque turche. Bambini sì, ma migranti. Fossero stati figli di gitanti ne avremmo conosciuto nomi e nazionalità e visto le foto in prima pagina. Chi non ricorda il corpo del piccolo Aylan, quella sua t-shirt rossa e quei pantaloncini blu scuro?

La donna che scattò la fotografia disse di essersi sentita pietrificata: e sembra che il premier inglese Cameron dopo averla vista abbia modificato la durezza delle sue posizioni sull'immigrazione. Ma oggi tira un vento diverso. Impallidiscono i colori delle buone intenzioni dell'estate passata . Quelle della Merkel, che permisero a tutti i tedeschi per una volta almeno di sentirsi buoni, per ora hanno incontrato più ostacoli che consensi. Alla prova dei fatti contano le mura, quelle materiali e quelle legali e burocratiche che sono state alzate davanti a ogni frontiera, specialmente ma non solo a quella orientale dell'Europa, dove intanto la Turchia svolge il lavoro sporco ma ben retribuito di cane da guardia.

È bastata l'ombra del terrorismo, l'idea che sui barconi arrivino da noi dei fanatici votati al martirio stragistico e la paura ha fatto il resto, gonfiando le vele dei partiti xenofobi, cambiando di colpo il paesaggio politico francese. Il rapporto tra parole e fatti può essere misurato da quello che è accaduto il 18 dicembre. Era il giorno della Giornata internazionale di solidarietà con i migranti, fissato a ricordo della data in cui l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò nel 1990 la Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei migranti.

Ma proprio in quel giorno, sulla festa delle buone intenzioni è calata dalla Danimarca l'ombra cupa del progetto di legge che abbiamo ricordato. In quel paese di una democrazia e di un welfare idoleggiati non solo dai migranti si avanza la legge che promette di essere la soluzione finale del problema. Il governo, espresso dal partito xenofobo Venstre, ha già fatto parecchio in questo senso. Ora sta progettando un vero salto di qualità. Chi si presenterà alle frontiere sarà perquisito e si vedrà sequestrare danaro e ogni oggetto di valore.

Si lasceranno le fedi nuziali, si dice: e non si arriverà certo a strappare ai migranti i denti d'oro, come i nazisti facevano alle loro vittime. È il danaro che conta: è questa la misura unica del valore nell'età del neoliberismo. Anche se la violenza sui corpi non è una frontiera insuperabile. Proprio in questi giorni le cosiddette autorità europee hanno rimproverato quelle italiane per le mancate registrazioni delle impronte digitali dei migranti: e hanno imposto di permettere l'uso della forza per la raccolta delle impronte e di "trattenere più a lungo" i migranti che oppongono resistenza.

Dunque, guardiamo alla sostanza, ai duri fatti di un conflitto tra le ragioni della più elementare umanità e l'avanzare strisciante di un ritorno preventivo a misure che sono iscritte nelle pagine peggiori del nostro recente passato. Tocca a tutti noi come spettatori decidere se voltare altrove lo sguardo o resistere attivamente al degrado della realtà - questa sinistra realtà europea dei nostri giorni. I valori che sono in gioco non sono solo i soldi e gli oggetti preziosi dei migranti: sono quelli immateriali che dovrebbero costituire il fondamento di una costruzione europea oggi tutta da ripensare.

«Il governo del grande inganno. La menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. E la democrazia rischia di andare in malora».

Ilmanifesto, 17 dicembre 2015, con postilla

La politica in democrazia si affida a due funzioni fondamentali: l’esercizio di un potere legittimo (fondato sul consenso della maggioranza) e la produzione di narrazioni pubbliche. Il rapporto tra queste due funzioni costituisce un buon criterio di giudizio sulla qualità di un governo.

Quanto maggiore è la distanza tra l’una e l’altra (quanto meno attendibili sono le informazioni diffuse dal governo in merito ai propri obiettivi e alla situazione reale del paese), tanto minore è la legittimità sostanziale di un governo. Il quale si pone fuori dal quadro democratico se, nel perseguire i propri disegni, si affida alla menzogna politica, deformando per questa via l’esercizio della sovranità popolare. Stando così le cose, si può sostenere che il governo in carica è un esempio di violazione dei principi democratici, benché i critici che si ostinano ad affermarlo siano sempre meno numerosi (e sempre più rassegnati).

Naturalmente il governo Renzi è un paradigma di potere antidemocratico in primo luogo per i suoi obiettivi. Renzi e i suoi sodali non fanno altro, da quasi due anni, che attaccare diritti e condizioni materiali del lavoro dipendente, smantellando tutele giuridiche e contrattuali e conquiste salariali strappate in decenni di lotte. Non fanno altro che bombardare lo Stato sociale (la sanità; il sistema pensionistico, ormai tra i più iniqui d’Europa; i meccanismi di salvaguardia del diritto allo studio) e le condizioni di vita dei meno abbienti, circuìti con l’uso circense del denaro pubblico in funzione di mancia elettorale. Non fanno altro che spostare ricchezza verso l’alto a forza di privatizzazioni, misure fiscali anticostituzionali e regalìe varie, come quelle varate dal decreto salvabanche, che, con tutti i disastri che sta provocando, ha già fatto la fortuna dei nuovi vertici bancari e alla fine vedrà, come di consueto, l’intervento salvifico della Cassa depositi e prestiti. Non fanno altro, infine, che colpire le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa dando corpo a un disegno autoritario che conferisce ogni potere all’esecutivo, cioè alla cricca dirigente del partito di maggioranza relativa (vale a dire al 15, 20 per cento al massimo del corpo elettorale).

Ma il governo Renzi è un caso estremo di violazione dei principi democratici anche per la distanza tra pratica e narrazione propagandistica. Qui sta forse la più grande differenza rispetto ai governi Berlusconi e alla destra in generale, che se non altro non ha mai nascosto di voler difendere sopra ogni altra cosa la «libertà» dei privati, cioè proprietà, patrimoni e privilegi. Anche Renzi capeggia un governo di destra; realizza politiche di destra; trasforma il paese in base a un disegno schiettamente di destra. Ma – come a suo tempo Tony Blair – fa tutto questo da uomo «di sinistra». Agisce come capo di un partito che, per storia e ragione sociale, rappresenta, in linea di principio, la prima forza dello schieramento progressista. Ma mente sistematicamente, raccontando storie cucite su misura per quella parte della società, sempre più disorientata e depressa, che, continuando a pensarsi di sinistra, tende a prendere sul serio la fanfara propagandistica di questo governo.

Il mantra ossessivo del paese che finalmente «riparte» è la menzogna più odiosa, mentre le nuove povertà dilagano, soprattutto al Sud e tra i più giovani, di pari passo con la disoccupazione e la precarietà. È una bugia che fa il paio con lo slogan del capitalismo compassionevole di George Bush jr., con quel «nessuno sarà lasciato indietro» spudoratamente sbandierato mentre le ineguaglianze esplodevano nel cuore della metropoli capitalistica e la miseria si abbatteva su milioni di proletari.

Ma è soltanto la menzogna più clamorosa. Il governo e il suo «capo» mentono su tutto. Promettono l’esatto contrario di quel che fanno in politica estera, mentre nulla, sui fronti di guerra in Nord Africa, in Medio Oriente e in Asia centrale, è cambiato rispetto all’«interventismo democratico». Raccontano un paese modello sul piano della difesa ambientale, mentre l’Italia registra il record europeo delle morti per smog e l’aria della Val Padana si conferma la più inquinata del continente. Vantano meriti inventati come la fine del precariato nella scuola o l’aumento di spesa nella sanità, mentre decine di migliaia di precari rimangono come sempre al palo e quasi ogni mese il servizio sanitario si vede costretto a nuovi tagli. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito.

Nulla di nuovo, si dirà. Salvo che la menzogna politica è una tossina che trasforma in profondità un paese, alimentando disorientamento e cinismo. Non è vero che, siccome l’uso mendace della comunicazione è da sempre un classico di questo governo (si può dire che è, insieme alla manutenzione delle lobbies, la principale occupazione di chi lo guida), allora in quest’ultimo biennio non è cambiato nulla. Siamo un paese sempre più confuso e sfiduciato, oltre che malandato e depresso. E la fiducia è un bene fragile oltre che prezioso: facile a disperdersi, difficilissimo a ricostruirsi. Solo che, senza fiducia nella politica e nei propri rappresentanti, è la democrazia stessa che rischia di andare in malora.

Quello della verità (della veridicità) in politica è un vincolo tassativo, che coinvolge pesantemente la responsabilità di tutta una classe dirigente. Il che chiama in causa, con Renzi e il suo governo, altri comprimari: la «grande stampa» in primo luogo, senza la cui quotidiana complicità questo gigantesco inganno non sarebbe possibile. E il Partito democratico tutto. Che non soltanto oggi permette a Renzi di fare il proprio comodo a danno del paese, ma gli si è consegnato due anni fa ben sapendo a cosa andava incontro. Senza contare – a dirla tutta – la parte avuta dai i suoi fondatori, già negli anni Novanta, nel Grande Trasformismo che ha lasciato il paese senza anticorpi contro la normalizzazione oligarchica neoliberale.

postilla

«Dire ciò che è, rimane l'atto più rivoluzionario», ha scritto Rosa Luxemburg. Fare il contrario è l'atto è più reazionario. Eppure tra l'Ottobre rosso e la Vandea c'è stata l'affermazione della borghesia e l'invenzione della democrazia liberale: avremmo almeno potuto fermarci lì, e invece anche quella hanno distrutto, dai Chicago boys e Pinochet e poi giù giù fino a Renzi.

Le molte facce dello scandalo del salvataggio dei banchieri (una delle componenti del mondo delle banche). L'articolo di Roberto Saviano, la ripresa del Fatto quotidiano e quella di Repubblica«. PostIl Fatto Quotidiano e la Repubblica, 12 dicembre 2015


Post
LA MOGLIE DI CESARE
E IL PADRE DI ELENA BOSCHI
di Roberto Saviano

Molti si sono preoccupati di dare ampia pubblicità agli impegni del Ministro Boschi nella giornata in cui il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto che ha salvato dal fallimento anche la Banca della quale il padre è vicepresidente. Molti hanno sentito la necessità di dare ampio spazio all’alibi del Ministro che, salvata la forma, ritiene di aver risolto la questione sul piano politico. Ma non è così.

Perché la Banca sia fallita – dopo essere stata oggetto nei mesi scorsi di sospette speculazioni – è compito degli organi competenti accertarlo (sempre che non si applichino al caso moratorie altrove felicemente utilizzate). Ma il conflitto di interessi del Ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire. In epoca passata abbiamo assistito a crociate sui media per molto meno, contro esponenti di terza fila del sottobosco politico di centrodestra: oggi invece pare che di certe cose non si debba o addirittura non si possa parlare. È probabile che il Ministro Boschi non risponda come se il silenzio fosse la soluzione del problema. Ma questo è un comportamento autoritario di chi si sente sicuro nel proprio ruolo poiché (per ora) le alternative non lo impensieriscono. E se il Ministro resterà al suo posto, senza chiarire, la colpa sarà principalmente nostra e di chi, temendo di dare munizioni a Grillo o a Salvini, sta tacendo o avallando scelte politiche inaccettabili.

Quando è iniziata la paura di aprire un serio dibattito su questo governo? Quando è accaduto che a un primo ministro fosse consentito di prendere un impegno serio sul Sud ad agosto per dimenticarlo del tutto il mese successivo?

Proviamo a immaginare per un attimo che la tragedia che ha colpito Luigino D’Angelo, il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?

All’alba della Terza Repubblica un ministro del governo Letta, la campionessa Josefa Idem, sfiorata da una vicenda senza alcuna rilevanza penale (aveva indicato come abitazione principale ai fini della tassazione un immobile che non lo era), decise di dimettersi. Era iniziato un nuovo corso e alle elezioni politiche il Movimento 5 Stelle, con la carica moralizzatrice che gli è propria, aveva ottenuto un risultato impensabile: c’era la necessità di marcare la differenza con il passato. Il passato era la Seconda Repubblica e la sua impostazione liberale, non nel senso classico, ma in quello icasticamente definito da Corrado Guzzanti per il quale la Casa della Libertà era solo un luogo dove ognuno – e i potenti ancor di più – facevano quello che volevano, contro la legge o con l’ausilio di leggi ad hoc.

Si torna sempre a Berlusconi, ma del resto non è vero che senza conoscere il passato non può comprendersi il presente? O si tratta di una massima di portata generale e mai particolare? I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi. I tentativi di censurare, di impedire il racconto della realtà e infine di diffamare chi osasse farlo, sono stati innumerevoli. Ma l’Italia non è mai diventata la Turchia di Erdoğan o la Russia di Putin – amici dichiarati del nostro ex Presidente – perché non eravamo soli. Ognuno di noi sapeva di poter contare sul supporto di altri che come noi spendevano tempo, energie e intelligenza per raccontare quanto succedeva ogni giorno, tra cronaca parlamentare e giudiziaria. Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere. Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere, tutelando quelle regole democratiche alle quali il signore di Arcore e il suo codazzo si richiamavano costantemente per fare quello che gli pareva e conveniva. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?

Perché era giusto sotto Berlusconi chiedere le dimissioni, urlare allo scandalo e all’indecenza ogni volta che qualcosa, a ragione, ci sembrava andare nel verso sbagliato e tracimare nell’autoritarismo? Perché sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica, ma si era giustizialisti sempre? E perché invece oggi noi stessi ieri zelanti siamo indulgenti anche dinanzi a una contraddizione così importante e oggettiva?

Se Berlusconi, che per anni abbiamo considerato causa dei mali dell’Italia, era in realtà la logica conseguenza della ingloriosa bancarotta della Prima Repubblica, così la stagione politica che stiamo vivendo adesso non ha nessuna caratteristica peculiare, nessun pregio o difetto autonomo, ma nasce dalle ceneri di quella esperienza. Il che non vuole dire in continuità, ma neanche ci si può ingannare (o ingannare gli altri) raccontandoci l’incredibile approdo sul suolo italico di una nuova generazione di politici senza passato. Banalmente – questa la narrazione dei media di centrodestra – potremmo dire che quando al potere ci sono le sinistre, si è più indulgenti. L’opinione pubblica è più indulgente. I media sono più indulgenti. È come se, a prescindere, si fidassero. Anche se ho seri dubbi che al governo ci sia la sinistra, o anche solo il centro-sinistra, e nemmeno, a dire il vero, una politica moderna: dato il ridicolo (per non dire peggio) ritardo sul tema dei diritti civili.

O forse le ragioni della attuale timidezza risiedono nell’iperattivismo del Renzi I (dato che tutti prevedono un nuovo ventennio per mancanza di alternative, forse dobbiamo prepararci alle numerazioni di epoca andreottiana) che lascia spiazzati, poiché il timore è di sembrare conservatori (con un uso improprio degli hashtag) o peggio nostalgici.

Del resto come si comunica contro gli hashtag del premier senza passare per gufi o nemici del travolgente cambiamento? Ormai si è giunti ad un passo dall’accusa di disfattismo. Imporre la furba dicotomia che criticare il governo o mostrare le sue forti mancanze sia un modo per fermare le riforme, che invece vogliamo, e per armare il populismo, verso cui nutriamo sempiterna diffidenza, è un modo per anestetizzare tutto, per portare all’autocensura.

Ma non cadiamo nella trappola: la felicità di Stato non esiste, è argomento che riguarda gli individui, non si impone, si raggiunge e noi ne siamo lontani. E la critica non è insoddisfazione malinconica, non è mal di vivere, non è spleen: e considerarla tale è quanto di peggio possa fare un capo di governo. Che il ministro Boschi risponda e subito della contraddizione che ha visto il governo salvare la banca di suo padre con un’operazione veloce e ambigua. Lo chiederò fino a quando non avrò risposta.

Il Fatto Quotidiano
LO SCRITTORE: “MARIA ELENA SI DEVE DIMETTERE”
MA L'ARTICOLO È SU ILPOST.IT, NON SU REPUBBLICA

di Silvia Truzzi

Notizia numero uno: Roberto Saviano attacca frontalmente il governo sul l’affaire banche, per «il conflitto di interessi del ministro Boschi, un problema politico enorme». Notizia numero due: il pezzo non è uscito su (giornale di cui l’autore di Gomorra è una delle più autorevoli firme) ma su il post.it (sito d’informazione con il quale Saviano non aveva mai collaborato) e poi ripreso da numerosi altri siti. Notizia numero tre: il lungo e argomentatissimo articolo contiene altre accuse, anche al sistema dei media.

