Il rapporto Whatever happened to Africa's rapid urbanisation? dell'Africa research institute, un think tank indipendente britannico, è passato praticamente inosservato, eppure rimette in discussione uno dei "miti" e dei limiti dello sviluppo africano: «E' 'opinione diffusa che l'urbanizzazione stia avvenendo più velocemente nell'Africa sub-sahariana che in qualsiasi altra parte del mondo, poiché gli immigrati si spostano dalle zone rurali agli insediamenti urbani. Questo è un errore. Mentre le popolazioni di numerose aree urbane sono in rapida crescita, i livelli di urbanizzazione di molti Paesi stanno aumentando lentamente, se non per niente. L'incremento naturale, al netto della migrazione, è il fattore di crescita predominante nella maggior parte delle popolazioni urbane. I governi africani, i politici ed i donatori internazionali devono riconoscere i cambiamenti fondamentali nelle tendenze di urbanizzazione e rispondere ai messaggi inconfutabili che questi danno circa l'occupazione urbana, il reddito e lo sviluppo economico».
Lo studio è frutto delle ricerche di Deborah Potts, un'esperta di geografia umana del King's College London, che dice di aver cominciato ad avere dei dubbi già a metà degli anni'80, quando lavorava nello Zimbabwe. «Allora abbiamo intervistato 1.000 migranti - ha spiegato all'agenzia stampa umanitaria dell'Onu Irin - e la maggioranza ci diceva che sarebbero rimasti qualche tempo in città, ma che sarebbero ripartiti presto, perché non si potevano permettere di restare. In effetti non esiste una rete di sicurezza in città: se cadono malati , se diventano vecchio se perdono il loro lavoro, bisogna che ritornino nella loro campagna».
La Potts poi ha analizzato le cifre del censimento del 1990 in Zambia, dove il crollo del prezzo del rame aveva portato ad una riduzione delle persone che vivevano in città, un calo confermato nel 2000. Intanto dei ricercatori francesi che lavoravano in Costa d'Avorio avevano osservato lo stesso fenomeno: «I redditi reali urbani fondono come neve al sole a causa della crisi petrolifera e dei programmi di aggiustamento strutturale - spiega la Potts - E' quel che succede in Grecia in questo momento, salve che quello non è nulla a paragone con quel che è successo in Africa».
Ma questa evoluzione delle dinamiche della popolazione sono poco indagate perché pongono problemi: «L'Onu raccoglie e pubblica dati demografici, ma la crisi economica ha colpito anche la realizzazione e la pubblicazione dei censimenti nazionali, che diventano molto cari - sottolinea Irin - Quando i dati del censimento non erano disponibili, l'Onu si è servito di proiezioni ed ha basato il suo modello sui primi decenni seguiti all'indipendenza, un'epoca in cui le popolazioni urbane in Africa crescevano in effetti in maniera molto rapida. Quando le cifre corrette sono state disponibili, si è scoperto che alcuni dei dati riguardanti la popolazione urbana erano largamente sovrastimati».
La Potts analizza le cifre dell'United Nations Human settlements programme (Un-Habitat) sul livello di urbanizzazione, secondo le quali nel 2001 il 34% della popolazione del Kenya era urbana, nel 2010 questa stima è stata rivista al 22%. Secondo la ricercatrice britannica «I tassi di urbanizzazione erano minori in 11 Paesi dell''Africa sub-sahariana e in Tanzania, in Mauritania e Senegal il calo era particolarmente sensibile».
Questo non vuol certo dire che la popolazione urbana sia in contrazione, anzi, continua a crescere ma la stessa cosa avviene nelle zone rurali. «La tendenza generale resta un movimento verso le città, ma è un'evoluzione lenta e non un'ondata di marea», dice Potts che però si lamenta perché «Anche se le cifre sono oggi disponibili, gli analisti, compresi quelli di Un-Habitat, modificano solo molto lentamente le loro ipotesi. E' un messaggio che non è sempre ben compreso. Le persone a volte sono molto pigre. Dicono che non è possibile, che sono le autorità urbane che le hanno date. Ma secondo la mia esperienza, le autorità urbane non dispongono di solito di statistiche corrette in 9 casi su 10, sovrastimano largamente la loro popolazione per ragioni politiche».
Claire Melamed, direttrice del Growth, poverty and inequality programme dell'Overseas development institute britannico, ha detto all'Irin: «Per una ragione o per l'altra, investire nei dati non è mai una priorità essenziale. Ma questo non è un lusso, è il principio fondamentale della buona politica. Tutto questo ha delle conseguenze concrete sulla maniera di distribuire i servizi dei quali le persone hanno bisogno e che richiedono. Se la maggioranza è urbana, la distribuzione sarà differente da quella che sarebbe per una maggioranza rurale e dispersa».
Eduardo Moreno, responsabile del Cities programme di Un-Habitat, ribatte che rivedere le proiezioni precedenti fa parte del suo lavoro ma che l'Africa continua ad urbanizzarsi: «Se prendiamo solo l'Africa, è chiaro che l'urbanizzazione rallentare che le grandi città africane non crescono così rapidamente come 10 o 15 anni fa. Ma se si paragona con l'Asia o l'America latina, è ancora l'Africa che conosce il tasso di urbanizzazione più forte di tutto il mondo in via di sviluppo. Un tasso di urbanizzazione più graduale non è necessariamente la benedizione che i governi possono immaginare. Diversi paesi africani non hanno ancora compreso che l'urbanizzazione è una cosa molto positiva. Alcuni può darsi che vogliano lasciare la loro popolazione nelle zone rurali, perché associano l'urbanizzazione alla povertà e ad altri aspetti negativi. Ma la storia ci dimostra che nessun Paese è uscito dalla povertà restando rurale. Abbiamo chiesto a dei governi africani se vogliono mettere fine all'urbanizzazione e la maggioranza tra loro hanno detto di sì. Ma se pensate alla Cina, i suoi piani quinquennali considerano l'urbanizzazione come il motore dello sviluppo. Quindi, se alcuni Paesi pensano deliberatamente di ridurre il loro tasso di urbanizzazione, adottano una cattiva politica».
La Melamed non è convinta: «Per quel che ne so, l'Africa rimane una società a predominanza rurale. Ma questo rimette in questione le idee sul modo in cui la società sta cambiando, perché queste sono fondate sull'idea di un'urbanizzazione molto rapida. Senza dimenticare gli aspetti politici, come abbiamo visto in Africa del Nord ed in Medio Oriente, delle popolazioni urbane giovani, meglio istruite, hanno un comportamento differente da quello delle popolazioni rurali. Quando le persone si urbanizzano, non dar loro quel che vogliono rischia di avere delle conseguenze politiche molto più serie».
Forse migliorare la condizione urbana in Africa richiede approcci diversi da quelli imposti dall’ONU e promossi dalla Banca mondiale e dalle multinazionali. Forse esportare il modello europeo e quello americano (o i derivati asiatici) non è la strada giusta. Questioni sulle quali bisognerà ragionare, magari cominciando dal domandarsi che cosa significa “condizione urbana” in regioni caratterizzate da storie diverse e da diverse culture. Si scoprirà forse che la soluzione giusta non è quella di imporre l’ “urbanizzazione” che abbiamo applicato e stiamo applicando nel Nord del mondo
Titolo originale: Can we pull the plug on the plug? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Eric Giler punta un telecomando verso un apparecchio appoggiato al muro, istantaneamente si accendono tre lampade e un tablet inizia a ricaricare. La cosa divertente è che l’apparecchio appoggiato al muro non ha alcun collegamento con quelli che sta alimentando, non c’è la spina. Giler è il CEO di Witricity, compagnia sperimentale che spera di rivoluzionare il mondo dell’elettronica facendo passare in modo affidabile l’energia senza fili attraverso l’aria. Lavora da quasi cinque anni utilizzando una tecnologia sviluppata al Massachusetts Institute of Technology per ampliare il raggio della carica wireless. Secondo Witricity i primi prodotti saranno disponibili sul mercato entro l’anno. Ed entro un paio apparecchiature del genere potranno essere usate per la ricarica senza fili delle auto elettriche. In seguito l’energia wireless sarà usata per apparecchiature cardiache e altri strumenti medici.
