loader
menu
© 2025 Eddyburg
A partire dall'analisi dissacrante di un evento contemporaneo (l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil") una riflessione profonda sul rapporto tra antico e contemporaneo, tra storia e mercato, tra arte e moda nella società di oggi.

La Repubblica, 7 agosto 2016

È la moda del momento: da Pompei a Roma l’arte contemporanea si insedia tra le rovine antiche con mostre, eventi, proiezioni. Come mai? La nostra cultura artistica si sente forse così fragile da aver bisogno di un ritorno alle radici, o così forte da volersi misurare sul metro della classicità?

Domande legittime. Ma, come ha scritto Aby Warburg, «ogni epoca ha la rinascita dell’antico che si merita»: e oggi il rapporto tra l’arte viva e i resti dell’antichità non sembra passare attraverso la profondità di un dialogo formale. No, ora le rovine sono semmai usate come una cornice legittimante in cui inserire qualcosa di completamente irrelato. Una magnifica scenografia per un presente narcisistico.

È l’estrema evoluzione del crossover antico-moderno all’interno dei musei, o nei centri storici: una moda che già nel 1962 Giovanni Urbani bollava come “estetica del catenaccio” (descrivendo così – un poco rudemente – l’inserzione di novanta sculture contemporanee tra le pietre antiche di Spoleto).

Ad essere ottimisti si potrebbe pensare che il movente culturale di questo nuovo matrimonio tra arte e rovine sia la natura di frammento che segna ogni opera dell’arte d’oggi: frammenti moderni tra i frammenti del passato, dunque. Ma è impossibile non vedere come in realtà si tratti di una sottospecie di un fenomeno più generale: che è l’uso dei grandi complessi archeologici come location per eventi di ogni tipo. Pompei è oggi il set di continui concerti (popolari per tipo di musica, ma esclusivi per i biglietti a tre cifre), mentre il Colosseo, con la sua ricostruenda arena, viene reimmaginato letteralmente come “cornice” di spettacoli e i Fori romani vengono manomessi per allestirvi – nel modo più invasivo, improprio, imprudente – concerti di beneficenza mediatica.

È questo il contesto in cui si colloca l’ambiziosa mostra "Par tibi Roma nihil" («nulla è degno di confrontarsi con te, o Roma»): lo schiacciante titolo cita l’entusiasmo di un visitatore altomedioevale): trentasei opere di artisti di oggi tra le rovine monumentali del Palatino (fino al 18 settembre). Scopo dell’esposizione è tradurre in pratica la linea culturale racchiusa in una sentenza che i curatori hanno posto ad epigrafe del catalogo: «Una delle vocazioni italiane è favorire la creazione contemporanea e metterla in relazione con il nostro patrimonio». Come dissentire? La sfida, tuttavia, è racchiusa nella parola che dovrebbe dare il senso ad ogni mostra: “relazione”. E dunque la domanda è: P riesce davvero a costruire una relazione tra il Palatino e le opere che vi espone?

A mio avviso, non ci riesce. E le lunghe didascalie che cercano di mettere in parallelo la lettura della singola opera e un’apertura sul mondo antico rischiano troppo spesso di evocare l’ironica constatazione di Umberto Eco per cui «tutto ha misteriose analogie con tutto». Che senso ha collegare le porte cinesi moderne replicate in gomma uretanica da Loris Cecchini con qualche cenno sui rapporti tra l’Impero romano e la Cina? O come leggere la presenza della cancellata sottratta ad una chiesa napoletana, e coronata di lattine vuote, da Giulio Delvè? O, ancora, è davvero utile collegare il bel filmato di Marinella Senatore su un gruppo di ex minatori analfabeti con una riflessione sull’uso del dialetto in Italia? E i due video digitali con un’alba e un tramonto mandati in loop su due iphone 5 da David Horvitz traggono forse un qualche profitto dall’accostamento con una pagina sul culto del sol invictus in età imperiale? E si potrebbe continuare molto a lungo: per concludere che no, questo sistema di relazioni non è affatto convincente, ed anzi appare del tutto posticcio.

Questo esito problematico è frutto della singolare situazione dichiarata dal catalogo: «Le opere esposte provengono dalla collezione della Nomas Foundation», vale a dire dalla fondazione di cui la curatrice della mostra, Raffaella Frascarelli, è presidente. Nutro personalmente molti dubbi sull’opportunità che un luogo come il Palatino divenga la straordinaria location dell’esposizione (e dunque, inevitabilmente, della promozione) di una collezione privata. Ma qui vorrei soprattutto sottolineare che l’assenza della relazione tra i luoghi e le opere dipende proprio dal fatto che nessuna di queste ultime è stata pensata e creata per l’occasione. Non mancano, naturalmente, esiti felici: come nel caso dell’intervento di Kounellis (che potrebbe passare per site specific, tanto bene si adatta al passaggio in cui è stato collocato), in quello di Le voeu, lo struggente video dei Masbedo che allegorizza con rara finezza il nostro rapporto con la tradizione classica, o ancora nel caso dell’illuminante filmato di Elisabetta Benassi sulla fruizione della Gioconda.

Ma si tratta di corrispondenze che appaiono quasi fortuite, dato che si contano sulle dita di una mano. Non per caso l’unica opera davvero site specific, cioè le bandiere di Daniel Buren, è anche l’unica che davvero funzioni: sposandosi poeticamente con le rovine, il cielo e lo spazio.

Morale: se le rovine sono un testo vivo da interpretare i frutti possono essere vitali, ma se invece diventano un set quei frutti rischiano di essere avvelenati. La morale di Par tibi Roma nihil sembra, dunque, suo malgrado racchiusa nella prima opera che accoglie il visitatore. Si tratta di una grande iscrizione rossa – realizzata, in legno e plastica, dall’artista serbo Marko Lulic’ nel 2009 – in cui si legge: «Death of the monument». E come muoiono i monumenti? Per incuria e abbandono, o per riforme sbagliate: e in Italia accade ovunque, appena fuori dalla luce degli eventi. Ma muoiono anche per banalizzazione, per riduzione a musica di sottofondo. I monumenti muoiono quando non parlano più: e non possiamo illuderci che ridurli a quinte mute e irrelate di una rappresentazione che celebra solo il nostro presente sia farli vivere. Perché abbiamo bisogno di relazioni: non di locazioni.
«Psiche e jihad. Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico e sociale. E’ prima una gabbia culturale, è il rifiuto dell’incertezza, della precarietà. E la persona diventa rigida, intollerante e violenta».

Il manifesto, 5 agosto 2016

Sui possibili fattori che concorrono a determinare il fenomeno stragista di questi anni, in particolare degli ultimi giorni, occorre in primis capire, ascoltare, interrogarsi. Il volto sempre più giovane degli attentatori, spesso figli della stessa civiltà che vorrebbero abbattere, ci obbliga a una riflessione non tanto sulla loro fragilità o immaturità, quanto sul loro percorso formativo per divenire adulti responsabili, sul modello di società che stiamo costruendo con il dominio della tecnologia e la perdita di valori etici e di diritti umani.

In questa era del postmoderno, dove persistono radici arcaiche e avanzano elementi innovanti, non bisogna smettere di conoscere. L’arcaismo che ci continua ad accompagnare nella nostra evoluzione, conserva tratti di primitivismo che possono riesplodere in condizioni di chiusura di quella vitale necessità di una prospettiva di buona emancipazione. Il postmoderno, a sua volta, spinge a innovare con una rapidità che muta strutturalmente le condizioni di vita, creando disagi esistenziali oltre che materiali. Disagi che ammassano le persone in aree di marginalità o esclusione sociale che possono divenire sacche esplosive.

Arcaismo e postmodernità sono fortemente interconnessi e nella loro unità generano fenomeni che vanno analizzati a fondo per poterli superare o debellare. Il capire è possibile se si supera una visione scolastica e ci si apre a un approccio multidisciplinare. La singola chiave di lettura del radicalismo politico, del fondamentalismo religioso, della psicopatologia o della devianza sociale non aiutano a cogliere il tragico fenomeno in tutta la sua portata invasiva e carica distruttiva.

Il contributo che possono dare le diverse discipline nello studio dello stesso fenomeno, è l’unica via lungo la quale possiamo arrivare a chiarire alcuni aspetti della violenza stragista. Uno dei fattori, forse non il più importante, che vorrei sottolineare è quello del fanatismo, in quanto cieco e totalizzante attaccamento a un’idea, una causa, una missione. Purtroppo su questo fenomeno l’approccio interdisciplinare (dall’antropologia alle neuroscienze) non ha prodotto molte conoscenze, in particolare sul fanatismo giovanile. Nonostante questo limite, qualcosa si può dire visto che è urgente aprire un dibattito a più voci.

Prendo come iniziale riferimento la dichiarazione rilasciata in una recente intervista da Liliana Segre, instancabile e illuminante testimone della Shoah. Dice a proposito della crudeltà umana: «E’ il fanatismo che ha portato il popolo tedesco a fare ciò che ha fatto. Non si può parlare di pazzia, Hitler non era pazzo. E’ come se ci fosse una vena di violenza, di fanatismo negli uomini che a volte riaffiora. Io ho molta paura di questa deriva di violenza fanatica che ritorna». La sua paura è anche la nostra e la sua lucidità di analisi dovrebbe divenire anche una nostra apertura mentale. Siamo ancora portati a dare veloci risposte tranquillizzanti e ad allontanare interrogativi responsabilizzanti. Perché la violenza riappare in tutta la sua barbarie? Perché da vena sotterranea non si prosciuga ma riemerge? Perché le azioni terroristiche dell’Isis e dei suoi militanti o adepti sono così efferate e disumane?

Il fanatismo non è indipendente dal contesto economico, sociale, culturale e ambientale. E’ l’esito di un serie di vicende personali, di rapporti sociali, di ingiustizie e di diseguaglianze tra le persone. In questo contesto il processo educativo e formativo diventa decisivo per evitare la caduta dei ragazzi nell’odio verso chi è diverso, estraneo o fortunato. Il fanatismo è prima di tutto una gabbia culturale, chi rifiuta l’incertezza e la precarietà può divenire inconsapevolmente soggetto intollerante, rigido, inflessibile, violento. E’ facile che arrivi a perdere qualsiasi valore per la vita propria e altrui. E’ facile che si attacchi dogmaticamente alla missione di giustiziere o di angelo vendicatore. E’ sempre successo nella storia, facciamo in modo che oggi non si ripeta la brutalità del passato, prendendo atto che intanto esiste una emergenza educativa.

C

C'è chi sa guardare nelle cose d'oggi e comprendere che cosa c'è dietro, e comunicarlo con semplicità. Un commento di Marco Belpoliti e le limpide risposte di Zygmunt Bauman alle domande di Giulio Azzolini.

La Repubblica, 5 agosto 2016

L'ETÀ DELLA PAURA LIQUIDA
di Marco Belpoliti


«Dieci anni fa, il saggio del sociologo dava il nome a quello stato di costante minaccia in cui il mondo vive a causa del terrorismo globale»

La paura è tornata. Sembrava domata, resa inoffensiva dalla nostra capacità tecnico-scientifica di dominare il mondo, di prevedere tutto, o quasi. E invece eccola di nuovo. Zygmunt Bauman ci aveva avvisati dieci anni fa in Paura liquida (Laterza): questo è il nome che ha oggi la nostra incertezza, la precarietà, la mancanza di futuro. Nessuno sembra indicare cosa fare. La leadership mondiale oscilla pericolosamente sull’orlo di un cratere. Il mondo è in

subbuglio e viviamo in uno stato di paura. Meglio: di ansietà. L’ha ricordato anche Sergio Mattarella in un discorso, resuscitando la formula usata da un poeta W. H. Auden in una sua opera: L’età dell’ansia. Egloga barocca scritta nel 1947 subito dopo le due bombe atomiche sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario. Nel 1966 i Rolling Stones in Mother’s Little Helper descrivono le casalinghe britanniche che ricorrono al Valium, un ansiolitico. Lo psicoanalista Henry P. Laughlin definisce l’ansia «tensione apprensiva, irrequietezza che nasce dal sentire un pericolo imminente ma vago di origine sconosciuta».

Come possiamo definire quello che proviamo quando entrando in stazione passiamo un checkpoint con militari in tuta mimetica, o quando ci sottoponiamo alle perquisizioni delle borse all’ingresso della mostra, o quando scorgiamo una borsa sospetta sul metrò? Cosa temiamo? Un attacco terroristico, un commando suicida? Tutto questo, ma anche altro. L’ansia non ha un contenuto definito. Se la paura si focalizza su una specifica minaccia esterna, un evento presente o imminente, come scrive il neuroscienziato Joseph LeDoux in Ansia (Raffaello Cortina), l’ansia implica una minaccia non definita, meno identificabile, «qualcosa di più interno», un’aspettativa mentale che potrebbe anche essere qualcosa di solo immaginato con scarse possibilità di verificarsi.

La parola “ansia” viene dal latino anxietas, che deriva dal greco angh, radice che veniva usata per significare “oppresso” o “turbato”, ovvero “angosciato”; il suo significato iniziale si riferisce a sensazioni fisiche come tensione, costrizione, disagio. La stessa parola “angina”, che riguarda malattie cardiache con dolori al petto, viene da angh (LeDoux). Le emozioni che proviamo sono un magma, ci ricorda lo psichiatra Eugenio Borgna in

Le figure dell’ansia (Feltrinelli), perché si mescolano insieme cose diverse: stati d’animo, sentimenti, esperienze vissute. L’ansia, alla pari di altre emozioni, non è qualcosa di omogeneo o di distinto, ma di stratificato, che può essere intesa e sondata solo con molto cuore, scrive Borgna. Per quanto l’ansia sia un’emozione individuale, soggettiva, alla pari della paura si comunica.

Di sicuro l’11 settembre, evento cui ha assistito in diretta tutto il mondo davanti alla tv, ha creato un’onda di panico che con il passare dei giorni e dei mesi si è tramutata in ansia. Si tratta del disturbo da stress postraumatico tipico di chi ha sperimentato un’esperienza sconvolgente; in questo caso però non ha riguardato solo chi si trovava sotto le Twin Tower, ma anche chi, lontano da New York, ha vissuto l’accaduto come se si fosse stato davvero lì.

