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Ciò che siamo, ciò che non siamo, ciascuno di noi e tutti insieme. Un testo in ricordo del grande pensatore scomparso.

la Repubblica, 10 gennaio 2017

«Testo tratto da In Praise of Literature (“ Elogio della letteratura”), firmato da Zygmunt Bauman con Riccardo Mazzeo, edito da Polity Press, e che uscirà in Italia da Einaudi Traduzione di Anna Bissanti».

Che si tratti di Katy Perry o di Marcel Proust o Lacan che hanno qualcosa di importante da dire sulle premesse inconsce della loro consapevolezza - o di voi e di me; a prescindere da ciò che noi tutti e ognuno di noi veda, pensi di vedere o creda di stare vedendo, e a prescindere da qualsiasi nostro comportamento conseguente, ogni cosa è sempre intessuta in un discorso.

Di fatto, noi mangiamo discorsi, beviamo discorsi, guardiamo discorsi. Il discorso è ciò di cui siamo fatti. Ed è a causa del discorso e della sua intrinseca necessità di dover guardare al di là dei confini che esso impone alla propria libertà che il nostro stare-al-mondo è un processo di perpetuo divenire - eterno e infinito. Il divenire insieme, il mescolarci, l’essere intrinsecamente, inseparabilmente intrecciati e avvinti, condividendo i nostri rispettivi successi e insuccessi, congiunti gli uni agli altri nel bene e nel male, dal momento del nostro simultaneo concepimento finché morte non ci separi...

Ciò che chiamiamo “realtà” quando cadiamo in uno stato d’animo filosofico, o “dati di fatto” quando seguiamo le opinioni correnti, sono entrambi intessuti di parole. Commentando nel suo libro Un incontro la storia di un vecchio di Juan Goytisolo, Milan Kundera fa notare che la biografia - qualsiasi biografia che tenti di essere ciò che il suo nome suggerisce che debba essere - altro non è che una logica artificiale, artefatta, imposta retroattivamente a una successione poco precisa e incoerente di immagini, sovraccarica di spezzoni di ricordi.

Kundera conclude che, in netta contrapposizione con gli assunti del buonsenso, il passato condivide col futuro l’insanabile flagello dell’irrealtà. Eppure, proprio questa irrealtà è l’unica realtà che dobbiamo afferrare e possedere, «vivendo nel discorso come pesci nell’acqua». Questa realtà irreale, fin troppo irreale, la chiamiamo “esperienza”. Ci sforziamo di penetrare attraverso il muro fatto di parole. Paradossalmente, però, quel muro è l’interpretazione.

L’interpretazione è sempre un atto di re-interpretazione; la reinterpretazione è sempre una testa di ponte verso un’altra reinterpretazione. Quella che chiamiamo a priori e anche a posteriori “realtà” può arrivare a noi soltanto nell’involucro delle pre-interpretazioni. Una realtà “cruda”, “pura” e “assoluta” — di fatto non deformata — è un fantasma.

Eppure utile, almeno finché sarà per noi una sorta di stella di Betlemme che, sistematicamente irritata dall’accecante imperfezione del linguaggio, ci indica comunque la strada verso la perfezione linguistica e così, o almeno si spera, verso la verità. La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare.

».

il manifesto, 5 gennaio 2017 (c.m.c.)

La povertà non è un fatto di natura ma il prodotto di società ingiuste perché inegualitarie e predatrici . In piedi, umanità contro il furto della vita.

L’impoverimento

La povertà è il risultato dei processi di esclusione umana, sociale, economica e politica fra gli esseri umani (e tra le comunità umane) tipici delle società ingiuste fondate sull’ineguaglianza e l’appropriazione predatrice della vita.

Prima di essere economica, politica o sociale, la povertà è «culturale», cioè è parte dei processi che operano nell’immaginario collettivo concreto, evolutivo delle persone, dei gruppi sociali e dei popoli. È parte della maniera di «vedere l’altro». Gli impoveriti crescono nelle nostre teste.

L’impoverimento non casca dal cielo. Non si nasce poveri, come si nasce donna o uomo, alti o bassi, bianchi o neri, ma si diventa impoveriti.

L’immaginario, la visione non sono sufficienti per fabbricare l’esclusione. Su questa incidono le scelte, i valori, le istituzioni e le pratiche collettive che fanno di una comunità umana un possibile luogo e spazio sociale generatore o no, chi più e chi meno, di esclusione.

Un furto, di che cosa?

Il furto della vita. Quando in passato la legge stabiliva che solo le persone aventi un reddito superiore a una certa somma potevano votare ed essere eletti a «governare il paese» o, come in Svizzera fino al 1972, le donne erano escluse dal diritto di voto, la legge legalizzava la privazione per tante persone del potere di essere cittadino attivo, di partecipare alla vita politica. Erano impoverite sul piano civile e politico. Il furto aveva luogo ancor prima della loro nascita.

La forma più avanzata di furto della vita, alla nostra epoca, è stata legalizzata nel 1980 allorché la Corte suprema degli Stati Uniti ha autorizzato la brevettabilità del vivente a scopo di lucro, seguita nel 1998 dall’Unione europea. La brevettabilità del vivente significa che è possibile per una persona o un’impresa diventare proprietario esclusivo di un microbo, di una molecola, di una specie vegetale, animale e persino di un gene umano per un periodo da 18 a 25 anni (rinnovabile) e farne l’uso che vuole in nome della conoscenza e della potenza tecnologica. La brevettabilità si traduce in una mercificazione del vivente secondo processi di appropriazione fondati sulla rivalità e l’esclusione.

Così, per esempio, nel campo dei semi, un gruppo sempre più ristretto d’imprese private mondiali si è impadronito del potere di decisione, controllo e uso del capitale biotico del pianeta privando la stragrande maggioranza dei suoi abitanti della garanzia universale pubblica del diritto alla vita (all’alimentazione, alla salute e alla conoscenza….).

Peraltro milioni di contadini sono stati espropriati ed espulsi dalle loro terre in Asia, in Africa ed in America latina e costituiscono il grosso del «popolo mondiale degli impoveriti» e degli affamati. I brevetti sui semi obbligano a pagare un prezzo di mercato per avere accesso a quei beni e servizi essenziali per la vita , quindi, strumentali al diritto alla vita. E ciò costituisce un furto.

A non altro si pensa quando si parla di furto legalizzato nel caso della mercificazione dell’acqua potabile e della privatizzazione dei servizi idrici, compreso il trattamento delle acque reflue.

E che dire delle legislazioni introdotte negli ultimi anni anche nei paesi ricchi detti «sviluppati» in materia del lavoro che hanno stravolto, il mondo del lavoro e la condizione umana e sociale dei lavoratori? Tutti abbiamo sempre riconosciuto il legame fondamentale tra lavoro, reddito,benessere, dignità, da un lato, e diritti sociali, civili e politici, dall’altro. E sappiamo che, nel contesto attuale, il licenziamento è l’anticamera dell’entrata nei processi di impoverimento e di esclusione sociale.

Perché allora, come è successo in queste ultime settimane la Corte europea di giustizia e la Corte di cassazione italiana hanno sentenziato che il licenziamento per soli motivi di redditività (per fare più profitti) è legittimo? Con le loro sentenze, contrarie alla lotta centenaria per la difesa della dignità umana, le due Corti si sono iscritte tra i soggetti produttori d’impoverimento e, quindi, partecipanti al furto della vita.

Che fare?

Analisi dettagliate specifiche e rigorose consentono di identificare nei vari campi i soggetti, i processi ed i meccanismi dell’impoverimento in quanto furto della vita. Lo stesso dicasi delle tendenze emerse in favore della concezione ed entrata in funzione di nuove forme di investigazione, valutazione e condanna del furto come atto criminale rispetto alle regole scritte o vissute del diritto internazionale.

Caso particolarmente rilevante e prezioso l’operato di Tribunali internazionali sui crimini dell’umanità o in materia ambientale. Il che significa che il furto può essere combattuto e condannato ed anche eliminato. In Europa, nel campo dell’acqua, sono oggi i tribunali locali – la magistratura di base, autonoma, libera – che dichiarando illegittima la cessazione dell’erogazione dell’acqua o dell’elettricità per insolvenza o morosità, consentono di arrestare il furto, indipendentemente dall’azione dei cittadini stessi.

La giurisprudenza, però, per quanto importante, non è sufficiente. Il furto della vita, rappresentato dall’ineguaglianze e l’esclusione fatte sistema, è l’atto più grave che gli esseri umani abbiano operato e possono fare all’umanità.

Altrettanto forte e sistematica deve essere la lotta contro di esso. Cinque secoli fa, l’uguaglianza rispetto al diritto alla vita fu all’origine di Utopia, l’opera di Tommaso Moro cui, in Occidente, si continua a fare riferimento per valorizzare la costruzione di un altro mondo. Personalmente preferisco ricordare che l’uguaglianza fu alla base della rivoluzione francese e della dichiarazione universale dei diritti umani più di duecento anni fa e della rivoluzione bolscevica contro lo zarismo proprio cent’anni fa.

L’uguaglianza ha ispirato le lotte per il diritto alla vita negli ultimi cinquant’anni in America latina e in Africa e, recentemente, la «primavera araba». Non bisogna mai arrendersi, per la memoria e nel rispetto dei milioni di vittime che sono morte nel passato per difendere la dignità umana , la liberta per tutti, la giustizia e la fraternità.

Oggi, proprio quando il mondo sembra ulteriormente sprofondato nelle barbarie in nome del denaro, non è ammissibile la dispersione degli sforzi. Il fattore più critico alla base di quel che sta succedendo strutturalmente è il sistema finanziario creatosi nel corso degli ultimi quarant’anni.

L’obiettivo principale, integrante tutto il resto, deve essere la demolizione di detto sistema. Tutto vi si rapporta: il tempo, lo spazio, la conoscenza, la tecnologia, i desideri, le cupidigie, la violenza, il potere, la negazione dei diritti, lo sgretolamento delle comunità umane, l’asservimento dell’umanità.

Anche se sembra irrealizzabile, è essenziale promuovere una coscienza ed una volontà coordinate di azioni contro i derivati, la finanza algoritmica al millesimo di secondo, la speculazione e i paradisi fiscali, il segreto bancario, l’incompetenza e la furfanteria delle banche, le grandi concentrazioni bancarie e la banca totale, l’esistenza e il potere delle agenzia di rating, gli inciuci tra soggetti finanziari e organismi dediti al governo delle attività e servizi pubblici quali gli ospedali, l’educazione, l’università, la ricerca scientifica, contro la finanziarizzazione criminale dell’economia, per la ricostruzione delle casse di risparmio pubbliche locali e la separazione tra attività di risparmio e attività di reddito e la loro regolazione funzionale, contro l’indipendenza politica della Bce e delle altre banche centrali, per una nuova generazione di finanza cooperativa e mutualistica, per le monete locali e la demonetizzazione dei beni e servizi pubblici essenziali per la vita, per il primato del potere politico eletto e partecipato sul dominio oligarchico di soggetti finanziari privati mondiali.

Le politiche cosiddette di riduzione e di eliminazione della povertà condotte da quasi mezzo secolo dai gruppi dominanti a livello nazionale e internazionale sono fallite e restano una beffa malvagia nei confronti degli impoveriti.

Una beffa ancor più malvagia se si pensa che l’arricchimento sempre più scandalosamente elevato dei supermiliardari rispetto ai 3,6 miliardi di persone appartenenti alla metà della popolazione mondiale la più povera, legittimato dalle politiche dei dominanti, induce quest’ultimi ad esaltare i miliardari filantropi come i benefattori dell’umanità(Warren Buffet, Bill Gates, i fratelli WalMart…)!

Nessuna delle misure sopra menzionate a proposito della messa fuorilegge del sistema finanziario attuale figura nelle proclamazioni dell’Onu sulla povertà (vedi l’agenda post-2015 sui Sustainable Development Goals -SDG) o nei programmi «antipovertà» dell’Unione europea. Esse/i sono la prova, se necessario, dell’allineamento e sottomissione totale degli Stati agli interessi e priorità dei gruppi oligarchici mondiali.

In piedi, esseri umani. La povertà è un furto, a opera di un sistema mondiale ingiusto.

In piedi, umanità, insieme. Questo è l’augurio, «Un manifesto 2017 per la dignità universale».

. articolo21 online, 23 dicembre 2016 (c.m.c.)

Sento che il Natale, questo Natale, irrompe nei nostri giorni per ricordarci di non arrenderci al presente. A sussurrare all’orecchio di ciascuno che il presente non ci basta.

Qualche giorno fa un’amica, solitamente un po’ sopra le righe, diceva che questo presente non ci merita. E non è che non lo amiamo questo tempo carico di nubi che impediscono la luce del sole. Vorremmo piuttosto trasformarlo nell’oltre. In un orizzonte che desideriamo, intravediamo e vogliamo avvicinare.

Perché il presente non basta a Martino, trent’anni con laurea e master sudati per il massimo dei voti e delle conoscenze, che perde entusiasmo e speranza ad ogni porta che si richiude cortesemente blindata al suo bussare.Vorrei non si arrendesse al presente nemmeno Gilda a cui senza troppi giri di parole hanno detto che le metastasi ormai diffuse decretano chiaramente che non le resta molto tempo.

Ma anche Mons. Dario de Jesus Monsalve, vescovo di Cali in Colombia e attivo mediatore di pace, vorrei che andasse oltre il presente che lo vede condannato a morte dai narcos e dai signori della guerra che qualche giorno fa gli hanno recapitato un messaggio in cui si legge che “il clero comunista” non merita di vivere. D’altra parte già il suo predecessore Isaías Duarte Cancino fu ucciso da una sventagliata di mitra nel 2002 mentre usciva da una chiesa.

Che non si arrenda al presente la folla di coloro che subiscono le guerre e la miseria pianificate e alimentate da altri.

C’è sempre un oltre che non ammette rese.Dobbiamo soltanto sforzarci di affrontare il tempo presente insieme.Ce lo ricorda un bambino piccolo e indifeso che nasce povero e si affida alle nostre premure. Dio che si fida di noi.

21 dicembre 1956. Stati Uniti . Sentenza della corte suprema che ha dichiarato incostituzionale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblico. Riportiamo un approfondimento di Nadia Venturini estratto da un articolo del

La Stampa, 30 novembre 2015 (c.m.c.)


Il Sud 50 anni fa

E’ difficile crederlo, guardando Obama e Michelle, ammirando gente dello spettacolo come Oprah Winfrey e Denzel Washington. Eppure la segregazione esisteva davvero negli undici stati che avevano fatto parte della Confederazione durante la Guerra Civile. Era un sistema rigido che teneva i neri separati dai bianchi nei luoghi pubblici e sui mezzi di trasporto. Relegava i neri in scuole di livello inferiore, li escludeva da molte occupazioni e prevedeva salari più bassi. Ma soprattutto ogni stato elaborava stratagemmi legali per impedire ai neri di registrarsi per votare, come ha descritto molto bene la regista Ava DuVernay nel film Selma.

I neri sapevano dove nascondersi per organizzare le loro azioni

La segregazione conteneva un paradosso: la legislazione del sud obbligava a mantenere ad uso esclusivo dei neri una serie di spazi pubblici molto eterogenei (chiese, bar, associazioni ricreative, barbieri e beauty shop) e quindi permetteva agli afroamericani di avere luoghi in cui potersi nascondere e organizzare all’insaputa dei bianchi, senza dover ricorrere a stratagemmi.

Un fenomeno che riguardava in modo particolare le donne, spesso escluse dai livelli dirigenti delle organizzazioni per i diritti civili. Perfino nel memorabile giorno della Marcia su Washington, nessuna donna parlò sul palco. Per questo motivo, la vicenda di Rosa Parks ci consente di scoprire un risvolto ancora poco conosciuto di quella che fu la lotta per i diritti civili degli afroamericani.

Chi era Rosa Parks prima di diventare famosa

Non era né anziana, né stanca: però si era stancata di subire. Aveva 42 anni, faceva la sarta, era attiva nel volontariato della sua chiesa e da vent’anni attivista della NAACP di cui, a Montgomery, era segretaria del responsabile locale E.D. Nixon.