L’idea di trasportare energia senza fili non è certo nuova. La prima dimostrazione di Nikola Tesla è di cent’anni fa, oggi sono già abbastanza diffusi sistemi per ricaricare spazzolini elettrici e/o accessori di video game. Ma i sistemi induttivi di oggi operano solo su distanze molto ravvicinate, con un contatto diretto fra caricatore e apparecchiatura, il che non è molto diverso in pratica dall’uso di una spina. I sistemi di ricarica induttivi funzionano con una spirale che genera un campo magnetico, a indurre elettricità simile in un’altra spirale opportunamente orientata, in un’altra apparecchiatura. Man mano le due spirali si allontanano, però, diminuisce rapidamente l’efficienza del trasferimento. Allo scopo di incrementare questa distanza utile, Witricity cerca di far risuonare a una determinata frequenza le due spirali, diminuendo la dispersione di energia.
La distanza poi dipende anche dalle dimensioni delle spirali. Se sia il trasmettitore che il ricevitore sono piccoli (ad esempio nel caso di un telefonino) per una discreta efficienza si deve restare nell’ambito di una manciata di centimetri. Ma Witricity ha realizzato anche prototipi più grandi che superano anche la distanza di un metro. Ed è anche possibile usare delle specie di ripetitori che rilanciano il segnale. Nella dimostrazione proposta da Giler, spirali inserite nel pavimento consentono di far saltare l’energia da un apparecchio sul muro a tutti i punti di una stanza. Witricity è una delle pochissime imprese che lavorano in questo campo. È stato anche sviluppato un tavolo prototipo dove si possono caricare tutti gli oggetti che vi vengono posati sopra – anche lasciandoli dentro una borsa o altro contenitore – e una tastiera e mouse wireless che si alimentano dallo schermo, eliminando la necessità delle batterie. Studiato anche un metodo di ricarica delle auto elettriche. Sta in una piastra di circa mezzo metro da mettere nel pavimento del garage: basta parcheggiarci sopra.
Witricity collabora con altre imprese per far arrivare questo tipo di prodotti sul mercato. C’è un lucroso contratto con la Toyota per la ricarica dei veicoli (quindi presto non li chiameremo più a spina) e la prospettiva di un accordo con una compagnia taiwanese di elettronica, Mediatek, per apparecchiature portatili. Katie Hall, la responsabile tecnologie di Witricity, racconta la ricerca per le componenti necessarie da aggiungere agli apparecchi. Ad esempio si sviluppa un sistema di ricarica per telefonini identico ai gusci di protezione in uso oggi. Ancora incertezze sui costi, ma nel caso delle auto ad esempio la Hall sostiene che non si spenderà più di quanto si fa ora con le apparecchiature normali di ricarica da garage.
Ci sono parecchie altre imprese che lavorano allo sviluppo di sistemi induttivi di carica efficienti. Siemens e BMW per le loro auto elettriche, e la Qualcomm ha recentemente acquisito una piccola compagnia che operava ad un proprio sistema. La Fulton Technologies ha sviluppato una tecnica per far passare il flusso anche attraverso uno spessore di alcuni centimetri di marmo, ad esempio il pavimento di un garage. Alcuni ricercatori stanno ampliando il concetto alla possibilità di ricarica delle auto mentre viaggiano. A Oak Ridge e a Stanford si è lavorato in particolare proprio su questi aspetti. Con un finanziamento federale da 2,7 milioni di dollari alla Utah State University si è realizzato un sistema di ricarica degli autobus a una fermata stradale di Salt Lake City. Nel modello Oak Ridgeci sono 200 spirali inserite nel manto stradale e controllate da un’apparecchiatura unica, ciascuna di queste via via ricarica il veicolo consentendogli di arrivare alla serie successiva a un paio di chilometri di distanza. John Miller, ricercatore della Oak Ridge, calcola che ciascuna serie potrebbe costare meno di un milione di dollari. “Wireless vuol dire comodità, non doversi intricare di cavi di alimentazione, non dover badare al tempo atmosferico. Credo prenderà piede molto in fretta”.
(articolo ripreso dalla MIT Technology Review)
Titolo originale: Right in my backyard: communities wrestle with growth - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Se pensiamo al cosiddetto buon senso urbanistico, c’è quel modo di dire: non provare mai a toccare uno di quei quartieri consolidati di case unifamiliari. E certo con tante altre possibilità – dai centri commerciali abbandonati o quasi, agli ex nuclei di servizi semivuoti, alle zone produttive o ferroviarie dismesse – perché mai bisognerebbe provarci proprio lì? Però qualcuno lo fa, e ci riesce, anche. A Surrey, vivace sobborgo di prima cintura dell’area di Vancouver, Columbia Britannica, in un recente laboratorio partecipato cittadini e urbanisti hanno finito per concordare una mole notevole di nuove cubature nei quartieri. E si tratta di una tendenza coerente a quanto già accade in materia di trasformazioni urbane nel Canada nord-occidentale.
Il laboratorio di pianificazione partecipata, Surrey Sustainable Urban Infill Design Charrette, ha portato i cittadini a porsi una domanda cruciale: come è possibile rispondere a una spinta allo sviluppo che potrebbe potenzialmente raddoppiare la superficie della città nei prossimi vent’anni? Nel corso di una serie di simulazioni, i partecipanti al laboratorio hanno collocato case e attività economiche lungo corridoi serviti dalle attuali linee di trasporto collettivo, o da quelle già previste. Ma al contrario di quanto avviene in occasioni simili negli Stati Uniti, ben un terzo della crescita è stata però inserita nei quartieri esistenti di case unifamiliari. Nel laboratorio la si è definita “densificazione invisibile”.
Perché “invisibile”? Perché è tanto graduale, tanto adattata al contesto, che è possibile distinguerla dal resto studiando molto nei particolari ciascun aggregato residenziale. Le aggiunte prendono forma di appartamenti sopra i garage (a volte si chiamano “alloggio della nonna”), riorganizzazione di edifici molto grandi o molto piccoli di solito al centro degli isolati sulle vie minori. I partecipanti ci sono riusciti senza dubbio anche sulla base degli esempi già esistenti di quartieri nella regione di Vancouver dove la densificazione si sta verificando. Aree dove si è trovato il modo di accogliere la forte domanda di nuovi abitanti, rispettando al tempo stesso il desiderio dei residenti di vecchia data di mantenerne aspetto e caratteri.
Alcuni dei più bei quartieri della città, Kitsilano ad esempio, si compongono di case tradizionali di mattoni a vista, che al proprio interno ospitano, in modo invisibile, tre, quattro, cinque famiglie, dove un tempo ce ne stava solo una. Cambiamenti avvenuti talvolta in modo spontaneo, ma senza troppe discussioni. “La regione di Vancouver è più avanti di vent’anni rispetto al resto del Nord America, nell’accettare la presenza di questi spazi semiabusivi” spiega Patrick Condon, fra gli organizzatori del laboratorio. “Solo nella circoscrizione della città di Vancouver vera e propria sono oltre 50.000. Se non fosse per quelli alle famiglie dei lavoratori mancherebbero quasi del tutto alloggi accessibili”. Ma l’altro motivo per cui i partecipanti erano così disponibili, è che la cosa spontaneamente sta già avvenendo. L’iniziativa non era pubblica, anzi la pubblica amministrazione sembra un po’ inseguire le cose. Ad esempio la Città di Vancouver ha legalizzato gli spazi aggiunti solo nel 2010, così come altre amministrazioni locali dell’area. Osserva Condon come adesso si stia iniziando a farlo anche con gli edifici aggiunti nei vicoli di servizio dei quartieri, quelli che a Vancouver si chiamano anche “corsie”.
