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Le ragioni perché, in una questione delicata e intimamente legata a inalienabili diritti della persona, il Parlamento italiano riacquisti dignità e non decida in base a valutazioni di convenienza politica.

La Repubblica, 20 gennaio 2016

LA discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno.

Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso. Ma per impedire interferenze da parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita », come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.

L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi. È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza. Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude.

Nessuno di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materia sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.
In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.
Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso — Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali ( stepchild adoption). Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza.

Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte sui ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione.

Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».

Il grande pensatore comunista lo aveva già compreso. «Con l’evoluzione della "società dello spettacolo" sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia».

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«Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica»H. Marcuse
Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoimeccanismi tecnologici annessi.

Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia».
All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimento filosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita».

Il nesso fra teoria e pratica, o tra filosofia e politica, insomma, era fondato sulla prolifica unione di pensiero e azione, con la finalità di evitare un’elaborazione teorica e una prassi politica che, se separate, si allontanassero dalle questioni reali e concrete della società umana. Ma anche per scongiurare quel distacco tra intellettuali e masse popolari che, specialmente con la Prima Guerra Mondiale, aveva finito col ridurre le classi subalterne a recitare il ruolo di «materiale umano» o «materiale grezzo» per la storia delle classi privilegiate.

Il recupero della centralità dell’uomo, in quanto capace di elaborare un pensiero che si traduca inazione e lo configuri come soggetto consapevole della società e della storia, è quanto oggigiorno appare più a rischio di fronte agli sviluppi di una tecnologia massmediatica che, se da una parte fornisce l’illusione dell’«onnipotenza informativa», dall’altra produce individui sempre meno in grado di pensare autonomamente e di agire consapevolmente, sempre più isolati all’interno di quattro pareti e davanti al video di un computer. Computer che, per molti aspetti, finisce col pensare e agire al posto degli uomini stessi, producendo non soltanto degli effetti deleteri sulle facoltà precipue dell’individuo, ma minando anche quelle possibilità di relazioni e azioni sociali che rappresentano il nerbo della polis umana.
L’odierna società della comunicazione, che ha ormai assunto le fattezze della società dello spettacolo descritta da Debord, sta contribuendo alla costruzione di un uomo sempre più isolato ed eterodiretto e, in quanto tale, sottoposto a forme di dominio nella dimensione sovrastrutturale che gli rendono impossibile, o peggio sterile, ogni possibilità di azione concreta ed efficace nel campo sociale .

La natura sociale dell’azione

Dopo un periodo in cui fu predominante la tesi che negava questo ed altri tipi di influenza dei media sull’uomo, nel 1981, significativamente sulla Annual Review of Psychology, compare un saggio pressoché ignorato dalla stampa e dalla comunità scientifica americane. In questa pubblicazione, dai toni peraltro misurati, viene lanciato un messaggio di profonda importanza per i professionisti e gli studiosi della comunicazione, volto a rimarcare «la straordinaria influenza e il potere esercitati dai media sul modo di percepire, di pensare e in ultima analisi di agire delle persone nel proprio mondo».

Concentriamoci su quest’ultimo aspetto. L’azione fa parte della dimensione umana, rappresenta un punto fondamentale tanto quanto la percezione e il pensiero e, anzi, potremmo dire ripensando a Gramsci, ne costituisce la naturale proiezione nel campo sociale. Se è vero che «tutte le attività umane sono condizionate dal fatto che gli uomini vivono insieme», scriveva la Arendt, è ancora più vero che «soltanto l’azione non può essere neppure immaginata al di fuori della società degli uomini». Essa soltanto costituisce una «prerogativa esclusiva degli uomini», di cui né una bestia né un dio possono essere capaci.
È nell’agire, quindi, un agire cosciente e razionale proprio perché preceduto da una corretta percezione e da un libero pensiero, che la natura dell’uomo si rivela «sociale», imprescindibile dalla presenza di altri individui e dalla cooperazione con essi al fine di costruire una società libera e capace dimettere al centro l’uomo e i suoi bisogni. Ma per «agire» in questo senso sociale e politico, occorre che i cittadini siano interessati all’azione stessa, «impegnati» nel valutare con la propria testa e in maniera critica i limiti e le incongruenze della società di cui si trovano a far parte.
Ora, ai nostri giorni esiste un’ampia letteratura che ha studiato lo straordinario sviluppo tecnologico e strutturale dei mezzi di comunicazione di massa, arrivando a un generale consenso sul fatto che in riferimento ai mass media delle società industrializzate, questi sviluppi allo stato attuale non hanno contribuito né a creare democrazie più robuste né formare cittadini più «impegnati (engaged citizens)».
Se da una parte, quindi, è assai agevole documentare le rivoluzioni che le nuove tecnologie informatiche e comunicative hanno operato rispetto a tutte le sfere della nostra vita, tanto che c’è chi arriva a qualificarle come «costitutive» della modernità stessa, dall’altra rimangono non poche perplessità rispetto alla loro capacità effettiva di potenziare la democrazia. Con particolare riferimento a Internet, per esempio, si possono riscontrare alcuni elementi che vanno in direzione contraria:
1) l’uso che si fa di Internet per scopi civili e politici è infinitamente minore rispetto a quello che concerne l’intrattenimento e lo shopping;
2) per quanto riguarda il reperimento di informazioni, prevale di gran lunga la ricerca di «non-notizie», afferenti a tematiche come la salute, la finanza o le questioni riguardanti il consumo, che superano abbondantemente la ricerca di informazioni sugli affari correnti o sulle cronache giornalistiche;
3) dalle odierne società dell’informazione non sono usciti cittadini politicamente impegnati né politicamente attivi. Dato che si riscontrava anche prima dell’avvento di Internet, ma rispetto al quale la rete ha finito con l’avere un ruolo ancora più disimpegnante: infatti se è vero che lo spettro ideologico delle discussioni fra individui su Internet è più ampio rispetto a tutti gli altri media, è anche vero che queste discussioni si mantengono su un piano «virtuale», che tende a escludere quasi sempre una traduzione nella pratica delle discussioni teoriche;
4) una visione molto diffusa era stata quella per cui Internet avrebbe potuto dare più potere ai meno forti: tale visione è stata smentita dai fatti poiché si è rilevato che i gruppi marginalizzati non hanno assolutamente visto incrementare il proprio impatto rispetto alle relazioni di potere all’interno delle società.
Tanto i massmedia sono diventati elemento centrale delle nostre società moderne e della vita quotidiana di tutti noi, si potrebbe dire, tanto balza agli occhi il loro effetto disimpegnante e omologante sulla nostra identità di cittadini facenti parte di una comunità. Tale effetto si ripercuote sull’assetto democratico delle nostre società, su quella che, in accordo con quanto stabilito da Habermas e prima ancora da Dewey, viene chiamata «sfera pubblica» e che è fondata sulla componente cruciale dell’«interazione» fra individui liberi, interessati alla res publica: senza una libera discussione fra i cittadini, scrive uno studioso del rapporto tra sfera pubblica e mass media, la stessa definizione di «pubblico» diviene senza senso.
Da questo punto di vista la società della comunicazione crea molti motivi di preoccupazione per le sorti della democrazia. Facciamo riferimento ad analisi che documentano come la cultura dei media in generale, con la sua enfasi sul consumo e sull’intrattenimento,ha tagliato l’erba sotto ai piedi a quel tipo di cultura pubblica che è richiesta per una democrazia in salute.
Più specificamente il giornalismo contemporaneo è spesso accusato di sovvertire i valori democratici nella trattazione delle vicende politiche, per via della sua sempre crescente commercializzazione, per il sensazionalismo, la trivialità, tutti elementi che conducono a due risultati:
1) da una parte il giornalismo (e la cultura dei media in generale) contribuisce al generale ammutolimento della cittadinanza (che non è più in grado di intervenire su questioni trattate inmaniera tanto enfatica e iperbolica, quanto poco fornita di contenuti effettivamente informativi);
2) dall’altra promuove nei cittadini cinismo, disaffezione e, alla fine, disinteresse verso il sistema politico e i suoi rappresentanti, parimenti a un senso di impotenza nel poter intervenire su vicende che si sentono lontane.
Né queste critiche possono essere limitate al giornalismo tradizionale (su carta stampata o su radio e telegiornali), poiché anche le modalità politiche ed economiche che caratterizzano l’informazione su Internet suggeriscono che il suo sviluppo sta rapidamente deviando verso quel tipo di «commercializzazione» (ossia banalizzazione ad uso e consumo di masse disimpegnate) che già da tempo caratterizza il modello dei media tradizionali 16.
Cittadini passivi

I mass media che producono cittadini disimpegnati e disinteressati alla sfera pubblica, media dietro ai quali vi sono poteri forti di natura economica e politica, finiscono col ritagliarsi anche un ruolo esclusivo rispetto alla formazione dell’opinione pubblica. Più l’individuo, per tutte le ragioni viste finora, perde la propria autonomia di giudizio e le proprie facoltà intellettive ed esperienziali, più questo stesso individuo perde la capacità di incontrarsi coi suoi concittadini per «dibattere», «organizzarsi» e «mobilitarsi» su questioni di interesse collettivo, più alla fine verrà lasciato ai media e a chi vi sta dietro la facoltà di formare l’opinione pubblica e di dirigerla secondo interessi di natura economica o, comunque, privata: «Al giorno d’oggi – scriveva Sartori vent’anni addietro –sono i mass media a giocare il ruolo più grande e centrale nel formare l’opinione pubblica […] Il mondo, per larga parte del pubblico, si riduce al messaggio veicolato dal media».

Cittadini di questo tipo, resi passivi ed eterodiretti, sono le vittime preferite dei poteri economici (che spesso e volentieri controllano i media), che si trovano così di fronte «consumatori passivi» dei loro prodotti, cervelli meccanicamente predisposti all’acritica accettazione del prodotto, come del messaggio, imposto da qualcun altro. Si tratta di un meccanismo che aveva già colto McLuhan, analizzando il fenomeno della pubblicità (advertising) e riscontrando come essa si fondi «sull’avanzatissimo principio per cui anche la più piccola parte di un motivo o di uno schema, se ripetuta in modo rumoroso e ridondante, finirà gradualmente per imporsi. La pubblicità spinge il principio del rumore fino al livello della persuasione, sistema che corrisponde pienamente alle procedure di lavaggio del cervello (brain washing)».
E proprio l’assalto all’inconscio potrebbe essere la ragione che sta dietro al meccanismo della pubblicità, è la deduzione di McLuhan: «Per dirla brutalmente –concludeva infatti lo studioso dei media – l’industria pubblicitaria è un rozzo tentativo di estendere i principi dell’automazione a ogni aspetto della società». Del resto, come mirabilmente descritto e anticipato da Orwell in 1984, la società della comunicazione si sta sempre più rivelando come quel sistema capzioso e sottile in cui viene finalmente conquistato anche «l’ultimo santuario», la mente umana, tramite meccanismi terrificanti ed efficacissimi quali il lavaggio del cervello, la persuasione subliminale e il controllo narcotizzante: in altre parole, per dirla con Sartori, una vera e propria «realtà totalitaria» fondata su un «sistema unicentrico di produzione dell’opinione».
Ad accostare società della comunicazione e totalitarismo era stato lo stesso McLuhan, laddove evidenziava che mentre «la minaccia di Hitler o di Stalin era una minaccia esterna», «la tecnologia elettrica entra dentro le nostre case e noi assistiamo intorpiditi (numb), sordi, ciechi e muti al suo incontro con la tecnologia di Gutenberg, sulla quale e attraverso la quale si è formata l’american way of life» .
Se i mass media, e gli interessi forti che li controllano, sono in grado di stravolgere e controllare le nostre capacità di percezione e pensiero, il nostro modo di agire (o non agire) nella società, manipolando le nostre menti fino a renderle atte ad accettare passivamente messaggi, informazioni e financo prodotti, utili ad alcuni interessi particolari e non a noi stessi o al bene comune della società in cui viviamo, è evidente che si pone il problema della democrazia. Non a caso gli autori succitati tirano in ballo il totalitarismo, ossia quel sistema che è considerato antipodico rispetto ai modelli democratici che conosciamo nel nostro benestante Occidente.
Mai come oggi, nelle nostre società occidentali così apparentemente libere, è doveroso stare in guardia e ricordare l’insegnamento di Platone, il quale era ben consapevole che è proprio dalla democrazia che può nascere, attraverso un processo di degenerazione, la tirannide. Evidentemente non c’è e non può esserci esercizio effettivo della libertà quando i mezzi di comunicazione di massa, nel senso specifico che «massificano» l’individuo, o che «portano all’ammasso» non solo l’intelletto, ma anche la sensibilità dell’uomo, esprimono tutta la loro potenza non solo di informazione, ma anche di «formazione»: l’uomo perde in questo modo la propria autonomia, finendo con l’essere ridotto alla stregua di un «minorenne» eterodiretto, incapace di servirsi autonomamente della propria ragione e del proprio sapere, comunque subordinato ai meccanismi di una tecnica che, seppure figlia dell’uomo stesso, progredisce in maniera più veloce rispetto alle capacità umane di assorbirla.
Ecco perché i rischi sono quelli di un nuovo totalitarismo, ancora più insidioso e totalizzante in quanto proveniente dai sottili meccanismi di funzionamento di una società in superficie democratica, che non perde occasione per ribadire la centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, ma che in realtà finisce col ridurlo a mezzo e strumento per interessi economici e di potere. Una forma di totalitarismo che, in aggiunta, si rivela ancora più completa in quanto unisce i due aspetti che finora erano stati attribuiti ai regimi liberticidi moderni: la capacità massificante e omologante unita a quella atomizzante ed estraniante.
Ritorno a Gramsci

L’universo dei nuovi media, pensiamo in particolare a Internet, massifica l’uomo in quanto ne omologa i gusti e le facoltà di percezione e pensiero, nel momento stesso in cui lo atomizza poiché, fornendogli l’illusione di poter entrare in comunicazione col mondo intero e con un numero illimitato di persone (e di informazioni), lo tiene in realtà chiuso tra le quattro pareti di casa propria, sempre più disabituato a coltivare rapporti diretti e ad incontrarsi con altri individui per dibattere, ragionare ed eventualmente organizzarsi.

Siffatto individuo, esposto alle forze omologanti e isolanti esercitate dai nuovi mezzi di comunicazione, finisce col venire «eterodiretto» fin dal suo rapporto più ordinario con i più elementari meccanismi di funzionamento dei mass media: nella vita reale l’uomo è libero di seguire in maniera indipendente i propri processi di associazione, mentre, per esempio nell’interazione col computer, con i rimandi ai vari link gli viene di fatto richiesto di seguire delle «associazioni pre-programmate», in altre parole di seguire «la traiettoria mentale del programmatore».
Ecco allora che, a distanza ormai di quasi un secolo, si pone su un piano ulteriore (mutatis mutandis) la discriminante già vista, quella fra il «credere, obbedire, combattere» della propaganda fascista e quanto proprio Gramsci scriveva come epigrafe all’OrdineNuovo: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza!».
Riferimenti bibliografici:

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Avvertenza

Le note a pie' di pagina possono essere lette nel testo originale, sul sito Filosofiainmovimento, e precisamente qui. Siamo arrivati a questo testo (di grande interesse nella fase attuale della politica non solo italiana, scorrendo le pagine del sito gabriella giudici.it. Su quest'ultimo sito vi consigliamo anche di sorridere guardando gli sketch, di incredibile humour e umanità, di Nanni Loy. La zuppetta. La nota di Gabriella Giudici che introduce lo sketch vi spiega con poche parole perché tra le invenzioni di Nanni Loy e gli altri esemplari di candid camera corre la stessa differenza che c'è tra una perla e un ciottolo.
Sembrano parole profetiche, ma sono parole e moniti di scottante attualità: l'intervista di Silvia Truzzi a Enzo Bianchi è da conservare e rileggere.

IlFatto Quotidiano, 24 dicembre 2015

"L'atteggiamento oscillante della politica italiana è una manifestazione di incapacità, serve un azione condivisa". Nominato come esperto da Benedetto XVI dal Sinodo dei vescovi e da Francesco consultore del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, nel 1965 ha fondato la comunità in provincia di Magnano di Biella. "Bisogna rifondare la grammatica umana"

La strada sembra fatta apposta per prepararti a Bose. Dal casello si attraversano solo campi, boschi umidi di nebbia e paesi deserti di tapparelle abbassate. Negozi con insegne scolorite chiusi chissà da quanto, strade strette che passano sotto ponti di pietra. A parte un trattore, non incroci nessuno, né a piedi né in auto. L’autoradio l’hai spenta quasi subito dopo l’autostrada. Poi l’hai riaccesa e di nuovo spenta: alla pace ci si abitua con difficoltà, ma a un certo punto bisogna arrendersi. Dunque è soprattutto silenzio, fino alla radura che ospita il monastero che ospita tutti: pellegrini, migranti, fedeli e infedeli, affamati, amici e persone smarrite.

Enzo Bianchi ha una faccia conosciuta: occhi limpidi e chiari, rughe scolpite; ingannevole invece la mitezza. Il file audio dell’intervista è pieno di picchi: tutte le volte che qualcosa lo fa arrabbiare il tracciato s’impenna. È nato il giorno prima di Gesù Bambino, 3 marzo ’43. Non c’è un porto in questa storia, ma il bric di Zaverio, le colline del Monferrato. E ci sono le bombe. “Quando sono nato, mio papà non c’era: stava in montagna con i partigiani. Faceva il magnan, lo stagnino. Ma anche il barbiere, il vetraio e l’elettricista per tirar su qualche soldo. Mia madre soffriva di unamalattia al cuore, che si sarebbe potuta curare: dal 1952 hanno cominciato a fare gli interventi per operare la valvola mitralica. Ma lei è morta nel ’51, a trent’anni, io appena otto. Già da piccolo sapevo che se ne sarebbe andata presto. Sono nato in casa e fu una nascita difficile: i medici avevano sconsigliato a mia madre, così malata, di avere figli. Mio padre, che veniva da una famiglia rossa di anticlericali, voleva per me un nome che non fosse di un santo, e scelse ‘Enzo’. Ma mia madre, che invece era una donna piena di fede, volle chiamarmi ‘Giovanni’: con questo nome fui battezzato di notte, portato al parroco da una vicina di casa, amica di mia madre. Quando lei se n’è andata, siamo rimasti io e mio padre, pieni di debiti per le spese mediche: vita misera, ma dignitosa. Riuscii, con l’aiuto economico di due donne vicine di casa e le borse di studio, a iscrivermi a Economia. Poi abbandonai tutto per la vita monastica che iniziai a Bose”.

Com’è successo?
Ero impegnato in politica: fanfaniano, ero il segretario dei giovani democristiani in provincia di Asti. Poi, nel 1965, sono stato tre mesi alla periferia di Rouen, insieme all'abbé Pierre. Vivevo con ex legionari, ex alcolizzati, ex carcerati, passavo tra le case a raccogliere stracci e ferraglia. Quei tre mesi mi hanno dato un insegnamento enorme. Ho capito che i poveri non sono i destinatari della carità, ma soprattutto maestri. Se c'è qualcuno degno di una cattedra sono i poveri: sanno insegnare tante cose che di solito s'ignorano. Vedere la capacità di amore e di cura che avevano questi poveri tra di loro mi ha profondamente cambiato. Ha modificato la mia idea di cattolicesimo, fino a quel momento legata all'azione cattolica, al ‘fare il bene per dare testimonianza’.

Lì ha capito che voleva diventare monaco?
Fin da giovane sono stato legato alla religione: come ho detto, mia madre era profondamente cattolica. Due donne si sono prese cura di me: mia madre e una maestra che mi ha dato in mano San Basilio a 13 anni. Tenevo le Regole sul tavolino da notte ed ero solo un ragazzino.

E dopo Rouen?
In quel periodo ero stato sospeso dal partito: avevo firmato un manifesto dei comunisti contro la tortura e la condanna a morte di Julián Grimau, il leader del Partito comunista spagnolo perseguitato da Franco. Intanto avevo costituito a Torino un gruppo ecumenico – cattolici, valdesi, battisti, ortodossi – che si riuniva nel mio alloggio: tutte queste circostanze insieme e l'apertura ecumenica del Concilio vaticano II, mi fecero maturare l'idea della vita monastica. Così arrivai qui a Bose.

Come la scoprì?
Tramite amici che mi fecero conoscere la chiesa romanica adiacente alla frazione. Le case erano tutte disabitate e, con alcuni del gruppo, abbiamo pensato di affittarle. Anche se all'ultimo momento di quelli che avevano risposto sì alla mia proposta, non venne nessuno: due ragazze avevano trovato il fidanzato, un ragazzo aveva avuto una crisi di fede e si era iscritto a Sociologia a Trento. Poi entrò nelle Brigate rosse e fu condannato. Il cardinal Pellegrino, che era il mio riferimento spirituale, mi disse di continuare la vita iniziata a Bose.

Per quanto tempo ha vissuto qui da solo?
Quasi tre anni: non c'era l'acqua corrente e nemmeno la luce elettrica. Ma non ho mai trascorso un sabato e una domenica da solo: amici e conoscenti venivano a trovarmi, facevamo giornate di meditazione su alcuni temi di vita spirituale. Poi, nel ’68, quattro persone sono venute a vivere qui, due uomini e due donne. I voti li abbiamo presi nel ‘73, eravamo in sette. Da allora la comunità ha continuato a crescere: ogni anno arrivano tre-quattro persone nuove. Di solito finiscono per fare l’itinerario monastico: tre anni di noviziato, quattro di probandato. Dopo sette anni si può fare la professione monastica definitiva. I monaci sono laici che devono vivere lavorando con le proprie mani. Il vescovo mi aveva chiesto di diventare prete, ma io volevo restare un semplice cristiano, marginale nelle istituzioni perché la Chiesa può fare a meno dei monaci. Sant’Antonio diceva: ‘Noi monaci abbiamo le sante Scritture e la libertà’.

Qui cosa producete?

Ci sono un grande orto e un frutteto, grazie ai quali abbiamo verdura e frutta tutto l’anno. Abbiamo le api, una falegnameria, un laboratorio di ceramica, un panificio, facciamo confetture e marmellate. Produciamo icone, c’è la tipografia e le nostre edizioni Qiqajon molto apprezzate.