Oggi i social network e i telefoni cellulari moltiplicano questo effetto su scala planetaria. Gli storici hanno mostrato come nel passato la paura fosse prima di tutto un sentimento collettivo. Jean Delumeau nel suo studio sulla paura tra il XIV e il XVIII secolo ( La paura in Occidente,secoli XIV- XVIII) esamina il timore del buio, di Satana, delle streghe, della magia, delle eresie, della peste. Prima che la Riforma trasformasse il rapporto con la religione da fenomeno generale in evento vissuto individualmente, i comportamenti collettivi definivano l’atteggiamento verso la paura, lo normavano. Ora sta accadendo qualcosa di simile? L’ansia diventa un fenomeno comune e non più solo una singola esperienza emozionale?

Nel suo poema Auden sembra suggerire qualcosa del genere. Si viveva, alla fine degli anni Quaranta, sotto il timore della bomba atomica, nell’incubo dell’esplosione fine-del-mondo descritta poi da Stanley Kubrick nel suo Il dottor Stranamore.

L’ansia, come altre emozioni, è contagiosa. Viviamo tutti in un atteggiamento d’attesa, d’anticipazione. Mentre nella paura l’anticipazione riguarda, «se e come una minaccia attuale causerà danni», scrive Le-Doux; nell’ansia «l’anticipazione coinvolge l’incertezza sulle conseguenze di una minaccia che è presente e che può non verificarsi ». Questo è lo stato d’animo collettivo in cui ci troviamo oggi: ci preoccupiamo di minacce future che possono nuocerci come collettività e come singoli, ma non sappiamo bene quali, e se poi ci riguarderanno davvero. Riformulando un’espressione di Kierkegaard, Louis Menand ha affermato che «l’ansia è il cartellino del prezzo della libertà umana».

«ATTENTI AIPOLITICI
CHE FANNO DEI NOSTRI SENTIMENTI
UNO STRUMENTO DI POTERE»
Intervista di Giulio Azzolini a Zygmunt Bauman

«Succede che i legami si frantumano che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto di dialogo e cooperazione -I leader: Non vedevano l’ora di trasformare le calamità in vantaggi. Le guerre distolgono dalle disuguaglianze- Il Papa: Ascoltiamo troppo poco Francesco ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica vera soluzione»
Professor Bauman, sono passati dieci anni da quando scrisse Paura liquida (Laterza). Che cos’è cambiato da allora?
«La paura è ancora il sentimento prevalente del nostro tempo. Ma bisogna innanzitutto intendersi su quale tipo di paura sia. Molto simile all’ansia, a un’incessante e pervasiva sensazione di allarme, è una paura multiforme, esasperante nella sua vaghezza. È una paura difficile da afferrare e perciò difficile da combattere, che può scalfire anche i momenti più insignificanti della vita quotidiana e intacca quasi ogni strato della convivenza».

Per il filosofo e psicoanalista argentino Miguel Benasayag, la nostra è l’epoca delle “passioni tristi”. Che cosa succede quando la paura abbraccia la sfiducia?
«Succede che i legami umani si frantumano, che lo spirito di solidarietà si indebolisce, che la separazione e l’isolamento prendono il posto del dialogo e della cooperazione. Dalla famiglia al vicinato, dal luogo di lavoro alla città, non c’è ambiente che rimanga ospitale. Si instaura un’atmosfera cupa, in cui ciascuno nutre sospetti su chi gli sta accanto ed è a sua volta vittima dei sospetti altrui. In questo clima di esasperata diffidenza basta poco perché l’altro sia percepito come un potenziale nemico: sarà ritenuto colpevole fino a prova contraria».

Eppure l’Europa ha già conosciuto e sconfitto l’ostilità e il terrore: quello politico delle Br in Italia e della Raf in Germania, quello etnico-nazionalistico dell’Eta in Spagna e dell’Ira in Irlanda. Il nostro passato può insegnarci ancora qualcosa o il pericolo di oggi è incomparabile?
«I precedenti sicuramente esistono, tuttavia pochi ma decisivi aspetti rendono le attuali forme di terrorismo assai differenti dai casi che lei ricordava. Questi ultimi erano prossimi ad una rivoluzione (mirando, come le Br o la Raf, ad una sovversione del regime politico) o ad una guerra civile (puntando, come l’Eta o l’Ira, all’autonomia etnica o alla liberazione nazionale), ma si trattava pur sempre di fenomeni essenzialmente domestici. Ebbene, gli atti terroristici odierni non appartengono a nessuna delle due fattispecie: la loro matrice, infatti, è completamente diversa».

Qual è la peculiarità del terrorismo attuale?
«La sua forza deriva dalla capacità di corrispondere alle nuove tendenze della società contemporanea: la globalizzazione, da un lato, e l’individualizzazione, dall’altro. Per un verso, le strutture che promuovono il terrorismo si globalizzano ben al di là delle facoltà di controllo degli Stati territoriali. Per altro verso, il commercio delle armi e il principio di emulazione alimentato dai media globali fanno sì che ad intraprendere azioni di natura terroristica siano anche individui isolati, mossi magari da vendette personali o disperati per un destino infausto. La situazione che scaturisce dalla combinazione di questi due fattori rende quasi del tutto invincibile la guerra contro il terrorismo. Ed è assai improbabile che esso abdichi a dinamiche ormai autopropulsive. Insomma, si ripropone, sotto nuove forme, il mitico problema del nodo gordiano, quello che nessuno sa sciogliere: e sono molti i sedicenti eredi di Alessandro Magno che, ingannando, giurano che le loro spade riuscirebbero a reciderlo».

Per molti politici e molti commentatori, le radici del terrorismo vanno rintracciate nell’aumento incontrollato dei flussi migratori. Quali sono, a suo giudizio, le principali ragioni della violenza contemporanea?
«Com’è evidente, i profitti elettorali che si ottengono stabilendo un nesso di causa-effetto tra immigrazione e terrorismo sono troppo allettanti perché i concorrenti al gioco del potere vi rinuncino. Per chi decide è facile e conveniente partecipare ad un’asta sul mezzo più efficace per abolire la piaga della precarietà esistenziale, proponendo soluzioni fasulle come fortificare i confini, fermare le ondate migratorie, essere inflessibili con i richiedenti asilo… E per i media è altrettanto facile dare visibilità alla polizia che assalta i campi profughi oppure diffondere le immagini fisse e dettagliate di uno o due kamikaze in azione. La verità è che è maledettamente complicato toccare con mano le radici autentiche di una violenza che cresce in tutto il mondo, per volume e per intensità. E giorno dopo giorno diventa ancora più arduo, se non proprio impossibile, dimostrare che i governi abbiano individuato quelle radici e stiano lavorando davvero per sradicarle».

Vuole dire che anche i politici occidentali utilizzano la paura come strumento politico?
«Esattamente. Come le leggi del marketing impongono ai commercianti di proclamare senza sosta che il loro scopo è il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, pur essendo loro pienamente consapevoli che è al contrario l’insoddisfazione il vero motore dell’economia consumistica, così gli imprenditori politici dei nostri giorni dichiarano sì che il loro obiettivo è garantire la sicurezza della popolazione, ma al contempo fanno tutto il possibile, e anche di più, per fomentare il senso di pericolo imminente. Il nucleo dell’attuale strategia di dominio, dunque, consiste nell’accendere e tenere viva la miccia dell’insicurezza…».

E quale sarebbe lo scopo di questa strategia?
«Se c’è qualcosa che tanti leader politici non vedevano l’ora di apprendere, è lo stratagemma di trasformare le calamità in vantaggi: rinfocolare la fiamma della guerra è una ricetta infallibile per spostare l’attenzione dai problemi sociali, come la disuguaglianza, l’ingiustizia, il degrado e l’esclusione, e rinsaldare il patto di comando-obbedienza tra i governanti e la loro nazione. La nuova strategia di dominio, fondata sulla deliberata spinta verso l’ansia, permette alle autorità stabilite di venire meno alla promessa di garantire collettivamente la sicurezza esistenziale. Ci si dovrà accontentare di una sicurezza privata, personale, fisica».

Crede che in tal modo le istituzioni rischino di smarrire il carattere democratico?
«Di sicuro la costante sensazione di allerta incide sull’idea di cittadinanza, nonché sui compiti ad essa legati, che finiscono per essere liquidati o rimodellati. La paura è una risorsa molto invitante per sostituire la demagogia all’argomentazione e la politica autoritaria alla democrazia. E i richiami sempre più insistiti alla necessità di uno stato di eccezione vanno in questa direzione».

Papa Francesco appare l’unico leader intenzionato a sfatare quello che lei altrove ha chiamato “il demone della paura”.
«Il paradosso è che sia proprio colui che i cattolici riconoscono come il portavoce di Dio in terra a dirci che il destino di salvezza è nelle nostre mani. La strada è un dialogo volto a una migliore comprensione reciproca, in un’atmosfera di mutuo rispetto, in cui si sia disposti ad imparare gli uni dagli altri. Ascoltiamo troppo poco Francesco, ma la sua strategia, benché a lungo termine, è l’unica in grado di risolvere una situazione che somiglia sempre di più a un campo minato, saturo di esplosivi materiali e spirituali, salvaguardati dai governi per mantenere alta la tensione. Finché le relazioni umane non imboccheranno la via indicata da Francesco, è minima la speranza di bonificare un terreno che produrrà nuove esplosioni, anche se non sappiamo prevedere con esattezza le coordinate».

«». Internazionale online, 1 agosto 2016 (c.m.c.)

Gli uomini picchiano le donne, spesso le pestano a sangue, alle volte le uccidono. Ogni tanto c’è un caso che sembra più disumano e per questo più esemplare: uno che tenta di bruciare viva la fidanzata che l’ha lasciato, un altro che ammazza insieme alla compagna i figli piccoli. A ondate sui giornali si riparla di femminicidio, o di allarme femminicidio; per il resto del tempo il conto delle morti continua regolare: negli ultimi mesi un tizio a Modena ha strangolato la sua ex e poi ha nascosto il cadavere nel frigorifero in cantina, a Novara un altro ha accoltellato a morte la moglie in strada, a Pavia un infermiere ha sparato alla moglie e alla figlia dodicenne. Quasi sempre gli uomini non accettavano la fine della relazione.

Lo stigma astratto su questi uomini violenti è speculare all’incapacità di ragionare sulle motivazioni dei loro gesti e di agire di conseguenza. Negli anni recenti non sono mancate campagne sociali e addirittura una legge ad hoc sul femminicidio, ma il risultato è che nel dibattito pubblico si è verificato spesso un semplice rovesciamento: dalla minimizzazione si è passati a fasi alterne all’emergenza. La violenza degli uomini prima era invisibile, poi è mostrificata: una riflessione laica su come intervenire efficacemente è sempre laterale, una politica d’intervento sociale sui maschi violenti è difficile da programmare.

Eppure, per fortuna, qualcosa si è mosso in questi ultimi anni. Sul sito della rivista inGenere si trova un elenco – indicativo, anche se non aggiornato – dei centri che in Italia si occupano di maschi maltrattanti: tre anni fa erano una quindicina, oggi sono più di trenta, sparsi a macchia di leopardo ma con significative differenze (a sud di Roma non c’è praticamente nulla).

Il ruolo di questi centri è cruciale. Giorgia Serughetti lo scrive chiaramente in un articolo con molti riferimenti intitolato Smettere si può: «La recidiva degli autori di violenza è straordinariamente alta: più di otto uomini su dieci rischiano di tornare a commettere gli stessi reati, se non interviene nel mezzo qualcosa o qualcuno. Ovvero se non sono presi in carico da un servizio o un centro d’ascolto per uomini maltrattanti».

Il funzionamento di questi centri è eterogeneo, non c’è un coordinamento nazionale, in alcuni casi hanno rapporti più o meno strutturati con le istituzioni (le aziende sanitarie locali, il carcere), in altri i programmi di aiuto cercano di fare tesoro delle esperienze anche se recenti: il Centro di ascolto per uomini maltrattanti di Firenze, aperto nel 2009, è in piccolo il punto di riferimento.

Il testo italiano che invece cerca di fare il punto, da una prospettiva teorica e fenomenologica, è Il lato oscuro degli uomini, uscito per Ediesse nel 2013 e poi varie volte aggiornate.

Il libro, oltre a segnalare quanto siano in ritardo il dibattito e la politica in Italia, cerca all’interno del femminismo fin dagli anni settanta l’origine di un rilevante cambiamento di approccio: «Mentre il lavoro di tutela e di sostegno per le vittime di violenza può essere considerato una conquista, l’intervento con gli uomini maltrattanti nelle relazioni d’intimità ha ricevuto, in paragone, molta meno attenzione da parte degli organismi pubblici, del terzo settore e dagli ambienti accademici. Barner e Carney, in un excursus storico sullo sviluppo dei programmi per uomini violenti negli Stati Uniti, affermano che a partire dalla fine degli anni settanta le case rifugio per le donne hanno cambiato la loro strategia di aiuto passando da un ‘intervento d’emergenza e primario per le vittime’ ad una ricerca attiva di collaborazioni sul territorio con altri servizi per fornire loro migliori opportunità di empowerment all’interno della situazione di violenza con l’obiettivo della prevenzione della recidiva e lo sviluppo di un approccio di comunità».

Insomma può essere utile fino a un certo punto proteggere donne e bambini dalle violenze dei maschi, se il maschio non fa nulla per affrontare il suo problema. Ma non è l’anno zero, e auspicare vagamente una presa di coscienza dei maschi italiani sessisti significa non fare tesoro delle analisi e dei risultati di chi ha cominciato a interrogarsi sul metodo oltre che sul merito della questione, e ha elaborato per esempio i programmi di training in Scozia (il programma Change) e in Catalogna (il programma Contexto).

Del resto è almeno un decennio che vari gruppi di uomini hanno affiancato a questo lavoro sul campo un percorso di indagine culturale. Stefano Ciccone dell’associazione Maschile plurale me lo conferma: «L’attenzione è cambiata, o meglio sta cambiando. Ma è il contesto stesso che va ripensato. Occorre individuare i comportamenti violenti, e per questo servono formazione e capacità di distinguere questi comportamenti all’interno di una cultura che è profondamente condivisa. Per cui il fenomeno più banale è quello della molteplice rimozione della responsabilità. Si passa da ‘io non sono violento, ho avuto un comportamento violento in quell’occasione, in quella situazione’ alle dichiarazioni di assassini o stupratori che messi a confronto con altri uomini violenti dichiarano: ‘Io che c’entro con questi, io quelli che violentano le donne li ammazzerei’. Oltre ovviamente alla costante colpevolizzazione della donna: ‘È stata lei. Lei mi ha fatto diventare così, lei mi ha ridotto in questo stato’».