L’impulso del laboratorio di Surrey viene anche dall’impegno in tutta le regione a ridurre i gas serra, che provocano il riscaldamento globale, dell’80% entro il 2050: obiettivo non diverso da quello di altre città e cittadine. Alla fine della sessione, esaminando le varie proposte emerse si è rilevata una riduzione notevole di emissioni, soprattutto attraverso le minori distanze da percorrere quotidianamente in auto. Tutti potremmo imparare molto da questo metodo. Gli abitanti dei quartieri spesso si oppongono alle modifiche delle norme urbanistiche quando consentono maggiori densità residenziali. Quando invece è possibilissimo operare in modo più sottile migliorando la qualità dell’abitare. Più densità significa più case e scelte, per chi non ha figli, per i giovani senza famiglia, spazi da cedere in affitto che possono dare un reddito aggiuntivo, più possibilità per i mezzi pubblici, più vitalità dei quartieri e delle zone commerciali con gente nuova. Certo la cosa non vale ovunque, ma in moltissimi casi la si potrebbe scegliere in modo consensuale, presentando le esperienze riuscite altrove.
Titolo originale: Sprawl, Schmall... Give Me More Development - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Forse siete fra coloro che ritengono tutte le parole di quattro lettere sporche e cattive: che dire di quella che ne ha sei di lettere, sprawl?
Per certi personaggi tristi e catastrofici, "sprawl" sta insieme a cose come la peste, la lebbra, le malattie veneree, ma lasciate che ve lo dica: a me lo sprawl piace. Credo che ce ne sia bisogno. Lo facilito. Il territorio della Oakland County ne deve avere di più. Chiaro? Lo sprawl non è il male. Anzi, è il bene. Rappresenta l’espressione ovvia di chi esercita la propria libertà individuale garantita dalla nostra amata costituzione, che tutela chi insegue un sogno, chi sceglie dove abitare, dove lavorare, dove studiare, dove far crescere la famiglia. Smettiamola con questa isteria, e chiediamocelo onestamente: cos’è, lo sprawl? “Sprawl” è il termine peggiorativo che ahimè usano certi decisori pubblici per definire lo sviluppo economico che avviene in zone dove non hanno controllo. Si dice sprawl, ma in realtà si tratta di case, scuole, industrie, uffici, negozi. "Sprawl" è nuovi posti di lavoro, nuove speranze, l’avverarsi del sogno di tutta una vita, il Sogno Americano che diventa realtà davanti ai nostri occhi.
Oggi quando un’impresa decide di investire nell’abbandono di una sede suburbana, e si trasferisce in centro (spesso raddoppiando o triplicando il pendolarismo dei dipendenti), chi è contro il Sogno Americano, i tristi catastrofisti, parlano di “rivitalizzazione economica”, sono entusiasti. Quando invece un costruttore di case, o una famiglia, si trasferiscono nel suburbio questi Anti-Sogno-Americano li condannano. “Sprawl!” sibilano. “È il Male!”. Chiedono leggi, chiedono di sottrare poteri locali, di darli allo stato, per arginare, limitare, evitare, invertire tutto ciò che è crescita fuori dalle città centrali. Vogliono farvi credere che qualunque sviluppo nel suburbio rappresenti la radice di ogni problema in città, nel Michigan o in tutto il resto del paese. Paiono convinti che chi se ne è andato dalle città ha lasciato posti bellissimi, che è stata proprio la loro partenza a provocare tutti quei crimini, le troppe tasse, i servizi inesistenti, un sistema scolastico degradato.
Non facciamoci coinvolgere in questa nuova forma di negazionismo. Sprawl non ha mai voluto dire degrado urbano. Le città decadono perché hanno sprecato le proprie risorse. E sono stati la criminalità, le troppe tasse, le scuole degradate, la mancanza di verde a spingere la gente ad andarsene. I protagonisti dello sprawl, e io sono uno di loro, vogliono solo una casa con giardino in una via tranquilla e ben tenuta, una buona scuola nella propria zona che educhi davvero i figli, un buon lavoro, verde e spazi per giocare, un’amministrazione locale che eroghi effettivamente i servizi per cui chiede le tasse. In altre parole, vogliono qualcosa come ciò che la Oakland County è oggi. Qualcuno degli Anti-Sogno-Americano, particolarmente in malafede, dice che noi la stiamo asfaltando, la Oakland County. Che campi e boschi vengono cementificati dai costruttori, gente orribile che fabbrica casette unifamiliari invece dei palazzoni popolari. Dicono che il nostro territorio, anzi tutta l’America, presto si trasformerà in un gigantesco parcheggio di supermercato. La realtà però nega queste immagini da isterici.
La prima cosa che si può rispondere è che guardando obiettivamente il nostro sviluppo si capisce che non ci sta affatto crollando il cielo sulla testa. La Oakland County soddisfa il cittadino, l’impresa avveduta, l’amministratore locale delle nostre 62 circoscrizioni comunali, che insieme hanno lavorato sugli oltre 2.200 kmq di territorio. Lo dimostra il modo in cui abbiamo usato il nostro spazio. Vediamo: le case unifamiliari, meta delle tantissime famiglie all’inseguimento del proprio Sogno Americano, occupano il 38,5% della superficie. Al secondo posto i terreni liberi, 13,6%. Tutela ambientale (destinazione permanente) e ricreazione 13,3%. Specchi e corsi d’acqua 5,9%; agricoltura 4,2%, industria pure 4,2%, spazi pubblici 3,8%, funzioni commerciali solo 2,1% (resta una quota del 13,4% che comprende diritti di passaggio dei servizi a rete, ferrovie, superfici per abitazioni mobili). Un equilibrio che funziona benissimo! E tra l’altro, secondo una ricerca, il territorio dello stato del Michigan oggi è ancora al 91% rurale. Coi ritmi di urbanizzazione attuali abbiamo ancora circa duemila anni prima di esaurire la superficie dello stato.
Che dire, del fatto che staremmo asfaltando tutta l’America? Beh, la superficie totale degli Stati Uniti è di 9,37 milioni di kmq. Di questi, sono urbanizzati circa 360.000. Vale a dire che non molto più del 3% dell’America si può considerare “costruito”. I costruttori si stanno davvero mangiando boschi e prati con la loro cupidigia? Macché. Oggi in Michigan ci sono più boschi di cent’anni fa. Se diminuisce la superficie coltivata, ciò non si deve alle trasformazioni urbane, ma alla maggiore produttività delle colture. Grazie alle innovazioni tecniche, si possono produrre più cose usando meno terreni. Una grossa percentuale dei nostri prodotti dell’agricoltura oggi viene esportata, e ce ne resta ancora in abbondanza per dar da mangiare a tutto il paese. E infine sfatiamo la leggenda: quanta superficie abbiamo a disposizione? Beh, ascoltate: se ogni uomo, donna, bambino americano fosse obbligato a trasferirsi nel territorio del solo stato del Texas, avremmo ancora a disposizione, ciascuno, una superficie di 2.500 metri quadrati.
Allora, la prossima volta che sentite la parola sprawl, godetevela. Vuol dire solo sviluppo economico. Posti di lavoro. Libertà di scegliere. Si può tradurre letteralmente in qualità della vita. E se qualcuno ve la urla in faccia quella parola, sprawl, guadatelo con attenzione. E spesso vi accorgerete che è uno di quei radical chic che a suo tempo se ne sono andati dalle città. Adesso vorrebbero che qualcuno ci tornasse a prendere il loro posto. Vogliono usare il potere politico ad alto livello per obbligarvi a tornare in un quartiere urbano, in un tipo di case in cui loro non abiterebbero mai. Vogliono obbligarvi alla città per farvi espiare un loro peccato, quello di essersene andati da lì. Se non altro, per favore cercate di tenere ben presente che si parla di una “cosa”. Questa “cosa” è oggetto di forte concorrenza. Questa “cosa” è fra le più ambite del paese. Questa “cosa” vuol dire sviluppo economico. Chi non può averla, e ce ne sono, la considera il male, la chiama “sprawl”. Chiediamocelo: se fa tanto male, perché tutti la vogliono, perché fanno a gara per averla, perché per attirarla si fanno concessioni fiscali, si danno incentivi, si istituiscono zone speciali? La risposta la conoscete benissimo.