In particolare lo scrittore prova a «che la tragedia che ha colpito il pensionato che si è suicidato dopo aver perso tutti i risparmi depositati alla Banca Etruria, fosse accaduta sotto il governo Berlusconi. Tutto questo avrebbe avuto un effetto deflagrante. Quelli che ora gridano allo scandalo, gli organi di stampa vicini a Berlusconi forse avrebbero taciuto, ma per tutti gli altri non ci sarebbe stato dubbio: si sarebbero invocate le dimissioni. Dunque, cosa è successo? Come siamo passati dai politici tutti marci ai politici tutti intoccabili? Cosa ci sta accadendo?».
E ancora: «I nemici di Berlusconi, tra i quali mi onoro di essere annoverato, sono una folta, foltissima schiera di scrittori, giornalisti, intellettuali, privati cittadini che nel tempo si sono sentiti investiti del compito di monitorare cosa stesse accadendo alla politica italiana, alla sua economia. Di comprendere e se possibile rendere pubblici certi meccanismi». E poi quel riferimento, proprio al suo giornale: «Sulle pagine del quotidiano un maestro indimenticabile del giornalismo di inchiesta, Peppe D’Avanzo, inchiodò il berlusconismo a dieci domande che non hanno mai ricevuto risposta, poiché è bene ricordare che il compito del giornalista è chiedere, il dovere del potere è rispondere.
Quel potere era legittimo e democratico e quei governi frutto di libere elezioni: i media facevano il proprio dovere. Cosa è successo da allora? Cosa è cambiato nel nostro modo di leggere ciò che accade? Cosa è cambiato nella nostra capacità di indignarci? Cosa ne è di quel fronte unito contro un metodo di governo?». Su questo punto, tra l’altro, bisogna dire che la versione mattutina era leggermente diversa da quella definitiva. Non «sulle pagine del quotidiano Repubblica», bensì «sulle pagine di un quotidiano».
E questo ci porta a una domanda: perché Saviano non ha scritto questo - puntuale e puntuto - pezzo su o sull’Espresso, dove tiene una rubrica? Sembra che lo scrittore lo abbia proposto al suo giornale ma che ieri non ci fosse posto. Ed ecco spiegata la collocazione sul Post diretto da Luca Sofri. Però non è la prima volta che capitano incidenti così. E di incidenti bisogna parlare: a non può aver fatto piacere che un collaboratore tanto prestigioso abbia scritto altrove, dando buca (e pure un buco) al suo giornale. C’è un precedente primaverile: il 6 maggio scorso Roberto Saviano era ospite della riunione di redazione di Repubblica, che quotidianamente viene ripresa sul sito del giornale. Tra le altre cose aveva parlato delle regionali in Campania e della controversa candidatura di Vincenzo De Luca. Ma qualche ora dopo il titolo Gomorra nelle liste di De Luca si poteva leggere su Huffington Post, cui Saviano aveva rilasciato una lunga intervista.
Allora, visto che il Gruppo Espresso possiede il 49% di Huffington Italia, si pensò che fosse una questione domestica. Ma stavolta è diverso: e il Post.it non sono nemmeno lontani parenti. Ciliegina: ieri, nel tardo pomeriggio, il sito di ha pubblicato un lungo audio-intervento in cui Saviano chiede le dimissioni del ministro Boschi e critica duramente l’esecutivo Renzi. È peggio la toppa dell’auto-buco?

La Repubblica

SAVIANO: “LA BOSCHI DEVE DIMETTERSI”
di f.s.

Roma. «Il ministro Boschi deve dimettersi». Roberto Saviano chiede al ministro per le Riforme di lasciare, in un video messaggio pubblicato da Repubblica Tv. Lo scrittore giudica «abnorme» il conflitto di interessi rappresentato da un membro dell’esecutivo che decide sul destino di una banca, la Popolare dell’Etruria, di cui il padre è stato dirigente e il fratello dipendente. «Il governo non doveva occuparsi della banca, oppure deve chiedere al ministro di dimettersi», sostiene Saviano. Il fatto che Boschi non abbia partecipato al voto sul “salva-banche” è solo una «dissimulazione»: «Una struttura politica ha compiuto l’ennesimo atto autoritario».
Dalla Leopolda sono arrivate le reazioni di diversi esponenti del Pd. «Il governo ha fatto quello che era necessario, non capisco la richiesta di dimissioni», ha detto il sottosegretario Scalfarotto. «Servono equilibrio e attenzione, non credo che questo aiuti», ha aggiunto il vice segretario Guerini. E per il sindaco di Firenze Nardella, Saviano è «fuori dal mondo».
Due giorni fa Boschi ha preso le difese del padre Pier Luigi, vice presidente della Popolare fino a febbraio del 2015, data del commissariamento: «È una persona perbene, non sento nessun disagio». Un gesto nobile, secondo Saviano, ma che ricorda le frasi di Marina Berlusconi sul padre. «Questo governo deve essere criticato con lo stesso rigore con cui abbiamo criticato il governo Berlusconi», continua lo scrittore. «Per molto meno siamo scesi in piazza. Non possiamo introiettare l’accusa di disfattismo con cui Renzi reagisce alle critiche». Secondo Saviano sulla vicenda restano «troppe opacità» a cui Boschi deve rispondere: «Se resterà al suo posto è solo perché questo è il Paese del conflitto di interessi».
L'annuncio della Francia di derogare alla Convenzione di Anais Ginori e l'intervista

di Fabio Gambaro al sociologo Alain Touraine. La Repubblica, 28 novembre 2015 (m.p.r.)


DIRITTI UMANI, PARIGI ALL'EUROPA "ORA STOP ALLA CONVENZIONE" È POLEMICA:"COSì TROPPI ABUSI

di Anais Ginori
Parigi. Con una lettera di poche righe, la Francia ha comunicato al Consiglio d’Europa che derogherà alla Convenzione dei Diritti dell’Uomo. E’ un passaggio formale, ma che segnala la volontà politica del governo di Parigi di sfruttare al massimo lo stato di emergenza, dichiarato la notte del 13 novembre e che consente in particolare di fare perquisizioni e decidere arresti domiciliari senza l’autorizzazione dei magistrati, limitando anche il diritto a manifestare. E’ l’ennesimo segnale che il paese si muove su un crinale sempre più stretto tra lotta al terrorismo e il rispetto delle libertà. Negli ultimi giorni, alcune associazioni hanno incominciato a denunciare presunti abusi da parte della polizia. Il quotidiano Le Monde e il sito Mediapart hanno aperto un proprio osservatorio in cui sono già state raccolte decine di testimonianze e segnalazioni tra le oltre 1600 perquisizioni condotte finora dalle autorità.

E’ stato lo stesso Segretario del Consiglio europeo, Thorbjorn Jagland, a rendere nota la comunicazione della Francia. «I provvedimenti presi nel quadro dello stato di emergenza proclamato in seguito agli attentati terroristici su vasta scala - scrive il governo di Parigi - sono suscettibili di richiedere una deroga a certi diritti garantiti» dalla Convenzione firmata a Roma nel 1950. Il testo sul cui rispetto vigila il Consiglio europeo garantisce i principi fondamentali, come il diritto a un processo giusto, il rispetto della vita privata, la libertà di espressione e religione. Tutti diritti che sono pesantemente minacciati negli ultimi quattordici giorni.
La Convenzione non prevede sospensione possibile per il divieto di tortura e la riduzione in schiavitù, ma tra le libertà su cui è possibile derogare c’è quella di movimento, il governo può dichiarare il coprifuoco, e quella di manifestare: molti attivisti che vengono per la Cop21 che inizia lunedì in una capitale blindata sono stati perquisiti preventivamente per il timore di disordini. Molti avvocati hanno fatto ricorso contro arresti domiciliari decisi contro cittadini incensurati che non sono mai andati in paesi legati al terrorismo.
La Francia fa appello all’articolo 15 della Convenzione che prevede esplicitamente la sospensione di alcuni diritti in caso di guerra o minaccia per la Nazione. In questo modo, cittadini che si sentono vittima di abusi non potranno ricorrere all’organismo europeo per chiedere un processo contro la Francia. Altri paesi hanno fatto in passato deroghe di questo tipo: la Gran Bretagna dopo gli attacchi del 2001 e l’Irlanda durante la lotta al terrorismo dell’Ira. Ma nel caso della patria dei Diritti dell’Uomo è una prima assoluta, tanto che il New York Times qualche giorno fa ha titolato un editoriale “Hollande War’s on Liberties”. Lo stato di emergenza è stato dichiarato dal governo per tre mesi, e il premier Valls non esclude di prolungarlo.
L'ALLARME DI TOURAINE "DIFENDERSI È GIUSTO
MA SALVIAMO LE LIBERTà"
intervista di Fabio Gambaro a Alain Touraine

Il sociologo Alain Touraine, 90 anni, è uno dei più autorevoli intellettuali europei

Parigi. «La Francia non deve diventare Guantanamo». Alain Touraine reagisce così alle conseguenze dei massacri del 13 novembre che hanno spinto il governo francese allo stato d’urgenza e alle deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani. «Dopo la violenza dell’attacco subito, la Francia ha il diritto e il dovere di difendersi, ma deve farlo restando all’interno della democrazia », ci dice il novantenne sociologo francese, che in Francia ha appena pubblicato un nuovo libro, Nous, sujets humains (Fayard). «Di fronte a 130 morti il governo non aveva scelta. In una situazione del genere non si può cercare la via del compromesso. Si può solo dire: siamo in guerra e combatteremo. Ma ciò non significa che si debba toccare la costituzione come ha proposto Hollande. Non dobbiamo fare come hanno fatto gli Stati Uniti dopo l’11 settembre con il Patriot Act. Erano il paese della libertà e della democrazia, sono diventati un paese aggressivo, intollerante e violento. La Francia deve restare il paese dei diritti dell’uomo. Da noi Guntanamo o Abu Ghraib non devono essere possibili».

Il governo però annuncia deroghe alla Convenzione europea dei diritti umani...
«E’ certamente grave. E una tale situazione comporta rischi per le libertà dei cittadini. Bisognerà essere molto vigilanti e critici di fronte a tutte le derive possibili, anche facendo appello all’opinione pubblica. Capisco la pressione cui è sottoposto il governo, costretto a mostrarsi fermo per evitare di lasciare spazio al Fronte Nazionale. Ma ciò non significa accettare di rimettere in discussione i principi democratici».
Non crede che questo sia il prezzo da pagare per difendersi?
«La Francia fa bene a difendersi, come fa bene a bombardare l’Is in Siria. Siamo in guerra, quindi dobbiamo reagire militarmente. Tuttavia non dobbiamo cadere nella trappola dell’Is, che vorrebbe un nostro intervento delle truppe di terra. In realtà, l’orribile violenza della jihad mira a farci perdere la testa per spingerci a reazioni impulsive, all’interno come all’esterno del paese. Noi non dobbiamo seguirli su questa strada. Come ha detto Hollande nel suo discorso in omaggio delle vittime, dobbiamo combattere i terroristi restando noi stessi, con i nostri valori, la nostra cultura e il nostro attaccamento alla libertà. Occorre esser più efficaci, non meno liberi».
Hollande ha molto insistito sulla fratellanza, un valore in cui oggi i francesi sembrano riconoscersi. E’ importante anche per lei?
«In passato mi sono spesso vergognato del mio paese, ma oggi provo rispetto e tristezza per questa nostra comunità che soffre. Ne sono fiero e sono dunque sensibile allo slancio di fratellanza che attraversa la Francia. Quello del presidente è stato un discorso giusto e equilibrato, lontano da ogni nazionalismo, perché qui non stiamo difendendo la nazione ma la libertà di tutti. Da diversi anni stiamo attraversando una fase di arretramento, siamo disorientati e in crisi. Abbiamo dunque bisogno di rialzarci e di ricominciare a sperare. E oggi, proprio attraverso la prova terribile dei massacri del 13 novembre, e prima quelli di gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyper Casher, noi francesi stiamo ritrovando un po’ di autostima, un po’ di noi stessi. Che forse è il primo passo per poter uscire dalla crisi e ricominciare a guardare avanti. Sono contento che Hollande abbia concluso il suo discorso insistendo sulla gioventù che rappresenta il futuro di tutti noi».
Dalla tragedia può quindi nascere qualche ragione di speranza?
«L’enorme reazione di solidarietà dopo i massacri è forse il segno di un ritorno di quei valori di libertà, uguaglianza e fratellanza - a cui personalmente aggiungo la dignità - di cui abbiamo più che mai bisogno. Si tratta di valori universali che vengono prima della politica. La reazione dei francesi e il loro omaggio alle vittime ci dicono che l’etica sta al di sopra dell’interesse politico».
A Parigi in questi giorni sventolano tantissime bandiere francesi. E’ la sinistra che si riappropria del patriottismo e di un simbolo che era stato confiscato dalla destra?
«Sì, ma non bisogna dimenticare che la sinistra francese in passato è stata spesso molto nazionalista. Il colonialismo e la guerra d’Algeria sono opera della sinistra. Quindi non ci si deve stupire più di tanto. Naturalmente sono contento che oggi i francesi si ritrovino uniti dietro la bandiera e la marsigliese. Secondo me però non è patriottismo, ma solo amore della libertà e di quei valori che sono di tutti, non solo dei francesi. Anche questo è un segno di una risposta democratica».
Eppure i sondaggi dicono che il Fronte Nazionale cresce. E’ preoccupato?
«Sono inquieto, ma penso che sia anche giusto relativizzare. Dopo tutto quello che è successo, Marine Le Pen guadagna solo un punto o due. Non c’è stato lo smottamento che forse lei sperava. Come pure i francesi non hanno ceduto alla violenza e al razzismo nei confronti del mondo musulmano. Non c’è stato panico, non c’è stata la guerra civile che auspicavano i terroristi. La democrazia per ora ha vinto».

«Da Pericle al mondo globale.Un saggio di Salvadori su come si è ridotta una forma di governo. L’impoverimento riguarda le modalità elettorali ed è dimostrato dalla forza di plutocrazie sovranazionali». La Repubblica, 28 novembre 2015

Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà, di Massimo L. Salvadori (Donzelli, pagg. 507, euro 35)
La democrazia – il potere, la sovranità suprema, il governo del popolo – ha sempre costituito, a partire dal V secolo a. C., quando trovò nell’Atene di Pericle la sua prima grande espressione, un problema: circa il modo di intenderla, la sua possibilità di attuazione, i suoi vantaggi o svantaggi, il suo essere unicamente un mito o anche una realtà. Dal Settecento in avanti non sono poi mai venute meno, e nei modi più aspri, le divisioni che hanno contrapposto i fautori della democrazia diretta ai sostenitori della democrazia rappresentativa. Credo che nessuno meglio di Hans Kelsen abbia chiarito che la democrazia in senso proprio può essere ed è stata soltanto quella diretta degli antichi, ma che quest’ultima è incompatibile e inapplicabile nelle società complesse; che l’unica forma realizzabile di democrazia è la rappre-sentativa, ma che tale forma comporta di necessità il trasferimento della sovranità del popolo ai suoi rappresentanti, titolari della facoltà di elaborare e approvare le leggi, e quindi una sostanziale limitazione e mutazione della natura della democrazia stessa. Il che induce a domandarsi se ciò non significhi ridurre la democrazia unicamente a un mito. Chi guardi alla sostanza di quella che viene definita democrazia rappresentativa, liberaldemocrazia o democrazia liberale non può non rendersi conto di come essa sia altra cosa dal potere sovrano del popolo.

(…) Il principio della sovranità popolare – che ha avuto una forza tanto irresistibile da diventare un dogma politico – non ha mai avuto riscontro nell’esercizio concreto del potere. Dove e quando astrattamente affermato con la maggiore forza, è stato in pratica vanificato; nei regimi liberaldemocratici esso è stato celebrato come ideologia legittimante, ma in concreto soggetto ai limiti impliciti nel trasferimento della sovranità effettiva ai parlamenti e ai governi, lasciando al popolo l’illusione di essere pur sempre sovrano grazie al voto nelle competizioni elettorali.

Ciò che sembra doversi concludere è che la «democrazia» realizzata è consistita e consiste in quel movimento e in quelle lotte degli strati inferiori per la conquista e la difesa dei diritti politici e sociali, nel loro accesso alla rappresentanza parlamentare e alla formazione – mediante i propri partiti – dei governi. (…) Si tratta non della «crazia del demos», ma di sostanziali «atti di crazia». Questo ci dice una concezione realistica della democrazia, la quale ha raggiunto la sua espressione e il suo momento più alto nei sistemi di «democrazia sociale», di cui sono stati esempi «classici» il governo della socialdemocrazia in Svezia e il sistema del welfare, nei quali la libertà per l’insieme della società e una politica orientata ad assicurare la giustizia sociale in un grado mai raggiunto prima e altrove si sono positivamente coniugate.

(…) Oggi il processo di impoverimento graduale della democrazia è giunto al punto per cui: la sovranità del popolo non va oltre il voto di elettori nella loro maggioranza etero-diretti, atomizzati e disorganizzati; il potere economico è tornato in maniera pressoché incontrastata nelle mani dei proprietari e dei ceti superiori; il potere politico – che per gran parte dell’Otto e del Novecento era stato un attributo dei leader dei partiti, degli organizzatori delle masse, dei parlamentari e dei componenti il governo - nei singoli Stati territoriali è infeudato alla plutocrazia sovranazionale o quanto meno influenzato in maniera decisiva da essa; il potere dell’informazione e dei media che orientano politicamente le masse è subalterno a chi ne detiene la proprietà o il controllo; quella che era stata la grande rete sia delle sezioni dei partiti di massa sia dei quotidiani e dei periodici che contribuivano in maniera determinante alla formazione e partecipazione politica degli uomini comuni è largamente smantellata.

