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«Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo». Già, ma si tratta di capire quale Stato, espressione di quali forze sociali, con quale democrazia. La Repubblica, 21 aprile 2016
Sono passati quasi vent’anni da quando scrissi “L’uomo flessibile”, uno studio sui cambiamenti nell’economia e nelle condizioni del lavoro, e la flessibilità a breve termine, che già a quel tempo iniziava a erodere il nostro lavoro, è aumentata e, anzi, è andata peggiorando sempre di più. I cambiamenti a cui stiamo assistendo nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media, soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo le condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di flessibilità.

Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego.

Quella che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità. Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la situazione.

Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno. Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità. Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo faber, l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima.

Il lavoro, come la produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si basi sul lavoro part- time, o sull’assenza di lavoro, come fonti alternative da cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini.

La questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di lavoro”. La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro, ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di lavoro.

In Gran Bretagna stiamo realizzando che ciò è un problema. Consideriamo il caso delle nostre acciaierie. Di fronte alla crisi il governo dice: «Noi non abbiamo alcuna responsabilità a riguardo, sono problemi vostri». Non sono d’accordo. Il governo ha una responsabilità verso questi lavoratori (per esempio quei settori della Tata Steel che stanno chiudendo), semplicemente perché il lavoro è una risorsa. Il governo dovrebbe aiutarli a mantenere i loro stipendi, aiutarli a trovare un nuovo lavoro, perfino acquistando l’intera Tata Steel per per fare in modo che i lavoratori vadano avanti. Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa essere fronteggiato dallo Stato.

Non sono un tecnofobo. La mia riflessione ha molto a che fare con i lavori che ho condotto, con i miei studenti, presso la London School of Economics.

È vero che la robotica sta sostituendo certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine digitali nel lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come l’idraulico, l’elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.

Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori delle classi medio-basse.

Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato. Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una macchina. Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.

«La battaglia di un medico, l’università, il movimento di intellettuali a spronarlo. La Rai. Tutti insieme per restituire dignità a migliaia di malati, eppure trattati come bestie».

Il Fatto Quotidiano, 18 aprile 2016 (m.p.r.)

Niente Basaglia senza l’apporto di “intellettuali, scrittori, editori, giornalisti e artisti che dedicarono tempo e talento alla lotta per il cambiame nto” scrive John Foot, docente di Storia moderna italiana presso lo University College, nella “Repubblica dei matti”. E niente Basaglia, aggiungiamo noi, senza l'apporto della Rai che seguì le vicende del manicomio di Gorizia raggiungendo l'apice di ascolti (10milioni di persone) con lo speciale di Tv 7 I giardini di Abele di Sergio Zavoli. Che iniziava così “I malati di mente li troviamo sempre in fondo a un viale di periferia, forse perché la loro immagine non turbi la nostra esistenza...”.

La Rai che nel 1967 svolge a pieno il ruolo di servizio pubblico raccontando la grande intuizione di Franco Basaglia, direttore del manicomio di Gorizia che, al termine di una profonda rivisitazione del significato di malattia mentale, dell'esclusione sociale che porta con sé, pervase il mondo culturale e politico fino all'approvazione nel'78 della legge 180 e alla chiusura dei manicomi. «Un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali... di tutto ciò che anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità».

Basta con le sevizie, gli orrori a cui erano condannati negli ospedali psichiatrici, paragonabili a lager nazisti. «Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo... i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso... nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere». È l'indelebile ricordo che Eugenio Borgna ex da direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara affida al collega Antonio Gnoli. Ma una volta abbattuti i muri dei manicomi restavano da abbattere, quelli, forse, ancor più pericolosi, i muri invisibili: quelli culturali.

Un esempio che viene ricordato da John Foot è il dopo il terremoto dell’Aquila, quando la protezione civile decide di «costruire una tendopoli dedicata ai servizi psichiatrici e ai loro pazienti, e solo a loro, ben distante dalla città per timore che in mezzo ai comuni cittadini potesse creare problemi nella gestione dell’emergenza. Il responsabile del servizio, Vittorio Sconci aveva risposto che non se ne parlava, che in Italia la salute mentale, per legge, non si persegue rinchiudendo o isolando i pazienti in strutture apposite, ma favorendone il reinserimento nella comunità; quindi anche i matti avrebbero dovuto essere accolti nelle tendopoli, come tutti».

La grande utopia di Basaglia: dare voce al silenzio di quegli sguardi persi nel nulla del dolore e dell'impotenza che si intravvedevano tra le inferriate. «La più grande rivoluzione italiana», come la definisce la storica Vanessa Roghi riconoscendo a Franco Basaglia il merito di essere stato il più importante intellettuale della storia dell'Italia repubblicana. Tutto inizia nel 1961: Franco Basaglia, il “filosofo” come veniva definito negli ambienti dell'Università di Padova, diventa direttore del manicomio di Gorizia e per la prima volta furono aperti i reparti, i malati partecipavano alle assemblee, e tornarono in possesso dei loro oggetti personali. Gli amministratori iniziano a sentire come propria la condizione in cui vivono i malati.

Basaglia, spiega Foot, ha bisogno di farsi capire dal mondo esterno che ospita gli ospedali. Sente su di sé l'ostilità di Gorizia che toccherà l'apice nel 68 quando un paziente tornato a casa per un giorno uccise la moglie. La reazione dell'opinione pubblica fu durissima. Basaglia lasciò l'ospedale di Gorizia per quello di Trieste, i suoi collaboratori si divisero tra alcune città e Paesi del sud del Mondo. Se qualcuno gli avesse chiesto cosa fosse l'utopia avrebbe risposto, per dirla con Eduardo Galeano: «È come l'orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L'orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l'utopia? A questo: per continuare a camminare». Chiudere i manicomi per lui era un imperativo: la libertà è terapeutica. E la legge 180 restituisce finalmente il diritto di cittadinanza alle persone con disturbi mentali. «Se volete vedere una realtà dove si elabora un sapere pratico, andate a Gorizia» disse Jean-Paul Sartre.

Una legge che pur restando una pietra miliare, ancora oggi fatica nella sua completa attuazione. Chi sembra aver fatto sua l'affermazione di Muriel Rukeyser: «Dicono che il mondo è fatto di atomi ma il mondo è fatto di storie che permettono di convertire il passato nel presente, di trasformare il distante nel vicino» è Ernesto Buondonno con il libro Frammenti. Piccole storie di psichiatria edito dalla rivista nazionale di psichiatria democratica. A 90 anni, lo psichiatra seguace di Basaglia, primario e direttore anche del manicomio di Fermo, con la penna dell'umiltà intinta nell'inchiostro dell'umanità, racconta la drammatica e straordinaria esperienza di liberazione dei reclusi.

Storie per imparare a riconoscere la grandezza nascosta nelle piccole cose, scritte «tenendo un occhio nel microscopio e un altro nel telescopio». Protestava da molti anni per essere dimesso. «Un giorno un infermiere lo mise alla prova: esci, vai via» gli disse. Lui si avvicinò al cancello aperto, si fermò perplesso e poi rientrò. In manicomio veniva considerato un ribelle irrecuperabile tanto che una volta un direttore gli disse: «Tu sei il più matto di tutti, vedi quell'albero? Va a parlare con lui io non ti ascolto». Ma non era affatto stupido, non voleva essere cacciato come un cane, voleva essere dimesso con tutte le regole e le tutele. Era refrattario ad una vita senza amore e speranza. La concreta liberazione dal manicomio prevedeva una adeguata rete di servizi che si sarebbero fatti carico di lui. Non era una vaga utopia. Lui aveva chiara la distinzione tra liberazione e abbandono». Dopo molti anni, Buondonno, lo incontra in banca. Dopo aver parlato del più e del meno prima di salutarsi, lui rivolgendosi alla cassiera disse: «Trattate bene questo dottore, è mio amico, mi raccomando». Colsi nella sua voce l'espressione premurosa verso un amico anziano. Quella grande esperienza rivoluzionaria non finirà mai finché resterà viva la capacità di conservare la dignità di emozionarsi e sbalordirsi”.

«Abbiamo perso la speranza e non vediamo quella degli altri a cui resta solo la religione» La provocazione dello studioso francese Jean Birnbaum, autore di “Un silence religieux” (Seuil), intervistato da Fabio Gambaro. La Repubblica, 15 aprile 2016

«Anche se motivato da lodevoli intenzioni, e cioè dalla volontà di non condannare tutta una comunità, è un errore dire che i terroristi del Califfato non hanno nulla a che fare con l’islam». Parte da qui la riflessione di Jean Birnbaum, studioso francese, nonché responsabile del supplemento libri di “Le Monde”, che ha da poco mandato in libreria Un silence religieux (Seuil), un saggio controcorrente, il cui sottotitolo recita: La sinistra di fronte al jihadismo. Secondo l’autore, troppi esponenti della sinistra tendono a rimuovere il movente religioso dei terroristi per ingenuità e senso di colpa, ma anche perché sono figli del razionalismo illuminista, motivo per cui non riescono a comprendere la religione come forza autonoma capace di diventare un vero agente politico. «Solo la verità è rivoluzionaria, si diceva una volta.

Quindi dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, senza edulcorarla. Possiamo sempre cercare di rassicurarci, dicendoci che i giovani jihadisti sono solo pazzi, mostri o emarginati che vengono manipolati, ma la realtà è ben diversa. Se un terrorista, il cui discorso si rifà di continuo al Corano, uccide in nome di Allah, non possiamo dire che le sue azioni non hanno nulla a che fare con l’Islam. Chi siamo noi per negare il suo rapporto con la fede? Purtroppo l’islamismo si esercita in nome dell’islam, anche se per fortuna non tutto l’islam è islamista. I fanatici del califfato hanno origini sociali e culturali molto diverse, l’unico elemento che li unisce è il loro rapporto particolare con la religione. E per sconfiggerli dobbiamo capire che la motivazioni autenticamente religiosa delle loro scelte. Il che evidentemente non significa giustificarli».

Non riconoscere la dimensione religiosa del terrorismo islamico è un errore strategico?
«Perché significa pugnalare alla schiena tutti coloro che nell’islam sanno benissimo che questa relazione esiste e cercano ogni giorno di combatterla. All’interno del mondo musulmano si sta svolgendo un’aspra battaglia tra due diverse concezioni dell’islam. Dobbiamo prenderne atto e sostenere tutti coloro che cercano di sottrarre la fede ai fanatici che la deturpano, rifiutando un islam violento, intollerante e omicida. Solo riconoscendo il pericolo si può combatterlo. Il problema è che la violenza jihadista non rientra nelle nostre griglie concettuali e in particolare in quelle della sinistra francese che ha completamente rimosso la dimensione religiosa. Parlare solo di povertà o emarginazione — dimensioni importanti — escludendo la religione, è un modo per ricondurre il problema alle nostre abitudini mentali».

Perché la sinistra non riesce a pensare la dimensione religiosa?
«La sinistra, in particolare quella francese, si è costruita nel solco della tradizione cartesiana, illuminista e marxista, inseguendo il fantasma dello sradicamento della religione, considerata solo un’illusione, una chimera. Il famoso “oppio dei popoli”, di cui parlava Marx e che l’emancipazione sociale avrebbe dovuto far scomparire. Fedele a questa visione, la sinistra ha rinunciato a pensare la religione e la sua forza. Ma la fede non è sempre il sintomo di qualcos’altro. Seguendo le tracce di uno studioso come Christian Jambet, penso che occorra riconoscere una sorta di materialismo spirituale, nel senso che la fede, lungi dall’essere solo un’illusione o un riflesso, può diventare una forza materiale».

A questo proposito lei rende omaggio a Michel Foucault che fu uno dei primi a sottolineare la valenza politica dell’islam, quando si recò in Iran all’inizio della rivoluzione islamica...
«Foucault ha saputo sottolineare la forza propria del messianesimo religioso, tanto che ha parlato di “politica spirituale”. In Iran capì che l’energia che stava dando fuoco alle polveri era la speranza religiosa, riconoscendo tra l’altro che in occidente non sappiamo più cosa sia la politica infiammata dalla fede. Non inseguiamo più “la storia sognata”, che invece in passato è stata importante anche per noi. Proprio perché abbiamo rimosso questa dimensione, oggi ci sembrano impossibili le motivazioni religiose del jihad».

Perché tali motivazioni religiose danno luogo all’iperterrorismo?
«L’islamismo è una reazione alla modernità occidentale e al tentativo di modernizzare l’islam. Al contempo è anche una reazione alle umiliazioni che il mondo occidentale ha inflitto al mondo musulmano. Come ha detto Derrida, tutte le comunità sono attraversate dalla pulsione di morte, quindi anche le comunità religiose, che, prima o poi, sono costrette a fare i conti con i problemi identitari, il fondamentalismo e la violenza. Nell’islam oggi però c’è qualcosa di particolare, come sottolineano Mohammed Arkoun o Abdennour Bidar. L’islam si propone come un’alternativa radicale al mondo contemporaneo, quindi — come ogni volta che s’intende farla finita con un certo mondo — si pone la questione della violenza. I jihadisti non vogliono cambiare il mondo, vogliono distruggerlo».

Insomma secondo lei i giovani che oggi vanno in Siria a combattere sarebbero mossi da una spinta ideale che non sappiamo capire?
«Non voglio assolutamente banalizzare il male o giustificarlo, ma non si può pensare che questi giovani siano mossi all’inizio solo dall’odio e dal desiderio di annientare gli altri. Quando ascoltiamo le loro motivazioni, scopriamo che sono indignati dal mondo contemporaneo, che non si riconoscono nella democrazia e che desiderano raggiungere i fratelli del Califfato. Insomma, all’inizio sono motivati dal bisogno di giustizia e di fratellanza, da una forma di speranza per noi incomprensibile che poi si manifesta con un volto odioso e violento. Se non capiamo questa speranza radicale, non possiamo capire quello che sta accadendo ».