L’elaborazione delle proprie emozioni può essere un cammino lunghissimo, inedito per molti adulti maschi, non abituati nemmeno a immaginare la realtà oltre che la legittimità di un’autonomia femminile. Quest’autonomia, agli occhi dei maschi che si credevano forti e fanno fatica a sentirsi limitati o impotenti, è un mostro. Il rovesciamento è pieno. Continua Ciccone: «Il sentimento di questi uomini nei confronti delle donne è di puro rancore. Le donne sono descritte come false, opportuniste, manipolatorie. ‘Io sono la vittima, io sono onesto, io sono trasparente’».

È evidente, anche dalle parole di chi lavora con i maschi maltrattanti, che il lavoro primario è quello conoscitivo e sui contesti culturali. Come si fa a essere consapevoli di essere violenti, sessisti, se il mondo intorno a te non solo tollera ma induce questi atteggiamenti?

Daltra parte, parlando con Costanza Jesurum, psicoanalista e autrice di un libro sullo stalking, mi rendo conto che la sola prospettiva sociologica e culturale è tanto importante quanto insufficiente.

«Bisogna considerare che nei casi italiani la voce psichiatrica è forte, e non si può parlare di una patologia generalizzata come per alcuni paesi del Sudamerica dove il femminicidio è culturalizzato.

Occorre impostare l’intervento a più livelli: per prima cosa ovviamente affrontare l’emergenza e dare soldi, molti, ai centri antiviolenza – mentre mi sembra che oggi in Italia la discussione sia sempre come tagliare e non come aumentare. Bisogna aprirne di nuovi, soprattutto al sud la situazione è drammatica.

L’intervento psichiatrico invece è più difficile perché i maschi violenti non si vedono come tali, pensano di aver ceduto una volta – e in questo senso ovviamente la connivenza della società è pericolosa. Ma in questi casi c’è sempre un problema con il proprio femminile interno, che viene visto come angariante. Un’immagine perfetta di quest’angoscia può essere esemplificato dal film Venere in pelliccia di Polanski: ecco una femmina che solo per il fatto di essere libera è minacciosa. Come si risponde a quest’angoscia? Invece di incorporare il soggetto interno – ostile in quanto autonomo – dentro una relazione matura, si assiste a una controreattività sadica. Negli incastri fusionali patologici ci può essere una regressione provvisoria, ma appunto patologica».

È vero che nella narrazione maschile la violenza sulla donna è sempre una reazione. È lei che mi ha provocato, dice lui. E spesso le vittime della violenza maschile sono le donne più autonome, che magari hanno cominciato la relazione in un momento di debolezza (la morte di un genitore, un periodo di depressione), incastrate in una relazione di dipendenza, e nel momento in cui riacquistano autonomia sono percepite come traditrici, minacciose, ostili.

Sarebbe bello però che queste costanti fenomenologiche portassero anche a individuare fattori comuni da un punto di vista diagnostico. Jesurum spiega che non è così: «Le patologie legate alla violenza di genere possono essere molte e molto diverse, bisogna sempre indagare sulla singola persona, il suo contesto famigliare, la sua storia. Anche se il discrimine vero nella violenza di genere è l’evidenza che in questi casi il sesso è sempre legato a un istinto di morte. Si vuole uccidere la partner».

Riuscire ad avviare un percorso di psicoterapia serio con maschi violenti, stalker, stupratori, pedofili, assassini non è per niente semplice. Oltre la mancanza di strutture, oltre la rimozione, esiste uno stigma sociale molto duro (pensiamo all’interno delle carceri), ma anche non di rado tra gli stessi terapeuti, che alle volte esitano a prendere in carico questo tipo di pazienti. Ne dà un quadro molto lucido Marina Valcarenghi, psichiatra milanese, autrice di un libro che racconta la sua esperienza clinica ormai ventennale, Ho paura di me.

Nel racconto di Valcarenghi si mostra come i molestatori, i maschi violenti non suscitano l’interesse di nessuno, né dei politici, né dei medici, né dei formatori, né dei criminologi: è come se fossero dei paria della società. Perché, ci si chiede, uno dovrebbe confessare pulsioni pedofile o un istinto violento, ed essere condannato per sempre? E infatti non accade, e quest’uomo, invece di tentare di capire come trasformare il suo istinto violento in altro, ci si abbandonerà come se non fosse artefice delle sue azioni: dall’immaginare violenze sulle donne o anche sui bambini, passerà a compierle.

Agire sul piano personale e collettivo

Sia Ciccone sia Jesurum sia Valcarenghi però concordano che, pure in assenza di denominatori comuni tra questi comportamenti violenti (Valcarenghi: «Né storia, né etnia, né religione, né classe sociale, né esperienze, né traumi, né temperamenti, né condizioni economiche»), occorre agire contemporaneamente sia su un piano individuale sia su uno collettivo.

«La struttura psichica, quella conscia e quella inconscia, si forma all’interno della società di appartenenza: la famiglia, la scuola, la vita sessuale, il lavoro, le passioni, gli ideali, i sogni, tutte le esperienze prendono forma all’interno del tessuto sociale», scrive Valcarenghi.

E quindi il miglior modo per contrastare la violenza di genere è tutelare il welfare state: per esempio la scuola, dall’asilo nido in poi, può rivelarsi un fattore protettivo rispetto alle patologie famigliari di oggi, e domani può diventare il luogo dove intercettare ragazzi che stanno sviluppando istinti violenti.

Di fronte a una società in cui le famiglie si vanno nuclearizzando, la psicoterapia non può essere solo appannaggio di una classe sociale che se lo può permettere. Questo significa immaginare una società futura dove crescere dei cittadini responsabili e non solo uno stato che, in assenza di una cultura della relazione, cerca come può di proteggere le vittime.

Riferimenti
Vedi in proposito l'appello "C'è una questione maschile" proposto da Enzo Scandurra e lanciato da eddyburg

«»La Repubblica,

Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione.

Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico compiuto in un contesto religioso?

La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto eccezionale e con le medesime finalità sociopolitiche.
Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo rivolgersi insieme all’unico Dio?

La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede?

Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non possono essere detti figli di Dio.

Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la valenza antropologica della preghiera.

Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi. È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera.

La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza) genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung: «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco lo strisciante malessere del nostro tempo.

Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti.
Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare è pensare al senso della vita».

Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su cui camminare nella fatica dei giorni. Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale.

E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.

La presenza corale dei musulmani alle chiese cattoliche «mette a nudo una asimmetria. I cattolici non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad»La Repubblica, 1° agosto 2016

“TI È duro resistere al pungolo”: in uno dei racconti della conversione di Paolo (At 21) il Risorto apostrofa così l’apostolo: perché la conversione è una colluttazione, in cui Dio usa i colpi proibiti.

Ieri la chiesa cattolica europea ha sentito la fitta di quello sperone conficcarsi nella sua carne viva. La presenza alla eucarestia dei musulmani, per il martirio di padre Hamal, è stata infatti un “pungolo” che chiama la chiesa alla conversione. È stato favorito dalla tempestività con cui papa Francesco, fedele al protocollo vaticano in vigore dall’11 settembre, non ha concesso il riconoscimento politico di guerra “dell’islam” al terrorismo: dalla chiarezza con cui alla Gmg ha ripetuto il no all’odio che, come osservava ieri Eugenio Scalfari, è un no al potere, anche religioso.

Eppure la presenza islamica nelle chiese è stata un gesto spiazzante dal quale non pochi cattolici hanno cercato di “difendersi”. C’è chi paternalisticamente l’ha ridotto, ad un “buon inizio” e ha lodato i musulmani “moderati” (a proposito: quando smetteremo di regalare il nobile titolo di “radicali” ai tagliagole e chiameremo “musulmano” ogni musulmano che prega, e “sanguinario islamista” ogni musulmano che uccide?). C’è chi s’è premurato di precisare che non si trattava di una “preghiera comune”, se mai evocando la distinzione di età ratzingeriana fra “pregare insieme” e “pregare simultaneamente”. Si è provato a sottovalutare la difficoltà di uno “sforzo ascetico” (quello che nel Corano è definito il “jihad”, con un’altra parola che l’inverno della nostra ignoranza usa al femminile perché lo traduce “guerra”) e si sono dimenticate molte presenze locali in passato.

Tutti tentativi per diminuire la forza di una presenza che mette a nudo una asimmetria. I cattolici — anche se alcuni pure vescovi e chierici, l’hanno fatto a titolo individuale — non hanno preso una iniziativa comunitaria per andare in moschea a piangere quando sono morti i bimbi di Siria e le donne di Bagdad. Non hanno versato lacrime per la sanguinosa profanazione della fine del ramadan avvenuta a Medina e in altri luoghi. Non hanno fatto lutto per le vittime musulmane, e c’è voluto un Papa argentino e un Patriarca turco per lasciare sul mare un fiore per loro.

Anche i cattolici hanno subito pigramente la vera offensiva del Regista dell’Isis (perché c’è un Regista): che vuol abituarci a distinguere attentato da attentato, a sentire diversamente gli uccisi nostri e loro, attraverso gli attacchi ai luoghi della vita comune, come fu alla Stazione di Bologna.

Pigrizia spirituale: perché in teoria lo sanno tutti. La fraternità non nasce quando si pongono condizioni alla relazione, ma quando nella prova qualcuno dice “sono qui con te”. Lo sanno le comunità ebraiche, che, ogni volta che il terrorismo ne ha colpito una, hanno sentito più “spiegazioni” giustificatorie e antisemite che fraternità vere. Ora lo sanno i cristiani, che hanno visto sparire intere comunità e chiese, mentre il conservatorismo pantofolaio domandava la crociata e la chiusura delle frontiere. Lo sanno i musulmani che da quasi quarant’anni vedono la guerra dell’ex impero Ottomano cambiar nome, ma permanere.

Finora non era accaduto che una comunità venisse a dire a un’altra comunità, più vasta e riconosciuta, “sono qui con te”: per abitare la stessa libertà e chiedere nella preghiera la stessa cosa che chiedi l’altro. Che l’iniziativa sia stata presa da musulmani promette bene per l’Europa (e male per il Regista): dimostra che la libertà religiosa che questo continente ha conquistato superando le guerre di religione, le guerre di irreligione, le guerre mondiali — questa libertà fa bene a chi la vive ed è più sicura degli screening discriminatori. Non rende i credenti non meno credenti, ma credenti migliori.

Che dunque si possono misurare con la sfida teologica, che Francesco ha posto anche in questi giorni. I cristiani delle diverse chiese, un tempo nemici e carnefici gli uni degli altri, riconoscono ora che c’è un “ecumenismo del sangue”, in cui l’unità nasce dalla persecuzione ed è stata compresa grazie ad un difficile lavoro storico-teologico. Al terrorismo che sparge il sangue di credenti e non credenti bisogna dare la stessa risposta: forse creando un gesto liturgico comune più impegnativo dello “spirito di Assisi”.

C’è una “fraternità nelle vittime”, una alleanza in Abele, che nasce non se si dice “tutti i morti sono eguali”, ma quando i credenti comprendono il martirio dell’altro. In una campagna terroristica a cui neghiamo il titolo di “guerra di religione”, non ci servono religioni che sappiano “fare pace”: pace fra le culture, mettendo in gioco la fede nel Dio unico, interrogandolo, sentendone il pungolo.

Il manifesto, 24 luglio 2016 (p.d.)
Cosa avesse davvero in testa il giovane attentatore di Monaco di Baviera non lo sapremo mai. La conclusione suicida della sua avventura non lascia spazio che al gioco delle illazioni analitiche. Ma in fondo non è poi così rilevante. Quello che è certo è che, come il diciassettenne accoltellatore afghano (forse pachistano) del treno di Wuerzburg, rappresentava nella sua persona la complessità, l’indistricabile intreccio e i fragili equilibri delle società europee in cui viviamo.

Iraniano di origine, musulmano, orgogliosamente tedesco, a quanto sembra, nemico giurato di non si sa quali stranieri, vendicatore di non si sa quali torti l’uno; profugo da un paese in guerra, adottato e improvvisato guerriero del Califfato, l’altro, ci hanno mostrato entrambi, senza troppi complimenti, cosa accade quando queste vite multiple e burrascose entrano, per le più diverse ragioni, in cortocircuito.

Qualcosa di non molto diverso da quanto accade nel più ampio contesto della vita collettiva: aggressioni, pogrom, sprezzo o soppressione dei diritti, legislazioni di emergenza, identità fittizie che digrignano i denti additando questo o quel nemico. La democrazia in cortocircuito genera la stessa irrazionalità omicida che muove l’azione del singolo giustiziere. Il risentimento per i torti subiti (reali o immaginari) colpisce alla cieca, ispirandosi a quanto il mercato ideologico offre in quel momento. Diversi governi europei non fanno molto di meglio.

L’odio, covato nell’ombra, dal giovane pistolero di Monaco non sembrerebbe poi così diverso da quello dei ragazzi americani autori della strage di Colombine e di tanti altri imprevedibili sterminatori scolastici. Sono il tempo e il contesto a essere diversi. Nel clima che ci circonda, pur non essendo in nessun modo riconducibile all’Is, anche il pluriomicida di Monaco fa la sua parte: ha origini islamiche e uccide a casaccio. Quanto basta per rinfocolare l’odio xenofobo.

Ogni tempo e ogni società dispongono di una rappresentazione «privilegiata» del Male che esercita sui «perdenti», le vittime e gli emarginati una potente forza di attrazione. A queste figure, così diverse tra loro ma accomunate da un sentimento di sconfitta che esige di essere riscattato, Hans Magnus Enzensberger aveva dedicato alcuni anni fa uno scritto illuminante, intitolato, appunto «Il perdente radicale».