Detto tutto ciò, i regimi che continuiamo a definire «democratico-liberali » non sono naturalmente assimilabili a quelli che sopprimono le libertà politiche e civili, il pluralismo culturale e partitico e trasformano il voto tout court in plebisciti a favore del governo. Ma è davvero arduo ritenere che essi abbiano a che fare con «il potere del popolo ». Le elezioni, rimaste formalmente libere (per quanto in alcuni casi palesemente manipolate, anche nei paesi di antica democrazia liberale, come – basti questo unico clamoroso esempio - negli Stati Uniti, dove nelle elezioni presidenziali del 2000 la vittoria venne sottratta ad Al Gore e attribuita a Bush jr.), consentono pur sempre cambiamenti di governo. Il che non è così poco. Sennonché le elezioni vedono le masse relegate a una posizione di passività – con un’inversione di tendenza storica senza precedenti rispetto al moto ascensionale iniziato negli ultimi decenni del XIX secolo - di fronte alla forza di condizionamento e di orientamento di cui sono capaci le élites partitiche ed economiche. Per questo i governi presentano essenzialmente la natura di «governi a legittimazione popolare passiva».

Se la democrazia possa o meno riconquistarsi un avvenire, sia pure nei limiti intrinseci alla democrazia liberale, ciò dipenderà dalla capacità o meno della parte del demos oggi umiliata e offesa di dotarsi del necessario vigore e della capacità di iniziativa per incidere con autentica efficacia sui centri non già formali ma sostanziali del potere.

È da dubitarsi che – come credono Wolin e Crouch – la riconquista democratica possa venire principalmente dall’iniziativa di intellettuali, giornalisti e gruppi di volenterosi ben pensanti. Questa iniziativa non è da trascurare e sottovalutare; se ne vedono segni tanto in Europa quanto in America. Ma l’obiettivo può essere conseguito unicamente attraverso la rinascita di solide organizzazioni anzitutto partitiche, in grado di rappresentare, difendere gli strati sociali più deboli e farne valere gli interessi. Quel che si deve ammettere è che il barometro non tende al bello.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare. Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, in un articolo dal titolo "Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili", sono andata a leggermi l'articolo. Si riferisce all'assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.

Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l'ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.

Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l'eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che "una rondine non fa primavera".

L'inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.

Vivo sulla mia pelle l'offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all'abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.

Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all'ingiustizia che si fa guerra all'uomo e alla natura.

No, non credo all'indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l'eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti. Per questo respingo come non mia l'affermazione che mi viene attribuita «Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione».

Rabbia e tristezza..... Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre. La lotta continua, senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare.

Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.

Se ai cittadini si sostituiscono i consumatori finisce per prevalere il plebiscito del mercato». una sintesi da Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky (Laterza), da la Repubblica, 21 ottobre 2015

Tra le tante insidie linguistiche che fanno presa nel nostro tempo c’è la “governabilità”, una parola venuta dal tempo dei discorsi sulla “grande riforma” costituzionale che hanno preso campo alla fine degli anni Settanta e, da allora, ci accompagnano tutti i giorni. Cerchiamo di rimettere le cose a posto, a incominciare dal vocabolario. I sostantivi e gli aggettivi modali in “...abilità”, “...ibilità”, “...abile”, “... ibile”, ecc. esprimono tutti un significato passivo: amabilità è il dono di saper farsi amare; invivibile è la condizione che non può essere vissuta; incorreggibile è colui che non si lascia correggere. La stessa cosa dovrebbe essere per “governabilità” e “ingovernabilità”: concetti aventi a che fare con l’attitudine a “essere governati”. In questo senso, tale attitudine può essere propria soltanto dei “governandi”, non dei “governanti”. Sono i governandi, coloro che possono essere più o meno “governabili” o “ingovernabili”, a seconda che siano più o meno docili o indocili nei confronti di chi li governa.

Oppure, si potrebbe usare propriamente la parola per indicare l’insieme di coloro che hanno da essere governati e delle loro istituzioni: governabilità d’insieme. Della parola, tuttavia, si abusa certamente quando la si usa per indicare unilateralmente il bisogno di efficaci strumenti di governo (nel senso del memorandum della banca d’affari J.P. Morgan): è come se il governo stesso, cui spetta governare, potesse dirsi, esso stesso, più o meno governabile, più o meno docile.

Tutte le volte che si usano male le parole, si fa confusione e ci si inganna vicendevolmente. Qualche volta, inconsapevolmente, si tradisce un retro-pensiero che si vorrebbe rimanesse nascosto e che, invece, fa capolino tra le parole. Se l’attitudine a essere governati si riferisce alla società, ben si comprende a chi spetti il compito di governarla; ma, se la si attribuisce alla macchina di governo, allora la domanda che sorge, non maliziosa ma realistica, è: governabile, sì, ma da chi? Docile, sì, ma nei confronti di chi?

Nei regimi democratici, la governabilità, nel senso improprio detto sopra, cioè nel senso della forza che legittima l’azione del governo, deve dipendere dalla libera partecipazione politica e dal coinvolgimento attivo dei cittadini, dal confronto e dalla discussione su cui si forma l’ humus delle decisioni politiche, dal consenso che si manifesta innanzitutto con il voto e dalla fiducia che viene riposta in coloro che se ne faranno interpreti operativi. Quale che sia la definizione di democrazia, immancabile è, dunque, il voto che esprime la volontà di autonome scelte.

Se manca il voto dei cittadini, ogni definizione è ingannevole. Il voto non è sufficiente, ma è necessario. Può sembrare una banalità, ma non lo è. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Norberto Bobbio ha incluso nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, scriveva nel 1940 dal suo volontario esilio negli Stati Uniti: «La parola democrazia è adoperata anche per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Encyclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti. I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali, perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il ‘governo dei popoli”».

Primo fra tutti, il diritto di andare a votare. A modellare una società in senso democratico, non basta però che i diritti siano riconosciuti. Occorre che siano esercitati. Che cosa contano, se non se ne fa uso? È forse libera una società in cui alla scienza, all’arte, all’insegnamento, alla stampa, ecc., è riconosciuto il diritto di essere liberi, se poi gli scienziati, gli artisti, gli insegnanti, i giornalisti rinunciano a farne uso? Lo stesso è per il diritto di voto. È forse democratica una società in cui tutti i cittadini hanno il diritto di votare, ma non ne fanno uso? È democratica una società in cui la maggioranza rinuncia ad esercitare il proprio diritto di voto? Non sono costretti a rinunciare da leggi antidemocratiche; lo fanno volontariamente. Ma è forse questo meno grave? Al contrario, è più grave, poiché la rinuncia volontaria all’esercizio del primo e basilare diritto democratico sta a significare che la frustrazione della democrazia è stata interiorizzata, è entrata nel midollo della società.

Occorre interrogarsi su questa manifestazione di stanchezza della democrazia e, innanzitutto, sul fatto ch’essa non sembra fare problema, porre domande. È un dato accettato, tanto in alto quanto in basso.

In basso, cioè tra i cittadini, non deriva più (soltanto) dal sentimento antipolitico e antiparlamentare che è sempre pre- sente in ogni società e nella nostra in misura cospicua, alimentato dall’incredibile diffusione della corruzione pubblica che viene alla luce. Deriva da una convinzione assai più profonda e difficilmente scalzabile. Non si dice più (soltanto): sono tutti uguali perché tutti disonesti, ma: sono tutti uguali perché l’uno uguale all’altro nell’inutilità e nell’inconcludenza. In breve: è la fiducia nella politica che sta progressivamente riducendosi, poiché si avverte, consapevolmente o inconsapevolmente, che “la cosa” è come sfuggita di mano.

In alto, alla voragine dell’astensione, dopo ogni tornata elettorale, si dedica qualche espressione di rammarico, unita alla promessa di riallacciare il filo che si è spezzato. Ma è pura retorica che si ferma alle parole. Né si saprebbe come fare, perché il distacco dei grandi numeri dalla politica, che è un dato allarmante alla luce di qualunque concezione anche solo “minima” della democrazia, è perfettamente conforme allo spirito della vigente costituzione materiale che ha nel governo tecnico-esecutivo la sua colonna portante: il “governo governabile”. Le elezioni, da linfa della democrazia, si sono trasformate in potenziali intralci. Dunque, meno si vota e meglio è. Del resto, non è stato detto da qualcuno, facendo il verso alla celebre definizione di nazione di Ernest Renan, che i governi europei, scalzati dagli “esperti monetari”, hanno fatto prevalere il “permanente plebiscito dei mercati mondiali” sul “plebiscito delle urne” (così Hans Tietmeyer, presidente della Bundesbank, nel 1998)?

In effetti, se ai cittadini si sostituiscono i produttori e i consumatori, i creditori e i debitori, i venditori e i compratori, il plebiscito del mercato risulta essere la democrazia nella sua forma più coerente.

Una volta che le sorgenti sociali della governabilità si siano inaridite, la governabilità, intesa impropriamente come capacità di governo, da problema di democrazia politica si trasforma in questione di ingegneria costituzionale al servizio dell’efficienza dei mercati, i quali hanno bisogno di costituzioni reattive alla loro continua instabilità, di decisioni pronte, assolute e cieche, cioè di interventi esecutivi.

Una volta si sapeva e si diceva che l’ingegneria costituzionale non esiste in quanto tale; che non si deve far finta che abbia a che fare solo con questioni di efficienza. Ogni questione di natura propriamente costituzionale è sempre una questione di allocazione di potere. Oggi, quella verità vale pur sempre, ma la si nasconde negli interminabili convegni, tavole rotonde, pubblicazioni, dichiarazioni che sembrano tutti rivolti a una idea vuota di “vita costituzionale buona”, per l’appunto l’idea di “governabilità”, ed invece mirano a nuove e interessate allocazioni di potere.

IL LIBRO Anticipiamo u. L’autore dialogherà con Adriano Prosperi sabato alle 16.30 al Teatro Politeama di Poggibonsi e sarà a Milano a BookCity domenica alle 12.30 al Museo Nazionale della Scienza

«Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta».

Il manifesto, 15 ottobre 2015 (m.p.r.)

Nel 1948 nasceva l’Italia nuova, e si pre­sen­tava al mondo con Ladri di bici­clette. Oggi, abbiamo i ladri di Costituzione.

Se ladro è chi ille­ci­ta­mente si appro­pria di un bene che non gli appar­tiene e sul quale non ha titolo a met­tere le mani, tale è appunto il caso di quelli che stanno appro­vando la riforma della Carta fon­da­men­tale. Per­ché non ave­vano legit­ti­ma­zione sostan­ziale a farlo, per la inco­sti­tu­zio­na­lità della legge elet­to­rale. Per­ché non ave­vano mai rice­vuto alcun man­dato dal popolo ita­liano, non essendo mai stata la riforma — que­sta riforma — illu­strata e discussa in un con­te­sto elet­to­rale per l’inserimento in un pro­gramma di governo. Per­ché hanno usato ogni mezzo e for­za­ture di prassi e rego­la­menti per met­tere le mani su un bene comune e pre­zioso, scri­gno di iden­tità e sto­ria del paese. Per­ché l’hanno fatto per motivi futili o abietti.

Ma il furto non si è certo con­su­mato ieri, con il voto di 179 anime morte per il dise­gno di legge Renzi-Boschi. L’attività cri­mi­nosa viene da lon­tano, dal patto del Naza­reno e dalla pro­po­sta del governo. È con­ti­nuata e aggra­vata, per le ripe­tute minacce di crisi, gli argo­menti incon­si­stenti quando non men­daci, la sor­dità asso­luta per cri­ti­che e dis­sensi, il disprezzo per il con­fronto demo­cra­tico. E quel che stava per acca­dere è stato asso­lu­ta­mente chiaro quando l’esangue mino­ranza Pd ha esa­lato l’ultimo respiro, seguendo il pif­fe­raio magico di Palazzo Chigi. Si è così con­dan­nata alla irri­le­vanza, unico pec­cato mor­tale che la poli­tica non assolve mai. E anche il Pd di Renzi-Verdini nel suo insieme ha rotto ogni legame con i pro­pri ante­nati, i veri padri fon­da­tori della Repub­blica. Come que­gli eredi inca­paci che dis­si­pano nel vizio e nel gioco il patri­mo­nio di grandi e nobili fami­glie. Un par­tito non più liquido, ma liquidato.

Tutto era già scritto. Ma pro­prio per que­sto non siamo d’accordo con Zagre­bel­sky. Il suo argo­mento è che fir­mare l’articolo pub­bli­cato sul mani­fe­sto da parte di alcuni costi­tu­zio­na­li­sti era inu­tile, non essendo pos­si­bile farsi ascol­tare. Altra cosa sarà quando ci sarà il con­fronto davanti al popolo sovrano. Ma il punto è che quel con­fronto è già in atto, dal primo avvio della vicenda. La bat­ta­glia l’ha aperta Renzi, che da subito ha cer­cato la chiave del con­senso popu­li­stico e dema­go­gico, in una evi­dente pro­spet­tiva elet­to­ra­li­stica. Anche il refe­ren­dum sarà uno scon­tro ple­bi­sci­ta­rio sulla per­sona del lea­der e sull’affidamento fidei­stico alle sue scelte. La cam­pa­gna refe­ren­da­ria è già in corso anche se il pro­ce­di­mento ex art. 138 della Costi­tu­zione è ancora lon­tano dal con­clu­dersi. Si intrec­cia con il taglio delle tasse, l’uscita dalla crisi, le cifre bal­le­rine sui posti di lavoro, l’ossessiva pro­ie­zione di un Ita­lia nuova che riparte.

Sap­piamo bene che con­tro un avver­sa­rio for­mi­da­bile abbiamo solo il risve­glio della ragione e delle coscienze. Un per­corso dif­fi­cile. Ma comun­que esi­ste una rab­bia civile che non con­sente il silen­zio. Tal­volta, par­lare è un dovere che non tol­lera cal­coli sot­tili, pur se nes­suno ascolta. Inol­tre, le bat­ta­glie si fanno anche sapendo che si può per­dere. Pro­prio la nascita della Repub­blica inse­gna. I nostri padri e le nostre madri hanno fatto molte cose che al momento pote­vano sem­brare dispe­ra­ta­mente inu­tili. Tut­ta­via le hanno fatte, e molti hanno pagato un alto prezzo negli affetti, nel lavoro, nella vita. Ora tocca a noi difen­derne l’eredità.

Siamo con­tenti comun­que di sapere che Zagre­bel­sky sarà in campo, nel momento a suo avviso oppor­tuno. Non ave­vamo dubbi che appar­te­nesse al club dei gufi. Del resto, molto meglio gufi che avvoltoi.

». Il manifesto, 14 ottobre 2015

Ave­vamo chie­sto al pro­fes­sor Gustavo Zagre­bel­sky di sot­to­scri­vere l’articolo che abbiamo pub­bli­cato ieri con le firme di sei tra i più auto­re­voli costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani, e che ripub­bli­chiamo oggi qui accanto. Zagre­bel­sky ha pre­fe­rito non fir­mare, ma ha aggiunto delle moti­va­zioni che rite­niamo valga la pena far cono­scere – con il suo con­senso — ai nostri let­tori.

«Dopo averci pen­sato, ho deciso di non fir­mare, non per­ché non sia d’accordo sugli argo­menti, pro­po­sti all’attenzione dei respon­sa­bili della riforma. La ragione — sostiene l’ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale - è un’altra: la totale irri­le­vanza dell’invito alla rifles­sione presso chi si appella sem­pli­ce­mente all’argomento della forza.

Una delle espres­sioni più ricor­renti, in que­sto tempo di auto­ri­ta­ri­smo non solo stri­sciante ma addi­rit­tura con­cla­mato come virtù, è «abbiamo i voti», «abbiamo i numeri». Una con­ce­zione della demo­cra­zia da scuola ele­men­tare! Dun­que, che cosa serve discu­tere? Un bel nulla.

Oltre­tutto, ho l’impressione che i nostri rifor­ma­tori, tronfi dei loro numeri rac­co­gli­ticci in un con­sesso che ha rag­giunto il grado più basso di cre­di­bi­lità, non agi­scano in libertà, ma come ese­cu­tori di pro­getti che li sovra­stano, di cui hanno accet­tato di farsi pas­sivi e arro­ganti ese­cu­tori in nome di inte­ressi o poco chiari, o indi­ci­bili ch’essi rias­su­mono nel ridi­colo nome di «gover­na­bi­lità»: parola di cui non cono­scono nem­meno il signi­fi­cato. Non dis­sento nel merito, ma sono certo della totale inef­fi­ca­cia dell’invito al con­fronto.

Mi astengo, dun­que, dal fir­mare - con­clude Zagre­bel­sky -, i tempi dell’impegno ver­ranno quando saranno chia­mati i cit­ta­dini a espri­mersi, saranno duri e immi­nenti. Allora sarà un’altra storia».