Quante persone passano da Bose?
Quindici-diciassettemila all'anno, più o meno. C'è chi viene per pregare, chi per pensare, chi per parlare perché è in difficoltà, chi cerca il silenzio. E poi ci sono anche quelli che vengono a chiedere da mangiare. Ormai ci chiedono pasta, pane, olio perché non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese. Una volta venivano più zingari e girovaghi, senza casa. Dal 2000 hanno cominciato a bussare gli extracomunitari e adesso – da circa cinque anni – si sono aggiunte povere famiglie e pensionati che non ce la fanno. Arrivano da Biella, Vercelli, Ivrea. Da settembre abbiamo quattro migranti dall'Africa. Gli abbiamo dato una casa e li stiamo aiutando a imparare l'italiano: ci sembra giusto condividere con loro. Se non lo facciamo noi qui, chi lo deve fare?

“Accoglienza” non è una parola di moda oggi.
Purtroppo no. Abbiamo spiegato ai nostri concittadini di Magnano che noi garantivamo per loro, che li accoglievamo in una bella casa, seguendoli in un percorso di integrazione vero: mi pare che il clima sia più disteso. Pesa, e molto, la burocrazia: capisco che le istituzioni ci vogliono, che servono garanzie. Il rischio però è che questo sia un processo completamente disumanizzato, che dimentica di avere a che fare con persone: se si vuole una conoscenza vera, reciproca, culturalmente stimolante, non si può passare solo da luoghi separati dalla vita comune.

Adesso c’è paura per il rischio terrorismo.

Ma è esagerata, esasperata dagli imprenditori della paura. Forze politiche che da un lato istigano la paura, dall’altro aumentano il risentimento dei migranti e dei popoli arabi verso di noi. Anche loro sono responsabili della violenza, che è una risposta – ingiusta perché contro gli innocenti – ad altra violenza.

L’emergenza “sicurezza” è più generale. A Vaprio d’Adda un pensionato ha ucciso un ladro che era entrato, disarmato, nella sua abitazione. E sarà candidato con Forza Italia.

La paura va presa sul serio: nei paesi qui intorno sono tutti vecchi, che spesso abitano da soli. Ma bisogna anche aiutare a razionalizzare. Le forze sociali dovrebbero contenere la paura, non usarla come macchina macina voti. Spesso si esagera: allora ecco il giustificare sempre – a qualunque costo – chi si difende, a prescindere dalle situazioni. Ecco che s’invoca una maggiore diffusione delle armi: il far west porta alla barbarie, che è iniziata già da anni. Prima la gente non era così cattiva, adesso è solo diffidente, chiusa. La responsabilità se la devono prendere i coltivatori di odio. E attenzione: questi signori hanno quasi sempre la scorta, quasi sempre vivono protetti da sette cancelli, dieci telecamere di sicurezza e non hanno nulla da temere.

Cosa manca ai nostri governanti, secondo lei?

Una vera politica dovrebbe prendersi cura degli ultimi, anche di quelli che arrivano alle nostre frontiere. Avere un atteggiamento oscillante, per cui ogni tanto bisogna mitragliare i barconi e ogni tanto si appare disposti all’accoglienza, mi sembra sia una manifestazione d’incapacità, una mancanza di visione. Anche a livello europeo. Bisogna sollecitare un’azione condivisa: ma se nessuno alza la voce, continua tutto come adesso.

La politica è subordinata al potere finanziario?
Il grande idolo è il mercato. Tutti i governi sono inginocchiati di fronte a questo potere idolatrico. Non c’è un governo, uno, che porti avanti un vero discorso di giustizia sociale, necessario in un momento in cui il divario tra i pochissimi che hanno tanto e i tantissimi che hanno poco o nulla è sempre, tragicamente, maggiore. La libertà e l’uguaglianza hanno bisogno della fraternità. Se prima non c’è il valore fondante della fraternità – tutti uguali, tutti fratelli, tutti con lo stesso diritto a una vita degna, a partecipare alla tavola del mondo – allora anche la libertà e l’uguaglianza sono deboli. Ogni uomo che viene al mondo ha diritto di vivere, di essere, per quanto possibile, felice e amato. Anche se per tutti la vita è un duro mestiere.

È la prima parte della Costituzione.
La Costituzione non è mai stata completamente applicata. Negli ultimi vent’anni si è addirittura teorizzato di abbandonarla perché ‘invecchiata’. È stato possibile dirlo, e in parte farlo, senza la resistenza di nessuno. Nemmeno delle forze di sinistra che hanno sposato la peggior ideologia radicale, portandoci a una situazione d’illegalità diffusa in cui è sempre più difficile affermare i diritti. Ormai c’è un individualismo imperante, la parola d’ordine è meritocrazia. Non si tiene conto della realtà più semplice: la vita fa i disgraziati. La morte, la malattia, la miseria fanno gli ultimi. O a questi ci pensa lo Stato o sono persone perdute.

Le reti sociali sono scomparse.
Si tratta di rifondare la grammatica umana nell’educazione. È un lavoro a lungo termine. Amartya Sen ha ragione quando rilegge la giustizia in termini nuovi: avere tutti gli stessi mezzi di sviluppo e affermazione. Non basta nemmeno una redistribuzione dei beni che tolga la fame. Su queste strade chi cammina? Le forze politiche sono sorde.

Quando lei era ragazzo era diverso?
Una volta per le forze politiche – sia quelle socialiste-comuniste sia quelle cattoliche – la giustizia sociale era un valore fondante. Oggi non conta nulla, non c’è nessuna possibilità di affermarla. Contano la produzione, lo sviluppo economico e poi che la distribuzione avvenga secondo i meriti. Ma cos’è il merito? Per gli ultimi non c’è nessuna possibilità di attenzione. È una vertigine di egoismo, di filautia. Il benessere è solo personale, tutto è lasciato al gioco del mercato che da solo sarebbe in grado di calmierare le disuguaglianze. Ma guardi come abbiamo ridotto la Grecia, umiliata dall’Europa con l’aiuto dell’Italia. È più grave che un povero umili un altro povero, come ha fatto l’Italia in crisi con la Grecia, una terra dove abbiamo portato una vergognosa guerra nel 1940. Non hanno capito che dove c’è la guerra tra poveri, i più ricchi ne approfittano.

Cosa ha pensato il giorno delle stragi a Parigi?
Ci saranno di nuovo i cortei, le manifestazioni e il grande sdegno, com’è capitato per Charlie Hebdo. Ma crescerà l’odio verso i Paesi arabi e nessuno si interrogherà sulle nostre responsabilità.

Ne abbiamo?
Noi abbiamo portato la guerra nel Golfo, in Iraq, in Libia. Se un uomo come Blair – che non è proprio un giusto – fa un mea culpa sull’Iraq vuol dire che è un dato di fatto. Abbiamo degli amici monaci in Iraq che provano a resistere alla guerra, qualche volta riusciamo a parlarci. Certo non ci vedono come i liberatori. Ci dicono: è colpa vostra.

Natale che cosa vuol dire?
Il Natale è l’occasione per riaccendere una speranza che riguarda l’umanità intera; in questo senso tutti noi sappiamo benissimo ‘cos’è’ il Natale. Dovrebbe voler dire che al centro di tutto c’è un uomo. La nascita di quel bambino è la nascita di una creatura che ha un diritto di vivere. Abbiamo diritto a vivere: pensiamo a quante persone stanno morendo sotto le bombe dei francesi, dei russi, degli altri che stanno facendo la guerra per procura.

Ha delle speranze?
Ne avevo di grandi, fino alla fine degli anni Novanta. La caduta del Muro di Berlino ci aveva dato speranza… Invece guardiamo oggi, quanti muri continuano a essere eretti!

La sua fede nell’uomo ha mai vacillato?
Ho avuto una grande crisi quando l’Italia è andata a fare la guerra nell’ex Jugoslavia: una vergogna su cui tutti tacciono. È stata una resa alle ragioni delle armi, del potere, del denaro. Ho capito che l’Europa non mi dava più speranze: a otto anni mi hanno dato la tessera dei ‘giovani per l’Europa’, per noi era un grande mito.

Il futuro?
Per ora manca un’insurrezione delle coscienze. Ma non c’è più nessuna mobilitazione: dopo il G8 non c’è stato più nulla. Neanche tra i giovani c’è interesse a mobilitarsi per la pace, la giustizia sociale, il lavoro che non c’è. Questo è grave, si passerà subito all’insurrezione violenta. Prima o poi i poveri si ribelleranno.

Devo parlare della giustizia. Siete in diritto di pensare ch’io sappia che cos’è. Invece no. Secondo il celebre detto di Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare con chiarezza deve essere taciuto”, essendo giustizia parola oscura, dovremmo iniziare e finire qui il nostro incontro. Tuttavia, da sempre proprio le massime questioni dell’esistenza si esprimono con parole tutt’altro che univoche. Dovremmo tacere? Se fosse tutto chiaro, perché parlare? Quante migliaia di parole Socrate ha dedicato alla giustizia, “cosa ben più preziosa dell’oro”? Eppure, perfino lui si diceva incapace di giungere ad afferrarla (Repubblica 336e).

Se parliamo della giustizia, e non possiamo non parlarne, è proprio perché, socraticamente, sappiamo di non sapere. Possiamo però girarle intorno con qualche domanda e circondarla di parole prudenti. Iniziamo così: può ammettersi che per uno sia giusto ciò che non lo è per un altro? Alla luce dell’esperienza: «sì, dobbiamo ammettere che ciò che è giusto per uno, può essere ingiusto per un altro».
La storia dell’umanità è una grande contesa tra diverse concezioni della giustizia. Se, invece, dicessimo: «no, ciò che è giusto per gli uni deve essere giusto anche per gli altri», dovremmo presupporre che esista la giustizia in senso assoluto e che noi si sia capaci di farla nostra. Prendiamo il più celebre tra i criteri di giustizia, “unicuique suum”: a ciascuno il suo. È facile essere d’accordo, perché ciascuno può riempire “il suo” del contenuto che vuole. Ricordate San Martino che, incontrando un ignudo, scende da cavallo e divide con lui il suo mantello. Ecco: a ciascuno il suo. Ma, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald, sapete che cosa c’era scritto? “A ciascuno il suo”. Come è possibile che questa formula della giustizia valga per San Martino e per gli aguzzini nazisti? Perché è di per sé vuota.
Lo stesso può dirsi per le altre formule generali come: a ciascuno secondo i suoi meriti o i suoi bisogni. Chi stabilisce che cosa sono i meriti e i bisogni? Si dice anche: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te o, in positivo, fai agli altri, ecc. Ma, chi sono “gli altri”? Sono “il prossimo tuo”. Ma, chi è il prossimo? Gesù di Nazareth ha risposto con la parabola del Samaritano. Ma, altri potrebbero dire: quelli che appartengono al mio clan, al mio popolo, alla mia stirpe; oppure, è tutta l’umanità.
Ma, ancora, siamo d’accordo sulla parola “umanità”? Quanto s’è faticato a superare l’idea che “i selvaggi” non vi rientrino, e così “le razze inferiori”, i delinquenti-nati, i malati mentali! L’etica cristiana supera queste difficoltà, non però con la giustizia, bensì con l’amore, che è altra cosa dalla giustizia. L’amore disincarnato, che tanto piaceva anche agli Illuministi del XVIII secolo, entra in crisi, si svuota e s’affloscia non appena entra in contatto con esseri in carne e ossa. Allora compaiono le ghigliottine preparate per i “nemici dell’umanità”, o i roghi delle Inquisizioni per i “nemici della fede”.

In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione.

Gli esseri umani, fortunatamente, non sono a una sola dimensione. Ricordo, per esempio, un libro di Martha Nussbaum ( L’intelligenza delle emozioni) in cui questo lato della coscienza è valorizzato, dicendo una cosa importante: le emozioni hanno capacità cognitive. Con le emozioni, talora, conosciamo più profondamente che non con i soli concetti. Ad esempio, quando i campi di sterminio nazisti furono liberati, gli Alleati obbligarono migliaia di tedeschi a un faccia- a-faccia con quegli orrori. Perché? Non era né crudeltà, né umiliazione del popolo tedesco, ma l’esigenza d’una reazione emozionale, fino ad allora assente, di fronte alle politiche razziste. Si trattava di educare provocando emozioni.

Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi.

I mostri non sono generati solo dal “sonno della ragione”: talora vengono dalle veglie della ragione. L’antidoto del razzismo è certo la dimostrazione scientifica dell’infondatezza delle sue basi storiche e biologiche; ma la confutazione definitiva sta nell’insostenibilità morale concreta, nella sfera delle emozioni, delle sue conseguenze viste e documentate.
Ma, c’è un’obiezione che viene da un grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen, che dice «come le idee di giustizia razionali sono tante, così anche le emozioni». Un latifondista e un bracciante reagiscono emotivamente in maniera diversa davanti a un provvedimento di esproprio. Il primo s’affligge, il secondo si rallegra. Al relativismo delle concezioni razionali corrisponde il relativismo delle emozioni.
Vero. Forse, però, riusciamo a individuare un terreno di comunanza tra tutti gli esseri umani se pensiamo non alla giustizia massima, ma all’ingiustizia massima. Di fronte all’ingiustizia massima forse tutti noi reagiamo nel medesimo modo. In I fratelli Karamazov c’è un dialogo sul tema dell’ingiustizia nel mondo. Ivan Karamazov, dice: «nel mondo regna l’ingiustizia, io lo rifiuto e il mio destino è il suicidio». Porta alcuni esempi di ingiustizia radicale, somma, da ogni punto di vista intollerabile. È il male inferto agli innocenti. Chi sono gli innocenti? Sono gli animali e i bimbi. Una cavallina tirava un pesante carretto per una salita, cascava e continuava a cascare e il padrone la frusta fino alla morte sugli occhi dolci che lo guardano. Un principe russo, preparandosi alla caccia, ordina ai servi di scatenare i cani per far sbranare, davanti alla madre serva della gleba, il bimbo che giocando con una pietra aveva azzoppato uno di quelli. Ditemi voi se, di fronte a ingiustizie di questo genere, non reagiremmo tutti nello stesso modo emozionalmente, al di sopra delle nostre divisioni razionali. Gli atti aberranti cui gli uomini sono spesso indotti presuppongono che si spenga il loro senso di umanità. Gli uomini dei Sonderkommando (squadre di ebrei che conducevano altri ebrei alla morte: averle concepite è stato il delitto più demoniaco del nazismo, ha scritto Primo Levi) erano privati della loro umanità da grandi distribuzioni di alcolici. Lo stesso, per i reparti militari incaricati delle esecuzioni di massa. Analogo effetto degli stupefacenti si otteneva con la propaganda martellante e i lavaggi del cervello. Ciò sta a dire che, senza l’avvelenamento della psiche, l’umanità si sarebbe ribellata.

Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica.

Succede in Cina, ma è uno specchio per guardare il consumismo occidentale.

La Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

In Cina la parola del 2015 è “troppo”. A votarla, i media di Stato: troppo smog, troppa corruzione, troppo divario tra ricchi e poveri, troppi tonfi in Borsa. Ad essere “troppo”, per la propaganda, è anche un fenomeno fino a ieri ignoto, specchio di tutti gli altri “troppi”: il Natale occidentale. I cinesi delle metropoli lo chiamano, onestamente, Festival del regalo. In dicembre lo celebrano come prologo consumista ai loro festeggiamenti intimi, quelli per il Festival di primavera, il capodanno lunare, tra fine gennaio e i primi di febbraio. È un affare miliardario, ma oggi, per la prima volta dopo trent’anni, c’è un problema: Pechino prende atto che l’Occidente, per il suo Natale, può spendere sempre meno. Non c’entrano gli attriti tra Mao e Santa Claus, la minaccia è una catastrofe economica.

Europa e Usa hanno delocalizzato in Cina l’intera coreografia natalizia: abeti in plastica e palle di vetro, luminarie e addobbi, giocattoli e gadget, perfino i presepi, amorevolmente impacchettati nella nazione che perseguita i cattolici fedeli al Vaticano. Tutto ciò che ha fatto del Natale il più importante evento commerciale globale, esce dalle fabbriche low cost seminate tra il Guangdong e lo Zhejiang. La diagnosi del premier Li Keqiang però è impietosa: iper-produzione. Traduzione: montagne di prodotti natalizi invenduti sommergono in questi giorni migliaia di aziende e magazzini cinesi, paralizzano la megalopoli-mercato di Yiwu, o giacciono nelle navi al largo di Guangzhou, in attesa di commesse last minute che non partono più. Dopo l’allarme, anche l’ordine è partito dall’alto: «Ex compagni, festeggiate».
L’invito del partito-Stato è una sorprendente tregua nella guerra contro «corruzione, vizi, eccessi ed eccentricità ». Se l’Occidente non compra più il suo Natale made in China, tocca ai cinesi riciclarlo in patria, smaltendo le scorte di renne elettroniche e cappucci rossi sintetici nel nome della crescita nazionale. Il cinese medio è sorpreso dall’improvviso via libera ideologico all’occidentalizzazione della vita collettiva: città e villaggi si trasformano in cloni dei mercatini dell’Avvento scandinavi. A Pechino e a Shanghai, nei quartieri diplomatici e nelle ex concessioni straniere, l’ultima moda è bere vin brulé e divorare salsicce nel gelo, tra le bancarelle inghiottite dalle polveri sottili che vendono cosette ben presentate al ritmo di Jingle Bells.
Nel fine settimana, nonostante l’emergenza smog, i negozi della capitale sono stati presi d’assalto da 11 milioni di neo-consumatori fedeli al partito, stimolati da 15 mila giganteschi abeti elettrici e 170 chilometri di luminarie, alimentate dalle centrali a carbone. I media del governo rivelano che in dicembre oltre 13 mila ristoranti cinesi serviranno pranzi natalizi e cenoni “Western Menu”, tra i 60 e i 900 dollari a testa: mega-tacchini Usa che cancellano le vecchie anatre cinesi. L’auto-smaltimento natalizio, secondo gli analisti finanziari, può valere «lo zero virgola che manca a centrare il 7% di crescita del Pil nazionale». Per le banche di Stato il fedele neo consumatore metropolitano, che in un mese spende poco meno del doppio del suo stipendio per le offerte natalizie, è il cliente che salva i bilanci. Le concessionarie d’auto cinesi devono a Babbo Natale due milioni di nuove vetture, il salvagente delle delocalizzate case germaniche e giapponesi.
Se il Natale è un prodotto invenduto che la Cina non riesce più a esportare, diventa automaticamente una merce locale «da assorbire all’interno» e 3 mila studentesse si presentano alla selezione per 40 “babbesse natalesse” al centro commerciale Shing Kong Place, per offrire ai clienti cubetti di ottimo, finto panettone cinese. Un abete infiocchettato e un pacco colorato in ogni casa della Cina: non è un miracolo, nessuno sa bene perché, ma quest’anno tocca al capitalismo riciclato del Natale occidentale salvare la stabilità del «socialismo con caratteristiche cinesi».

. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà». La Repubblica, 26 novembre 2015

“Il diritto della libertà” di Axel Honneth tratta un tema mai esaurito o esauribile una volta per tutte. La prospettiva è la libertà sociale, formula nella quale l’aggettivo esprime in sintesi l’idea capitale attorno alla quale ruotano le quasi seicento pagine che si offrono oggi al pubblico di lingua italiana. La materia — filosofica, giuridica, sociologica — trattata è grande ma la struttura della trattazione è assai semplice. La si può dividere in due parti: “l’io della libertà”, la prima; “il noi della libertà”, la seconda. L’“io” e il “noi” si comprendono in una concezione dell’io che nutre il noi e viceversa: la libertà singolare non può esistere se non entro la libertà plurale; all’individualizzazione non può non corrispondere la socializzazione della libertà. Nel titolo di un suo libro del 2010, Axel Honneth aveva usato, per esprimere in sintesi questo doppio lato della libertà, la formula Das Ich im Wir: un’espressione che già a prima vista si distingue dalle tante teorizzazioni del rapporto di riconoscimento dell’Io a fronte del Tu.

La formula, come vedremo, potrebbe essere rovesciata in Das Wir im Ich. Sciogliendo questi motti, si può dire così: l’asse portante è che la libertà singolare non può esistere se non in connessione con la libertà plurale e che, viceversa, la libertà plurale non può dividersi da quella singolare. Dire connessione, però, è dire troppo poco. Bisogna dire, piuttosto, intrinseco rapporto di mutua penetrazione e fecondazione, in un equilibrio difficile. La preponderanza dell’aspetto soggettivo condurrebbe, infatti, a una concezione individualistica della libertà, che Honneth respinge, così come la preponderanza dell’aspetto oggettivo, nei termini hegeliani dello “spirito oggettivo”, cioè della realtà sociale storicamente determinata, condurrebbe a una sorta di olismo, ch’egli ugualmente respinge, pur ponendosi dichiaratamente, sia pure criticamente, entro un’interpretazione della Filosofia del diritto di Hegel.

Tra la prima e la seconda parte del libro — dedicate, rispettivamente, alla trattazione di concetti e alla loro verifica storico- empirica — sono collocate — sotto il titolo La possibilità della libertà — due sezioni che costituiscono, per così dire, un “a parte” e potrebbero stare in piedi anche autonomamente. Sono dedicate al Daseingrund (termine qui tradotto con “ragion d’essere”, dove l’essere è piuttosto un “esserci”, cioè non un’astrazione ma una collocazione storico- concreta) della libertà giuridica e della libertà morale. Si tratta, per così dire, di due moniti contro l’estremizzazione: il giuridicismo e il moralismo, due fonti di pericolo per la convivenza sociale.

Questi due capitoli rappresentano la cerniera tra la prima parte, d’impostazione filosofica, e la seconda parte d’impostazione sociologica. In queste due parti si traduce la doppia faccia di un libro che, partendo dalle definizioni, giunge all’immersione nelle condizioni delle società in cui viviamo e nelle contraddizioni da cui sono segnate, rispetto alla libertà. La parte filosofica contiene principi normativi: dai concetti, si traggono inclusioni ed esclusioni prescrittive teoriche; la parte pratica contiene verifiche circa le potenzialità e le difficoltà d’inveramento della libertà nelle strutture sociali del nostro tempo. Non, però, come separazione e contrapposizione astratte tra dover essere ed essere, ma come ricerca delle condizioni pratiche di vita di società libere: una ricerca dalle conclusioni piuttosto sconfortanti.