Solo che per loro la speranza non si realizza in terra ma nell’aldilà...

«I jihadisti vogliono farla finita con la storia, con la politica e soprattutto con la vita. Da qui il desiderio e l’elogio della morte. Ma tutto ciò nasce da una speranza. La sola questione che conta è quella posta a suo tempo da Kant: che cosa ci è lecito sperare? La sinistra però non capisce più il bisogno di speranza dei giovani e non ha nulla da proporre loro. Di conseguenza, più la speranza radicale profana — quella della sinistra che vuole cambiare il mondo — diserta la realtà, più si afferma una speranza radicale religiosa, che poi produce le tragedie che abbiamo conosciuto. Oggi la sinistra sa solo proporre la gestione del presente».

Da una raccolta di saggi d’autore dedicati a Gustavo Zagrebelsky una riflessione sulle radici della nostra “voce della coscienza” l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza»La Repubblica, 22 marzo 2016

La principale malattia spirituale del nostro tempo consiste nell’incapacità di fondare nella coscienza l’imperatività della giustizia, ovvero di rispondere al perché si debba sempre fare il bene e operare ciò che è giusto anche in assenza di interessi, o addirittura contro i propri interessi. Rimandando a Dio e ai suoi comandamenti, l’etica religiosa tradizionale è capace di assolutezza, ma paga questa sua capacità con l’incapacità di universalità e quindi di tolleranza. D’altro canto l’etica laica nei suoi modelli fondamentali (giusnaturalismo, consensus gentium, formalismo, utilitarismo) è sì capace di tolleranza, ma incapace di generare l’assolutezza dell’obbedienza; anzi, applicando la tolleranza al proprio io nella pratica concreta, i soggetti trovano non di rado una comoda giustificazione alla loro incoerenza rispetto all’imperativo etico.

Il risultato è che oggi non si sa più rispondere al perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male. Tale assenza di fondazione è una grave minaccia che incombe sull’etica in quanto tale, perché in mancanza di fondazione o c’è imperatività senza discernimento, come nel caso del fanatismo, o non c’è imperatività e quindi non c’è etica, come nel caso dell’utilitarismo opportunistico.

Dato che l’etica si lega intrinsecamente al diritto, la crisi della sua fondazione si traduce immediatamente nella crisi del concetto di giustizia, ovvero dello stesso fondamento teoretico della filosofia del diritto. In questa prospettiva Gustavo Zagrebelsky scrive significativamente di «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia». Il diritto infatti o è in grado di rimandare a un fondamento etico in base a cui mostrare che ciò che prescrive è veramente diritto nel senso di retto, oppure non può che risultare fondato ultimamente sul potere che dapprima l’istituisce in quanto positum, e poi si cura di farlo rispettare mediante la forza. L’alternativa è quella classica: è la verità o è l’autorità a costituire la legge?

È noto il detto di Hobbes: Auctoritas, non veritas, facit legem. Ma se si deve ammettere che questo vale per la legge positiva, non ritengo che valga allo stesso modo per il diritto sostanziale che precede e fonda la legislazione. L’autorità è indispensabile per mediare il passaggio dalla sfera del diritto alla sfera della legge, e in questo senso è giusto dire che senza autorità non si avrebbe la legge (Auctoritas facit legem). Non per questo però è lecito concludere che l’autorità sia anche la fonte sorgiva del diritto, il quale al contrario precede l’autorità e la giudica, distinguendola in autorità legittima e giusta a cui obbedire, e autorità illegittima e ingiusta a cui ribellarsi (e quindi si potrebbe dire: Veritas facit ius).

Se il diritto precede l’autorità, esso riceve il suo fondamento nella coscienza, in particolare in quella forma della coscienza etica che intende comportarsi in modo retto e giusto, e che tradizionalmente si chiama etica. Torniamo quindi a quanto affermato sopra, ovvero al fatto che l’odierna crisi dell’etica trascina con sé anche la crisi della fondazione del diritto e la conseguente «nostra ignoranza teoretica sul contenuto della giustizia».

Tuttavia esiste negli esseri umani un enorme bisogno di giustizia. La mancata realizzazione di questo bisogno genera in essi malessere e risentimento rispetto alla società, alla storia, alla condizione umana. La questione si pone in modo radicale: quando parliamo di «fame e sete di giustizia », quale dimensione dell’essere umano nominiamo? Io ritengo che il fondamento dell’etica e il fondamento del diritto si leghino intrinsecamente l’uno all’altro, e che la forza dell’uno sia la forza dell’altro, e la rovina dell’uno la rovina dell’altro.

Esistenzialmente la questione del fondamento dell’etica si traduce in una domanda molto concreta: perché dovrei fare il bene e non il mio interesse? La mia risposta è la seguente: si deve fare il bene per essere fedeli a se stessi, perché è nel bene oggettivo che risiede il più grande interesse soggettivo.

Che cos’è infatti il bene? Il bene nella sua essenza peculiare è forma, ordine, armonia, relazione armoniosa. E che cosa siamo noi? Siamo forma, ordine, armonia, un concerto di relazioni armoniose: è grazie a questa dinamica, chiamata in fisica informazione, che a partire dai livelli primordiali delle nostre particelle subatomiche si formano i nostri atomi, i quali a loro volta, grazie all’informazione che li guida, formano le nostre molecole, le quali a loro volta, grazie all’informazione che le guida, formano gli organelli alla base delle nostre cellule, le quali a loro volta… e via di questo passo secondo una progressiva organizzazione che giunge fino alla coscienza e alla personalità.

La logica che ci dà forma, che ci in-forma, è la relazione armoniosa, e quindi praticare l’etica, in quanto relazione armoniosa con gli altri e con il mondo, significa essere fedeli a se stessi, alla nostra più intima logica interiore. In questa prospettiva l’altruismo non risulta difforme da un retto egoismo in quanto intelligente cura di sé. La fondazione dell’etica quindi è fisica, basata su una filosofia che guarda alla natura con ottimismo e favore, senza ignorare le numerose manifestazioni di caos e di disordine che essa presenta ma riconducendole all’interno di un processo complessivamente orientato alla crescita della complessità e dell’organizzazione vitale, e che per questo sa che essere fedeli alla natura e alla sua logica relazionale equivale a fare il bene, e di conseguenza a stare bene, per la gioia che infallibilmente scaturisce in ogni essere umano quando cresce la qualità delle sue relazioni.

Da questa logica armoniosa dell’essere procede anche il richiamo al rispetto della giustizia che tradizionalmente chiamiamo «voce della coscienza».

IL LIBRO

Il costituzionalista riluttante ( Einaudi, a cura Andrea Giorgis, Enrico Grosso e Jörg Luther, pagg. 489, euro 35) è una raccolta di saggi dedicata alla riflessione intellettuale di Gustavo Zagrebelsky, in tutte le sue articolazioni: dalla democrazia alla giustizia. Tra i numerosi contributi ci sono quelli di Ezio Mauro, Enzo Bianchi, Luciano Canfora, Carlo Petrini, Nadia Urbinati. Questo è un estratto del saggio di Vito Mancuso

«Da Banksy a Elena Ferrante. Scegliere di non firmare le proprie opere o di usare uno pseudonimo corrisponde a un programma etico e politico. E ha un’origine nobile che risale al Medioevo». La

Repubblica, 20 marzo 2016

I writers somigliano ai tanti pittori vissuti prima del Rinascimento e di cui conosciamo la produzione ma non i nomi In qualche modo chi dipinge su un muro rifiuta l’eredità del moderno e predilige una tradizione fatta di comunità e non di singoli

Chi è Banksy? Chi è Elena Ferrante? Siamo disposti ad arrampicarci sulle più improbabili congetture pur di riuscire a dare un volto, una biografia, una foto senza trucco ai pochi artisti o scrittori che hanno scelto di negare al circo mediatico la propria persona. Non tolleriamo che qualcuno «si nasconda » dietro uno pseudonimo: e basterebbe la scelta del verbo «nascondersi» per rivelare lo spirito vagamente inquisitoriale col quale guardiamo a chi vuole parlare solo con le proprie opere. Molti che non hanno mai visto un Banksy, né letto una riga della Ferrante si sono, negli ultimi giorni, appassionati all’abilissima cronaca della caccia alla loro identità anagrafica: poterli mettere a sedere tra gli ospiti in un programma del primo pomeriggio (quando «non c’è due senza trash», come canta Fedez) sarebbe il sogno di qualunque venditore di immagine.

Intendiamoci, il culto della personalità degli artisti è un culto antico. Se è vero che esso conta tra i molti tratti che si sono esasperati e radicalizzati nel passaggio dalla «società dello spettacolo» (Guy Débord) alla totalitaria «civiltà dello spettacolo» (Mario Vargas Llosa), è anche vero che la storia dell’arte come la intendiamo oggi rinasce — dopo l’anonimato del millennio medioevale — con un’autobiografia d’artista: quella di Lorenzo Ghiberti, alla metà del Quattrocento. Leggendo Plinio e altre fonti antiche, gli uomini del Rinascimento scoprivano una legione di artisti: ne conoscevano i nomi e i successi, le conquiste figurative e le avventure personali. I testi erano stati davvero più duraturi del bronzo (come aveva predetto Orazio), e se le opere avevano fatto naufragio, le biografie si erano in qualche modo salvate.

È su queste basi che Giorgio Vasari edifica un monumento storiografico che tuttora ci condiziona: le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1550 e 1568) culminano nell’apoteosi di un Michelangelo divino, contro cui Roberto Longhi mostrava, nel 1950, tutta la sua insofferenza («e s’è già troppo sofferto del mito di artisti divini e divinissimi, invece che semplicemente umani»). Parliamo ancora con le parole di Vasari quando chiamiamo «divi» e «dive» gli attori o le cantanti che ci sembrano più grandi, e la medaglia ha il suo rovescio: quello dell’artista sporco, sociopatico e assassino. Caravaggio, dunque: caso in cui l’arte ci sembra indissolubile dalla biografia, lo stile del pennello da quello della spada.

Ma è proprio con Caravaggio che diventa evidente il prezzo enorme di questa affermazione di una forte individualità eterodossa: quando le sue pale d’altare vengono rifiutate dalle chiese ed entrano subito nelle grandi collezioni private, inizia a rompersi il nesso opera-funzione. Inizia il lungo processo verso l’arte di oggi: che «non fa perdere all’arte la sua qualità di arte, ma le fa perdere il suo legame diretto con la nostra esistenza: l’arte diventa una splendida superfluità» (Edgar Wind).

Consapevolmente o no, è contro tutto questo che lotta il writer Blu quando cancella le opere che aveva fatto sui muri di Bologna perché non vengano staccate ed esposte nell’ennesima mostra di cassetta sulla Street Art. È in questo senso che l’anonimato di Banksy non sembra solo un vezzo personale, o la conseguenza del carattere illegale dello scrivere sui muri, ma un programma artistico, etico, politico.

Un’«arte senza nomi» che prova a riportare indietro le lancette della storia: a prima di Ghiberti. Ottimi studi sulle firme e i ritratti degli artisti (soprattutto italiani) del Medioevo hanno ormai messo in crisi «l’immagine romantica dell’artista che annulla la sua personalità nell’opera condotta insieme ad altri, a maggior gloria di Dio», ma è innegabile che «percorrendo a ritroso il Medioevo si direbbe che i tratti individuali degli artisti, i loro stessi nomi sfumino e si confondano insieme, unificati in una sorta di configurazione collettiva» (Enrico Castelnuovo). E proprio Peter C. Claussen (lo storico dell’arte che più di ogni altro ha saputo censire le tracce individuali degli artisti medioevali) ha sottolineato l’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, tra il 1130 e il 1250: le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori collettivi voluti e costruiti da comunità civili.

È in questo senso che la Street Art rifiuta l’eredità del moderno, cercando altrove. Per molti versi viviamo in un nuovo Medioevo: nelle nuove città torri sempre più alte separano la vita lussuosa dei nuovi signori feudali da quella della massa dei servi, non della gleba, ma di un mercato senza regole. A redimere la programmatica bruttezza dei non luoghi dove vive la maggior parte degli occidentali è nata un’arte che appare collettiva per natura, e generata quasi in opposizione simmetrica a quella mainstream.

Se quest’ultima è un’arte privata per definizione, un’arte da interno che nasce per gallerie e per case di lusso, o per musei, simili a lounges aeroportuali, nei quali si paga un biglietto, la Street Art è un’arte pubblica, un’arte da esterno che si vede gratis perché aderisce come una seconda pelle ai luoghi dove vive e lavora chi possiede quasi solo la propria pelle. La prima non puoi comprarla perché costa milioni, la seconda non puoi comprarla perché non è in vendita: e negare il nesso arte-mercato è un altro tratto che nega tutta la tradizione moderna, tornando al nesso medioevale arte- comunità. E anche per macchine tritatutto come il mercato dell’arte e l’industria delle mostre non è facile digerire la Street Art: perché quando la sradichi, ne uccidi anche il valore estetico.

In questo gioco di contrari, il divismo esasperato dei Jeff Koons, Damien Hirst o Maurizio Cattelan trova un corrispondente perfetto nell’anonimato di Banksy.

Dei writers — come di molti artisti medioevali — conosciamo solo le firme, e — proprio come accade per l’arte europea dell’alto Medioevo — non possiamo interpretarne l’arte alla luce delle biografie: non possiamo individualizzarla, e dunque siamo “costretti” a leggerla come un’arte davvero collettiva.

Equesta strategia funziona: difficilmente vedremmo i cittadini insorgere in difesa di un museo d’arte contemporanea, mentre in molte città d’Europa (e ora a Bologna) succede che la comunità si preoccupi della sorte di un’arte che sente “sua” anche grazie all’eclissi della personalità del creatore. Non di rado i writers italiani mettono in atto progetti di notevole valore civico, oltre che artistico: come il collettivo FX, che ricopre con il testo dell’articolo 9 della Costituzione i muri di cemento che l’hanno violato distruggendo il paesaggio. O come il Gridas (Gruppo Risveglio dal Sonno), che ha raccontato l’epopea collettiva dei cittadini di Scampia non «coprendo le brutture» del quartiere, ma «usandole in modo creativo» (lo raccontano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano in Graffiti. Arte e ordine pubblico, il Mulino 2016).