Stiamo sulla nave dei folli. Non è folle che un parlamento eletto con una egge giudicata incostituzionale si sia assunto il potere di decidere «una sostanziosa riscrittura» (dicesi "riscrittura") della Costituzione?. La

Repubblica, 12 ottobre 2015

È UNA RISCRITTURA sostanziosa della Costituzione, quella che il Senato si appresta ad approvare, e sarà questa la versione definitiva che saremo chiamati a votare al referendum confermativo, se e quando le due Camere completeranno il complesso percorso previsto dall’articolo 138.

La riforma contiene molte novità, la più importante delle quali è certamente la fine del bicameralismo perfetto, con il potere legislativo — e soprattutto quello di dare e negare la fiducia al governo — che si sposta alla Camera dei deputati. Ma ce ne sono molte altre. Una complicata elezione indiretta dei nuovi senatori, che saranno solo 100 (non più 315) e saranno scelti dai cittadini al momento di eleggere i Consigli regionali. L’addio ai senatori a vita. La conferma dell’immunità parlamentare anche per Palazzo Madama. Le corsie preferenziali per i disegni di legge del governo, ma anche per le proposte dell’opposizione. L’introduzione del referendum propositivo. La riscrittura delle competenze dello Stato e di quelle delle Regioni. L’abolizione delle Province e del Cnel. Il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali. Ma vediamo uno per uno quali sono i punti principali della riforma.

I CONSIGLIERI-SENATORI

I nuovi senatori, come dicevamo, saranno solo 100: 95 eletti dalle Regioni ( 74 consiglieri e 21 sindaci, uno per regione più uno ciascuno a Trento e Bolzano) più 5 senatori di nomina presidenziale, che però non saranno più a vita, salvo gli ex capi dello Stato, ma resteranno in carica sette anni. Fatta eccezione per la prima volta i senatori non saranno eletti tutti contemporaneamente ma in coincidenza del rinnovo dei Consigli regionali (e dunque decadranno con essi).

E’ qui che Palazzo Madama ha introdotto la modifica più significativa: i senatori saranno sì eletti dai consiglieri regionali, come era previsto nel testo precedente, ma “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri”, applicando una legge elettorale che dovrà essere varata dal Parlamento entro sei mesi dall’entrata in vigore della nuova Costituzione. Per i senatori non è più prevista l’indennità (riservata ai soli deputati) ma viene confermata l’immunità parlamentare: non potranno essere perquisiti, intercettati o arrestati senza l’autorizzazione dell’aula.

ADDIO BICAMERALISMO PERFETTO

Cosa faranno i nuovi inquilini di Palazzo Madama? Il Senato non voterà più la fiducia al governo, e solo per alcune materie conserverà la funzione legislativa. Potrà verificare l’attuazione delle leggi, nominare commissioni d’inchiesta ed esprimere pareri sulle nomine governative, ma da lì dovranno passare solo le riforme della Costituzione, le leggi costituzionali, le leggi sui referendum popolari, le leggi elettorali degli enti locali, le ratifiche dei trattati internazionali.

Tutte le altre leggi saranno di competenza della Camera dei deputati, ma il Senato conserverà un potere di intervento anche su quelle. Potrà esprimere proposte di modifica a una legge (su richiesta di almeno un terzo dei suoi componenti), ma in tempi strettissimi: gli emendamenti dovranno essere votati entro trenta giorni, dopodiché la legge tornerà alla Camera che si pronuncerà definitivamente (e potrà anche respingere le proposte di modifica). I senatori potranno esprimersi anche sulle leggi di bilancio, ma avranno solo 15 giorni e dovranno raggiungere la maggioranza assoluta. Anche in questo caso però l’ultima parola spetterà alla Camera. Infine, se la maggioranza assoluta dei suoi membri sarà d’accordo, il Senato potrà chiedere alla Camera di esaminare un determinato isegno di legge, che dovrà essere messo ai voti entro sei mesi.

Cambierà radicalmente anche il potere del governo nel procedimento legislativo: l’esecutivo avrà il potere di chiedere che sui provvedimenti indicati come “ essenziali per l’attuazione del programma di governo” la Camera si pronunci entro il termine di 70 giorni (prorogabile di altri 15 in casi eccezionali). Alla scadenza del tempo, ogni provvedimento sarà posto in votazione “senza modifiche, articolo per articolo e con votazione finale”.

LA CONSULTA E I REFERENDUM

Le leggi che regolano l’elezione della Camera e del Senato potranno essere sottoposte al giudizio preventivo di legittimità da parte della Corte costituzionale (che dovrà pronunciarsi entro un mese) su richiesta di un quarto dei deputati o di un terzo dei Senatori, ma “entro dieci giorni dall’approvazione della legge” (anche se una norma transitoria renderà possibile il ricorso per l’Italicum). La quota di giudici oggi eletta dal Parlamento in seduta comune viene divisa tra le due Camere: tre a Montecitorio e due a Palazzo Madama. Nuove regole per le consultazioni popolari. Vengono previsti i referendum propositivi e viene fissato un quorum più basso (la metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche) per i quesiti sui quali sono state raccolte almeno 800 mila firme. Per le leggi di iniziativa popolare, la soglia viene alzata da 50 mila a 150 mila firme.

LO STATO E LE REGIONI

Vengono soppressi il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) e le Province, finora protette dalla Costituzione. Nello stesso tempo, viene rovesciato il sistema per distinguere le competenze dello Stato da quelle delle Regioni. Mentre oggi vengono elencate tutte le materie su cui queste ultime possono legiferare, con la riforma è lo Stato a delimitare la sua competenza esclusiva. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni avranno la possibilità di imporre tributi autonomi.

QUIRINALE, CAMBIA IL QUORUM

Per eleggere il successore di Sergio Mattarella al Quirinale non basterà più la maggioranza assoluta. Scompariranno i delegati regionali, ma cambierà anche il numero di votazioni per le quali sarà richiesta la maggioranza dei due terzi, un quorum altissimo che solo in pochi (e tra questi Ciampi, Cossiga e Napolitano) sono riusciti a superare. Attualmente la Costituzione impone questo quorum fino al terzo scrutinio, oltre il quale è sufficiente la maggioranza assoluta, ovvero la metà più uno. La nuova norma invece il quorum dei due terzi per primi tre scrutini, poi lo fa scendere ai tre quinti nei successivi quattro, e alla settima votazione in poi lo abbassa ai tre quinti dei votanti (non degli aventi diritto). Non più, dunque, alla maggioranza assoluta.

«Le apparenze sono di rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è un suo svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua».

La Repubblica, 26 settembre 2015
VI è un filo tenace che lega le norme già approvate sui controlli a distanza dei lavoratori e quelle che si annunciano sulle intercettazioni telefoniche. In entrambi i casi siamo di fronte ad interventi che incidono su diritti fondamentali delle persone. In entrambi i casi è il governo che ha il potere finale di decidere in materie così delicate. Bisogna seguire con attenzione vicende come queste per comprendere come stiano cambiando le nostre istituzioni.

E non farsi soltanto fuorviare dalle non edificanti schermaglie intorno alle modalità di elezioni del Senato. Il meccanismo messo a punto è molto semplice. Il Governo chiede ed ottiene dal Parlamento una delega per regolare questioni della massima importanza, che riguardano la vita delle persone e i caratteri che viene assumendo la stessa democrazia. Le apparenze sono quelle di un pieno rispetto della legalità costituzionale. La sostanza è quella di un suo non indifferente svuotamento. La Costituzione, infatti, prevede che il Parlamento possa delegare al Governo potere normativo, in base però a precisi principi e criteri direttivi che esso stesso individua. La voce del Parlamento torna poi a farsi sentire quando è chiamato ad esprimere un parere, sia pure non vincolante, sui decreti predisposti dal Governo.

Ma che cosa accade quando la delega è sostanzialmente in bianco, o tale da attribuiti una larghissima discrezionalità, e il parere parlamentare viene considerato del tutto ininfluente? Si determinano una espropriazione del Parlamento e un trasferimento al Governo della parola ultima e definitiva addirittura in materia di diritti fondamentali. Un corto circuito che svuota di senso la garanzia costituzionale, fa nascere un problema di legittimità di questo modo di legiferare e chiamerà in causa la Corte costituzionale.
Non dimentichiamo che i temi dei controlli a distanza e delle intercettazioni erano stati finora affidati a norme di leggi la cui approvazione aveva visto il Parlamento come unico protagonista. Ora assistiamo ad un ulteriore accentramento di poteri nelle mani del Governo, che così si libera del Parlamento di cui viene certificata l’irrilevanza. E tutto questo avviene all’insegna di una forte perdita di trasparenza del processo legislativo nel suo insieme con il passaggio dalla sede parlamentare, sempre controllabile dall’opinione pubblica, alle opache stanze del governo.
Si ricordi che la caduta della “ legge bavaglio” sulle intercettazioni, di cui questo giornale fu protagonista, fu resa possibile proprio dall’esistenza di una situazione istituzionale che consentiva di intervenire e mobilitare l’opinione pubblica mentre l’iter parlamentare di quella legge era ancora in corso. Inoltre, i due casi qui discussi mostrano che si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione quella dei principi e dei diritti, di cui a parole viene dichiarata l’intoccabilità. Si possono accettare questi slittamenti progressivi, questa strisciante erosione delle garanzie?
Controlli a distanza e intercettazioni riguardano la stessa materia, quella della tutela della sfera privata. Vale la pena di ricordare, allora, che la norma sui controlli a distanza si trovava nello Statuto dei lavoratori e che - insieme a quelle sulle informazioni relative alle opinioni, sulle informazioni e i controlli medici - aveva creato la prima disciplina sulla sfera privata delle persone. Storicamente considerata come un diritto dell’”età dell’oro della borghesia”, il diritto alla privacy entra nel sistema italiano attraverso i diritti dei lavoratori, ventisette anni prima del riconoscimento per tutti della tutela dei dati personali.
Aggiornarla per effetto dell’incidenza delle nuove tecnologie? Certo, ma non come ha fatto il Governo, che la ha mantenuta per i controlli con telecamere, mentre la ha sostanzialmente cancellata per i controlli sui lavoratori effettuati raccogliendo i dati relativi all’uso di computer, telefoni cellulari, iPhone, iPad. La logica avrebbe voluto che le antiche garanzie fossero estese alle nuove tecnologie, assai più invasive di quelle passate perché consentono una sorveglianza continua su ogni mossa del singolo lavoratore, così legato da una sorta di guinzaglio elettronico a chi vuole controllarlo.
Con una singolare, e rivelatrice, schizofrenia istituzionale, mentre la sfera personale dei lavoratori viene assoggettata ad una assoluta trasparenza, si vuol far diventare opaca la sfera personale delle persone intercettate. Intendiamoci. La tutela di persone estranee all’oggetto delle intercettazioni merita d’essere tutelata, a condizione però che tutto questo non determini una compressione del diritto costituzionale all’informazione sul suo duplice versante, quello di chi informa e quello di chi deve essere informato.
Non dimentichiamo che il codice sull’attività giornalistica, a suo tempo approvato dal Garante per la privacy, prevede che le informazioni riguardanti le figure pubbliche sono tutelate solo se non hanno “alcun rilievo” per l’informazione dei cittadini. Questo è un criterio di carattere generale, che ha come fine la possibilità di esercitare un controllo diffuso sia su chi ha responsabilità e ruoli pubblici, e per ciò non può pretendere coperture di segretezza, sia su chi è chiamato a dare un seguito alle informazioni raccolte, magistrati compresi. Inoltre, le modalità di selezione delle informazioni prodotte possono incidere sul diritto di difesa, precludendo l’accesso a materiali che le parti potrebbero ritenere necessari appunto per le strategie difensive.
La garanzia di tutti questi diritti fondamentali viene sottratta non solo alla competenza diretta del parlamento ma, chiusa come sarà in una commissione ministeriale, pure allo sguardo dell’opinione pubblica, alla quale viene sottratta la possibilità di seguire il modo in cui si inciderà su quei diritti e di contribuire beneficamente ad una migliore disciplina. Si deve poi aggiungere che, come molti hanno sottolineato, la delega presenta oscurità e lacune tali da configurare, dietro l’apparenza delle precisazioni, un’attribuzione di larga discrezionalità a chi dovrà attuarla.
Saggezza vorrebbe che si interrompesse un procedimento legislativo così contorto e pericoloso. Si stralci al Senato la parte sulle intercettazioni e si restituisca al Parlamento il pieno potere di legiferare e all’opinione pubblica quello di far sentire la sua voce.
«Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni)».

La Repubblica, 26 settembre 2015

La Camera ha approvato in questi giorni l’articolo del disegno di legge sulla giustizia penale che delega il Governo a riformare le norme in materia di intercettazioni telefoniche. In questa occasione il Pd ha votato compatto. Il disegno di legge recepisce un emendamento passato in commissione Giustizia, relatrice Donatella Ferranti (Pd), che espone questo provvedimento ad una giustificata critica e a richieste di modifica richiamando l’attenzione del pubblico sul potere che la legge delega concede al Governo in una materia così delicata per i nostri diritti.

Il testo approvato elimina la possibilità di un’udienza filtro nel corso della quale le parti (il giudice e gli avvocati) avrebbero dovuto decidere le intercettazioni rilevanti da portare al processo, prima di poterle depositare, ovvero renderle a tutti gli effetti visibili e soprattutto pubblicabili. La modifica del disegno di legge con questo emendamento è all’origine di quella che possiamo denotare come una gemmazione della mai domata tentazione di chi esercita il potere di mettere limiti al diritto di cronaca, rendendo più arduo il lavoro di chi ha la funzione di reperire informazioni e il dovere deontologico di farle conoscere con precisione ai cittadini.

Questo provvedimento limita il diritto all’informazione. Certo, non replica la logica falsificatrice e manipolatrice della legge bavaglio che il governo Berlusconi ha cercato, invano, di far passare (e che una straordinaria mobilitazione di cittadini o operatori della stampa e dell’editoria fermò). Esso lascia tuttavia aperta una falla sulla liceità della pubblicazione dei verbali delle intercettazioni che lo rende criticabile e non difendibile. Contrariamente alla legge bavaglio, in questo caso non vengono ostacolati gli organi giudiziari nel reperimento delle informazioni per mezzo di intercettazioni come strumento d’indagine. Tuttavia, viene impedito di dar notizia delle intercettazioni sino all’udienza preliminare (il che in Italia può richiedere anni).
L’argomento portato dal Pd per giustificare questa decisione è che la possibilità di pubblicazione dei testi delle intercettazioni potrebbe essere lesiva dei diritti di tutti coloro che sono in qualche modo coinvolti nelle conversazioni, benché il prosieguo delle indagini ne dimostri poi l’estraneità al reato. Ma l’udienza filtro, che il provvedimento approvato elimina, serviva proprio ad ovviare a questo problema, che è indubbiamente serio perché mette a repentaglio la dignità della persona con il rischio palese di consegnare il suo nome alla gogna mediatica. L’udienza filtro avrebbe dovuto “selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti e fatte salve le esigenze di indagine”.
Il Pd si difende appellandosi al principio della privacy. Sostiene che mentre le intercettazioni non si devono impedire, nell’ammetterle si deve prestare attenzione a conciliare due diritti: quello all’informazione e quello alla privacy. Ma il testo approvato alla Camera più che conciliare questi due diritti sembra essere sbilanciato a favore del secondo. Stabilisce tra l’altro che nell’attuazione della delega concessagli dal Parlamento, il governo preveda la reclusione fino a quattro anni come pena per “la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente”.
La questione da far valere criticando questo provvedimento non è genericamente il potere della casta. Molto più concretamente si tratta qui di una questione di diritti civili. È quindi in nostro nome, come cittadini, che dobbiamo criticare questo provvedimento e chiedere che venga cambiato. In nostro nome perché, come ha spiegato Ezio Mauro su Repubblica Tv, la pubblicazione di certe intercettazioni consente, per esempio, ai cittadini di avere una conoscenza preliminare più completa dei candidati presenti nelle liste dei partiti. Il diritto all’informazione è in questo senso al servizio del diritto politico, perché consente agli operatori della stampa di fornire agli elettori dati e notizie che serviranno loro costruirsi un’opinione quanto più possibile informata su chi votare o non votare.
Anche per questa ragione basilare, l’idea di limitare la pubblicazione delle intercettazioni giudiziarie dovrebbe mobilitare il nostro giudizio critico fino a chiedere al Pd e alla maggioranza un ripensamento. La dignità della persona, che questo provvedimento giustamente rivendica, deve essere rispettata anche in relazione al cittadino nel suo diritto ad essere informato, tenendo conto del fatto che nelle società complesse nessuno di noi ha il potere di accedere direttamente alle fonti delle informazioni e deve poter quindi contare su una sfera pubblica aperta e libera. Deve certamente essere possibile evitare di esporre le conversazioni di terzi casualmente finiti nelle intercettazioni senza limitare il diritto di cronaca; ma questo deve e può essere ottenuto senza menomare il diritto all’informazione, un pilastro della dignità del cittadino.
Intervista alla costituzionalista Lorenza Carlassare: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.».

Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015 (m.p.r.)