Oggi, nel mondo e soprattutto in Europa, questa rappresentazione ha preso forma nel Califfato e nelle sue ramificazioni occulte. E non certo senza fondamento. Ma questo conferisce allo Stato islamico un formidabile vantaggio: quello di incarnare lo «spirito di vendetta» in generale, il quale non conosce confini territoriali né organigrammi organizzativi. Quella che potrebbe apparire una limitazione, e cioè la fede islamica interpretata nella maniera più rigida, in realtà non è che un’identità fittizia e provvisoria a disposizione di chiunque intenda portare a termine la propria personale «vendetta». Ai vertici del Califfato nessuno lo ignora ed è cinica consuetudine non andare troppo per il sottile. Del resto, come sappiamo, i «precetti della fede» incidono ben poco sui costumi e le abitudini di molti che si scoprono e si proclamano combattenti dello Stato islamico in Occidente. Questo fenomeno consente al Califfato e ai suoi organi di propaganda di intestarsi «a posteriori» anche quelle esplosioni di violenza che intrattengono un assai labile (a volte inesistente) legame con la sua dottrina. Quel che conta è, infatti, che il moltiplicarsi dei cortocircuiti individuali determini un grande cortocircuito sociale. A fronte di questa strategia le misure adottate dai governi europei rientrano in una sorta di decalogo dell’impotenza.

Gli «obiettivi sensibili» sono ormai un’espressione priva di qualunque senso. Se vi è qualcosa che non è mai stato toccato, dopo l’irripetibile attacco alle torri gemelle, sono proprio i luoghi e i simboli del potere politico ed economico. Che si tratti di cellule organizzate o di giustizieri improvvisati, l’obiettivo resta colpire nel mucchio. Cosicché tutti e ciascuno possano considerarsi potenziali vittime del terrorismo.

L’unica forma di protezione possibile è impedire che le nostre società si imbarbariscano, finendo col condividere la patologia vendicativa che anima gli autori delle stragi.

«Sono 1800 le donne uccise , in famiglia o all'interno della coppia, dal 2005 ad oggi. La criminologa: “Gli assassini bruciano le loro vittime perché è come se ammazzassero due volte”

». La Repubblica, 4 luglio 2016 (c.m.c.)

Ancora una donna data alle fiamme, cosparsa di alcol, incendiata come carta straccia da buttare. Punita col fuoco davanti ai bambini di uno e tre anni in lacrime perché osava protestare per i continui maltrattamenti. Ma anche una donna che, portata in ospedale, ha cercato di negare le violenze, di difendere l’uomo che diceva di amarla e l’aveva ridotta in prognosi riservata, col corpo straziato, coperto di ustioni. È accaduto sabato sera a Tuglie, in provincia di Lecce, dove il compagno, che all’ultimo aveva dato l’allarme, è stato poi arrestato.

E la memoria corre a Sara Di Pietrantonio, la ventiduenne romana strangolata e bruciata, abbandonata in un cespuglio a fine maggio come una bambola vecchia dall’ex fidanzato che non accettava di essere stato lasciato. Sara e le altre. Perché si ripetono in questi mesi i casi in cui è il fuoco l’arma scelta per punire la donna che ha osato ribellarsi o deciso di andarsene: Lecce, Roma, Caserta, Pozzuoli, Caorle. Giovani e pensionati, italiani e stranieri, borghesi e senza tetto hanno usato benzina, alcol, liquido infiammabile generico.

Così recitano i rapporti di polizia degli ospedali. «Come se volessero cancellare le loro donne senza neppure sporcarsi le mani con il loro sangue», sottolinea Anna Costanza Baldry, criminologa, docente di psicologia alla seconda università di Napoli che da anni lavora contro la violenza alle donne.

Sara e le altre, vittime di mariti, fidanzati che non si vogliono arrendere alla fine di una storia. Sono 63 le donne morte dall’inizio dell’anno uccise da chi sosteneva di amarle. Centinaia quelle aggredite, ferite, vittime di stalking. Questo raccontano i dati ufficiali del 2016, in lieve calo, cifre che non fotografano però la realtà per intero, vista la quantità di vittime che non denuncia e che anche in ospedale, come a Tuglie, nega nel timore di nuove violenze.

Troppa la paura di non avere un luogo sicuro dove rifugiarsi prima che il colpevole venga condannato. Perché siamo in un Paese dove da un lato il ministero promuove camper che gireranno per le città per convincere le vittime a denunciare, mentre dall’altro si tagliano i fondi ai centri antiviolenza che le accolgono, le ospitano una volta in fuga dalle case e dai compagni che le abusano.

«Sono molte le donne vittime di stalking che mi hanno raccontato di essere state minacciate, di essersi sentite urlare: io ti do fuoco» spiega Baldry. «Per l’uomo è come dire: io decido di eliminarti, di annullarti, eri cenere e cenere ritornerai. Mi prendo il ruolo di dio, è un’estrema assunzione di potere. E di vendetta: perché chi lo fa sa di procurare una morte lenta, dolorissima. Perché è una decisione presa due volte, quando si appicca il fuoco e quando si sceglie di non intervenire, di non buttare una coperta addosso alla moglie, alla fidanzata in fiamme. Una doppia crudeltà, un gesto primordiale, come primordiale è il fuoco, la sua paura, la sua fascinazione, anche se non è detto che chi compie questo gesto abbia fatto tutti questi pensieri, ma semplicemente ha agito di istinto, con l’arma più a portata di mano».

E davanti a questa violenza, secondo l’esperta psicologa, non ci sono leggi più severe capaci di far desistere chi diventa assassino perché incapace di accettare il libero arbitruo altrui. E sono ancora tanti in Italia, anche se i dati del ministero dell’Interno parlano di un 20 per cento in meno di femminicidi, 63 a 80, rispetto ai primi sei mesi del 2015.

I dati dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (Eures) parlano invece di quasi 1800 donne uccise dal 2005, il 71 per cento in famiglia, e di queste il 67per cento all’interno della coppia. Una su quattro da un ex marito o compagni. I femminicidi hanno avuto nel 40,9% dei casi un movente passionale, e nel 21,6% sono stati originati da liti.

Le armi più utilizzate sono state quelle da taglio (32,5%) o pistole (30,1%) mentre il 12,2% dei killer ha fatto uso di “armi improprie” (in questa percentuale rientra l’uso del fuoco), il 9% ha strangolato la vittima e il 5,6% l’ha soffocata. Nel 16,7% dei casi, il femminicidio è stato preceduto da “violenze note” ma solo l’8,7% è stato denunciato. Come dire, una volta su due botte e maltrattamenti sono rimasti segreti. Chiusi dentro alle mura di casa. Fino a quando non è stato troppo tardi.

lo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano». La Repubblica, 30 giugno 2016

Byung-Chul Han, Psicopolitica, nottetempo traduzione di Federica Buongiorno pagg. 110, 12€

Viviamo gli anni del serpente. Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precetti, costrizioni e divieti: salvo l’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che accade sotto di sé perché le basta il saldo finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri. Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nella forma del grande risentimento collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scontento, unendo disperazioni individuali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politica. Cosa fa il potere davanti a questa mutazione in corso? Molto semplicemente ha congedato il corpo, che nel Novecento aveva ossessionato i due totalitarismi europei nella loro sindrome di vigilanza, e lo ha relegato a oggetto di consumo da vendere e comprare nelle palestre, nei centri estetici, nei trattamenti sanitari.

Il corpo come strumento della produzione industriale e dunque come oggetto della sorveglianza politica, non c’è più. Col corpo, finisce la biopolitica teorizzata da Foucault, col potere impegnato nel controllo del somatico, del biologico, del corporale. Si conclude così anche la lunga fase del controllo sociale organizzato negli spazi chiusi, dalla scuola all’ufficio, alla caserma, alla fabbrica, all’ospizio, inadatti alle nuove forme di organizzazione post-industriali, interconnesse, immateriali. Per forza di
cose muore la vecchia talpa, animale sottomesso della società disciplinare che abitava quei luoghi ristretti, nella rigidità degli spazi. Nasce la società del serpente, l’animale che dischiude gli ambiti chiusi col suo solo movimento, che si adatta e scivola, supera barriere e restrizioni, connette gli spazi e sa cambiar pelle. Mitologicamente, poi, il serpente incarna il peccato generale che la società moderna porta in sé, e dunque avvera la profezia di Benjamin: il capitalismo è il primo caso di una cultura che non consente espiazione ma produce colpa e debito.

Ma soprattutto – e proprio qui – nasce la “psicopolitica”, la nuova tecnica di dominio tipica della società in cui viviamo. L’annuncia, in un saggio pubblicato da Nottetempo, Byung-Chul Han, il filosofo tedesco di origine sud coreana che ha studiato la globalizzazione e la teoria dello “sciame” digitale. La tesi è che le nuove costrizioni cui dobbiamo rispondere sono in buona misura volontarie (e per questo ci appaiono naturali) perché sono generate dalla nostra stessa libertà, in quanto la libertà di potere non ha limiti, e dunque produce più vincoli del dovere. Ecco che mentre si pensa come autonomo e libero, l’uomo d’oggi sta in realtà sfruttando se stesso senza avere un padrone, diventa imprenditore di sé, isolato in sé, e si “usa” volontariamente, seguendo le nuove esigenze della produzione immateriale. In questa volontà libera e sfruttata, in questo isolamento cresce la stabilità del sistema perché saltano le classi e le distinzioni tra servi e padroni, non si forma mai un “noi” politico, una comunità di ribellione, anzi non si vede emergere alcun punto di resistenza al sistema.

Anche il nuovo tecnopotere si nasconde nella libertà, sottraendosi ad ogni visibilità. Deponendo il comando del potere disciplinare, preferisce sedurre piuttosto che proibire, plasmandosi sulla psiche invece di costringere i corpi, assume forme permissive mostrando benevolenza, cerca di piacere per suscitare dipendenza, depone ogni messaggio negativo usando la libertà per portare l’individuo a sottomettersi da sé. Nasce così la “società del controllo digitale” dove grazie all’autodenudamento volontario di ognuno di noi la libertà e la comunicazione che corrono senza limiti in rete si rovesciano in controllo e sorveglianza totali, con i social media «che sorvegliano lo spazio sociale e lo sfruttano », proprio a partire dall’auto- esposizione liberamente scelta da tutti gli utenti. Il risultato è un’informazione che circola indipendentemente dal contesto che la rende comprensibile e la connette ad un paesaggio cognitivo più ampio, mentre ogni estraneità, diversità, difformità viene eliminata perché rallenta la fluidità della comunicazione illimitata.

La libertà del cittadino, avverte Byung-Chul Han, cede alla passività del consumatore che non ha più alcun interesse alla politica e alla costruzione di una comunità, ma reagisce solo passivamente criticando e lamentandosi per la cattiva politica, proprio come il consumatore si lamenta di merci e servizi che non lo soddisfano. Anche il politico, di conseguenza, diventa semplicemente un fornitore. E la trasparenza viene invocata e svalutata insieme, perché non è richiesta per svelare i meccanismi decisionali, ma per mettere a nudo i personaggi pubblici.

Sono tutti ingredienti di una democrazia da spettatori, dove il cittadino guarda l’azione invece di agire mentre il suo status rimpicciolisce e i suoi diritti non sono più quelli del protagonista, ma del pubblico pagante: che fa numero, ma non fa più opinione.

Più dell’opinione pubblica, d’altra parte, nell’era della psicopolitica contano i Big Data che possono realizzare la speranza illuministica di liberare il sapere dall’arbitrio elaborando previsioni sul comportamento umano, ma possono trasformarsi in strumenti devozionali della fede digitale nella quantificabilità della vita: utili a scomporre il “sé” in microdati fino al vuoto di senso, perché «contare non è raccontare», fortunatamente, e fino a rendere visibile una microfisica di mini- azioni che si sottraggono alla coscienza consapevole. Così la psicopolitica potrebbe trovare un suo accesso all’inconscio collettivo, creando un “sapere del dominio” che permette di interagire con la psiche, influenzandola in anticipo sulla coscienza, prima che la razionalità prenda il controllo dei fenomeni.

Non c’è bisogno di arrivare fino a questa soglia. Così come Weber parlava del capitalismo ascetico dell’accumulazione, che seguiva una logica razionale, Byung- Chul Han parla oggi di un “capitalismo delle emozioni” perché il processo razionale diventa anch’esso troppo rigido, scontato e lento per le nuove tecniche di produzione che invece si avvantaggiano dell’emotività. Così la nuova economia dei consumi capitalizza significati e sensazioni in una vera e propria trasformazione emotiva del processo di produzione. E la psicopolitica si è già impossessata della sfera emozionale, in modo da poter influenzare le azioni sul piano pre- riflessivo.

Un potere mimetico, dunque, che vive a suo agio nella libertà sfruttandola e usandoci mentre ci crediamo a nostra volta liberi. Che vive in un tempo digitale di accumulo del passato ma senza un processo narrativo della memoria. Che ci convince della misurabilità di ogni cosa, come se la realtà fosse già tutta rivelata e la conoscenza qualcosa da scaricare più che da conquistare perché le risposte sono tutte pronte, dunque non servono più le domande. Un potere che mentre cattura la psiche dimentica i corpi. Sarà per questo che i corpi dei migranti – puro corpo, nuda vita che pretende di continuare a vivere – ci fanno così paura.

Il Fatto Quotidiano online, 30 giugno 2016 (c.m.c.)

«Come è possibile che alcuni uomini non si rendano conto di quanto è terribile e diffusa la violenza sessista, a cominciare dalle parole che si usano e dalle battute ‘divertenti’, nei social come nella vita reale, e di come in molti siano conniventi quando la incrementano minimizzandola?» L’amica blogger Nadia Somma fa questa domanda durante una conversazione, e nella mente rimbalza la parola ‘ignoranza’.

Tempo fa avevo letto il concetto di ‘ignoranza emotiva’ per definire la condizione di quella considerevole fetta di uomini educati a ridimensionare, se non a considerare estranee dalla loro maschilità, i sentimenti, le emozioni e l’empatia. Non solo verso le donne, ma in generale, verso il mondo. Uomini interconnessi, contemporanei e tecnologici, ma primitivi e ferini nella sfera relazionale. Capaci di motivare i ‘raptus’ stupratori e il femminicidio ricorrendo al concetto di ‘istinto’, descrivendo la virilità come uno status che può andare fuori controllo: «Lei ti fa infuriare, non ci vedi più e partono le sberle», come detto nella felice sintesi del bel video della campagna di Intervita ‘Servono altri uomini’.