Se oggi in molti pensiamo che «le parole dei profeti /sono scritte sui muri della metropolitana / e negli androni dei palazzi» (come recitava, già nel 1964, la fine di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel) è anche perché i writers continuano a pensare che la loro arte valga più del loro egotismo. Un messaggio, questo sì, profetico.

Dall’insegnamento universitario dovrà scomparire innanzi tutto il passato. Ciò che fa la differenza è il potere che ogni raggruppamento disciplinare è in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri: l’accesso a finanziamenti privati, la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo e la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei». Corriere della Sera, 20 marzo 2016 (m.p.r.)

L’Italia che insegna e che studia, che ricerca e scrive libri cercando anche così di conservare al Paese il suo posto tra gli altri del mondo, non solo è sempre più povera (come si sa destiniamo all’istruzione superiore la cifra di gran lunga più bassa tra tutti i grandi Paesi europei), non solo appare sempre più divisa tra Nord e Sud, ma ormai vede aprirsi all’interno dell’istituzione universitaria una drammatica frattura tra ambiti culturali. Da un lato quelli destinati a restare importanti e centrali, dall’altro quelli destinati invece, se le cose continueranno così come oggi, a spegnersi più o meno rapidamente.

Detto in breve, dall’insegnamento universitario - e quindi prima o poi anche dall’intero universo di capacità conoscitive e di studio degli italiani - dovrà scomparire innanzi tutto il passato. L’Italia non dovrà più interessarsi di alcun aspetto del mondo che abbiamo alle spalle, dei suoi eventi, delle sue idee, delle sue produzioni artistiche. Ma non solo. Dovrà farla finita anche con una buona parte di quei saperi astratti come la filosofia, la matematica, o con altre scienze esatte non sufficientemente utilizzate dall’apparato produttivo.

Non sto scherzando. Sto semplicemente scorrendo i dati meritoriamente raccolti e ordinati da Andrea Zannini, un valente docente di Storia moderna dell’Università di Udine, e pubblicati sul sito Roars (Return on academic research).

Dati che riguardano gli effetti che ha avuto sulle varie aree scientifiche il processo di contrazione del corpo docente accademico che si è verificato negli ultimi sette-otto anni. In complesso, nel periodo tra il 2008 e il 2015, tale contrazione è stata del 12 per cento (la maggiore, io credo, verificatasi nel pubblico impiego: da 62 mila a 54 mila persone circa) a causa di tre fattori soprattutto: il taglio generale dei fondi a tutto il sistema universitario, le nuove assunzioni limitate a una percentuale ridottissima rispetto al numero dei pensionamenti, il nuovo sistema di scorrimento delle carriere.

Ma tale contrazione - ed è questo il punto - non è stata eguale per tutti. Al contrario. Essa ha diviso spietatamente i sommersi dai salvati, i settori disciplinari che hanno visto il numero dei propri effettivi diminuire percentualmente solo di poco, ovvero restare tali e quali e talvolta addirittura crescere; e quelli che viceversa sono stati ridimensionati in misura brutale fino alla prospettiva di una virtuale cancellazione entro un tempo non troppo lungo.

Le discipline storiche sono state quelle più duramente colpite, seguite a ruota da quelle filosofiche. In neppure un decennio esse hanno visto i loro addetti diminuire rispettivamente del 27,8 e del 22,1 per cento (con punte di oltre il 32 per cento nel caso di «Storia moderna», «Storia della filosofia», «Storia delle religioni» e «Storia del cristianesimo», mentre «Storia medievale» è a meno 29,4 per cento e «Storia contemporanea» a meno 25,1). Ma messi assai male appaiono anche il settore geografico, con una decurtazione di oltre il 20 per cento e il raggruppamento letterario-artistico con un calo del 19,2 per cento.

Anche tra le discipline in senso lato umanistiche vi sono però figli e figliastri. Di fronte alle discipline demo-etno-antropologiche, ad esempio, che perdono oltre il 25 per cento degli addetti si segnalano le materie pedagogiche che invece fanno segnare quasi tutte ottime performance con il record ottenuto da «Pedagogia sperimentale» con un bel più 25 per cento di aumento.

Il raggruppamento disciplinare (comprendente più discipline) in assoluto più baciato dalla fortuna risulta comunque quello d’Ingegneria, che addirittura cresce del 2,1 per cento. Vengono subito dopo quelli delle materie economiche, sociologiche e giuridiche, tutti con diminuzioni poco significative. Non quello di Medicina - e forse qualcuno si stupirà - la cui consistenza esatta è peraltro difficile da calcolare per la commistione/sovrapposizione con il Servizio Sanitario Nazionale.

Come si vede la divisione tra i sommersi e i salvati non è propriamente tra settori umanistici e settori scientifici. Prova ne sia che le discipline matematiche e informatiche, quelle fisiche, quelle biologiche e quelle geologiche, fanno segnare tutte decrementi tra il 12 e il 20,5 per cento.

Ciò che fa la differenza è altro. È il potere che ogni raggruppamento disciplinare (cioè i suoi docenti) sono in grado di procacciarsi e di esprimere in relazione a tre parametri soprattutto: l’accesso a finanziamenti privati (che è quasi nullo per le scienze di base e per le discipline umanistiche mentre è massimo per le scienze applicate: vedi Ingegneria et similia), la contiguità-intrinsichezza con il potere politico-amministrativo (è il caso delle discipline pedagogiche divenute ormai una sorta di altra faccia del ministero dell’Istruzione), e infine la presenza negli organi di autogoverno dei singoli atenei. Qui soprattutto sta il punto forse più importante, dal momento che sono tali organi di autogoverno (Rettore, Consiglio d’amministrazione) quelli che in pratica gestiscono le risorse e la loro distribuzione tra i diversi raggruppamenti disciplinari, decidendo così delle nuove assunzioni da parte di ogni singola sede universitaria.

Ebbene, in un numero crescente di atenei ormai da tempo il gruppo di comando è nelle mani di un blocco formato perlopiù intorno a un nucleo ingegneristico-medico-giuridico il quale - forte del peso costituito sia dalla propria entità numerica che dalle proprie specifiche competenze, certo più utili a governare di quelle di un filosofo o di un biologo - ha finito per monopolizzare di fatto il potere. Ed è incline a utilizzarlo, com’è inevitabile, per fare gli interessi innanzi tutto delle proprie discipline di appartenenza.

È in questo modo che l’Italia decide del suo futuro culturale e della direzione che prenderanno i suoi studi; decide che cosa sarà delle sue non proprio indegne tradizioni in alcuni campi del sapere. Nella completa latitanza della politica, da tempo rappresentata da ministri dell’Istruzione politicamente insignificanti, perciò incerti e timorosi di tutto, sempre prigionieri dei più triti luoghi comuni, e dominati dalle corporazioni accademiche forti alle quali addirittura essi stessi per primi talvolta appartengono.

«». Il manifesto

Sì, vi è da rimanere delusi per l’incapacità dei nostri rappresentanti di andare oltre gli ostacoli del pregiudizio; per l’incapacità di osare di sentirsi davvero liberi legislatori che rispondono alla richiesta di eguali diritti che viene dal paese. E vi è di che rammaricarsi che il Pd sia così miscellaneo sui valori fondamentali (una tara che si porta dietro fin dalla nascita) da essere incapace di approdare a una decisione unanime, dando l’impressione che si tratti di due partiti in uno più che di un partito con visioni plurali.

Il bisogno di bussare alla porta di Verdini è da solo una dichiarazione di impotenza e pochezza. E c’è di che inquietarsi per la massiccia e nemmeno velata interferenza del clero romano con le istituzioni dello Stato. Aveva visto giusto Antonio Gramsci quando scriveva che il problema della debolezza liberale del nostro paese sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano. La cattolicissima Irlanda è molto più libera nelle sue leggi della meno religiosa Italia. Il Vaticano ha un potere di veto che non deve essere sottovalutato mai. E per questo, avere una legge zoppa è un meno peggio. Ma sarebbe auspicabile non viverla come punto di arrivo e quindi come una sconfitta, ma invece trasformarla in un punto di partenza. Come punto di arrivo è semplicemente brutta e vergognosa. Ma ci sono buone ragioni per cercare di verderla come punto di partenza.

La prima ragione sta nella natura stessa dei diritti – che aprono molte più strade di quel che una timidissima legge non faccia apparire. Una volta aperta la porta nessuno, nemmeno i prelati e i loro rappresentanti nelle istituzioni dello Stato, potranno chiuderla. I diritti vengono a grappolo e la vita delle persone si imporrà. La forza del diritto sarà la forza della vita. Questa legge brutta e zoppa sulle unioni civili verrà usata subito (per esempio per risolvere il problema lasciato aperto delle adozioni) e subito mostretà la propria insufficienza, la necessità di modificarla. Le maggioranze in Parlamento non possono fermare il torrente della vita che segue la libera scelta delle persone. Il diritto è ben oltre questa legge e sfiderà questa legge. La quale quindi è solo un brutto e timidissimo primo passo, ma non può essere nè sarà l’ultimo.

La seconda ragione è più radicale e la si è toccata con mano nella discussione sulla maternità surrogata. La violenza della discussione alla quale abbiamo assistito ci deve far riflettere sull’opportunità che lo Stato non intervenga. E’ buona norma di un ragionevole liberalismo che quando si tratta di decisioni che coinvolgono valori e concezioni del bene è preferibile che la legge non intervenga fino a quando non si sia raggiunta una convergenza larga nella cultura morale della società. Ma fino a quando ci sono divisioni forti sui valori sarebbe meglio che la legge tacesse poichè non potrebbe evitare di essere ingiusta. Questo vale naturalmente per la maternità surrogata. Abbiamo già leggi che proteggono le persone e i minori dall’abuso, dalla mercificazione, dalla monetarizzazione – se non si dà reato o violazione dei diritti umani e delle norme che li proteggono, la legge dovrebbe tacere. Questo non può ovviamente valere per le unioni di coppia, poichè in questo caso l’esistenza dell’istituto del matrimonio rende fondamentale che la legge intervenga per regolamentarne l’estensione o la parificazione nei casi di unione tra non eterosessuali.

La terza ragione pertiene alla funzione liberatoria del diritto, ovvero alla ricchezza per tutti che il rispetto degli eguali diritti comporta e corporterà. La discussione al Senato ha mostrato l’assurdità di chi voleva servirsi della “fedeltà” per discriminare tra il “vero” matrimonio e le unione civili. Si pensava cioè di nobilitare il matrimonio degli eterossesuali attribuendo solo ad esso l’obbligo della fedeltà. Il paradosso è che la discussione ha dimostrato che sarebbe desiderabile che l’obbligo di fedeltà venisse a cadere anche per il matrimonio. L’esito di quella che è stata a tutti gli effetti un’intenzione discriminatoria si è rovesciato e ha mostrare quanto invadente e anacronistica e corcitiva sia la legge che regola il matrimonio degli eterosessuali. La maggioranza ha tutto da guardagnare dall’eguale diritto, dall’inclusione della minoranza. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso possono costituire un arricchimento di libertà per tutti.

Queste ragioni delle implicazioni positive non rendono comunque buona una legge che non è buona. Mostrano tuttavia che da questo momento si può aprire un nuovo spazio di libertà – o meglio ancora, uno spazio alla contestazione e alla lotta per estendere e perfezionare il diritto all’eguaglianza che tutti devono avere di godere degli stessi diritti.

Sull'etichetta il furbacchione di Rignano scrive: "una svolta epocale per i diritti civili", ma nella bottiglia c'è una doppia discriminazione: le unioni omosessuali valgono meno di quelle etero sono rese piu difficili, i fig

li di partner di precedenti unioni sono discriminati. Intervista di Silvia Truzzi Il Fatto quotidiano, ,26 febbraio 2016
Le parole del giorno sono “fedeltà” e “fiducia”: concetti che si potrebbero estendere anche alle promesse e ai valori sbandierati. Il professor Rodotà da poco ha pubblicato un saggio che s’intitola Diritto d’amore: gli abbiamo chiesto di cosa sono la spia forma e sostanza del pasticcio legislativo del ddl Cirinnà.

«La procedura – risponde – è un effetto dell’incapacità politica di gestire la situazione. Quando Renzi si è trovato di fronte a divisioni che mettevano in discussione punti essenziali della legge, non ha scelto la strada del confronto, ha pensato di aggirare il problema con il solito espediente procedurale: il supercanguro. Strumento che non era necessario visto che era caduta la maggioranza degli emendamenti: era possibile aprire una trattativa politica. Quando l’Unità pubblica l’sms di Airola alla Cirinnà dà la prova che si è cercato un accordo sottobanco».

La trattativa l’hanno fatta con l’Ncd, un partito che ha più ministri che elettori.

«E così si è arrivati alla mozione di fiducia. Molti del Pd hanno ammesso l’inadeguatezza della gestione politica, per non aprire la questione con i cattodem. Il M5s ha chiesto perché non c’è stato un incontro ufficiale con i capigruppo. Semplice: per non svelare le divisioni interne».

La stepchild adoption era una fattispecie circoscritta. Ma l’hanno fatta passare come l’anticamera delle adozioni gay tout court.
«Sono state dette cose inaudite, razziste e omofobe. E gravi inesattezze scientifiche come nell’intervento del presidente dei pediatri italiani. Bisognava discutere partendo dagli orientamenti della giurisprudenza sulla base della legge dell’83 sulle adozioni. Siamo di fronte a una situazione già affrontata da una molteplicità di sentenze – due capitali:una della Corte d’appello di Torino e una del Tribunale di Roma – e la strada era già tracciata. Nel mio libro c’è un capitolo che s’intitola ‘Giudici attenti, legislatori impotenti’. Il tema è stato affrontato quasi sempre con grande oculatezza e realismo dalla magistratura, ma ancora una volta il legislatore ha perso un’occasione».