Il timore è quello di ripetersi. Eppure sembra che le numerose, accorate, obiezioni dei (tantissimi) costituzionalisti sulla riforma del Senato, non siano state ascoltate nemmeno in parte. Lorenza Carlassare, professore emerito di Diritto costituzionale a Padova, comincia così: “La composizione del Senato non è solo incerta. È disastrosa: un piccolo gruppo di persone si autonomina. Oltre al caos provocato da senatori part - tim e che provengono dai consigli regionali, c’è un’anomalia anti democratica. Un meccanismo che non ha nulla a che vedere con quanto accade in qualunque altra democrazia”.
Indietro non si torna, dicono. Perfino il presidente Mattarella, pur mantenendo quella posizione di “sereno distacco” che il suo ruolo esige, ha trovato il modo di dire che nel nostro sistema non è ammissibile un uomo solo al comando. Non si riferiva a nessuno, però l’ha voluto sottolineare. E invece io credo sia proprio questo l’obiettivo cui tendono tutte le riforme: si sta neutralizzando il popolo, cioè la fonte che legittima il potere. Con la democrazia, poi, va a farsi benedire anche il costituzionalismo, che prevede poteri che reciprocamente si controllano e si bilanciano. Qui tutto mira a indebolire la forza degli altri poteri in favore dell’esecutivo.
Il governo che governa. Il governo che domina: il Senato, così com’è costruito, sarebbe controllato dalla maggioranza di governo. La Camera naturalmente lo è, grazie a quel meccanismo iper-maggioritario, contenuto nell’Italicum, con il premio che va alla lista e non alla coalizione.
Non votiamo più per niente: per i consigli provinciali, per il Senato... Senza dire del sistema elettorale della Camera.
Si vuol togliere voce ai cittadini. L’ho detto tante volte, ma ripeterlo non fa male, vista l’ostinazione di questa maggioranza. Che poi, a ben guardare, è una maggioranza trovata di volta in volta, una maggioranza numerica, casuale. Non una maggioranza politica. Nelle due Camere, gli allegri transfughi sono in aumento: deputati e senatori che si fanno trovare sull’attenti quando il potere chiama. Naturalmente per avere in cambio ricompense di varia natura.
Parlamento che poi è ancheminato dalla sentenza chedichiara incostituzionale ilPorcellum .Ecco: abbiamo non solo unamaggioranza casuale, ma unamaggioranza che si è formataattraverso un meccanismodichiarato illegittimo.Dunque, la maggioranzaesiste in base a un’illegittimità.È inutile che continuinoa dire che “hanno i numeri”.Se non esisteva quelpremio previsto dal Porcellum,la maggioranza nonc’era proprio. È assolutamenteparadossale che pretendanodi restare al governoe pure di scassinare l’architetturacostituzionale!
Secondo lei perché il governoinsiste tanto? Si puòfare una prova di forza politicasulla Costituzione?
Il presidente del Consigliosa benissimo che se va alleelezioni perde. E poi certamenteno, non si può fare unaprova di forza sulla leggefondamentale. Il procedimentodi revisione costituzionaleè costruito sulladoppia deliberazione e sumaggioranze più ampie.Perché? La finalità è nonconsentire che ogni maggioranzacambi a propriopiacimento la Costituzione,lo scopo è dare alla Carta unastabilità nel tempo. Ilmeccanismo è pensato perottenere un consenso piùampio possibile, in modoche si proceda con ponderazione.Che è completamentemancata, perché i tempidella discussione sono staticontingentati a suon di sedutenotturne. Ma in materiacostituzionale non sipossono forzare i tempi: ètutto contro l’articolo 138.
La necessità di tornarci sopraè evidente, moltissimisono d’accordo soprattuttoriguardo al nodo dell’elettivitàdei senatori. Aparte Renzi: ma è tecnicamentepossibile apportarevariazioni al testo?
È assolutamente necessarioche il discorso si riapra. E siarrivi a qualcosa di conformealla Costituzione, anchenei procedimenti. Il sensode ll ’articolo 138 è proprioche una maggioranza – a nchelegittima, e questa nonlo è – non possa arrivare dasola a modificare la Carta.
Ma è possibile che la Cortedichiari illegittimo anchel’Italicum?
Assolutamente sì. Ha glistessi difetti del Porcellum.È una prova di forza pericolosain tutti i sensi: non possiamocontinuare ad avereun Parlamento eletto in basea leggi illegittime. Non dimentichiamoche nella sentenzanumero 1 del 2014 laCorte è stata chiara: in tuttii suoi richiami si fa riferimentoal principio di continuitàdello Stato per un breveperiodo. La Corte costituzionaledice che il Parlamentopuò continuare a lavorarefino a nuove elezioni,ma di certo non pensava – eribadisco: è chiarissimo inpiù punti della sentenza – auna legislatura intera.
«Resta valido l'obiettivo dell'integrazione ma la stanchezza sembra prevalere. Ricordiamo le parole di Péguy: la speranza è la più grande virtù».

Corriere della Sera, 6 agosto 2015 (m.p.r.)

Alcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni - in ogni settore - tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale.

Come non c’è un vero esercito europeo, è lecito chiedersi se esista una vera compagine politica europea o se l’Unione Europea assomigli troppo all’Onu e alla sua impotenza a risolvere problemi e contese. Forse essa assomiglia ancora di più al Sacro Romano Impero nei suoi ultimi decenni, coacervo politico-giuridico di autorità sovrapposte e contraddittorie, di poteri che si sommavano e si elidevano a vicenda, ciò che rendeva il venerando e grandioso impero, teoricamente senza confini, un assemblaggio paralizzato e paralizzante, che Goethe si chiedeva come potesse tenersi insieme e cui infatti Napoleone pose fine con un soffio, come si spegne una candela.
Un’Europa politicamente unita può esistere solo se esiste - se e quando esisterà - un vero Stato europeo, federale e decentrato ma con un reale unico governo eletto da tutti i cittadini europei, come il presidente degli Stati Uniti è eletto da tutti i cittadini americani, e le cui leggi fondamentali valgano per tutti. Uno Stato in cui gli attuali Stati nazionali diventino quelle che sono oggi, in ogni singolo attuale Stato, le Regioni, con i loro Consigli e i loro organi di governo per i problemi specifici che le riguardano.
Spero in questo Stato, perché credo sia la nostra unica salvezza possibile, visto che oggi i problemi, politici ed economici, sono europei. Solo uno Stato europeo potrebbe tutelare le identità nazionali, culturali e linguistiche numericamente o economicamente più deboli, che invece sono facilmente in balìa dei gruppi numericamente ed economicamente più forti. Nell’Unione Europea non dovrebbe ad esempio essere possibile che l’una o l’altra delle sue componenti innalzi muri di centinaia di chilometri ai confini con un’altra regione, così come oggi in Italia non è possibile che la Regione Campania innalzi muraglie cinesi alle frontiere con la Regione Lazio.
Purtroppo l’Unione Europea sembra fare assai poco in questo senso; un timido passo in avanti e subito mezzo passo indietro, un frequente rinvio dei problemi pressanti per evitare il fallimento della loro soluzione e dunque per rimandare non la soluzione, bensì il suo fallimento. Ad esempio l’atteggiamento dinanzi al gravissimo - sempre più impellente e sempre più difficilmente solubile - problema dell’immigrazione è un tipico esempio di questa inconsistenza dell’Unione Europea, che cerca di scaricare il problema sull’Italia, come se il governo italiano cercasse di scaricarlo sulla Sicilia, visto che i barconi dei disperati arrivano in Sicilia e non a Bologna o a Firenze. Una delle poche istituzioni europee che funzionano con decisione e con una visione globale e organicamente europea è la Banca Centrale, guidata da Mario Draghi. Se l’Unione Europea agisse in quel modo in ogni campo, non ci troveremmo nell’attuale penoso stallo.
Forse l’errore è stato quello di allargare l’Unione Europea prima di crearla realmente, rendendola così un pachiderma titubante. Forse sarebbe stato meglio se l’idea d’Europa formulata dai padri fondatori e messa inizialmente in moto dai Sei fosse prima divenuta uno Stato vero e proprio, con una sua struttura e una sua effettività precisa. Questo Stato, una volta costituito, avrebbe potuto e dovuto accogliere successivamente gli altri Paesi che ne condividessero i fondamenti. Non perché l’uno o l’altro Paese sia più o meno degno di altri, ma perché ogni realtà funzionante, in ogni campo, si basa su una costruzione precisa e non su confuse assemblee pulsionali o su patteggiamenti diplomatici. Quando nel 1933 Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice, non va in Piazza Castello a invitare tutti i passanti a farne parte, quelli che vorrebbero pubblicare romanzi gialli e quelli che vorrebbero trattati teologici, ma la fonda su un progetto preciso, successivamente aperto a chi lo condivide. Ogni istituzione operante esclude l’unanimità, che paralizza ogni decisione e non è democrazia bensì il suo contrario. Sono le dittature a imporre e a fingere un’unanimità di consensi.
Le grandi formazioni statali cui dobbiamo la civiltà europea sono nate da guerre; l’Impero romano è una lontana fondamentale premessa di un’Europa unita, ma è nato senza che le legioni romane chiedessero il permesso di entrare in Gallia o in altre terre. Ovviamente noi vogliamo l’unità europea, ma non vogliamo a nessun costo costruirla con la guerra. Talora questo sogno e questo dovere, questa speranza in una reale unione europea, sembrano la quadratura del circolo.
È una ragione in più per lavorare per essa. La tentazione di una triste e rassegnata impotenza è forte. Forse mai come oggi la delusione e la stanchezza della politica sono state così vaste e deprimenti e sembrano riecheggiare quella settima lettera di Platone amaramente deluso dal potere politico, pubblicata non a caso di recente da Paolo Butti de Lima nella versione di una grande traduttrice dei classici, Maria Grazia Ciani (Marsilio). Non resta che sperare contra spem, contro il dilagante e giustificato pessimismo. La speranza, scrive Péguy, è la più grande delle virtù, proprio perché è così difficile vedere come vanno le cose e, ciononostante, sperare che domani possano andare meglio.

«

Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi».

La Repubblica, 2 agosto 2015.

Sulla pagina Facebook della Lega Nord si legge questo post: «La Lega sta preparando una proposta di legge per reintrodurre il servizio civile e militare obbligatorio per i maggiorenni. Rispetto per il prossimo, spirito di sacrificio, generosità. Voi sareste d’accordo?». Sembra un anacronismo: sia la proposta di legge che l’appello ai sentimenti repubblicani. L’annuncio ha ricevuto una valanga di critiche, soprattutto dai giovani deputati del Pd. Nella sua Amaca, Michele Serra ha commentato così queste due notizie: mentre «sbertucciano » Salvini, forse i giovani deputati del Pd non sanno che la leva obbligatoria è stata «per molti decenni, uno dei punti fermi della cultura socialista e comunista». E prima ancora, vi è da aggiungere, di quella democratica.

L’obbligo del servizio militare non era campato per aria, visto che dall’Ottocento una delle più importanti giustificazioni dell’estensione del suffragio elettorale fu il servizio alla nazione, con il lavoro e con l’arruolamento. Certo, questa visione della libertà politica da “meritarsi” è stata, per nostra fortuna, superata dalla concezione del diritto politico come un diritto umano fondamentale, attaccato, se così si può dire, alla persona del cittadino; un diritto che non deve essere meritato.

E però, la leva obbligatoria in democrazia ha un fondamento molto diverso e anche più realistico: quello della sicurezza delle istituzioni. L’esercito di una democrazia non è di offesa (la nostra Costituzione chiarisce molto bene che la Repubblica aborre la guerra) bensì solo ed esclusivamente di difesa. Ma la ragione per la quale “un esercito di popolo” è preferito dalle democrazie non sta tanto o soltanto nella sicurezza rispetto al nemico esterno ma anche e prima di tutto rispetto ai nemici interni. Come ricorda opportunamente Serra, «un esercito di popolo» è stato tradizionalmente giudicato molto più sicuro di «un esercito di professionisti » ai fini della difesa dell’ordine politico democratico.

Questa ragione realistica è stata superata dall’appartenenza dei nostri Paesi all’Europa, che ci ha abituati a pensare non più in termini di eserciti e di difesa da nemici (e quindi di una pace armata), ma in termini di cooperazione fra diversi e quindi di una pace vera, non armata (lasciando però alla Nato e agli Stati Uniti l’onere della nostra difesa). Ma in aggiunta a questa ragione realistica ve n’è un’altra, etica, che Serra coglie molto bene: «Per una società narcisista e liquida come la nostra ripensare a un periodo (obbligatorio e uguale per tutti) nel quale si mettono da parte le proprie esigenze e ci si dedica agli altri sarebbe rivoluzionario. Le istanze pacifiste e militariste, non solo rispettabili ma anche decisive nella cultura della sinistra libertaria, sarebbero ampiamente garantite dalla scelta tra leva civile e leva militare». È così scandaloso avanzare questa proposta?

In questi giorni si è fatto largo uso dell’argomento “non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra”. Molto più pertinente sarebbe applicare lo stesso schema argomentativo alla cultura del servizio civile e della solidarietà di cittadinanza. Il fatto è che queste due prerogative stanno su opposte sponde poiché una propone che sia etico ritirarsi dall’impegno verso la società e concentrarsi sui propri interessi, mentre l’altra suggerisce che sia etico dare più impegno.

Dietro la proposta di Salvini vi è, certamente, una nemmeno troppo velata propaganda nazionalista, una lettura del patriottismo come sentimento di sacrificio verso una patria identitaria che esclude e discrimina chi non vi è parte, una visione ben poco attraente. Tuttavia, deve fare riflettere il fatto che la proposta di ripensare a una riforma del modo di concepire il servizio dei cittadini verso se stessi — ovvero degli uni agli altri — venga da destra e sia castigata dalla sinistra. La quale ha abbracciato una cultura dei diritti invididuali, attenta alla libertà della scelta individuale, e tuttavia non è sensibile a questa cruciale implicazione: una cultura dei diritti dell’individuo non esclude un’etica della cittadinanza che sappia parlare la lingua del servizio.

Non c’è alcun bisogno di rispolverare la dottrina dello stato etico per dare sostegno a questa idea come fa la destra. È cruciale invece rifarsi alla più convincente idea democratica di reciprocità tra liberi e uguali, poiché dare servizio alla nostra comunità di cittadini è una scuola di sentimenti pubblici che ci abitua a pensare in termini di autonomia vissuta, non solo proclamata dai diritti e scritta nei codici. Come pagare le tasse (diceva Padoa-Schioppa) ha un’intrinseca bellezza (perché sono i liberi che si assegnano quell’obbligo per vivere autonomamente), così lo è il servizio civile alla comunità, un impegno di cittadini liberi verso se stessi.

«L’Europa è un deserto dove comanda il potere dei creditori». Ancora una considerazione che dimostra quanto lo strangolamento della Grecia da parte dell'Unione europea sia una minaccia per ciascuno di noi.

La Repubblica, 28 luglio 2015

SI PARLA di fallimento dello Stato come di cosa ovvia. Oggi, è “quasi” toccato ai Greci, domani chissà. È un concetto sconvolgente, che contraddice le categorie del diritto pubblico formatesi intorno all’idea dello Stato. Esso poteva contrarre debiti che doveva onorare. Ma poteva farlo secondo la sostenibilità dei suoi conti. Non era un contraente come tutti gli altri. Incorreva, sì, in crisi finanziarie che lo mettevano in difficoltà. Ma aveva, per definizione, il diritto all’ultima parola. Poteva, ad esempio, aumentare il prelievo fiscale, ridurre o “consolidare” il debito, oppure stampare carta moneta: la zecca era organo vitale dello Stato, tanto quanto l’esercito. Come tutte le costruzioni umane, anche questa poteva disintegrarsi e venire alla fine. Era il “dio in terra”, ma pur sempre un “dio mortale”, secondo l’espressione di Thomas Hobbes. Tuttavia, le ragioni della sua morte erano tutte di diritto pubblico: lotte intestine, o sconfitte in guerra. Non erano ragioni di diritto commerciale, cioè di diritto privato.

Se oggi diciamo che lo Stato può fallire, è perché il suo attributo fondamentale — la sovranità — è venuto a mancare. Di fronte a lui si erge un potere che non solo lo può condizionare, ma lo può spodestare. Lo Stato china la testa di fronte a una nuova sovranità, la sovranità dei creditori.

Esattamente come è per le società commerciali. I creditori esigono il pagamento dei loro crediti e, se il debitore è insolvente, possono aggredire lui e quello che resta del suo patrimonio e spartirselo tra loro.

Nell’Antichità, i debitori insolventi potevano essere messi sul lastrico e perfino ridotti in schiavitù dai creditori insoddisfatti. Lo Stato, quando fallisce, si trova in condizione analoga. Tanto più aumenta la sua “esposizione”, tanto meno è in condizione di resistere alle richieste espropriative dei creditori, anche le più pesanti e inimmaginabili. Abbiamo sorriso di Totò che vendeva ai turisti la Fontana di Trevi. La realtà supera la fantasia, se è vero che, tra le possibili garanzie dello Stato debitore, i creditori considerano imprese pubbliche, isole, porti, ferrovie, monumenti, ecc. Quanto sarà valutato il Partenone e, forse, per l’appunto la Fontana di Trevi?