Ecco: la lotta contro l’ignoranza è davvero uno dei concetti più importanti nella battaglia contro la violenza di genere.

L’esperienza forte, (e fisica), dell’ignoranza letterale, quella dell’analfabetismo, l’ho fatta quando sono andata per la prima volta in un campo rom, a Genova, una quindicina di anni fa. Fui l’unica tra le madri dell’allora scuola elementare frequentata dal mio figlio più grande, a conoscere di persona le madri di alcuni suoi compagni e compagne di classe appartenenti alla comunità Sinti del campo del mio quartiere. Erano donne tutte molto più giovani di me, tutte analfabete, come mi disse la mediatrice culturale che mi aveva accompagnata lì. Non avevo mai conosciuto nessuno che non sapesse né leggere né scrivere, perché nemmeno le donne e gli uomini anziani della mia famiglia d’origine, contadini poveri dell’entroterra ligure, lo erano.

Le elementari, nel piccolo paese sulle alture della Valfontanabuona dove sono cresciuta, erano tutte insieme nell’unica stanza di una costruzione fatiscente, ma comunque c’erano; nonna, nonno e zie, pur avendo come fonte prioritaria di lettura l’allora assai pittoresca versione di Famiglia Cristiana sapevano leggere, scrivere e fare di conto, come si diceva una volta.

Nei primi anni del nuovo secolo, in Italia, in una grande città del nord l’incontro con donne giovani sprovviste di strumenti culturali di base come la lettura o la scrittura è stato uno shock. Ho provato, senza riuscirci, a immaginare la mia vita priva della possibilità di leggere e scrivere, due attività che diamo per scontate nella nostra quotidianità. E’ infatti anche, (e soprattutto), attraverso la lettura e la scrittura che l’umanità diverge dal resto degli esseri viventi: ciò che chiamiamo “cultura” è apprendimento di quanto altri umani producono scrivendo e scambiando sapere, emozione, senso critico.

La premio Nobel, avvocata e femminista Shirin Ebadi si è chiesta come possa una donna che non ha fatto esperienza per sé della libertà passarla alle figlie che partorisce, e questo è tanto più vero quanto poco, o nulla, quella donna ha a disposizione dal punto di vista culturale. Alla base della libertà di un essere umano ci sono i diritti universali, che sono impossibili da ottenere se non si sa leggere e scrivere.

Mi chiedo se la lotta contro la violenza alle donne, il sessismo, l’omofobia e ogni forma di odio non debba essere combattuta considerando una priorità la lotta contro la forma occulta e pericolosa di analfabetismo, quello che genera l’ignoranza emotiva di molti uomini, del quale la nostra cultura è imbevuto quando si tratta di educazione al rispetto tra i generi. Qui non si tratta più di saper leggere e scrivere: qui si tratta di alfabetizzare alle emozioni, all’empatia, alla relazione e al rispetto. Una lotta non meno dura come quella che si è fatta, e che ancora si deve fare, per dare a ogni essere umano gli strumenti per uscire dall’analfabetismo materiale.

Me ne convinco sempre di più quando giro l’Italia per incontrare gli uomini, (e chi li invita a far parte dell’esperienza), che partecipano a "Manutenzioni-Uomini a nudo" laboratorio di teatro sociale per uomini contro la violenza di genere. Credo che non ringrazierò mai abbastanza Ivano Malcotti, l’autore teatrale tra i primissimi lettori del libro "Uomini che odiano amano le donne" dal quale la piece è tratta, per avermi suggerito di lavorare con lui alla scelta delle frasi più significative tre le 1800 arrivate in risposta a sei domande sulla sessualità.

Negli ultimi tre anni ho conosciuto 200 uomini che hanno accettato di salire sul palco leggendo, (spesso imparando a memoria), frasi di altri uomini sulla sessualità, la violenza, la virilità, la pornografia, creando un mosaico emozionale mai visto e ascoltato prima. Un antidoto all’ignoranza emotiva fatta di parole maschili condivise nello spazio pubblico, che, per citare Carla Lonzi, è già politica.

E per celebrare questi tre anni ecco alcune delle frasi che compongono l’abbecedario emotivo di "Manutenzioni-Uomini a nudo":

«A volte mi accorgo di vivere in un mondo in cui sembra che il sesso sia la cosa più importante che ci sia. È come avere l’impressione che il sesso sia ovunque: è in rete, è in tv, è in discoteca, per le strade, è nei cartelloni pubblicitari. E poi devi essere un vero maschione… superdotato, superpalestrato, sempre brillante, sempre al 100% e devi aver fatto sesso con molte donne perché altrimenti non vali una mazza. Forse sto divagando! Però il messaggio che mi piacerebbe passare è che il mio desiderio è calato vertiginosamente quando ho avuto la percezione che, per essere normale, dovessi diventare un superman».
—————————————————————————————————
«Cosa provo quando leggo di uomini che violentano le donne? Provo compassione. Per l’uomo, che ha un evidente bisogno d’amore e nessuna consapevolezza di ciò, e per la donna, perché è vittima di un’aggressione che le cambierà la vita».
————————————————————————————————–
«Ricordo che rimasi impressionato dalla notizia di quella ragazza, che viveva nel meridione e fu violentata e uccisa da un branco.
Forse anche io sono un violentatore ma non ho mai capito, come un uomo, che sta di fronte ad una donna spaventata, atterrita, magari piangente, che sta supplicando per la propria salvaguardia, sicuramente dall’aspetto sconvolto, con gli abiti sgualciti dall’atto predatorio,… come un uomo possa avere un’erezion

«Habemus Corpus. Il duro lavoro per crescere senza pregiudizi sul rapporto uomo/donna».

Il manifesto, 14 giugno 2016 (m.p.r.)

Fra i commenti letti sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio, la studentessa romana strangolata e bruciata dall’ex fidanzato, uno mi ha colpito più di altri. E’ quello di P., uomo 40enne, che su un social network ha scritto: «Dopo lunga riflessione, volevo ribadire che neanche con l’esercizio di tutta l’autocritica possibile e immaginabile sono arrivato al punto di sentirmi personalmente responsabile né come essere umano, né come soggetto di sesso maschio, né come uomo bianco appartenente alla cultura occidentale dominante, né come abitante del nord Italia, né come blogger, della morte di Sara». La lapidaria risposta di un’amica gli ha tolto la maschera dell’ipocrisia: «Allora a posto così amici. P. non c’entra e quindi non parlatene con lui».

A parte che un’excusatio non petita nasconde sempre un po’ di coda di paglia, l’ autoassoluzione di P. svela la montagna ancora da scalare per non vedere certi numeri. Secondo Telefono Rosa, da inizio anno in Italia sono 59 le donne uccise da partner o ex, ed è un conto che non considera vessazioni e violenze che ancora molte subiscono.

Il modo in cui si concepiscono le relazioni nasce dall’educazione ricevuta, dagli esempi che si hanno e dall’aria che si respira in una società. Se questi tre elementi non sanzionano il concetto di possesso e potere di un individuo su un altro, crescere senza pregiudizi di genere chiede un lavoro molto lungo e difficile, e non è detto che riesca.

Come madre di un maschio 26enne, fin dalla sua nascita mi sono posta il problema di come renderlo immune dalle zavorre mentali che per secoli hanno regolato il rapporto uomo/donna. All’epoca mi sembrò un lavoro facile, credevo che la mia determinazione sarebbe bastata. Mi accorsi ben presto che avevo peccato di presunzione. Sulla strada c’erano molti più ostacoli di quanto pensassi. I discorsi, i commenti, gli atteggiamenti, il linguaggio che mio figlio sentiva in giro, a scuola, fra i vicini di casa, nella pubblicità, alla televisione, insomma tutto ciò che chiamiamo cultura sociale erano come un’idra. Tagliavo un pregiudizio, ne rispuntavano sette.
Una delle prime cose che imparò all’asilo fu dividere il mondo in maschi e femmine, i giochi da maschio e quelli da femmina, i mestieri delle mamme e quelli dei papà, i ruoli delle prime e quelli dei secondi. A tre anni, vedendo la copertina di un Espresso con una donna discinta, lo sentii dire: «Però, che tette ha questa qua». Come faceva un bambino così piccolo ad avere già un giudizio estetico su dei seni? Ma il disastro fu alle scuole medie, quando cominciò a dividere le ragazze fra quelle che ci stanno e quelle no. Aveva assorbito dai compagni l’idea che le donne si distinguono in facili e no. Altro che risolto, mi sembrava di aver allevato un talebano.
Poi il tempo, le discussioni, le liti, le esperienze hanno fatto il loro lavoro, ma il luogo comune è sempre in agguato. Se i bambini vivessero in una società libera da linguaggi e giudizi machisti, se sentissero padri, fratelli, zii, amici condannare il più piccolo gesto di violenza su una donna, se bevessero insieme al latte materno l’idea che l’amore non è possesso, sarebbe più difficile per un 27enne pensare che se una ragazza ti lascia non ha più il diritto di vivere.

E poi vorrei dire a P. una cosa. Io mi sono un po’ stufata che siano quasi sempre le donne a mobilitarsi per prime. Noi il nostro lavoro di emancipazione lo abbiamo cominciato molto tempo fa. Sarebbe ora che anche i maschi ne parlassero fra loro e di più. In certi casi dire solo «Io non ho colpa» non basta per nulla. Quindi, caro P., la cosa ti riguarda eccome.

Riferimenti
Su eddyburg l'appello contro il femminicidio: C'è una questione maschile.
Sulla violenza alle donne numerosi scritti nella cartella de homine

«». Corriere della Sera, 14 giugno 2016 (c.m.c.)

Il Giornale propone in edicola copie del libro di Hitler, Mein Kampf . Ci sono ragioni per essere offesi o disgustati da questa scelta, e Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale , lo dico apertamente, non è persona che mi piace. Eppure mi sono trovato d’accordo con lui quando, forse un po’ goffamente, ha provato a difendere la sua provocazione dicendo che per combattere un male bisogna conoscerlo. Ho letto Mein Kampf qualche tempo fa, e effettivamente mi ha insegnato delle cose: cose che non mi aspettavo. Provo a riassumerle.

Il nazismo è stato un feroce scatenarsi di aggressività. Dalla notte dei lunghi coltelli alla disperata difesa di Berlino, ha cavalcato la violenza estrema. La giustificazione ideologica immediata per la brutalità e la violenza era la superiorità della razza e della civiltà germanica, l’esaltazione della forza, la lettura del mondo in termini di scontro invece che di collaborazione, il disprezzo per chiunque fosse debole.

Questo pensavo, prima di leggere Mein Kampf . Il libro di Hitler è stato una sorpresa perché mostra cosa c’è alla sorgente di tutto questo: la paura. Per me è stata una specie di rivelazione, che mi ha d’un tratto fatto comprendere qualcosa della mentalità della destra, per me da sempre difficile da cogliere. Una sorgente centrale delle emozioni che danno forza alla destra, e all’estrema destra sopratutto, non è il sentimento di essere forti: è la paura di essere deboli.

In Mein Kampf , questa paura, questo senso di inferiorità, questo senso del pericolo incombente, sono espliciti. Il motivo per cui bisogna dominare gli altri è il terrore che altrimenti ne saremo dominati. Il motivo per cui preferiamo combattere che collaborare è che siamo spaventati dalla forza degli altri. Il motivo per cui bisogna chiudersi in un’identità, un gruppo, un Volk, è per costruire una banda più forte delle altre bande ed esserne protetti in un mondo di lupi. Hitler dipinge un mondo selvaggio in cui il nemico è ovunque, il pericolo è ovunque, e l’unica disperata speranza per non soccombere è raggrupparsi in un gruppo e prevalere.

Il risultato di questa paura è stata la devastazione dell’Europa, e una guerra con un bilancio totale di 70 milioni di morti. Cosa ci insegna questo? Penso che quello che ci insegna è che ciò da cui bisogna difendersi per evitare le catastrofi non sono gli altri: sono le nostre paure degli altri. Sono queste che sono devastanti.

È la paura reciproca che rende gli altri disumani e scatena l’inferno. La Germania umiliata e offesa dall’esito della prima guerra mondiale, spaventata dalla forza della Francia e della Russia, è stata una Germania che si è autodistrutta; la Germania che, imparata la lezione sulla sua pelle, si è ricostruita come centro di collaborazione e di resistenza alla guerra è una Germania che è fiorita. A me questo insegnamento suona attuale.

Forse ora nel mondo la paura reciproca sta aumentando, non lo so, ma a me sembra che noi siamo i primi ad alimentarla.

Chi si sente debole ha paura, diffida degli altri, difende se stesso e si arrocca nel suo gruppo, nella sua pretesa identità. Chi è forte non ha paura, non si mette in conflitto, collabora, contribuisce a costruire un mondo migliore anche per gli altri. Pochi libri svelano questa intima logica della violenza come Mein Kampf .

«Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del "che fare" (senza rimuovere l’essenziale "che pensare")».

Il manifesto, 14 giugno 2016

Come molti sanno Che fare è il titolo di un celebre scritto di Lenin, a sua volta citazione dell’omonimo e forse meno celebre (ma molto più bello) romanzo di Cernyševskij. Un libro-manifesto determinante per la vittoria dei bolscevichi nella rivoluzione d’Ottobre. Ma anche - mi sento di dire - per i tragici disastri che una certa concezione del potere rivoluzionario ha prodotto in seguito. Tempo fa un illuminato dirigente del vecchio Pci ci esortava a concentrarci piuttosto sul che pensare, prima di agire perseverando in antichi errori…

L’interrogativo di quel titolo, con la coorte di dubbi che si porta dietro, mi è tornato in mente leggendo i numerosi interventi maschili che si sono schierati contro la violenza sulle donne, spesso adottando per certi versi, e più o meno consapevolmente, quel «partire da sé» teorizzato e praticato dal femminismo.

Dall’appello pubblicato sabato 11 da questo giornale, agli interventi di Christian Raimo, Nicola La Gioia, Michele Serra, Paolo Di Stefano, per citare solo gli ultimi che ho letto su alcuni siti e quotidiani nazionali (una raccolta si sta formando su maschileplurale.it): in genere mi ha colpito l’opinione, diffusa, che il problema riguardi il persistere di una cultura maschilista del possesso e della forza dalla quale è difficile dirsi completamente immuni.