Non c’è che dire. Anche al netto dell’ovvia difesa del proprio fazzoletto di potere e prestigio locale (contro il classicissimo invadente “big government”) una bella montagna di sciocchezze, qualitative e quantitative insieme. Del resto in piena sintonia con quanto già riportato su questo sito a proposito delle posizioni più diffuse ormai anche ad alto livello tra i politici conservatori. E certo non limitate all’America profonda, basta pensare al senso concreto economicista della riforma urbanistica britannica, o alla cultura maggioritaria di altri paesi, Italia al primo posto, dove costruire sempre e comunque è sinonimo di progresso e ricchezza. Se vogliamo leggere un messaggio positivo anche in questa montagna di falsità e ideologie, però, è che calcando i toni oltre un certo limite non si va da nessuna parte: né dipingendo ogni trasformazione con le tinte rosee del sogno familiare, né urlando di continuo alla colata, all’ecomostro eccetera. Non perché sia di cattivo gusto (lo è, ma non importa): fa solo il gioco dell’avversario, rendendo ridicole le idee che si vorrebbero promuovere (f.b.)
Titolo originale: At Charlotte's New Walmart, a Transit Promise Unfulfilled - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
A fine estate 2009, dopo anni di attesa, la Walmart presentava un progetto di superstore nell’area di un ex centro commerciale abbandonato a East Charlotte. La città era stata duramente colpita dalla crisi del 2008, e molti, amministratori e non, vedevano questo arrivo sia come una possibilità occupazionale, sia come un segnale di ripresa per l’economia locale. Immaginavano, anche, si potesse trattare di un primo passo verso uno sviluppo urbano più sostenibile: “Credo ci sia l’occasione concreta per sperimentare e poi ampliare un sistema di transit oriented development. Il primo intervento ne attirerà altri” spiegava la consigliera Nancy Carter.
Sono passati due anni e mezzo, e una parte della promessa è stata mantenuta. A fine gennaio Walmart ha aperto con gran pubblicità un negozio su 13.500 metri quadrati. Creando 250 posti di lavoro, e il sindaco di Charlotte, Anthony Foxx, cita addirittura la famosa frase dell’allunaggio: “è un piccolo passo per il commercio, ma un grande balzo per tutta la fascia orientale di Charlotte”. Scusate se è poco. Però tutta la parte che riguarda il quartiere TOD orientato ai mezzi pubblici sta ancora aspettando. Invece di transit-oriented development, gli abitanti di East Charlotte vedono solo un intrico di traffico e congestione, come dimostrano parecchi articoli e studi. Il nuovo Walmart sta su Independence Boulevard appena a est di uno svincolo, e appena a ovest di un grosso incrocio con Albemarle Road. Anche se si chiama boulevard, l’Independence non è affatto un viale un po’ accogliente per i pedoni, ma una fragorosa superstrada a sei corsie.
Il che significa automobilisti che escono dal parcheggio del Walmart e si devono immettere nel flusso veloce, con altri diretti verso la Albemarle a spostarsi di varie corsie molto rapidamente, giusto il tempo che ci vuole e pronunciare la parola “offerte speciali”. Gli abitanti del vicino quartiere Amity Gardens lamentano il traffico delle auto verso l’ingresso posteriore del magazzino. Chi sperava che i mezzi pubblici potessero far qualcosa per allentare la congestione, per adesso dovrà sperare ancora: gli autobus che passano sull’Independence provenienti dal centro di Charlotte tirano dritti verso Sharon Amity Roar, parecchie centinaia di metri più in là, insomma non c’è alcuna fermata per il negozio. Per essere giusti, i responsabili cittadini dei trasporti spiegano ai giornalisti che entro il mese prossimo la fermata dovrebbe esserci.
Cosa semplice sul lato dell’Independence dove sta Walmart, ma sull’altro lato della freeway? Per fare le cose in piena sicurezza ci vorrebbe un attraversamento pedonale perfetto, con sei corsie di forte traffico: cosa improbabile, e comunque non di breve periodo. Il che significa per chi arriva dall’altra direzione cercarsi un punto di attraversamento sicuro a un’altra fermata, magari cambiando mezzo. Non è certo una cosa de genere che pensano gli urbanisti immaginando un transit-oriented development. Cos’è accaduto? La risposta più immediata è: la recessione. Charlotte si era dotata di un ambizioso Programma Trasporti Pubblici 2030, con tanto di strumenti di finanziamento sottoscritti dagli elettori, attraverso le imposte commerciali, una quota di mezzo centesimo. Ma con la crisi è crollato anche quel gettito, e dopo la realizzazione della metropolitana leggera Linea Blu si sono rinviate le altre (si sta almeno cercando di finanziarne una offrendola anche al trasporto merci).
Fra i progetti rinviati, la Linea Argento, sedici fermate di autobus veloce (o metropolitana leggera) per venti chilometri circa a trasportare 15.500 persone al giorno lungo Independence Boulevard. Progetto rinviato, certo, non abbandonato. Nella versione del nuovo piano cittadino approvata a maggio c’è ancora la Linea Argento come componente essenziale della trasformazione dell’area Independence Boulevard. Se si realizzerà, Walmart dovrebbe avere una fermata giusto davanti (il puntino sulla mappa sta a Amity Gardens): un giorno, forse, East Charlotte Walmart farà da traino a un vero transit-oriented development che interessa tutto il corridoio, come credeva fermamente l’amico Kaid Benfield. Per adesso però le cose appaiono molto diverse, la città pare avere un rapporto contraddittorio con lo spirito del programma trasporti pubblici.
Come scrive il quotidiano Charlotte Observer, si dovrebbe addirittura ampliare ulteriormente l’Independence Boulevard:
“Il tratto di strada dove oggi c’è Walmart ha visto chiudere parecchi esercizi, man mano l’Independence veniva allargato e diventava un’arteria a scorrimento veloce. Cosa che rende difficile accedere alle attività. Col progetto di ampliamento in corso il viale diventa un’arteria veloce per altri due chilometri fino a Wallace Road. Il che ha già fatto chiudere attività come Compare Foods o T.J. Maxx dentro all’Independence Shopping Center all’altezza della Idlewild Road, e anche demolizioni fra le vie North Sharon Amity e Idlewild. Alla fine per la superstrada saranno circa trenta gli esercizi demoliti”.
Insomma, gran cosa che a East Charlotte sia potuto arrivare un nuovo Walmart, e da qui a un po’ di anni gli abitanti magari considereranno quell’apertura come il momento in cui è iniziata la ripresa, e anche la trasformazione urbana per il meglio. Ma per ora c’è solo un enorme contenitore commerciale, con davanti un immenso parcheggio, e una superstrada che attira macchine invece che soprattutto trasporti pubblici, mentre prima del programma di quei trasporti, per cui scarseggiano i fondi, si allarga ancora la superstrada. È un transit-oriented development? A me pare l’ennesimo Walmart.
Titolo originale Suburbs get helping hand in stabilizing neighborhoods - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sono sei le circoscrizioni suburbane dell’area di Chicago che sono state individuate nell’erogazione dei 55 milioni di dollari, divisi tra fondi statali e di contea, per la stabilizzazione dei quartieri colpiti dai pignoramenti attraverso il recupero delle abitazioni lasciate vuote. Ancora da capire nei particolari, il Building Blocks Pilot Program, riguardo alla scelta specifica degli immobili e all’albo degli operatori. E comunque le sei municipalità — Berwyn, Maywood, Park Forest, Riverdale, Chicago Heights e South Holland — si aspettano molto per il proprio territorio da questa possibilità di recupero, che può interessare sino a 500 case. “Cerchiamo di concentrarci su quartieri ancora in bilico sull’orlo del degrado, orientandoli nella direzione giusta” spiega Hildy Kingma, responsabile per urbanistica e sviluppo locale di Park Forest. “Ogni casa che torna in uso aiuta, e aiuta molto, un’intera via”.