La libertà non è districabile dalla giustizia. Giustizia, nel nostro tempo (la “modernità”), equivale a garanzia di autodeterminazione. Nel nostro tempo: date le premesse assunte, che l’Autore definisce non-kantiane, la giustizia non appartiene al puro ideale, alle formule evanescenti come quella che la identifica con la generalizzabilità delle “massime” delle proprie azioni, ma è un dato storico-sociale. La giustizia come autodeterminazione è lontanissima da quella che tale si considerava nell’antichità, obbiettiva, organica, sovra-individuale, obbligante. La giustizia, per noi, al contrario è “liberatrice”, ma con un vincolo: la “riproducibilità sociale”. Questo concetto, che rappresenta il cavallo di battaglia della sociologia, è assunto qui come qualcosa di simile a un imperativo categorico.

L’autonomia che la compromette non è giustizia, ma corruzione della giustizia.(...) Il primo stadio della libertà è quello negativo, l’assenza di costrizioni esterne. La più semplice, elementare e intuitiva definizione è l’assenza di impedimenti. È la definizione di Thomas Hobbes, risalente al tempo della guerra civile di religione: «Libero è colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio ingegno, non è impedito di fare ciò che ha volontà di fare». (...) Non ci si può fermare qui. Essere liberi nel corpo e nelle azioni, ma schiavi delle proprie passioni irrazionali e dei propri errori, è ancora libertà? Questa è la domanda di Rousseau, che pone la libertà nell’obbedienza alla legge che ogni singolo dà davvero a se stesso, cioè nell’autonomia.

Questo principio sta alla base tanto della libertà del singolo quanto della libertà della società tutta intera. Come la libertà negativa implica la ripulsa delle costrizioni fisiche, così la libertà come autodeterminazione — che l’autore del libro chiama «riflessiva » — esige la purificazione dalle costrizioni morali che inquinano la retta (cioè non perturbata da vizi, passioni, errori) formazione della coscienza. Si tratta, dunque, della sovranità morale rispetto alle pressioni dell’“ambiente” che, con i suoi pregiudizi, le sue lusinghe, le sue seduzioni, i suoi inganni altera la percezione del sé e, alla fine, svuota la libertà del suo contenuto d’autonomia e lo riempie di forze psichiche eteronome. (...) La libertà «sociale» di cui Honneth tratta non è un’alternativa rispetto alle altre due concezioni della libertà. È piuttosto il prolungamento, o l’implicazione necessaria, della libertà riflessiva, così come quest’ultima è lo sviluppo della libertà negativa.

A essere prese in considerazione sono le condizioni istituzionali della libertà, intese non come aggiunte esteriori, ma come necessità intrinseche al suo concetto. Su questo punto si insiste particolarmente, allo scopo — anche — di prendere le distanze, differenziandosene, dalle concezioni della democrazia discorsive nelle quali l’aspetto istituzionale, secondo l’Autore, è concepito come condizione esteriore della libertà. È l’occasione, per Honneth, per prendere qualche distanza da Habermas, il suo predecessore alla direzione dell’Institut francofortese per la ricerca sociale. La teoria del discorso di Habermas, in quanto teoria, rimarrebbe, secondo Honneth, in una sfera di astrattezza; l’intersoggettività, che ne è il nucleo essenziale, resterebbe confinato in un a priori incapace di tradursi in idea politico- sociale concreta, alias “istituzionale”, di libertà.

In altri termini, le istituzioni sarebbero il governo esteriore arbitrale del gioco degli intenti in campo, e l’obiettivo di formulare un’idea di libertà tale da incorporare la dimensione relazionale, intersoggettiva e quindi sociale, sarebbe mancato. (...) Non c’è bisogno di richiamare la letteratura sociologica e psicologica che mette in luce il lato repressivo delle istituzioni e di ogni “istituzionalizzazione” dei comportamenti individuali e collettivi. La libertà consisterebbe, secondo questo punto di vista, nella de-istituzionalizzazione o, comunque, nell’assenza di predeterminazioni istituzionalizzate. Il contrario della visione di Honneth, il quale pone precisamente nell’istituzione la possibilità di libertà. Le istituzioni non sono sorte, necessariamente, per reprimere, ma anche per promuovere la libertà: la libertà concreta, realistica, non velleitaria o puramente agitatoria.

L’esercizio della libertà che non riesce a farsi istituzione”, secondo questa visione sociale della libertà, è sterile. (...) Nelle prime pagine di questo libro si spiega come la libertà sia il tratto caratteristico della modernità, lo shibolet per poter prendere parte al discorso politico moderno. Ma proprio questo libro rafforza la comune consapevolezza della plurivocità della parola, dell’esistenza di numerose concezioni del concetto; il lettore è come condotto per mano, sempre in nome della libertà, anzi della libertà al suo più alto grado, a salire fino a un colmo che sta sul crinale dell’ambiguità: l’ambiguità che connota il concetto di istituzione e, così, anche la immedesimazione istituzionalizzata della libertà degli uni nella libertà di tutti: l’eterno problema dell’equilibrio tra gli uni e i tutti.

«San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito». Intervista di Simonetta Fiori a Stefano Rodotà. La Repubblica, 19 novembre 2015

Nelcodice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, diuna incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflittopermanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, ungiurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l'irregolarità el'imprevedibilità della vita e l'astrazione formale della regola giuridica (Dirittod'amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluoanticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e isentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo ledonne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimentovolubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla diregolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi sientra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamentea disagio»

Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell'organizzazionesociale. E dunque il diritto s'è proposto come strumento di disciplinamentodelle relazioni sentimentali che non lascia spazio all'amore. Bastaripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto perun lungo periodo ha sancito l'irrilevanza dell'amore. E di fatto ha sacrificatole donne, codificando una diseguaglianza»

In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non hanulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, laprosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quellepatrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava ilpossesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato ilmodello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà delmarito»

Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anniSettanta del Novecento. Un'anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernitàoccidentale - dalla fine del Settecento in avanti - èstato terribilmente gerarchico. Dopo l'unificazione noi assorbimmo il codicefrancese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglieal marito. Pare che Napoleone durante la campagna d'Egitto fosse rimastocolpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra mogliee marito»

Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Maanche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazieall'influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve dellastoria, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell'incontrotra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»

Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei,Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell'eguaglianza tramarito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regolegiuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto chestavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stavasopra il codice civile»

Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Cortecostituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uominie donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizioneultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale nonsoggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di unacostruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l'Italia èl'unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto lacarta dei diritti dell'Unione europea»

Una carta che nell'accesso al matrimonio cancella il riferimento alladiversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell'articolo, l'articolo nove, bersaglio di unaforte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, cheperò io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo dellaconvenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria dellafamiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare innessun'altra giurisprudenza»

Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciaguratoradicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamentesensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatorenon se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il datonaturalistico e immodificabile»

Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio esull'aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell'ostinata contrarietà, laDc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»

Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l'amore cessò diessere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato diadulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, chemette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche inquella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parolaamore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d'amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?

«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglioè. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l'amore perché lo rispettafino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilitàsociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»

C'è il diritto d'amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedereal matrimonio. Ma c'è anche il diritto d'amore dei figli, che devono poteressere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c'è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessualimostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell'affettività. Eallora, domando, i figli dei genitori single?»

I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figuramaschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulleadozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l'uso autoritario deldiritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e primasaremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuovasituazione. Finché manteniamo il conflitto e l'esclusione, tutto questo diventapiù difficile»

Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delleadozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potràfarlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finiscemai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull'amore»
«Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», non è solo questione di umanità, è anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra».

Il manifesto, 18 novembre 2015 (m.p.r.)

La guerra non è fatta solo di armi, eserciti, fronti, distruzione e morte. Comporta anche militarizzazione della società, sospensione dello stato di diritto, cambio radicale di abitudini, milioni di profughi, comparsa di «quinte colonne» e, viva iddio, migliaia di disertori e disfattisti, amici della pace. Quanto basta per capire che siamo già in mezzo a una guerra mondiale, anche se, come dice il papa, «a pezzi».

Questa guerra, o quel suo «pezzo» che si svolge intorno al Mediterraneo, è difficile da riconoscere per l’indeterminatezza dei fronti, in continuo movimento, ma soprattutto degli schieramenti.

Se il nemico è il terrorismo islamista e soprattutto l’Isis, che ne è il coagulo, chi combatte l’Isis e chi lo sostiene? A combatterlo sono Iran, Russia e Assad, tutti ancora sotto sanzione o embargo da parte di Usa e Ue; poi i peshmerga curdi, che sono truppe irregolari, ma soprattutto le milizie del Rojava e il Pkk, che la Turchia di Erdogan vuole distruggere, e Hezbollah, messa al bando da Usa e Ue, insieme al Pkk, come organizzazioni terroristiche.

A sostenere e armare l’Isis, anche ora che fingono di combatterlo (ma non lo fanno), ci sono Arabia Saudita, il maggiore alleato degli Usa in Medioriente, e Turchia, membro strategico della Nato. D’altronde, ad armare l’Isis al suo esordio sono stati proprio gli Stati uniti, come avevano fatto con i talebani in Afghanistan. E se la Libia sta per diventare una propaggine dello stato islamico, lo dobbiamo a Usa, Francia, Italia e altri, che l’hanno fatta a pezzi senza pensare al dopo. Così l’Europa si ritrova in mezzo a una guerra senza fronti definiti e comincia a pagarne conseguenze mai messe in conto. La posta maggiore di questa guerra sono i profughi: quelli che hanno varcato i confini dell’Unione europea, ma soprattutto i dieci milioni che stazionano ai suoi bordi: in Turchia, Siria, Iran, Libano, Egitto, Libia e Tunisia; in parte in fuga dalla guerra in Siria, in parte cacciati dalle dittature e dal degrado ambientale che l’Occidente sta imponendo nei loro paesi di origine. Respingerli significa restituirli a coloro che li hanno fatti fuggire, rimetterli in loro balìa; costringerli ad accettare il fatto che non hanno altro posto al mondo in cui stare; usare i naufragi come mezzi di dissuasione.

Oppure, come si è cercato di fare al vertice euro-africano di Malta, allestire e finanziare campi di detenzione nei paesi di transito, in quel deserto senza legge che ne ha già inghiottiti più del Mediterraneo; insomma dimostrare che l’Europa è peggio di loro. Ma respingerli vuol dire soprattutto farne il principale punto di forza di un fronte che non comprende solo l’Isis, le sue «province» vassalle ormai presenti in larga parte dell’Africa e i suoi sostenitori più o meno occulti; include anche una moltitudine di cittadini europei o di migranti già residenti in Europa che condividono con quei profughi cultura, nazione, comunità e spesso lingua, tribù e famiglia di origine; e che di fronte al cinismo e alla ferocia dei governi europei vengono sospinti verso una radicalizzazione che, in mancanza di prospettive politiche, si manifesta in una «islamizzazione» feroce e fasulla.

Un processo che non si arresta certo respingendo alle frontiere i profughi, che per le vicende che li hanno segnati sono per forza di cose messaggeri di pace. Troppa poca attenzione è stata dedicata invece alle tante stragi, spesso altrettanto gravi di quella di Parigi, che costellano quasi ogni giorno i teatri di guerra di Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Nigeria, Yemen, ma anche Libano o Turchia. Non solo a quelle causate da bombardamenti scellerati delle potenze occidentali, ma anche quelle perpetrate dall’Isis e dai suoi sostenitori, di Stato e non, le cui vittime non sono solo yazidi e cristiani, ma soprattutto musulmani. «Si ammazzano tra di loro» viene da pensare a molti, come spesso si fa anche con i delitti di mafia. Ma questo pensiero, come quella disattenzione, sono segni inequivocabili del disprezzo in cui, senza neanche accorgercene, teniamo un’intera componente dell’umanità.

È di fronte a quel disprezzo che si formano le «quinte colonne» di giovani, in gran parte nati, cresciuti e «convertiti» in Europa, che poi seminano il terrore nella metropoli a costo e in sprezzo delle proprie come delle altrui vite; e che lo faranno in futuro sempre di più, perché i flussi di profughi e le cause che li determinano (guerre, dittature, miseria e degrado ambientale) non sono destinati a fermarsi, quali che siano le misure adottate per trasformare l’Europa in una fortezza (e quelle adottate o prospettate sono grottesche, se non fossero soprattutto tragiche e criminali).

Coloro che invocano un’altra guerra dell’Europa in Siria, in Libia, e fin nel profondo dell’Africa, resuscitando le invettive di Oriana Fallaci, che speravamo sepolte, contro l’ignavia europea, non si rendono conto dei danni inflitti a quei paesi e a quelle moltitudini costrette a cercare una via di scampo tra noi; né dell’effetto moltiplicatore di una nuova guerra. Ma in realtà vogliono che a quella ferocia verso l’esterno ne corrisponda un’altra, di genere solo per ora differente, verso l’interno: militarizzazione e disciplinamento della vita quotidiana, legittimazione e istituzionalizzazione del razzismo, della discriminazione e dell’arbitrio, rafforzamento delle gerarchie sociali, dissoluzione di ogni forma di solidarietà tra gli oppressi. Non hanno imparato nulla da ciò che la storia tragica dell’Europa avrebbe dovuto insegnarci.

Una politica di accoglienza e di inclusione dei milioni di profughi diretti verso la «fortezza Europa», dunque, non è solo questione di umanità, condizione comunque irrinunciabile per la comune sopravvivenza. È anche la via per ricostruire una vera cultura di pace, oggi resa minoritaria dal frastuono delle incitazioni alla guerra. Perché solo così si può promuovere diserzione e ripensamento anche tra le truppe di coloro che attentano alle nostre vite; e soprattutto ribellione tra la componente femminile delle loro compagini, che è la vera posta in gioco della loro guerra.

Nei prossimi decenni i profughi saranno al centro sia del conflitto sociale e politico all’interno degli Stati membri dell’Ue, sia del destino stesso dell’Unione, oggi divisa, come mai in passato, dato che ogni governo cerca di scaricare sugli altri il “peso” dell’accoglienza.

Eppure, fino alla crisi del 2008 l’Ue assorbiva circa un milione di migranti ogni anno (e ne occorrerebbero ben 3 milioni all’anno per compensare il calo demografico). Ma perché, allora, l’arrivo di un milione di profughi è diventato improvvisamente una sciagura insostenibile?

Perché da allora l’Europa ha messo in atto una politica di austerity, a lungo covata negli anni precedenti, finalizzata a smantellare tutti i presidi del lavoro e del sostegno sociale e a privatizzare a man bassa tutti i beni comuni e i servizi pubblici da cui il capitale si ripromette quei profitti che non riesce più a ricavare dalla produzione industriale.

Ma quelle politiche, che non danno più né lavoro né redditi decenti a molti, né futuro a milioni di giovani, non possono certo concedere quelle stesse cose a profughi e migranti. Devono solo costringerli alla clandestinità, per pagarli pochissimo, ridurli in condizione servile, usarli come arma di ricatto verso i lavoratori europei per eroderne le conquiste.

Per combattere questa deriva occorrono non solo misure di accoglienza (canali umanitari per sottrarre i profughi ai rischi e allo sfruttamento degli «scafisti» di terra e di mare, e permessi di soggiorno incondizionati, che permettano di muoversi e lavorare in tutti i paesi dell’Unione); ma anche politiche di inclusione: insediamenti distribuiti per facilitare il contatto con le comunità locali, reti sociali di inserimento, accesso all’istruzione e ai servizi, possibilità di organizzarsi per avere voce quando si decide il futuro dei loro paesi di origine.

Ma soprattutto, lavoro: una cosa che un grande piano europeo di conversione ecologica diffusa, indispensabile per fare fronte ai cambiamenti climatici in corso e alternativo alle politiche di austerity, renderebbe comunque necessaria.

Ma per parlare di pace occorre che venga bloccata la vendita di armi di ogni tipo agli Stati da cui si riforniscono l’Isis e i suoi vassalli, che non le producono certo in proprio.

«Lo scrittore racconta la reazione del suo paese alle immagini dei profughi in fuga. Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici».

La Repubblica, 13 novembre 2015 (m.p.r.)

Questa settimana, in un caffè di Gerusalemme, con l’audio del televisore appeso al muro silenziato, ho sentito una donna alle mie spalle dire a un’amica: «Questa ondata di profughi siriani, non so...».
«Che cosa non sai? Ha chiesto l’amica ». «Da quando li fanno vedere in televisione con le mogli, i figli... non so, non sembrano nemmeno siriani». «E cosa sembrano?». «Non so... sembrano… le loro facce, il loro modo di parlare… Lo vedi che hanno paura, e si portano in spalla i bambini…» L’amica ha replicato: «Quelli, anche nella situazione in cui si trovano, ci scannerebbero tutti subito. Guarda cosa fanno tra di loro in Siria, tra fratelli, pensa cosa farebbero a noi se potessero». «Hai ragione», ha commentato sconsolata la prima, «comunque mi dispiace per i bambini». E l’amica ha ribattuto: «Certo, avrebbero dovuto pensarci prima di iniziare con tutto questo casino».

Io le ascoltavo entrambe e ho pensato che i siriani, per decenni, sono stati per noi, in Israele, l’incarnazione di Satana: donne dei corpi speciali che addentavano serpenti vivi, l’impiccagione di Eli Cohen, i prigionieri israeliani torturati in Siria, i bombardamenti dei centri abitati della Galilea, e, naturalmente, la brutale guerra civile. E ho pensato che ora, dopo la distruzione della Siria e le ondate di emigrazione, improvvisamente possiamo vederli in un altro contesto: uomini, donne, ragazzi e bambini che un destino crudele ha strappato da tutto ciò che conoscevano e al quale erano abituati. Il nostro sguardo li vede in una prospettiva diversa, scorgiamo in loro tratti nuovi, espressioni del viso e movimenti del corpo che non avevamo registrato nella “banca immagini” della nostra mente quando parlavamo della Siria. Una banca che includeva raffigurazioni quasi esclusivamente di guerra: manovre, parate, saluti militari e grida di odio per Israele.
Improvvisamente li vediamo muoversi come persone: genitori e figli, ragazze in jeans, ragazzi con lettori di musica e auricolari. Occhi addolorati, disperati, pieni di speranza. Gesti intimi di una coppia. E forse anche a loro, ai profughi siriani, il dramma che stanno vivendo permetterà di guardare diversamente la vita. Ci sarà qualcuno felice di sfuggire alla morsa della gogna in cui era intrappolato quando pensava a Israele? La gogna della demonizzazione e dell’odio? Una gogna in cui sono nati, per così dire, e che probabilmente consideravano una buona scelta di vita. L’unica possibile per loro. Una gogna in cui erano imprigionati dalle circostanze, ovvero dalla politica e dalla retorica dei loro governanti dispotici, dal prolungato stato di guerra tra Israele e la Siria, dal lavaggio del cervello subito, fin da piccolissimi, per forgiare il loro atteggiamento nei confronti di Israele.
E c’era, naturalmente, anche la gogna in cui li aveva imprigionati Israele: la minaccia che lo Stato ebraico rappresentava per loro con la sua potenza militare e le ripetute sconfitte inflitte al loro Paese. Forse per questo il popolo siriano ha assunto quel piglio bellicoso nei nostri confronti al quale ci ha abituato. Sempre e solo un piglio bellicoso che noi abbiamo assunto di riflesso, come in uno specchio.
Oppure eravamo noi ad assumere quel piglio e loro a rifletterlo?
Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici. Persone ermetiche.
Ma dateci condizioni di vita favorevoli, sicure, rispettabili, oppure limitatevi a osservarci, a guardarci, ostinandovi a estrapolare il nostro volto umano dal livellamento che tocca chiunque venga trascinato, involontariamente, in un grande movimento che lo sradica dal proprio luogo. Allora avrete la possibilità di trovare in noi un partner.
E ancora una volta affiorano i pensieri sulla distorsione che la profonda ostilità nella quale viviamo - non solo nei confronti della Siria – provoca in noi da varie generazioni. E sul prezzo che paghiamo per questa distorsione: quello di rimpicciolire e di appiattire chi ci sta davanti e che viene etichettato come nemico anche interno, di destra o di sinistra - e una volta definito tale perde la sua complessità, la pienezza della sua esistenza.
E affiora la sensazione che i ferrei meccanismi della gogna – la gogna della guerra, dell’odio - ci siano penetrati nella carne al punto da credere che siano ossa e muscoli del nostro corpo. Che siano la nostra natura e quella del mondo intero, sempre, per l’eternità.
E affiora ciò che ci rode dentro, al di sotto della realtà visibile: l’offesa di esistere in uno stato di guerra costante alla quale nessuno più cerca di porre fine. L’offesa di esserci abituati, in maniera obbediente, ai movimenti coreografici della guerra. L’offesa di essere diventati marionette nelle mani di coloro per i quali la guerra è una seconda natura, o forse, di fatto, una prima. E così eccelliamo nell’inventare nuove ideologie mirate a razionalizzare e a giustificare la situazione di evidente distorsione in cui viviamo.
Un popolo che vive in uno stato di guerra sceglie come leader dei combattenti. In questa scelta c’è una logica che dovrebbe aiutarci a sopravvivere. Ma forse è vero il contrario. Forse sono i leader combattenti, militanti, con la coscienza intrisa di sospetti e di timori, a condannare il loro popolo a una guerra perpetua.
Faremmo bene a guardare i volti degli uomini e delle donne siriani in fuga dall’inferno del loro Paese. Senza dimenticare gli anni di guerra e di odio fra noi dovremmo guardarli bene perché a un tratto, come ha notato la donna nel caffè, in quei volti balena qualcosa di familiare. Magari è il nostro ricordo di profughi, insito in noi, o di una vulnerabilità umana che conosciamo bene, legata alla consapevolezza della fragilità dell’esistenza e all’orrore di chi si sente mancare la terra sotto i piedi. Per un istante rimaniamo stupiti di aver combattuto per decenni contro queste persone.
E poi arriva la domanda più importante: cos’altro stiamo perdendo e cos’altro non vediamo con la testa bloccata in profondità nella gogna?
Le tre risposte alla hegeliana "morte di Dio", e la «quarte risposta, minoritaria ma forse più promettente»: quella su cui lavora Vito Mancuso, sulla via aperta da Teilhard de Chardin.