Ascoltando e leggendo poi altre notizie di questi giorni mi rimbalzava l’idea che un filo rosso, o per meglio dire nero, e sessuato, leghi in qualche modo l’omofobia omicida e terrorista di Orlando ai tumulti degli hooligan di varie nazionalità «europee», ai femminicidi di cui si discute nel bel paese.

Ovvio che dire così espone al rischio di azzerare le enormi differenze che connotano comportamenti violenti tanto distanti nelle modalità, nelle conseguenze, nei contesti, nelle stesse «motivazioni».

Eppure l’ipotesi che qualcosa sia da ricondurre a una incapacità di vivere il proprio corpo e la relazione con l’altro/a radicata nella sessualità maschile così come è codificata in tante culture pur molto diverse, non mi sentirei di escluderla completamente.

C’è chi mette poi in relazione la violenza personale e sociale con gli effetti della crisi economica, e del malessere che crea, esasperato da un sistema «neoliberista» che accentua il narcisismo e l’edonismo solitario.

Un mix deleterio soprattutto per un più fragile equilibrio dell’ex «sesso forte»? Un esito che francamente eviterei è quello di definirsi «vittime» di un sistema di potere di cui riconosciamo la matrice patriarcale. Prima vediamone le connivenze.

Dopo le molte e più o meno discutibili parole di uomini di buona volontà, è difficile non porsi il problema del che fare (senza rimuovere l’essenziale che pensare).

La prima cosa che mi viene in mente è una proposta molto modesta: incontrarsi, mettere a confronto le proprie idee e le proprie esperienze. Non accontentarsi di firmare accorati interventi e appelli.

Un secondo passo può essere interrogarsi - pubblicamente? - su come si agisce e interagisce in ogni contesto, su che cosa e come si desidera: la famiglia e le proprie relazioni affettive, il proprio essere padri (o non esserlo), i luoghi di lavoro, la politica, il sindacato, e il rapporto che viviamo con quel tanto o poco di potere reale che siamo pronti ad ammettere di gestire solo perché uomini.

Fatti e non parole? Ma i fatti possono essere anche nuove parole, se nascono da una diversa pratica di scambio consapevole e condivisa. Tra maschi. E con le donne che desiderassero interloquire.

Con la ripresentazione del libro di Adolf Hitler da parte del quotidiano della famiglia Berlusconi si è giunti «a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della banalità del male, alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione».

Il manifesto, 12 giugno 2016

Nel 1949 uno studioso francese diede alle stampe Les grandes ouvres politiques. De Machiavel à nos jours, un manuale che presentava 15 opere, la prima delle quali era Il Principe machiavelliano, l’ultima, Mein Kampf di Adolf Hitler. Una scelta singolare, che appariva ancora più bislacca, nel titolo della edizione italiana, Le grandi opere del pensiero politico.

Eppure quel libro, adottato in molti corsi universitari, fino a pochi anni or sono, anche per la sua relativa semplicità espositiva, ebbe enorme circolazione. Certo, ancor prima di soffermarsi sul contenuto, era a dir poco discutibile che tra le «grandi opere», si inserisse un testo farraginoso, confuso, privo di qualsiasi coerenza espositiva, e anche di originalità.

L’autore, che lo vergò [Adolf Hittler] dopo breve detenzione, dopo il fallito colpo di Monaco nel novembre ’23, non faceva che rimasticare teorie razziste diffuse in Europa dal tardo Ottocento, mescolandole a ricordi autobiografici, e a bizzarre «folgorazioni», come quella che nasceva dalla constatazione della ebraicità di Karl Marx, e dunque il bolscevismo marxista, era una sola cosa con l’ebraismo, colpendo l’uno si colpiva l’altro…

Un testo che, anche dopo che fu aggiustato a fini editoriali, appare di disarmante rozzezza, ma pieno di tossine velenose. Un campionario di scemenze rivestite, talora, di «scienza», talaltra semplicemente condite in intingolo politico che raccoglie i risentimenti di classi medie e classi popolari frustrate, economicamente e psicologicamente, dalla sconfitta della Germania.

Il libro fu il vademecum nazista e fu imposto ovunque nel Terzo Reich, con milioni di copie diffuse, e spesso vendute, con relative royalties incassate dall’autore. Poi venne la damnatio del Secondo dopoguerra, anche se l’opera ha continuato a circolare un po’ ovunque, in circuiti semiclandestini o, in molti paesi, liberamente.

Della «Mia battaglia» (ecco il significato dello stentoreo titolo tedesco), sono in circolazione diverse edizioni italiane. Da poco, essendo scaduti i diritti (70 anni dalla morte dell’autore), detenuti dal Land della Baviera, è stato annunciato un ritorno del testo originale negli scaffali in Germania (dove era vietato), e, anche altrove, grazie a un’edizione critica, che si annuncia filologicamente ineccepibile.

L’annuncio aveva suscitato immediato dibattito, sia pure di alto livello, mentre davanti all’attuale distribuzione dell’opera hitleriana con il Giornale le polemiche appaiono di basso profilo.

Si tratta innanzitutto di un’operazione commerciale (le copie del quotidiano a metà mattina erano esaurite nelle edicole da me battute…); anche se il significato politico-culturale è fuori discussione, i commenti di dirigenti del Pd che hanno denunciato l’azione «elettoralistica» di Sallusti & C., per far votare i candidati «estremisti» contro quelli del partito renziano suonano grotteschi. Se perderanno, sarà dunque colpa di Hitler? Qualcuno tra costoro non ha mancato di evocare lo spettro penale: sorvegliare e punire, insomma.

Precisato che, a differenza di quanto è stato detto alla vigilia, il libro non era «omaggio» ma a pagamento, inquieta comunque che un quotidiano si sia preso la briga di inaugurare una collana editoriale con siffatta perla.

Personalmente, forse anche sulla base della mia professione di studioso di idee politiche, ritengo ovvio che si possa leggere Hitler; ma non come gadget di un quotidiano di informazione; che al Giornale se la cavino asserendo che il loro retropensiero sarebbe attivare i controveleni rispetto al nazifascismo fa sorridere.

Perché quel giornale, non certo da solo, da anni alimenta razzismo e intolleranza, diffidenza o addirittura odio per lo straniero: e fa specie dunque, che quel giornale (che del revisionismo storico ha fatto una linea di condotta, contribuendo a «normalizzare» il fascismo) distribuisca oggi un testo che se la prende, guarda caso, con «gli sporchi stranieri». E l’ebreo, era per Hitler, il più sporco degli «stranieri», e andava eliminato, in un modo o nell’altro. Auschwitz è in nuce in quel testo.

Siamo ora giunti a uno dei punti terminali del revisionismo: siamo passati dalla constatazione filosofica della «banalità del male», alla sua deliberata, volontaria e più sconcertante banalizzazione.

«La Repubblica, 12 giugno 2016 (c.m.c.)

SUI maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla “inservibile” ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo — e lo dico da maschio — che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica.

Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto.

Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. “Il privato è politico”, si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico.

Era una forzatura ideologica che l’esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno “responsabili del mondo” almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr’otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l’abbandono, la gelosia.

Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo.

Per esempio l’idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c’è mai stata, al mondo, un’idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo.

Eppure, volendo ridurre all’osso la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita.

Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine.

Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l’eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell’epoca.

È nell’Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile “io sono mia” prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell’Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l’obbrobrio giuridico del “delitto d’onore”, che verrà finalmente cancellato vent’anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei “salotti”, è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune.

Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti.

Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, «chi picchia una donna è uno stronzo». Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno?

«“Basta con questo orrore contro i femminicidi si mobiliti tutto il Paese”. Boldrini dopo il quarto assassinio in dieci giorni “Dai politici alla tv, ognuno faccia la propria parte”».

La Repubblica, 10 giugno

«Ora basta, tutti devono mobilitarsi. Bisogna far capire ai violenti che “no pasaràn”». Dal 29 maggio, da quando è stata strangolata e bruciata a Roma Sara Di Pietrantonio, altre tre donne sono state uccise da uomini, mariti, compagni, spesso ex rifiutati. L’ultima ieri nel Veronese, una maestra trucidata con un coltello.

«È un’escalation di violenza con la quale non si può convivere, non può essere la nostra normalità. Io non ci voglio convivere ». Laura Boldrini è un fiume in piena. La sua battaglia contro il femminicidio, culminata venerdì scorso con l’esposizione del drappo rosso dalle finestre di Montecitorio, non conosce sosta. Perché non può. Viene drammaticamente alimentata, giorno dopo giorno, da nuovi tragici atti di violenza contro le donne. Per questo la presidente della Camera ha deciso di fare un passo avanti e lanciare un appello «perché tutti facciano la loro parte: istituzioni, mondo dell’informazione e dello spettacolo, le tv, le imprese, la scuola, i parroci. Mi rivolgo a chiunque non voglia più tollerare questa violenza e voglia dire “not in my name”».
La presidente ripercorre le scelte di questi ultimi giorni. «Mi è sembrato giusto aderire alla campagna lanciata sul web da molte donne dopo la morte di Sara e ho esposto il drappo rosso». Ma ora «è necessario allargare la mobilitazione, ognuno deve portare il suo contributo in questa battaglia. Io non delego nessuno, la faccio in prima persona». Tocca anche agli altri fare la loro parte.

Le istituzioni in primo luogo. Laura Boldrini ringrazia i sindaci, da Pisapia a Nardella, da Orlando a Bianco, che l’hanno seguita nel gesto del drappo rosso. E il capo della Polizia, Gabrielli, che le ha promesso un’azione incisiva.

E poi ci sono i mass media. A loro la Boldrini chiede di «raccontare questi drammi dalla parte della vittima. Smettiamola di parlare di raptus, perché non si tratta di questo: la maggior parte delle donne uccise aveva già subito molte minacce ». Ma l’appello è rivolto anche alle imprese, ai datori di lavoro, perché «vigilino contro la violenza», ma non solo. È ora che le aziende cambino anche i loro messaggi pubblicitari, che «ci restituiscono in larga parte una figura femminile ammiccante, quasi sempre svestita, per vendere qualsiasi cosa. Sono modelli che sminuiscono le donne, le oggettivizzano». Così come «quegli uomini in giacca e cravatta che conducono programmi televisivi contornati da vallette seminude. Anche le tv devono prendersi le loro responsabilità ».
Possono fare molto pure i sacerdoti e i parroci, «seguendo le parole di Papa Francesco sul rispetto per le donne».

E infine la scuola, il capitolo che forse sta più a cuore alla presidente della Camera: «Credo sia arrivato il momento che nelle scuole si insegni il rispetto di genere e venga data ai ragazzi una educazione sentimentale, per capire che si può stare insieme nel rispetto. Purtroppo tra i nostri giovani non sempre è così. Basta guardare il web - sottolinea la Boldrini - sui social abbonda una comunicazione misogina, messaggi di odio contro le donne ». E invece «la violenza contro le donne, ma anche l’insulto sessista, devono essere considerate una vergogna, uno stigma sociale, da isolare e condannare ».

Insomma «chiunque crede in un rapporto di coppia paritario, a partire dagli uomini, deve far sentire la sua voce. La violenza sulle donne è un problema degli uomini, ma finora la loro voce non si è fatta sentire. È ora di agire, perché in ballo ci sono la vita e le conquiste delle donne ».

A livello di governo qualcosa si muove. Ieri la ministra Boschi ha ricordato che è al lavoro la commissione che dovrà valutare i progetti di attuazione del piano anti violenza, con a disposizione 12 milioni. Anche per la Boschi «la vera sfida è quella educativa e culturale», che si combatte nelle parrocchie, nei centri sportivi, nelle associazioni. «La battaglia contro il femminicidio può essere vinta, deve essere vinta -ha concluso - lo dobbiamo a Sara, Alessandra, Michela, Federica e le altre»

Un passaggio necessario per la nuova "questione femminile", e non solo: la "cura domestica" è un attributo e una mansione di genere oppure è una responsabilità collettiva?

Il manifesto 9 giugno 2016

La femminilizzazione della sfera pubblica, a cui assistiamo ormai da anni , anche se viene vista prevalentemente sotto il profilo del numero crescente di donne presenti nelle istituzioni, nella politica, nell’economia, nelle professioni, nella cultura, ha come suo aspetto più innovativo la «valorizzazione» di quegli attributi che sono stati storicamente il pretesto per la loro esclusione dalla polis. Non a caso, è proprio dalla messa in discussione della femminilità che ha preso le mosse il femminismo degli anni Settanta, un salto nella coscienza del rapporto tra i sessi destinato a lasciare un segno duraturo sia nella vita privata che pubblica.

Nella fase iniziale, e per circa un decennio, era parso chiaro a tutte le componenti del movimento che l’emancipazionismo, attestato sul dilemma uguaglianza/differenza -richiesta di parità o viceversa di tutela della particolare «condizione femminile-, non poteva che portare alla conferma del «ruolo secondario e integrativo della donna anche nel lavoro extradomestico».

La «rivoluzione» del nuovo femminismo è stata prendere coscienza che l’espropriazione più profonda di esistenza delle donne passa attraverso il corpo: dalla sessualità negata e trasformata in sessualità di servizio, all’obbligo procreativo. Veniva allo scoperto che le «identità di genere» sono il prodotto astratto di una differenziazione che passa all’interno dell’individuo, separando parti tra loro indisgiungibili come il corpo e il pensiero, i sensi e la ragione. Diventava chiaro, in altre parole, che le differenze di genere, così come sono state concepite strutturano sia la relazione d’amore - come sogno di ricongiungimento armonioso dei due rami divisi dell’umanità - sia il rapporto di potere tra i sessi, a partire dalla divisione sessuale del lavoro.

Modificare se stesse

Le donne sono state confinate sul versante che è parso più vicino alla loro «natura» di genitrici, custodi della sessualità e degli interessi della famiglia, l’uomo ha riservato a sé la sfera pubblica, senza rinunciare per questo ad estendere il suo dominio sugli interni della case: «come una stirpe – scrive Freud ne Il disagio della civiltà – o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo».