Rosa McCauley Parks aveva accumulato esperienze come attivista per i diritti civili, fin da quando negli Anni 30 aveva partecipato col marito Raymond Parks alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottsboro, ingiustamente accusati di stupro. Dopo la fine del boicottaggio di Montgomery era diventata un’icona nazionale, ma sia lei che il marito avevano perso il lavoro. Dovettero trasferirsi a Detroit e ripartire da zero. Rosa veniva invitata a convegni e manifestazioni, ma non le offrirono mai un impiego adeguato alla sua esperienza di attivista. Continuò come volontaria ad impegnarsi sul tema della giustizia criminale e del trattamento dei neri nel sistema giudiziario.

Quando venne arrestata a Montgomery nel 1955, non si era seduta nella parte bianca del bus, ma in quella intermedia di separazione delle razze, che veniva occupata solo quando il bus era molto affollato. L’autista le ordinò comunque di alzarsi per cedere il posto a un uomo bianco, Rosa rifiutò, venne imprigionata e liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista Clifford Durr. E.D. Nixon progettò la causa giudiziaria che avrebbe portato la Corte Suprema, un anno dopo, a decretare l’incostituzionalità della segregazione sui mezzi di trasporto. Intorno alla vicenda di Rosa si creò una mobilitazione della comunità nera: 40mila persone fra chiese, associazioni, donne di ogni estrazione sociale.

L’intervento di Martin Luhter King in difesa di Parks

Il 5 dicembre, giorno del processo, in un’affollata assemblea tenuta in chiesa, alla Parks non venne data la parola ma fu Martin Luther King a sottolineare la sua reputazione di buona cittadina. Una rispettabilità inattaccabile, quella più compatibile con la definizione della femminilità nel dopoguerra, in cui la maggior parte degli afroamericani tentavano di aderire ai valori della società dominante per ritagliarsi uno spazio personale e professionale anche nel mondo segregato del sud. Parks divenne così una sorta di bandiera della causa per la desegregazione dei mezzi pubblici di Montgomery e poi un’icona del movimento.

Non soltanto Rosa:le altre donne della ribellione

Nel 1955 Rosa Parks era un’attivista molto consapevole, cosciente che la scandalosa situazione dei bus di Montgomery non era dovuta solo alla segregazione, ma ai deliberati maltrattamenti degli autisti bianchi verso la prevalente utenza nera. Rosa e Nixon avevano partecipato ad una Leadership Training Conference della NAACP, organizzata da Ella Baker, che aveva contribuito a rafforzare i progetti di azioni legali contro la segregazione. Inoltre durante l’estate la Parks aveva partecipato ad un seminario presso Highlander Folk School (link) dove aveva conosciuto Septima Clark e Bernice Robinson: un incontro fra donne formidabili.

Jo Ann Robinson . fu lei a ideare il boicottaggiodei bus

Il boicottaggio degli autobus di Montgomery iniziò il 5 dicembre 1955 e si concluse il 21 dicembre 1956: fu una delle più straordinarie dimostrazioni di resistenza non violenta che si ricordino. Migliaia di afroamericani rinunciarono al trasporto pubblico per un anno intero.

I neri pagavano il biglietto e poi venivano lasciati a terra

Ma quel boicottaggio non fu progettato da Rosa Parks o da Martin Luther King o dai leader afroamericani. Fu ideato da Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana. Occorre spiegare che tre quarti dei passeggeri degli autobus erano neri e subivano vari abusi. Il regolamento prevedeva che dopo aver pagato la propria tariffa, gli utenti neri scendessero per risalire dalla porta posteriore, ma talvolta venivano lasciati a terra, e le donne spesso subivano maltrattamenti. Molte lamentele arrivavano al WPC della Robinson la quale già nel 1954 aveva avvisato il sindaco che 25 organizzazioni locali erano pronte ad avviare un boicottaggio degli autobus.

Quella notte passata a stampare volantini di propaganda

Quando seppe dell’arresto di Rosa Parks, Robinson agì con prontezza e segretezza. Nella notte fra il 1° e il 2 dicembre 1955, stilò un breve comunicato anonimo, nel quale riferiva che «un’altra donna negra è stata arrestata e gettata in carcere perché ha rifiutato di alzarsi e cedere il posto ad una persona bianca sull’autobus». Invitava quindi i cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre, giorno del processo. Il volantino era anonimo, conciso e privo di retorica. Fu stampato nella notte in diecimila copie.

La Robinson, con l’aiuto di studenti e colleghi, utilizzò di nascosto il centro stampa del college e all’alba venne organizzata la distribuzione presso scuole, negozi, birrerie, saloni di bellezza e barbieri. Alle due del pomeriggio ogni volantino era stato passato più volte di mano: «Praticamente ogni uomo, donna o ragazzo nero a Montgomery conosceva il progetto e faceva passaparola. Nessuno sapeva da dove fossero venuti i volantini o chi li avesse fatti circolare, e a nessuno importava. Nel profondo del cuore di ogni persona nera vi era una gioia che non osava rivelare», raccontava tempo dopo la Robinson.

Le domestiche di colore ostentavano calma a casa dei bianchi

Insomma, era stato un gruppo di donne che, con furtiva abilità, aveva innescato la protesta. Il che testimonia ancora una volta come negli Anni 50 per i neri dissenzienti del sud la dissimulazione della protesta fosse considerata vitale. Le domestiche, ad esempio, che lavoravano fino a tardi presso le famiglie dei bianchi, quel giorno lessero di corsa e di nascosto il volantino per poi distruggerlo subito dopo e continuare a lavorare di buon umore, per non fare trapelare nulla.

Bernice Robinson e l'attivismo delle parrucchiere

I volantini del boicottaggio di Montgomery venivano lasciati soprattutto nei saloni di bellezza. Già, perché molte parrucchiere ed estetiste erano attiviste dei diritti civili, ormai da decenni. Parecchie di loro erano aderenti alla NAACP e diffondevano fra le loro clienti i materiali per potersi registrare e votare.

Le beauticians nere erano professioniste indipendenti, mediamente più colte di altre donne che svolgevano lavori umili. Talvolta disponevano di un negozio attrezzato, talvolta esercitavano nelle proprie case, ma erano tutte piccole imprenditrici libere dal controllo bianco, che potevano affermare una leadership riconosciuta nelle loro comunità. L’importanza di questa professione traeva origine da uno dei tratti distintivi delle donne nere, disprezzato dal razzismo bianco e invece esaltato dalla cultura del Black Power: i capelli ricci, difficili da trattare, che richiedevano l’uso di prodotti specifici e l’abilità di professioniste specializzate. Fino agli Anni 60 prevaleva lo stile conformista che imitava le acconciature delle donne bianche: poi emerse la scelta ribelle di portare i capelli afro, come Angela Davis.

Le beauticians nere controllavano uno spazio fisico, il beauty shop, che era nel contempo pubblico e privato: forniva uno spazio intimo riservato alle donne, in cui le estetiste potevano parlare liberamente con altre donne per incoraggiarle all’attivismo o alla registrazione elettorale. La specificità professionale e l’indipendenza economica le portavano a sostenere diverse forme di attivismo politico. Highlander aveva organizzato alcuni seminari di formazione dedicati proprio a queste professioniste all’inizio degli Anni 50: essendo in contatto con tutti i settori della popolazione afroamericana, con donne di classi e formazione diverse, le beauticians erano in grado di raccogliere informazioni di ogni tipo e diffonderle fra le loro clienti.

Septima Poinsette Clark, insegnante e rivoluzionaria

Bernice Robinson venne coinvolta in questi contesti nel 1955 dalla cugina Septima Poinsette Clark (link). Insegnante elementare a Charleston, nel 1956 venne licenziata perchè non aveva voluto dimettersi dalla NAACP. Bernice aveva vissuto a lungo a New York, dove aveva appreso il mestiere di estetista e di sarta: quando dovette tornare a vivere a Charleston, trovò difficile abituarsi nuovamente alle restrizioni della segregazione. Divenne attiva nella NAACP locale, e costruì a lato della sua casa un laboratorio da estetista. Mentre faceva una messa in piega, incitava le clienti a registrarsi per votare.

Septima Clark condusse la Robinson al centro culturale Highlander, dove incontrarono Rosa Parks. Ognuna di loro nell’estate del 1955 prese decisioni che avrebbero sconvolto le loro vite. Bernice si fece convincere da Septima ad organizzare una scuola di cittadinanza nelle zone rurali più povere della South Carolina. Gli afroamericani erano in gran parte analfabeti, per cui non potevano registrarsi. La scuola di cittadinanza doveva dare un’alfabetizzazione primaria e un’educazione civica per conseguire questo obiettivo.

Il modello di scuola popolare che aveva creato ebbe successo, molti afroamericani riuscirono a registrarsi, e vennero aperte scuole analoghe in tutto il sud. Dopo tre anni, Bernice lasciò il suo beauty shop, perché ottenne il ruolo di coordinatrice della formazione in tutto il sud. Viaggiava continuamente ed era in contatto con tutti i leader afroamericani. Nel 1965 andò con Septima a Selma per alcuni mesi, per insegnare ai neri locali a scrivere la propria firma.

Il Voting Rights Act del 1965 coronò gli sforzi di migliaia di donne afroamericane che avevano lottato per superare gli ostacoli posti dagli stati del sud al diritto di voto. Avevano creato oltre 900 scuole popolari, permettendo la registrazione di centinaia di migliaia di afroamericani. Erano donne determinate e coraggiose, venivano spesso dalle classi popolari, e alcune di loro avevano cominciato pettinando e truccando altre donne.

«La nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza,ma soprattutto ddeve diventare metodo politico di azione sociale eanche per i rapporti tra gli Stati

». Azionenonviolenta, 14 dicembre 2016

Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della pace.

Non sembri strano che un’associazione laica come il Movimento Nonviolento plauda al documento che Papa Francesco ha redatto in preparazione della cinquantesima Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2017. Il messaggio “La nonviolenza: stile di una politica per la pace” ci pare un testo particolarmente significativo, che va oltre l’ambito cattolico, importante per i suoi contenuti e per l’autorevolezza della fonte.

Ripensiamo ora alle parole profetiche di Aldo Capitini, che nel libro In cammino per la pace, del 1961, scrisse: “Quando tra il popolo più umile, e tanto importante, dell’Italia si arrivasse a mettere il ritratto di Gandhi in chiesa tra i santi, avremmo quella riforma religiosa che l’Italia aspetta dal Millecento, da Gioacchino da Fiore”. Forse davvero un passo in quella direzione è stato compiuto.

Il testo non contiene novità dal punto di vista della teoria e della pratica della nonviolenza, ma il fatto che il Pontefice riconosca ad essa la supremazia e la indichi come mezzo per “guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali”, e come “stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme”, è un segno e un valore inestimabile.

Finalmente la nonviolenza viene intesa per quello che è: non semplice a-violenza, e non mera applicazione del metodo democratico, ma come forma efficace, rivoluzionaria, per rendere testimonianza alla verità. La nonviolenza è una forma avanzata di azione per risolvere i conflitti.

E’ assolutamente positiva la scelta di Francesco di sottolineare che il documento pontificio sulla nonviolenza fa riferimento alla nonviolenza specifica, attiva, gandhiana. Tra l’altro, e non è solo un’osservazione stilistica, finalmente in un documento ufficiale del Vaticano leggiamo il termine ‘nonviolenza’ scritto giustamente come una parola unica, così come voleva il fondatore del nostro movimento, Aldo Capitini, per dare il senso di una proposta costruttiva, in positivo e non solo come rinuncia alla violenza fisica.

Gandhi la chiamava ‘satyagraha’, cioè ‘forza della verità’ proprio per dare l’idea di di una forza attiva, e non di una debolezza passiva. Ed è ‘cosa buona e giusta’ che il Papa nel documento si riferisca proprio alle origini storiche della nonviolenza politica: Mohandas Gandhi, Martin Luther King, e anche Abdul Khan, il cosiddetto ‘Gandhi’ musulmano che organizzò un corpo di volontari della nonviolenza, un vero e proprio esercito per la pace costituito da diecimila e più persone.

Come ricorda Francesco, infatti, la nonviolenza è uno stile, l’arte di vivere, che deve permeare tutta la nostra esistenza. Non a caso il Papa, nelle prime righe del messaggio, si rivolge anche ai bambini e alle bambine e ricorda che la nonviolenza nasce dal cuore dell’uomo e deve giungere fino alla politica internazionale. E’ questa la grandissima novità del documento. La nonviolenza non più intesa come una via individuale di salvezza, ma come metodo politico di azione sociale e anche per i rapporti tra gli Stati.

E questo significa rivedere tutte le politiche militari di quest’ultimo secolo che ci stanno portando drammaticamente alla Terza guerra mondiale a pezzi. E’ dunque un documento che, se preso sul serio, deve interpellare tutti perché contiene indicazioni pratiche di una novità rivoluzionaria che portano alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza e al disarmo unilaterale, allo smantellamento della difesa armata per organizzare una difesa civile nonviolenta.

Non sappiamo a quali fonti, oltre a quella originale evangelica, si sia ispirato Francesco per redarre questo documento. Certamente possiamo riconoscervi tracce del pensiero dell’antropologo Renè Girard (La matrice sociale della violenza), del filosofo francese Jean Marie Muller (Il Vangelo della nonviolenza) e del filosofo della politica Giuliano Pontara (La personalità nonviolenta; L’antibarbarie; Teoria e pratica della nonviolenza), uno dei massimi studiosi della nonviolenza a livello internazionale.

Il Papa è una guida spirituale. A lui spetta il compito di indicare la via, poi sta a ciascuna persona, cattolica o laica, cristiana o atea, di qualsiasi altra fede o agnostica, accettare o meno il messaggio. Dopo questo documento, che si rivolge all’intera umanità, la nonviolenza non potrà più essere ignorata all’interno della Chiesa cattolica e da chi ad essa guarda con attenzione e partecipazione. Convertirsi alla nonviolenza è ora il programma cui tanti fedeli devono ispirarsi.

La Repubblica, 11 dicembre 2016 (c.m.c.)

Per prima cosa devo riconoscere l’assurdità della mia posizione. Probabilmente accettare un premio letterario è sempre un po’ assurdo, ma in tempi come questi non solo chi lo riceve, ma anche chi lo assegna sente inevitabilmente un certo imbarazzo per tutta la faccenda. Eppure eccoci qua. A occidente sorge il presidente Trump, sull’altro lato dell’oceano l’Europa unita tramonta oltre l’orizzonte: eppure eccoci qua, ad assegnare un premio letterario e a riceverlo.

Gli eventi dell’ 8 novembre hanno reso assurde così tante cose più importanti che esito a includere i miei scritti nell’elenco, e li cito solo perché la domanda che mi sento porre più frequentemente in questi giorni a proposito del mio lavoro mi sembra avere una certa attinenza con la situazione.

La domanda è: «Nei tuoi primi romanzi suonavi molto ottimista, ma ora i tuoi libri sono pervasi di sconforto. È effettivamente così? » . Normalmente viene fatta con un tono di smaniosità furbetta: è un tono che può riconoscere facilmente chiunque abbia sentito un bambino chiedere il permesso di fare qualcosa che in realtà ha già fatto.

A volte viene posta in modo molto più esplicito, per esempio: «Eri una paladina del multiculturalismo: non vuoi ammettere che ormai ha fallito?». Quando sento queste domande mi torna in mente che per certe persone essere cresciuti in una cultura omogenea in un angolo della provincia inglese (per esempio), o francese, o polacca, durante gli anni Settanta, Ottanta o Novanta, significa semplicemente essere stati vivi nel mondo, mentre essere cresciuti a Londra nello stesso periodo con (per esempio) dei musulmani pachistani nell’appartamento accanto, degli induisti indiani al piano di sotto e degli ebrei lettoni nella casa di fronte, è visto, da altri, come la prova di un esperimento sociale storico ben preciso, ormai screditato.

Naturalmente da bambina non mi rendevo conto che la vita che vivevo fosse considerata in qualche modo provvisoria o sperimentale da altri: pensavo che fosse semplicemente vita. E quando scrivevo un romanzo sulla Londra in cui ero cresciuta, non mi rendevo conto che descrivendo un ambiente in cui persone provenienti da posti diversi vivono in modo relativamente pacifico una accanto all’altra, mi stessi facendo “paladina” di una situazione che in realtà era sub judice e le cui condizioni da un momento all’altro potevano essere revocate.

Tutto questo per dire che ero molto innocente, all’età di ventun anni. Pensavo che le forze storiche che avevano portato la parte nera della mia famiglia dalla costa dell’Africa occidentale ai Caraibi attraverso la tratta degli schiavi, e poi in Gran Bretagna attraverso il colonialismo e il postcolonialismo, fossero solide e reali quanto le forze storiche che (per esempio) avevano epurato un paesino italiano di tutti i suoi ebrei, e in virtù della sua distanza fisica da Milano lo avevano mantenuto in larga parte bianco e cattolico negli stessi anni in cui il mio piccolo angolo di Inghilterra diventava razzialmente pluralista e multireligioso.