Secondo il programma, un sistema integrato di fondi statali e di contea (Cook County) contribuisce al sostegno per l’acquisto e il recupero di immobili pignorati e vuoti d parte di operatori privati. È però il singolo cittadino proprietario a poter chiedere di accedere al sostegno per andare ad abitare nella casa risistemata, o in altre della stessa circoscrizione. Le sei aree sono state scelte sulla base del numero di pignoramenti, la situazione del patrimonio immobiliare locale, eventuali precedenti programmi sulla crisi della casa, e prospettive occupazionali visto che in assenza di lavoro non ci si compra certo un’abitazione. “Abbiamo verificato le situazioni e ci siamo sommati a un insieme di investimenti già in corso in quelle stese aree” racconta Mary Kenney, direttrice esecutiva della Illinois Housing Development Authority, ente di supervisione del programma. “Abbiamo cercato in particolare quartieri con trasformazioni già in corso e una forte collaborazione municipale”.
Nel 2009, Chicago Heights ha speso 500.000 dollari del comune per finanziare un programma di anticipi che ha portato alla vendita di 67 alloggi. Ma finiti quei soldi è finito anche il programma, lasciando 15 richieste inevase, così adesso il sindaco David Gonzalez spera di riprendere da dove ci si era fermati: “È l’unico modo per farcela”. La sfida, come sottolinea la signora Kenney, è di far capire quanto le acquisizioni nel momento attuale di mercato siano essenziali nei quartieri in difficoltà. I potenziali acquirenti temono un calo dei valori immobiliari e del proprio investimento, e il fatto di avere tante case pignorate e degradate in quei quartieri li allontana ancora di più. E secondo la Kenney in alcuni casi si potrebbe anche ricorrere alla cessione in affitto.
“In qualche modo è piuttosto semplice acquistare in questa fase del mercato, e poi recuperare” spiega Ed Jacob, direttore esecutivo della Neighborhood Housing Services di Chicago, associazione senza scopo di lucro che ben conosce tutti i problemi legati alle case pignorate e da restaurare. Operano da più di otto anni, ma di case ancora da vendere, pur restaurate, ne restano ancora parecchie. E negli ultimi due anni l’associazione è diventata padrone di case che cede in affitto, contribuendo così a mantenerle in ordine, produrre un reddito, rispondere a una domanda di inquilini che esiste. Per ora è sospesa l’acquisizione di immobili da recuperare. “In realtà noi preferiamo vendere in proprietà, ma riconosciamo che al momento non ci sono acquirenti a sufficienza, soprattutto nei quartieri più colpiti” conclude Jacob. “Stabilizzare davvero le aree significa usare le case”.
La cosa che forse colpisce di più in questo breve resoconto di un caso locale (ma ce ne saranno decine di migliaia simili in tutto il paese) di intervento pubblico a sostegno dei quartieri, è la totale assenza di riferimenti a virtuose politiche urbanistiche in cambio dei finanziamenti. Eppure sia presso la Casa Bianca che il Ministero per la Casa sono stati attivati uffici di coordinamento che dovrebbero proprio sovrintendere a questi aspetti: va bene, finanziamo indirettamente le stesse banche che hanno prodotto il guaio, ma vediamo di non ripetere almeno quello socio-territoriale delle densità ultra-rarefatte, del principio della casa singola in proprietà come unico sbocco (che promuove, è il caso di sottolinearlo, la monofunzionalità e segregazione), insomma tutti i difetti più evidenti della dispersione urbana. Dove è finita la cultura del cosiddetto “suburban retrofit” di cui traboccano sia le riviste di area che le dichiarazioni pubbliche? Certo, l’articolo è pubblicato dalle pagine immobiliari del Chicago Tribune, e un punto di vista privilegiato a quegli aspetti era scontato. Ma saltare a piè pari le pur ampiamente pubblicizzate politiche di densificazione, diversificazione funzionale, adeguamento ambientale e dei trasporti (che ad esempio si legano al godimento in affitto) indica almeno una cosa: il mondo immaginario new urbanism è ancora soprattutto un giocattolino per chi se lo può permettere (f.b.)
Titolo originale: Breaking the urban bottleneck - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La Cina deve risolvere il problema dei lavoratori migranti aiutandoli il più possibile a diventare cittadini regolari e permanenti. Secondo i dati 2011 dell’Ufficio Censimento la popolazione urbana del paese ha raggiunto il 51,7% di quella totale, superando quella rurale per la prima volta nella storia. Si tratta di un passaggio critico per l’urbanizzazione cinese. Da ora in poi è necessario promuovere anche la qualità, e non solo la quantità, di questo processo. A tale scopo occorre concentrarsi sul trasformare gli ex contadini in cittadini a tutti gli effetti, non solo lasciarli andare nelle città. La grossa sfida è rappresentata dai lavoratori migranti, che hanno raggiunto la quantità di ben 242 milioni e ancora crescono. Sono loro la forza che ha reso possibile l’urbanizzazione: una recente indagine dimostra che hanno contribuito per il 34% a Pechino, per il 30% a Shanghai, in settori come le costruzioni.
Ma nonostante le città siano state costruite sul sudore del loro lavoro, queste persone non sono davvero formalmente cittadini, lì dove operano. Ciò perché lo hukou, permesso di residenza permanente, risulta registrato altrove. Abbiamo ascoltato sin troppe storie di migranti discriminati su questa questione della residenza urbana, e non devono accadere più. Solo per fare alcuni esempi di servizi base da cui sono in tutto o in parte esclusi: istruzione dell’obbligo, assistenza pensionistica, assicurazione sanitaria, salario minimo, case popolari. Una discriminazione che già allarga il divario fra migranti e cittadini, e che ha determinato disordini di massa in alcune province, come a Guangdong. Gli amministratori devono intervenire su questo problema anche per impedire il ripetersi in futuro di indicenti del genere.
La discriminazione non è solo un’ingiustizia sociale, ma anche un ostacolo alla stessa urbanizzazione, dato che rallenta gravemente la domanda interna diminuendo la capacità di consumo dei lavoratori migranti. Uno studio del 2010 mostra come il coefficiente di Engel – percentuale della spesa familiare alimentare sul totale – dei migranti supera il 50%, il che restringe sia la disponibilità che la possibilità di consumo, limitando così la domanda interna. Quindi se vogliamo incrementare l’urbanizzazione dobbiamo risolvere il problema dei migranti, facendoli diventare pienamente cittadini dei luoghi in cui abitano, con accesso a servizi e diritti.
Il governo centrale si è occupato di questo problema nella Conferenza per il Lavoro e l’Economia del 2011. Nel documento conclusivo, si afferma che i lavoratori migranti diventeranno gradualmente residenti urbani, risolvendo così le difficoltà per istruzione, casa, salute. Un intervento adeguato, che potrebbe ridurre le distanze fra abitanti delle città e delle campagne. In realtà molte amministrazioni regionali già hanno preso provvedimenti per fornire a queste fasce di popolazione alcuni servizi. Ad esempio in alcune circoscrizioni delle province di Guangdong e Zhejiang, o Shanghai, c’è l’assicurazione, come per i cittadini regolari. In certe città come Nantong, provincia Jiangsu, si è provato con le case popolari. Ma per affrontare complessivamente il sistema hukou, va riformata la divisione cinese fra città e campagna, superati squilibri e diseguaglianze. Però localmente non si possono fare grossi progressi perché lo hukou dipende dal governo centrale. Che ha toccato il problema nel 2009 e poi nel 2011, ma occorre fare di più per le riforme.
Intervenendo sullo squilibrio, le città devono cambiare altre politiche discriminatorie fra cittadini e migranti. La cosa più importante è di garantire ai figli di questi ultimi occasioni per studiare, evitando che lo squilibrio diventi ereditario tra le generazioni. Certo trasformare gli ex contadini in veri cittadini necessità di un enorme programma a coinvolgere decine di milioni di persone, cosa che non può essere fatta in pochissimo tempo. Occorre agire gradualmente, dando priorità agli aspetti più urgenti. Le metropoli come Pechino o Shanghai già hanno una popolazione molto numerosa, quindi sarà importante orientare flussi verso le città piccole e medie. Ma perché in Cina il processo di urbanizzazione proceda senza intoppi lo Stato deve mantenere la sua promessa di trasformare i migranti in cittadini a tutti gli effetti.