La Repubblica, 13 novembre 2015

Vito Mancuso, Dio e il suo destino, (Garzanti pagg. 464, euro 20)

Hegel ha scritto che il sentimento fondamentale dei tempi moderni è la morte di Dio. A questa diagnosi, ripetuta qualche decennio dopo da Nietzsche, filosofi e teologi hanno dato tre risposte principali. La prima è quella che chiamerei “ermeneutica”: Dio non è morto, ma semplicemente non è stato ancora interpretato per quello che è. La rivelazione è un processo che ha luogo nella storia e che chiede l’intervento attivo dell’uomo, in un processo di miglioramento storico.

La seconda è quella eroica: Dio è morto, dobbiamo attendere un oltreuomo che possa essere un nuovo dio. Purtroppo, se sul conto del vecchio Dio si possono mettere azioni discutibili, il nuovo Dio, come insegna la storia degli ultimi due secoli, non è piazzato meglio. La terza, meno sbandierata ma ben più praticata, è quella che direi “secolaristica”, e che è stata enunciata da Joseph de Maistre: la morte di Dio, quando pure avesse avuto luogo non comporterebbe nessuna conseguenza sul piano della fede e della religione, dal momento che Dio ha lasciato in eredità il proprio potere al Papa, che a questo punto è autorizzato a governare la chiesa in piena autonomia.

Resta una quarta risposta, minoritaria ma a mio avviso più promettente, seguita nella modernità da Schelling e in genere a tutti i filosofi che si sono accostati alla teologia con un atteggiamento naturalistico (ad esempio, Emerson) a cui si ricollega in maniera seria, profonda e autonoma Vito Mancuso in Dio e il suo destino, appena uscito da Garzanti (pagg. 464, euro 20). L’idea di fondo è che la rivelazione non ha avuto luogo un giorno, nella storia, ma è un processo continuo e non concluso. L’evoluzione ha dato vita a un mondo materiale che è insieme un mondo spirituale in cui ha luogo la manifestazione è l’azione di Dio, sicché tra evoluzione e rivelazione non c’è contrasto ma complementarità.

Il vecchio Dio (che Mancuso chiama “Deus”), il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ma in buona parte anche di Cristo, non ha mantenuto le sue promesse, e si è presentato anzitutto come un Dio geloso, autoritario e vendicativo. Ha incarnato anzitutto il potere, e non ne sentiremo la nostalgia. E Dio, l’alternativa e il successore di Deus, com’è? Uno degli autori più presenti in Mancuso è Spinoza, e in effetti si sarebbe portati a pensare a una prospettiva panteistica, non troppo diversa, d’altra parte, da quella che Mancuso aveva proposto nel suo fortunatissimo L’anima e il suo destino (Raffaello Cortina 2007). Tuttavia, Mancuso caratterizza la propria posizione come “panenteismo”, che non è un refuso per “panteismo” ma piuttosto il modo in cui molti filosofi hanno evitato l’accusa di spinozismo, che ancora due secoli fa poteva procurare seri guai. Mentre il panteista identifica Dio e il mondo, il panenteista ritiene che il mondo sia incluso in Dio, che ne sia la forza animatrice.

Se il panteismo ha un modello meccanicistico, il panenteismo ha un modello biologistico, è, per così dire, una bioteologia, per la quale Dio è lo slancio vitale che pervade la natura. Il panenteismo di Mancuso deve molto all’evoluzionismo di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), il gesuita, filosofo e scienziato francese già molto presente nella sua riflessione sul destino post mortem dell’anima. L’evoluzione non vale solo per la vita, vale per il cosmo intero considerato come un grande animale vivente (secondo l’intuizione di Platone), che si sviluppa a partire da un ricettacolo, la chora, lo spazio neutro da cui hanno origine tutte le cose, e che si presta facilmente a venire riletto in termini biologistici, giacché lo stesso Platone la definisce come “matrice”.

Il discorso fila. Richiamarsi a Dio, anzi, a Deus, non è far ricorso a un vecchio nome di cui si può fare a meno senza per questo escludere il divino? Persone che credevano che il mondo fosse non più vecchio di 6000 anni (era l’idea dominante ancora nell’Ottocento) e che non potessero nascere nuove specie (in gioco era la perfezione del piano divino), non potevano piegare l’esistenza di strutture complesse — fossero il mondo, la mente o il linguaggio — se non ricorrendo all’ipotesi di una creazione divina o di una costruzione concettuale, ossia, per parlare come de Maistre, di una “azione temporale della provvidenza”. È da questa penuria di tempo che deriva la concezione del sommo artigiano, del disegno intelligente. Ma se contiamo su un tempo infinitamente più lungo, sprofondato in quelle che Vico definiva “sterminate antichità”, tutto cambia. Perciò 13,7 miliardi di anni, il tempo che ci separa dalla nascita del tempo, sono più che sufficienti per rendere conto di tutto quello che è accaduto senza l’aiuto di Dio, né come inizio né come termine del processo evolutivo.

Se le cose stanno così, però, sorge un interrogativo molto semplice. C’è ancora bisogno di postulare l’intervento di un logos (o più modestamente di un senso qualsiasi) per rendere conto di un mondo che deve la sua emergenza — tra errori, incoerenze e mostruosità di ogni sorta — solo a una immane disponibilità di tempo, materia ed energia? È, ad esempio, l’idea del filosofo australiano Samuel Alexander (1859-1938) in un libro ai suoi tempi abbastanza famoso: Spazio, tempo e deità (1920). Alexander è considerato il padre dell’emergentismo, cioè di una concezione che Mancuso (a pag. 389) considera coerente con il suo panenteismo, e propone una potente visione cosmogonica, descrivendo uno sviluppo ascendente di livelli dell’essere che prende l’avvio dallo spaziotempo e ascende alla materia, all’organismo, all’uomo e a Dio, concepito come la totalità emergente del mondo.

La differenza tra una prospettiva emergentista radicale e il panenteismo di Mancuso è tutta qui. Per Mancuso tutto è in Dio, compresa l’emergenza del mondo (e, nel mondo, delle svariate idee che sono state formulate su Deus), ma allora abbiamo a che fare o con una riproposizione del Dio creatore, o con un Dio fannullone alla Wittgenstein, con un senso del mondo che è fuori del mondo e che dunque, propriamente, non esiste. Per l’emergentismo radicale, invece, Dio non è ancora, ma non è escluso che, come sono sorte le amebe, il calcolo differenziale e i quartetti di Beethoven venga un giorno in cui, magari tra milioni di anni, a esseri presumibilmente diversissimi da noi si presenti un Dio, «come se un Tu (scriveva Vittorio Sereni) dovesse veramente / ritornare / a liberare i vivi e i morti./ E quante lagrime e seme vanamente sparso».

«Lavoro forzato, prostituzione, matrimoni precoci, ragazzini soldato: 21 milioni di persone nel mondo sono prive di libertà». E il ruolo dei consumatori in questo grande mercato.

La Repubblica, 8 novembre 2015 (m.p.r.)

Prede facili e deboli, corpi che diventano oggetti da sfruttare: nel sesso, nel lavoro, in guerra, in qualche altro interesse privato. Nelle pagine dei dizionari si legge che “la schiavitù è la condizione dell’individuo considerato giuridicamente proprietà di un altro individuo e quindi privo di ogni umano diritto”. Ma la gabbia di questa definizione non aiuta a comprendere i confini estesi che il fenomeno ha assunto nel mondo contemporaneo. «Siamo partiti dalle parole del Papa, è stato proprio Bergoglio a suggerire questo tema a monsignor Marcelo Sanchez Sorondo che è argentino e membro del Comitato Etico della Fondazione Veronesi». Il professor Umberto Veronesi, uno dei più celebri nomi della scienza italiana, racconta il retroscena che ha condotto la Fondazione che porta il suo nome a organizzare la settima conferenza internazionale di Science for Peace con il titolo: “Traffico di essere umani e schiavitù moderne”.

Science for Peace è il progetto nato nel 2009 con due obiettivi: diffondere una cultura di non violenza e ridurre le spese di ordigni nucleari e armamenti a favore di maggiori investimenti nella ricerca. «Sorondo ha spiegato a Papa Francesco - si conoscono da tempo e sono amici - che ogni anno organizziamo una conferenza per la pace», riprende Veronesi, «e allora lui ha detto che l’argomento più urgente oggi è la schiavitù moderna».
Una schiavitù senza una geografia precisa perché si insinua ovunque vi siano disuguaglianze: la materia prima che la alimenta è la povertà, economica, psicologica o culturale. L’International Labour Organization calcola che vi siano nel mondo circa 21 milioni di persone private della libertà, dei diritti e della dignità, fra loro 5 milioni sono bambini, il giro d’affari è stimato sui 150 miliardi di dollari. «Temo che i numeri possano essere più elevati, in ogni caso è un fenomeno che ci offende come esseri umani. Abbiamo il dovere ogni volta di indignarci, ma anche di muoverci verso soluzioni concrete e la scienza offre gli strumenti e i linguaggi giusti».
Nell’aula magna della Bocconi di Milano la Fondazione ha chiamato il 13 novembre esperti di politica estera, di cooperazione, responsabili Unesco per l’uguaglianza di genere, esponenti di associazioni impegnate per i diritti umani e due Nobel: l’iraniana Shirin Ebadi e la yemenita Tawakkul Karman.
Avete invitato l’ex ministro Emma Bonino e due donne Nobel per la Pace. La questione femminile è centrale?
«Parleremo molto di donne e di spose bambine, delle famiglie che le vendono per denaro, e anche delle ragazzine appena più grandi destinate alla prostituzione coatta, un’altra forma di schiavitù orrenda. Ma allargheremo il discorso ad altre forme di sfruttamento, dai bambini soldato alle violenze dentro casa».
La schiavitù è illegale eppure prolifera. Come combatterla?
«Con la solidarietà fra le persone e con l’istruzione. La pace è il valore universale più importante che abbiamo, senza pace anche tutti gli altri valori si disperdono».
In Europa stanno arrivando decine di migliaia di profughi...
«Sono persone in fuga dalle guerre e dalle povertà. È successo altre volte nella storia, basta pensare al passato, a Gengis Khan, tanto per fare un esempio: quando un esercito arriva in un Paese, la gente cerca salvezza scappando».
Anche contro i migranti ci sono forme di schiavismo.
«Sì, appena sbarcati in Europa c’è chi li sfrutta magari per lavorare in nero nei campi a raccogliere i pomodori».
Abbiamo letto di inchieste e processi su forme di sfruttamento nelle fabbriche in diverse parti del mondo e anche nelle chinatown d’Italia. Come possiamo intervenire?
«Come consumatori, facendo attenzione quando acquistiamo le cose, compresi i vestiti. Lo sfruttamento nelle fabbriche è antico, ne parlava già Marx. Poi c’è stato un attenuarsi del fenomeno, che invece la globalizzazione ha riportato in primo piano. Abbiamo scoperto che certi prodotti finiti sui nostri mercati venivano fatti da bambini di 8 o 9 anni in zone desolate del mondo, magari pagati mezzo dollaro al giorno».
Lei ha detto che l’istruzione è un’arma per combattere le schiavitù moderne: che cosa state facendo in concreto?
«Operiamo per diffondere la conoscenza, abbiamo un centro di prevenzione contro il tumore al seno in Afghanistan, abbiamo operato nella Repubblica del Congo per avviare un programma di screening per il tumore all’utero, e in Madagascar. Se tutti i Paesi si impegnassero su questa strada sarebbe facile fare dei passi avanti. Vogliamo aumentare l’esercito dei pacifisti e portare una maggiore diffusione della scienza perché siamo consapevoli che il sapere è la strada per far progredire il pianeta».

«Da sette anni le organizzazioni con la missione di aiutare gli altri non crescono. Ma il saldo non è negativo: aumentano coloro che agiscono senza iscriversi a nessuna associazione. E i gruppi che resistono sono sempre più simili a piccole imprese. A mancare è il ricambio generazionale e lo sviluppo nel Sud».

La Repubblica, 22 ottobre 2015

Roma. Da sette anni il volontariato italiano non cresce. Lo dice il primo selfie che le Organizzazioni della società civile (secondo la definizione di Dublino 2005) si sono scattate a fine 2014, allargandolo poi nelle 70 pagine del Report nazionale sulle organizzazioni di volontariato disponibile in questi giorni. È il primo autocensimento su questo vasto mondo e l’ha realizzato il Coordinamento dei centri di servizio, istituiti con legge nel 1991 e oggi arrivati a 74 nel paese.

Il lavoro innanzitutto ci dice che le organizzazioni di volontariato registrate nelle venti regioni sono 44.182. Tante? Poche? Il censimento non dà punti di riferimento a ritroso, ma subito dopo il dato assoluto offre un’informazione inedita che conferma quello che ai convegni si dice da tempo: il volontariato italiano, fortemente cattolico e di sinistra, è in crisi, fatica a espandersi, non trova una dimensione contemporanea.
Già, tra il 2007 e il 2014, che è esattamente l’ampio spettro temporale della crisi economica mondiale e soprattutto italiana, le nuove organizzazioni di volontariato hanno rallentato la loro crescita, che durava dal 1942 e negli Anni Ottanta e Novanta era diventata tumultuosa. Nel 2008, stagione spartiacque, si registra il primo arresto: meno due per cento. Poi ancora meno due, meno sette per totalizzare un - 39 per cento in sette stagioni di fila. Una somma in negativo che colpisce. Non si tratta di una decrescita delle organizzazioni in valore assoluto, ma di un rallentamento (molto forte) delle nuove strutture organizzate.
Nell’ultimo anno preso in considerazione, il 2014, la nascita di realtà no profit è sceso addirittura del 15 per cento. In assenza del dato dirimente - quante organizzazioni esistenti hanno cessato di vivere od operare - la crescita rallentata va confrontata con gli anni dell’esplosione del Terzo settore. Nel 1993 nacquero 275 nuove associazioni non profittevoli, nel 2003 addirittura 350 e nel 2007 si toccò il primato italiano con 360 battesimi. Poi la discesa, per ora senza freno: nel 2014 i nuovi registrati sono stati solo duecento.
«Ci mancano i dati dei decessi », spiega Giuseppe Museo, direttore di Csvnet, «ma ad oggi possiamo avanzare due ipotesi. Uno, è finita la frammentazione e il volontariato italiano è diventato maturo: diverse strutture, non a caso, si sono irrobustite. Due, il mercato nostrano della charity con quattro milioni e mezzo di volontari organizzati è saturo». Il resto della domanda, secondo questa interpretazione, sarebbe accolta dal volontario free - due milioni e mezzo di persone, secondo altre fonti - , che agisce senza tempi certi, senza iscriversi a nulla, in maniera spesso estemporanea per difendere un parco o sistemare una scuola. È il volontario liquido al tempo dei social e dei Cinque Stelle: la sua ansia di dono e di collettivo si esprime fuori dai recinti dell’organizzazione, su obiettivi singoli e motivanti.
Il dato che viene fuori - gruppi certificati che non crescono nel numero, quote di attivisti stabili o in leggero aumento - fa pensare che il settennato horribilis abbia funzionato, come per le imprese, nel far chiudere le associazioni più piccole e recenti consentendo a chi è storicamente strutturato di trovare dimensioni ampie e funzionalità migliori. Il report dice anche, infatti, che le organizzazioni di volontariato minori (per numero di volontari e soci) sono le più giovani: il 50% delle più piccole è stato costituito dal 2000, il 50% delle più giovani dal 2003. All’aumentare dell’anzianità delle Odv aumentano anche le loro dimensioni. La metà delle strutture con più di 60 volontari ha oltre 25 anni di storia e le organizzazioni con oltre 400 soci hanno costruito il loro patrimonio nel corso di almeno 35 anni di attività.
È un mondo davvero eterogeneo, quello del Terzo settore: ci sono organizzazioni con un (uno) attivista e altre con 50 mila. Bene, grazie al primo Report nazionale ora sappiamo che l’associazione media è composta da 16 volontari. Solo il 15% delle Odv supera i 50. Poco più del 10 per cento ha oltre 500 soci. E solo l’uno per cento (quattrocento organizzazioni in tutto) si muove in un ambito internazionale. Il 48 per cento (oltre ventimila realtà) ha come territorio il comune di riferimento.
Edoardo Patriarca, dal 1999 al 2006 portavoce del Forum del Terzo settore, oggi deputato Pd, dice: «Le organizzazioni di volontariato somigliano sempre più a piccole imprese. Tengono nonostante la crisi economica, nonostante lo sfilacciamento del tessuto sociale, ma stanno invecchiando.
Il ricambio generazionale è lento e la capacità di attrarre nuove generazioni non sempre efficace. Il volontariato sconta grossi problemi al Sud, dove c’è maggiore difficoltà economica e di lavoro e inefficienza amministrativa. La riduzione della frammentazione che si legge nel censimento significa da una parte una maggiore efficienza nell’azione sul territorio e dall’altra una difficoltà a innovarsi, a stare sulla frontiera delle nuove sfide sociali. Il volontariato italiano ha una sincera difficoltà a posizionarsi nel tempo contemporaneo ».
Il teorico della materia è l’economista Stefano Zamagni, che dice: «Tra il 2007 e il 2014 ci sono stati due fenomeni che hanno spiazzato questo mondo. Da una parte la crescita di coop sociali, associazioni di promozione sociale, imprese sociali che hanno corroso il volontariato puro. Dall’altra la crisi economica, che ha portato via quella fetta di persone che ha dovuto preoccuparsi innanzitutto di trovare un lavoro e poi ha obbligato le organizzazioni a ridurre i costi». Un esempio: «In una città dell’Emilia di 80.000 abitanti si contavano 600 associazioni. Non potevano restare in piedi e molte si sono fuse. Un Terzo settore adulto oggi deve vivere di biodiversità: ong, coop, odv. E deve ibridare il profit con il no profit. Questo mondo resta un polmone, una riserva, che però mantiene un senso se custodisce il principio del dono. Se perdiamo quello, resta solo la foresta di belve raccontata da Hobbes».

SIl manifesto, 20 ottobre 2015

DIRITTODI PAROLA
SOTTO PROCESSO
di Livio Pipino

Erri De Luca è stato assolto. La sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non lascia adito a dubbi: affer­mare che «la Tav va sabo­tata» non è un reato ma un’opinione, affi­data al dibat­tito poli­tico e non alle cure di giu­dici e pri­gioni. Qual­che tempo fa sarebbe stata una «non noti­zia», quasi un’ovvietà (e senza biso­gno di sco­mo­dare Voltaire). Non così oggi. Almeno a Torino, dove un giu­dice per le inda­gini pre­li­mi­nari ha dispo­sto, per quella affer­ma­zione, un giu­di­zio e due pub­blici mini­steri hanno soste­nuto l’accusa e chie­sto la condanna.

Dun­que l’assoluzione e il punto di diritto affer­mato dal giu­dice rap­pre­sen­tano una buona noti­zia. Per una plu­ra­lità di motivi.

Primo. Ci fu un tempo in cui con­te­sta­zioni sif­fatte erano all’ordine del giorno ed erano rite­nuti reati il canto dell’«Internazionale» o di «Ban­diera rossa» (forse per il ver­setto «avanti popolo tuona il can­none rivo­lu­zione vogliamo far»…) o il grido «abbasso la bor­ghe­sia, viva il socia­li­smo!». Erano gli anni dello stato libe­rale e, poi, del fasci­smo quando si rite­neva che «la libertà non è un diritto, ma un dovere del cit­ta­dino» e, ancora, che «la libertà è quella di lavo­rare, quella di pos­se­dere, quella di ono­rare pub­bli­ca­mente Dio e le isti­tu­zioni, quella di avere la coscienza di se stesso e del pro­prio destino, quella di sen­tirsi un popolo forte». Poi è venuta la Costi­tu­zione il cui arti­colo 21 pre­vede che «tutti hanno il diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

Inu­tile sot­to­li­neare il senso della norma che è quello di tute­lare l’anticonformismo e le sue mani­fe­sta­zioni poco o punto accette alle forze domi­nanti per­ché, come è stato scritto, «la libertà delle mag­gio­ranze al potere non ha mai avuto biso­gno di pro­te­zioni con­tro il potere» e, ancora, «la pro­te­zione del pen­siero con­tro il potere, ieri come oggi, serve a ren­dere libero l’eretico, l’anticonformista, il radi­cale mino­ri­ta­rio: tutti coloro che, quando la mag­gio­ranza era libe­ris­sima di pre­gare Iddio o osan­nare il Re, anda­vano sul rogo o in pri­gione tra l’indifferenza o il com­pia­ci­mento dei più».

In ter­mini ancora più espli­citi, le idee si con­fron­tano e, se del caso, si com­bat­tono con altre idee, non con l’obbligo del silen­zio. Troppo spesso lo si dimen­tica e, dun­que, un «ripasso» era quanto mai opportuno.

Secondo. La con­te­sta­zione mossa ad Erri De Luca non riguar­dava solo la libertà di espres­sione del pen­siero in astratto. Essa riguar­dava l’esercizio di quella libertà oggi in Val Susa e con rife­ri­mento al Tav.

Nel nostro Paese in que­sti anni sono, infatti, avve­nute cose assai strane. Nes­suno ha mai sot­to­po­sto a giu­di­zio – a mio avviso, con ragione – gli autori di «isti­ga­zioni» assai più gravi e impe­gna­tive come quelle, pra­ti­cate da mini­stri della Repub­blica e capi del Governo, dirette a sov­ver­tire l’unità nazio­nale o a eva­dere le tasse. Ma, in Val Susa, Erri De Luca non è rima­sto iso­lato: alcuni respon­sa­bili di asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste sono stati inda­gati per «pro­cu­rato allarme» in rela­zione alla pre­sen­ta­zione di un documento-denuncia con­cer­nente i rischi in atto al can­tiere della Mad­da­lena a causa di una frana, l’uso della espres­sione «libera Repub­blica della Mad­da­lena» è stato con­si­de­rato un sin­tomo di atti­vità sov­ver­siva, la distri­bu­zione di volan­tini con­tro il Tav (senza com­mis­sione di reati) è stata rite­nuta un indice di poten­ziale irre­go­la­rità di con­dotta (sic!) di alcuni stu­denti mino­renni e via seguitando.

Affer­mare la liceità penale delle affer­ma­zioni di De Luca non può non inci­dere anche su que­ste situazioni.