Pensavo che la mia vita fosse contingente quanto le vite vissute in un paesino di campagna italiano, e che in entrambi i casi il tempo storico si stesse muovendo nell’unica direzione in cui può muoversi: avanti. Non mi rendevo conto che mi facevo “paladina” del multiculturalismo semplicemente raffigurandolo, o descrivendolo altro che come una tragedia incombente.

Allo stesso tempo, non penso di essere mai stata così ingenua da credere, nemmeno a ventun anni, che le società razzialmente omogenee fossero necessariamente più felici o pacifiche della nostra semplicemente in virtù della loro omogeneità.

D’altronde perfino un ragazzino con la metà dei miei anni sapeva quello che si facevano tra loro gli antichi greci, e i romani, e gli inglesi del XVII secolo, e gli americani del XIX. Il mio migliore amico di quando ero giovane — ora mio marito — è originario dell’Irlanda del Nord, un posto dove persone che hanno lo stesso identico aspetto, consumano gli stessi cibi, pregano lo stesso Dio, leggono lo stesso libro sacro, indossano gli stessi vestiti e celebrano le stesse festività, hanno passato quattro secoli a farsi la guerra per una differenza dottrinale relativamente marginale che hanno lasciato trasformarsi in una diatriba a tutto campo su terra, sistema di governo e identità nazionale. L’omogeneità razziale non è in alcun modo garanzia di pace, così come l’eterogeneità razziale non è immancabilmente destinata a fallire.

In questi giorni mi sembra che una forma nostalgica di viaggio nel tempo sia diventata un tema politico persistente, sia a destra che a sinistra. Il 10 novembre il New York Times ha scritto che quasi sette elettori repubblicani su dieci preferiscono l’America com’era negli anni Cinquanta: una nostalgia che ovviamente una persona come me non può provare, visto che in quel periodo non avrei potuto votare, sposare mio marito, avere i miei figli, lavorare nell’università in cui lavoro o vivere nel quartiere in cui vivo. Il viaggio nel tempo è un’arte discrezionale: per qualcuno è un viaggio di piacere, per altri un racconto dell’orrore.

Allo stesso tempo, anche a sinistra c’è gente che coltiva fantasie di viaggi temporali, immaginando che gli stessi rigidi principi ideologici che un tempo venivano applicati a tematiche come i diritti dei lavoratori, il welfare e i commerci possano essere applicati senza variazioni a un mondo globalizzato di capitali fluidi.

Tuttavia, la domanda sul progetto fallito, applicata al minuscolo mondo irreale della mia narrativa, non è del tutto sbagliata. È abbastanza vero che i miei romanzi un tempo erano luoghi più solari, e che ora il cielo si è rannuvolato sopra i miei libri. Lo addebito in parte, semplicemente, all’esperienza della mezza età: Denti bianchi lo scrissi da bambina e ci sono cresciuta insieme. L’arte della mezza età è sempre indubbiamente più cupa dell’arte della giovinezza, e la vita stessa diventa più ombrosa. Ma sarei insincera se pretendessi che non c’è altro. Sono una cittadina, oltre che un’anima individuale, e una delle cose che la cittadinanza ci insegna, sul lungo periodo, è che non c’è nessuna perfettibilità nelle faccende umane. Questo fatto, ancora ignoto per una ventunenne, è un po’ più evidente agli occhi di una quarantunenne.

Come il mio caro, ben presto ex presidente, capiva bene, in questo mondo ci sono solo progressi incrementali. Solo persone ostinatamente cieche possono ignorare che la storia dell’esistenza umana è simultaneamente la storia della sofferenza: della brutalità, degli omicidi, delle estinzioni di massa, di venalità di ogni sorta e di orrori ciclici. Nessuna terra ne è esente, nessuna persona è priva di questa macchia di sangue, nessuna tribù è interamente innocente. Ma c’è sempre questa faccenda liberatoria dei progressi incrementali. Può sembrare piccola cosa a chi ha visioni apocalittiche, ma per una che fino a non molto tempo fa non avrebbe potuto votare, o bere dalla stessa fontanella dei suoi concittadini, o sposare la persona che voleva, o vivere in un certo quartiere, questi cambiamenti incrementali sembrano qualcosa di enorme.

E contestualmente il sogno di viaggiare nel tempo — per i nuovi presidenti, per i giornalisti letterari, per gli scrittori — è solo questo: un sogno. E un sogno che ha senso soltanto se i diritti e i privilegi che ti sono accordati in questo momento ti venissero accordati anche allora. Che alcuni uomini bianchi abbiano una visione più sentimentale della storia di chiunque altro, in questo momento, non è una gran sorpresa: i loro diritti e privilegi risalgono molto indietro nel tempo.

Per una donna nera l’estensione della storia vivibile è enormemente più breve. Che cosa sarei stata e che cosa avrei fatto — o più esattamente che cosa mi avrebbero fatto — nel 1360, nel 1760, nel 1860, nel 1960? Non dico questo per rivendicare il proscenio della vittima perfetta o dell’innocenza storica. So benissimo che i miei antenati dell’Africa occidentale vendevano e schiavizzavano i loro cugini e vicini tribali. Non credo in una qualunque identità politica o personale di pura innocenza e assoluta rettitudine.

Ma non credo nemmeno nei viaggi nel tempo. Credo nei limiti umani, non per un qualche sentimento di fatalismo, ma per una prudenza appresa, racimolata nella storia vicina e lontana. Non saremo mai perfetti: questo è il nostro limite. Ma possiamo avere, e abbiamo avuto, momenti di cui andare realmente orgogliosi. Io andavo orgogliosa del mio quartiere, della mia infanzia, nel lontano 1999. Non era perfetta, ma era ricca di possibilità. Se le nubi si sono addensate sulla mia narrativa non è perché quello che era perfetto si è rivelato vuoto, ma perché quello che stava diventando possibile — e milioni di persone vivono ancora come tale — ora viene negato come se non fosse mai esistito e non potesse mai esistere.

Mentre scrivo queste righe mi rendo conto di essermi un po’ allontanata dalla felicità che dovrebbe giustamente accompagnare l’accettazione di un premio letterario. Sono molto felice di accettare questo grande onore, vi prego di non fraintendere la mia disposizione d’animo. Sono più che felice, sono stupefatta.

Quando cominciai a scrivere non avrei mai immaginato che qualcuno al di fuori del mio quartiere avrebbe letto questi libri, tantomeno fuori dall’Inghilterra, tanto meno “ sul continente”, come lo chiamava mio padre. Ricordo che ero sbalordita quando mi imbarcai nel mio primissimo tour europeo per la presentazione di un libro, in Germania, con mio padre che ci era stato per l’ultima volta nel 1945, come giovane soldato durante la ricostruzione. Per lui fu un viaggio colmo di nostalgia: aveva amato una ragazza tedesca nel lontano 1945 e uno dei suoi grandi rimpianti, ammise con me durante quel viaggio, era di non aver sposato lei ed essere invece tornato a casa, in Inghilterra, e aver sposato prima una donna e poi un’altra, mia madre.

Sicuramente sembravamo una strana coppia in quel tour: una giovane ragazza nera e il suo anziano padre bianco, che giravano con le guide strette in mano a cercare quei punti di Berlino che mio padre aveva visitato quasi cinquant’anni prima. È da lui che ho ereditato sia l’ottimismo che la disperazione, perché aveva partecipato alla liberazione del lager di Bergen-Belsen, e quindi aveva visto il peggio che il mondo ha da offrire: ma da lì in poi aveva saputo andare avanti, con un cuore e una mente sufficientemente aperti, lasciandosi dietro un matrimonio fallito e poi un altro, e sposandosi tutte e due le volte senza tenere conto delle varie barriere di classe, colore e temperamento, eppure continuava a trovare nella vita ragioni per essere allegro, perfino ragioni per essere felice.

Mi rendo conto adesso che era una delle persone meno ideologiche che abbia mai conosciuto: tutto quello che gli succedeva lo prendeva come un caso specifico, non era capace o non voleva ricavarne una generalizzazione. Perse il lavoro che gli dava da vivere, ma non perse la fede nel suo Paese. Il sistema scolastico lo aveva respinto, ma continuava a venerarlo e riponeva in esso tutte le sue speranze per i figli. Le sue relazioni con le donne sono state quasi sempre un disastro, ma non odiava le donne. Nella sua mente non aveva sposato una ragazza nera, aveva sposato “ Yvonne”; e non aveva un insieme sperimentale di bambini di razza mista, aveva me, mio fratello Ben e mio fratello Luke.

Quanto sono rare persone del genere! Non sono così ingenua da credere, neanche adesso, che in ogni periodo storico ce ne siano a sufficienza da formare una società decente e tollerante. Ma nemmeno voglio negare che esistano, o che non possano esserci vite come la sua. Era un membro della classe operaia bianca, un uomo spesso afflitto dalla disperazione, ma che riusciva comunque a conservare un ottimismo di fondo. Forse in un’epoca diversa, sottoposto a influenze culturali diverse, in una società diversa, sarebbe diventato uno di quegli uomini bianchi rabbiosi di cui la sinistra odierna è tanto impaurita. Ma così come stavano le cose, lui, nato nel 1925 e morto nel 2006, ha visto i suoi figli beneficiare delle tutele di civiltà del dopoguerra, l’istruzione e le cure mediche gratuite, e riteneva di avere molte ragioni per essere grato.
Questo è il mondo che ho conosciuto.

Le cose sono cambiate, ma il cambiamento non cancella la storia, e gli esempi del passato offrono comunque nuove possibilità per tutti noi, opportunità per ricostruire, a beneficio di una nuova generazione, le condizioni di cui abbiamo goduto noi. Né i miei lettori né io siamo più sulle alture relativamente soleggiate che descrivevo in Denti bianchi. Ma la lezione che ricavo da tutto questo non è che le vite di quel romanzo erano illusorie, semmai che il progresso non è mai permanente, che sarà sempre minacciato, che va raddoppiato, riaffermato e rimmaginato se si vuole che sopravviva. Non dico che sia facile. Non ho le risposte.

Per natura non sono portata alla politica, e questo politicamente è il periodo più oscuro che abbia conosciuto. Il mio mestiere, così com’è, concerne le vite intime delle persone. Quelli che mi interrogano sul “ fallimento del multiculturalismo” vogliono insinuare che non solo è fallita un’ideologia politica, ma gli esseri umani stessi sono cambiati e ora sono fondamentalmente incapaci di vivere insieme pacificamente a dispetto delle loro tante differenze.

In questa tesi è lo scrittore che fa la figura del bambino ingenuo, ma io sostengo che sono proprio le persone che credono in cambiamenti fondamentali e irreversibili della natura umana a essere antistoriche e ingenue. Se c’è una cosa che i romanzieri sanno è che i singoli cittadini sono plurali internamente: contengono in loro l’intera gamma delle possibilità comportamentali. Sono come spartiti musicali complessi, da cui è possibile estrarre certe melodie e ignorarne o sopprimerne altre, a seconda, almeno in parte, di chi è il direttore d’orchestra. In questo momento, in tutto il mondo — e più recentemente in America — i direttori di questa orchestra umana hanno in mente solo le melodie più grette e banali.

Qui in Germania probabilmente vi ricordate di questi canti marziali: non sono una memoria tanto remota. Ma non c’è posto sulla Terra in cui non siano stati suonati, in un momento o nell’altro. Quelli di noi che ricordano anche una musica più bella ora devono cercare di suonarla, e incoraggiare gli altri, se ci riusciamo, a cantare insieme a noi.

( traduzione di Fabio Galimberti)

È giusto utilizzare quel tantum di stupidità che c'è in ciascuno di noi sudditi (e quindi aumentarlo) per raggiungere un po' più efficacemente obiettivi politici virtuosi? Qualcuno, giustamente, dice di no, e ricorda il meccanismo che portò alla Shoa.

il manifesto, 28 ottobre 2016

Per effetto della legge di stabilità, dal 2018 lo scontrino (se accompagnato dal codice fiscale dell’acquirente) darà diritto a partecipare all’estrazione a sorte di premi nazionali, non si sa se in beni o in denaro. Non è un’idea originale del nostro Governo: le lotterie fiscali rappresentano forse il più noto esempio di applicazione delle teorie comportamentiste alle politiche pubbliche. Sperimentate per la prima volta qualche anno fa in Gran Bretagna, le lotterie fiscali figurano oggi in prima fila tra le best practice che gli studi dell’Unione europea e raccomandano agli Stati membri ai fini di una Better Regulation. L’Unione, sulla scia di raccomandazioni della Banca Mondiale, e sulle orme di Obama, che con un Executive Order ha recentemente invitato le amministrazioni americane a fare uso di metodi comportamentisti, ha creato da qualche tempo un organismo (Foresight and Behavioural Insights Unit) ai fini dell’esplorazione e dell’implementazione del comportamentismo nel policy making. Sui Behavioural Insights Applied to Policy (BIs) questo organismo ha prodotto un significativo Report nel 2016.

Il succo è presto detto: le teorie comportamentiste si basano sulla premessa che il comportamento umano non solo non è razionale, ma neppure molto intelligente. Le persone sono preda di pregiudizi, sono condizionate dal comportamento altrui, si sopravvalutano e tendono a fare tante altre cose sciocche, come ingigantire la minuscola probabilità di successo legata all’estrazione di una lotteria; le politiche pubbliche possono sfruttare questi difetti della ‘natura umana’ per migliorare la propria efficienza in termini di raggiungimento dello scopo e prevedibilità del rapporto spese-risultati. Detto altrimenti, e per quanto paradossale sia, le politiche pubbliche basate sul comportamentismo sono politiche (che si reputano) ‘intelligenti’ in quanto sfruttano l’idiozia della gente comune, che danno per scontata. Non solo: esse considerano la povertà intellettuale delle persone, postulata come dato di natura, non come un problema da affrontare – per esempio con l’educazione, no? – ma come una risorsa da mantenere e anzi da accrescere il più possibile, dal momento che può essere facilmente sfruttata per raggiungere risultati. Il presupposto del comportamentismo applicato alle politiche pubbliche è che sopra stanno i policy makers, intelligenti e consapevoli, sotto la gente, sciocca e condizionabile: il padrone premia il cane mentre lo addestra (salvo smettere di premiarlo quando avrà imparato bene) e la ‘natura umana’ si scinde in due. Una, quella vera e propria, razionale e libera, chi governa la riconosce a se stesso (o meglio, agli apparati in cui si spersonalizza, apparati che, come oggi si dice, ’riflettono’, dunque sono animati da intelligenza); l’altra, di tipo animale, spetta al resto dell’umanità, ammasso di bestioline, che siccome non sanno concepire il bene e il giusto, vanno addestrate sfruttando le loro ingenue, animalesche fantasie, come quella di arricchirsi a buon mercato che per loro, si sa, vale come uno zuccherino. Sotto il volto furbetto e ‘smart’ di queste politiche lavora più dura che mai l’istanza di disciplinamento compagna di ogni tentazione autoritaria, agisce la rinuncia deliberata a un progetto di convivenza civile.

Combattere l’evasione fiscale, onde aumentarne il gettito, o perseguire qualunque altro fine, pur di per sé condivisibile, adottando politiche basate sul comportamentismo è scelta che dovrebbe essere circondata da un ampio dibattito, perché investe questioni più decisive di qualche punto percentuale nel saldo di bilancio.

E’ problematica la compatibilità di questi metodi con le premesse di democrazie che affermano la pari dignità di tutti i cittadini (e di essi rispetto a chi li governa), tutelano il libero sviluppo della personalità, si propongono pari opportunità per tutti (l’opportunità di sviluppare la propria intelligenza, per esempio) e pertanto vietano la strumentalizzazione degli individui ai fini propri degli apparati governanti.

Sono democrazie, le nostre, nate dalla ‘catastrofe’: orrificate dal campo di sterminio, esse ci avvertono che ogni concezione concentrazionaria inizia con la riduzione dell’individuo a elemento statistico. Invece, riceviamo queste politiche come prodotto finito di una elaborazione che tiene la società ai margini perché la colloca al di sotto di sé, e avviene in modo autoreferenziale (c’è anche l’apposito gruppo di esperti in-house incaricato di sancire la ‘compatibilità etica’ di queste scelte).