È una mezza vittoria?
«Per celebrare il risultato ora dicono che è solo l’inizio. Ovvio: meglio che ci sia una regolamentazione, ma non dimentichiamo i suoi enormi limiti. Purtroppo gli interventi sono stati, tutti, finalizzati a segnare il massimo di distanza possibile tra le unioni civili e il matrimonio. In assoluta controtendenza con la Carta europea dei diritti fondamentali che ha modificato la Convenzione europea cancellando la diversità di sesso per tutte le forme di organizzazione familiare. L’ultimo esempio è l’esclusione della fedeltà, una forzatura che si risolve in un’ulteriore discriminazione per le coppie dello stesso sesso. Non si tiene conto che il divieto di discriminazione per l’orientamento sessuale è una delle novità più importanti della Carta dei diritti, dove non si parla solo della discriminazione in base al sesso, che è un dato biologico, ma anche in base all’orientamento sessuale, che è una costruzione culturale. Nella Cirinnà l’orientamento sessuale è stato il confine per abbandonare l’articolo 5 sulle adozioni parentali. Causando una doppia discriminazione: ai danni della coppia e dei figli».

Si aspettava questo esito?
«
Ho sentito evocare la sentenza 138/2010 della Consulta, che porrebbe un vincolo insuperabile: non si può andare verso il matrimonio egualitario. Nella discussione sulla legge se ne è data una lettura ancora più restrittiva sottolineando in ogni occasione la distanza tra matrimonio e unioni civili. Ma c’è un fondamento comune nell’affetto, nella gestione della vita familiare, nella costruzione della genitorialità: i due istituti s’incontrano. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015 lo dice esplicitamente. Questa legge, che avrebbe dovuto sanare una discriminazione, non fa altro che ribadirla. La discussione deve restare aperta per riaffermare una linea di politica del diritto che possa farci andare oltre questa infelice giornata».

Sempre più ampio l'abisso che separa l'Italia dal resto dell'Europa in tema di diritti civili. Principi universali, tradotti in codici europei cui tutti dovrebbero uniformarsi, calpestati in nome della sopravvivenza di un califfo.

La Repubblica, 25 febbraio 2016

UNA soluzione che ben potrebbe essere considerata paradossale, se i modi fantasiosi dell’attuale politica non l’avessero spinta verso funambolismi che la destituiscono di vera credibilità. Si rafforza, infatti, l’attuale maggioranza di governo proprio sul terreno più “divisivo” tra Pd e Ncd. Ma non sarebbe questo l’unico paradosso, o l’unica contraddizione, di una fase così confusa e politicamente così mal gestita. E allora è il caso di fare una prima valutazione di quel che è già avvenuto, di quanto si è già perduto e di quanto si può ancora perdere.

La discussione sulle unioni civili era cominciata sottolineando che finalmente era alle porte una legge da troppo tempo attesa, che avrebbe consentito all’Italia di recuperare un livello di civiltà dal quale si era allontanata e che, in questo modo, l’avrebbe riportata in Europa. Ma, avendo perduto troppi pezzi, la legge approvata finirà con l’essere considerata come una nuova testimonianza di una arretratezza di fondo che, anche quando si fanno sforzi significativi, non si riesce davvero a superare.

Che cosa vuol dire Europa in una materia davvero fondamentale, non per una forzatura ideologica, ma perché riguarda i fondamenti stessi del vivere? Vuol dire costruzione di un sistema sempre più diffuso e condiviso di principi e regole, che è stato poi affidato ad un documento comune, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che dal 2009 ha lo stesso valore giuridico dei trattati e che, quindi, dovrebbe essere costante punto di riferimento nelle discussioni legislative dei singoli Stati membri.

Proprio per il tema affrontato in questi giorni al Senato, l’innovazione della Carta è stata massima. L’articolo 21 ha vietato ogni discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale. L’articolo 9 ha cancellato il requisito della diversità di sesso per il matrimonio e per ogni forma di organizzazione familiare, e i giudici europei seguono ormai questo criterio. Eguaglianza, parità dei diritti, libertà nelle scelte. Principi essenziali, che avrebbero dovuto guidare i dibattiti parlamentari e che lì, invece, sono comparsi in maniera sempre più pallida. Sono stati spesso sopraffatti da un coacervo di confusi riferimenti morali, strumentalizzazioni politiche, controversi riferimenti scientifici. Si finisce così con l’avere la sensazione che l’Italia — al riparo da un “Grexit” per ragioni economiche e da un “Brexit” per ragioni politiche — abbia scelto la strada di un “exit” dall’Europa tutto culturale.

Già possiamo misurare gli effetti sociali di questo modo di procedere. Sono tornati nella discussione pubblica, con una rinnovata e violenta legittimazione derivante da toni del dibattito parlamentare, argomenti omofobi, discriminatori, aggressivi, incuranti dell’umanità stessa delle persone. Si è minacciato il ricorso ad un referendum popolare contro la norma che avesse ammesso l’adozione del figlio del partner. Forse vale la pena di ricordare che, nel 1974, quando ci si avviava verso l’eliminazione delle discriminazioni contro i figli nati fuori del matrimonio (i “figli della colpa”, gli “illegittimi”), i professori Sergio Cotta e Gabrio Lombardi, che già avevano promosso il referendum contro la legge sul divorzio, ne minacciarono uno contro una riforma che fosse andata in quella direzione (intenzione caduta dopo che l’abrogazione del divorzio fu respinta dal voto popolare).

E proprio intorno alla norma sull’adozione si è concentrato oggi un fuoco di sbarramento che colpisce, insieme, i diritti delle coppie e quelli dei bambini. Proprio dei bambini, strumentalmente indicati come oggetto di una necessaria tutela e che, invece, rischiano d’essere ricacciati in una condizione di discriminazione, creando una nuova categoria di “illegittimi”. Più che un intento discriminatorio, ormai uno spirito persecutorio. Si può in concreto indebolire o cancellare la tutela di cui essi già godono fin dal 1983 attraverso un saggio intervento e una valutazione dei giudici, che hanno applicato le norme sull’adozione in casi particolari in nome dell’interesse “supremo” del minore. Una conquista civile dalla quale non si dovrebbe uscire, richiamata dall’Avvocatura dello Stato davanti alla Corte costituzionale, che ieri ha deciso un caso relativo all’adozione da parte di due donne sposate negli Stati Uniti delle reciproche figlie. Dallo scarno comunicato della Corte non si può dedurre con certezza se le sue indicazioni puntuali consentiranno di continuare a ricorrere alle diverse soluzioni già utilizzate dai giudici.

La prudenza e il rigore dovrebbero sempre guidare il legislatore. Ma più ci si inoltra negli intricati meandri in cui si è cacciato il Senato nella tenace sua volontà riduzionistica delle unioni civili, più si coglie l’approssimazione e l’incapacità di comprendere la rilevanza dei diritti in questione. L’esecrazione per l’utero in affitto, improvvisamente evocata contro l’adozione del figlio del partner nelle coppie omosessuali mentre è pratica al 93% di quelle eterosesuali, porta a declamare la sua qualificazione come “reato universale” con condanna del genitore e divieto di riconoscimento del figlio.

Ma si ignora che la questione è stata risolta il 26 giugno 2014 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato la Francia a trascrivere l’atto di nascita dei figli nati all’estero da una madre surrogata, anche se in Francia, come in Italia, questa pratica è vietata. E la Cassazione francese ha dato seguito a quella decisione. Ma la nostra aggrovigliata discussione ignora a tal punto l’Europa da aver subito dimenticato che il Parlamento non ha scelto liberamente di legiferare in questa materia, ma è stato obbligato a farlo da una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015, che ha condannato lo Stato italiano a riconoscere alle coppie di persone dello stesso sesso uno statuto giuridico adeguato.

Un “obbligo positivo”, al quale si tenta di sottrarsi con mille sotterfugi, cominciando con il trascurare che quella sentenza è fondata sull’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto alla “vita privata e familiare”. A questo non basta fare un riferimento generico. Poiché la sentenza dice che “le coppie dello stesso sesso hanno una situazione sostanzialmente simile a quelle delle coppie di sesso diverso”, e qui la discrezionalità del legislatore è ridotta, il riferimento alla vita familiare deve essere inteso nella sua pienezza organizzativa. Altrimenti si fa una operazione culturalmente regressiva, un altro atto implicito di uscita dall’Europa.

È in corso una grottesca operazione di ripulitura di ogni accenno che possa far pensare al matrimonio. Persino l’idea della fedeltà nelle coppie di persone dello stesso sesso deve essere allontanata, quasi che l’affetto e il “diritto d’amore” possano scomparire per effetto di arzigogoli verbali. In realtà si sta preparando una linea interpretativa rigidissima della nozione di famiglia per bloccare ogni ulteriore sviluppo in materia. È urgente invece un riflessione culturale sul sistema costituzionale, quella che nel 1975 aprì la strada alla riforma del diritto di famiglia.

Tutto questo, e molto altro che si potrebbe aggiungere, ci dice con quale spirito si dovrà accogliere la legge ora annunciata. Nessuno predica il tanto peggio tanto meglio. Ma nessuno potrà negare che un testo scarnificato, impoverito, mortificato porterà al suo interno il segno di una sconfitta politica e culturale. Condannando l’Italia, la Corte europea aveva parlato di un tradimento della fiducia e delle attese delle persone omosessuali. Tradimento che oggi riguarda tutti i cittadini ai quali spetta di vivere in un paese coerentemente inserito nel contesto culturale europeo. E invece si annunciano nuove distanze nuovi conflitti, rinvii a testi futuri, giochi d’inganni.

«Questa legge è irricevibile. pensare che uno Stato in Europa possa fare una legge sulle unioni civili senza garantire i diritti dei bambini è inconcepibile». Ma ormai è una tattica consolidata:basta approvare una legge la cui etichetta possa essere venduta nella campagna elettorale: non fa nulla se dentro c'è solo veleno.

Il manifesto, 25 febbraio 2016

Si sentono trattati come cittadini di serie B, le cui vite possono essere svendute e sacrificate. E loro non ci stanno. Anzi. Centinaia di militanti di associazioni lgbt si sono riuniti ieri pomeriggio sotto il Senato per protestare contro lo stravolgimento del disegno di legge sulle unioni civili. «Vergogna», «Tradimento», «Non ci rappresentate» hanno urlato rivolti verso palazzo Madama dove Pd e Ncd erano impegnati a mercanteggiare sul loro futuro e su quello dei loro figli. A un certo punto un gruppo ha anche cercato di bloccare il traffico sedendosi in mezzo alla strada , ma è stato immediatamente fermato dalla polizia.

Tra le associazioni lgbt la rabbia per come si sta stravolgendo il ddl Cirinnà è tanta e cresce con il passare delle ore. Per il 5 marzo è stata indetta una manifestazione che si terrà a piazza del Popolo a Roma.

Non più tante iniziative sparse per le città italiane, come avvenuto il 23 gennaio scorso, ma un’unica grande manifestazione alla quale si spera che parteciperanno decine di migliaia di persone. Anche per rispondere al Family Day che si è tenuto il 30 gennaio al Circo Massimo e a quanti non vogliono che l’Italia si allinei finalmente con il resto d’Europa. «Grideremo al nostra rabbia per questo tradimento», hanno spiegato ieri i manifestanti.

Traditi dal Pd e in particolare da Matteo Renzi, che non ha saputo mantenere la parola data quando venne eletto segretario. ma anche dai tanti parlamentari, a partire proprio dall’ex relatrice del testo Monica Cirinnà, che non hanno difeso un disegno di legge fatto proprio dalle associazioni omosessuali anche se ben al di sotto di quanto richiesto. «L’emendamento sul quale il governo si appresta a chiedere fiducia in aula è una dichiarazione di resa, incondizionata, un insulto alla dignità delle persone perché frutto di strategie che svendono le vite di tutti e tutte — è il commento di Arcilesbica -. Se il risultato sarà quello di tenere in piedi una legge per fare campagna elettorale e proclami di tenuta del governo ci troveremo di fronte ad uno scempio agito, deciso, sulle vite, sui corpi di cittadine e cittadini di questo paese».

«Ai partiti e alla politica — afferma la vicepresidente, Lucia Caponera — diciamo chiaramente che una legge confezionata come vessillo politico, svuotata e consegnata alla corte degli omofobi non è quello che vogliamo. Non è più il tempo dei compromessi. La politica deve assumersi le proprie responsabilità e sapere che non vi sarà alcun plauso. Nessun consenso può esserci laddove manca una democrazia dei diritti».

Dura anche la reazione della presidente di Famiglie Arcobaleno, Marilena Grassadonia: «Questa legge è irricevibile. Nel 2016 pensare che uno Stato in Europa possa fare una legge sulle unioni civili senza garantire i diritti dei bambini è inconcepibile».

Mentre al di là dell'Atlantico, «i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle vicissitudini della politica», nella palude italiana si cancellano, per bieche ragioni di sopravvivenza di un premier illegittimo sostenuto da un parlamento incostituzionale, diritti già presenti nel nostro ordinamento giuridico. La Repubblica, 23 febbraio 2016,
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La discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno.

Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso, ma per impedire interferenze da parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita», come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.

L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia, si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge. E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi.

È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile. Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza.

Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude.

Nessuno di questi argomenti regge. Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materie sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza. Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.

In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.

Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso - Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali (stepchild adoption).

Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza.

Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte si ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione.

Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».
«La Corte europea dei diritti umani condanna lo stato italiano per il rapimento e la detenzione illegale dell'ex imam Abu Omar. Come fa oggi il governo italiano a chiedere all'Egitto quella "chiarezza che noi invece non abbiamo avuto"?». Articoli di Luca Fazio e Antonio Marchesi,

il manifesto, 24 febbraio 2016 (m.p.r.)