La critica a ogni forma di dualismo non poteva che partire da chi ne aveva portato per secoli il peso di maggiore alienazione e sofferenza, ma era chiaro che riguardava entrambi i sessi, i ruoli che erano stati chiamati a rivestire di generazione in generazione. Altrettanto chiare erano l’estensione e la complessità del cambiamento che si prospettava: una «modificazione di sé» che spingeva la politica fin dentro le zone più remote e misteriose della vita psichica, per venire a capo di una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e dalla donna «aprioristicamente ammessa» – per usare le parole di Sibilla Aleramo-, «compresa solo per virtù di analisi»; ma anche l’idea che si potesse partire da questa incursione nella storia personale, nel «sé» meno conosciuto, per modificare l’ordine sociale nel suo insieme.

Si potrebbe dire che il sogno d’amore, inteso come fusione di nature diverse, ricongiungimento degli opposti, oggi esce dalla sfera intima degli individui per diventare paradigma delle trasformazioni che interessano l’economia, la politica, l’organizzazione sociale nei suoi vari aspetti. Il lavoro di cura o il lavoro domestico, come qualcuna preferisce chiamarlo, elargito finora gratuitamente a bambini, malati, anziani e adulti perfettamente autonomi all’interno delle case, fa il suo ingresso senza soluzione di continuità nella sfera pubblica: un maternage senza fine che da «destino naturale» diventa per le donne il passaporto per la loro piena cittadinanza.

Se il femminismo degli anni ’70 nasceva come processo di «liberazione» da modelli imposti, divenuti habitus mentali, incorporati fino a confondere la lingua dell’oppressa e dell’oppressore, i decenni successivi hanno visto riemergere logiche emancipazioniste, sia pure in forme diverse da quelle del Novecento.
Acque insondate

Dopo aver scavato a lungo, e non senza difficoltà, nei sedimenti della vita psichica e nella memoria del corpo fino ai confini tra inconscio e coscienza, le anomale pratiche politiche del femminismo hanno effettivamente segnato una battuta d’arresto: per stanchezza, per paura di vedere ricomparire nella socialità tra donne che si veniva costruendo fantasmi famigliari, esperienze di rapporti materno-filiali particolarmente distruttivi o dolorosi, per la sensazione di affondare nelle «acque insondate» della vita personale, troppo lontane dalle istituzioni della vita pubblica per poter essere attraversate senza smarrirsi.

Ma c’è un aspetto dell’emancipazione che non si prevedeva o che abbiamo sottovalutato. A quella nota storicamente come rincorsa omologante a essere come l’uomo, fuga da un femminile screditato, se ne è andata affiancando un’altra: l’emancipazione del femminile in quanto tale. La donna, il corpo, la sessualità sembrano essersi presi la loro «rivalsa» sulla storia che li ha esclusi e cancellati, ma senza alcun ripensamento critico. Il passaggio da una condizione che si è subìta, perché imposta con la forza del potere, della legge, della sopravvivenza, alla scelta di farla propria, di assumerla attivamente, non è certo senza significato.

Di fronte a donne che offrono i loro corpi in cambio di carriere e di denaro, che mettono al lavoro affetti, sentimenti, la loro vita intera, non si può più parlare di «vittime». Ma neppure, all’opposto, dell’«eccellenza» femminile che oggi verrebbe riconosciuta. La seduzione e la cura, le due potenti attrattive femminili che l’uomo ha definito in funzione del proprio privilegio, assicurandosene il controllo e il possesso, sono quei poteri sostitutivi con cui le donne, escluse dalla polis, hanno costruito la loro indispensabilità all’altro. Oggi, venuti meno i confini tra privato e pubblico, è la stessa civiltà dell’uomo a richiederli, o come riserva salvifica di umanità o come semplice forza integrativa, valore aggiunto, per un sistema produttivo in crisi.
Conciliazioni indigeste

Nel passaggio dal privato al pubblico, il femminile non sembra perdere tuttavia i tratti di subalternità che lo hanno accompagnato per secoli. Come si può pensare che, richiesta dalla nuova economia, dal mercato, dalla politica, la «cura» possa divenire automaticamente «gesto di libertà femminile», «autodeterminazione del proprio tempo», elemento propulsivo di un Diversity management? Un’analisi più attenta meriterebbe oggi l’autoesclusione: riconoscere che il potere maschile non si manifesta solo come difesa a oltranza del proprio privilegio, ma anche, indirettamente, attraverso i saperi, il linguaggio, i modelli su cui si regge il governo della cosa pubblica, la cui forza sta nel celarsi dietro la neutralità.

Soprattutto, le donne dovrebbero dirsi con chiarezza se vogliono che la cura resti una «competenza» femminile, una «differenza» di genere da valorizzare e far riconoscere come potere, risorsa, anche fuori dalla casa, o se sono disposte a mettere in discussione quello che è stato storicamente un ruolo imposto alla donna.

In altre parole, se pensano che la cura sia una responsabilità collettiva, non un problema privato e tanto meno un destino della donna. In questo caso è evidente che il discorso cambia: si smette di chiamare «maternità» la crescita dei figli, che come tale può essere fatta da uomini e donne, genitori biologici e non biologici; di fare della «conciliazione» tra casa e lavoro extradomestico un problema solo della donna; si cominciano a vedere la cura e il tempo di vita, non come «valore aggiunto», una risorsa che va a migliorare un sistema economico e politico in crisi, ma una finalità in sé da anteporre alla logica del mercato e della produttività illimitata.
Chissà se chi ha promosso e votato il provvedimento che condanna per i "negazionisti", cioè per chi nega i genocidi commessi nel passato (cui si riferisce l'articolo di Melloni), si rende conto che attualmente avviene un genocidio di dimensioni ancora più vaste? La Repubblica, 9 maggio 2016

Non è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano. Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col “male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo, approvata ieri dalla Camera, che punisce con il carcere da 2 a 6 anni.

Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo “storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla irreparabilità del male di cui si rende responsabile.

Bene. Questa conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la “memoria”.

Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set. Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico” di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria, eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni, le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.

Nello spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra, disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio: quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si “dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.

Ancora nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e quantitativo.

La cultura storica, quella che ha impregnato la mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.

Anche per questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come dose minima la non-negazione della sua esistenza.

In questo ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001 prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah – ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria: perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una impensabile par condicio.

In attesa che la memoria ritrovi nel sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.

Un intervento a proposito della questione sollevata dall'appello "Esiste una questione maschile", lista di discussione

Officina dei saperi, 8 giugno 2016

Care amiche e cari amici,

quando ho scritto che l'Officina non può far molto per arrestare il dilagare delle violenza assassina contro le donne, intendevo dire che non ha la forza per intervenire con efficacia operativa su questa pratica ormai endemica. Rispondendo così in parte ai toni legittimamente disperati di Annamaria Riviello e di altre amiche, stanche di discorsi, amareggiate e deluse di fronte all'inerzia e all'impotenza delle istituzioni. Ma non mi riferivo certo al piano delle idee e delle proposte. Il dibattito sulla mailing list, del resto, già lo dimostra, e l'efficace appello di Enzo Scandurra è un ottimo esito di tale discussione. A riprova che l'Officina non fa accademia ma sa affrontare anche temi politici, della “politica alta”, per dirla con Papa Francesco.

Io riprenderei alcuni temi presenti nelle vostre mail (Villani, Rufino, Scandurra) per svolgere un paio di considerazioni che sono più coerenti coi temi dell'Officina. Naturalmente il tema della violenza maschile potrebbe essere affrontato sotto molte profili. Io credo che quello della costruzione della soggettività maschile sia un nodo fondamentale. Lo dico per convinzione ovvia, ma anche perché, alla fine delle mie considerazioni, intendo fare una proposta. Qui, parlo da maschio, meridionale, nato sul finire della guerra mondiale, che ha sperimentato personalmente, all'interno della propria famiglia, la naturalità del fatto che sua madre e le sue sorelle dovessero cucinare, fare il bucato, rifare il letto, stirare, pulire i piatti, ecc. Altrettanto naturale era il fatto che gli uomini dovessero astenersi da simili compiti,” da femminucce”. Solo abbastanza tardi mi sono accorto di quanta incomprensibile ingiustizia ci fosse in tale normalità: in questa accettazione universale di una servitù, di un asservimento della persona umana della donna, vissuto come un fato indiscutibile, come il colore dei nostri occhi, il cadere della pioggia, il soffiare del vento.

C'è nella subalternità della donna che ancora domina il nostro tempo un che di clamoroso, un sopruso gigantesco che ci si para davanti come una montagna: una montagna che noi non riusciamo a scorgere . E naturalmente sorprende la sua perduranza, dopo tante lotte e dibattiti e libri. Non mi sto allontanando, badate, dal cuore del nostro problema. A spingere un uomo a uccidere la propria compagna concorrono molti elementi. Ma al fondo c'è sempre un dato antropologico comune: la subalternità della figura femminile, la sua pretesa appartenenza strutturale ai maschi. Oggi tanto più forte quanto più il corpo della donna fa ormai parte del paniere delle merci nelle società opulente. Si compra e si vende. Ma il fatto è che noi abbiamo a che fare con un rapporto sociale che si è naturalizzato, è diventato perciò invisibile, si è trasformato in mentalità. E «la mentalità - diceva Fernand Braudel - è la più tenace delle strutture».
Io credo, però, che tale permanenza della servitù della donna nella modernità, l'unica rimasta ancora in piedi in Occidente - anche se oggi rinasce in nuove forme nelle nostre campagne - non sia un esito inerziale, un retaggio del passato. La subalternità della donna è una componente fondamentale del capitalismo attuale e del suo meccanismo di accumulazione. Questo modo di produzione, che ha rivoluzionato i rapporti sociali dell'antico regime, non si è mai sognato di liberare la donna, di renderla autonoma, e ha ereditato in pieno e rifunzionalizzato quella forma di servaggio personale. Non solo, come sappiamo, portando le donne in fabbrica (insieme ai bambini, nel XIX secolo) ma - per quel che ci interessa qui - soprattutto confermando il suo ruolo di “assistente” del maschio.
Ormai nessuno ci fa più caso, ma il sistema capitalistico utilizza una massa gigantesca di lavoro non pagato che si svolge dentro le mura domestiche. Pensiamo alle migliaia di famiglie operaie (e non solo operaie) del nostro come di tanti altri paesi. Le donne che cucinano, lavano, stirano, ecc. non solo svolgono il ruolo di riproduttrici del proletariato, ma sostengono l'attività non pagata di preparazione della forza lavoro. L'operaio o l'impiegato arrivano ogni mattina sul posto di lavoro pronti a valorizzare il capitale (industriale o finanziario) senza che l'imprenditore abbia cacciato nel frattempo una lira di tasca propria. Ha pronta la manodopera da sfruttare, in tuta o in giacca e cravatta, grazie al lavoro non pagato delle donne di famiglia, costrette talora a svolgerlo nelle pieghe delle prestazioni salariate che svolgono fuori casa.

E' anche questa è una montagna invisibile di paradossale ingiustizia. Resa ancora più paradossale dal fatto che il femminismo non è ancora riuscito a vedere in questo servaggio nascosto del capitale, un terreno eversore di lotta non solo femminista, ma universalmente anticapitalistica. C' è da liberare le donne dai maschi, ma anche gli uomini dal dominio degli altri uomini.

Infine la proposta. Avrei voglia di suggerire l'istituzione di un pronto soccorso in ogni comune, che intervenga con tempestività su chiamata. Ma lascio la cosa a chi è più competente di me su questi problemi. La proposta di fondo, che voglio fare è invece di lungo periodo e di carattere culturale. Ha di mira il fine di rendere visibile la montagna. E occorre farla scorgere ai ragazzi fin da quando formano la loro mentalità. Penso - è una idea da arricchire e completare da chi ha più competenza in materia – che sarebbe il caso di inserire nei programmi scolastici, probabilmente nelle medie, almeno un'ora alla settimana, obbligatoria, dedicata alla servitù di genere. I programmi da impartire andrebbero studiati bene, anche se non mancano certo i materiali storici, sociologici, i testi, gli argomenti.

Sarebbe, io credo, una leva importante per costruire una nuova soggettività, fondata sul rispetto per le donne, di scoperta della loro naturale parità. Ma io credo che, in mano a bravi insegnanti, (che potrebbero essere anche figure esterne agli insegnanti di ruolo) l'insegnamento sarebbe assai utile per formare una coscienza che non solo non accetta la subordinazione femminile, ma che si accorge della montagna: vede l'ineguaglianza fra le persone, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, come una condizione innaturale, inaccettabile, a cui ribellarsi.
Riferimenti
La lettera è stata inviata alla mailing list di Officina dei saperi. Si veda su eddyburg la presentazione del progetto: di Piero Bevilacqua Un'officina per l'egemonia culturale.
Si veda inoltre l'appello promosso da eddyburg contro il femminicidio: C'è una questione maschile.
Recenti e troppo frequenti episodi di uccisione di donne a parte di maschi ha indotto alcuni appartenenti al genere dominante, nell'ambito della lista di discussione "officina dei saperi", a reagire con questo appello, che

eddyburg fa proprio e invita a sottoscrivere. In calce l'elenco dei primi firmatari e l' indirizzo a cui inviare le adesioni

La ripetizione sempre più diffusa di efferati femminicidi chiama ormai in causa gli uomini portatori, più o meno consapevolmente, di una cultura maschilista che li rende carnefici, oltre che “vittime” di tale cultura, ben al di là di una loro (consumata) solidarietà con la persona colpita dalla violenza.

L’uccisione o la mutilazione della fidanzata, moglie o compagna, avviene quasi sempre per motivi di gelosia o per rottura, da parte della donna, del patto di convivenza.

L’uomo forte e dominatore non può (o non è capace) di accettare quello che ritiene essere un “affronto”, così che la vendetta è la reazione “istintiva”: mia o di nessun altro. E’ così che da carnefice l’uomo diventa anch’egli vittima del suo stesso pensiero.