Una risata vi sommergerà? Oggi è il potere che ride di noi, ma se ride di noi, come potrà rispettarci? Non è mai troppo tardi per chiederselo.

C'è da rimpiangere il tempo in cui la complessità del discorso tentava di riflettere, con l'aiuto della sintassi, la complessità della realtà. Oggi il linguaggio ischeletrito dei tweet e delle slide ha trasformato il pensiero in intimidazione e propaganda. Ma c'è chi ne è contento. Il manifesto, 23 ottobre 2016
«Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne’ più libidinosi avvolgimenti, con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture, e sono vezzi e grazie, o civetterie di stile, che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua gaiezza prosaica, ma il suo motivo sentimentale e musicale.» Francesco De Sanctis descrive i periodi di Boccaccio, che sono lunghi, sinuosi e vivi, e lo fa con una frase a più strati, piena e ricca, a sua volta affollata di cose e di movimento. La sintassi italiana è stata spesso, nei secoli, un tessuto raffinatissimo: i grandi prosatori, a partire da Boccaccio e includendo De Sanctis, hanno tornito frasi capaci di contenere, entro lo spazio limitato dal punto fermo, distinzioni e ramificazioni, digressioni e avanzamenti. I periodi lunghi, ha scritto Philip Roth, sono come una corsa in metropolitana: sali a una fermata, scendi a un’altra. Cose succedono, idee si sviluppano. Ma non solo. Concatenare insieme mille pensieri è un’arte seducente perché permette allo scrittore di modellare una prospettiva. Zone d’ombra e messe a fuoco sono distribuite dalla sintassi.

Che stabilisce rapporti; raggruppa le circostanze attorno a un centro; coordina o subordina; regola le relazioni di tempo, di causa, di fine, esprimendole in forme nette, non equivocabili. Grazie alla sintassi, lo scrittore domina il disordine della realtà; e attira il lettore in un percorso recintato, che non consente alternative. Perché qui sta la questione: la sintassi è un esercizio di potere. Anche De Sanctis, con la sua bella prosa, riordinava la storia letteraria entro le singole frasi come faceva entro i secoli: con primi piani, sfondi, chiari giudizi. Una sequenza di periodi brevi e giustapposti, poveri di elementi connettivi, lascia che sia il lettore a stabilire, tra gli uni e gli altri, rapporti e gerarchie; mentre gli strati, i chiaroscuri, i tentacoli di una macchina sintattica complessa accompagnano e guidano. Ti abbandoni, e la lingua ti prende per mano. Autorevole.
O autoritaria. Assieme al chiaro di luna i futuristi, si sa, volevano uccidere la sintassi: vestigio, scrive Marinetti, di una «intelligenza tracotante e miope che si sforzava di domare la vita multiforme della materia». L’opposto di quell’accostare parole e frasi senza legarle che pare, a qualcuno, libertà. Invece, scegliere forme spezzate o aggregate è, come sempre, un modo di registrare il mondo, e di proporlo a chi legge: assoggettato al buon governo della lingua; o franto, scheggiato, aperto a ricomposizioni molteplici.

«I musulmani di Roma contro la chiusura dei loro luoghi di culto: ma la questione non tocca solo la capitale. È l’intero Paese a dover ripensare il rapporto con questa religione» L'arco di Costantino esiste ancora, ma si pensava che il dominio di Costantino fosse stato superato dalla Costituzione. La Repubblica, 22 ottobre 2016

In piazza sotto l’arco di Costantino. Protestano per la chiusura dei luoghi di culto nella capitale. Protagonista della mobilitazione l’associazione Dhuumcatu, che rappresenta la comunità del Bangladesh a Roma. Ma, ovviamente, la questione non riguarda solo i bengalesi. Problemi analoghi si registrano su tutto il territorio nazionale.

La realtà è che sebbene la nostra Costituzione tuteli la libertà religiosa, e quella di culto dal momento che non esiste religione senza pratica, avere a disposizione un luogo in cui pregare è un problema per i musulmani. Molti amministratori locali o fingono di non vedere o esibiscono atteggiamenti muscolari che esasperano il clima. Ciascuno si comporta come crede, a seconda dell’orientamento e del ciclo politico, trasformando un diritto indisponibile, la libertà religiosa, in mera concessione. A livello nazionale la cosa si complica per effetto della mancanza di un’intesa tra Stato e musulmani, strumento previsto per le altre confessioni, o di una legge sulla libertà religiosa che sappia rispondere alle complesse questioni poste dall’avvento delle società multiculturali.

Con l’ovvio risultato che, come recitava lo slogan della manifestazione davanti al Colosseo, «chiudere le moschee non ferma le preghiere». I musulmani, infatti, continuano a pregare. Lo fanno in sale da preghiera ricavate in scantinati o capannoni industriali. Una situazione indegna per un Paese civile e, ormai, religiosamente plurale: i musulmani in Italia sono circa un milione e 700mila. Nella sola Roma sono circa 130mila, dei quali il 10 per cento cittadini italiani.

Oltretutto questa politica, tanto poco pensata quanto spesso mirata a riprodurre lo schema della “religione del Nemico”, è del tutto controproducente rispetto alla necessità di integrare la comunità islamica presente nel nostro Paese nel tessuto civico e istituzionale e prevenire eventuali derive fondamentaliste. Certo, nemmeno la piena libertà di culto, e della sua organizzazione, come si è visto in altri Paesi europei, può impedire che singoli aderiscano all’ideologia islamista radicale ma, almeno, contiene il fenomeno. Non è casuale che tra le motivazioni che gli jihadisti europei invocano per giustificare la loro scelta vi sia anche quella della discriminazione, palese o latente, contro l’islam.

Naturalmente Stato o amministrazioni locali si trovano di fronte a un problema reale. Quello della polverizzazione della rappresentanza dell’associazionismo islamico, che in Italia vede in campo organizzazioni che si aggregano secondo appartenenze nazionali o transnazionali. E un mai sopito conflitto tra “Islam degli stati”, rappresentato da Paesi stranieri, e “Islam delle moschee”, transnazionale e diffuso nel territorio. Un conflitto emerso anche di fronte alla manifestazione romana, stigmatizzata dalla Lega Nord (che annuncia un’interrogazione parlamentare) ma anche dal portavoce della Grande moschea di Roma, simbolo dell’“islam degli stati”, come inopportuna nel luogo simbolo della cristianità e in un momento nel quale l’Isis titola la sua rivista rivolta agli occidentali “Rumyah”, Roma, e apre su Telegram un canale social in italiano. Per la Grande Moschea, la capitale ha già un luogo di culto, appunto quello alle pendici dei Parioli, ma proprio le diverse modalità di aggregazione dei musulmani fanno sì che ciascuna comunità o gruppo miri ad avere la propria moschea. E’ un pluralismo intrinseco al fatto che l’islam è una religiose senza centro, senza gerarchia: ragione per cui ciascun gruppo di fedeli può dare vita a un luogo di culto.

I musulmani che si trovano davanti a vincoli urbanistici e destinazioni d’uso che rendono fuori norma i luoghi di culto improvvisati, chiedono di praticare in condizioni di legalità. Quella che manca, ripetono, è la volontà politica di risolvere il problema. Una constatazione palese. Al di là della rappresentatività degli organizzatori della protesta romana, il tema vero è se l’islam ha un posto o meno in Italia; se è una componente religiosa e civica della società italiana, oppure no. La risposta a questa domanda è la chiave di tutto.

Perché se è “sì”, occorre costruire una politica religiosa nei confronti dell’islam italiano, che tocchi aspetti, anche delicati per gli stessi musulmani, come quelli derivanti dalla nazionalizzazione dell’islam.

Se è “no”, si deve sapere che le reazioni identitarie potrebbero diventare presto assai problematiche.

».

La Repubblica, 22 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il concetto di libertà nasce in Grecia in ambito politico. Una delle prime testimonianze al riguardo non proviene dalla filosofia ma dalla letteratura, precisamente dal più antico dei tragici, Eschilo, nella sua opera I Persiani.

A Susa, capitale dell’impero, la regina Atossa, sposa del precedente imperatore Dario e madre del nuovo imperatore Serse, attende in preda a cattivi presagi il ritorno della spedizione militare del figlio contro la Grecia e per vincere l’attesa snervante chiede notizie sui nemici: se hanno un esercito forte, se posseggono ricchezze, se sono bravi con l’arco. Infine pone la domanda cruciale: «Chi è il loro padrone?. Le viene data la seguente risposta: «Si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, sudditi di nessuno». Con queste parole di Eschilo risalenti al 472 a.C. si inaugura in Occidente il concetto di libertà.

Eschilo però nelle sue opere presenta il più delle volte una concezione del mondo opposta, cioè all’insegna della necessità: per esempio nei Persiani dice che Ate (la figlia di Zeus che personifica l’accecamento che induce all’errore) «spinge il mortale dentro la rete ben tesa»; oppure che «necessità costringe i mortali a sopportare sciagure»; oppure ancora che «chi diede inizio a tutto quel disastro fu la vendetta divina che non perdona, o un demone malvagio venuto da chissà dove»; nell’Agamennone menziona «le potenze divine che prepotenti governano il sacro timone del cosmo»; nelle Coefore scrive che «dobbiamo venerare il potere divino che il cielo governa».

Per Eschilo quindi gli esseri umani non sono liberi nel senso di indipendenti da potenze superiori, ma al contrario sottostanno a potenze più grandi a cui dover rendere conto, a un «giogo di necessità» che sempre giudica, e spesso anche determina, il loro agire.

E tuttavia egli dichiara che il suo popolo non volle sottostare alla potenza di gran lunga superiore dell’impero persiano che intendeva imporsi nel nome della cieca necessità della forza, e quanto a costituzione politica descrive i greci come uomini liberi, «sudditi di nessuno», oltre a essere consapevole del fatto che il dover sottostare a potenze più grandi non priva gli esseri umani del merito quando agiscono bene e della colpa quando agiscono male, come nei Persiani appare dalla differenza tra il saggio imperatore Dario e lo stolto figlio Serse.

Il giogo della necessità non preclude quindi la responsabilità personale, la possibilità di rispondere alle circostanze in prima persona in un modo oppure in un altro, non preclude cioè la libertà. La contraddizione rilevata in Eschilo manifesta la classica opposizione di necessità e libertà, antica quanto il pensiero e riassumibile in questa alternativa: — il mondo è un processo necessario e logico, e di conseguenza anche privo di libertà; — il mondo è un processo libero e creativo, e di conseguenza anche privo di un disegno logico e sensato. I filosofi si dividono tra chi assegna il primato alla necessità e al senso, e chi invece alla libertà e al non-senso.

Le cose peraltro si complicano ulteriormente se prendiamo in considerazione la fisica contemporanea. Qui i grandi fisici, che per natura devono essere anche un po’ filosofi, come i grandi filosofi devono essere un po’ fisici, si dividono: al campo della necessità appartiene Einstein con la teoria della relatività, al campo della libertà appartiene Bohr con la meccanica quantistica. La teoria della relatività riguarda lo spazio-tempo, l’energia e la gravitazione, le stelle e le galassie; la meccanica quantistica riguarda il comportamento degli atomi e delle particelle subatomiche. La prima regna nell’infinitamente grande, la seconda nell’infinitamente piccolo.

Fu probabilmente osservando tutto ciò che uno dei principali protagonisti della meccanica quantistica, il fisico danese Niels Bohr, giunse ad affermare con grande saggezza e lucidità: «Ci sono due tipi di verità: le verità semplici, dove gli opposti sono chiaramente assurdi, e le verità profonde, riconoscibili dal fatto che l’opposto è a sua volta una profonda verità». Ci troviamo cosi di fronte non a due vie, di cui una è vera e l’altra falsa, ma a una condizione strutturale della mente nel suo rapportarsi all’essere.

E come la meccanica quantistica e la teoria della relatività, pur non essendo conciliabili tra loro, sono entrambe vere nel senso che entrambe descrivono adeguatamente la realtà, cosi, allo stesso modo, i concetti di libertà e di necessità, pur non essendo teoreticamente conciliabili tra loro, interpretano entrambi una dimensione della realtà in modo veritiero.

Emerge da qui l’esigenza di una prospettiva di pensiero che sappia cogliere tale doppia ragione, sapendo sostenere al contempo sia la sensatezza e la logicità dell’essere, perché, come affermava Einstein, «Dio non gioca a dadi con il mondo», sia la contingenza e la mancanza di un disegno lineare, perché, come affermava Eraclito, «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi».

La schedatura burocratica dei non indigeni è il primo dei passi concatenati che abbiamo conosciuto nell'antisemitismo della Germania nazista: stigmatizzazione del diverso, conversione forzata, discriminazione, segregazione, espulsione, aggressione, sterminio. Ieri per gli ebrei, oggi per i migranti.

La Repubblica, 20 ottobre 2016

SICURAMENTE ignorante, dunque apparentemente “innocente” secondo i canoni rovesciati della nuova antipolitica, sta ritornando in Europa una pratica che dovremmo conoscere bene: i governi che prescrivono la “lista” degli stranieri, la loro individuazione, la classificazione, la divisione delle persone in categorie distinte, con le scuole che procedono all’identificazione di specifiche caratteristiche antropologiche per chi viene da altri Paesi. Quasi come se le democrazie spaventate si muovessero inconsciamente alla ricerca dell’ultima forma del peccato originale, il peccato d’origine. Tutto questo disegnando con le persone una scala implicita di vicinanza o di lontananza dall’uomo bianco indigeno che i populisti xenofobi o anche i conservatori a caccia di voti considerano ormai l’unico soggetto meritevole di tutela.

Non sappiamo quel che stiamo facendo, non ne leggiamo il significato profondo e universale che pure dovrebbe risalire dalla nostra storia recente, preferiamo trasformare le pulsioni estreme in burocratiche misure amministrative e poi rapidamente in “gaffe” quando scoppia l’incidente, e il governo di Sua Maestà britannica deve chiedere scusa.

Siamo nuovamente tornati a ragionare di spazi, movimenti, frontiere, e dentro questa spazialità identitaria ci stiamo smarrendo credendo di proteggerci, mentre abbiamo paura di tutto ciò che si muove tra i vecchi confini. Osserviamo il rimpicciolimento dei nostri orizzonti, le chiusure progressive a cui scegliamo di assoggettarci: prima il terrore della mondializzazione, con qualche motivo. Poi il ripudio dell’Europa, con troppa fretta. Quindi la chiusura nell’identità nazionale nascosta tra i muri. Infine, in quello spazio recintato e protetto, l’ultima distinzione e la definitiva separazione: l’elenco dello straniero, marchiato burocraticamente nel cuore dell’Europa democratica del 2016.Ma era stata proprio la burocrazia statale ad agire per prima e per gradi, due mesi dopo la presa del potere di Adolf Hitler. Dunque, se siamo fortunatamente vaccinati dai fascismi, dovremmo almeno vigilare sull’ottusità strumentale degli apparati amministrativi di governo, sui loro meccanismi che una politica spaventata e inconsapevole sta nuovamente mettendo in moto. Dovremmo ricordare che in soli dodici anni, tra il 1933 e il 1945, il governo del Reich firmò duemila decreti anti- ebrei per cancellare passo dopo passo i loro diritti, realizzando nel 1933 quella che fu chiamata la loro “morte civica”, nel 1935 la “morte politica” e nel 1938 la “morte economica”. Anche allora era pura tecnica amministrativa?

Stiamo parlando di anni in cui la logica hitleriana è ancora quella della persecuzione e della discriminazione come armi di pressione per costringere gli ebrei tedeschi ad emigrare in massa, e infatti all’avvento del regime vivevano in Germania 500 mila ebrei, mentre nel 1939 la metà di loro aveva cercato scampo all’estero. Lo strumento è la compressione crescente dei diritti degli ebrei, la progressiva e sistematica riduzione del loro spazio di cittadinanza, la vita quotidiana mutilata pezzo per pezzo sotto gli occhi di tutti, sotto gli occhi degli altri, cittadini a pieno diritto. Prima il boicottaggio delle attività commerciali nel 1933, poi gli ostacoli di una “banale” azione amministrativa contro i medici e gli avvocati, quindi l’esclusione dagli uffici pubblici, infine da tutti i settori vitali del Paese per arrivare nel ’35 alle leggi di Norimberga che vietano i matrimoni misti e codificano la categoria da colpire: chi ha almeno due nonni ebrei.