CASO ABU OMAR
STRASBURGO CONDANNA L'ITALIA
di Luca Fazio

La sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo è pesantissima, circostanziata e senza appello e condanna l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar (fu prelevato da un commando della Cia il 17 febbraio 2003, a Milano, davanti alla moschea di viale Jenner e poi trasferito in Egitto dove venne torturato). Secondo la Corte, l’Italia, applicando in modo improprio il segreto di stato - tra il 2005 e il 2013 lo hanno fatto i governi Prodi, Berlusconi, Monti e Letta - ha violato alcuni principi fondamentali della Convenzione europea per i diritti umani. In particolare, la proibizione di trattamenti disumani e degradanti, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il diritto a ricorrere alla giustizia e il diritto al rispetto della vita familiare. I giudici di Strasburgo hanno anche stabilito che l’Italia deve risarcire Abu Omar con 70 mila euro e sua moglie con altri 15 mila euro per “danni morali” (risarcimento beffardo, secondo l’avvocato dell’ex imam). La sentenza diventerà definitiva a maggio se lo stato italiano non otterrà un riesame dalla Corte di Strasburgo. La condanna, ovviamente, chiama in causa anche questo governo e il nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Nella condanna, infatti, si fa riferimento anche alla grazia che due presidenti della Repubblica (Napolitano e appunto Mattarella) hanno accordato a tre agenti americani condannati per l’operazione di extraordinary rendition di Abu Omar: secondo i giudici nessun essere umano può essere sottoposto a tortura e maltrattamenti a causa “dell’impunità derivante dall’atteggiamento dell’esecutivo e del presidente della Repubblica”. I tre atti di clemenza sono stati concessi nell’aprile 2013 al colonello Joseph Romano (capo della base di Aviano da dove partì l’aereo con a bordo Abu Omar) e lo scorso 23 dicembre al capo della Cia di stanza a Milano - Robert Seldon Lady - e all’agente Betnie Medero. Quasi inutile aggiungere che i tre non sono mai stati arrestati e continuano a vivere da liberi cittadini negli Stati Uniti d’America. C’è voluta la Corte europea per ricordare che “in materia di tortura e maltrattamenti da agenti dello Stato l’azione penale non può esaurirsi per effetto della prescrizione, e che l’amnistia e la grazia non devono essere tollerati in questi casi”.

Claudio Fava, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, chiama in causa il presidente del Consiglio Matteo «La sentenza sul rapimento di Abu Omar - spiega - conferma quello che denunciamo da anni: l’uso strumentale, illegittimo e improprio del segreto di stato su questa vicenda, una illegittimità sulla quale si sono impegnati tutti i governi in carica negli ultimi dodici anni, nessuno escluso. A questo punto chiediamo che Renzi venga a riferire in parlamento per dire come pensa di rivedere l’uso improprio del segreto di stato. Il segreto va immediatamente rimosso da tutti gli atti che riguardano questa vicenda».

La Corte di Strasburgo, tra le altre cose, ha anche riconosciuto il puntuale lavoro di inchiesta svolto dalla procura di Milano che per anni è stata ostacolata dalle più alte cariche dello stato. La “soddisfazione personale” però non compensa la “grande amarezza” di Ferdinando Pomarici, il pm di Milano che con Armando Spataro condusse le indagini sul caso. Le sue considerazioni sono pesanti: «Noi, che siamo la culla del diritto, ci troviamo schiaffeggiati brutalmente. E’ dovuta arrivare la Corte di Strasburgo a riprenderci col righello per dirci: bambino queste cose non si fanno. Io e Armando abbiamo sopportato in silenzio trattamenti difficilmente sopportabili, noi, che abbiamo fatto della lotta al terrorismo metà della nostra attività professionale, siamo stati accusati dai politici di aver protetto un terrorista». Pomarici azzarda un parallelo doloroso: «E’ un discorso ancora più amaro oggi, pretendiamo dal governo egiziano per la morte di Giulio Regeni di avere quella chiarezza che noi invece non abbiamo avuto. Mi aspetterei che il governo, se vuole essere autorevole agli occhi di Al Sisi, faccia luce ed elimini il segreto di stato». Spataro, oggi procuratore capo a Torino, aggiunge una semplice lezione, e cioè che «le democrazie devono assicurare a tutti gli imputati, anche ai presunti terroristi, la possibilità di piena difesa e dunque il rispetto dei loro diritti».

Per il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, questa sentenza dovrebbe spingere l’Italia a riconoscere il delitto di tortura. «La tortura - aggiunge - è un crimine contro l’umanità e lo stato non può rimanere indifferente o, in alcuni casi come quello oggetto della pronuncia di Strasburgo, rendersi complice di governi torturatori». Come l’Egitto.

ABU OMAR, UN'ITALIA D'EGITTO
di Antonio Marchesi

Extraordinary Rendition. I persecutori di un rifugiato politico

L’Italia ha collezionato un’altra - l’ennesima - condanna per violazione dell’art.3 della Convenzione europea dei diritti umani, che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Questa volta si tratta dell’annosa vicenda di Abu Omar, che le nostre autorità avrebbero senz’altro preferito chiudere senza questo fastidioso epilogo strasburghese. I fatti sono questi. Un cittadino egiziano, rifugiato politico, in Italia dal 1998, il 17 febbraio 2003 viene caricato su un furgone in una strada di Milano e trasferito nella base militare di Aviano. Da lì, passando per Ramstein, in Germania, viene portato al Cairo e consegnato alle autorità del suo paese. Rimane in carcere, con un breve intervallo di libertà, fino al 2007. Viene sottoposto ripetutamente a tortura - una pratica diffusa allora, in Egitto, così come lo è oggi (come gli Italiani hanno scoperto attraverso la triste storia di Giulio Regeni).

In Italia le indagini, avviate tempestivamente, si concludono con la richiesta di arrestare un cospicuo numero di cittadini americani, tutti operativi Cia, i quali, però, nel frattempo hanno lasciato il paese. Il Ministro della Giustizia decide di non chiederne l’estradizione. Quanto ai cittadini italiani coinvolti nell’indagine, sono agenti e alti funzionari del Sismi. Il Presidente del Consiglio decide di non togliere il segreto di stato sui documenti richiesti dalla procura e la Corte costituzionale conferma che imporre il segreto di stato rientra nei poteri discrezionali, non soggetti a controllo, del governo. Non si riesce quindi a condannarli. Gli americani (compreso un militare di stanza ad Aviano), invece sì, sono condannati a pene oscillanti tra i 6 e i 9 anni … che, però, non sconteranno. Dormono da tempo sonni tranquilli altrove. E neppure verseranno la cifra a cui vengono condannati a titolo di risarcimento dei danni. In breve: né i membri dei servizi segreti americani né quelli dei servizi italiani, per un motivo o per l’altro, vengono puniti.

Anche se hanno partecipato o reso possibile una «extraordinary rendition», un rapimento a scopo di tortura (sia pure «esternalizzata» in Egitto). La condanna di oggi è per violazione di tutta una serie di diritti, sia di Abu Omar sia della moglie.

La parte più significativa della condanna è però, ancora una volta, quella per la violazione dell’art.3. Una violazione sia «sostanziale» (per il contributo alla rendition) che «procedurale» (per la mancata punizione dei responsabili). La violazione del primo tipo perché le autorità italiane erano a conoscenza del programma di «extraordinary renditions» della Cia e sapevano - o avrebbero quantomeno dovuto fare le dovute verifiche preventive - come sarebbe andata a finire. Sapevano che Abu Omar in Egitto sarebbe stato torturato e hanno, ciononostante, permesso il suo rapimento. La Corte ricorda peraltro che ad Abu Omar era stato riconosciuto lo status di rifugiato politico: il rischio di persecuzione che avrebbe corso nel suo paese di origine era dunque stato ufficialmente accertato dalle nostre autorità.

Passando a considerare la violazione «procedurale», invece, la Corte sottolinea come le informazioni relative al coinvolgimento di componenti del Sismi nell’episodio fossero già circolate sulla stampa. Ed essendo note, la Corte stessa è in condizione di stabilire che, qualora utilizzate, avrebbero potuto portare alla condanna degli interessati. La decisione del governo di escludere dal processo informazioni che erano già pubbliche ha avuto - scrivono i giudici - l’unico scopo di evitare la condanna dei funzionari del Sismi. Quanto agli americani, il fatto di non avere chiesto la loro estradizione - a cui si deve aggiungere la grazia concessa al capo degli operativi della Cia, Robert Lady, dal Presidente Napolitano - ha impedito che questi fossero chiamati a rispondere. Nel frattempo anche Mattarella ha dato la grazia ad altri cittadini americani condannati.

Al dunque, a fronte degli sforzi della magistratura di accertare ed eventualmente punire, il potere esecutivo tanto ha fatto che è riuscito a fare in modo che gli accertamenti e le punizioni non fossero effettivi. Così come in altri casi, ormai piuttosto numerosi, a impedire la punizione di atti di tortura in Italia è la prescrizione, in questa vicenda gli strumenti utilizzati sono altri: il segreto di stato, la mancata richiesta di estradizione, i provvedimenti di grazia. Il risultato però è sempre quello: l’impunità.

». La Repubblica, 20 febbraio 2016

Cervelli in fuga, rientri dei cervelli, successi dei ricercatori italiani all’estero. Su questo fronte si scontrano due opposte retoriche, le geremiadi sull’Italia matrigna che costringe all’emigrazione i migliori e l’esultanza sul talento italiano che trionfa nel mondo. C’è del vero in entrambe, ma una più quieta analisi rivela altri elementi.

Il tasso di emigrazione (a prescindere dal grado di istruzione) è raddoppiato negli ultimi cinque anni, e intanto l’attrattività dell’Italia è drammaticamente calata. Nel 2014 il saldo migratorio con l’estero nell’età più produttiva registra una perdita di 45.000 residenti, dei quali 12.000 laureati, che hanno trovato impiego in Europa, ma anche in America e in Brasile. Dati preoccupanti, che accrescono l’età media di un Paese già tra i più vecchi del mondo (157,7 ultra-65 per 100 minori di 15 anni). Ma l’emigrazione di chi fa ricerca ha risvolti economici e produttivi, non solo demografici. Prima di tutto, perché dalla ricerca (anche da quella “pura”, le cui applicazioni vengono dopo anni) nasce l’innovazione, che a sua volta genera produttività e occupazione. E poi perché gli anni di formazione, dalle elementari ai dottorati, hanno per il Paese un costo pro capite altissimo, ed è dissennato e antieconomico “regalare” ad altri un ricercatore di prima qualità dopo averlo allevato a caro prezzo.

C’è qui un equivoco da dissipare: da sempre chi fa ricerca si muove da un Paese all’altro, anzi l’esistenza di clerici vagantes è un requisito della libertà intellettuale. Niente di male se un biologo o un archeologo italiano va a lavorare in Svizzera o in Canada. A meno che questo flusso non sia unidirezionale, cioè in netta perdita. È quel che accade in Italia, dove il saldo negativo è intorno a 10 a 1 (uno straniero che fa ricerca in Italia per ogni 10 italiani all’estero). Ma il trend comincia già negli anni universitari, dove l’Italia è sempre meno attrattiva per gli studenti di altri Paesi: nel 2014 quasi 50.000 italiani sono andati a studiare all’estero, solo 16.000 stranieri sono venuti in Italia (contro i 68.000 che sono andati in Germania o i 46.000 della Francia). Secondo l’Ocse, che ha diffuso questi dati, lo squilibrio è dovuto ai bassi salari e alla difficoltà di trovar lavoro in Italia, dove «nel 2014 solo il 65% dei laureati fra 25 e 34 anni hanno trovato impiego, ed è questo il livello più basso d’Europa (media 82 %)».

Un indice significativo è offerto dai finanziamenti Erc (European Research Council) per i giovani (entro 12 anni dal dottorato): fino a 2 milioni per ogni progetto, che il vincitore può spendere dove crede, scegliendo una host institution in uno dei Paesi Ue. Colpisce, guardando le statistiche 2015 (oltre un miliardo di euro di fondi distribuiti), il contrasto fra due dati: da un lato, l’Italia è al secondo posto dopo la Germania, con 61 progetti vincenti. Dall’altro lato, il numero degli italiani che portano in altro Paese la propria “dote” è il più alto d’Europa: 31 su 61, il 50%. Niente di male se un italiano preferisce un laboratorio inglese; ma nel Regno Unito, se i vincitori sono 54 (meno degli italiani), a scegliervi la host institution sono ben 115, con un saldo nettamente positivo (+ 61).

Lo stesso vale per Germania, Francia, Olanda, e così via: l’Italia è il fanalino di coda (è stata scelta da due soli stranieri, un portoghese e una romena), con forte saldo negativo (- 30). Perché? La verità è che ricercatori di alto livello e studenti alle prime armi tendono a diffidare dell’Italia per le stesse ragioni, carenza delle strutture e incertezza delle prospettive; per non dire degli stipendi universitari, congelati da anni e non competitivi.

Davanti a questi dati, chi vuole o l’insulto o l’applauso è in difficoltà. Bisogna esser contenti di quanto siamo bravi, o scontenti perché spendiamo la nostra intelligenza altrove? Ma la maggiore urgenza è fare un passo indietro, e domandarci: se i nostri studiosi hanno tanto successo nel mondo, non sarà prima di tutto perché la nostra vituperata scuola, a partire dal liceo classico di cui improvvisati censori reclamano la morte, è molto ma molto migliore di quel che amiamo credere, e abitua al pensiero creativo assai più di altri sistemi educativi? E perché allora sottometterla al ripetuto elettroshock di riforme ricche di codicilli ma prive di indirizzo culturale? Seconda domanda: i ricercatori italiani tanto ricercati a Harvard, a Berlino, a Oxford, a Parigi sono stati formati nelle università italiane, che da Tremonti in qua vengono considerate (e a volte sono) la sentina di ogni vizio. Ma non avranno anche qualche virtù, se producono fior di studiosi ricercati dappertutto?