Terzo. Alcuni decenni orsono ci fu, in alcuni set­tori della magi­stra­tura, un’attenzione signi­fi­ca­tiva ai temi della libertà di mani­fe­sta­zione del pen­siero. Sul finire degli anni Ses­santa e nei primi anni Set­tanta, in par­ti­co­lare, Magi­stra­tura demo­cra­tica ingag­giò una dura bat­ta­glia cul­tu­rale sul punto stig­ma­tiz­zando, tra l’altro, «prov­ve­di­menti che hanno creato un clima di inti­mi­da­zione par­ti­co­lar­mente pesante verso deter­mi­nati set­tori poli­tici» ed espri­mendo «pro­fonda pre­oc­cu­pa­zione rispetto a quello che non può appa­rire che come un dise­gno siste­ma­tico ope­rante con vari stru­menti e a vari livelli, teso a impe­dire a taluni la libertà di opi­nione, e come grave sin­tomo di arre­tra­mento della società civile» (ordine del giorno Tolin, dicem­bre 1969) e ten­tando anche, pur senza suc­cesso, di pro­muo­vere un refe­ren­dum abro­ga­tivo dei reati di opi­nione (tra cui quell’articolo 414 del codice penale con­te­stato a De Luca).

Oggi ciò sem­bra un lon­tano ricordo. Chissà che la sen­tenza del Tri­bu­nale di Torino non sti­moli una nuova sta­gione di sen­si­bi­lità al riguardo.

Quarto. In que­sta vicenda ha bril­lato per assenza e silen­zio gran parte degli intel­let­tuali e della cul­tura giu­ri­dica italiana.,Non è un caso che anche l’appello dif­fuso alla vigi­lia del pro­cesso da scrit­tori e da uomini e donne dello spet­ta­colo rechi, per quat­tro quinti, sot­to­scri­zioni fran­cesi… Non è la prima volta in que­sta epoca di pen­siero unico.

Per carità, nes­suno pre­tende nuovi Paso­lini o Scia­scia e del resto, come avrebbe detto Man­zoni, «il corag­gio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Ma un po’ di dignità non gua­ste­rebbe. Anche que­sto ci ricorda la sen­tenza torinese.

ERRIDE LUCA ASSOLTO,
“SABOTARE” SI PUÒ DIRE
di Marco Vittone

No Tav. Il tribunale di Torino fa prevalere l’articolo 21 della Costituzione sul codice Rocco. Il fatto non sussiste come reato. Lo scrittore in aula prima della sentenza: rivendico la mia nobile parola contraria

Assolto per­ché il fatto non sus­si­ste. Cade l’accusa di isti­ga­zione a delin­quere per Erri De Luca. E fini­sce così un pro­cesso che non sarebbe mai dovuto ini­ziare che ha visto sul banco degli impu­tati, per un reato d’opinione, lo scrit­tore napo­le­tano, reo di aver soste­nuto in alcune inter­vi­ste che la «Tav va sabotata».

Dopo la let­tura del dispo­si­tivo della sen­tenza da parte del giu­dice mono­cra­tico Imma­co­lata Iade­luca, l’aula gre­mita è esplosa in un applauso. L’autore de Il peso della far­falla è rima­sto quasi impas­si­bile, nascon­dendo la com­mo­zione, poi ha dichia­rato: «Mi sono tro­vato in una lunga sala d’attesa che adesso è finita. Rimane la grande soli­da­rietà delle per­sone che mi hanno soste­nuto qui e in Fran­cia. Ero tran­quillo per­ché avevo fatto il pos­si­bile — ha aggiunto — Que­sta asso­lu­zione riba­di­sce il vigore dell’articolo 21 della costi­tu­zione che garan­ti­sce la più ampia libertà di espressione».

Ieri, nella maxi aula 3 del Pala­giu­sti­zia di Torino, uti­liz­zata per i grandi pro­cessi Thys­sen­Krupp ed Eter­nit, con la sen­tenza di asso­lu­zione l’articolo 21 della Costi­tu­zione ha pre­valso sull’articolo 414 del codice penale fascista. Prima che la giu­dice si riti­rasse in camera di con­si­glio per quat­tro ore, Erri De Luca aveva letto alcune dichia­ra­zioni spon­ta­nee. «Sarei pre­sente in quest’aula anche se non fossi lo scrit­tore incri­mi­nato. Con­si­dero l’imputazione con­te­stata un espe­ri­mento, il ten­ta­tivo di met­tere a tacere le parole con­tra­rie. Svolgo l’attività di scrit­tore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di cen­sura. Con­fermo la mia con­vin­zione che la linea di sedi­cente alta velo­cità in Val Susa va osta­co­lata, impe­dita e intral­ciata, dun­que sabo­tata per la legit­tima difesa del suolo e dell’aria di una comu­nità minac­ciata. La mia parola con­tra­ria sus­si­ste e sono curioso di sapere se costi­tui­sce reato».

Per le sue dichia­ra­zioni, rite­nute dall’accusa un reato, i pm Anto­nio Rinaudo e Andrea Pada­lino ave­vano chie­sto per l’imputato una con­danna a otto mesi di reclu­sione, in seguito alla denun­cia di Ltf, la società italo-francese che si è occu­pata dal pro­getto e delle opere pre­pa­ra­to­rie della Torino-Lione. L’accusa è caduta. E per il popolo No Tav, che nel pome­rig­gio ha festeg­giato De Luca a Bus­so­leno, si tratta di «un’altra scon­fitta per i pm con l’elmetto». La vit­to­ria «della parola con­tra­ria, più forte delle parole del potere», ha scritto notav .info.

De Luca ha difeso la legit­ti­mità e nobiltà del verbo sabo­tare. «Sono incri­mi­nato per aver usato il verbo sabo­tare. Lo con­si­dero nobile e demo­cra­tico. «Nobile — ha osser­vato — per­ché pro­nun­ciato e pra­ti­cato da valo­rose figure, come Gan­dhi e Man­dela, con enormi risul­tati poli­tici. Demo­cra­tico per­ché appar­tiene fin dall’origine al movi­mento ope­raio e alle sue lotte. Per esem­pio — ha soste­nuto — uno scio­pero sabota la pro­du­zione». Parole «dirette a inci­dere sull’ordine pub­blico» per la pro­cura di Torino. «Ma io difendo l’uso legit­timo del verbo sabo­tare nel suo signi­fi­cato più effi­cace e ampio», ha affer­mato De Luca, che si è detto dispo­sto per­sino a «subire una con­danna penale per il suo impiego» piut­to­sto che a farsi «cen­su­rare o ridurre la lin­gua italiana». La giu­dice, assol­vendo lo scrit­tore con for­mula piena, per­ché «il fatto non sus­si­ste», sem­bra avere accolto que­sta tesi.

La poli­tica si è divisa su sui social tra chi ha apprez­zato e festeg­giato la deci­sione del Tri­bu­nale (M5s, Sel, Prc, Arci) e chi si invece l’ha for­te­mente cri­ti­cata e si è detto dispia­ciuto se non addi­rit­tura irri­tato dalla sen­tenza: un ampio schie­ra­mento che va dal Pd Ste­fano Espo­sito a Mau­ri­zio Gasparri. Duro l’ex mini­stro Mau­ri­zio Lupi, caduto in seguito a uno scan­dalo sulle «grandi opere» e da sem­pre favo­re­vo­lis­simo alla Torino-Lione: «De Luca non avrà com­messo un reato, ma forse ha fatto di peg­gio, ha con­vinto tanti gio­vani che lan­ciare una molo­tov o pic­chiare un poli­ziotto è un diritto. Non sarà l’assoluzione di un tri­bu­nale a toglier­gli que­sta colpa».

Sod­di­sfatto il legale dello scrit­tore, Gian­luca Vitale: «La sen­tenza riporta le cose al loro posto, si può par­lare anche di Tav. Biso­gna che tutti capi­scano che c’è un limite alla repres­sione, le opi­nioni devono essere lasciate libere. Anche Torino e la Val Susa sono posti normali». Tal­volta anche l’Italia può essere un paese normale.

ERRIDE LUCA: «LA FRANCIA MI HA DIFESO
E IN ITALIA IL CODICE FASCISTA SABOTA LA COSTITUZIONE»
intervista di Eleonora Martini

Erri de Luca, non se l’aspettava un’assoluzione, vero?

Per mio tem­pe­ra­mento sono sem­pre pre­pa­rato al peg­gio ma in que­sto caso i pro­no­stici erano impos­si­bili per­ché si è trat­tato di un pro­cesso spe­ri­men­tale: nes­suno scrit­tore era mai stato incri­mi­nato prima con que­sto arnese del codice fasci­sta — l’istigazione — che risale al 1930.

La sua dichia­ra­zione spon­ta­nea prima della sen­tenza ha messo in luce l’assurdità di avere ancora in vigore il codice Rocco.
Quell’articolo 414 non era mai stato usato prima con­tro l’opinione di una per­sona, ma ho voluto sot­to­li­neare il con­flitto tra l’articolo 21 della Costi­tu­zione che garan­ti­sce la nostra libertà di espres­sione e quell’articolo del codice penale fasci­sta che invece la nega. Que­sta era la posta in gioco nel pro­cesso, al di là del mio tra­scu­ra­bi­lis­simo caso per­so­nale. Aveva un peso per sta­bi­lire la tem­pe­ra­tura della libertà di parola: se sof­fre di feb­bre, aggre­dita da una volontà di cen­sura, o se è sfeb­brata ed è sana.

E qual è la dia­gnosi?
La sen­tenza dice che l’articolo 21 della Costi­tu­zione gode di ottima salute: il ten­ta­tivo di sabo­tag­gio da parte della pub­blica accusa è stato respinto.

La mini­stra di Giu­sti­zia fran­cese, Chri­stiane Tau­bira, ha twit­tato due volte in suo onore. «#Erri­De­Luca, quando tutto sarà scom­parso die­tro all’ultimo sole, resterà la pic­cola voce dell’uomo, citando ancora Ten­nes­see Wil­liams», scrive nel primo post. Men­tre nel secondo la Guar­da­si­gilli fran­cese usa una delle poe­sie del comu­ni­sta Louis Ara­gon per salu­tare la sen­tenza nella quale, a suo giu­di­zio, sfuma la giu­sti­zia salo­mo­nica.
Non lo sapevo. Posso solo dire che da noi un mini­stro di giu­sti­zia che cita uno scrit­tore come minimo sbaglia.

In que­sta vicenda, ha sen­tito più vicine le isti­tu­zioni fran­cesi che quelle ita­liane?
La Fran­cia si è espressa al mas­simo livello delle sue isti­tu­zioni, con­si­de­ran­domi un suo cit­ta­dino: il pre­si­dente della Repub­blica fran­cese è inter­ve­nuto più volte su que­sto caso.

Lo stesso Fra­nçois Hol­lande avrebbe tele­fo­nato a Renzi per invo­care cle­menza nei suoi con­fronti. Che lei sap­pia, è vero?

osì risulta dal Jour­nal Du Diman­che, ed è evi­dente che que­sta noti­zia non può essere uscita che dall’Eliseo. Il pre­si­dente fran­cese ha evi­den­te­mente per­messo che la noti­zia diven­tasse pub­blica. Dun­que, è una cosa certa. La Fran­cia, attra­verso il suo mas­simo espo­nente, si è tirata fuori da que­sta sto­ria: è come se avesse detto «una con­danna di que­sto tipo non è con­ce­pi­bile per noi, non in nome dei francesi».

Secondo lo stesso set­ti­ma­nale fran­cese, però, il pre­mier ita­liano non avrebbe mostrato «alcuna indul­genza». E comun­que ieri Palazzo Chigi ha smen­tito «il merito e le cir­co­stanze» della noti­zia.

egare l’evidenza è uno degli stati dell’ubriachezza. Ma tra Renzi e Hol­lande io credo al pre­si­dente fran­cese, ovviamente.

Lei ha avuto con­tatti per­so­nali con le isti­tu­zioni d’Oltralpe? Per­ché l’hanno presa così a cuore?

No, mai avuto con­tatti. Lo fanno solo per­ché sono uno scrit­tore. E uno scrit­tore incri­mi­nato per le sue parole viene adot­tato da quella società civile, da quella opi­nione pub­blica. È già suc­cesso ad altri scrit­tori, che erano in situa­zioni ben peg­giori delle mie, di tro­vare lì una seconda cit­ta­di­nanza. Io resto un osti­nato cit­ta­dino ita­liano, non mi fac­cio smuo­vere dalla mia cit­ta­di­nanza, ma lì mi hanno voluto soste­nere come se fossi un loro concittadino.

Prima della sen­tenza ha voluto ripe­tere che per lei la Tav va osta­co­lata e sabo­tata. Voleva farsi capire meglio o sfi­dare il suo giu­dice?
La parola sabo­tag­gio ha tanti signi­fi­cati che non riguar­dano il dan­neg­gia­mento fisico. Non volevo che il verbo «sabo­tare», che ha piena cit­ta­di­nanza nel voca­bo­la­rio ita­liano, fosse ridotto a que­sto: a un gua­sto mec­ca­nico. O che fosse cen­su­rato da una con­danna penale. D’altra parte, anche que­sta incri­mi­na­zione con­tro di me voleva sabo­tare la libertà di parola. Ho detto che se quelle mie parole erano un cri­mine, non solo ho ripe­tuto il cri­mine ma lo avrei con­ti­nuato a ripetere.

Adesso che «è stata impe­dita un’ingiustizia», come ha detto lei, c’è da fare qual­cosa ancora su que­sto fronte?
Intanto è stato fer­mato un ten­ta­tivo di cen­sura che poteva essere un pre­ce­dente. Dun­que, le per­sone si pos­sono sen­tire più inco­rag­giate nella loro libertà di espres­sione. Ma c’è ancora molto da fare per­ché le lotte delle popo­la­zioni rie­scano ad avere accesso ai canali di infor­ma­zione che costrui­scono l’opinione pubblica.

E sulla Tav?
La Tav della Val di Susa — sedi­cente «alta velo­cità», parole che sono una frot­tola oltre che una truffa — è un’opera che non si farà. Si sabo­terà. Da sola: per man­canza di coper­tura finanziaria.

Nell’aula giu­di­zia­ria c’erano molti val­su­sini…
Sì, e giu­sta­mente con­si­de­rano que­sta asso­lu­zione una loro vit­to­ria, per­ché è stata una delle rare volte in cui qual­cuno impe­gnato a con­tra­stare la Tav è stato assolto.

«La Repubblica, 17 ottobre 2015

IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare.

Non si tratta solo della sua dislocazione strategica, nel cuore della Cisgiordania, in un luogo, Nablus, l’antica Neapolis dei Flavi, intriso di storia, sangue e distruzione dai tempi dei romani, dei bizantini, degli arabi, dei mamelucchi, dei turchi, dei crociati, fino ai recenti e inestinti conflitti che il Novecento ha trasmesso al secondo millennio; né si tratta solo del suo statuto di enclave cultuale multireligiosa, più volte passata di mano nel pendolo della diplomazia internazionale tra la guerra dei sei giorni, la Seconda Intifada e il Defensive Shield del 2002. Si tratta anche, e soprattutto, della sua collocazione in un’altra geografia: quella storica e psicologica dei simboli.
La storia, anzi le storie di Giuseppe, occupano un posto particolare nella Bibbia. L’ultima declinazione del mito di Giuseppe è nella tetralogia di Thomas Mann, dove viene usato per raccontare in trasparenza la Germania dell’inizio del Novecento, la montata dell’antisemitismo nell’ascesa del partito nazionalsocialista e in generale i grandi temi della storia umana: la violenza fratricida, il fondamentalismo religioso, il rapporto tra giustizia e potere, la possibilità di riscatto di chi ne è privato e fatto schiavo, la fondamentale inguaribilità della politica. Come dice Abramo a Dio in Giuseppe e i suoi fratelli: «Se vuoi il mondo, non puoi pretendere la giustizia; ma se la cosa che ti preme di più è la giustizia, allora per il mondo è finita».

La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury.

La tradizione di un sepolcro di Giuseppe, se pure non supportata dal Corano, fu suffragata dai lungimiranti viaggiatori islamici del XIV secolo, anzitutto Ibn Battuta, e poi da tutta la schiera dei viaggiatori moderni che descrivono l’ancora virtuale weli del patriarca come luogo di culto misto per ebrei e cristiani, maomettani e samaritani. Fu ancora molto dopo, alla fine dell’Ottocento, nell’ultimo fiorire degli entusiasmi coloniali, che una vera e propria struttura architettonica, ancora ibrida, ancora equivoca, ma effettivamente esistente e visibile, si manifestò, ad incontrare peraltro gli albori della fotografia. Della tomba di Giuseppe furono così i viaggiatori a creare la realtà, in una storia stratificata e multireligiosa di testimonianze e credenze che non poté mai scindersi dalla storia della politica e dei suoi conflitti.
Se i Luoghi Santi sono il riflesso dell’immaginario collettivo da un lato e il prodotto degli scontri fra religioni dall’altro, se sono il punto di intersezione tra questi due inscindibili piani dell’esperienza umana, l’incendio che la storia recente ha prodotto nell’attuale scenario mediorientale non ha cessato di coinvolgere questi ed altri monumenti “sacri”, in una dinamica che gli antropologi definirebbero, appunto, sacrificale. Dagli idoli di Ninive al tempio di Bel a Palmira, a riaccendere la scintilla è la potenza primaria dei simboli. La figura di Giuseppe è simbolo dell’ineluttabilità della violenza tra fratelli, della contrapposizione etnica, dell’intolleranza, ma anche del loro fallimento, nel trasformarsi dello schiavo in padrone grazie al prestigio dell’irrazionale, al potere profetico della chiaroveggenza, al governo dei meccanismi della psiche: i sogni dei compagni di prigionia, poi del faraone. La sua tomba, vuota come non può non essere quella di un mito, condensa nella stessa esistenza materiale una storia perenne.
L’azione degli insorti che l’hanno incendiata sposta la nostra attenzione dalla geografia reale e dalle sue sofferte, contrastate frontiere a una faglia più profonda, una linea non orizzontale ma verticale: quella del passato e delle sue cicatrici. Dopo le ebollizioni postcoloniali, il grande sisma al quale assistiamo, che ha per epicentro la Palestina e come scenario il Medio Oriente, è anche una guerra di simboli, e per questo colpisce anche i monumenti. Come dimostrato dal blitz turco al mausoleo di Suleyman Shah, altra tomba simbolo di un’antica identità, la riscossa islamica ha come vero bottino il passato. Solo rievocandolo possiamo comprendere i suoi atti distruttivi di appropriazione simbolica della tradizione e di eversione dell’ormai superato ordine occidentale.
Il modesto passo avanti compiuto dall'Italia per i diritti di cittadinanza, le gravi contraddizioni da sanare e la grande distanza dal raggiungimento dello "ius soli".come è negli USA.

La Repubblica, 15 ottobre 2015
Cittadini si nasce o si diventa. Facile a dirsi, difficile a farsi. Non foss’altro perché, quando si tratta di decidere sull’appartenenza al corpo politico, sul potere di cittadinanza, verbi come “nascere” e “diventare” sono oggetto di interpretazioni discordanti e difficilmente riducibili a formule semplici.
La legge appena approvata alla Camera sul riconoscimento di cittadinanza a residenti non italiani, importante sotto molti aspetti e benvenuta, ne è un esempio.

Essa stabilisce che acquisisce la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Perché chi è nato in Italia abbia diritto alla cittadinanza deve dimostrare che almeno un genitore sia nella norma. La nascita non è sufficiente, dunque, e lo non è automatico. Il destino del bimbo o della bimba sta se così si può dire nella mani dei genitori (e dello Stato ospitante).

Questa regola modera lo ius soli, il quale nella sua connotazione normativa dà priorità alla persona, ovvero ai nati e non a chi li ha messi al mondo. Gli Stati Uniti danno un’idea della radicalità di questo principio se interpretato come diritto del singolo. Nella patria dello meno annacquato o più genuino, è sufficiente per un bimbo essere nato dentro i confini della federazione per essere cittadino americano. E così può succedere, che genitori stranieri decidano di “regalare” al loro figlio la cittadinanza americana facendolo nascere sul suolo americano. Ciò è sufficiente a richiedere ed ottenere il passaporto, anche se i genitori non sono residenti e anche se sono “clandestini”. Neppure la Francia, il paese europeo più aderente allo ius soli, è così inclusivo e – soprattutto— tanto rispettoso dei diritti della singola persona.

L’interpretazione di “nascita” e “acquisizione” della cittadinanza è come si vede tutt’altro che semplice. E del resto, questa complessità interpretativa è testimoniata dall’esistenza in Italia di un altro regime di cittadinanza, quello detto dello ius sanguinis: un regime che vale solo per gli italiani etnici, per cui nascere in Argentina o in Australia da genitori di genitori italiani (avere un bisnonno nato in Italia) dà diritto a richiedere il passaporto italiano dopo aver trascorso un breve periodo di residenza nel paese. Per ovvie ragioni, il contesto famigliare è in questo caso determinante.

Ma perché dovrebbe esserlo anche per lo ius soli? Certo, considerato il fondamento nazionale della cittadinanza nei paesi europei, la legge appena approvata dalla Camera è un passo avanti importante e la reazione della Lega (che ha già annunciato un referendum abrogativo qualora il Senato non cambi il testo) lo dimostra. C’è però da augurarsi che il passo avanti compiuto si faccia più coraggioso, perché la cittadinanza a chi nasce in Italia e non è maggiorenne dipende ancora da una dichiarazione di volontà espressa da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale.

Al di là della moderazione interpretativa del principio dello ius soli, questa nuova legge in discussione presenta inoltre un aspetto di discriminazione che sarebbe fortemente desiderabile correggere, perché stride non soltanto col proclamato principio dello ius soli, ma prima ancora con quello dell’eguale dignità delle persone. Come si è detto, la nascita sul suolo italiano non è sufficiente, se altre condizioni non sono presenti, due in particolare: la frequenza scolastica e la condizione economica della famiglia.

Nel primo caso, il bambino nato o entrato nel paese prima della maggiore età deve dimostrare di aver frequentato almeno cinque anni di scuola pubblica. Per uno straniero la condizione di alfabetizzazione può aver senso anche perché è nel suo stesso interesse conoscere la lingua del paese. Tuttavia se si tratta di un bambino nato e socializzato in Italia, è davvero giustificabile attendere l’attestato della quinta elementare?