È utile, oggi che ci sentiamo al riparo della storia, indagare la banalità della selezione, ripercorrere l’ottusità tecnica della differenziazione, fisica, civile o culturale, fino alla risoluzione dell’Unesco che due giorni fa ha negato il legame tra il “miglio sacro” dei luoghi santi di Gerusalemme e gli ebrei. Lo fa Pierre-André Taguieff nel suo saggio sull’antisemitismo [Il Razzismo, pregiudizi, teorie, comportamenti, Cortina editore], che è una storia dettagliata della giudeofobia e delle sue metamorfosi dall’antichità fino al contemporaneo, ma è anche un’indagine sul pregiudizio e sui miti negativi che lo sostengono e lo giustificano, ottundendo via via il senso di una responsabilità comune, la coscienza democratica, il sentimento di umanità.

Il termine “antisemitismo” (che si basa sull’equivoco di una visione razziale della storia fondata sulla lotta tra semiti e ariani, mentre gli ebrei non sono semiti in senso etnico, e non tutti i semiti sono ebrei) viene coniato nel 1860 dall’ebreo austriaco Moritz Steinschneider per denunciare un pregiudizio antiebraico ma presto viene impugnato da movimenti antiebraici per definire se stessi, tanto che nel 1888 si raccolgono 265 mila firme per la “Petizione degli antisemiti” contro l’emancipazione degli ebrei e nel 1882 la definizione approda sul dizionario tedesco Brokhaus: «Odio verso gli ebrei, avversione per l’ebraismo, lotta contro i caratteri, i modi e le intenzioni del semitismo».

Prende così il via la fase post- religiosa della giudeofobia, che cataloga le caratteristiche razziali, fisiche, mentali dell’ebreo considerandole fisse e immutabili, per innestare su questo profilo codificato e denunciato pubblicamente una visione fantasmatica capace di alimentare odio e ostilità verso ogni individuo che appartenga al gruppo, proprio e soltanto per l’appartenenza. La giudeofobia è prima pagana, ricorda Taguieff classificandola storicamente, poi teologico- religiosa cristiana, poi antireligiosa illuministica, poi anticapitalistica e socialista, poi ancora razziale e nazionalistica per approdare alla forma contemporanea dell’antisionismo radicale che salda i due stereotipi eterni quando mescola la denuncia di nazionalismo all’accusa di mondialismo: deorientalizzando e desemitizzando il popolo ebraico per occidentalizzarlo radicalmente nella guerra annunciata da Bin Laden nel 1998 contro “la crociata mondiale”.

La sua persistenza nella storia attraverso una continua metamorfosi dell’odio è dovuta alla forte carica mitica, al fondamento teologico, alla capacità di adattamento a culture diverse. L’accusa più ricorrente agli ebrei è di costituire uno Stato nello Stato, una sorta di nazione separata all’interno della nazione d’accoglienza, con la conseguenza per cui l’antisemitismo sarebbe una forma di difesa indigena. A questo corto-circuito di comodo ha già risposto Sartre, spiegando che non è l’ebreo a provocare l’antisemitismo, ma al contrario è l’antisemitismo che crea l’ebreo come soggetto immaginario e mitologico, costruito su misura per giustificare l’odio fobico dei suoi avversari. I quali in questo processo di costruzione del nemico eterno, universale, lo sopravvalutano dilatandolo nel numero dunque nella presenza, nelle facoltà, quindi nella potenza, nell’ubiquità leggendaria, fino ai luoghi del dominio. È la formula di Alfred Rosenberg, l’ideologo nazista: «L’ebreo si erge come il nostro avversario metafisico».

Queste accuse sono anche forme di razionalizzazione teologica, politica, scientifica dell’antisemitismo, appoggiandolo ai grandi miti antiebraici che ideologizzano e culturizzano la giudeofobia, dall’odio verso il genere umano all’assassinio rituale, al deicidio con l’assassinio di Cristo, alla maledizione con l’erranza, alla perfidia della speculazione finanziaria, alla cospirazione, al razzismo per l’elezione divina del popolo prediletto. È da qui che sono nate le tre politiche con cui si è manifestata la violenza contro gli ebrei: la conversione, da quando nel IV secolo Costantino trasforma il cristianesimo in religione di Stato, la persecuzione ogni volta che la conversione fallisce, con il Talmud processato e portato in piazza nel 1242 su 24 carretti per essere bruciato pubblicamente. L’ultima politica è l’annientamento.

Bisognerebbe riflettere sulla concatenazione dei passaggi. La giudeofobia ha quattro dimensioni, e la prima è fatta di atteggiamenti e opinioni (credenze ostili, stereotipi negativi, pregiudizi) che producono esclusione simbolica; la seconda da comportamenti individuali o collettivi che producono esclusione sociale; la terza da decisioni istituzionali che producono esclusione discriminatoria, la quarta da discorsi ideologici e dottrinari, che teorizzano la violenza finale. Dunque esiste una scala nell’antisemitismo che è specifica ma rimanda un’eco per tutti i razzismi e le xenofobie: stigmatizzazione, conversione forzata, discriminazione, segregazione, espulsione, aggressione, sterminio. La soluzione finale non arriva quindi per caso o all’improvviso. Prima c’è la riduzione dell’”altro” a corpo estraneo, corpo ostile non assimilabile, che va escluso dalla vita politica, economica, culturale per spingerlo a emigrare, poi c’è l’espulsione per chi resta, dal 1941 c’è lo sterminio «come logica conseguenza di un lungo processo di emarginazione degli ebrei, trattati come estranei al genere umano, patologizzati, demonizzati come una potenza satanica».

È un’evoluzione per stadi, che Hilberg riassume in questi tre passaggi via via più prescrittivi: «Se rimanete ebrei, non avete il diritto di vivere tra noi». «Non avete il diritto di vivere tra noi». «Non avete il diritto di vivere». Lo strumento tecnico di queste politiche è fin dall’inizio la lista, perché su di essa si basa l’intenzione di “purificare” la popolazione legittima, distinguendo gli “altri”. Ben prima della soluzione finale, l’emarginazione, la discriminazione, la delegittimazione e infine la segregazione hanno bisogno di una tecnica di supporto, con strumenti pratici e amministrativi per individuare, identificare, localizzare, registrare, classificare, censire, marchiare, comunque separare. È l’ossessione del “passeggero clandestino”, dell’infiltrato, dell’estraneo nel corpo nazionale supposto puro, dunque da distinguere e difendere. Tutto questo nasce nello spazio occidentale, nel quadro delle procedure democratiche, nel dominio del diritto, nel cuore dell’Europa cristiana e dell’umanesimo progressista, ultima religione secolare dei moderni. La cornice di civiltà non ci preserva. L’orrore, ci ricorda Bauman, non è figlio dell’irrazionale ma è l’esito di un processo che è al contrario espressione della modernità e della sua razionalità e usa la competenza tecnologica, impiega gli strumenti del progresso, misura l’efficacia dei metodi, valuta il rapporto tra mezzi e fini, ricorre all’applicazione universale della norma. Fino alla conclusione: La violenza burocratizzata, in tutte le sue forme, «è l’espressione stessa della civiltà occidentale contemporanea, non una ribellione contro di essa».

«Una messa in discussione di quell’aggettivo, “naturale” che, come sappiamo, è stato l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi, e di ogni altra forma di dominio».

comune-info, 19 ottobre 2016 (c.m.c.)

La famiglia sta conquistando spazi sempre più ampi, nell’informazione, nel dibattito politico, nelle pubblicazioni e nelle aule parlamentari, il che fa sperare che sia uscita definitivamente da quell’idea fuorviante di “privato” che l’ha tenuta tradizionalmente nell’ambigua posizione di “cellula primaria”, fondante della società, e, insieme, appannaggio di un potere patriarcale considerato, come ha scritto Rossana Rossanda, “libertà naturale”.

A stanare ciò che non si sa o non si dice degli interni delle case, del modo di vivere delle persone, ci pensano poi, sempre più insistentemente, i rapporti statistici, gli studi sociologici, da cui apprendiamo, per esempio, che le single americane superano oggi le coniugate, che la senescenza della società italiana aumenta, sia come vissuto soggettivo – “giovani” fino a ottanta anni e finché non si muore -, e come età media di chi riveste ruoli di potere.

Prese separatamente, le notizie che arrivano al cittadino sulla realtà che lo tocca più intimamente e materialmente, non possono che generare un effetto disperante, come tutto ciò che non lascia intravedere vie d’uscita: in famiglia si continua a uccidere; aumenta il numero delle coppie senza figli, e così pure le persone che vivono sole; i giovani ritardano sempre più l’uscita dalla famiglia d’origine; gli anziani al potere non danno segno di voler arretrare.

Per riassumere: una società di potenziali assassini, una gioventù irresponsabile, una caparbia senilità, e uno Stato confessionale. Per aprire uno spiraglio dentro questo orizzonte asfittico, che ci viene descritto dai media ogni giorno, basterebbe fare lo sforzo di collegare aspetti che nella realtà sono annodati, rilevare le contraddizioni che li attraversano, mostrare i segnali di nuove incoraggianti prospettive, che ci sono e che vanno nominate, sostenute, sottratte al quadro sinistro in cui rischiano di eclissarsi.

In una lettera, che si può considerare tuttora attuale di Rosy Bindi, pubblicata quasi una decina di anni fa su Repubblica (19.1.07) compariva una visione lucida, appassionata, dei molteplici mali che minacciano il benessere, l’autorevolezza e persino la sopravvivenza della famiglia, dal carico di incombenze che la società rovescia su di essa agli episodi violenti di cui sono vittime soprattutto le donne.

Una descrizione, realisticamente impietosa, che elencava: “degrado materiale e morale”, “soprusi economici”, “ricatti psicologici”, “abbandoni”, “aggressività”, “abusi sessuali sulla donna, sui vecchi e persino sui bambini”.

Sorprendente era invece la conclusione: la famiglia restava, nonostante tutto, “un organismo sano e vitale”, “culla naturale della formazione degli affetti e palestra dei rapporti tra le persone”. Invece di indagare le ragioni di una “ambivalenza” che è tutto fuor che “naturale” – frutto evidente di condizioni storiche e culturali, come la divisione dei ruoli sessuali, i postumi psicologici di un millenario dominio maschile, e così via -, si tornava, come sempre a rispolverare un armamentario antico, il foucaultiano “sorvegliare e punire” che, depurato “degli accenti autoritari”, diventava “vigilare e riparare”: servizi territoriali, consultori, agenzie, figure e associazioni del volontariato, chiamati a formare, attorno alla famiglia, una cerchia investigativa e protettiva, da affiancare a interventi più precisi, come la punizione, la “riabilitazione del carnefice”, il dovuto soccorso alla vittima.

Quello che emerge oggi in modo evidente, ma su cui si stenta a fermare l’attenzione senza che questo significhi abbandono di ogni speranza o rimpianto del passato, è che l’istituzione considerata finora “cellula basilare” per la società e per la stessa sopravvivenza della specie, è in declino, attraversata da convulsioni interne, da vistosi mutamenti e da una crisi “valoriale” che solo la retorica nazionalista, religiosa o interessata dei nuovi credenti riesce malamente a nascondere.

La famiglia, così come l’abbiamo conosciuta – scriveva Roberto Volpi nel suo libro La fine della famiglia (Mondatori 2007) – sta “evaporando”, e, se c’è ancora, non è più quella.

Famiglia ha voluto dire finora “continuità biologica al di là del singolo”, quindi genitori e figli, coppie che affidavano alla prole “l’ampliamento della loro visuale sul mondo”, mentre oggi la coppia, che già stenta a formarsi, “vede in se stessa le aperture, cerca e persegue per se stessa i traguardi, non demanda ai figli né le une né gli altri”.

Il “mondo dei senza figli”, la società che assiste al “trionfo dei celibi”, e dove sempre più persone “dirottano risorse e tempo” in direzione di “cose belle della vita”, meno impegnative dei figli, non sono solo il portato di difficili condizioni socio-economiche, della carenza di adeguate politiche famigliari, ma di una “rivoluzione dei costumi”, un cambiamento profondo dei paradigmi culturali che data dalla metà degli anni Settanta, dalle leggi sul divorzio e sull’aborto.

Del femminismo, dei gruppi omosessuali e lesbici, del movimento non autoritario, non veniva fatta parola, protagonisti, per molti evidentemente ancora innominabili, della rivoluzione più temuta, benché pacifica, dell’ultimo secolo. Pur essendo attraversato da una nota di ricorrente allarmismo, che gli impedisce di vedere nelle nuove forme di convivenze prospettive inedite e liberatorie, riguardo alla socializzazione, al rapporto tra i sessi, il desiderio di figli, il libro di Volpi sottolineava due aspetti significativi del cambiamento: la centralità che assume l’individuo all’interno delle nuove formazioni sociali, e lo scarto, la discontinuità, che esse rappresentano, ragione per cui non avrebbe più senso chiamarle famiglie.

La recente discussione parlamentare sulle unioni civili alla Camera, si è mossa dentro contraddizioni, avanzamenti e arretramenti analoghi. Importante è non toccare l’articolo 29 della Costituzione, la famiglia intesa come “società naturale fondata sul matrimonio”, che resta pertanto modello di riferimento imprescindibile, quanto a legittimità e valore riconosciuto. Ottenere che il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto sia “equiparato”, e abbia “pari dignità” rispetto allo statuto matrimoniale, avvalora l’idea di “famiglie di serie B”, con vincoli più “leggeri”, meno impegnativi, e quindi con tratti di instabilità e scarsa garanzia per i figli.

Solo sottolineando la convivenza come unione finalizzata “al naturale sviluppo e alla libera autorealizzazione del singolo”, si apre l’orizzonte a nuove progettualità, possibilità finora sconosciute di ripensare il rapporto tra individuo e collettività, a partire da quella individualità ancora da riconoscere e far vivere appieno, che è l’esistenza femminile svincolata dal destino di moglie e madre. Non si trattava solo di colmare una “lacuna normativa”, di “adeguare” la disciplina giuridica a una “realtà sociale”, 1.200.000 coppie di fatto.

Ciò a cui ci si augurava fosse dato il giusto riconoscimento simbolico con una legge è il “pluralismo” nelle relazioni affettive, e questo comporta una messa in discussione di quell’aggettivo, “naturale” che, come sappiamo, è stato l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi, e di ogni altra forma di dominio.

E' di moda una pratica per eliminare i conflitti individuali. Ma così «si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno».

il manifesto, 5 ottobre 2016

Da alcuni anni è esplosa la moda del coach e sento sempre più persone che, quando gli chiedi che fanno nella vita, rispondono: «L’impiegato, ma anche il coach. L’infermiere e insieme il coach. Il parrucchiere e come secondo lavoro il coach». Se un tempo il coach era in sostanza l’allenatore di una squadra, dagli anni Settanta ha cominciato a entrare nelle aziende e lì sono comparsi gli executive, team, leadership coach, figure che, secondo la classificazione ICF, «attraverso un processo creativo stimolano la riflessione, spingendo i clienti a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale». In altre parole, insegnano strategie per tirare fuori il meglio di sé e dalle situazioni. Da lì il coaching si è allargato alla sfera privata e così sono spuntati i life, health, relationship, parent coach, gente che dovrebbe insegnare ad altra gente strategie per vivere meglio, stabilire relazioni costruttive con i colleghi, i figli, i coniugi, gli amici e se stessi. Premesso che nutro un’istintiva diffidenza verso chi, con tre anni di corso, si ritiene in grado di dare indirizzi esistenziali e comportamentali agli altri, parlare con qualcuno di loro apre visioni interessanti su come va il mondo.

Pochi giorni fa, una coach mi ha raccontato che cosa fa nello specifico. Il suo lavoro a tempo pieno è in una sede italiana della più importante banca tedesca. Lei, che ama il suo mestiere ma vorrebbe aprirsi alternative per il futuro, due anni fa si è iscritta a un corso di coach, la voce si è sparsa in ufficio e ora ha già un po’ di clienti a cui dà consigli gratis in attesa di terminare gli studi. Chi le chiede più aiuto sono le sue colleghe che vanno tutte, ma proprio tutte, da lei non per imparare a fare carriera, ma per apprendere l’esatto contrario, ovvero come non farsi schiacciare la vita e i pensieri dai rospi che devono ingoiare sul lavoro. «Tutte – racconta la mia informatrice – mi dicono la stessa cosa, e cioè che amano il loro lavoro e che sanno di essere brave perché hanno studiato, si sono specializzate, sono precise, efficienti. Quello che non sopportano è che nessuno dei capi, tutti maschi fra l’altro, se ne accorga e lo apprezzi. Insomma, vorrebbero essere considerate di più». E da lei che aiuto cercano? «Posto che è quasi impossibile cambiare la situazione, io insegno loro a trovare il modo per smettere di prendersela e rimuginare, destinando le energie a qualcosa di costruttivo. Poi ci sono i casi più impegnativi»[. Per esempio? «Beh, come quella collega che stava malissimo perché si rifiutava di vendere ai clienti titoli spazzatura e per questo era stata messa da parte.