C’è un’asimmetria in questo rapporto: se a finire il rapporto è la donna, tale gesto di rottura assume il significato di tradimento, mentre se è l’uomo a rompere il rapporto d’affetto, allora esso viene considerato comprensibile e accettabile. In un passato poi non così lontano ci sono stati processi dove come attenuante è stato addotto il fatto che la donna indossasse jeans aderenti o, comunque, abiti provocanti giustificando il comportamento violento con l’affermazione che “se l’era un po’ cercata”. Così come il “delitto d’onore” non è un’oscura pratica medioevale abbandonata centinaia di anni fa. Noi veniamo da questo passato recente.

I cambiamenti antropologici indotti dallo scatenamento degli istinti animali del neoliberismo, hanno accentuato l’individualismo proprietario soprattutto degli uomini. Ed è per questo che noi uomini dobbiamo dire a gran voce: not in my name, dove il my name oltre ad avere una valenza personale riguarda l’intero genere maschile. E questo vincendo quell’oscuro timore (mai esplicitato) di passare per “femminucce” che trasgrediscono il codice maschile.

Nessun uomo può dirsi innocente, perché c’è una connivenza complice in ciascuno di noi con il pensiero dell’individuo proprietario, della ostentazione della forza, dell’offesa non perdonabile. Quante volte noi stessi abbiamo fatto battute o raccontato a soli amici maschi barzellette denigratorie sul genere femminile? E quante volte pur non avendolo fatto direttamente abbiamo sfoderato un sorrisino complice a questi racconti stereotipi?

La diversità di genere è una ricchezza, ma può scivolare nello sciovinismo maschilista se a tale diversità viene assegnata una gerarchia, ruoli non paritari.

Non basta, per noi uomini, firmare appelli in difesa delle donne, partecipare sinceramente commossi a iniziative di solidarietà con loro. Bisognerebbe iniziare a firmare appelli anche contro quella parte di noi stessi che indulge a connivenze complici perché quei maschi assassini non sono alieni venuti da altri pianeti: sono l’esito drammatico di un pensiero che alberga oscuro nelle teste di noi uomini.

Inviare le adesioni (cognome, nome, qualifica) a: edoardo.salzano@gmail.com
hanno aderito:

Abati Velio
Aragno Giuseppe
Andriollo Danilo
Bevilacqua Piero
Baioni Mauro
Bianchi Alessandro
Budini Gattai Roberto
Camagni Roberto
Cataruozzolo Nicola, libero pensatore
Cervellati Pier Luigi
Fiorentini Mario
Dignatici Paolo
Di Siena Piero
Gambardella Alfonso
Indovina Francesco
Magnaghi Alberto
Masulli Ignazio
Nebbia Giorgio
Ottolini Cesare
Quaini Massimo
Roggio Sandro
Salzano Edoardo
Saponaro Giuseppe
Scandurra Enzo
Scudo Gianni
Siciliani de Cumis Nicola
Stucchi Silvano
Toscani Franco
Urzì Gaetano
Vannetiello Daniele

Viale Guido
Ziparo Alberto

11 giugno 2016, ore 13,00

«L'omicidio della Magliana. Ci si chiede «ma io, cosa avrei fatto?». Domanda che incalza senza lasciare scampo. Il nodo è cosa occorre fare per aiutare le donne in pericolo». Il manifesto, 31 maggio 2016

Lascia impietriti, la fine di Sara Di Pietrantonio. Non solo per la furia del ragazzo, Vincenzo Paduano, così carino nelle foto insieme pubblicate su Instagram, una furia che lo ha portato a darle una morte crudele, né più né meno che un supplizio. Lui parla di sé stesso come un mostro, e sembra troppo facile. Non per lui, che chissà se mai ritroverà nel tempo tracce della propria umanità, ma i titoli dei giornali, le denunce fatte sempre dopo. Gela invece il cuore immaginare quei minuti, lei che cerca di scappare, riesce a buttarsi in mezzo alla strada, eppure le rare auto che passano non si fermano. Anche se chi guida vede una ragazza bionda che si sbraccia e chiede aiuto.

E non è l’identificazione con lei, Sara, amica sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta, che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile. Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.

In effetti ci vuole coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto? È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in pericolo?

Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti. I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.

Sembra assurdo dover scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato, nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini.

È che ci vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria. Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli effetti dell’odio violento per le donne.

Non che tutti uccidano, menino, stuprino. Eppure pochi, pochissimi hanno la forza della parola pubblica. La forza di andare contro un ordine che vive della passività di chi, invece di chiedersi a quale vita è costretto, ricerca il privilegio perduto, con uno sguardo volto all’indietro. Manca la forza di andare contro l’ordine sociale in cui viviamo. Forse anche per questo ribellarsi non è all’ordine del giorno.

Riflessione sul binomio dittatura-schiavitù e sul suo opposto democrazia-libertà: «Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana». La Repubblica, 21 maggio 2016

Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura-schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio…) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà».

Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica. La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?

Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo. Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.

È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.

Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato». L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù.
È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» ( Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » ( Apocalisse 18,6). Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).

A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» – Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.

Un'intelligente analisi dell'intellettuale dell'età renziana. «L’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano, la deve seguire».

CRS - Centro per la riforma dello Stato online, 30 aprile 2016

“Abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di super saggi, l’età media supera gli 81 anni”. E’ questo il principale argomento che Elisabetta Gualmini – classe 1968, docente di Scienza politica all’università di Bologna, ex presidente dell’Istituto Cattaneo, vicepresidente della Regione Emilia-Romagna, editorialista della Stampa nonché star prediletta dei talk show mattutini e serali – e Salvatore Vassallo – classe 1965, docente di Scienza politica a Bologna, vicedirettore del Cattaneo, ex prodian-parisian-veltroniano – sfoderano, in un articolo a doppia firma sull’Unità del 27 aprile, contro il documento per il no al referendum sulla riforma costituzionale stilato, firmato e diffuso nei giorni scorsi da 56 autorevoli costituzionalisti (da Zagrebelsky a Onida, Casavola, Cheli, Carlassare, Manzella, Zaccaria, De Siervo e via dicendo). E tanto perché l’età non sembri un argomento troppo rozzo, la mettono in metafora: “Ci pare significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare”: criterio tanto più “stonato”, “di fronte a un paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere”. Siamo alle solite: con le ali di Renzi l’Italia vorrebbe tanto spiccare il volo, non fosse per parrucconi e gufi che glielo impediscono.

Ma procediamo. Secondo argomento. “A pensar male, il primo sottinteso [del testo dei costituzionalisti] pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-il-plebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa (sic) i tecnici e ancor di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia”.

Terzo argomento. “ [Nel documento dei 56] non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni…Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei”.

Fra il primo e il secondo argomento, a panino come l’opposizione nei Tg di regime, i due politologi entrano approssimativamente nel merito del documento dei costituzionalisti, a difesa della riforma Boschi. Ma con ogni evidenza il punto non è il merito, nemmeno per una alquanto ossessiva appassionata della materia come, per quel nulla che conta, la sottoscritta. C’è un livello infatti che viene prima perfino della Costituzione e di qualunque legge fondamentale, ed è il livello dello scambio fra i comuni parlanti e della produzione di senso comune che ne deriva. Quando si inquina o si frattura questo livello, non è in questione la Costituzione ma la qualità della convivenza. Ed è a questo livello che il testo della coppia Gualmini-Vassallo si colloca e va letto.

Nel suo blog sull’Espresso, Marco Damilano, a sua volta colpito dall’obliqua sintomaticità dell’articolo, lo interpreta come la prova provata dell’assenza di una nuova leva di intellettuali renziani: “intellettuali veri, capaci cioè di indicare un punto di vista non scontato, con un certo tasso di anticonformismo, con il gusto di restare fuori dalle curve, dalle tifoserie da social network, dal talk-show perenne”. Mi piacerebbe dargli ragione, ma non sono d’accordo. L’articolo in questione è al contrario la prova provata che questa nuova leva intellettuale renziana c’è ed è questa, nella sua desolante miseria.

I tre argomenti di cui sopra sono infatti una mirabile sintesi dei veleni che la cosiddetta narrazione renziana, in realtà una vera e propria ideologia, ha fin qui distillato e instillato nel senso comune. E si possono sintetizzare come segue.

Primo, la guerra generazionale come motore cinico della produzione di un consenso rancoroso. Com’era chiaro fin dall’inizio, in questione non è mai stata solo la “rottamazione” di un ceto politico usurato, bensì la produzione programmatica di barriere generazionali che legittimano politiche economiche devastanti per il legame sociale, mettendo continuamente in conflitto vecchi e giovani, pensionati (o pre-pensionati forzati o pensionandi) e precari a vita, occupati e disoccupati, titolari di diritti acquisiti e soggetti deprivati di ogni diritto. La produzione altrettanto sistematica di rancore nelle generazioni giovani verso quelle precedenti, unita alla instillazione di un senso di colpa connesso all’età nelle generazioni “decadenti”, è il collante sentimentale di queste barriere, che ostacolano la riorganizzazione del conflitto sociale su una base di classe o lungo altre frontiere antagonistiche sensate, e promuovono una competizione individuale generalizzata, legittimata come una lotta per la sopravvivenza che giustifica l’annichilimento altrui. Si tratta dunque di una precisa strategia neoliberale con risvolti di darwinismo sociale, coperta da un arrembaggio giovanilistico rottamatorio che in un paese come gli Stati uniti, sbandierato a proposito e a sproposito dai “nuovi intellettuali” come faro progressista, sarebbe accusato senza mezzi termini di age discrimination (e, per inciso, sbarrerebbe qualunque carriera accademica a chiunque se ne facesse portatore).

Secondo, la rivendicazione dell’anti-intellettualismo fascistoide già caratteristico del ventennio berlusconiano, ma oggi, se possibile, ancor più ostentato, e soprattutto più infondato di allora. La retorica è la stessa – il tycoon spregiudicato contro i “salotti buoni” del capitalismo allora, il “plebeo” contro i “professori al caviale” oggi -, ma a differenza di ieri, quando si appoggiava su un’impresa come quella berlusconiana che aveva effettivamente rivoluzionato i modi della produzione intellettuale, oggi non si basa su niente, se non su un’arroganza che non ha precedenti nemmeno nel ceto politico berlusconiano. Anche qui, nulla di innocente e nemmeno di innocuo: l’anti-intellettualismo di regime produce e promuove, con l’aiuto consistente ed entusiasta dei media di regime, un ceto intellettuale in parte nuovo, in parte riciclato dal ventennio precedente (vedi la mappa del management che conta nella Rai e in altri ruoli chiave dell’industria culturale disegnata il 27/4 sul Foglio da quell’altra musa ispiratrice del renzismo che è Claudio Cerasa per dimostrare come qualmente “Berlusconi, anno domini 2016, ha comunque vinto e sta vincendo alla grande”).

Terzo, l’accodamento supino, e dichiarato, agli umori sociali come fonte e misura dell’azione di governo. E a quanto pare, anche dell’azione di riforma della Costituzione. Che dovrebbe essere precisamente la norma fondamentale che prescinde dall’aria che tira. Invece no, spiegano Gualmini e Vassallo, la deve seguire. E qui lo studente di primo anno, che i due politologi invocano come bocciatore certo del documento dei 56, boccerebbe invece di sicuro loro. E farebbe bene.

. Il manifesto, 27 aprile 2016

È sicuro ormai che l’Europa è solo all’inizio di un processo di decomposizione politica. I segnali si moltiplicano. La vittoria dell’estrema destra in Austria, la crisi polacca, il regime di Orbán, l’affermazione dell’AdP in Germania, la chiusura delle frontiere, il referendum sul Brexit. Ma il voto con cui la Camera dei comuni inglese ha rifiutato di accogliere i 3000 bambini di Calais è qualcosa di molto più profondo e sinistro di una crisi politica continentale. È, come hanno notato i critici della decisione, di qualcosa di vergognoso.

Perché in gioco, oltre al destino migliaia di orfani, c’è un confine che le cosiddette democrazie occidentali non dovrebbero, almeno ufficialmente, varcare: il senso minimo di umanità, quello che per gli apologeti distinguerebbe la «civile» Europa dagli altri mondi.

Oddio, anche sequestrare beni ai profughi, come fanno la Danimarca e altri stati della Ue, è vergognoso, proprio come lasciarli alla deriva a Idomeni e Lesbo, o dare un po’di quattrini a Erdogan perché non ce ne mandi altri. Ma i bambini non dovrebbero essere sacri, nell’Europa cristiana, cattolica, anglicana o luterana che sia? Con il voto alla Camera dei comuni, la risposta è stata semplicemente «No!» D’altra parte, i leader della Afd tedesca non hanno forse dichiarato che è legittimo sparare ai profughi che attraversano illegalmente i confini, anche quando sono donne e bambini? Certo, i conservatori inglesi a parole non arrivano a tanto. Ma il risultato non è molto diverso.

Che fine faranno i bambini che il socialista Hollande fa marcire a Calais, tra assalti xenofobi e manganellate? Nessuno lo sa e a nessuno interessa.

La motivazione del voto inglese è sublime nella sua ipocrisia squisitamente british. Noi non li accogliamo, per dissuadere altri profughi dal chiedere asilo in Inghilterra. Con la stessa scusa, le navi militari inglesi non soccorrono più la carrette del mare dei migranti nel Mediterraneo. Ora, immaginiamo dei bambini che scampano alla morte in Siria e poi ai naufragi nell’Egeo o nel canale di Sicilia. Ebbene, qualcuno pensa che si faranno dissuadere dal passare in Europa, e magari dal raggiungere dei parenti in Inghilterra, pensando al voto della Camera dei comuni? Quando la Svizzera respinse i profughi ebrei che scappavano dalla Germania con la motivazione che «la barca piena», si macchiò della stessa vergogna, ma con meno ipocrisia.

Noi europei, dopo la Shoah, non dovremmo sorprenderci più di nulla. E nemmeno pensare che, con la sconfitta del nazismo e del fascismo, siamo al sicuro dagli stermini di massa. Migranti e profughi muoiono a migliaia per raggiungere le nostre terre benedette dalla ricchezza.

Dopo un po’ di lacrimucce sui bambini annegati sulle spiagge greche e turche, ecco che prendiamo a calci quelli che non sono annegati, o semplicemente ne ignoriamo l’esistenza. Noi europei, così civili e democratici, stiamo gettando le premesse di nuovi stermini, magari per omissione, disattenzione o idiozia. Ma per le vittime non fa nessuna differenza.

© 2025 Eddyburg