Titolo originale: Zimbabwe: Urban Well-Drilling - Ticking Time Bomb - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
“L’amministrazione di Chitungwiza non ci fornisce l’acqua, spesso siamo obbligati a star senza per una intera settimana. Questo problema ci ha obbligato a scavarci dei pozzi, e chi non ne ha ancora uno in casa sicuramente sta cercando i soldi per riuscire a farselo” racconta Priscilla Simuka, un’arrabbiata abitante della zona Unit J. Spiega che qui non si ha altra scelta che scavarsi un buco alla ricerca di fonti d’acqua alternative, dato che il servizio del comune non esiste. Isaac Nyamambititi dell’area Unit M di Chitungwiza aggiunge: “Ho capito quanto obbligavo a fare a mia moglie, che portava l’acqua da pozzi sparsi attorno alla città, per lavarci e fare il bucato. Scavarcene uno ha significato sollevarla da tanta fatica, visto che l’amministrazione ci nega l’acqua. Spesso si resta una settimana senza, e il pozzo è l’unica possibilità per avere acqua potabile sicura. Diamo anche ai vicini la possibilità di prenderne, dal nostro pozzo”
Una rapida verifica nell’area Unit J conferma che la maggior parte delle case della cittadina, a 33 chilometri da Harare, è dotata di pozzo interno al cortile di circa 300metri quadrati. La signora Daisy Choto di Mabvuku racconta come scavarsi un pozzo per lei ha significato aver tempo per riposare dopo una dura giornata di lavoro in un negozio della capitale Harare. “Scavare il pozzo mi ha migliorato molto la giornata, perché dopo il lavoro non devo più andare col secchio fino alla fonte più vicina, dove c’è sempre una lunga coda. Adesso ho tempo per riposare, o fare altre cose” spiega una entusiasta Daisy.
Un escavatore di pozzi abusivo, che dice di chiamarsi Joseph Matambo, dice che queste carenze municipali sono un ottimo affare per chi lavora nel settore. “C’è tantissimo da fare per noi a Chitungwiza e in altre zone fuori da Harare, perché gli abitanti si fanno scavare pozzi in casa come alternativa a quei rubinetti sempre asciutti” racconta Matambo. “Il nostro gruppo è composto di tre persone, impieghiamo circa quattro giorni per trovare il punto giusto per scavare il pozzo e finire il lavoro”. A sentire Matambo si spendono 200-250 dollari Usa, a seconda delle modalità di pagamento concordate col cliente. “Noi scaviamo e il cliente è soddisfatto. Siamo entrati in uno spazio in cui il comune non risponde agli abitanti”.
Il rappresentante di Environment Africa Barnabas Mawire commenta che molto probabilmente l’acqua di questi pozzi non è affatto di buona qualità, e dovrebbe essere bollita prima di consumarla. “Si dovrebbe trovare il punto più adatto e verificare meglio, prima di scavare, per le valutazioni ambientali e di rischio idro-geologico. Importante conoscere la posizione delle acque sotterranee, la loro quantità, prima di fare scavi per un prelievo”. Mawire aggiunge che l’acqua dovrebbe essere prima esaminata per verificarne la qualità, se potabile o meno. Scavare pozzi a caso favorisce una più rapida circolazione degli inquinanti verso la falda sotterranea. Il dottor Prosper Chonzi, direttore dei servizi sanitari dell’amministrazione cittadina di Harare, spiega che è vero, in molti casi non si riesce a rifornire d’acqua gli abitanti, e così si chiude un occhio su chi in tante cittadine scava pozzi. “Le amministrazioni non possono avere un atteggiamento punitivo perché non riescono a erogare acqua. Sembrerebbe che tolleriamo questo scavo illegale di pozzi, ma siamo invece privi di possibilità di intervento perché sono cose che nascono da carenze nostre. Scavare pozzi è un’attività che deve essere regolamentata dall’amministrazione, seguire una procedura adeguata per stabilire se la posizione è giusta, se non si toglie l’acqua ad altri. Oggi gli abitanti che scavano buchi senza autorizzazione dovrebbero essere multati, in teoria”.
Una rappresentante dell’Ente Idrico Nazionale dello Zimbabwe, che chiede di restare anonima, spiega che gran parte dei pozzi nelle aree residenziali non sono sicuri per l’approvvigionamento d’acqua, a rischio di essere inquinati. “Certo il servizio di fornitura attuale che offrono è di bassa qualità, con gli scarichi fognari che filtrano”. Anche il loro prosciugarsi piuttosto in fretta si deve, secondo la funzionaria, alle pessime valutazioni preliminari prima dello scavo. E ci sono anche dei problemi di possibile crollo dello scavo, con rischi per gli abitanti delle case.
Titolo originale: NM farm, ranch museum adjusts to urban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
LAS CRUCES, New Mexico — Nei ranch da queste parti c’è un paio di semplici regole da seguire: non mancare alla parola data, non cercare di fare il furbo quando arriva il tuo turno di sistemare il fieno, ma soprattutto non dar mai – assolutamente mai – da mangiare le patatine al bestiame. “Certo hanno un buon sapore, loro le mangiano, ma non gli fanno bene” spiega Mark Santiago, direttore del New Mexico Farm & Ranch Heritage Museum sulla Dripping Springs Road fuori da Las Cruces. Coi nuovi quartieri che arrivano a lambire i terreni del museo, anche la vita di campagna deve adesso adattarsi a quei curiosi cittadini che sbirciano dentro al ranch. Così Santiago deve stare a pensare alle patatine — che qualcuno ha offerto al bestiame — o alle carte di caramelle, e a tutta la serie dei rischi che corre la gente di città incontrando le bestie, mentre attraversa la tenuta di 19 ettari dedicata alla memoria di tremila anni di storia dell’allevamento in New Mexico.
Quando il museo ha aperto nel 1998 era circondato da spazi aperti. “Adesso siamo circondati da edifici” continua Santiago, indicando dal sentiero sabbioso i quartieri circostanti che confinano con quella che era una zona totalmente isolata. L’unica soluzione adesso sarebbe di costruire una recinzione tutto attorno al ranch per controllare gli incontri fra la gente e il bestiame, soprattutto i ragazzini che ci passano attraverso e potrebbero pensare di scavalcare le palizzate che già ci sono per avvicinarsi di più agli animali. “Il nostro timore è che con sempre più spazi residenziali e attività varie che crescono attorno al museo, finiremo per diventare un’isola rurale in un oceano urbano”.
A agosto si è inaugurata la scuola superiore Centennial — migliaia di studenti, personale e altri addetti che si muovono a qualche centinaio di metri di distanza – e chi lavora nel ranch spera che almeno con una recinzione si possa evitare una tragedia, se qualche studente volesse avventurarsi nella zona delle stalle. La scuola una recinzione d’alluminio ce l’ha, ai margini, ma oltre c’è il deserto senza alcun ostacolo, fino alle palizzate dietro le quali si trova il bestiame. “La gente non capisce quanto sono pesanti”, racconta Greg Ball, responsabile di gestione, e si riferisce ad alcuni degli animali del ranch. Abbiamo qui un toro che pesa circa una tonnellata e mezza. Per quanto tu gli possa voler bene, basta che faccia un movimento sbagliato e ti schiaccia, fine del divertimento”.