Alla fine non ha resistito e se ne è andata». E gli uomini non le domandano nessun aiuto? «Sì, ma riguardano solo la sfera personale, in sostanza vogliono avere consigli sulla relazione di coppia». Tutto ciò mi spinge a fare alcune considerazioni. N.1. Riguardo al lavoro, le donne sollevano problemi diversi da quelli dei colleghi maschi. N. 2. I coach tentano di dare risposte a bisogni che altri non ascoltano. N. 3. I coach convogliano in un rapporto di sostegno a due quello che un tempo sarebbe diventato lotta di classe o di categoria. N. 4. I coach forniscono ascolto e strumenti di resistenza, o resilienza, che alla fine tengono a bada il conflitto interiore. N. 5. Il conflitto interiore è la premessa per il conflitto in generale. N. 6. Se si elimina l’idea di conflitto, si rischia di creare una società di palle di gomma immerse in una palude dove il tiro, che già parte debole, quando arriva non ha alcun effetto. Come dire: vai pure, tanto non dai fastidio a nessuno.

il manifesto, 2 ottobre 2016

COME DIFENDERE IL LICEO CLASSICO
DAI SUOI NEMICI
di Tiziana Drago

Eschilo e i mercanti. L'obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi. Reagire alla volontà di sanzionare la criticità dei saperi teorici rispetto al mercato
«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».

Oggi, nel contesto duro e inasprito del declino italiano, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).

L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.

Racconta Franz Mehring che Karl Marx «ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che volevano togliere agli operai l’interesse per la cultura antica».

STUDENT ACT:
RENZI E LA FILANTROPIA
DEL CAPITALE UMANO
di Roberto Ciccarelli

Diritto allo studio. Invece di finanziare e rifondare il sistema del diritto allo studio il governo eroga micro-misure simboliche per 500 studenti «plusdotati». Il ministero dell'Economia invita a investire in Italia perché i laureati costano meno. Bassi salari e alla competizione al ribasso nel lavoro della conoscenza. La filosofia del capitale umano è parte integrante della tradizionale politica economica italiana

Il «capitale umano» al tempo di Renzi. Vediamo cosa significa questa espressione neoliberale, passepartout per le politiche neoliberiste che si applicano all’istruzione e alla ricerca nella legge di bilancio prossima ventura. La misura simbolica che conferma la trasformazione dello Stato in un’agenzia filantropica. Si parla di premiare 500 studenti «plusdotati» o «gifted» delle scuole medie o dei licei adottandoli come si faceva nell’Inghilterra raccontata da Charles Dickens. La misura, finanziata con 10 milioni di euro prevede un assegno mensile, l’assegnazione di un tutor e la possibilità di inviare questi «figli della nazione» all’estero per coltivare un «talento» individuato con strumenti e indicatori «meritocratici» ancora tutti da identificare. La misura compassionevole si aggiunge al bonus più populista che c’è: i 500 euro del «bonus cultura» per i 18enni per libri, musei e cinema. Si tratta di una carta prepagata di Poste Italiane riservata quest’anno a oltre 570 mila ragazzi dal costo di 290 milioni.

UN’ALTRA REGOLA RENZIANA: invece di istituire un reddito per tutti, quindi anche per gli studenti, si discriminano categorie sociali e si segmenta il corpo sociale, non più con criteri di merito ma generazionali. Prevista una manciata di borse di studio fino a 15mila euro l’anno per studenti meritevoli e con redditi bassi che potranno pagarsi tasse e affitti. Voi direte: in una casa dello studente, ad esempio. Proprio per nulla. La filantropia neoliberista esclude il rifinanziamento – e il ripensamento – del diritto allo studio agonizzante per tagli che hanno moltiplicato le diseguaglianze tra gli studenti. Si parla di uno «sgocciolamento» di microrisorse che non rimediano alla dismissione programmatica del welfare studentesco. Anche quest’anno il governo elargirà la monetina di consolazione per il diritto allo studio: 50 milioni del Fondo integrativo statale (Fis). Ne servirebbe quantomeno 200 all’anno per tutti gli studenti che ne hanno diritto. In totale saranno stanziati 450 milioni, comprensivi di una «no tax area» per chi ha un Isee tra 12 e15 mila euro con esenzione dalle tasse universitarie. Per essere decente l’esenzione dovrebbe interessare chi ne ha uno inferiore ai 28 mila euro. Il sottosegretario Faraone ha annunciato un confronto. Prima impongono le norme, poi ne vogliono parlare. Concertazione ai tempi della meritocrazia. Nome in codice dell’operazione è Student act.

DIETRO IL FATALE ANGLISMO c’è la filantropia dickensiana. Il suo risvolto reale si trova nella brochure «Invest in Italy» del ministero dell’Economia diffusa alla presentazione del piano «Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che a«Industria 4.0». «L’Italia – si legge – offre un livello competitivo dei salari che crescono meno che nel resto dell’Ue». Bassi salari e competizione tra la forza lavoro specializzata. Questo è il «capitale umano» nella neolingua renziana. È il futuro meritocratico che attende gli studenti.

«“La nuova generazione di guerrieri per la giustizia”. Per la maggior parte degli afroamericani l’uguaglianza è un traguardo lontano dall’essere raggiunto».

Il manifesto, 27 settembre 2016 (m.p.r.)

Non si ferma la protesta a Charlotte, in North Carolina, dove da una settimana migliaia di persone continuano a scendere per strada tutte le notti per chiedere giustizia e risposte che nemmeno la divulgazione del video della polizia, riguardo l’omicidio di Keith Lamont Scott, è riuscita a dare. Dopo le prime due notti di violenze la protesta è tornata pacifica, tanto che polizia e guardia civile non hanno mai applicato il coprifuoco previsto per la mezzanotte, ma i cortei non diventano comizi stanziali, continuano a spostarsi attraverso la città.

Si parla di centinaia di persone che ogni notte si riuniscono e non si stancano di chiedere giustizia, come, in uno splendido reportage via Twitter, ha mostrato il giornalista del Washington Post, Wesley Lowery, che sabato notte ha chiesto a decine di persone di spiegare cosa li avesse portati a scendere per strada e camminare per ore, a volte sotto la pioggia. Ne è scaturito il quadro di un’umanità diversa, prevalentemente afroamericana, ma non solo, dove i bianchi riconoscevano una chiave della loro libertà nel veder rispettati i diritti civili dei loro concittadini neri, i quali esprimevano con termini chiari come l’essere «black» sia in sé un pericolo, nell’America del 2016. «A due anni da Ferguson, dov’è la riforma della polizia a livello federale che doveva essere attuata?», chiede Lowery, giornalista afroamericano che a Ferguson era stato anche arrestato.

Di questa riforma non c’è traccia, tranne che in alcuni casi, affidati alla volontà dei singoli sindaci, che devono poi fare i conti con i propri capi della polizia. La sensazione di essere abbandonati a se stessi traspare dalle micro interviste di Lowery, così come il grado di consapevolezza che la lotta sarà ancora lunga e dura, che i diritti civili, anche quello di non essere sparati dalla polizia senza ragione, non sono dati e andranno conquistati.

C’è anche la consapevolezza che qualche decina di persone che mette a ferro e fuoco la città catalizza l’attenzione dei media molto più di centinaia che ogni sera scendono per strada senza spaccare nemmeno un vetrina. Eppure questa protesta non sembra voler terminare, così come a Ferguson era andata avanti per mesi, anche a telecamere spente, quando gli occhi di tutti non erano puntati più lì.

Quando domenica Obama ha inaugurato il museo di storia e cultura afroamericana, che da 100 anni aspettava di vedere la luce, ha definito Deray McKesson e Brittany Packnett di Black Lives Matter «la nuova generazione di guerrieri per la giustizia» e in quella frase, come nel lungo abbraccio silenzioso tra il presidente e il membro del congresso John Lewis, storico attivista per i diritti civili degli afro americani, c’è il senso di questa lotta che non è finita negli anni ’60, che ha portato dei risultati, ma non tutti, per cui anche se alla Casa bianca c’è ora un uomo non bianco, per la maggior parte degli afroamericani l’uguaglianza è un traguardo lontano dall’essere raggiunto.

Questa consapevolezza da settimane ormai trova visibilità nel mondo dello sport. Da quando, 5 settimane fa, Kaepernick dei San Francisco 49 si è inginocchiato per non onorare l’inno americano stando in piedi con la mano sul cuore, in quanto, da nero, non si sente protetto da quell’inno e da quella bandiera, ben 40 giocatori professionisti di football, provenienti da 14 squadre diverse, hanno seguito il suo esempio, oltre a innumerevoli squadre junior, come ad esempio a Madison, in Wisconsin, dove domenica entrambe le squadre in campo si sono inginocchiate, arbitro incluso, come anche il clarinettista afroamericano della banda che stava suonando l’inno, mentre un gruppo di studenti del North Carolina che assisteva alla partita ha alzato il pugno chiuso, in solidarietà con la protesta dei giocatori.

Nel mondo della pallacanestro femminile, con la Wnba sabato al Madison Square Garden di New York, Brittany Boyd ha seguito l’esempio di Kaepernick, di cui indossava la maglietta che ora è diventata uno dei simboli di Black Lives Matter, rimanendo seduta in panchina. Queste proteste plateali del mondo dello sport americano probabilmente entreranno nei sussidiari di qualche anno a venire, e rendono l’idea del bisogno di visibilità per un problema sociale e etico, enorme, che trova spazio solo quando sono coinvolti morti, ma che riguarda la vita quotidiana di ogni persona con la pelle scura che si trova in America, consapevole che un incontro casuale con la polizia potrebbe essergli fatale.

«Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari?».

La Repubblica, 18 settembre 2016 (m.p.r.)

L’idea di effettuare l’eutanasia su un minore provoca un rifiuto immediato, anzi un senso di ribellione e poi di condanna per chiunque abbia osato anticipare la morte di un bambino. Anche se a chiederlo sono genitori desiderosi di porre fine all’agonia di un figlio, inutilmente prolungata da terapie dolorose e invasive. È una reazione più che comprensibile in un Paese in cui non c’è un quadro legale per le questioni di fine vita e l’eutanasia, anche se richiesta o addirittura implorata da un malato terminale cosciente e adulto, è un crimine.

Tuttavia nei Paesi che hanno sviluppato una cultura civile e giuridica sui temi del rifiuto dell’eccesso di cure (il cosiddetto accanimento terapeutico) e del rispetto della volontà di dire basta a una vita resa insopportabile da una malattia incurabile, l’atto di porre fine anticipatamente alla vita di un bambino straziata dal dolore, è invece oggetto di dibattito approfondito e di riflessione politica. Il Belgio, dove è stato riportato il caso di eutanasia su minore, è, insieme all’Olanda, uno dei Paesi più avanzati in questo senso, essendo riuscito a controllare le eutanasie clandestine con una legge che disciplina le problematiche di fine vita in modo scientifico, rigoroso e completo.

I casi dei minori sono molto complessi non solo per l’evidente carico emotivo, ma soprattutto perché viene a mancare il principio su cui l’eutanasia si basa, che è la volontà del paziente, a sua volta fondata sul diritto di autodeterminazione individuale. Ovvio che un bambino non può esprimere una volontà cosciente, e dunque la decisione spetta ai genitori, che in genere sono riluttanti a prendere qualsiasi posizione, combattuti come sono tra lo strazio di vedere un bambino soffrire e lo strazio di perderlo per sempre. Anche in queste situazioni drammatiche una buona legge è di grande aiuto, perché sia i genitori che i medici sanno che la società e le istituzioni tutelano le loro decisioni e, ove possibile, le sostengono, creando commissioni di esperti ad hoc e fornendo ogni tipo di assistenza e di consulenza. In Italia i genitori che si trovano in una situazione analoga sono completamente soli nella loro disperazione.
Molti ricorderanno il caso di Davide, il bimbo con la sindrome di Potter, nato cioè senza reni e uretere. I genitori volevano che il neonato vivesse il più a lungo possibile, ma senza arrivare a torturarlo. Quando i medici hanno chiesto l’autorizzazione alla dialisi, pur confermando che per la vita di Davide non c’era nulla da fare, la mamma Maria Rita ha chiesto un giorno per riflettere. Allora i sanitari si sono immediatamente rivolti alla magistratura, che d’ufficio ha tolto ai genitori la patria potestà, aggiungendo l’umiliazione al dolore immenso per Davide. Risultato: Davide ha vissuto 80 giorni alimentato con un sondino alternato al biberon, con dialisi di sette ore quasi ogni giorno e respirazione assistita per le crisi che lo assalivano regolarmente. In più ha subìto interventi invasivi come l’applicazione di un catetere all’ombelico, uno alla giugulare, che il piccolo si è strappato con le sue stesse manine, e anche uno all’inguine.
Dopo questo inutile calvario Davide è morto, mentre intorno al suo corpicino martoriato infuriavano le polemiche sui genitori annichiliti, umiliati e accusati di volerlo assassinare in nome del mito del “bimbo perfetto”. Oggi Maria Rita fa campagne di sensibilizzazione, insieme a Mina Welby, Beppe Englaro e gli altri parenti di vittime dei pregiudizi sociali, oltre che di terribili malattie, che scendono in piazza per evitare che la loro tragedia accada ad altri. Ma è davvero giusto che il dibattito su temi di civiltà e libertà così essenziali si apra solo grazie alla disperata volontà di tormentati protagonisti, che affrontano la violenza ideologica dei pareri contrari? Io credo di no. Ripeto: la libertà di cura (e dunque anche di rifiutare la cura) è un diritto sancito dalla nostra Costituzione. E se c’è un diritto una legge dovrebbe tutelarlo.

«La Repubblica, 17 settembre 2016

Comunemente si ritiene che fede e dubbio siano opposti, nel senso che chi ha fede non avrebbe dubbi e chi ha dubbi non avrebbe fede. Ma non è per nulla così. L’opposto del dubbio non è la fede, è il sapere: chi infatti sa con certezza come stanno le cose non ha dubbi, e neppure, ovviamente, ha bisogno di avere fede. Così per esempio affermava Carl Gustav Jung a proposito dell’oggetto per eccellenza su cui si ha o no fede: «Io non credo all’esistenza di Dio per fede: io so che Dio esiste» (da Jung parla, Adelphi, 1995). Chi invece non è giunto a un tale sapere dubita su come stiano effettivamente le cose, non solo su Dio ma anche sulle altre questioni decisive: avrà un senso questa vita, e se sì quale? La natura persegue un effettivo incremento della sua organizzazione? Quando diciamo “anima” nominiamo un fenomeno reale o solo un arcaico concetto metafisico? Il bene, la giustizia, la bellezza, esistono come qualcosa di oggettivo o sono solo provvisorie convenzioni? E dopo la morte, il viaggio continua o finisce per sempre?

Dato che i più su tali questioni non hanno un sapere certo, generalmente si risponde “sì” all’insegna della fede oppure “no” all’insegna dello scetticismo, in entrambi i casi privi di sapere, al massimo con qualche indizio interpretato in un modo o nell’altro a seconda del previo orientamento assunto. Così, sia coloro che hanno fede in Dio sia coloro che non ce l’hanno, fondano il loro pensiero sul dubbio, cioè sull’impossibilità di conseguire un sapere incontrovertibile sul senso ultimo del mondo e della nostra esistenza. La fede, in altri termini, positiva o negativa che sia, per esistere ha bisogno del dubbio.

La tradizionale dottrina cattolica però non la pensa così. Per essa la fede non si fonda sul dubbio ma sul sapere che scaturisce da una precisa rivelazione divina mediante cui Dio ha comunicato se stesso e una serie di ulteriori verità dette “articoli di fede”. Tale rivelazione costituisce il depositum fidei, cioè il patrimonio dottrinale custodito e trasmesso dalla Chiesa. Esso conferisce un sapere denominato dottrina che illumina quanti lo ricevono su origine, identità, destino e morale da seguire. Non solo; a partire da tale dottrina si configura anche una precisa visione del mondo: l’impresa speculativa delle Summae theologiae medievali, di cui la più nota è quella di Tommaso d’Aquino, vive di questa ambizione di possedere un sapere certo su fisica, metafisica ed etica, di essere quindi generatrice di filosofia.