Le armi dei creditori sono la promessa di salvezza e la minaccia di rovina, la carota e il bastone. Lo scenario immediato è la fine della “liquidità” degli istituti di credito, il panico tra i risparmiatori, l’impossibilità per lo Stato di pagare debiti, stipendi, pensioni, la disperazione dilagante; a media scadenza, chiusure e fallimenti d’imprese, disoccupazione, miseria. Chi potrebbe resistere alla forza intimidatrice di una simile catastrofe annunciata e alla forza seduttiva di qualunque prospettiva salvifica, fosse anche accompagnata da condizioni iugulatorie?

È quanto è toccato alla Grecia, con somma drammaticità ed evidenza. Il premier ha chiesto al Parlamento il voto a favore di un insieme di provvedimenti impostigli, ch’egli stesso dichiarava essere contrari al programma politico col quale si era presentato alle elezioni, vincendole. Non s’era mai vista così chiara, in Europa, una tale contraddizione. Egli era lì in base alla forza conferitagli dal suo popolo, confermata in referendum, e doveva smentire se stesso e riconoscere l’esistenza d’un’altra forza, alla quale non poteva resistere. L’imposizione, che lo Spiegel ha definito “catalogo delle atrocità”, comprende cose come le proprietà pubbliche, le misure di alleggerimento del malessere sociale, l’abolizione della contrattazione collettiva, il licenziamento di gruppo, le ipoteche su beni dello Stato, le aliquote Iva, le pensioni, perfino il codice di procedura civile (per rendere più efficace la liquidazione dei beni dei debitori insolventi).

S’è detto, con una certa superficialità: niente di sconvolgente. La Grecia, come tutti i Paesi dell’Unione Europea, ha da tempo accettato limiti alla sua sovranità a favore dell’Europa. La prova cui è sottoposta la Grecia sarebbe perciò una vittoria dell’Europa.

Basta dirle, cose come queste, per comprenderne l’assurdità. E non perché alcuni Stati abbiano fatto la parte del leone (la Germania, gli Stati baltici, ecc.) e altri della pecora, ma per una ragione più profonda: di fronte alla Grecia non c’era l’Europa, ma la finanza che si fa beffe di formalità e competenze codificate. Chi, in Europa, ha preso decisioni non ha agito “in quanto Europa”, ma in quanto rappresentante di interessi finanziari. Al capezzale della Grecia erano in tanti: Banca centrale europea (istituzione indipendente con compiti di equilibrio finanziario della “zona euro”), Fondo monetario internazionale (che si occupa del salvataggio di Stati a rischio in tutto il mondo) e anche — anche — organi vari dell’Europa (Eurogruppo, Eurosummit, il Consiglio europeo). Singoli capi degli esecutivi dei Paesi economicamente più “pesanti”, a tu per tu tra loro (Germania e Francia) hanno svolto la parte decisiva, senza alcun “mandato europeo”. Le “sanzioni” alla fine deliberate non trovano alcun fondamento nei Trattati. La “troika”, che ora ritorna in Grecia come commissaria ad acta, non è organo dell’Europa, è organo de facto degli interessi finanziari che s’intrecciano tra Commissione europea, Bce e Fmi. L’Europa come tale è stata totalmente assente. La condizione della Grecia non è quella di chi si è vista limitare la sovranità perché l’ha ceduta: è quella di chi ha subito il colpo d’un sovrano di tutt’altra specie — che qualcuno ha definito “colonialista finanziario” — con tante teste.

Pecunia regina mundi. L’erosione della sovranità statale a opera della finanza sembra dare ragione a questa tragica massima. Perché tragica? Innanzitutto, perché la finanza, come lo spirito, soffia dove vuole, irresponsabile di fronte alle comunità umane su cui scarica la sua forza, investendo o disinvestendo risorse, senz’altra guida se non l’accrescimento della sua potenza. Agli Stati indebitati e insolventi si può rimproverare il loro spirito di cicale. Ma il potere finanziario, nel suo insieme, vive di indebitamenti e accreditamenti ed è perciò amico delle cicale. Senza cicale e solo con formiche non potrebbe esistere. Onde, è vuoto moralismo il rimprovero d’essersi indebitati, quando proprio i creditori sono interessati al loro indebitamento. In secondo luogo, l’erosione della sovranità è la resa alla legge dei più forti. La sorte dei popoli finisce per essere la risultante dello scontro di forze che hanno, come obiettivo, la propria autoaffermazione. L’arma è la potenza finanziaria. Chi è più ricco è destinato a diventare sempre più ricco e gli altri sempre più poveri. La concentrazione progressiva della ricchezza nelle mani di pochi è sotto gli occhi di tutti. L’idea di un qualche “ordine mondiale” anche solo vagamente orientato alla giustizia è fuori di questo mondo.

E l’Europa? Non è stata pensata dai padri fondatori anche in funzione di un sistema di relazioni internazionali che promuova la pace e la giustizia tra le nazioni, come dice l’art. 11 della nostra Costituzione? Proprio la vicenda greca ha dato voce, ancora una volta, a chi invoca il passo verso la formazione di una vera unità europea, capace di valori politici solidali. Ma, si tratta di vox clamantis in deserto, anzi in un deserto che più arido di così, oggi, non potrebbe essere. Bisognerà forse attendere una crisi ancora più profonda e sconvolgente, perché si tocchi il fondo e, dal fondo, si riesca a intravedere nell’Europa politica un progetto all’ordine del giorno urgente e cogente.

«Ma alla autorità e sovranità di una nuova Europa politicamente unita chi oggi sta seriamente pensando e lavorando? Soltanto costui potrebbe assumerne in futuro anche la guida politica. Tranquilli, non sembra proprio poter essere la Germania. Purtroppo».

La Repubblica, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

La crisi che attraversa la costruzione dell’unità politica europea sta avendo, se non altro, il benefico effetto di farci comprendere che le relazioni tra popoli e culture investono problemi leggermente più complessi di quelli che sono in grado di affrontare non solo banche e ragionerie centrali, ma anche diplomazie e politici di professione. Il realismo degli stenterelli lascia qualche varco a considerazioni, per così dire, meta-politiche, indispensabili per interpretare la visione che un Paese ha di se stesso e dei suoi rapporti con gli altri. Certo, la storia insegna poco, poiché tutto muta (fuorché l’uomo), ma può tuttavia orientarci. Se gli “exempla” del passato non possono avere il peso che un Machiavelli attribuiva loro, nemmeno dobbiamo rassegnarci a un guicciardinismo in sedicesimo.

Raccontantoci che tutto è nuovo e solo conta l’esperienza attuale. Così sulla questione decisiva della relazione tra Berlino e mondo latino-mediterraneo è altrettanto sbagliato ricorrere a immagini di maniera, evocando una germanica volontà di potenza, quanto ripetere l’ovvietà che la storia tedesca dell’intero dopoguerra rende culturalmente inconcepibile, prima ancora che concretamente impercorribile, ogni velleità imperiale. Il dilemma proposto da Thomas Mann, “Europa germanica o Germania europea?”, appartiene certo al mondo di ieri, ma ciò non significa che esso non debba essere ripensato. Come storicamente la Germania si è immaginata europea? E tale immagine è ancora efficace? Come l’Europa può essere oggi germanica? O è necessario lottare perché non lo sia?

Che tra cultura tedesca (cultura non in senso letterario o vetero-umanistico, ma come senso comune e “forma mentis”) e mondo mediterraneo la relazione sia sempre stata quella tra distinti inseparabili, in costante e fecondo alternarsi di amore e odio, di nostalgia e repulsione, è un fatto che non ci spiega ancora come tale inseparabilità venga interpretata e vissuta. Intanto, essa si pone in termini completamente diversi nei confronti del mondo latino (die Welsche!) e di quello greco. Lo stesso “viaggio in Italia” non è, a ben vedere, che tappa di un itinerario verso l’Ellade. E si tratta di un’anabasi alle fonti della propria stessa lingua! Il mito della consanguineità della “più perfetta delle lingue”, come Herder riteneva la greca, con quella tedesca percorre l’intera cultura germanica dal ‘700 fino alla grande filologia dei Wilamowitz e degli Jaeger, da Hegel a Heidegger.
Tuttavia, nessuno forse ci aiuta a intenderne il vero senso meglio del più grande lirico tedesco, Hoelderlin. Gli dèi della Grecia sono fuggiti; andavano un tempo tra i mortali, ma ora vivono nella stessa assenza. Ciò che verrà non è quell’Ellade, non sono quegli dèi. Verrà il loro erede. E questo è la Germania. Il viaggio in Grecia significa, in realtà, la trasmigrazione in Germania dello spirito greco. La Grecia non è più in Grecia, e soltanto il grembo tedesco potrà rigenerarla. Dove il genio di Atene sarà fatto di nuovo valere? Sulle rive dei fiumi tedeschi, nelle sue nobili città. E perché qui soltanto? Perché questo è il luogo “dove il lavoro si svolge silenzioso negli opifici” e la scienza, il sapere, illumina e orienta lo stesso artista zum Ernste, alla serietà.
Queste visionarie parole del grande inno Germanien forniscono la traccia più preziosa per intendere, nella sua sostanza meta-politica, il vitale rapporto della cultura tedesca con il mondo classico-mediterraneo. Questo mondo appare in sé un mero passato, e soltanto “traslato” in lingua tedesca (e cioè armonizzandolo con l’intera storia culturale e religiosa che in essa si custodisce) ha un avvenire. Facciamola finita, dunque, con gli irenistici discorsi intorno ad un generico “amore” per esso da parte della “serietà tedesca”. Amore certamente è stato, ma un amore che assimila, che fa proprio e si ama per questa sua capacità.
Facile intuire quanto una tale immagine sia ancora efficace. Essa comporta necessariamente velleità egemoniche? Nient’affatto – il che non significa sottovalutare l’efficacia demagogica in chiave micro-nazionalista delle chiacchiere sui “quarti Reich”. Ma è impensabile che la Germania possa affrontare la crisi greca, oggi, o qualunque altra crisi mediterranea in futuro, se non alla luce dell’idea-guida della sua storia, almeno dal dopoguerra: il valore etico assoluto attribuito alla “serietà” del proprio lavoro, che ha reso possibile la ricostruzione prima e la riunificazione dopo, sempre in condizioni di sicurezza e stabilità finanziaria. E proprio questo contraddice dalle fondamenta ogni pretesa o istanza di dominio!
La prospettiva di un’Europa germanica non esiste per il semplice motivo che qualsiasi volontà di potenza, per esprimersi, non può assumere a proprio valore guida la stabilità! Una Germania che volesse dominare in Europa dovrebbe svolgere politiche opposte a quelle cui spesso è tentata: politiche di sviluppo, di crescita, che le attirino interessi e simpatie da parte dei popoli europei. Forse il nostro dramma è esattamente l’opposto di quello che temono le anime belle ancora “incantate” da mitologie imperialistiche. Non è l’eccesso di auctoritas tedesca a distruggere l’Europa, ma piuttosto l’assenza di ogni auctoritas. Si continuano ad annusare in giro volontà di potenza, quando proprio tali volontà mancano del tutto, e ci si limita a fronteggiare le emergenze senza alcuna strategia geopolitica. Insorgeranno le anime belle: lo spirito europeo non tollera l’”ex pluribus unum”! la diversità dei suoi linguaggi non potrà mai essere cancellata e ridotta ad uno!
Certo; ma altrettanto poco funziona l’”ex pluribus plures”; anzi, questo motto altro non è che la più vuota delle tautologie. Possiamo parlare dei molti, soltanto se essi si presentano “raccolti” in una qualche forma, soltanto se una struttura li governa. Soltanto, insomma, se una qualche sovranità opera efficacemente. L’unica al momento disponibile è quella delle strutture tecnico- amministrativo-finanziarie, che mai ha avuto e mai avrà legittimità e autorità culturale-politica. Tantomeno potranno averla gli staterelli europei ognuno per proprio conto. Ma alla autorità e sovranità di una nuova Europa politicamente unita chi oggi sta seriamente pensando e lavorando? Soltanto costui potrebbe assumerne in futuro anche la guida politica. Tranquilli, non sembra proprio poter essere la Germania. Purtroppo.

«Adriano Olivetti sognava una democrazia senza corpi intermedi. Invece resistono; la riforma Letta e la nuova legge segreta del Pd non li rendono più trasparenti o funzionanti. Sono soltanto club di candidati».

Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2015 (m.p.r.)

Adriano Olivetti sognava che le democrazie potessero fare a meno dei partiti (ce lo ricorda il suo Democrazia senza partiti del 1949, ripubblicato nel 2013). Il traguardo non sembra a portata degli umani, e, siccome i partiti ce li abbiamo, sarebbe utile farli funzionare meglio che si può. Per questo colpisce che tra gli articoli abbandonati della Costituzione sia il 49, secondo il quale “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Certo, non è proprio un capolavoro di chiarezza: a chi si riferisce il “metodo democratico”? Al modo in cui i partiti contribuiscono alla vita politica oppure al loro funzionamento interno? I giuristi hanno dovuto sforzare non poco il testo per far sì che il “metodo democratico” venisse riferito sia al contributo che i partiti danno alla politica (la “democrazia dei partiti”) sia al loro modo di funzionare (la “democrazia nei partiti”). Ma, anche stabilito che sono i partiti che devono essere democratici, sulla questione è calato un silenzio durato settant’anni (a parte le discussioni degli specialisti).
Alla fine del berlusconismo, però, su questo tema si è aperta una cascata di norme. Ha cominciato, meritoriamente, il governo Letta con una legge del 2013. Sebbene la si tratti imprecisamente come una regolamentazione del finanziamento dei partiti, in realtà contiene diverse altre cose notevoli. Anzitutto obbliga i partiti a crearsi uno statuto (nessuno ci aveva pensato!); crea un registro a cui devono essere iscritti se vogliono presentare liste e ricevere contributi; inventa una potente “Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici”, una specie di invisibile authority che verifica che siano rispettate le condizioni per entrare nel registro, ammette e espelle dal registro stesso, infligge sanzioni, certifica i bilanci.
Era ora, direte voi! Sì e no. Da una parte, la legge è prudente su diversi punti. Fissa alcuni requisiti per la stesura degli statuti, ma si tratta di requisiti davvero troppo esigui. Per esempio, non obbliga i partiti a tenere un congresso almeno ogni X anni, ma chiede solo che “indichino la cadenza delle assemblee congressuali”. Non dice nulla sul profilo morale e giudiziario dei candidati, sulle cariche interne, la loro durata, la loro alternanza. Trascura alcuni meccanismi fondamentali, come le elezioni primarie. Per giunta, nei fatti sembra funzionare poco. Il registro dei partiti non s’è visto e la potente Commissione di garanzia (insediata senza che nessuno se ne avvedesse), dopo molte sofferenze (non ha sede, non ha personale), ha dichiarato pochi giorni fa (Il Fatto Quotidiano 3 luglio) di non essere in grado di accertar nulla sui bilanci perché non ne ha gli strumenti. Quindi, di fatto, i bilanci presentati sono tecnicamente fuori legge.
Su questo sfondo, il Partito democratico si rifà avanti con un disegno di legge proposto dal capogruppo al Senato Luigi Zanda e altri, presentato alla chetichella (ho penato ad averne una copia; perfino l’ufficio stampa Pd non ne sapeva niente), il quale rimedia a un’altra dimenticanza della legge 2013. Stabilisce infatti che i partiti siano persone giuridiche e non pure associazioni di fatto come al momento. Nei termini attuali, infatti, non solo un movimento immateriale come Movimento Cinque Stelle, ma anche il Touring Club, American Express e la Polisportiva qui sotto potrebbero presentare candidati, formare governi e maggioranze e così “determinare la politica nazionale”. Trasformando i partiti in persone giuridiche è possibile ad esempio separare il loro patrimonio da quello degli associati, impugnare e fare annullare dal magistrato le deliberazioni degli organi e così via.
L’Iidea non è male. Ma ci sono due note meste. Anzitutto, i proponenti rimettono a capo chino la bozza al governo, dandogli delega (ancora!) a elaborare un testo unico che fonda la legge Letta con le nuove indicazioni. In secondo luogo, la proposta tenta di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Nessuna norma parla di numero minimo di associati, di costi standard, di funzionamento delle assemblee. Nessuna dell’obbligo di avere sedi territoriali. Nel mentre, i partiti si liquefanno come i ghiacciai (il Partito democratico, il solo con una storia alle spalle, è passato dai 539.354 tesserati del 2013 ai meno di 100.000 di oggi), le sezioni diventano rare e stente, gli elettori si assentano, il nuovo metodo di finanziamento (il 2 per mille versato volontariamente dai contribuenti) è stato un fiasco, il registro degli statuti non si è visto… Insomma, si può regolamentare quanto si vuole, ma i partiti sono ormai aggregazioni non di cittadini, bensì di candidati o aspiranti candidati: i cittadini nel frattempo sono andati al mare.
«Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio cruciale: devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi».

Il granello di sabbia, 17 febbraio 2015 (m.p.r.)