I responsabili del museo si sono rivolti all’Ufficio Cultura – quello che dà i finanziamenti – per costruire la recinzione. A luglio l’ufficio ha presentato alla commissione finanze statale una richiesta di complessiva per tutto il territorio di 16 milioni di dollari, spiega la responsabile Anne Green-Romig, nella quale erano compresi i 750.000 per la recinzione di sicurezza “spiegando chiaramente il motivo e il contesto” precisa. Ma da qui alla scadenza del governo il 16 febbraio la distribuzione dei finanziamenti può modificarsi: “Si sa quello che entra, ma non quello che esce”. Anche se si dovesse finanziare tutto quanto, il governatore potrebbe comunque esercitare un diritto di veto condizionando i finanziamenti. Dopo l’erogazione c’è ancora aperto l’equilibrio nella distribuzione dei fondi nel territorio dello stato. Dave DeWitt, presidente del comitato da cui dipende il Farm & Ranch Heritage Museum, è convinto che quel recinto sia “una questione di sicurezza da risolvere ora, non da rinviare. Animali grossi, pericolosi, voglio evitare che qualcuno si faccia male. Vogliamo che il nostro museo non danneggi nessuno”.
Aggiunge il direttore Santiago: “C’è un toro da una tonnellata e mezza, e un ragazzino da cinquanta chili scarsi: chi vince? Questo è il nostro problema”
Titolo originale: Can retrofit enhance urban ecosystems? - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Piace a tutti avere una camera con vista, ma quando pensiamo al futuro di un edificio di solito ci scordiamo del tutto il mondo che sta oltre le pareti. Ci soffermiamo sul manufatto in sé – fondamenta, pavimenti, cavità, crepe – isolandolo dal contesto che lo circonda. Mentre invece il suo funzionamento più o meno efficiente dipende moltissimo dalle condizioni esterne. La progettazione più attenta diventa parte attiva dell’ecosistema locale: si sfrutta il calore del sole, si favorisce il flusso di aria fresca, si trae vantaggio dalle piante o dalle alture come schermi. Si restituisce anche qualcosa: piccoli habitat per la fauna, deflusso acque piovane, verde per mantenere fresco un denso isolato urbano.
Il valore degli ecosistemi locali per le aree urbane inizia solo ora ad essere riconosciuto. Una recente ricerca condotta a New York City rileva che il valore degli alberi può essere calcolato in 122 milioni di dollari, per il ruolo nella riduzione dell’inquinamento, il miglioramento estetico, il mantenimento delle temperature nei quartieri a livelli accettabili. Si tratta però di “servizi” raramente presi in considerazione quando si progettano adeguamenti alla struttura urbana. Mentre una loro rigorosa valutazione potrebbe accompagnarsi a tantissimi aspetti, per i potenziali di risparmio energetico, riduzione dei costi, e magari non si tiene conto dei vantaggi di un tetto verde. Si riducono gli impatti per il pianeta controllando le emissioni, e non si calcola quanto costa sigillare una mansarda per i pipistrelli del quartiere.
Un’occasione persa. Se diamo uno sguardo di insieme, capiamo quanto alcune azioni siano di benefizio sia alla città che all’ambiente naturale. I tetti verdi ad esempio. Non solo isolano un edificio come un’imbottitura, ma gestiscono anche il deflusso delle acque piovane, rinfrescano l’ambiente del quartiere, aiutano la vita di preziosi impollinatori e altra fauna. La vegetazione riesce a prolungare la vita attiva in piena efficienza di un tetto, riducendo le sollecitazioni sui materiali caratteristiche dell’erosione e degli agenti atmosferici.
Il rovescio della medaglia è il costo di installazione, in certi casi fino al doppio di un tetto normale. Un anticipo che però si può ripagare coi risparmi energetici. In alcuni progetti l’aria condizionata si è tagliata di un terzo, secondo Paul Mankiewicz, direttore esecutivo dell’Istituto Gaia, centro studi ambientali di New York. Seimila metri quadrati di tetto verde al Canary Wharf, Londra, hanno fatto risparmiare enormi somme per il riscaldamento. Secondo l’amministrazione dell’edificio al numero 10 di South Colonnade, sede della Barclays Capital, col nuovo tetto si riesce a ridurre praticamente a zero la necessità di riscaldare o condizionare l’ultimo piano “e risparmiamo quattro o cinquemila sterline l’anno”. A Singapore, il grande ospedale Changi ha scoperto che le verdure coltivate idroponicamente sui tetti non solo possono essere portate in tavola ai pazienti, ma assorbono il calore dei reparti interessati. Quei risparmi sulle bollette si possono curare meglio i pazienti. E l’energia non è l’unico vantaggio economico del tetto verde. Migliora la produttività e riduce il turnover dei dipendenti degli uffici urbani: il fenomeno si chiama “biofilia”.
Otto piani sopra al fragore della Avenue of the Americas di New York, c’è una piccola foresta di trifoglio, file d’erba e fiori che mostra lo scorrere delle stagioni. Un terrazzo di copertura opera dello studio di architettura Cook+Fox. Attraverso le finestre i dipendenti guardano libellule e farfalle svolazzare sui fiori colorati che spuntano là dove prima c’era una desolante nera copertura catramata. Uno strato di colore che cresce dai sacchi di plastica per terriccio chiamati Green Pak. Riempiti di una miscela di ghiaia e compost, sono più leggeri del classico tetto a verde, i cui strati di terriccio e filtrante richiedono strutture portanti rinforzate. E poi costano la metà: 100 dollari al metro quadrato anziché 180-200. I committenti sostengono che questa realizzazione, completata nel 2006, è uno dei migliori investimenti mai fatti. Magari al settimo piano ci si guadagna dall’effetto termico di quella copertura, però il progettista Rick Cook dice che il suo studio ci guadagna per via del panorama.
Anche altri si sono accorti del potenziale di un ambiente artificiale ma bio-diverso per migliorare i profitti. British Land, il principale costruttore del Regno Unito, ha progettato una “collana verde” attorno al centro commerciale di Teeside – nel quadro di un intervento di modernizzazione del complesso da 26.000 sterline – che comprende un ambiente per le lontre, laghetti, arbusti, casette per gli uccelli. “La gente si sente più vicina alla natura e ci lavora meglio”, spiega Sarah Cary di British Land. Ma aggiunge che è difficile giustificare questi investimenti a bilancio. “Purtroppo, il valore [percepito] è prevalentemente sociale”, commenta. Rafael Marks dello studio di architettura Penoyre & Prasad concorda: “Nel modo in cui si gestiscono preventivi progetti realizzazioni la biodiversità finisce per essere la cugina povera. Tutto dipende dalla discrezione del committente”.
Al momeno, Marks sta lavorando al rifacimento per un centro giovani di una vecchia centrale dismessa di smistamento elettrico dentro a un parco londinese. La nuova funzione sarà di educazione ecologica, e quindi si tratta di un’ottima occasione per rendere complementare l’edifico all’ambiente circostante. Una delle soluzioni è la luce dall’esterno attraverso una specie di “palpebra”, a contenere quell’inquinamento luminoso che può rivelarsi micidiale per i pipistrelli. Quando tramonta il sole i pipistrelli escono a caccia, ma con sempre più luci artificiali nelle aree urbane spesso non si accorgono esattamente di quando arriva il crepuscolo. “Le luci si devono mantenere il più possibile tenui, certo nei limiti di sicurezza di uscire nel parco”, spiega Marks. Il complesso avrà anche tetti verdi, riciclaggio delle acque grigie, massimo sfruttamento della luce solare all’interno.
Restiamo però ai pipistrelli. Il cui numero è nettamente diminuito da quando si è presa l’abitudine di convertire mansarde e sigillare in genere gli edifici. Il Bat Conservation Trust raccomanda di lasciare un varco da 10 cm nei solai: sufficiente all’ingresso degli animali e importante per la ventilazione. Se deve anche evitare di seppellirli vivi nelle pareti cave totalmente isolate, lasciando spazio per uscire. In un progetto di trasformazione ci si è dovuti confrontare con un intero stormo di civette che abitavano in un granaio del XVIII secolo. “Per la conversione di quel granaio vicino a Cambridge abbiamo realizzato uno spazio per civette in ciascun abbaino del tetto”, ricorda Katie Thornburrow di Granta Architects, specializzati in progetti sostenibili. Il committente, Chris Bristow, si sente “lusingato dall’avere queste magnifiche creature in casa. Ci sono costati [gli spazi per le civette] nell’ordine di qualche centinaio di sterline”.