La seconda condizione è grave in sé perché introduce un fattore di discriminazione. Torniamo al caso dei nati in Italia, per i quali è necessario che almeno un genitore sia in possesso di “permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” per richiedere la cittadinanza. Ora, sappiamo che per avere questo permesso, il residente straniero deve dimostrare non solo di aver vissuto in Italia da almeno cinque anni, ma anche di avere un reddito superiore all’assegno sociale (circa mille euro al mese o poco più) e un “alloggio idoneo”. Come possono due bambini nati in Italia essere considerati diversi ai fini della cittadinanza per questioni economiche – di cui non sono tra l’altro responsabili? Come possono due bimbi giustificare a se stessi che solo chi dei due è meno povero merita di essere cittadino? Può essere la povertà una ragione di esclusione? È augurabile che il legislatore veda la contraddizione insita in questa norma rispetto al significato della cittadinanza moderna, per cui è proprio chi ha poco o nessun potere sociale ed economico ad avere più bisogno del potere politico.

Economia battuta dai diritti personali. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi.

La Repubblica, 12 ottobre 2015

Di fronte ad una politica aggressivamente ripiegata sulla sola economia, sono i giudici che cercano di mantenere viva l’Europa dei diritti. Lo ha confermato qualche giorno fa una sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo che ha dichiarato illegittima una decisione della Commissione europea del 2000 sul trasferimento dei dati personali dai paesi dell’Unione europea negli Stati Uniti perché violava il diritto fondamentale alla tutela della privacy. La sentenza nasce da un caso riguardante Facebook, è stata certamente influenzata dalle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio elettronico americano, ma mette in evidenza un vizio d’origine dell’intesa tra Commissione europea e amministrazione degli Stati Uniti, sul quale bisogna riflettere.

Un vizio ben noto, e che era stato denunciato fin dal momento in cui si negoziava quell’intesa. Poiché all’epoca facevo parte del gruppo europeo sulla tutela dei dati personali, posso dare una personale testimonianza del fatto che tutti gli argomenti adoperati oggi dalla Corte di Giustizia erano stati ampiamente sollevati quindici anni fa. Si disse che le regole previste privavano i cittadini europei di ogni potere di controllo sul modo in cui sarebbero state adoperate le loro informazioni una volta trasferite negli Stati Uniti, si prospettò il rischio che di quei dati si sarebbero impadroniti gli organismi di sicurezza, come poi è avvenuto. La discussione fu aspra, si riuscì a limitare qualche danno, ma l’atteggiamento della Commissione fu, in modo smaccato e protervo, di assoluta subordinazione alle richieste americane.
Quella protervia è stata ora travolta. È bene sottolinearlo, perché l’Unione europea sta ridefinendo il proprio sistema di garanzie per i dati personali, le pressioni degli Stati Uniti sono sempre forti e le resistenze europee non sembrano adeguate. Ma la Corte di Giustizia ha indicato con grande chiarezza le condizioni da rispettare perché le decisioni in questa materia possano essere considerate legittime. La tutela dei dati personali è riconosciuta come un diritto fondamentale d’ogni persona dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La parola privacy, che continua ad accompagnare le discussioni, ha ormai un significato non riducibile alla semplice riservatezza che si può esigere per la propria sfera privata. Indica una dimensione della libertà dei contemporanei, che devono curarla con attenzione e regole adeguate, anche nell’interesse di quelle che vengono chiamate le generazioni future.
Nel tempo dei “big data”, del controllo pervasivo sulle persone attraverso la raccolta delle informazioni incessantemente prodotte dal muoversi in un ambiente innervato da tecnologie della vita quotidiana, dal passaggio all”Internet delle cose”, si sta davvero costruendo un mondo nuovo, con forme inedite di accentramento dei poteri e di riduzione dei diritti che devono essere adeguatamente contrastate.
Nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea si rinvengono criteri preziosi, e vincolanti. Parlo di sentenze al plurale, perché quella appena pubblicata si colloca in una linea che la congiunge a due sentenze dell’anno scorso, altrettanto importanti, sul tempo di conservazione dei dati personali e sul diritto all’oblio. Una linea di tendenza ormai chiara. Nei casi di conflitti tra il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali e le esigenze di sicurezza e di mercato è proprio il primo a dover avere la preminenza. In una sentenza dell’anno scorso, relativa ad un caso riguardante Google, si è detto con chiarezza che “il diritto fondamentale alla tutela dei dati personali prevale giuridicamente sull’interesse economico degli operatori del settore”. Nella decisione ultima si afferma che “una disciplina che permetta alle autorità pubbliche di accedere in maniera generalizzata ai contenuti delle comunicazioni elettroniche deve essere considerata come una violazione del contenuto essenziale del diritto fondamentale alla vita privata garantito dalla Carta europea”.
Sono affermazioni di grande rilievo, di portata generale, particolarmente importanti in un momento in cui molti Stati membri dell’Unione europea approvano norme che consentono forme di sorveglianza di massa sulle persone, evidentemente in contrasto con l’ultimo principio ricordato. Ma vi è una ulteriore, assai significativa conseguenza di queste sentenze. Poiché riguardano soggetti e situazioni che si collocano su scala globale, i loro effetti sono destinati a prodursi ben oltre i confini dell’Unione. Queste decisioni stanno così costruendo il nucleo di un diritto anch’esso globale, favorito da una unificazione determinata da una tecnologia che si sviluppa secondo modalità che hanno il mondo come riferimento.
Solo nelle apparenze, quindi, la tendenza espressa dalle decisioni della Corte di Giustizia dell’Unione europea apparterrebbero a quella sorta di “balcanizzazione” di Internet che taluni mettono in evidenza. È vero che siamo di fronte a dinamiche che innescano conflitti legati a contrastanti interessi economici, agli appetiti di Stati nazionali, autoritari e non, di controllare Internet. Ma il carattere proprio di Internet rimane quello del più grande spazio pubblico mai conosciuto, che evoca in ogni momento la necessità di muovere dalla considerazione del ruolo delle persone e dell’assetto dei poteri.
Questo comune punto di riferimento è ritrovato dai giudici europei nel loro continuo, insistito riferimento ai diritti fondamentali. Un punto, insieme, di attrazione e di unificazione. Lo dimostrano le diverse legislazioni che si ispirano proprio al modello europeo e alla sua costruzione intorno ai diritti fondamentali, come testimoniano, tra le altre, le normative brasiliane. Lo conferma il moltiplicarsi di progetti di Internet Bill of Rights, con una manifestazione significativa nella Dichiarazione dei diritti di Internet elaborata dalla nostra Camera dei deputati, che è all’origine di un documento comune della Presidente della Camera e del Presidente dell’Assemblea nazionale francese.
Siamo di fronte ad iniziative volte ad una “costituzionalizzazione” di Internet, che ovviamente portano con sé un confronto tra diverse impostazioni, che continua da anni tra Europa e Stati Uniti, con le distorsioni già segnalate. È tempo di prendere atto dell’impulso dato a questo processo dal riferimento giuridicamente obbligato alla Carta dei diritti fondamentali, che la politica europea ha omesso in questi anni, guardando alla logica economica quasi come ad una immutabile legge naturale e alterando così gli equilibri istituzionali dell’Unione. I giudici hanno ripetutamente mostrato che un’altra via è possibile, anzi necessaria. Ora è, o dovrebbe essere, il momento della politica, che deve dare sviluppo convinto e vigoroso ai principi di libertà ormai pienamente emersi. Ricordando, in primo luogo, che l’assetto complessivo di diritti e poteri su Internet definisce già oggi la dimensione dove si gioca il futuro della democrazia.
Intervista a Toni Morrison: «Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano».

La Repubblica, 4 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Lo chiamavano il test della carta del droghiere: chi aveva la pelle più chiara sapeva che avrebbe goduto del “white privilege” - il privilegio bianco. Nei negozi ti avrebbero sorriso e servito prima: i ragazzi ti avrebbero considerato più bella». Nella sua casa di Grand View on Houdson, l’ex rimessa di barche trasformata in un delizioso villino con vista sul fiume, nel cuore di un villaggio di duecento abitanti a mezz’ora di auto da Manhattan, Toni Morrison, ottantaquattro anni e undici romanzi, l’unico Nobel per la letteratura afroamericano, ricorda di quando scoprì per la prima volta il razzismo: dei neri.

L’ha vissuto sulla sua pelle?
«A Lorain, in Ohio, dove sono nata, vivevamo in un quartiere di emigranti. I miei vicini erano messicani, italiani, ungheresi: frequentavamo la stessa chiesa e la stessa scuola, e in comune avevamo anche la povertà. Ma quando negli anni Quaranta andai a studiare a Washington, era ancora una città segregata: gli autobus, i locali, tutto. Frequentavo la Howard University, un’università nera dove pensavo di sentirmi al sicuro: e invece fu proprio lì che scoprii il colorism. C’erano confraternite universitarie che accettavano solo ragazze dalla pelle molto chiara: e facevano questa cosa - il test della carta del droghiere...».
Nella casa di Toni Morrison ogni oggetto racconta una storia. Le statuette africane che incorniciano la scala. Il grande fotoritratto di Timothy Greenfield-Sanders: lei di profilo, i dreadlock grigi in evidenza. Il tavolo da ciabattino regalatole da Oprah Winfrey, usato sul set del film Beloved dal suo primo best seller Amatissima . La scrivania dove fra i libri svetta un piccolo dipinto:
«S’intitola Donna nigeriana . È opera di un artista afroamericano che visse a Parigi, un amico di Picasso che non ebbe la stessa fortuna: probabilmente troppo nero, anche lui. Se solo ricordassi il suo nome...».

“Troppo nero”, magari in base ai canoni del colorism, discriminazione ancor più sottile e crudele perché basata sul tono di colore della pelle. Troviamo queste stesse sfumature in Prima i bambini, l’ultimo romanzo di Morrison in uscita ora in Italia, edito come gli altri da Frassinelli. Si apre con la storia di una donna “nera come la mezzanotte” e rifiutata dai genitori dalla pelle, invece, più chiara. Ha raccontato al New York Times che suo padre odiava i bianchi. Sua madre, al contrario, era aperta con tutti. Lei da chi ha preso?
«Mio padre veniva dalla Georgia e da bambino aveva visto linciare due uomini di colore — persone per bene, negozianti — solo per appropriarsi dei loro beni. Considerava i bianchi “irriscattabili”. Mia madre giudicava le persone una per una. Io sono come lei: non ho mai odiato nessuno. Ma capisco mio padre».
L’America di oggi non è più quella che lei ha scoperto negli anni dell’università. Ma il razzismo è ancora qui.
«Il razzismo è sempre stato qui. È solo più visibile: grazie ai video fatti coi cellulari, ai social media. Prima non c’erano tutti questi mezzi di denuncia. Quando i vicini di mio padre vennero linciati erano i bianchi che andavano a fotografarli per metterli su cartoline da spedire agli amici: era come sparare al leone. Oggi se un ragazzo nero disarmato viene ucciso anche in un paese piccolissimo la sua morte finisce sotto gli occhi di tutti».
Già. Ma cinquant’anni dopo Selma e con un afroamericano alla guida del Paese...
«Nessuno nasce razzista: il razzismo è culturale. Ed economico. Ha fruttato soldi fin dalle origini con il lavoro degli schiavi. Ed è ancora usato affinché i bianchi più poveri si sentano comunque superiori e non rivolgano la loro rabbia contro gli altri bianchi che li sfruttano. E poi l’America è un paese inondato da armi».
Cosa c’entra questo con il razzismo?
«Di cosa crede abbiano paura così tanti possessori di armi? Non a caso i ragazzi neri uccisi dai poliziotti erano tutti disarmati».
Barack Obama ha detto: la mia più grande frustrazione è non essere riuscito a imporre la legge per controllarne la diffusione.
«Ma cosa può fare il presidente da solo? Neanche tutto il suo partito lo segue».
Lei dice: c’è sempre stato. E il nuovo razzismo verso chi viene in cerca di futuro? Qui i messicani nel mirino di Donald Trump, mentre l’Europa non riesce a mettersi d’accordo sui profughi.
«Non ho memoria di nulla di simile, a parte quel che fecero qui ai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale: li rinchiusero nei campi perché nati in un paese considerato nemico. Eppure erano medici, avvocati... L’America dovrebbe essere com’è scritto sotto la statua della Libertà: un paese di immigrati che dà il benvenuto agli stranieri. E invece... Quanto agli europei, vergogna. Soprattutto quelli dell’Est: era appena ieri che bussavano a tutte le porte».
Non sarà stata la crisi globale a fomentare il nuovo disordine?
«È sempre una questione di soldi. Un tempo eravamo tutti cittadini. Poi i cittadini sono diventati consumatori: si comprava qualsiasi cosa. Oggi si parla di contribuenti: siamo quelli che pagano le tasse. Questo porta a non identificarsi più con un senso di comunità. Il discorso diventa: io pago...».
Questo è il suo undicesimo romanzo: il primo ambientato nell’epoca contemporanea. Un modo per ricordare agli intellettuali che in un mondo così complesso bisogna continuare a prendere posizione?
«È la storia di persone che non sono cresciute: non si sono mai liberate dai drammi vissuti da bambini. Sono un po’ lo specchio della letteratura contemporanea: così focalizzata su se stessa. Tutti a descrivere solo la propria finestra sul mondo: mia mamma, il mio fidanzato. Io ho voluto raccontare un percorso di autostima il cui fine è la conoscenza».
Lei è stata più volte definita “la voce della Coscienza americana”. Si riconosce?
«La accetto. E ho voluto dare con tutti i miei libri un messaggio ben preciso: questo è il percorso compiuto dall’America, queste sono le persone sulla cui pelle il Paese è cresciuto e diventato una nazione invidiabile».
Prima i bambini è forse il libro che nei temi riprende più di tutti il suo primo romanzo, L’occhio più blu, pubblicato quarantacinque anni fa, quando lei era ancora e soltanto l’editor di Angela Davis e Muhammad Ali...
«All’epoca, era il 1970, nulla di quello di cui abbiamo appena parlato mi era chiaro. Volevo raccontare la storia di una ragazzina nera che sogna di avere gli occhi di Shirley Temple perché crede a quello che il mondo, dei bianchi ma anche dei neri, dice di lei. Sì, forse i due libri si somigliano. Ma oggi lo sforzo che ci è richiesto è diverso: smettere di sentirsi vittime».
Sull’intero romanzo pesa l’ombra della pedofilia.
«Se ne parla continuamente. Non so se è sempre stato così. Forse oggi le bambine sono ipersessualizzate. O forse attraverso internet si diffonde la pornografia infantile. Ma è qualcosa di dilagante. Mi ha aiutato a rendere la storia più contemporanea».
Nel libro sottolinea come gli errori dei genitori pesino per sempre. Il messaggio è: prendiamoci maggior cura dei bambini perché sono il nostro futuro?
«Non perché sono il futuro: perché sono piccoli esseri umani. Pensi che il titolo che avevo dato io al libro era “L’ira dei bambini”. Ma non piaceva a nessuno. Non all’editore. Non alla pubblicità. Hanno preferito God Help the Child - parafrasando una famosa canzone di Billie Holiday, God Bless the Child, e io li ho lasciati fare. A volte bisogna accettare quel che il mondo ti dice».
Il titolo italiano, “Prima i bambini”, le piace?
«Forse di tutte le traduzioni è il più calzante. Prima i bambini… Peccato che non accada mai. Penso ai miei nipoti che suonano, studiano tante cose. E mi chiedo: non dovrebbero solo giocare? Poi vedo altri bambini che non sono così stimolati e passano la giornata attaccati al cellulare e penso: i miei nipoti non lo fanno. Ma quando io ero bambina si stava fuori a giocare l’intera giornata. Perché vivevamo in una comunità, tutti sapevano dov’eri e che facevi. Oggi siamo tutti spaventati dall’idea di rapimenti e molestie. I genitori sono diventati quello che qui chiamiamo “elicotteri”: iperprotettivi. E se non lo fanno succede come a quella mamma accusata di maltrattamenti perché aveva lasciato i suoi piccoli a girare da soli per Central Park. Così ti chiedi: i bambini sono ancora bambini?».
I protagonisti dei suoi libri hanno sempre nomi affascinanti.
«Gli schiavi non avevano nome: qualsiasi fosse il loro nome dovevano abbandonarlo per quello che sceglieva il padrone. Dare un nome è una responsabilità. E darsi un nome è un atto di orgoglio. Non è un caso che molti musicisti afroamericani hanno scelto soprannomi regali… Count Basie, Duke Ellington. Il Conte. Il Duca».
Anche il nome con cui il mondo la conosce non è quello vero.
«Io mi chiamo Chloe e questo è il nome con cui mi chiamano le persone che amo. Ma solo nella mia famiglia lo pronunciano come si deve. Già a scuola mi chiamavano Cloo , Clori ... Poi, quando a dodici anni mi sono fatta battezzare, ho scelto di chiamarmi Antony: come sant’Antonio da Padova. E qualcuno ha cominciato a usare il diminutivo: Toni. Ma è Chloe che scrive i libri, sa? Quando scrissi il primo avrei voluto firmarlo col mio vero nome, Chloe Wofford. Invece mandai il manoscritto col nome da sposata che usavo allora. Chiamai per farlo cambiare ma era tardi: era già stampato».
Perché proprio Sant’Antonio da Padova?
«Perché è buono con i bambini e perché viaggiò in Nordafrica. L’ho scoperto in una Vita di Santi comprato da Strand, il negozio dei libri usati su Broadway».
Va ancora in chiesa?
«Quando insegnavo a Princeton ci andavo tutti i giorni. Ma prima della messa: quando arrivava il prete andavo via. Oggi il mio rapporto con la Chiesa è saltuario. Anche se questo Papa potrebbe riportarmici: mi piace tanto. E mi piace come sta risolvendo le cose in Vaticano».
Lei ha vinto così tanti premi. Il Pulitzer, il Nobel.
«Mi svegliò una giornalista all’alba per chiedermi che effetto faceva. Riattaccai. Chiamò ancora e io le chiesi come faceva a sapere ciò che io non sapevo ancora: e a quel punto capii che per il fuso il Nobel era stato annunciato quando in America erano le tre di notte. Così quando chiamarono da Stoccolma fui gentile, ringraziai: ma ancora non mi fidavo. Chiesi: “Potete mandarmi un fax?”».
Cosa ricorda della premiazione?
«Nelson Mandela. Che aveva vinto il Nobel per la Pace quello stesso anno: 1993. Per me era un mito e chiesi di incontrarlo. Fissarono l’incontro e fu favoloso. Raccontò storie incredibili, buffe e struggenti sulla sua vita. E poi… Oh, quelli del Nobel sì che sanno come organizzare una festa!».
Il nuovo premio si avvicina e tornano i nomi di tutti gli anni: Philip Roth in testa.
«Quante volte ho chiesto io stessa a quelli del Nobel se quel tale o quell’altro era stato preso in considerazione. Risposta: i nomi più ricorrenti non sono nemmeno mai arrivati sulla lista dei finalisti. E poi non so se oggi è tempo per un americano. Non mi viene in mente nessuno che sia all’altezza. Sa chi lo meriterebbe? L’israeliano Amos Oz».
Lo ha votato?
«Io non voto mai. Troppo complicato: devi compilare un sacco di carte, dare spiegazioni. Ma se votassi sceglierei lui: se lo merita».
Gli Obama la considerano un’amica.
«Quando il presidente mi ha premiata con la “Medaglia per la libertà”, beh, ho provato una sensazione strana: ho il doppio dei suoi anni ma mi sono sentita davanti a un fratello maggiore. Mi sono sentita protetta».
È stata più volte alla Casa Bianca.
«Ci sono stata a cena da poco. Ala privata, otto invitati più gli accompagnatori, io ho portato mio figlio. Michelle gentilissima: “Siamo fra noi: puoi venire anche in blue jeans”. Io che i blue jeans non li ho mai messi in vita mia! Figuriamoci se li metto alla Casa Bianca. Michelle è incredibile. Di più: è lei il vero capo».
Pensa che un giorno scenderà in campo come Hillary Clinton?
«Macché. È troppo intelligente. È competitiva: non c’è dubbio. Ma sa di che stress si tratta. Quando lui decise di tentare la corsa presidenziale lei disse, ok, ti appoggio. Ma una volta sola. Se perdi non se ne parla più».
Lei ha cominciato a scrivere a quarant’anni. Ora ne ha ottantaquattro. Il suo collega Roth ha annunciato di aver smesso di scrivere a causa dell’età. Lei continua. Cosa la spinge?
«Lo so fare bene! E poi scrivere è anche il mio modo per non confrontarmi con quelle cose di cui abbiamo appena parlato: le guerre, il razzismo. Quando scrivo sono io a creare il mio mondo. Creo il mio gioco intellettuale: la lingua è così interessante. Tutto il resto scompare. Non solo. Per un’operazione alla schiena andata male ora sono piuttosto limitata nei movimenti. Cammino a fatica. Nel mio mondo letterario, invece, sono libera: anche fisicamente».
Ha letto il nuovo libro di Harper Lee? Anche lei un’ultraottantenne, ha aspettato più di mezzo secolo per pubblicare il prequel di “Il buio oltre la siepe”.
«No, non ho letto il libro, ho letto le polemiche. E mi sono fatta l’idea che sotto ci sia qualcosa di losco. Strano che il libro sia uscito dopo la morte della sorella: quella che sapeva tutto. E poi anche se Harper Lee è poco più grande di me - come ha fatto a lavorarci? È quasi cieca: non sente. No, non credo che lo leggerò. D’altronde non sono stata una gran fan nemmeno di Il buio oltre la siepe. O meglio: ho amato il film. Ma era Gregory Peck a renderlo splendido!».
Quali scrittori la interessano oggi? Sente di avere un’erede?
«Gli autori che ho amato sono tutti morti. Alice Walker non sta scrivendo nulla. Gli altri, i giovani, li conosco poco. Colson Whitehead è un ottimo scrittore. O almeno lo era: che fine ha fatto? Ecco: Edwidge Danticat - un’haitiana-americana. È lei la mia scelta».
Vuole dire che il romanzo afroamericano ha perso la funzione sociale che lei teorizzò ai suoi esordi?
«Dico che oggi ci sono pochi scrittori perché le energie vanno altrove. Oggi i giovani afroamericani cantano».
Cantano?
«Raccontano così le loro storie. La forza che mettevano nella scrittura ora va nella musica: nel rap. Spesso non capisco cosa dicono ma riconosco l’energia. Mi sono appassionata a Kendrick Lamar, anche se le sue rime sono così veloci che non capivo una parola. Mi è piaciuto così tanto che ho chiesto che mi mandassero i suoi testi. E ora mi piace anche di più».
Anche i libri sono cambiati: sono elettronici.
«Mio figlio mi ha regalato un iPad. Il primo libro che ho letto su tablet è stata una cosa moderna poi diventata film: Gone Girl . Poi ho iniziato un altro libro, Wolf Hall di Hilary Mantel. Ho letto la prima pagina e mi sono detta no, non posso leggere un romanzo storico su uno schermo. Ho preso il libro di carta, e me ne sono appassionata. Ho cercato anche gli altri suoi libri: The assassination of Margaret Thatcher è fantastico. Però no: non sono una grande lettrice elettronica».
Eppure i suoi audiolibri hanno molto successo. Ed è lei stessa a leggerli.
«All’inizio avevano preso un’attrice. Poi mi è capitato di ascoltarne uno per caso: “Ma quello non è il mio libro! È tutto sbagliato. Il passo. Il ritmo. Non è la mia storia”. Da allora li registro io: anche se è estenuante».
È vero che sta scrivendo le sue memorie?
«Le voleva il mio agente. Ci ho anche provato, ma so tutto di me: mi sono annoiata subito».
Un sorriso. È ora di congedarsi. Fuori piove.
«Dovrebbe vedere quando qui c’è il sole, è una meraviglia. Magari quando avrò finito il mio prossimo libro. Sì, non dovrei dirlo, l’ho già cominciato. Ho scritto quindici pagine. E le assicuro che sono molto buone. Le mie migliori».

il manifesto) e di Federico Rampini (la Repubblica), 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Il manifestoIL PAPA AL CONGRESSO: «BASTA VENDERE ARMI»

di Luca Celada

Alle camere riu­nite del Con­gresso, in pre­ce­denza ave­vano par­lato Chur­chill e De Gaulle, Boris Yel­tsin e qual­che mese fa, con note­vole stra­scico pole­mico, anche Ben­ja­min Nata­nyahu. Non era mai acca­duto però che lo facesse un lea­der reli­gioso come ha fatto ieri il papa nel secondo giorno del suo viag­gio ame­ri­cano. Pre­sen­tato come «il Papa, della Santa Sede» dallo spea­ker John Boeh­ner, è stato accolto con un calo­roso app­plauso dai 435 depu­tati e sena­tori del par­la­mento di Washing­ton a cui ha rivolto un discorso in inglese durato poco meno di un’ora.