Nella guerra che le lobby finanziarie hanno dichiarato alle società civili europee – giustificandola con la necessità di contrastare la crisi del debito pubblico – una battaglia cruciale è quella riguardante gli enti locali, il loro ruolo, i loro beni e servizi. L’enorme ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire: si fanno ogni giorno più manifeste le mire di conquista dei beni degli enti locali.

Già nel rapporto Guadagni, concorrenza e crescita, presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese : «I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (...) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (...) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato».

La spoliazione degli enti locali è stata avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso tre fattori principali: il Patto di Stabilità e Crescita, la Spending Review e l’approvazione del Fiscal Compact. Il Patto di Stabilità e Crescita interno consiste nelle misure, annualmente stabilite, per far confluire gli sforzi degli enti locali verso gli obiettivi di stabilità finanziaria stabiliti dallo Stato in accordo con l’Unione Europea. Quel patto ha vissuto a sua volta tre fasi: una prima di durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, che ha ridotto drasticamente la qualità dei servizi e ha contribuito a costruire una campagna ideologica sull’inefficienza del “pubblico”; in un secondo momento si è sferrato un attacco alle possibilità e capacità di investimento degli enti locali che, non potendosi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, la stessa capacità di spesa corrente trova oramai draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in “virtuosi” e “non virtuosi”, gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l’occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali.
Il secondo fattore è la Spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un’automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l’approvazione del Fiscal Compact, ovvero l’obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 134%. Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3%, con un costo di oltre 50 miliardi/ anno. Se a questo si aggiunge l’introduzione del Pareggio di bilancio nella Costituzione - di fatto la costituzionalizzazione della dottrina liberista - il quadro è decisamente chiaro.
L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie. Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.
Il Territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, attraverso due diverse modalità. La prima è la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma criminale che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni: in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d’uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri.
La seconda modalità è quella dei grandi eventi e delle grandi opere: che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), mega-progetti infrastrutturali (Tav, autostrada OrteMestre), o “eventi” (Expo di Milano, Olimpiadi di Roma), l’unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare. Il Patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, trova ora una sua più sistematica applicazione con il ruolo assunto nella stessa dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), che si propone agli enti locali come partner per la valorizzazione degli immobili da vendere, fissandone un prezzo e impegnandosi ad acquisirli per poi immetterli nel mercato. I Servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione.
Su questo terreno, come riconosce la Deutsche Bank nel citato rapporto all’inizio, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani. Tuttavia le grandi lobby finanziarie non desistono, e oggi, con il decreto “Sblocca Italia” e la Legge di stabilità appena approvate, tornano all’attacco: lo fanno di nuovo con l’aiuto di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), attraverso l’ingresso nelle società che gestiscono il F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp) e/o il FSI (Fondo Strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.
Come si evince da questa analisi, sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la “casta” e relativa riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L’obiettivo è chiaro: se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.
Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio cruciale: devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.

Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2015 (m.p.r.)

Non è il caldo, è che ilprofessor Rodotànon ama cincischiare.Lapidario, dunque,l’incipit della telefonata:«Siamo di fronte a casi diversi,ma queste intercettazioni devonoessere pubblicate». Edecco perché.

Professore, partiamo dallafine. Cioè dall’ultima: il governatoredella Sicilia e ildottor Tutino.
Quella di Crocetta è una storiaancora oscura. Lui sostieneche c’è un complotto; allora,dico io, chiariamo tutto e alpiù presto. Quando vengonomesse in circolazione notizieche arrivano da intercettazioni,che deve fare un giornalista?L’Espresso avverteche quelle intercettazioni esistonoe dà conto del contenuto.Non si tratta di una vicendada poco, senza interesse pubblico:da una parte c’è il rapportocon Lucia Borsellino e ilsuo ruolo di assessore alla Sanità.Dall’altra c’è il rapportocon un signore, le cui attivitànon sono proprio chiare, chesi permetteva una certa familiaritàcon il governatore. Mipare che un giornalista questecose le debba pubblicare. L’unicolimite è la falsità degli attiriferiti: l’intercettazione nonc’è o il contenuto non corrispondea quanto riportato. Sesi accerta tutto questo, la conversazioneva resa pubblica.Malgrado i lati oscuri, l’affaireCrocetta ha immediatamenteconquistato le primepagine dei giornali.Ma soprattutto ha portato a unarichiesta esplicita di dimissionidel presidente della RegioneSicilia da parte del Pd!

Invece quelle di Renzi?
Lì non c’è nulla di oscuro né diambiguo. È il negoziato cheRenzi fa, per proprio conto,riguardo la caduta del governoLetta e la sua nomina allaPresidenza del Consiglio. Accanto,abbiamo letto ciò chedice un gruppo di persone vicineal segretario del Pd, ap ro po si todelle vicendedi Renzi edella politicaitaliana. Tirandoin balloil PresidentedellaRepubblica esuo figlio.Questa èun’intercettazione che dovevaessere pubblicata, senza alcundubbio. E poi: si tratta dimateriale depositato agli avvocatie privo di vincolo di riservatezza.Non di documenti“finiti ai giornali”.

Dicono che dovevano esserecoperte da omissis.
È altra valutazione, che nonsono in grado di fare. Ma nelmomento in cui vengono depositate non si può invocarenessun vincolo di segretezza.Qui c’è un punto che politicamenteè rilevantissimo. L’opinionepubblica già sapevadi tutti questi retroscena riguardol’eliminazione – nontrovo altre parole – di EnricoLetta? Ne sapeva abbastanza?Questa è la conferma di unastrategia evidentementemessa a punto e discussa, nonsolo all’interno del mondopolitico ma addirittura conpersone che hanno ruoli istituzionaliimportanti come ungenerale della Guardia di Finanza,con il quale si discutedella eventuale resistenzaall’operazione del presidentedella Repubblica.

Di cui si occupa anche l’intercettazioneambientalecon DarioNardella, ilgeneraleAdinolfi, eil presidentediInvimitVincenzoFortunato.
Collegandole due intercettazioni,si potrebbe persinodire che questa resistenzapuò essere stata superata perché– come si sostiene nellaconversazione – sul capo delloStato poteva essere esercitatauna pressione. Sono cosedi assoluta gravità.

Non secondo il ministro Boschi,che ha parlato – in aula,non al bar – di “supposizioni,ipotesi, forse addirittura illazioni”. Il fantasy al potere.
Liquidare la questione dicendoche le intercettazioni nonsono penalmente rilevanti è inaccettabile.Una tesi cheriappare, negli ultimi tempi,con una certa impudenza. Daanni dico e scrivo che la responsabilitàpolitica è altrodalla responsabilità penale.Ci tocca ancora ricordare l’articolo54 della Costituzione?“I cittadini cui sono affidatefunzioni pubbliche hanno ildovere di adempierle con disciplinae onore”. L’argomentoche ritorna nelle parole delministro Boschi viene recitatoin un parlamento dove nondovrebbe avere più cittadinanza.Però si solleva un granpolverone su una presuntanon reazione di Crocetta...

Si può invocare le dimissionidi Crocetta e contemporaneamentedire, in una sedeistituzionale, che le conversazionitra il premier e Adinolfisono fantasie?
Qui la cosa grave è che c’è uncontrasto tra fatti documentatie le parole pronunciate inAula da un ministro della Repubblica.Il fatto che ci siaquesto travisamento dellarealtà è indicativo: si vuole aogni costo evitare di darespiegazioni. Certo, siamo davantia una contraddizione.Ma Crocetta è una personascomoda per l’attuale Pd equindi si cerca ogni pretestoper metterlo da parte. Dall’a ltraparte c’è il premier e la retedi protezione viene mantenutasaldamente. Aggiungo chequesto modo di fare impediscedi chiarire le ombre gettatesu Napolitano. Bisognavadar modo ai diretti interessatidi fare luce sulle affermazioniche riguardano l’ex capo delloStato, per fugare qualunquesospetto. Questa secondavicenda è gravissima, non soloda un punto di vista di eticapubblica, ma da un punto divista politico: parliamo di fattiche hanno portato a un cambiodi governo e a un conflittointorno alla nomina di un generaledella Guardia di Finanza.E conosciamo il ruolo cheha avuto e continua ad averela Guardia di Finanza sulle indaginiper corruzione. Ripeto:il fatto che il ministro Boschiin Parlamento neghi lapossibilità di un chiarimentoa me sembra davvero moltoinquietante.

Intervista a Daniel Cohn Bendit. «In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli...».

Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)

Parigi. «Coscienti o meno, stiamo andando verso un’Europa delle Nazioni, orientata dagli egoismi nazionali. La migliore prova di questa tendenza è stata il comportamento degli Stati europei di fronte al problema dei rifugiati. Not in my backyard, non nel mio cortile, questa è la posizione di molti Paesi membri, Francia compresa, riguardo ai migranti. La nozione di solidarietà è estranea al dibattito di questi giorni. Questa è l’Europa delle Nazioni». Apolide alla nascita in Francia nel 1945, tedesco a 14 anni, francese a 70 (dal 22 maggio scorso), Daniel Cohn-Bendit è uno di quegli europei che l’Europa ha davvero provato a farla, sulle barricate nel maggio ‘68 e da leader ecologista sui banchi del Parlamento di Strasburgo. In Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria (Mondadori), scritto assieme al liberale belga Guy Verhofstadt, Cohn-Bendit tre anni fa cercava di dare una scossa federalista. Oggi guarda deluso le sue capitali, Parigi e Berlino, dividersi sulla Grecia e quindi sul futuro del continente.

Come spiega la rigidità della Germania verso la Grecia? Cosa c’è nella storia tedesca che porta a questa chiusura?
«Oggi la politica tedesca è tutta rivolta all’opinione pubblica, che è a sua volta concentrata sugli interessi della Germania. Una politica contabile ispirata a una ideologia rigida: solo risanando i conti pubblici l’economia può funzionare, e il prezzo di questo risanamento va pagato».

Ma perché accade questo?
«Ci sono sicuramente delle ragioni storiche, la Germania del dopoguerra si è costruita sul Deutsche Mark, su una moneta forte, simbolo della sua rinascita. Ma se siamo arrivati fino a questo punto credo ci siano anche banalmente delle ragioni psicologiche, personali. I politici si comportano come dei bambini. “Ha cominciato lui, no lui, tu mi hai insultato, no sei stato tu”. Quel che i responsabili greci non hanno capito è che attaccando il ministro delle Finanze Schäuble hanno ottenuto l’effetto di mobilitare una parte dell’opinione pubblica tedesca contro di loro. C’è una parte di voglia di rivincita, il desiderio di dare una lezione, nella durezza e nella cattiveria della posizione del ministro Schäuble. “C’è un problema di fiducia”, dice, ma che vuol dire? Chi deve avere fiducia in chi? I francesi non hanno fiducia nei tedeschi quando si tratta, per esempio, di battersi contro l’integralismo islamico o contro l’Isis o quando si inviano truppe in Mali. Ogni Paese può dire ormai “non ho fiducia” in un altro Paese su un dato argomento».
Perché la Francia è così vicina alla Grecia in questo momento, a costo di mettere alla prova l’asse franco-tedesco?
«Anche François Hollande ha delle ragioni di politica interna. L’opinione pubblica francese è molto più filo-ellenica di quella tedesca».
Da cosa dipende questa differenza nelle opinioni pubbliche di Francia e Germania?
«Intanto prendere in contropiede la Germania piace molto a una parte dell’opinione pubblica francese, poi c’è da sempre in Francia questo lato di solidarietà con il più debole. La questione che si pone oggi è: Hollande, Renzi, Rajoy, Merkel e gli altri possono avere una visione storica, o una visione contabile? Se prevarrà una visione puramente contabile siamo perduti».
Renzi ha appena ripetuto appunto che l’Europa non può ridursi a una questione di conti e burocrazia.
«Ma allora Renzi si batta assieme a Hollande e Juncker, lotti duramente durante le riunioni. Negli incontri dei ministri delle Finanze l’Italia finora non ha fatto sentire abbastanza la sua voce».

Se la Germania è così severa, è perché punendo la Grecia vuole educare Francia e Italia?
«È quel che sostiene Varoufakis nell’intervento che ha scritto per il Guardian. Il tono è sbagliato ma l’analisi giusta: Schäuble vuole dare un esempio a tutti, perché i mercati sappiano che l’euro è una moneta forte, che l’Europa non ha paura di amputare un dito andato in cancrena affinché la mano resista».
Così com’è l’Europa non funziona, è ormai evidente. Questa crisi potrà essere trasformata in un’occasione di rilancio?
«Mi pare molto difficile. Guardiamo per esempio ai finlandesi, che hanno nel governo il partito dei “veri finlandesi”, l’equivalente della Lega italiana. Come possiamo fare una nuova Europa se al governo ci sono partiti simili alla Lega? In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli... Queste occasioni dimostrano che la vecchia teoria della sinistra, cioè che sono le masse a fare la Storia, non regge. Sono le personalità che fanno la Storia, e se queste non sono all’altezza, i popoli sono destinati a mancare l’appuntamento».
Anche i capi di Stato che denunciano regolarmente i pericoli del populismo ne sono ormai condizionati?
«Esattamente. Hanno paura, vogliono guadagnare due punti nei sondaggi, Merkel non vuole irritare i contribuenti tedeschi, Hollande vuole posizionarsi per le prossime elezioni. Tutti hanno un’agenda nazionale. Solo questo conta».
«I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali».

La Repubblica, 10 luglio 2015 (m.p.r.)

Gli dei fanno prima impazzire coloro che vogliono distruggere. In questo caso li fanno annoiare. I vertici dell’eurozona sulla Grecia si moltiplicano, ogni volta annunciati come “l’ultima occasione” e gli europei ormai sono quasi in preda alla narcolessia. Sonnecchiamo sul sedile del passeggero anche mentre l’auto cade nel burrone. Ma non c’è niente da fare. Se i capi di governo dell’Ue non trovano una via d’uscita in occasione del vertice di emergenza convocato per questa domenica, il prossimo lunedì il progetto di integrazione europea potrebbe iniziare a disfarsi. Se pensate che in gioco ci sia solo il futuro della Grecia, be’, pensateci due volte.

Il problema è che la cronica incapacità dell’Eurozona di fare qualcosa che non sia tirare a campare non è semplicemente frutto di politiche sbagliate e di una leadership debole, che abbondano da ogni parte, governo greco, governo tedesco e istituzioni europee e internazionali inclusi. Ma le cause sono ben più profonde, radicate nella debolezza strutturale del progetto europeo già decenni fa. La maggioranza dei politici responsabili di queste debolezze ormai sono morti o vivono un’arzilla terza età. Sotto molti aspetti i leader di oggi sono intrappolati nella logica perversa delle istituzioni create dai loro predecessori. Sarà necessario uno straordinario balzo di coraggio e creatività per superarlo.
Se mi chiedete chi sono i due primi responsabili della crisi dell’Eurozona di cui la Grecia è solo la manifestazione più estrema, vi direi l’ex presidente francese François Mitterrand e Giulio Andreotti. Furono loro due che, subito dopo la caduta del muro di Berlino, costrinsero il cancelliere Helmut Kohl ad accettare il programma che avrebbe portato all’unione monetaria europea, offrendo in cambio, obtorto collo, il sostegno all’unificazione tedesca, ma senza accettare l’unione fiscale necessaria al funzionamento della moneta unica. «La storia recente, non solo in Germania», disse Kohl dall’alto del suo sapere, «c’insegna che è assurdo attendersi di poter mantenere nel lungo periodo l’unione economica e monetaria in assenza di unione politica». Come aveva ragione!
Questo non è che uno dei tanti peccati originali dell’eurozona. La Francia e l’Italia chiesero l’impegno nei confronti della moneta unica, ma fu la Germania a scrivere gran parte delle regole - ed erano regole tedesche, improntate all’ossessione della lotta all’inflazione e studiate per gli scenari macroeconomici di un’epoca diversa. Dato che si trattava soprattutto di un progetto politico e Francia e Italia dovevano essere parte dell’Eurozona fin dall’inizio, si ebbe una sorta di effetto domino al contrario. Se l’Italia era dentro, allora doveva entrare anche la Spagna, e poi il Portogallo e via così fino alla Grecia, uno stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione. La Grecia non avrebbe mai dovuto aderire all’unione monetaria che, a sua volta, non sarebbe dovuta partire, neppure limitatamente a un gruppo più ristretto di economie compatibili, almeno fino a che non si fossero affrontati i peccati originali strutturali.
Il vecchio re Kohl sperava che, come era più volte accaduto nell’Europa post 1945, l’integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. Con lo svanire della memoria della guerra, dell’occupazione e della dittatura l’opinione pubblica in tutto il continente - non da ultimo nella stessa Germania - ha sviluppato un atteggiamento più pragmatico, scettico o del tutto disincantato riguardo al progetto europeo. La soluzione proposta per sanare il cosiddetto deficit democratico dell’Ue, ossia conferire maggiori poteri al parlamento europeo a elezione diretta, quindi presentare Spitzenkandidaten, candidati alla presidenza della Commissione Europea scelti dai partiti, non ha funzionato. Molte volte negli ultimi mesi ho chiesto a platee di persone andate alle urne se avessero intenzionalmente votato per uno degli Spitzenkandidaten e quasi nessuno ha risposto di sì. La teoria è una cosa, la pratica un’altra.
Quindi qualunque opinione abbiate del comportamento di Alexis Tsipras Alexis Tsipras, non ha senso far finta che Jean-Claude Juncker goda di una legittimazione democratica europea maggiore in confronto al primo ministro greco. La realtà della democrazia europea resta nazionale: la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a quando ho iniziato a studiare e a girare l’Europa 40 anni fa. Esistono pubblicazioni dirette a un pubblico ridotto e colto in tutto il continente, ma la maggior parte della gente in Europa si ferma ai media nazionali, anche quando la lingua è comune. A Vienna mi hanno spiegato quanto sia diverso il tono con cui i media austriaci trattano l’argomento Grecia rispetto ai media tedeschi.
Quindi non esiste una sola Grecia, bensì 28 grecie diverse, a seconda del paese in cui siete. La grecia estone o lituana sarebbe pressoché irriconoscibile agli occhi degli italiani, figuriamoci dei greci. Analogamente non c’è una sola Germania bensì 28 - e pochi tedeschi riconoscerebbero il proprio paese nella “Germania” dei quotidiani greci. Queste narrazioni in netto contrasto sono alimentate dai politici di ogni paese che emergono da ogni vertice di Bruxelles strombazzando i loro successi e attribuendo ogni partita persa ad altri governi o alle malefiche istituzioni europee. Il ministro degli esteri belga ha ironizzato sul fatto di essere l’unico a non poter dare la colpa a Bruxelles (perché è anche la sede del suo governo).
John Stuart Mill ha scritto che l’unità dell’opinione pubblica necessaria al funzionamento del governo rappresentativo non può aversi tra gente che manca di senso di comunità, soprattutto se si parlano lingue diverse. L’Europa non l’ha ancora smentito. Nelle scorse sei settimane sono stato in sei paesi diversi riscontrando dolorosamente l’assenza, tra di loro, di un senso di comunità. Contrapporre la democrazia alla tecnocrazia è ormai un cliché. Purtroppo la verità è ancora più amara, perché nell’Eurozona è presente il peggio di entrambi i termini. Istituzioni come la Commissione Europea e l’Fmi mostrano alcune delle pecche (nonché delle virtù) della tecnocrazia, inclusa la tendenza ad aderire a ortodossie irrealistiche, a un’economia a taglia unica.
Ma se parliamo dei leader europei allora lo scontro è tra democrazia e democrazia. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato “la vittoria della democrazia” le Termopili rivisitate e corrette in modello agitprop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras e egualmente soggetto ai limiti imposti dall’interesse nazionale e (cosa spesso più importante) dalle emozioni nazionali. Così i 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia, ma l’intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancor più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos , l’oppotunità di azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito.