La scuola, l’università, la ricerca sono prove di futuro. A giudicare dai risultati le nostre istituzioni, nonostante la disgregazione di questi anni, hanno sfornato ottimi studiosi. Sapranno farlo ancora dopo il dissanguamento di risorse umane e di finanziamenti? Come ha notato l’Ocse, «l’Italia spende nell’educazione terziaria lo 0,9% del Pil, al penultimo posto fra i Paesi Ocse, con un livello simile a Brasile e Indonesia, mentre Paesi come il Canada, il Cile, la Danimarca, la Corea, la Finlandia e gli Stati Uniti spendono nel settore oltre il 2% del Pil». Micidiali nubi si addensano sul futuro: i Prin (“progetti di ricerca di interesse nazionale”) sono stati finanziati nell’ultimo bando (dicembre 2015) con la ridicola cifra di 91 milioni per tutta Italia, per tutte le discipline (in Germania la sola Exzellenzinitiative comporta fondi di ricerca per tre miliardi in cinque anni).

Perdura il quasi-blocco delle assunzioni, che condanna a una perpetua anticamera migliaia di docenti abilitati a cattedre di prima e seconda fascia. La scuola pubblica viene definanziata in favore della scuola privata, e riforma dopo riforma perde la natura di teatro della conoscenza e della creatività e si fa addestramento a frammentarie “competenze” di obbedienti esecutori. Perciò a ogni affermazione di ricercatori italiani all’estero dovremmo pensare: oggi campiamo di rendita, consolandoci coi successi di chi è stato formato da una scuola e da un’università che, intanto, stiamo distruggendo. Ma domani? I giovani migliori (se abbienti) dovranno formarsi all’estero, perché la nostra scuola si immiserisce in microriforme senz’anima e le nostre università mancano di docenti, laboratori, biblioteche? Gli italiani che emigravano cent’anni fa erano padri, e mandavano le rimesse in patria per il futuro dei figli. I nuovi emigranti sono per lo più figli: quel che stiamo perdendo non sono solo le loro rimesse, ma la ricchezza che essi stessi rappresentano.

«Quel che può capitare a giovani giornalisti o ricercatori in contesti drammatici, è un risvolto di situazioni inaccettabili per chi ci vive, che in qualche misura ci rimbalzano addosso. Accettare violazioni di diritti non porta mai niente di buono».

Il manifesto, 12 febbraio 2016 (m.p.r.)

Avrei potuto fare la fine di Giulio Regeni quando mi arrestarono in Cile dopo il colpo di stato, tanti anni fa? Per un po’ di giorni l’Ambasciata non mi trovava né aveva conferma dell’arresto. Qualche europeo e qualche nordamericano vennero uccisi. Alcuni corpi non vennero mai trovati. Nel mio caso la notizia uscì quasi subito in Italia e ci furono sia le pressioni movimentiste di Lotta Continua («ridateci il nostro compagno», «collabora col nostro quotidiano») che quelle istituzionali diplomatiche richieste dalla mia famiglia.

Ci fu anche il rischio di uno scontro tra le due pressioni, perché Lotta Continua, accanto alle invocazioni per la mia liberazione, aprì una sottoscrizione per comprare Armi alla Resistenza, mentre la tesi difensiva mia e dell’ambasciata era che io ero solo un turista! Finì bene, non venni neanche torturato: per le pressioni diplomatiche e politiche ma forse anche perché nessuno ce l’aveva con me, non volevano far vittime europee. E un po’ anche per caso, perché il caso conta non solo nelle guerre ma anche nelle ondate di terrore repressivo. Le macchine del terrore non sono del tutto precise e logiche, servono appunto a terrorizzare. Mi scuso per questo attimo di autobiografismo, mi rendo conto che la vicenda di Giulio è diversa, non solo perché è finita in modo atroce ma perché molto probabilmente è anche cominciata in modo diverso.

Io ero stato arrestato da militari in divisa e portato allo Stadio (campo di concentramento), lui è stato sequestrato da non si sa bene chi. Tanto che c’è anche chi pensa (pochi, ma ci sono) che sia stato scambiato per una spia anti-islamista, non fatto fuori dal regime. Tornando a quella che sembra invece l’ipotesi più probabile, quella di un omicidio in qualche modo di stato, c’è da chiedersi se lo potevamo evitare. C’è chi sostiene che l’opinione pubblica e di conseguenza i giornali e di conseguenza il governo han fatto poche e tardive pressioni sul regime egiziano.Un’ipotesi inquietante.

Sento il bisogno di interrogare chi conosce questi meccanismi meglio di me.

Ed ecco la risposta di Roberto Toscano, l’allora giovane diplomatico a Santiago del Cile che si occupò del mio arresto, poi ambasciatore in vari paesi. «Sembra strano sostenerlo ma anche nel campo della repressione e delle dittature ci possono essere gradi diversi non solo per quanto riguarda l’orrore, ma anche in relazione alla possibilità di fare qualcosa. Voglio dire che, per quanto il golpe cileno fosse brutale, come diplomatico avevo la possibilità di muovermi sapendo dove andare e cosa chiedere per affrontare un caso come il tuo.

Quando sono andato al Ministero degli esteri cileno per denunciare la tua scomparsa mi hanno accompagnato in un ufficio dove una gentile impiegata ha sfogliato in mia presenza dei tabulati IBM: «Hutter…Hutter..ecco! è detenuto allo Stadio Nazionale». La storia successiva la sai anche tu: la visita, il pacchetto con le mutande di ricambio, il rilascio dopo qualche giorno. Certo, c’era il fatto che non ce l’avevano particolarmente con te. Sapevano che eri un sovversivo, naturalmente, ma non particolarmente pericoloso. Ma c’era anche, dietro questo modo di operare, il monopolio militare della repressione, senza spazio per gli squadroni della morte free-lance.

E c’era anche una preoccupazione per il mondo esterno, e per i rapporti con l’Italia. Trasportiamo tutto questo all’Egitto di oggi, e cominceremo a renderci conto del caso Giulio e delle sue difficoltà per chi vuole agire. Uno stato meno strutturato; il probabile ricorso a squadre di delinquenti — collaboratori; la fiducia (e forse questo è l’elemento più drammatico) che comunque sia l’Egitto è troppo importante per la sicurezza e l’economia per essere trattato con la durezza che altrimenti meriterebbe. Mi sembra che l’ambasciata si sia mossa tempestivamente.

(E chi ti parla, come sai, non è mai stato un diplomatico integrista-corporativo: quando c’è da criticare non mi tiro indietro). Il problema è più di fondo, è l’ indulgenza che siamo disposti a dimostrare per ragioni di “realismo” nei confronti di regimi che violano brutalmente e sistematicamente i diritti umani. Temo che se non fosse capitata questa tragedia, cioè il massacro di un italiano, l’insensibilità nei confronti di quello che accade in Egitto sarebbe da noi generalizzata. Ecco un altro elemento di differenza dal Cile: la sensibilità di un’Italia dove esisteva ancora la politica, e soprattutto la sinistra!».

Ecco. La tortura non è mai giustificabile. In nome della lotta al terrorismo, insomma per paura del terrorismo islamico, troppo spesso si abbassa la guardia sui diritti fondamentali. E si sottovaluta, noi, la necessità e possibilità di incidere almeno sui paesi del Mediterraneo. Vorrei che l’attenzione alla tragica fine di Giulio segni una inversione di tendenza. Non vorrei invece che un inconscio voyeurismo dell’orrore porti a sottovalutare altre violenze di stato solo perché non arrivano a quei livelli.

Sto seguendo alcuni giovani tunisini vittime di pesante bullismo omofobico nel carcere di Kairouan. Intervenire per i diritti umani in Tunisia è molto meno difficile che in Egitto, ma può esser utile per dare un buon esempio in tutto il mondo arabo. La tragedia di Giulio — e le ripercussioni che ha avuto anche al Cairo- deve spingerci ad alzare le pretese, non a rassegnarci. Mi immagino di proporre un articolo sulla denuncia dei gay contro le violenze nelle carceri tunisine e un caporedattore (immaginario) che mi risponda: «Non è interessante, cosa vuoi che sia dopo il caso di Giulio?» No, non è così. Al giovane Jihed di Tunisi, ancora frastornato dalle botte in carcere, e che nei prossimi giorni affronterà (a piede libero, adesso) l’appello per «atti omosessuali» vorrei invece dire che dopo quel che è successo a Giulio l’Italia e l’Europa sono più sensibili ed esigenti anche per lui, al suo fianco.

I tratti salienti del disegno legge Cirinnà in discussione in questi giorni. Il manifesto, 11 febbraio 2016 (m.p.r.)

Si chiama «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze» il disegno di legge Cirinnà (Atto del Senato n. 2081). In discussione è la versione del provvedimento, il Cirinnà bis, con le modifiche approvate negli ultimi mesi.

Con unione civile si indica l’istituto, diverso dal matrimonio, comportante il riconoscimento giuridico, organico e complessivo della coppia di fatto, finalizzato a stabilirne diritti e doveri. Il primo Capo del ddl riguarda le unioni civili formate da persone dello stesso sesso; il secondo, i patti di convivenza, anche da persone di sesso diverso. Nel primo Capo si introduce nell’ordinamento giuridico italiano l’istituto dell’unione civile tra persone dello stesso sesso quale «specifica formazione sociale» (dicitura scelta per accontentare i cattolici che temevano l’equiparazione con il matrimonio) tutelata ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Si potrà costituire un’unione civile con una dichiarazione dinanzi all’Ufficiale di Stato Civile, in presenza di due testimoni. I soggetti dell’unione potranno scegliere il regime patrimoniale e la loro residenza; potranno anche decidere di assumere un cognome comune.
Non possono contrarre l’unione civile persone già sposate o che hanno già contratto un’unione civile; persone a cui è stata riconosciuta un’infermità mentale; oppure persone che sono tra loro parenti. Con l’unione civile tra persone dello stesso sesso, «le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenuti a contribuire ai bisogni comuni». L’articolo 3 estende alle unioni civili molti diritti del matrimonio per quanto riguarda congedi parentali, contratti collettivi di lavoro, graduatorie all’asilo nido se si hanno figli. Estesi anche i diritti previdenziali, quindi la pensione di reversibilità. E con l’articolo 4 vengono estese alle coppie che hanno sottoscritto un’unione civile le norme in materia di successione previste per gli etero uniti in matrimonio (eredità, suddivisione delle quote di una casa...).
Per sciogliere l’unione civile si deve ricorrere al divorzio. E in questo caso si seguono le norme della legge attuale per quanto riguarda assegno di mantenimento, affido dei figli, diritto di visita, assegnazione della casa. L’articolo 5 è quello che riguarda la stepchild adoption, cioè l’estensione della responsabilità genitoriale sul figlio del partner. Viene consentita l’adozione «non legittimante» dei figli del o della partner. Il ddl esclude invece l’applicabilità dell’istituto dell’adozione legittimante: per le coppie dello stesso sesso unite civilmente non sarà possibile, quindi, adottare bambini che non siano già figli di uno dei o delle componenti della coppia. Con l’adozione non legittimante, fra l’altro, chi adotta non acquista diritti successori nei confronti dell’adottato, ma assume tutti i doveri del genitore nei riguardi del figlio.
Nel secondo Capo del ddl si parla del riconoscimento della convivenza di fatto sia tra coppie di omosessuali sia tra coppie etero. La convivenza di fatto viene riconosciuta alla coppie di maggiorenni che vivono insieme e che non hanno contratto matrimonio o unione civile. I conviventi hanno gli stessi diritti dei coniugi in caso di malattia, di carcere o di morte di uno dei due coniugi. Ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante in caso di malattia o di morte. Nel caso di morte di uno dei due conviventi che ha anche la proprietà della casa di convivenza comune, il coniuge superstite ha il diritto di stare nella casa. E inoltre in caso di morte il coniuge superstite ha il diritto di succedere all’altro coniuge nel contratto d’affitto. I conviventi possono stipulare un contratto di convivenza per regolare le questioni patrimoniali tra di loro.
Il contratto di convivenza può essere sciolto per accordo delle parti, per recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra uno dei conviventi. In caso di scioglimento del contratto di convivenza il giudice può riconoscere a uno dei due conviventi il diritto agli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.
«La cultura nasce nel momento in cui gli esseri umani, storicizzando la famiglia e quindi togliendola alla sua naturalità, creano il tabù dell’incesto. Sarà il primo atto di consapevolezza formativa, che darà inizio allo scambio fra tribù, e quindi a una concezione allargata, progettuale della famiglia. La quale, è un prodotto storico e come tale si trasforma».

Corriere della Sera, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)

Molti invocano la famiglia naturale, quasi fosse l’ultimo salvagente in un mare in tempesta. Ma siamo sicuri che la salvezza si trovi in quella che ci ostiniamo a chiamare la famiglia naturale? Ma che cos’è la famiglia naturale? Coloro che la invocano sostengono che è fatta di un uomo e di una donna che, accoppiandosi, danno vita a un bambino, il quale, crescendo avrà bisogno di una madre che gli insegnerà i sentimenti e di un padre che, con severità, gli indicherà la via del dovere sociale e spirituale. Ma cosa c’è di naturale in questa idea antiquata di famiglia? Certamente una divisione dei compiti a cui non si vuole rinunciare. Ma l’apertura agli studi e alle professioni ha modificato i ruoli: le competenze non sono più così rigidamente distinguibili.