Il papa ha rin­gra­ziato per l’invito a par­lare ai rap­pre­sen­tanti «nella terra dei liberi e la patria dei valo­rosi», cita­zione di una delle frasi più reto­ri­che dell’inno nazio­nale che in bocca al gesuita suda­me­ri­cano come Ber­go­glio ha acqui­sito un lieve sospetto di iro­nia, pur pro­du­cendo il primo di diversi applausi che lo hanno inter­rotto. Fran­ce­sco che si è dichia­rato «figlio dello stesso con­ti­nente» ha ripe­tu­ta­mente elo­giato il paese ospite senza rinun­ciare ad allu­dere indi­ret­ta­mente alle sue man­canze. Ha più volte invo­cato ad esem­pio la tra­di­zione demo­cra­tica e civile degli Usa cri­ti­cando allo stesso tempo il com­mer­cio di armi, xeno­fo­bia, disu­gua­glianza e mani­chei­smo che certo riguar­dano non poco gli Stati uniti come l’occidente tutto.

In alcuni pas­saggi il mes­sag­gio di Ber­go­glio è sem­brato indi­riz­zato più diret­ta­mente ancora all’Europa dell’emergenza rifu­giati che ha defi­nito «la più grave crisi dai temi della seconda guerra mon­diale». Par­lando delle mol­ti­tu­dini che si stanno river­sando a nord alla ricerca di vite migliori e mag­giori oppor­tu­nità, il papa ha detto che «non dob­biamo lasciarci spa­ven­tare dal loro numero, ma piut­to­sto vederle come per­sone, guar­dando i loro volti e ascol­tando le loro sto­rie» e «rispon­dere in un modo che sia sem­pre umano, giu­sto e fra­terno». Parole inci­sive nel paese in cui l’attuale front run­ner repub­bli­cano, Donald Trump, costrui­sce con­sensi con­ser­va­tori sulla pro­messa di edi­fi­care un muro sul con­fine mes­si­cano, ma forse rivolte ancor più diret­ta­mente all’Europa dei rigur­giti nazionalistici.

Ad ascol­tare in aula ieri erano pre­senti nume­rosi cat­to­lici (lo sono il 30% circa dei depu­tati) fra cui alcuni pre­ten­denti alla pros­sima pre­si­denza come i repub­bli­cani Chris Chri­stie e Marco Rubio. Il segre­ta­rio di stato e “part­ner diplo­ma­tico” del Vati­cano sul disgelo cubano, John Kerry, cui Fran­ce­sco ha tenuto a strin­gere la mano prima di salire sul podio affian­cato da Boeh­ner e dal vice­pre­si­dente Biden, entrambi cat­to­lici pra­ti­canti. Ai legi­sla­tori di un organo pro­fon­da­mente diviso lungo linee ideo­lo­gi­che il papa ha par­lato dei peri­coli della pola­riz­za­zione e del ridu­zio­ni­smo che divide il mondo in pre­cise cate­go­rie di bene e male, giu­sti e pec­ca­tori aggiun­gendo che la com­ples­sità del mondo con­tem­po­ra­neo con le sue «ferite aperte» esige distin­zioni più sot­tili della sem­plice demo­niz­za­zione dei nemici. «Imi­tare l’odio e la vio­lenza dei tiranni e degli assas­sini è il modo più sicuro per pren­dere il loro posto», ha aggiunto. «È (un mec­ca­ni­smo) che il popolo ame­ri­cano rifiuta».

È stato uno dei pas­saggi più simili dav­vero a una “pre­dica” fatta ai pro­pri ospiti, anzi visti i recenti tra­scorsi di inter­venti ame­ri­cani e di con­flitti utili solo a tra­ghet­tare intere regioni del mondo nel caos, è stato il momento in cui Fran­ce­sco si è avvi­ci­nato al discorso sha­ke­spe­riano di Marco Anto­nio nel Giu­lio Cesare: l’elogio reto­rico di Bruto per evi­den­ziarne i difetti. Non solo, infatti, gli Stati uniti – anche quelli del pro­gres­si­sta Barack Obama — danno scarse indi­ca­zioni di riflet­tere seria­mente sull’opportunità del pro­prio ege­mo­ni­smo geo­po­li­tico, ma il mani­chei­smo è un car­dine fon­da­men­tale della poli­tica e del carat­tere nazio­nale intriso di patriot­ti­smo ed eccezionalismo.

Un con­te­sto cioè in cui le affer­ma­zioni, pur mode­rate rispetto alla recente media di Fran­ce­sco, sono risal­tate mag­gior­mente. Davanti a un pub­blico che com­pren­deva nume­rosi pala­dini repub­bli­cani dello scon­tro di civiltà, il papa cat­to­lico ha rico­no­sciuto le atro­cità odierne com­messe nel nome di dio, aggiun­gendo che «nes­suna reli­gione è immune da forme di estre­mi­smo» e lan­ciando un monito con­tro ogni fon­da­men­ta­li­smo e ogni «vio­lenza per­pe­trata nel nome di una reli­gione, un’ideologia o un sistema eco­no­mico». Il papa non ha nomi­nato il capi­ta­li­smo, ma nella patria di Wall street sono ben note le sue vedute sul libe­ri­smo estremo e a Washing­ton le sue allu­sioni hanno avuto un peso particolare.

Non tutto nel discorso è stato obli­quo rife­ri­mento. Nell’ambito della tutela della vita in tutte le sue forme, il papa ha scelto di esporre senza ambi­guità la sua cri­tica alla pena di morte nel suo ultimo bastione occi­den­tale. Sull’immoralità del com­mer­cio di armi il papa è tor­nato ad inchio­dare l’ipocrisia dell’occidente: «Per­ché armi mor­tali sono ven­dute a coloro che pia­ni­fi­cano di inflig­gere indi­ci­bili sof­fe­renze a indi­vi­dui e societa?» Ha doman­dato. «Pur­troppo, la rispo­sta, come tutti sap­piamo, è sem­pli­ce­mente per denaro: denaro che è̀ intriso di sangue».

Un filo con­dut­tore del discorso è stata la giu­sti­zia sociale come valore asso­luto della poli­tica. «I nostri sforzi devono essere volti a ripor­tare la spe­ranza, ripa­rare le ingiu­sti­zie, man­te­nere gli impe­gni», ha detto il papa, «nello spi­rito di soli­da­rietà e della fra­tel­lanza». «Qual­siasi atti­vità poli­tica deve ser­vire e pro­muo­vere il bene della per­sona umana». «Ne con­se­gue che non può essere sot­to­messa al ser­vi­zio dell’economia e della finanza», ma deve invece espri­mere il «nostro insop­pri­mi­bile biso­gno di vivere insieme nell’unità, per poter costruire uniti il più grande bene comune: quello di una comu­nità che sacri­fi­chi gli inte­ressi par­ti­co­lari per poter con­di­vi­dere, nella giu­sti­zia e nella pace, i suoi bene­fici». Dette in un aula dove anche la tutela pub­blica della salute viene rego­lar­mente denun­ciata come ana­tema socia­li­sta, le parole hanno ancora una volta assunto un peso par­ti­co­lare. Se fos­sero rima­sti dubbi su quale volto del cat­to­li­ce­simo voglia sdo­ga­nare nel suo viag­gio ame­ri­cano, Fran­ce­sco ieri ha scelto di ono­rare la memo­ria di quat­tro ame­ri­cani: Lin­coln, eman­ci­pa­tore degli schiavi, Mar­tin Luther King com­bat­tente per l’uguaglianza, l’intellettuale cister­cense Tho­mas Mer­ton e Doro­thy Day fon­da­trice del movi­mento Catho­lic Wor­ker, mili­tante paci­fi­sta, fem­mi­ni­sta e ope­rai­sta pro­ta­go­ni­sta di lotte sociali dalle suf­fra­gette all’opposizione alla guerra del Vietnam.

La Repubblica«NO ALLA PENA DI MORTE E AL COMMERCIO DI ARMI».
IL PAPA “PROGRESSISTA” AMMONISCE IL CONGRESSO
di Federico Rampini
Washington. «La maggior parte di noi sono stati stranieri. Ricordiamo la regola d’oro: fai agli altri ciò che vorresti sia fatto a te. L’America è stata grande quando ha difeso la libertà e i diritti per tutti, con Lincoln e Martin Luther King». Papa Francesco è il primo pontefice nella storia a parlare al Congresso americano a Camere riunite. Conquista Washington con un discorso appassionato e anche duro: chiede l’abolizione della pena di morte e della vendita di armi, invoca politiche di accoglienza per immigrati e profughi, un impegno contro le diseguaglianze, la lotta al cambiamento climatico. Sono i grandi temi del suo pontificato ma dentro l’aula del Congresso, di fronte ai legislatori della superpotenza mondiale, assumono un peso politico enorme.
Standing ovation”, è unanime l’applauso in piedi al suo arrivo, ma via via che il Papa pronuncia il suo discorso gli applausi diventano più schierati e selettivi. «Un discorso nettamente progressista», lo giudicano a caldo tutti i media americani dal New York Times al Washington Post, da Huffington Post a Politico.com. L’entusiasmo invece è travolgente e incondizionato nella folla che assiste fuori: in 50.000 lo seguono sui maxischermi montati appositamente nel West Lawn, vasto prato sulla collina del Campidoglio nella capitale federale.
Papa Bergoglio ha misurato il giorno prima le affinità elettive con Barack Obama. Ma è un’America diversa quella che lo aspetta al Congresso. Questa è la tana dei leoni, una maggioranza di repubblicani, in piena campagna per la nomination presidenziale: a destra è in voga la xenofobia di Donald Trump, il negazionismo climatico dei Fratelli Koch, il sostegno alla lobby delle armi e alla pena di morte, il rifiuto di politiche fiscali redistributive. Su ciascuno di questi temi il Papa non fa concessioni, non smussa le asperità. Parla davanti a un Congresso dove oltre a senatori e deputati ci sono governatori degli Stati, candidati presidenziali, e tanti Vip loro ospiti. Con una sovra-rappresentazione del mondo cattolico: sono cattolici il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato John Kerry, il presidente della Camera (repubblicano John Boehner) e la capogruppo democratica Nancy Pelosi. 31% di cattolici al Congresso, mentre nella popolazione americana sono il 22%.
American Dream e accoglienza degli stranieri, è il primo tema forte del discorso, Bergoglio lo affronta partendo dalla sua biografia e lo declina parlando di Americhe al plurale. «Milioni di persone sono venute qui inseguendo il sogno di costruirsi un futuro nella libertà. Noi, i popoli di questo continente, non abbiamo paura degli stranieri perché molti di noi lo erano. Ve lo dico da figlio di immigrati, sapendo che molti di voi discendono da immigrati. Migliaia di persone continuano a viaggiare verso Nord in cerca di una vita migliore, opportunità per sé e per i figli. Non è quello che vogliamo noi stessi?».
Prende di mira i quattro mali più gravi del nostro tempo: odio, avidità di denaro, povertà, inquinamento. Salta però un passaggio sul ruolo del denaro nella politica, e c’è un riconoscimento verso l’economia di mercato che viene notato dagli americani: «L’impresa ha una vocazione nobile, per sconfiggere la miseria bisogna creare ricchezza, ma le aziende devono essere al servizio del bene comune». Sulla tutela dell’ambiente il Papa chiama in causa direttamente il Congresso, dove tante riforme dell’Amministrazione Obama si sono arenate: «Non ho dubbio che gli Stati Uniti e questo Congresso hanno un ruolo importante da giocare, questo è il momento di azioni coraggiose per contrastare i più gravi effetti del degrado ambientale causati dall’attività umana».
E’ il passaggio sugli immigrati quello che rende più vistosa la differenza di reazioni. «Non devono spaventarci i loro numeri, dobbiamo guardarli come persone, osservare i loro volti, ascoltare le loro storie, reagire nel modo migliore alla loro situazione ». Dentro l’aula del Congresso solo i democratici applaudono. Fuori, sul grande prato, è un boato di consensi: molti ispanici sono venuti ad ascoltarlo da tutta l’America.
Gelo a destra anche quando il pontefice invoca l’abolizione della condanna capitale: «Chiedo che cessi ovunque nel mondo la condanna a morte, ogni essere umano ha una dignità inalienabile, la società può solo beneficiare dalla riabilitazione dei condannati per crimini ». Scottante l’intervento sulle armi: il Papa non condanna solo il grande traffico internazionale di armamenti ma anche le vendite individuali, un tema tabù per la destra americana allineata con la lobby della National Rifle Association. La destra applaude rinfrancata quando il Papa difende il valore tradizionale della famiglia.
E tuttavia anche qui Bergoglio inserisce un riferimento alla crisi economica, alla disoccupazione, alle diseguaglianze: «I giovani sono sotto pressione, non formano famiglie perché non vedono un futuro di possibilità». Denuncia la «spirale della povertà che intrappola tante persone»: tema centrale dell’Assemblea Onu a cui parlerà oggi. Le Nazioni Unite devono fare un bilancio del Millennium Goal. La Banca mondiale rileva che ci sono 148 milioni di poveri in più, se la soglia della povertà assoluta viene aggiornata.
Un discorso poco “religioso”: l’unico riferimento esplicito alle Scritture è una citazione di Mosé, cioè la figura biblica riconosciuta dalle tre religioni monoteiste ebrei cristiani e musulmani. Il discorso al Congresso si chiude con l’augurio che il Sogno Americano resti fedele alla sua ispirazione originaria: pace, libertà, difesa degli oppressi. Prima di volare a New York il papa celebra messa in spagnolo alla chiesa di San Patrizio dove sono radunate famiglie povere. Lì torna sul tema che gli è più caro: «Il figlio di Dio venne al mondo come un homeless . Seppe cosa voleva dire cominciare la vita senza un tetto ». Poche ore prima Los Angeles, metropoli glamour della ricchissima California, aveva dovuto prendere una misura senza precedenti: la proclamazione di uno stato d’emergenza per l’aumento degli homeless.
«L’Arabia Saudita lo ha arrestato quando aveva 17 anni per aver partecipato a una manifestazione. E ora è arrivato il verdetto: pena capitale. Le cancellerie occidentali protestano, ma nessuno ha il coraggio di spingersi oltre: la vita di un ragazzo vale meno dei ricchi».

La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)

Il caso fa le cose per bene: qualche giorno prima che Ali Mohammed Al Nimr, 20 anni, nipote di un oppositore sciita del regime dell’Arabia Saudita, fosse condannato a essere decapitato e poi crocifisso fino a putrefazione avvenuta, Faisal Bin Hassan Trad, l’ambasciatore saudita, è stato eletto a Ginevra presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite. Da parte di questa istituzione sempre più inefficace è una forma di umorismo nero un po’ speciale. Un umorismo color petrolio. L’Arabia Saudita, da sempre governata dalla stessa famiglia, emette sentenze di morte a ogni piè sospinto. È il paese che detiene il record mondiale di esecuzioni capitali. Secondo i media e le associazioni per i diritti umani, quest’anno ci sono state 133 esecuzioni. Il crimine di questo ragazzo (al momento dell’arresto aveva 17 anni) è di aver partecipato a una manifestazione contro il regime. La sentenza supera i limiti della comprensione. È un assassinio. Quel ragazzo non ha ucciso, né violentato, né rubato. Ha solo partecipato a una manifestazione nel corso della “primavera araba”. Se sarà giustiziato, le Nazioni unite dovrebbero perseguire l’Araba saudita. Ma non lo faranno.

Che cosa fare in questi casi? Lasciar correre, stare zitti, tenere un profilo basso per non perdere qualche contratto? Starsene dietro alla propria vigliaccheria e distogliere lo sguardo? Ma è inammissibile. Per giudicare i governanti che hanno commesso crimini contro l’umanità c’è la Corte penale internazionale: perché non viene denunciato chi amministra la giustizia in quel paese?
Già la condizione femminile è tra le più scandalose del mondo civile. Il fatto di esprimere un’opinione, di osare opporsi a un sistema arcaico, ancorché perfettamente aggiornato sotto il profilo tecnico, è punito con la morte. Ma nel caso del giovane Ali, la punizione è già cominciata: prima sarà decapitato, poi crocifisso e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione. Immaginiamo che cosa sta passando quest’uomo nell’anticamera della morte: è già mezzo morto, morto di paura, morto di calvario anticipato. È diventato il simbolo della vittima la cui vita è stata confiscata da un regime in cui i diritti umani rientrano nella sfera del virtuale.
Anche se quello Stato ascoltasse le proteste internazionali e annullasse la condanna, resterà il problema dell’esistenza di un sistema medievale che non si può né criticare dall’interno né esautorare dall’esterno. Perché è potente, molto potente. La ricchezza gli procura i miliardi sufficienti per comprare qualsiasi cosa, dai beni materiali alle coscienze. Nessun paese ha voglia di contrastare l’Arabia Saudita. Sì, c’è l’Iran, ma vorrebbe soppiantarla per diventare il guardiano dei luoghi sacri e dei diritti umani non gli importa un fico. Tutti i paesi occidentali hanno progetti di contratti con l’Arabia e non vogliono sacrificarli per la vita di un ragazzo. Certo diversi capi di Stato hanno chiesto di annullare l’esecuzione di Ali, ma non vogliono spingersi più in là di così. In quello risiede la potenza dell’Arabia Saudita. Fa quello che vuole e non dà retta a nessuno.
Questa sentenza ricorda stranamente la condanna e l’esecuzione del grande poeta sufi (mistico) del decimo secolo Al Hallaj. Condannato a morte per aver detto, parlando del suo amore per Dio, “Ana Al Haq” (Io sono la Verità), il suo corpo è stato evirato e crocifisso. È marcito al sole. Al Hallaj era impaziente di raggiungere Dio, perché la sua passione per la divinità l’aveva fatto rinunciare ai beni e ai piaceri materiali della vita. Ma se le autorità saudite hanno deciso di crocifiggere il giovane Ali non è in omaggio al poeta sufi ma semplicemente per crudeltà e arroganza. La loro potenza è nera come l’oro che li ricopre e che li rende così disumani.
«Le sfide del cristianesimo la minaccia dell’Is il ruolo femminile e il pontificato di Francesco Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa dedicato a “Misericordia e perdono”». La Repubblica,

9 settembre 2015

«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore

Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».

Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».

I monaci dal V secolo fecero scempio dell’arte pagana Erano i talebani del momento

Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci – lo dico con dolore, mi strappa il cuore – ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola “monaco”: designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».

Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel “Libro dei testimoni”, lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che – da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi – in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».

Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».

La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordina- ri, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad , affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».

Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: “Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Così li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra”. Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna — giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione — ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».

Enzo Bianchi: «Critichiamo l’Islam ma poi emarginiamo ancora le donne»

I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto.
«Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».

Il convegno che si apre oggi è dedicato a “Misericordia e perdono”: sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».

«Di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali».

La Repubblica, 7 settembre 2015

ERA prevedibile, anzi attesa, una dichiarazione critica di esponenti della Conferenza episcopale sul disegno di legge sul riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La discussione è benvenuta, secondo la buona regola laica per cui tutte le opinioni meritano rispetto.

Con l'unica condizione che non si pretenda di attribuire all’una o all’altra un valore aggiunto legato all’autorità, vera o presunta di chi l’ha manifestata. Una questione a parte, e di non poca rilevanza, è rappresentata dal senso che oggi assume la ben nota frase di Papa Francesco, riferita alle persone omosessuali, «chi sono io per giudicare? ».

Il vero problema, e l’incognita, riguardano la cultura politica e la sua consapevolezza di quale sia il significato profondo ormai assunto dal tema dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso. La prima mossa è scoraggiante. Nella ricerca affannosa di un compromesso, si è fatto riferimento alla formula “formazione sociale specifica” per segnare una distinzione tra queste coppie e quelle eterosessuali unite in matrimonio. Ma questo espediente semantico è una forzatura, perché di formazioni sociali parla l’articolo 2 della Costituzione e sotto questa espressione stanno tutte le coppie, come peraltro aveva messo in evidenza, nel 2010, la Corte costituzionale. «Per formazione sociale s’intende ogni forma di comunità, semplice o complessa. Idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia».