Tale impostazione regnò per tutto il medioevo ma venne combattuta dalla filosofia moderna e dalla rivoluzione scientifica. Il fine non era negare la fede in Dio bensì il sapere filosofico e scientifico che si riteneva discendesse da essa, per collocare la fede su un fondamento diverso, senza più la presunzione che fosse oggettivo: Kant per esempio scrive di aver dovuto «sospendere il sapere per far posto alla fede» (Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, 1787), mentre più di un secolo e mezzo prima Galileo aveva dichiarato che «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo » (Lettera a Cristina di Lorena del 1615). Non furono per nulla atei i più grandi protagonisti della modernità, tra cui filosofi come Bruno, Cartesio, Spinoza, Lessing, Voltaire, Rousseau, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, o scienziati come Copernico, Galileo, Keplero, Newton. Il loro obiettivo era piuttosto di ricollocare la religiosità sul suo autentico fondamento: non più un presunto sapere oggettivo, ma la soggettiva esperienza spirituale.

A tale modello di fede non interessa il sapere, e quindi il potere che ne discende, ma piuttosto il sentire, e quindi l’esperienza personale. Non è più l’obbedienza a una dottrina dogmatica indiscutibile a rappresentare la sorgente della fede, ma è il sentimento di simpatia verso la vita e i viventi. In questa prospettiva, ben prima di creden- za, fede significa fiducia. Quando diciamo che una persona è “degna di fede”, cosa vogliamo dire? Quando alla fine delle nostre lettere scriviamo “in fede”, cosa vogliamo dire? Quando un uomo mette l’anello nuziale alla sua donna e quando una donna fa lo stesso con il suo uomo, cosa vogliono dirsi? C’è una dimensione di fiducia che è costitutiva delle relazioni umane e che sola spiega quei veri e propri patti d’onore che sono l’amicizia e l’amore. Se non ci fosse, sorgerebbero solo rapporti interessati e calcolati: nulla di male, anzi tutto normale, ma anche tutto ordinario e prevedibile. Solo se c’è fiducia-fede nell’altra persona può sorgere una relazione all’insegna della gratuità, creatività, straordinarietà, e può innescarsi quella condizione che chiamiamo umanità.

E la fede in Dio? Quando si ha fiducia-affidamento nella vita nel suo insieme, percepita come dotata di senso e di scopo, si compie il senso della fede in Dio (a prescindere da come poi le singole tradizioni religiose concepiscano il divino). Nessuno veramente sa cosa nomina quando dice Dio, ma credere nell’esistenza di una realtà più originaria, da cui il mondo proviene e verso cui va, significa sentire che la vita ha una direzione, un senso di marcia, un traguardo. Credere in Dio significa quindi dire sì alla vita e alla sua ragionevolezza: significa credere che la vita proviene dal bene e procede verso il bene, e che per questo agire bene è la modalità migliore di vivere.

Ma questa convinzione è razionalmente fondabile? No. Basta considerare la vita in tutti i suoi aspetti per scorgere di frequente l’ombra della negazione, con la conseguenza che la mente è inevitabilmente consegnata al dubbio. In tutte le lingue di origine latina, come anche in greco e in tedesco, il termine dubbio ha come radice “due”. Dubbio quindi è essere al bivio, altro termine che rimanda al due: è vedere due sentieri senza sapere quale scegliere, consapevoli però che non ci si può fermare né tornare indietro, ma che si è posti di fronte al dilemma della scelta.

Ha affermato il cardinale Carlo Maria Martini: «Io ritengo che ciascuno di noi abbia in sé un non credente e un credente, che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’un l’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa» (dal discorso introduttivo alla Cattedra dei non credenti). Ragionando si trovano elementi a favore della tesi e dell’antitesi, e chi non è ideologicamente determinato è inevitabilmente consegnato alla logica del due che genera il dubbio. Il dubbio però paralizza, mentre nella vita occorre procedere e agire responsabilmente. Da qui la necessità di superare il dubbio. Il superamento però non può avvenire in base alla ragione che è all’origine del dubbio, ma in base a qualcosa di più radicale e di più vitale della ragione, cioè il sentimento che genera la fiducia che si esplicita come coraggio di esistere e di scegliere il bene e la giustizia. Ma perché alcuni avvertano in sé questo sentimento di fiducia verso la vita e altri no, rimane per me un mistero inesplicabile.

Se il genere umano vuole progredire e non spegnersi non basta far funzionare meglio le macchinette che hanno fatto diventar ricchi e ricchissimi i pochi e poveri e poverissimi i molti. «Una riflessione su scuola discipline umanistiche e formazione dei cittadini. Estratto del libro

Il presente non basta (Mondadori). La Repubblica, 15 settembre 2016

La parola «scuola» evoca una stagione della nostra vita, un titolo di studio, la Cenerentola dei nostri Ministeri, il ricordo di un ottimo insegnante, l’origine dei nostri fallimenti o successi. Non si ricorderà mai abbastanza che «scuola» deriva da «scholé», parola greca che indica il tempo che il cittadino riservava alla propria formazione, quella che i Greci chiamavano «paideía» e che volevano non specialistica e monoculturale, bensì completa e integrale: «enkýklios», «circolare». Secondo questa prospettiva originaria, la scuola è il contrappeso di certa modernità polarizzata sul «presente», sull’«adesso», sull’«ora» (modo, da cui appunto derivano sia «moderno» che «moda»). Essa è il luogo dove si formano i cittadini completi e non semplicemente — direbbe Nietzsche — «utili impiegati ». In un Paese civile e colto, centrale è la figura dell’insegnante, del docente, del maestro ( magister), vale a dire «colui che sa di più e vale di più» ( magis) e che si mette in relazione con gli altri (- ter); in opposizione a minister, «colui che sa e vale meno». Sono termini del linguaggio religioso: magister era il celebrante principale, minister era il celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi abbiamo sostituito al rispetto per i Maestri l’ossequio per i Ministri.

Alternativa ciclicamente ricorrente è quella che si chiede se la scuola deve avere lo sguardo rivolto al passato o al futuro, privilegiare la conoscenza o la competenza, mirare alla formazione o alla professione. A chi sostiene che la scienza è destinata a scalzare inesorabilmente le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà rispondere che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere della risposta ai problemi del momento, il sapere umanistico ha l’onere della domanda; e pertanto tra scienza e humanities ha da essere un’alleanza naturale e necessaria, perché i linguaggi sono molteplici ma la cultura è una. Steve Jobs ci ha ricordato la necessità del ritorno alla figura dell’ingegnere rinascimentale.

Ma cosa rispondere a chi – pur consapevole che la scuola, intesa come scholé, ha il compito di insegnare ciò che non si apprende né dalla famiglia né dalla società né dalle istituzioni – deve fare i conti con la realtà aggressiva e incontrovertibile di un mondo extrascolastico parallelo, di un’altra educazione, di un altro apprendimento? Di fronte a questo nuovo scenario giova continuare a credere che la scuola è l’unico luogo di incontro reale rispetto al mondo immateriale dei nuovi media? Che siamo in presenza di puri strumenti, mentre i valori sono altri? O piuttosto sarà bene riconoscere che con la realtà «fisica» convive la realtà «digitale» e che le tecnologie e i social network creano un nuovo «ambiente», il che significa nuovi pensieri, nuove relazioni, nuovi stili che entrano nella vita di tutti i giorni?

Indubbiamente questa nuova cultura e formazione ha rischi seri: su tutti, quello che Eliot chiamava «il provincialismo di tempo », proprio di chi crede che la vita e il mondo inizino con noi e col nostro presente; e quello che Byung-Chul Han chiama «l’inferno dell’Uguale»: un mondo senza il pathos della distanza e l’esperienza dell’alterità. Cosa sa del presente chi conosce solo il presente? Cosa sa di tecnologia chi conosce soltanto la tecnologia? Cosa sa dell’altro chi con un clic ne vede la faccia ma non il volto?

Solo la scuola può - e, io aggiungo, deve - comporre tale querelle, coniugare il momento «noto» dell’insegnamento dell’aula (docere) con quello «nuovo» dell’apprendimento della rete (discere), tradurre ( trans-ducere) la comunicazione in comunione e fare dei tanti «io» il «noi», che dovrà essere il pronome del terzo millennio. Compito della scuola è insegnare che le scorciatoie tecnologiche uccidono la scrittura; ricordare ai ragazzi che la vita è una cosa seria e non tutto un like; formare cittadini digitali consapevoli, come essa ha fatto con i cittadini agricoli, i cittadini industriali, i cittadini elettronici; convincere che la macchina non può sostituire l’insegnante; dimostrare che libro e tablet non sono alternativi e rivali ma diversi perché il libro racconta, il tablet rendiconta. Una sfida tanto auspicabile quanto utile sarebbe la compresenza del professore di «latino» - e in generale dei professori delle discipline umanistiche - e del professore di «digitale», ora infelicemente denominato dalla burocrazia ministeriale «animatore digitale», come se si trattasse di un ruolo ludico e ricreativo. Da tale confronto i ragazzi capirebbero sia la differenza tra il tempo e lo spazio sia la necessità della coabitazione tra l’hic et nunc («qui e ora») e l’ubique et semper («ovunque e sempre»).

Non ho mai capito la rovinosa alternativa per cui l’inglese o l’informatica debbano sostituire, e non piuttosto integrare, altre discipline come il greco e il latino. Errore ben rappresentato da quanto proponeva l’ex ministro Luigi Berlinguer: «Rendere opzionale il latino, dando così spazio alla necessaria accentuazione scientifica». Ma io dico: cosa di più arricchente e convincente di un liceo classico dove il ventaglio dei saperi umanistici si dispieghi e si coniughi con quelli scientifici? Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre; et et e non aut aut deve essere la misura della scuola. Questo è possibile con provvedimenti seri e investimenti veri: dilatando gli orari scolastici, abolendo i compiti a casa, pagando adeguatamente gli insegnanti. L’unica riforma degna della scuola: crocevia del futuro.

Il nostro Paese, fino a non molti anni or sono, ha conosciuto – e riconosciuto anche economicamente – l’importanza e la nobiltà della figura dell’insegnante, del docente, del professore: colui che «professa» (dal latino profiteri) la ricerca, il fondamento e la trasmissione del sapere e dei saperi. Figura cardine di un Paese civile che abbia il futuro nel sangue: da riscoprire e riabilitare, perché oggi maldestramente delegittimata da politici e famiglie e sciaguratamente derubricata a dimensioni amministrative e mansioni burocratiche. Peggio: ridotta al ruolo di «facilitatore», una sorta di «super-capoclasse»; e così si fa un torto triplice: agli insegnanti, che sanno che per alcuni traguardi culturali occorre munirsi – avrebbe detto Mandel’stam – di «scarponi chiodati»; agli studenti, che chiedono testimonianze di coerenza e verità; e alla scuola, che non è e non deve essere il luogo dove si attenuano o si occultano le difficoltà; dove, per una malintesa idea di democrazia o egualitarismo, si rendono deboli i saperi anziché forti gli allievi.

L’autore, latinista, è stato rettore dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna

«La "Care Revultion" è un nuovo movimento e un nuovo paradigma scientifico che chiede di mettere al centro dell’economia le buone pratiche concrete di vita quotidiana, “il bisogno di qualità di relazioni soddisfacenti”».

Comune.info, 2 settembre 2016 (c.m.c.)

Se oikos, nel tempo presente della “modernità globalizzata” (Habermann), è diventato la casa-mondo, allora i nomos, le regole, gli accordi, le leggi che stabiliscono le modalità d’uso della casa comune dovrebbero essere improntati alla cura dello spazio vitale, limitato e fragile. Una constatazione, questa, che Ina Praetorius nel suo L’economia è cura (traduzione di Adriana Maestro, edizioni IOD, marzo 2016, con licenza Creative Commons, scaricabile gratuitamente dal web grazie alla Società Consortile Mediterraneo Sociale) considera ovvia.

Se l’economia (oikonomia) è la scienza sociale che studia come poter soddisfare i bisogni di tutte le persone presenti e future ospitabili sulla faccia della terra, allora le prime attività di cui si dovrebbe occupare sono quelle che riguardano il mantenimento delle precondizioni della vita, la riproduzione, il nutrimento e l’allevamento dei figli, l’accudimento degli anziani, la tenuta in buon ordine degli habitat naturali, l’ascolto, l’inclusione e la custodia di ogni diversità, le buone relazioni tra le persone e tra queste e la natura. Insomma, tutto ciò che dà un senso al vivere in pace e con dignità. Secondo Praetorius, invece, nel corso dei secoli è avvenuta una tremenda distorsione pratica e teorica del concetto di economia.

La metà (almeno) del lavoro socialmente necessario alla soddisfazione dei bisogni (e dei desideri) umani fondamentali non viene contemplato dalle scienze economiche convenzionali. Si tratta delle prestazioni “fuori mercato” fornite in ambito domestico dalle donne (in grandissima prevalenza non o male retribuite) e dai popoli indigeni che preservano i “servizi ecosistemici” forniti dai cicli biologici naturali. L’economia, con l’avvento del capitalismo industriale, si è ridotta ad essere un prontuario per massimizzare lo sfruttamento delle risorse umane e naturali trattate come mezzi e strumenti – al pari delle macchine e del denaro – che devono essere impiegate (sacrificate) nel processo produttivo delle merci.

Avviene così un rovesciamento dei fini: gli scopi della cooperazione sociale non sono più il miglioramento della “vita buona” delle persone, la joia de vivre, il buen vivir, il Sumak kawsay andino, ma l’estrazione, l’appropriazione e l’accumulazione di denaro.

L’economia oggi concepisce e codifica solo due tipi di rapporti umani: la prestazione in cambio di denaro e l’estorsione diretta previa costrizione di persone discriminate a causa del genere, del luogo di nascita, dell’età, del censo.

Per Praetorius all’origine di tutto ciò vi sono duemilacinquecento anni di “ordine dicotomico” patriarcale, di dualismo tra uomo-maschio-bianco-possidente-capofamiglia-libero e natura-femminile ridotta a materia sottomessa. La Care Revultion è un nuovo movimento e un nuovo paradigma scientifico che chiede di mettere al centro dell’economia le buone pratiche concrete di vita quotidiana, “il bisogno di qualità di relazioni soddisfacenti”. Quando sentiamo parlare la sindaca di Barcellona, Ada Colau, di ecofemminismo, troviamo molta economia della cura.

Che cosa significa utilizzare il proprio cervello critico? Le giovani generazioni si trovano davanti a scelte difficili da decifrare. Occorre scommettere sulla "terapia" della scuola».

Il manifesto, 3 settembre 2016 (p.d.)

A Sarzana il Festival della mente 2016 apre il programma con alcuni versi di una poetessa che mi è cara, Alda Merini: «voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso/ della divina sapienza». Con desideri simili anche io auspico un piccolo spazio, quello della ribellione, contro la corruzione, la disonestà, le guerre, le ingiustizie sociali, l’uso del linguaggio per ingannare il prossimo, la vendita delle armi, e contro coloro che, come loro fossero superuomini dotati di cervelli e corpi diversi, sfruttano e riducono a servi altri uomini. La prima riflessione, banale ma necessaria è che gli uomini condividono gli stessi organi, la stessa organizzazione del sistema nervoso, gli stessi recettori: tu ed io siamo uguali a tutti gli altri.

Risultano perciò inaccettabili alla logica prima ancora che all’etica i privilegi di chi nasce ricco e ha goduto delle facilitazioni di un ambiente adeguato, ma anche di amicizie, di favori più o meno leciti. La loro condizione di privilegio si mantiene grazie alla esistenza dei molti che invece di privilegi non ne hanno e con la loro opera rendono possibile i loro salari stratosferici e perfino i loro comportamenti offensivi con cui ostentano la loro ricchezza per mostrare il loro potere e diversità, manifestazioni volgari che gridano vendetta davanti a Dio.

Ricordo a proposito alcune parti dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti di Italo Calvino: «C’era un paese che si reggeva sull’illecito (…) Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Dovevano rassegnarsi all’estinzione?»
L’onesto è relegato alla posizione di una sottospecie di fessi non degni di salire nella casta dei furbi. Il cervello, il buon senso, la critica, l’onestà sono in rivolta. La mia non è una ribellione violenta, perché la violenza genera violenza, ma è un richiamo all’uso del cervello pensante e critico, è la rivolta della ragione contro quel’1 per cento della popolazione che possiede più ricchezze del restante 99 per cento (rapporto Oxfam 2016). Ho raccolto queste riflessioni in un mio piccolo libro Elogio della ribellione uscito per Il Mulino.