Traduzione di Emilia Benghi

La ringrazio molto signor presidente.

Onorevoli deputati, è un onore per me parlare in questo vero e proprio tempio della democrazia europea. La ringrazio molto per l'invito. Sono onorato di affrontare i rappresentanti eletti dei popoli d'Europa, in un momento critico sia per il mio paese-per la Grecia e per la zona euro e l'Unione europea nel suo insieme, come bene.

Mi trovo in mezzo a voi, solo pochi giorni dopo la forte verdetto del popolo greco, seguendo la nostra decisione di permettere loro di esprimere la propria volontà, a decidere direttamente, ad adottare una posizione e di prendere attivamente parte ai negoziati per quanto riguarda il loro futuro. Solo pochi giorni dopo la loro forte verdetto insegnarci a rafforzare i nostri sforzi per raggiungere una soluzione socialmente giusta e finanziariamente sostenibile al greco problema, senza gli errori del passato che ha condannato l'economia greca, e senza l'austerità perpetua e senza speranza che ha intrappolato l'economia in un circolo vizioso di recessione, e la società in una depressione duratura e profonda. Il popolo greco fatto una scelta coraggiosa, sotto pressioni senza precedenti, con le banche erano chiusi, con la maggior parte dei media che cercano di terrorizzare la gente che un NO votazione porterebbe a una rottura con l'Europa.

È il mio piacere essere in questo tempio della democrazia, perché credo che noi siamo qui per ascoltare prima gli argomenti e poi giudicare tali argomenti. "Mi Colpisci, ma prima mi ascolta".

La scelta coraggiosa del popolo greco non regge per una pausa con l'Europa, ma per un ritorno ai principi fondanti dell'integrazione europea, i principi di democrazia, solidarietà, rispetto reciproco e uguaglianza.

Si tratta di un messaggio chiaro che l'Europa: il nostro comune progetto europeo, l'Unione europea, o sarà democratica o si troveranno ad affrontare enormi difficoltà di sopravvivenza, viste le condizioni difficili che stiamo vivendo.

La trattativa tra il governo greco e ai suoi partner, che sarà completata a breve, cerca di riaffermare il rispetto dell'Europa per regole operative comuni, così come il rispetto assoluto per la scelta democratica del nostro popolo.

Il mio governo e io, personalmente, è salito al potere circa cinque mesi fa. Ma i programmi di soccorso sono in vigore per circa cinque anni. Mi assumo la piena responsabilità di ciò che è accaduto nel corso di questi cinque mesi. Ma tutti noi dovremmo riconoscere che la responsabilità principale per le difficoltà che l'economia greca sta vivendo oggi, per le difficoltà che l'Europa sta vivendo oggi, non è il risultato di scelte fatte negli ultimi cinque mesi, ma nei cinque anni di programmi di attuazione che non è finita la crisi. Voglio assicurarvi che, a prescindere dalla propria opinione se gli sforzi di riforma erano giuste o sbagliate, resta il fatto che la Grecia, e il popolo greco, ha fatto uno sforzo senza precedenti per regolare nel corso degli ultimi cinque anni. Estremamente difficile e dura. Questo sforzo ha esaurito la capacità di resistenza del popolo greco.

Naturalmente questi sforzi non solo si svolgono in Grecia. Hanno preso posto altrove, come pure - e mi rispettano pienamente lo sforzo di altre nazioni e governi che hanno dovuto affrontare, e decidere misure difficili - in molti paesi europei, dove sono stati attuati programmi di austerità. Tuttavia, in nessun altro posto erano questi programmi così difficile e di lunga durata come in Grecia. Non sarebbe esagerato dire che il mio paese è stato trasformato in un laboratorio sperimentale di austerità per gli ultimi cinque anni. Ma dobbiamo tutti ammettere che l'esperimento non è riuscito.

Negli ultimi cinque anni, la disoccupazione alle stelle, la povertà è salito alle stelle, l'emarginazione sociale è cresciuto enormemente, così come il debito pubblico, che prima del lancio dei programmi era 120% del PIL, ed è attualmente il 180% del PIL. Oggi la maggior parte di popolo greco, a prescindere dalle nostre valutazioni, questa è la realtà e dobbiamo accettarlo, sentono di non avere altra scelta che combattere per uscire da questo corso senza speranza. Ed è questo desiderio, espresso nel modo più diretto e democratica che noi, come governo, siamo chiamati a contribuire a realizzare.

Cerchiamo un accordo con i nostri partner. Un accordo, però, che porterà ad una fine definitiva alla crisi. Che darà speranza, che alla fine del tunnel, c'è la luce. Un accordo che prevede affidabili e necessarie riforme, nessuno si oppone a questa, ma che si sposterà l'onere di coloro che hanno davvero la capacità di spalla - e che, nel corso degli ultimi cinque anni, sono stati protetti dai governi precedenti e non farsi carico - che è stato messo interamente sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, quelli che non possono più sopportare. E, naturalmente, con le politiche redistributive che andrà a beneficio delle classi medie e basse in modo che una crescita equilibrata e sostenibile può essere raggiunta.

La proposta che sottoponiamo ai nostri partner comprende:
- Riforme credibili, sulla base, come ho detto prima, l'equa distribuzione degli oneri, e con il possibile effetto minimo di recessione.
- La richiesta di un'adeguata copertura dei fabbisogni di finanziamento a medio termine del paese, con un programma di crescita forte e front-caricato; se non ci concentriamo su un programma di crescita, quindi non vedremo mai la fine della crisi. Il nostro primo obiettivo deve essere quello di combattere la disoccupazione e incoraggiare l'imprenditorialità,
-e naturalmente, la richiesta di un impegno immediato per iniziare un dialogo sincero, una discussione significativa per affrontare il problema della sostenibilità del debito pubblico.

Non ci possono essere problemi di tabù tra di noi. Dobbiamo affrontare la realtà e cercare soluzioni a questa realtà, a prescindere da quanto sia difficile queste soluzioni possono essere.

La nostra proposta è stata presentata al all'Eurogruppo, per la revisione durante il vertice di ieri. Oggi, stiamo inviando una richiesta al meccanismo europeo di sostegno. Noi abbiamo commesso, in un paio di giorni, per fornire tutte le specifiche per quanto riguarda la nostra proposta, e spero che riusciremo a soddisfare le esigenze di questa situazione critica nei prossimi giorni, sia per il bene della Grecia, come pure come per il bene della zona euro. Direi, soprattutto, non solo per ragioni finanziarie, ma anche per il bene geopolitico dell'Europa.

Voglio essere molto chiaro su questo punto: le proposte del governo greco per finanziare i suoi obblighi e ristrutturare il proprio debito non sono destinati ad ulteriore onere del contribuente europeo. Il denaro dato alla Grecia-siamo onesti, in realtà mai raggiunto il popolo greco. E 'stato dato il denaro per salvare i greci ed europei banche-ma non è mai andato al popolo greco.

Inoltre, da agosto 2014, la Grecia non ha ricevuto alcuna rate di erogazione in base al piano di salvataggio sul posto fino alla fine del mese di giugno, le rate che ammontano a 7,2 miliardi di euro. Non sono state concesse da agosto 2014, e vorrei sottolineare che il nostro governo non era al potere da agosto 2014 a gennaio 2015. Le rate non sono stati erogati perché il programma non è stato attuato. Il programma non è stato attuato in quel periodo (vale a dire, agosto '14 -Jan. '15) -non A causa di questioni ideologiche, come avviene oggi, ma proprio perché il programma allora, come ora, mancava il consenso sociale. A nostro avviso, non è sufficiente per un programma sia corretto, è importante anche perché sia ​​possibile realizzare, che consenso sociale esiste affinché possa essere attuato.

Onorevoli deputati del Parlamento, allo stesso tempo, che la Grecia stava negoziando e rivendicando 7200000000 € di erogazioni, la Grecia ha dovuto rimborsare a le stesse istituzioni che stavamo per impetrare la erogazioni-rate del valore di 17,5 miliardi di euro. Il denaro è stato pagato dalle magre finanze del popolo greco.

Onorevoli deputati, a dispetto di quello che ho detto, io non sono uno di quei politici che sostengono che "stranieri cattivi" sono responsabili per la noia del mio paese. La Grecia è sull'orlo del fallimento, perché i precedenti governi greci hanno creato uno stato clientelare per molti anni, hanno sostenuto la corruzione, hanno tollerato o addirittura sostenuto l'interdipendenza tra la politica e l'élite economica e l'evasione fiscale su grandi quantità di ricchezza è stato lasciato incontrollato. Secondo uno studio del Credit Suisse, il 10% dei greci in possesso di 56% della ricchezza nazionale. E che il 10% dei greci, nel periodo di austerità e di crisi, sono stati lasciati intatti, essi non hanno contribuito agli oneri come il restante 90% dei greci hanno contribuito. I programmi di soccorso e il memorandum non ha neppure tentato di affrontare questi grandi ingiustizie. Invece, li aggravate, purtroppo. Nessuna delle riforme presunti programmi d'ordine, purtroppo, ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte che è crollato, nonostante il desiderio di qualche "illuminato", così come giustamente spaventato, funzionari pubblici. Nessuna riforma presunti affrontato il triangolo famigerato di corruzione che è stato istituito nel nostro paese molti anni fa, prima della crisi, tra l'establishment politico, gli oligarchi e le banche. Nessun riforme hanno migliorato il funzionamento e l'efficienza dello Stato, che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. E, purtroppo, le proposte per affrontare questi problemi sono ora sotto i riflettori. Le nostre proposte si concentrano sulle riforme reali, che mirano a cambiare la Grecia. Le riforme che i governi precedenti, la vecchia guardia politica, così come chi guida i piani Memoranda, non volevo vedere implementata in Grecia. Questa è la semplice verità. Trattare in modo efficace con la struttura oligopolistica e le pratiche di cartello nei singoli mercati - tra cui il mercato televisivo non regolamentata e inspiegabile - il rafforzamento dei meccanismi di controllo in materia di entrate pubbliche e il mercato del lavoro per combattere l'evasione fiscale e l'evasione, e modernizzare la Pubblica Amministrazione costituiscono priorità di riforma del nostro governo . E, naturalmente, ci aspettiamo che i nostri partner 'accordo su queste priorità.

Oggi, veniamo con un mandato forte da parte dei cittadini greci e con la ferma determinazione di non scontrarsi con l'Europa, ma a scontrarsi con gli interessi acquisiti nel nostro paese, e con le logiche e gli atteggiamenti stabilito che affondavano la Grecia in crisi, e stiamo mettendo un peso per l'Eurozona, pure.

Onorevoli deputati,

L'Europa è a un bivio critico. Ciò che noi chiamiamo la crisi greca non è che l'incapacità generale della zona euro per un trovare una soluzione definitiva a una crisi del debito autosufficiente. In realtà, questo è un problema europeo, e non un problema esclusivamente greca. E un problema europeo richiede una soluzione europea.

Storia europea è piena di conflitti, ma alla fine della giornata, di compromessi, anche. Ma è anche una storia di convergenza e l'allargamento. Una storia di unità, e non di divisione. Ecco perché si parla di una Europa unita, cerchiamo di non permettere che diventi un'Europa divisa. Attualmente stiamo chiamati a raggiungere un compromesso praticabile e onorevole al fine di evitare una rottura storica che ribaltare la tradizione di un'Europa unita.

Sono certo che tutti noi apprezziamo la gravità della situazione e che risponderemo di conseguenza; ci assumeremo la nostra responsabilità storica.

Grazie.
Riferimenti
Qui Potere VEDERE e Ascoltare i l il video del discorso in diretta di Alexis Tsipras, con la contemporanea traduzione in italiano
Qualche idea ragionevole per tutti, e soprattutto per quanti, servizievoli verso il mondo del potere globale, accusano Tsipras di demagogia dimostrando così di preferire l'oligarchia alla democrazia.

La Repubblica, 28 giugno 2015

«Il referendum è lo strumento della sovranità popolare, che veniva utilizzato nell’età antica. Chi lo critica si mette dalla parte degli oligarchi». Luciano Canfora ha indagato da studioso del mondo classico le origini e i cambiamenti delle nostre democrazie, spiegandoci nelle sue opere come nel tempo siano andati evolvendosi i rapporti tra i cittadini e chi detiene il potere.

Com’era il referendum nel mondo antico?«Nell’Atene del V secolo a. C. il referendum non aveva senso: le decisioni erano prese dall’assemblea popolare. Qui due volte al mese si tenevano delle assemblee ordinarie nelle quali i cittadini votavano per alzata di mano e decidevano sulla loro rappresentatività. La repubblica romana invece era aristocratica: si votava per centurie e le classi ricche vincevano sempre».

Quando nasce storicamente l’esigenza di far partecipare il popolo alla vita pubblica?
«Aristotele spiega bene che in origine solamente in pochi prendevano parte alla vita politica della polis. Erano i signori a comandare. Solo quando s’introdusse un salario minimo anche le persone comuni poterono iniziare a partecipare attivamente».

Si può ricorrere al referendum per una questione così importante come l’accettazione del piano Ue sulla Grecia?
«Non solo si può, ma si deve. Nella storia d’Italia ci sono un paio di referendum che ci hanno segnato per sempre: quello per la Repubblica del 1946 e quello per il divorzio del 1974. E invece ora tutti si mettono a dare lezioni alla Grecia. Ma sono lezioncine in contrasto con l’idea di sovranità popolare. Sono reazioni oligarchiche»

Chiamare il popolo a decidere, non è un modo per abdicare alle proprie responsabilità politiche?
«No, tutt’altro. Se il concetto di sovranità popolare ha un senso, rimettersi al popolo è l’unica forma legittima».

Siamo di fronte ad una crisi delle democrazie rappresentative?
«Il modello della delega è logoro. Il referendum è un correttivo, un modo per restituire voce al cittadino comune. E’ una grande conquista, insieme al suffragio universale sicuramente una delle più grandi del Novecento. D’altra parte Jean-Jacques Rousseau diceva che il popolo inglese è libero soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento, ma appena questi sono eletti ridiventa schiavo.

In momenti delicati, non è rischioso affidarsi alla pancia degli elettori?
«Chi pensa questo non ha fiducia nel popolo sovrano. In realtà la democrazia s’impara praticandola e non continuando a tenere il cittadino comune sotto tutela».

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