Sono parole non equivoche e quelle sottolineate mettono in chiara evidenza che, in un quadro di dichiarato pluralismo, famiglia e quelle che oggi chiamiamo “ unioni civili” appartengono alla stessa categoria. Inventarsi la “formazione sociale specifica” è un travisamento della Costituzione e la sua vera finalità, dovendo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non è quella di introdurre una distinzione, ma di riaffermare una discriminazione. Così la cultura politica si chiude in un misero orizzonte, conferisce dignità alle peggiori pulsioni e in questo modo si nega al mondo e non tiene in nessun conto una vastissima discussione giuridica che, pure in Italia, ha dato contributi di qualità. Forse, per rendersi conto dei rischi che si corrono, bisognerebbe dare un’occhiata in giro, cominciando da una frase della sentenza con la quale la Corte Suprema degli Stati Uniti, il 26 giugno scorso, ha riconosciuto l’accesso al matrimonio anche per le coppie omosessuali. «Ogni persona può invocare la garanzia costituzionale anche se larga parte dell’opinione pubblica non è d’accordo e il potere legislativo rifiuta di intervenire», perché bisogna «sottrarre le persone alle vicissitudini legate alle controversie politiche ». Si può discutere questa affermazione, ma non eludere la questione che solleva: di fronte ai diritti fondamentali della persona la politica deve essere capace di non rimanere prigioniera delle proprie convenienze, pena la propria delegittimazione e l’intervento di altri organi costituzionali.

Gli Stati Uniti sono lontani? Ma l’Europa è vicinissima, visto che il 21 luglio, quindi meno di un mese dopo la sentenza americana, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per il ritardo con il quale ha finora negato riconoscimento alle coppie di persone dello stesso sesso. L’argomentare di questa sentenza squalifica l’espediente linguistico adottato al Senato, visto che fin dal 2010 la Corte europea ha operato un progressivo avvicinamento tra diritti della coppia coniugata e diritti delle coppie di persone dello stesso sesso, ritenute entrambe meritevoli della tutela accordata alla “vita familiare” dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed è bene aggiungere che questa dinamica è stata accelerata dall’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha fatto venir meno il riferimento alla diversità di sesso sia per il matrimonio che per altre forme di costituzione della famiglia.

Ora il Parlamento non è libero di riconoscere o no le unioni tra persone dello stesso sesso (l’Italia è già stata condannata a risarcire i danni alle coppie che hanno fatto ricorso a Strasburgo). Decidendo all’unanimità, la Corte europea ha sottolineato che siamo in presenza di diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il legislatore italiano ha il “dovere positivo” di intervenire e la sua discrezionalità è ristretta, poiché ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) ha già garantito quei diritti. L’importanza della questione discende dal fatto che siamo di fronte a diritti dai quali dipende la vita delle persone, che non può essere lasciata nell’incertezza o affidata a semplici patti privati o regole patrimoniali. Solo così può essere avviata la cancellazione di una inammissibile discriminazione, fondata com’è solo sull’orientamento sessuale.

Questi riferimenti sintetici dovrebbero essere sufficienti per mostrare che i senatori, per essere una volta tanto coerenti con i criteri europei, hanno una strada ben segnata per quanto riguarda tempi e contenuti, come peraltro avevano già fatto moltissimi studiosi italiani. Piuttosto vi è un altro punto importante nella sentenza europea, dove si dice che i parlamenti nazionali non hanno lo stesso dovere stringente d’intervenire per quanto riguarda l’accesso al matrimonio delle coppie di persone dello stesso sesso. Si sottolinea, però, che questa più ampia discrezionalità dipende dal fatto che ancora solo 9 Paesi su 47 hanno riconosciuto a queste coppie l’accesso al matrimonio. Dunque, non da una immutabile natura del matrimonio. E, poiché si insiste sulla necessità di seguire le dinamiche sociali, il ricorso all’argomento quantitativo significa che, crescendo il numero dei Paesi che introducono il matrimonio egualitario, diminuisce la discrezionalità dei parlamenti nazionali se riconoscerlo o no. Perché aspettare? Il Parlamento italiano fu lungimirante nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, già nel 2013 proprio al Senato era cominciata la discussione sul matrimonio egualitario, nel 2013 e nel 2015 la Corte di Cassazione aveva aperto proprio in questa direzione, sì che diventa sempre più debole il riferimento ai deboli argomenti della Corte costituzionale.

Non è possibile, allora, introdurre un riconoscimento delle unioni civili che si presenti come una chiusura, come una concessione basata su una discriminazione. Non cediamo a un realismo regressivo. Ha ben ragione uno studioso attento, Andrea Pugiotto, nel ricordarci che «il paradigma eterosessuale del matrimonio crea incostituzionalità, perché oppone resistenza non a un capriccio, né a un desiderio, né ad una “(innaturale) pretesa”, ma al diritto individuale alla propria identità personale».

Ma, soprattutto, si vorrebbe che la discussione muovesse dal suo innegabile presupposto — l’essere di fronte al più profondo tra i sentimenti che possono legare due persone. E allora politici, giuristi, cardinali abbandonino ogni ipocrisia e siano sensibili all’appello rivolto a tutti da un poeta, W. H. Auden. “La verità, vi prego, sull’amore”.

«In Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”».

La Repubblica, 13 agosto 2015

«Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». Queste parole di Hélder Câmara oggi suonano al contempo attualissime e superate: almeno in Italia, ormai sono pochissimi quelli che chiamano “santo” chi sfama i poveri — al massimo è un buonista — mentre, con il trionfo del pensiero unico neo-liberista, l’epiteto “comunista” è usato solo da alcuni ambienti della destra americana nei confronti di papa Francesco.

Eppure, con il fenomeno dell’immigrazione siamo di fronte a un paradosso simile: chi ha responsabilità di governo e chi dall’opposizione confida di averne a breve continua a parlare di “emergenza” per un fenomeno che ormai risale ad almeno una ventina d’anni — o abbiamo già dimenticato le navi stracolme di albanesi che approdavano in Puglia? — e a latitare in azioni politiche a medio e lungo termine, confidando che il tessuto sociale e le reti della solidarietà umana suppliscano alle loro carenze. La chiesa e molti cristiani — realtà ben più ampia sia della Cei che del Vaticano — sono da sempre in prima linea in questa carità attiva sul territorio e cercano di porsi di fronte all’umanità ferita senza chiedere passaporti né badare a identità etniche o culturali. Eppure quando si occupano dei poveri di cittadinanza italiana passano inosservati, come se la loro azione fosse dovuta e scontata, mentre quando si chinano su fratelli e sorelle in umanità di altri popoli e paesi, vengono sprezzantemente invitati a farsi carico dei disoccupati di “casa nostra”.

Purtroppo in Europa abbiamo perso il valore della fraternità, valore generato dal cristianesimo e conquistato anche a livello politico nella modernità. Siamo tutti fratelli perché tutti esseri umani e come tali portatori di diritti che, nella loro stessa definizione, sono quelli “dell’uomo”. Noi invece siamo giunti a considerarli tali solo per i “cittadini”, escludendone gli “stranieri” come se non ne fossero degni. Sì, quando la fraternità viene meno, cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso: una paura che va presa sul serio ma che non va alimentata per farne uno strumento di propaganda politica. Va invece razionalizzata, contenuta e placata con un’autentica governance dell’immigrazione, con un volontà fattiva di collaborazione con i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, con una politica che sappia interagire con i Paesi da cui hanno origine i flussi più intensi di emigrazione. Certo, non possiamo accogliere tutti, ma la solidarietà umana ci spinge a superare i limiti delle nostre comodità e ad accogliere l’altro per quello che siamo capaci, senza innalzare muri.

Questa “emergenza” non è tale: è un fenomeno che durerà a lungo ed è contenibile nei suoi effetti solo con uno sforzo di solidarietà. La sua portata, del resto, è tale che mette in crisi ogni tentativo di respingerlo con la forza. L’Europa sembra in piena confusione, non più sicura dei suoi valori umanistici, delle sue lotte secolari per il riconoscimento dei diritti di ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi. Ritrovare questi principi decisivi non è questione solo cristiana, è innanzitutto umana e, proprio per questo, cristiana: l’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti.

Su queste tematiche a volte la chiesa suscita ostilità quando parla e agisce con la parresia dei profeti e di Gesù di Nazareth. Il Vangelo per molti sarà utopia irrealizzabile, ma non pone condizioni o limiti al comandamento di servire affamati, assetati, stranieri, carcerati, ignudi, ammalati… Parla invece di “farsi prossimo”, di andare incontro a chi è nel bisogno, fino al paradosso di “amare i nemici”. Queste esigenze radicali poste da Gesù possono dar fastidio a molti, ma chi professa di essere suo discepolo non può fare a meno di sentirle come appelli ineludibili rivolti proprio a se stesso. Il cristiano si saprà sempre inadeguato nel mettere in pratica queste parole, sovente dovrà riconoscere che il proprio comportamento quotidiano le contraddice, ma non potrà mai accettare che carità fraterna, solidarietà, accoglienza siano variabili da sottomettere alle necessità della realpolitik.

Così un cristiano, di fronte al dramma di milioni di esseri umani vittime della guerra, della fame, della violenza, della cecità anonima della finanza e del mercato, della “politica” di potere, proverà vergogna per non riuscire a far nulla nemmeno per quelle poche migliaia di disgraziati che giungono fino al suo Paese, ma non potrà tacere e non gridare “vergogna” a chi chiude gli occhi di fronte al proprio fratello in umanità che soffre e muore, tanto più se chi si astiene dall’agire ha responsabilità, onori e oneri di governo.

Sì, come ha detto papa Francesco, «respingere gli immigrati è un atto di guerra!». Questo non è un proclama politico: piaccia o meno, è un grido di umanità.

Priore della comunità monastica di Bose

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Quando la fraternità viene meno cresce la paura dello straniero, dello sconosciuto, del diverso Va razionalizzata

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L’accoglienza è una responsabilità umana perché l’altro è uguale a me in dignità e diritti

Una testimonianza di manniana "laica intelligenza del divino" in un'accorata analisi del gesto di Papa Ratzinger.

La Repubblica, 13 febbraio 2013

Il gesto di Benedetto XVI ha la potenza e la debolezza di un atto solitario, non del tutto consequenziale, comunque extra- ordinario. Alcuni l’hanno chiamato rivoluzionario, ma le rivoluzioni rovesciano ordini esistenti, politici o ecclesiastici, e neanche loro hanno la virtù della stabilità: sempre secernono controrivoluzioni, Termidori, perfino restaurazioni. Tuttavia hanno un’immediata vocazione a divenire l’anno-zero di una Storia in mutazione: nascono nuove istituzioni, nuovi sovrani, che della rivoluzione sono figli anche quando la disconoscono.

Convocare il Concilio Vaticano II fu una rivoluzione, non meno contrastata di altre. Non così le dimissioni del Papa. Ogni parola della sua dichiarazione ha un peso particolarissimo: è piombo e insieme calamita, preme e magnetizza, è forte della propria debolezza. Non perché dia inizio a mutazioni subito visibili dell’istituzione Chiesa: la svolta c’è ma è tettonica, avviene sotto la crosta terrestre, chi l’imprime non necessariamente l’ha voluta e la vuole. È quello che la rende così strana, sconcertante. Lunedì abbiamo visto il Pontefice ritrarsi come il protagonista dell’Habemus Papam di Nanni Moretti. Ma attorno a lui non s’accampavano che volti imperturbati, senza increspature. Angelo Scola, sapendosi possibile successore, si concedeva a fedeli e giornalisti e già sopiva, troncava. Antiche abitudini erano lì, pronte a cancellare le rughe: «È per il bene della Chiesa... State tranquilli... Dio ci guida...». Pareva un assai ordinario democristiano. Anche questo non escludiamo: che la svolta tettonica venga presto minimizzata, sommersa. Quante volte diremo, negli anni futuri: quel che accade vanifica il graffio che fu la Grande Rinuncia. Polverizza la laicizzazione della Chiesa che il graffio in qualche modo e magari involontariamente presagiva. È inevitabile che le acque si richiudano, sopra il folle volo che ha sigillato la navigazione papale: il folle volo di quel «le mie forze non sono più adatte», vires meas ingravescente aetate non aptas.
È fatale che la faglia sia ricucita, proprio perché intravista sotto forma di inaudito scoppio di verità. Forse ciascuno di noi si dirà, come Montale negli Ossi di Seppia: ho visto anch’io, andando in un’aria di vetro, «compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco». Ma siccome non dura, il vuoto, presentiremo anche il seguito: «Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto / Alberi case colli per l’inganno consueto. /Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto / Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».

L’inganno consueto è l’ipocrisia dei «sepolcri imbiancati» da scribi e farisei, nel Vangelo di Matteo. Come potrebbe essere diversamente, se teniamo a mente la storia e le opere di questo Papa? È facile parlare di svolte, ma quella vera, che toglie al Vaticano il potere temporale e gli restituisce l’enorme suo peso spirituale, ancora non è avvenuta. Non avvenne dopo la rivoluzione francese della laicità, cui la Chiesa rispose con l’assolutismo, e infine con il dogma dell’infallibilità. Non a caso il cardinale Martini denunciava un ritardo di 200 anni. Il potere temporale sopravvive mutando forme, come Proteo. Oggi la forma è quella dei valori non negoziabili, o supremi. E delle leggi naturali, di cui la Chiesa si erige a custode: come se esistesse un quid che trasforma la legge – il nòmos sempre rinegoziato – in physis immodificabile dall’uomo (la nascita, la morte, il matrimonio infine fra uomo e donna: un sacramento, per i cattolici, solo a partire dal 1439). Oppure il potere temporale s’afferma nella battaglia sulle radici cristiane d’Occidente e d’Europa, con effetti tragici sui cristiani in Medio Oriente.

Non è stata proficua questa lotta in favore della legge di natura o delle radici cristiane, per il trono petrino. La Chiesa precipita in Europa (nel solo ultimo anno: mille preti in meno, unitamente a un clero sempre più anziano). E perduta la Spagna non le rimane che l’Italia, ultimo bastione dove la laicità, chiamata laicismo per degradarla a dottrina, a credo, non ha da entrare. Per questo è difficile vedere nella rinuncia papale una laicizzazione della Chiesa di Roma. Resta l’inaudito delle dimissioni, e di quelle parole che uscivano lente, come da un respirare ingombrato da commozione o stanchezza.

Resta l’immagine di una solitudine che desta ammirazione ma inquieta, anche. Un ultimo volo della nave di Ulisse, forse: di chi nel suo legno, solo, si getta per l’alto mare aperto. Un presentimento di pericoli non detti. Una serietà al tempo stesso molto spericolata, molto romantica, molto tedesca. Un Papa italiano non oserebbe questo: il nostro non è un Paese romantico. Non sarà una rivoluzione, ma nulla sarà più come prima: una mossa simile, per la prima volta del tutto libera, non forzata da nemici esterni o interni, desacralizza per forza di cose il papato.

Se ci si può normalmente ritirare e non essere più Papa, vuol dire che non c’è più identificazione totale e perenne, tra la persona e la funzione. Sommamente conservatore, Benedetto XVI inaspettatamente innova, quasi avesse intuito le insidie stesse del sacro. La desacralizzazione toglie il coperchio sul santo, sul vero. L’ammissione di estrema umanità, di fallibilità, è immersione-immedesimazione nella kènosis che svuota. Il sacro copre, non disvela. Distrugge l’idolo, e le vaste cupole, e le così sfarzose, troppo imponenti mitre dei vescovi. Quel che l’atto papale lascia in eredità è il mistero di Nicodemo e del vento così come glielo racconta Gesù nella clandestinità d’un incontro notturno: non sappiamo da dove venga né dove vada, ma può darsi che ti faccia rinascere dall’alto. Non appropriato (forse inelegante) è stato a mio parere il commento del cardinale di Cracovia Stanislaw Dziwisz. Citando Giovanni Paolo II, di cui fu segretario personale, ha stabilito, lunedì: «Dalla croce non si scende». Chi, e con quale autorità può dire una cosa del genere? Ammettere di «non farcela », fisicamente o esistenzialmente, non è meno eroico del martirio-testimonianza di Giovanni Paolo II. È un umanissimo grido d’impotenza, uno scendere i gradini del potere che sortisce l’effetto contrario: innalza. Enzo Bianchi dice che è un dono: «Una volta cessato l’esercizio del ministero, un altro può continuarlo e la persona che lo ha esercitato in precedenza scompare, diminuisce, si ritira».

È quanto fece Giovanni Battista. Forse chissà, questo Papa si è sentito, nel maturare la scelta di diminuirsi, più che mai vicino al Battista. L’invito a non scendere dalla croce non lo si rivolge neanche a Dio, se è vero che perfino Lui, prima del consummatum est, grida, si torce, e ha sete, e recita il salmo disperato di chi si sente abbandonato dal Padre che prometteva onnipotenza. Proprio Ratzinger, che sembrava impersonare il potere papale più arcigno, confessa di essersi trovato nella condizione più umana che si possa immaginare: quella della solitudine della coscienza, sola di fronte al Padre eterno, senza alcuna autorità terrena che potesse dirgli cosa doveva fare, e dove andava il vento.

Una riflessione difficile ma necessaria se è vero che le radici della crisi affondano in terreni profondi. A proposito di un “manifesto" di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, e della discussione che ha suscitato.

L’Unità online, 22 dicembre 2012

La crisi della democrazia ha la sua radice più profonda in una vera e propria «emergenza antropologica». È dunque dal paradigma antropologico che bisogna prendere le mosse, per ripensare compiti e finalità della politica. Cercare soluzioni alla crisi attuale, che non è soltanto crisi economica e sociale ma crisi di senso, significa cercare di costruire una «nuova alleanza» fra credenti e non credenti, in vista di un «umanesimo condiviso». È una consapevolezza che nutre l’azione della Chiesa italiana, intenta a ridisegnare la propria presenza pubblica nella vita nazionale, ma anche il percorso del partito democratico, la cui identità prova a definirsi nella confluenza di cultura d’ispirazione religiosa e cultura laica, e che giustifica la ricerca comune di una nuova laicità all’altezza delle sfide del nostro tempo.

Questa è la cornice, assai impegnativa, tracciata dalla lettera aperta apparsa poco più di un anno fa su Avvenire e sull’Unità, a firma di quattro studiosi di provenienza marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti, Vacca, per i quali si è già trovata l’etichetta di marxisti ratzingeriani. A distanza di un anno, la lettera è divenuta un libro, che raccoglie solo parte (significativa) delle reazioni vivaci suscitate dal documento. Il segno complessivo è di interesse e partecipazione, anche se non mancano obiezioni e esigenze di approfondimento: Emma Fattorini, ad esempio, lamenta la scarsa attenzione dedicata alla questione femminile; Pasquale Serra chiede se non si corra il rischio di far coincidere il religioso con la funzione politica della Chiesa; Luca e Paolo Tanduo avanzano invece dubbi sulla capacità del Pd di ospitare un dialogo su temi bioetici e valori non negoziabili, mentre Claudio Sardo sottolinea la distanza alla quale deve tuttavia mantenersi la mediazione politica rispetto ai valori.

I quattro autori, d’altra parte, non hanno scelto il terreno più facile su cui incontrare le posizioni della Chiesa cattolica. Benché la questione antropologica investa anche il piano dei diritti sociali declinanti e dei modelli economici dominanti, non è su questo versante che viene condotto il confronto. I temi su cui la lettera chiama a riflettere sono infatti (proposti con le stesse parole di Benedetto XVI) da un lato la critica del relativismo, cifra dominante del nostro tempo, dall’altro la difesa dei valori non negoziabili, bussola che il papa chiede di adottare per tutte le questioni che attengono alla difesa della vita, dal concepimento fino alla morte naturale.

È giusta questa strada? Forse sì, se si tratta di correggere la «deriva» individualistico-radicale e la «torsione nichilistica» dei processi di secolarizzazione: non è un caso che si avverta così tanto, in queste pagine, la presenza di Augusto Del Noce, che tempo fa indicò nel relativismo soggettivista e nichilista l’approdo autodistruttivo (per lui inevitabile) del progressismo di sinistra. Forse no, però, se questa correzione viene proposta solo come un argine, come una reazione e non come una costruzione comune, affidata alla responsabilità degli uomini.

A proposito di responsabilità, il libro offre già in premessa un terreno di verifica: “una vita che nasce – vi leggiamo – rappresenta un valore in sé fin dal suo concepimento per la responsabilità che conferisce a ciascun individuo adulto di accoglierla, tutelarla, educarla e seguirla con amore e con cura fino alla sua fine”. Riprenda o no posizioni del magistero della Chiesa, l’affermazione richiede un impegno concettuale non piccolo: stanno infatti insieme, l’uno a fianco all’altro, l’essere «in sé» e l’essere «per-altro» (cioè per la responsabilità) del valore: perché non sia una contraddizione, ci vuole una filosofia a dimostrarlo. E ci vogliono indicatori di direzione: il valore vale perché investito dalla responsabilità che si accende per esso, o la responsabilità consegue soltanto al valore? Mentre quest’ultima affermazione suonerebbe dogmatica, e avrebbe bisogno di tutto un sistema di pensiero a sostegno, la seconda farebbe invece maggiore affidamento all’azione umana, e darebbe molto più spazio e fiducia all’idea, proposta dagli autori (e di grande spessore), di una «società educante».

Certo, una simile società non potrebbe non avere in vista la verità, e dovrebbe quindi accogliere la critica del relativismo, ben distinto dal pluralismo, condivisa dagli autori e in tutti gli interventi raccolti nel libro. Ma la verità, a sua volta, va forse concepita come un abito, o un ethos, piuttosto che come una proposizione o un dogma (immediatamente traducibile in obbligo giuridico): si può dare torto a Kelsen, che giudicava indissolubile il nesso fra democrazia e relativismo, perché la democrazia può avere rapporto con la verità. Ma quale verità? Anche in questo caso due son le strade, una guarda avanti e l’altra indietro: si tratta di un’arcigna verità che precede e fonda, o di una verità che accompagna e segue, che sta tra le mani degli uomini e che è perciò ancora da fondare, ancora a venire?

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