In questo spirito di inquietudine e di rivolta rifletto su alcuni aspetti del mondo moderno, sulla globalizzazione, sul rapido invasivo sviluppo delle tecnologie che hanno procurato vantaggi ma anche problemi.
Le tecnologie della comunicazione hanno creato un nuovo tipo di solitudine, che possiamo chiamare paradossale perché causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori, in particolare uditivi e visivi, che induce un’attività frenetica del cervello, levando spazio alla riflessione e ostacolando la libertà del pensiero intasato dalle entrate sensoriali come le connessioni in rete o la Tv. È la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è solo, perché rischia di perdere gli stimoli dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda.

La mia preoccupazione di vecchio insegnante è rivolta principalmente ai giovani, per i quali le nuove tecnologie hanno oltrepassato la soglia di strumenti utilissimi per diventare «cervello», neuroni senza i quali non si può più pensare, producendo così una pericolosa restrizione dello spazio della libertà di ragionamento e della fantasia. Lo spazio del pensiero lento è stato invaso dal pensiero rapido.
Per me, neurofisiologo, che cerca di ragionare sui meccanismi cerebrali che stanno alla base di questo cambiamento, ciò non è sorprendente. La plasticità del cervello, cioè la sua capacità di cambiare funzione e anche struttura anatomica in dipendenza degli stimoli ricevuti è massima nei giovanissimi. Basta ricordare che le sinapsi, elementi essenziali del funzionamento cerebrale, numerosissime intorno ai due-tre anni cominciano a diminuire dopo l’adolescenza in maniera sempre più veloce e questa diminuzione è il substrato della vecchiaia del cervello.

La grande plasticità dei giovani ha assorbito naturalmente i messaggi del nuovo mondo e ne è rimasta ingolfata. Probabilmente la generazione degli adulti è responsabile per non aver dato, come educatori gli antidoti contro queste «droghe» pericolose. È interessante ricordare che Steve Jobs, per evitare il sorgere di una dipendenza, aveva proibito ai suoi bambini l’uso degli strumenti da lui stesso inventati. Il cervello dei giovanissimi può essere manipolato: ne è esempio l’educazione dei bambini di alcuni gruppi islamici che induce giovanissimi a pianificati gesti di suicidio.

La nostra scuola non è riuscita a incanalare tempestivamente la rivoluzione tecnologica nella sua pur forte tradizione formativa, rinforzando l’educazione al ragionamento critico, al dubbio su tutto e su tutti. Scriveva Voltaire: «Il dubbio non è piacevole, ma la certezza è ridicola.
Solo gli imbecilli sono inadeguati che spesso mirano al sonno cerebrale, e le altre forme di comunicazione della rete che insieme a messaggi importanti e civili portano disinformazione e possono al limite diventare strumenti pericolosi in mano a delinquenti e terroristi.

Come terapia io non vedo che la scuola e nella scuola l’insegnamento delle materie umanistiche, e per materie umanistiche intendo tutte quelle guidate dalla curiosità, incluse la matematica che è puro pensiero, e tutte le discipline che, rimandando all’esperimento, educano all’argomentazione e al ragionamento. Purtroppo questo è oggi reso difficile dal progressivo degrado della scuola pubblica, della ricerca: insegnanti e ricercatori che preparano il futuro di un paese sono stati privati della loro dignità di funzione.

«Rischia di essere letto in modo frammentario perdendo di vista il significato del viaggio: dagli abissi più terribili alle difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico».

La Repubblica, 27 agosto 2016

È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, Il viaggio di Dante (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto. È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante — non è un mistero per nessuno che la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria — episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito…).

Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante…). Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).

Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, — e anche nel senso più letterale del termine — la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale. Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.

Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè… Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?). Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani.

Se uno rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione, non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue forme.

Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, — come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, — infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.

La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, — Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice — trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno. Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare. Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, — di tutto il mondo.

Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, — quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, — senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità. Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.

Non sarebbe il caso di trarre tutti, — non solo i pretesi o presunti specialisti, — un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.

Leo Lancari, Valentina Brinis, Nadia Bouzekri: tre voci sul dibattito su ciò che indossano le donne musulmane quando vanno al mare Hanno diritto o no di vestirsi come meglio credono?

Il manifesto, 18 agosto 2016


BURKINI,VALLS CON I SINDACI:
«GIUSTO VIETARLO IN SPIAGGIA

di Leo Lalcari

«Francia. Il premier: "È contro i nostri valori". Salvini: "Facciamo come la Francia"»

Alla fine nel dibattito sulla legittimità o meno per una donna musulmana di recarsi in spiaggia indossando un burkini è intervenuto anche Manuel Valls. E, un po’ a sorpresa, il premier francese si è schierato con i sindaci – almeno uno dei quali, quello di Cannes, appartenente ai Republicaines di Nicolas Sarkozy – che hanno vietato l’utilizzo sulle loro spiagge del capo incriminato che lascia scoperti solo viso, mani e piedi di chi lo indossa. «E’ incompatibile con i valori della Francia», ha spiegato Valls in un intervista al quotidiano La Provence. «Le spiagge, come ogni spazio pubblico, devono essere difese dalle rivendicazioni religiose. Il burkini non è un nuovo tipo di costume da bagno o una moda. È la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna», ha detto il primo ministro.

Anziché sgonfiarsi (come sarebbe stato augurabile), il dibattito sembra quindi destinato a prendere sempre più piede. Nel frattempo fioccano le prime multe. A Cannes, primo comune francese ad aver introdotto il divieto, tre donne di 29, 32 e 57 anni si sono viste affibbiare una sanzione di 38 euro per aver fatto il bagno con il burkini. Altre sei sono state invece solo richiamate dalla polizia municipale e hanno lasciato la spiaggia. Come a Cannes il divieto è in vigore anche nei comuni corsi di Sisco e Villeneuve-Loubet. Pur appoggiando le restrizioni, Valls ha comunque negato di voler presentare una legge che vieti in tutta la Francia l’uso del burkini spiegando di non ritenere che «la regolamentazione generale delle prescrizioni di abbigliamento sia una soluzione».

L’ultima decisione resta dunque in mano ai sindaci, ma le parole del premier francese si sono trasformate in un caso politico. D’accordo con lui si è infatti detto il centrodestra, mentre la gauche è rimasta a dir poco perplessa dalle sue affermazioni. «L’ordine pubblico è un buon argomento» per imporre il divieto, ha subito commentato l’ex consigliere di Sarkozy Henri Guaino, convinto che «nella situazione attuale è il momento di mettere fine a certi comportamenti». Gli ha fatto eco Thierry Solére, altro parlamentare dei Republicaines: «In Arabia Saudita una donna non fa il bagno in topless o tanga. In Francia non si fa il bagno in burqa». Motivazione di alto livello, come si vede, dove tra l’altro si fa confusione tra burqa e burkini. Anche per questo la sinistra francese storce la bocca, con un esponente come l’ex ministro Benoit Hamon, candidato alle presidenziali del prossimo anno, che ieri ha definito «assolutamente incredibili» le affermazioni di Valls.

In Italia, neanche a dirlo, è subito montata la polemica, con Lega e Forza Italia scatenate. «Chiedo ai sindaci che amministrano città di mare in tutta Italia di copiare l’esempio dei francesi» è l’appello subito lanciato da Matteo Salvini, mentre per settembre sono già annunciati una mozione in Regione Lombardia per vietare il burkini in spiagge e piscine e addirittura un progetto di legge a firma del senatore Roberto Calderoli. «Sono da mettere fuorilegge sia il burqa che il burkini e per farlo serve una legge statale», ha detto Calderoli.

Nel mirino del Carroccio e Forza Italia anche il ministro degli Interni Angelino Alfano per essersi detto contrario all’introduzione di nuovi divieti. «Sarebbe una provocazione» che come reazione potrebbe provocare degli attentati, ha spiegato il titolare del Viminale. Una spiegazione definita «preoccupante» dal senatore di Fi Lucio Malan. «Dobbiamo decidere se vietare o meno il burkini in base a ciò che riteniamo giusto e coerente con la nostra civiltà. Guai a far capire che basta la minaccia sottintesa di attentati per farci cambiare leggi e abitudini». Per il presidente della Comunità del mondo arabo in Italia Foad Aodi, invece, «il burkini in Italia è un falso problema. Sono pochissime le donne musulmane che lo portano. Data la situazione internazionale noi sconsigliamo di usarlo, ma vietarlo sarebbe un errore»

BURKINI, UN DIVIETO SUL CORPO DELLE DONNE
di Valentina Brinis
«Il provvedimento non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati»
Come si comporteranno i Comuni francesi che hanno vietato il burkini sulla spiaggia, con chi indossa la muta da sub? O con le donne che per varie ragioni non possono esporsi interamente al sole e si presentano al mare con un abito che le copre interamente, testa inclusa? È vero che quelle ordinanze – adottate proprio dove qualche decennio fa era stato inventato il bikini – parlano chiaro, e si riferiscono al burkini come simbolo religioso più che all’abito in quanto tale. Ma è immaginando l’applicazione di un simile dispositivo che emergono le contraddizioni, oltre che la difficoltà di distinguere tra chi indossa un abbigliamento coprente per motivi religiosi e chi lo fa per altre ragioni.
Gli addetti al controllo delle spiagge avranno probabilmente delle linee guida e sarebbe interessante sapere se si limitano all’identificazione dei trasgressori attraverso le caratteristiche fisiche, o se è prevista un’intervista (due domande, due) in grado di mettere in evidenza se le ragioni di tale abbigliamento siano o meno religiose. Se quest’ultima parte verrà trascurata, quale atteggiamento assumeranno con i fedeli di altri culti che prevedono un costume simile? Possibile che sia solo il burkini a creare problemi di ordine pubblico, e non per esempio i borsoni da spiaggia, le già citate mute da sub o i copri costume extra-large?

Il burkini, poi, rende chi lo indossa immediatamente riconoscibile, smontando in questo modo il fulcro di un dibattito di qualche anno fa sul tema del velo come minaccia alla sicurezza pubblica.
Pare però che la battaglia contro alcune manifestazioni di radicalismo religioso si stia giocando esclusivamente sull’esibizione dei simboli di appartenenza tipicamente femminili e, più esattamente, sul corpo delle donne. Un atteggiamento, quello francese, che appare del tutto sfasato rispetto a quanto sta accadendo alle Olimpiadi di Rio dove il burkini viene utilizzato dalle atlete senza che divenga il bersaglio di accese polemiche. La schermitrice americana che ha gareggiato con il velo lo ha fatto per rivendicare la propria identità e non perché costretta da un compagno estremista. E lo stesso ha pensato la giocatrice di beach-volley egiziana quando lo ha indossato nel match contro la Germania.

Ecco perché è stato prudente il ministro dell’Interno Angelino Alfano a discostarsi dai provvedimenti francesi, assicurando che non saranno mai adottati in Italia. E ciò deve essere fatto non solo per paura di subire ritorsioni da parte di chi quei simboli li considera il tratto fondamentale della propria identità, fino a dichiarare guerra a chi non li rispetta, ma anche perché la loro negazione nello spazio pubblico non si è dimostrata efficace. Inoltre, un divieto come quello imposto dalla Francia, non risponde ai principi fondanti espressi nel 2004 dall’Unione europea in materia di politiche di integrazione degli immigrati. Dove, l’integrazione, è da intendersi come un processo a doppio senso (e non a senso unico), composto da diversi elementi, e capace di incidere sia sulla società ospitante che sugli stranieri. E in Europa, un simile sistema non è più ignorabile.


LA LAICITÀ NON DOVREBBE LIMITARE
I DIRITTI MADIFENDERLI
intervista di Carlo Lania a Nadia Bouzekri

«Per favore non mi si venga a dire che un divieto come quello di indossare il burkini in spiaggia è stato pensare per difendere i miei diritti o la laicità dello stato francese. Il burkini non è un indumento previsto dalla religione, è un costume. Chi vuole lo indossa, chi non vuole no. Direi che il problema è a monte: indipendentemente dalla religione sembra che il mondo sia concentrato su quello che le donne possono o non possono indossare».

Nadia Bouzekri è la prima donna a essere stata nominata presidente dei Giovani musulmani d’Italia, un’associazione che con i suoi 1.200 iscritti è la più grande del paese. 24 anni, vive con i genitori marocchini a Sesto San Giovanni. «In quanto donna, musulmana e cittadina italiana – spiega – sapere che ci sia una legge che mi discrimina vietandomi di andare in spiaggia con un determinato abbigliamento mi fa sentire meno libera. Se si pensa che la libertà della donna sia vincolata a quanti centimetri di pelle debba scoprire vuol dire che i parametri che stiamo utilizzando sono sbagliati. Il burkini è stato ideato da un’artista australiana proprio per rispondere alle esigenze delle donne musulmane che volevano andare in spiaggia. Così come una muta è stata pensata per andare sott’acqua. Se indosso una muta che succede, arriva un vigile e me lo vieta perché sono musulmana? Alla fine il burkini è simile a una muta da sub. Penso alle atlete che sono alle Olimpiadi: non dovrebbero gareggiare perché lo indossano?

Però il messaggio che trasmette un burkini è diverso da quello di una muta da sub. Il premier francese Valls si è detto d’accordo con il divieto perché, ha spiegato, il burkini contrasta con un importante valore della Francia come la laicità.

La laicità deve tutelare i diritti dei cittadini o deve limitarli? Lo chiedo perché mi sembra che questo divieto sia stata posto esclusivamente per cittadini di una determinata fede. Una persona può essere atea e voler indossare il burkini perché è comodo.

La ministra francese Rossignol lo equipara al burqa.
E’ sbagliato. Il burqa è un indumento legato a una tradizione culturale in cui c’è un problema di diritti delle donne, ma è anche legato a un’area geografica ben precisa. E poi con il burkini, chiamato così con un chiaro riferimento al bikini, viso, mani e piedi sono scoperti, cosa invece impossibile con il burqa.

Però il resto del corpo è coperto. Non è comunque una violenza per la donna che lo indossa?
Sarebbe un atto di violenza se fossi obbligata ad indossarlo. Così come è un atto di violenza obbligarmi a scoprirmi, a dover per forza indossare un bikini piuttosto che un costume intero. Questa estate con alcune amiche siamo andate al mare: qualcuna indossava un burkini, altre un costume e ci siamo divertite tranquillamente. Non vedo dove sia il problema.

Lei cosa indossava?
Un burkini.

E ha avuto qualche reazione da parte degli altri bagnanti?
E’ normale che all’inizio vi sia uno sguardo un po’ destabilizzato. Però poi quando le persone vedono che nuoto tranquillamente, che rido e scherzo senza nessun problema, lo stupore passa velocemente insieme alla diffidenza. Indipendentemente dalla religione sembra che tutto il mondo sia concentrato su cosa indossano le donne.

Quindi ne fa una questione di moda?
Per alcune musulmane può esserlo, per altre invece è solo un costume da bagno. Io lo uso quando vado al mare, quando vado a fare trekking metto le scarpe da trekking.

Il ministro Alfano dice che vietarlo sembrerebbe una provocazione.
Più che una provocazione significherebbe andare contro i diritti costituzionali. La Francia in primis, con questo divieto mascherato sotto la tutela della laicità piuttosto che della sicurezza, va contro i diritti fondamentali dell’Unione europea.

la conoscenza del latino : è la radice di un complesso di lingue tutte derivate da quella parlata e scritta da romani antichi, adoperate quotidianamente da 930 milioni di persone. La Repubblica, 10 agosto 2016

La lingua più parlata del mondo? È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.

Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese (terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.

Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino? Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba». La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia. E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva». Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.

L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso ( Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti). Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».

Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton. Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .

Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale ( come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo. Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.

Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea. Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?

Magistrale lezione sul razzismo che è in noi, sulle sue diverse gradazioni e sfumature (dal fastidio all'odio), sul rischio che oggi corriamo: che l'accettazione del "respingimento «non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio». Il

manifesto, 10 agosto 2016.
Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione. E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli.

Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi di manifestarsi.

Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli.

Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo.

Una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne, al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.

L’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa di noi e degli altri come persone.

Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi ha costretto a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano sulla loro strada.

Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia.

Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. E poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?

Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta.

Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.

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