Si discute se un bambino che abbia due padri possa andare incontro a degli squilibri psichici, ma non ci si chiede cosa possa provare un bambino di fronte al sempre più diffuso fenomeno del femminicidio. Eppure di famiglie «naturali» che si comportano in questo modo ce ne sono quasi 200 all’anno solo in Italia. Vorrei ricordare che nella famiglia naturale, come dicono gli storici, l’incesto era una pratica comune: padre con figlia, madre con figlio, fratelli con sorelle, l’accoppiamento era naturale, alla maniera degli animali.
La cultura, come spiega bene Bronisław Malinowski, nasce proprio nel momento in cui gli esseri umani, storicizzando la famiglia e quindi togliendola alla sua naturalità, creano il tabù dell’incesto. Sarà il primo atto di consapevolezza formativa, che darà inizio allo scambio fra tribù, e quindi a una concezione allargata, progettuale della famiglia. La quale, come diventa sempre più chiaro, è un prodotto storico e come tale si trasforma. Anzi la sua forza sta proprio nel piegare, vincere, indirizzare la natura per farne un prodotto adatto alle conquiste di ogni generazione. Quando la famiglia faceva parte di una comunità piccola e perennemente in pericolo di estinzione, l’omosessualità non poteva che essere proibita. Quando il mondo rischia di naufragare nei suoi stessi rifiuti, per sovrappopolazione, l’omosessualità viene tollerata, a volte incoraggiata.
Se la smettessimo di anteporre le ideologie alla realtà; se osservassimo con più umiltà le cose attorno a noi, forse ci sarebbero meno grida, meno veti, e più comprensione per chi vive una famiglia che per molti popoli è già una famiglia del tutto «naturale».
«L'archeologo e storico dell'arte contesta l'indirizzo della scuola e dell'università di oggi. E difende gli insegnanti, l'ozio creativo, e la storia come riserva di possibilità per il futuro».

Linkiesta.it, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)

Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un'altra storia, di cui abbiamo cercato di parlare nello speciale di questa settimana su Linkiesta).

Ma c’è un ma: siamo sicuri che sia la strada giusta? Sicuri di essere consegnati alle varie specializzazioni e alle tecnicità sia l’unico modello culturale sensato? «Bisognerebbe ricordarsi più spesso di un aforisma di Goethe, che dice più o meno così: “Le discipline di autodistruggono in due modi, o per l’estensione che assumono, o per l’eccessiva profondità in cui scendono”» racconta a Linkiesta.it Salvatore Settis. Archeologo e storico dell’arte, già direttore della Normale di Pisa, dimessosi qualche anno fa dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali in polemica coi tagli alla Cultura del governo Berlusconi, Settis è ora in prima linea nella difesa di paesaggio e monumenti italiani. «Bisogna trovare un equilibrio tra lo specialismo e la visione generale -spiega-. La tendenza che si sta affermando nei sistemi educativi un po’ in tutto il mondo, ma in particolare in Italia è educare a “competenze” piuttosto che a “conoscenze”»

Fatti non fosti a viver come bruti, ma per seguir virtute et competenza?

Ecco, è un’idea perversa sostituire la parola “conoscenza” con “competenza”, come è stato fatto dai pedagogisti alla nostrana, consultati da Berlinguer e dalla Moratti in poi per le loro pessime riforme scolastiche. Abbiamo bisogno di persone con uno sguardo generale. Non bastano le conoscenze specialistiche, approfondite quanto si vuole. Ci vuole una visione collegata col senso della comunità (come del resto è scritto nella nostra Costituzione, che stiamo via via dimenticando).

Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?
E poi non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza il dubbio. La scuola ci insegna delle cose, ma dovrebbe soprattutto insegnarci a dubitare di quello che essa stessa ci insegna.

E invece?
Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa.

A proposito di non-specialismi: quanto è stato importante per lei leggere disinteressatamente, senza un fine di studio. Così per piacere, e per avventura?
E’ essenziale per tutti. La curiosità intellettuale è il sale della formazione. Guai se uno dovesse leggere i libri o guardare i film che qualcuno gli ha ordinato di guardare o di leggere. Tutti inseguiamo delle curiosità senza scopo. E lo facciamo anche con gli esseri umani: se a una cena c’è una persona interessante ci parliamo. Così dobbiamo fare anche coi libri o con la formazione.

Cosa ne pensa degli slogan che erano cominciati con Berlusconi (“Inglese, impresa, internet”) e che proseguono con Renzi (“La buona scuola”)?
L’uno e l’altro slogan sono stati usati in modo superficiale e cinico per sostituire la sostanza. L’etichetta del brandy di lusso mentre nella bottiglia c’è quello del discount. Stesso discorso per il nostro presidente del Consiglio che ama la “Narrazione”. Narrare (in altri termini: raccontare balle) per persuadere gli ingenui. Basta parlare con qualche professore per accorgersi che la cosiddetta “buona scuola” non è una scuola buona: sono in condizioni di grave difficoltà da tutti i punti di vista.

Ecco, al di là dei problemi di reclutamento e del trattamento economico. I professori ormai sono perennemente ingolfati di carte: schede di valutazione, moduli da riempire, piani formativi. Sembra quasi un controllo burocratico-contenutistico kafkiano sul loro lavoro. Cosa ne pensa?
Questo è un punto vitale, per tutte le categorie di professori: elementari, medie, superiori. E anche quelli universitari. E qui c’è un paradosso...

Ci dica...
La burocratizzazione del mondo avanza mentre gli stessi governanti continuano a dirci che stanno facendo una lotta dura e senza paura contro la burocrazia. Il fatto di dover riempire mille moduli, dover scrivere mille sciocchezze: è come se non ci si fidasse della responsabilità dell’essere umano. Un professore si giudica dai risultati, da come fa lezione agli allievi. Nel caso di un professore universitario c’è la ricerca. Che poi viene spesso valutata male.

Perché?
L’Amvur valuta gli articoli senza leggerli. Se esce in una cosiddetta rivista di serie A viene valutato bene, se no niente. E’ una sciocchezza: molti ottimi articoli specialistici escono in riviste di serie B o di serie C. Questo è un modo di ragionare che può uccidere la ricerca unversitaria.

Si dice che gli insegnanti abbiano troppe vacanze, che ne pensa?
Il lavoro intellettuale non si può quantificare o conteggiare. Tra i famosi otium e negotium non c’è soluzione di continuità. Un insegnante non deve essere valutato in base alle ore che fa di lezioni frontali. Chi le prepara? E il tempo che uno ci mette a prepararle chi lo conteggia?

Eh, chi lo conteggia?
Nessuno lo può conteggiare, appunto. Ma si rende conto che col sistema assurdo dei crediti formativi all’università si pretende di conteggiare il tempo che ci vuole a imparare un certo libro? Magari un libro di cento pagine io lo posso imparare in due ore e lei in mezz’ora. Abbiamo un sistema di valutazione che mortifica la diversità tra gli esseri umani. Valutare in base alle ore presunte è una solenne sciocchezza. Questa è la vera perversione che sta facendo danni enormi, e ne farà sempre di più.

Va per la maggiore un modello culturale, un paradigma tecnico-scientificizzante, 2.0, 3.0, 4.0 secondo cui il passato è qualcosa di evitabile. E’ inutile. Sono “nevi dell’anno scorso” come diceva Francois Villon. Ecco, professor Settis: a cosa serve il passato?
Il passato delle comunità, cioè la Storia, serve esattamente alla stessa cosa a cui serve il passato dell’individuo. A quelli che dicono che il passato non serve a nulla vorrei proporre di essere sottoposti all’espianto del proprio cervello, in modo che non sappiano più chi sono, chi sono i genitori, cosa hanno fatto prima. Il nostro presente, le parole che usiamo anche per fare conversazione, ora, vengono dal nostro passato. Anzi da un passato che non è solo il nostro: noi due in questo momento stiamo parlando in una forma molto modificata di latino. La realtà è costruzione del futuro nel presente usando ingredienti che vengono dal passato. Se ignoriamo questo siamo culturalmente morti.

Il passato non è nostalgia o atteggiamento reazionario, ma è una forza critica per non essere schiacciati dalle ideologie, per non finire come “generazioni di neoprimitivi” di cui cantava Battiato in Shock in my town?
Pierpaolo Pasolini usava una formula bellissima: «La forza rivoluzionaria del passato». E’ un serbatoio di possibilità, di idee. Capiamo che c’erano in Toscana delle città stato, e a un certo punto Firenze si è imposta ed è diventa la capitale del Granducato. Ma non è impensabile che si imponessero altre famiglie sui Medici, e magari venisse fuori un granducato con capitale Siena, o Pistoia, o Pisa. Dante ha finito la Commedia ma poteva non finirla.

Trovare le possibilità inespresse in quello che è successo, per proporre qualcosa di diverso nel presente?
Il passato ci svela le alternative. E’ la possibilità di vedere il mondo sulla base di una visione laica e generosa della società.

Isadora Duncan ha inventato i suoi passi di danza guardando i dipinti vascolari greci. Lei, che non balla, ma fa l’archeologo e lo studioso, ha allestito una mostra di arte antica alla Fondazione Prada. Più che la conoscenza puntuale di una serie di procedure e strumenti già pronti serve immergersi in quello che la storia ha suggerito senza svelarlo del tutto?
Ho cercato di rispondere all’invito di Miuccia Prada con una mostra di arte antica su un tema contemporaneo: la serialità. Sono arrivati artisti contemporanei convinti che l’arte antica non potesse dire più nulla, ed erano stupiti di come queste statue ancora abbiano da dire. Usiamo in continuazione ingredienti che arrivano dal passato anche se non ce ne accorgiamo. Il passato è libertà.

Chi sono le ragazze e i ragazzi che da tutto il mondo, come Giulio Regani, inviano le loro testimonianze e informazioni al

manifesto, e perchè sono un po' speciali. Il manifesto, 7 febbraio 2016, con postilla

Non è un caso che vittime della barbarie politica del nostro tempo siano così spesso persone che scrivono e vogliono scrivere dall’estero per il manifesto. Se si eccettua Giuliana Sgrena, che era ed è giornalista, e ha subìto la drammatica vicenda che conosciamo, giornalisti non erano né Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza dopo una consolidata collaborazione, né Giulio Regeni che aveva appena cominciato ad avvicinarsi al manifesto che considerava il suo «giornale di riferimento in Italia».

È perché - con le eccezioni dei nostri Anna Maria Merlo, Michele Giorgio, Luca Celada, Giulia d’Agnolo Vallan, Geraldina Colotti (senza dimenticare collaboratori «storici» come Roberto Livi) – quasi tutti gli altri autori dei tanti reportage dall’estero che leggete sul manifesto spesso sono «volontari» del giornalismo, giovani (quasi tutti) che nei paesi di cui scrivono vivono perché titolari di una borsa Erasmus, o perché dottorandi e ricercatori, oppure perché cooperanti impegnati con qualche Ong.

Con tutto il rispetto per i miei colleghi iscritti all’Ordine, spesso bravissimi, debbo dire che il lavoro di questi nostri «inviati» diversi ha una qualità speciale: perché è frutto di una quotidiana immersione nelle società in cui vivono e che, proprio per via di questa immersione, riescono a dare, oltreché notizie, il senso profondo del vissuto che solo può venire dalla quotidianità di rapporti umani, di lavoro così come di amicizia, di ambienti lontani da quelli specificamente politico-istituzionali. Lo stesso Simone Pieranni, una delle colonne della redazione esteri, approdato nella redazione centrale ormai da un paio d’anni, è arrivato qui dopo esser stato in Cina per ben otto anni come ricercatore e freelance.

Si potrebbe dire che la povertà (finanziaria) del nostro giornale, acuisce da sempre l’ingegno: l’impossibilità di avere veri inviati e corrispondenti professionisti ci ha offerto una risorsa che, senza vana gloria, oserei dire che fa del servizio esteri de il manifesto uno dei migliori esistenti.

Non si tratta, intendiamoci, di «precari sfruttati dall’orrido padrone» che sarebbe la cooperativa.

Perché loro stessi non si sentono giornalisti, né spesso hanno alcuna intenzione di intraprendere questo mestiere. Sono persone cui piace socializzare con chi è restato in Italia quello che, di brutto e di bello, scoprono nel mondo; che è poi la ragione per cui sono andate ad esplorarlo.

Chi però ci aiuta in giro per il globo è naturalmente più esposto ai rischi delle repressioni locali, come lo sono i cittadini «indigeni» con cui hanno stretto rapporti, di cui finiscono per condividere la sorte.

Il caso di Giulio Regeni ne è la drammatica prova.

Tanto più drammatica se si pensa che Giulio era perfettamente consapevole dei rischi cui andava incontro scrivendo di una questione delicatissima come quella della condizione operaia in Egitto dove, pochi lo ricordano, proprio da una inedita ma assai estesa ondata di scioperi non ammessi partì, già molti anni fa, la prima ribellione al regime militare e liberista del Cairo. Ce lo dicono le sue mail, in cui chiedeva, per precauzione sua e dei suoi compagni, di firmare con uno pseudonimo.

Purtroppo le precauzioni non sono bastate. Abbiamo dato sul giornale, col suo vero nome, solo dopo la sua morte la corrispondenza che ci aveva mandato. Ormai ogni precauzione era inutile, e sarebbe stato assurdo non dire al mondo perché Giulio era morto, una testimonianza dovuta al suo coraggio e a quello di tutti coloro che operano nelle difficilissime condizioni in cui vive tanta parte del mondo.

Lo dovevamo a Giulio Regeni, non solo perché questo suo scritto è la prova più lampante del carattere tutto politico di un assassinio che le autorità egiziane cercano di spiegare altrimenti, ma per testimoniare, più in generale, dell’importanza del ruolo svolto da tanti ragazzi che in paesi lontani e difficili non si rassegnano a chiudersi nelle loro private faccende ma si danno da fare per contribuire a cambiare il mondo.

postilla

Ha perfettamente ragione Luciana Castellina nel mettere in evidenza la particolare qualità delle ragazze e dei ragazzi del manifesto. Ma scaverei un po' più a fondo in questa giusta riflessione. Io penso che questi "inviati speciali" condividono con non molti altri italiani una grande prerogativa: quella di essere liberi. Ci sono molti, credo moltissimi italiani che, per conoscenza diretta perchè spesso legata al lavoro che fanno, vengono a sapere di cose storte: decisioni sbagliate che qualcuno al di sopra di loro ha preso e sta per prendere. Magari s'indignano, ma sottovoce. Perchè? perchè in Italia è diventata estesissima l'area del ricatto, e sempre più limitata l'area della protezione. Spesso le condizioni di vita rendono invalicabile quel limite che divide il silenzio dal coraggio, altre volte subentra un'altra calamità dei nostri anni: il fatto che decenni di martellamento abbiano plasmato un nuovo senso comune: la difesa miope dell'IO ha sopraffatto l'attenzione lungimirante all'altro, e soprattutto al NOI.

«Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti» .

La Repubblica, 26 gennaio 2016 con postilla non eurocentrica

Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre . in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.

Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto “vita” con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre. Al suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta.
Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla degenerazione e alla rigenerazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani “impetuosi” e “feroci” come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la “fortuna”.
Oggi poi questa riserva di credito dei “saggi” è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che «la Terra appartiene alla generazione vivente» intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: «Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età».

Senza adulti, Gustavo Zagrebelsky (Einaudi pagg. XIII -106 euro 12)

postilla

Quando si rievoca il mito dell'isola di Pasqua come previsione del nostro futuro non è al

mondo intero che ci si riferisce, ma alla "fortezza Europa" C'è tutta l'altra parte del mondo che preme alle porte della fortezza ma che si cerca di rigettare verso il nulla. Rifiuti. Non sappiamo se quest'osservazione ci sia nel libro di Zagrebelsky, a noi sembra rievante

«Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un "mercante di luce" che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è».

La Repubblica, 23 gennaio 2016

PERCHÉ la Germania ha tanto successo nel mondo? Perché sa fare i conti con il proprio passato, anzi assorbe la storia come ingrediente essenziale del futuro. La diagnosi è di Neil MacGregor, il brillante direttore del British Museum ora passato alla testa del nuovo Humboldt Forum di Berlino, nel suo ultimo libro (Germany. Memories of a Nation, Knopf). In un Paese come l’Italia, che coltiva la smemoratezza, la distrazione e la superficialità come altrettante virtù, può sembrare una provocazione. Ma proviamo a guardarci intorno. «L’America è famosa per essere a-storica », ha dichiarato Obama, aggiungendo «dimenticare è uno dei nostri punti di forza». Lo conferma il discorso d’insediamento di Bush II, che invitava gli americani a dimenticare il Vietnam, perché «una grande nazione non può permettersi memorie che fomentano discordia». Ma è meglio promuovere l’amnesia di marca americana o la memoria storica “alla tedesca”? La scuola italiana, riducendo di riforma in riforma lo spazio della storia (e della storia dell’arte) propende per l’arte della dimenticanza, forse più per sciatteria che per progetto.

Sul ruolo della storia nella vita di una nazione è tutta da leggere la conversazione di Obama con la grande scrittrice Marilynne Robinson (premio Pulitzer 2005), pubblicata dalla New York Review of Books. Dialogando con il Presidente, Robinson si chiede se l’America possa ancora dirsi una democrazia, intesa come «la conseguenza logica e inevitabile di un umanesimo religioso al più alto livello, da applicarsi all’immagine umana in quanto tale e al rispetto che le si deve». È qui che Obama parla di “amnesia americana”, contrapponendola alla memoria lunga di civiltà dove antichi eventi, come il contrasto fra sciiti e sunniti, provocano ancora feroci contrasti. «Noi americani dimentichiamo quel che è successo due settimane fa — continua Obama, incalzato da Robertson — Ma sono convinto che per incoraggiare la creatività è essenziale insegnare la storia ai nostri ragazzi», tanto più che «tenere in vita una democrazia comporta sangue, sudore e lacrime», e non una visione falsamente pacificata.

E la memoria del passato (anche recente) mostra che la competizione senza contenuti annienta la democrazia. «Se potessi cancellare una parola dal vocabolario americano, sarebbe “competizione”» (Robinson), anche se «storicamente, l’America ha voluto “competere” creando un sistema scolastico migliore di altri, accrescendo gli investimenti in ricerca, credendo profondamente nella scienza e nei fatti, accogliendo talenti da tutto il mondo, promuovendo sistemi di sicurezza sociale » (Obama).

Quel che la scuola americana fa ora è l’opposto, risponde Robinson: «Stiamo dicendo alla gente che non troveranno lavoro a meno che non acquisiscano anonime competenze tecnologiche, e con questo linguaggio coercitivo stiamo dicendo alla gente che le loro vite sono fragili, alla mercé di una generica paura che impedisce ogni senso di sicurezza », e dunque ogni creatività.

La retorica della competitività spinge a diminuire la protezione dei lavoratori, a devastare l’ambiente, a delocalizzare la produzione, a inseguire la logica della crisi, augurandosi che colpisca altri Paesi: ma è davvero questa, si chiede Robinson, la missione americana, avere la meglio sulla Cina o sull’Europa? Per uscire da questa logica miope, è necessaria la memoria e la conoscenza storica. Prendere coscienza della storia vuol dire (come in Germania) scegliere di ricordare quel che si è tentati di dimenticare. Accettare le proprie responsabilità rispetto al passato vuol dire allenarsi a costruire il futuro con piena responsabilità (fattore essenziale della democrazia).

Questa conversazione fra un Presidente e un’intellettuale che promuove la storia in nome della democrazia, della creatività e della felicità dei cittadini è (temo) impensabile in un’Italia dove segmentate “competenze” la vincono sulla conoscenza, dove gli slogan (“buona scuola”) sfrattano lo spirito critico, dove scuola e università puntano sempre meno a educare cittadini e sempre più a formare un’anonima forza-lavoro. È in questo quadro, in cui andiamo scopiazzando un’America che ha già avviato una qualche autocritica, che si va diffondendo come una peste il pregiudizio che gli studi umanistici vadano cestinati come inutili; e che intanto i migliori laureati delle nostre università (umanisti e no), dopo una formazione a nostre spese, emigrano a decine di migliaia.

Ma qual è la funzione degli intellettuali (di chi si ferma a pensare) in un mondo dominato dalla faciloneria e dall’amnesia? Proprio per questo, abbiamo sempre più bisogno di quei «mercanti di luce, che da ogni nazione ricavano il meglio, i libri, le idee, gli esperimenti, le memorie, i modelli di comportamento, e li trasportano in patria» (Francis Bacon). Chi pratica la storia e le scienze umane è davvero un «mercante di luce » che illumina il presente con idee per costruire il futuro. Ha ragione Marilynne Robinson: o la scuola è il microcosmo della democrazia, o non è. Vale in America, vale in Europa. Varrà in Italia?

« ».

La Repubblica

LA PROPOSTA di legge (testo Cirinnà) che dovrebbe regolare lo stato civile delle coppie omosessuali e che comincerà il suo iter parlamentare in Senato il 28 gennaio (quasi in contemporanea con il Family day), mette a nudo la natura bipolare del Partito democratico, sintesi visiva della tensione che divide il Paese tra una cultura liberale e una cultura liberale ma nella misura in cui i diritti individuali non contrastino con i valori cattolici. Il Pd porta nei suoi geni il seme della discordia che divide demo-cattolici e demo-liberali sui temi legati alla procreazione e alla sessualità. Il teso scambio tra Michela Marzano e Emma Fattorini, lunedì scorso su Repubblica Tv, non sembrava una discussione fra esponenti dello stesso partito.

L’Italia è, tra i Paesi europei, quello meno disposto a riconoscere al matrimonio civile un’identità autonoma rispetto al matrimonio religioso, che per i cattolici è un sacramento che fonda e sotiene la famiglia. La questione che divide è lo statuto delle unioni omosessuali, ovvero la disciplina del matrimonio, la sua indiscussa identità eterosessuale.

All’interno di questo contenzioso si colloca la discussione sulle adozioni con una pesante distinzione tra “figli” e “figliastri” in relazione ai tipi di genitori. La visione diffusa è che i costituenti per primi avessero in mente una nozione di matrimonio che prevedeva che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. Il contesto storico del Paese e la matrice etico- religiosa di molti dei costituenti che contribuirono alla scrittura degli articoli 29, 30 e 31 sembrerebbero confermare questa visione (anche se in nessuno di quegli articoli si menzionano i sessi diversi). È legittimo chiedersi se la Costituzione vada interpretata cercando di entrare nella testa dei costituenti e restando ancorati al loro contesto culturale o se non ci si debba affidare ai criteri di coerenza interna al testo e di attenzione al nostro contesto, alla vita nostra qui e ora.

Si potrebbe sostenere che ora come allora l’Italia è un Paese cattolico e, in questo senso, l’intenzione dei costituenti è facilmente comprensibile anche da noi. È poi vero che in un Paese monoreligioso, e con debole pluralismo confessionale, l’interpretazione del diritto si tinge fatalmente della sensibilità della cultura della maggioranza (come avvenne nel caso del crocefisso nelle scuole pubbliche).

Tuttavia, si puó essere cattolici in modi diversi. La lettura della libertà individuale non è omogenea nemmeno tra i cattolici. Il movimento cattolico ha infatti conosciuto importanti stagioni liberali e di dissenso, per esempio nel corso di battaglie per altri diritti civili come il divorzio e l’interruzione di gravidanza.

I diritti sono scudi protettivi per chi si trova in minoranza (in questo caso, chi non è eterosessuale) mettendo in conto che ciascuno di noi — anche chi condivide la cultura etica della maggioranza cattolica — potrebbe trovarsi nella condizione di doversi appellare ad essi. I diritti ci garantiscono nelle nostre future scelte, qualora esse si scontrino con quelle che la maggioranza giudica buone. Perché lasciare la definizione di che cosa sia il matrimonio alla parte più numerosa e soprattutto a quella parte di essa che pensa che il futuro replicherà sempre e per tutti il passato?

La divisione interna al Pd mostra un’ulteriore discrepanza. Mostra come la società e la giurisprudenza camminino a una velocità doppia rispetto alla politica: le persone fanno scelte di vita secondo la loro personale saggezza, il loro desiderio, i loro sentimenti, se necessario andando a celebrare un matrimonio gay all’estero; i giudici, interpellati da coloro che subiscono discriminazione perché omosessuali, devono seguire il dettato della Carta.

La vita e il diritto si sostengono a vicenda e tendono a procedere quasi alla stessa andatura. La politica, invece, resta indietro, litigiosa e incapace di rappresentare la società e di ascoltare la voce dei diritti. E resterebbe ancora latitante se la Corte di Strasburgo, nel luglio scorso, non avesse condanno l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla tutela della vita familiare, anche omosessuale.

Il testo Cirinnà non è radicale e segue il tracciato indicato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 che sgancia la questione sulla legittimità costituzionale del matrimonio tra persone dello stesso sesso dall’articolo 29 per riferirlo all’articolo 2: una linea di condotta ad un tempo moderata (prospettando unioni civili non matrimonio) e rispettosa dell’eguaglianza. L’articolo 2 recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Cioè anche in unioni omosessuali.

Doverosa iniziativa dei deputati della Sinistra italiana per far sì che la legislazione italiana non sia una delle peggiori d'Europa in materia. Il manifesto, 20 gennaio 2016
Una Commissione parlamentare d’inchiesta con «gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria» per indagare sui casi di abusi e maltrattamenti nei confronti di persone sottoposte a privazione o limitazione della libertà personale. A promuoverla e a chiederne l’istituzione è Sinistra italiana che ieri ha presentato l’iniziativa a Montecitorio alla presenza di Ilaria Cucchi e del suo avvocato Fabio Anselmo, legale storico anche delle famiglie Aldrovandi, Uva e Assarag.

«Qualunque persona che finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata “sacra”; ogni abuso o maltrattamento nei confronti di un uomo in carcere dovrebbe essere, quindi, vissuto come il più alto degli scandali. Eppure il fenomeno non è affatto episodico», premettono nella proposta i deputati di Si. I primi firmatari, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni, il coordinatore nazionale di Sel, hanno anche presentato al ministro di Giustizia Andrea Orlando un’interrogazione a risposta scritta sul caso del detenuto Rachid Assarag che ha registrato le conversazioni con alcuni agenti penitenziari che ammettevano l’uso della violenza in carcere.

Al Guardasigilli, Costantino e Fratoianni hanno chiesto di «avviare un’ispezione accurata per appurare i fatti e assumere i provvedimenti conseguenti», visto che nei documenti prodotti da Assarag (non ritenuti validi dal pm che ha chiesto l’archiviazione del caso) si evince, secondo i deputati di Sel, che «spesso uomini della polizia penitenziaria di diverse carceri italiane in cui Assarag è stato detenuto, esprimono pareri sulle modalità di rieducazione dei detenuti che non rispondono per nulla alla Costituzione e alle leggi». Fra le frasi riportate «c’è quella di un agente penitenziario che avrebbe detto che con i detenuti “ci vogliono il bastone e la carota” e che “così si ottengono risultati ottimi”».

Un caso — come peraltro molti altri compreso quello di Franco Mastrogiovanni, morto durante un Tso — sul quale potrebbe indagare la commissione d’inchiesta parlamentare proposta da Si, che si comporrebbe di venti deputati nominati dal presidente della Camera e avrebbe la durata di due anni. Una commissione alla quale, soprattutto, «non si può opporre il segreto di Stato, né quello d’ufficio, professionale o bancario» e «rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell’esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto a esigenze investigative o di polizia», dal momento che, sostiene Si, «nonostante ci siano norme internazionali che lo sollecitino da tempo, il legislatore non ha peraltro ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale: una lacuna gravissima».

Oltretutto in un Paese in cui, come ricorda Ilaria Cucchi, «è inquietante sapere che per sei anni qualcuno ha taciuto, coperto, depistato», per nascondere la verità sulla morte di suo fratello Stefano.

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