Pare piuttosto economico, ma si tratta comunque di interventi di nicchia se non ci sono stimoli economici chiari per i progettisti. “Siamo onesti”, osserva Stuart Wykes, direttore aggiunto a Lafarge A&C Gran Bretagna. “Le attività edilizie e di escavazione sono per loro natura impattanti sull’ambiente. Sono però anche un’occasione per creare nuovi ambienti e habitat: a volte migliorare ciò su cui si lavora. Dal nostro punto di vista, si inizia il ripristino quando si comincia ad eliminare materiale”. Difficile non essere d’accordo. Il problema è se conservazionisti e investitori con interesse per l’ambiente riusciranno a capire in pieno l’occasione che rappresentano questi interventi per riportare armonia fra città e preziosi ecosistemi. Oppure tutto il nostro impegno per ridurre le emissioni si risolverà contro la vita nei quartieri?
Titolo originale: Why Portland's Public Toilets Succeeded Where Others Failed - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Per gli abitanti di Portland, Oregon, una capatina al gabinetto pubblico non è solo questione di bisogno: è un vero e proprio atto di orgoglio cittadino. Tutto per via del Portland Loo, particolarissimo gabinetto da strada brevettato, che ispira ai suoi appassionati un’adorazione tale da far pensare che l’abbia inventato Steve Jobs in persona. Un’adorazione che regge nonostante quel servizio attivo 24 ore su 24 sia progettato per essere il più possibile inospitale. Un gabinetto certo non fatto per essere amato, ma che a Portland è di sicuro il Numero Uno (probabilmente anche il Numero Due). Un più che prosaico ricettacolo di rifiuti umani che è dotato di proprio blog, account Twitter, pagina Facebook. Qualcuno che odia i gabinetti a giugno ne ha incendiato uno, solo per provocare un vero e proprio assalto a Facebook. “Portland Loo è rock! Quale altra città può vantare gabinetti pubblici a prova di incendio?” scrive Laura Mears, e aggiunge Charlie Clint “Lo raccomando a tutti quelli che incontro: straordinario quanto sia solido! (woo hoo)”.
Una recensione del nuovo gabinetto in Jamison Square pubblicata da Yelp è intitolata “Mitico” e trabocca di amore. “Credo proprio che passerò da lì a lasciarci un ricordino al più presto” scrive Andrew C. Il 31 gennaio l’amministrazione di Portland tiene a battesimo il quinto gabinetto della città, all’incrocio fra Couch Street e l’Ottava Avenue, con un inaugurale colpo di sciacquone. Arricchito dai lavori artistici della vicina scuola elementare Emerson, potrebbe anche diventare il più famoso di tutti. Ma come sono riusciti questi piccoli bugigattoli di metallo e plastica, che magari puzzano pure on po’ di orina, a diventare un oggetto di culto fra gli appassionati di Portland? Facile: non sono dei pasticci come successo in altre città. Basta pensare ad esempio ai gabinetti da strada autopulenti di San Francisco. Subito carichi di problemi di manutenzione, sin da quando si sono inaugurati nel 1995. Qualcuno non funziona proprio, altri puzzano al punto che qualcuno li ha paragonati alla carcassa di un bisonte morto da una settimana.
Poi ci sono i bagni automatici di Seattle: un vero disastro. L’amministrazione avrebbe speso meglio quei cinque milioni di dollari anche pagando l’ingresso con consumazione a un locale Starbucks. Erano progettati in modo che chiunque poteva chiudersi dentro, trasformandoli nel proprio reame. La spazzatura si accumulava sul pavimento rendendo inutile il sistema automatico di pulizia. Alla fine dell’esperimento, nel 2008, anche i tossici avevano smesso di usare i gabinetti di Seattle. Volendo li si può ancora comprare a prezzi stracciati su eBay. Quando qualche politico a Portland ha cominciato a pensare a un proprio esperimento di gabinetto da strada, la prima cosa è stata quella di dare un’occhiata alle macerie fumanti delle altre varie esperienze simili della West Coast, prendendo accuratamente appunti. “Abbiamo considerato quello di Seattle come percorso da non seguire” ricorda Anna DiBenedetto, collaboratrice dell’assessore Randy Leonard, padre spirituale del Portland Loo. “Siamo convinti che l’errore fatale lì sia stato il tipo di progettazione. Cercare comodità e riservatezza fa sì che la gente poi si senta autorizzata a comportamenti scorretti, quelli soliti nei gabinetti pubblici”.
Così nel 2006 l’assessore Leonard ha riunito un super elitario Gruppo Gabinetti, a cui apparteneva anche il progettista di punta Curtis Banger, per realizzare il modello perfetto per la gente. Si è lavorato senza sosta – salvo quando si andava in bagno naturalmente, anche se non era un bagno perfetto – per ideare uno spazio interno in grado di scoraggiare soste troppo lunghe, anzi di spingere ad andarsene il più in fretta possibile. E due anni più tardi, il duro lavoro ha finalmente partorito il primo Portland Loo del mondo, collocato nel Vecchio Quartiere-Chinatown. Nonostante fosse proprio di fianco a una stazione degli autobus Greyhound, ad oggi resta ancora lì: una resistenza che si può attribuire senza dubbio all’idea base di spazio difendibile. “La cosa che ci mette un passo avanti rispetto ad altri tipi di gabinetto, è aver capito quanto alla gente piaccia far cose tremende” nei bagni pubblici, spiega la DiBenedetto. Così il Portland Loo è attrezzato di una serie di accorgimenti proprio per controllare certa utenza degenerata:
• Niente acqua corrente all’interno: “C’è gente, i senza casa per esempio, che usa i lavandini per farci il bucato” spiega la DiBenedetto. Così niente lavandino, solo un cannello esterno da cui esce acqua fredda.
• Niente specchio: La gente gli specchi spesso li rompe. Anche più di frequente se non trova acqua corrente a portata di mano.
• Sbarre sopra e sotto: Fa sembrare il gabinetto una specie di gabbia per gorilla, ma si tratta di aperture che possono rivelarsi di grande importanza. Un poliziotto può guardar dentro in basso e verificare che non ci siano più di due piedi per volta. Attraverso le aperture i rumori si diffondono senza ostacoli, chi passa fuori sente sospiri e sciacquii di chi sta dentro, chi sta dentro ascolta i passi e le conversazioni. Insomma nessuno ha la tentazione di star da quelle parti a lungo.
• Rivestimento a prova di graffiti: Non ci scarabocchierà sopra nessuno, a quelle latrine.
• Pareti e porte di solido acciaio inossidabile: “L’abbiamo pensato con l’idea che qualcuno potrebbe prenderlo a mazzate” continua la DiBenedetto. “Se ci sono dei danni, si può sostituire l’elemento”.
Sinora, il gesto più frequente dei malintenzionati pare quello di spaccare il bottone dello sciacquone, probabilmente usando qualche genere di attrezzo. Tutte queste caratteristiche espressamente rivolte ad atteggiamenti psicologicamente tipici fanno parte della domanda di brevetto n. D622,408 S presentata da Leonard e registrata nel 2010. Il gabinetto ha anche il discutibile onore di essere il primo brevetto della città di Portland. Il primo esemplare è costato circa 140.000 dollari. Per quelli successivi si è scesi a 60.000, più 12.000 dollari l’anno di manutenzione ciascuno. Portland ne ha anche venduto uno all’amministrazione di Victoria nella Colombia Britannica, a poco meno di 100.000 dollari. E si spera di piazzarne altri con la ripresa economica. L’idea di veder spuntare Portland Loo agli angoli delle strade di tutta l’America entusiasma la DiBenedetto, che non è solo una dipendente espressamente pagata per promuoverli, i gabinetti, ma anche una loro soddisfatta utente. “Quando sono in macchina con degli amici e passiamo vicino a uno si dice sempre ecco un gabinetto!. Dentro si prova una sensazione strana, fredda, viene da pensare: Wow, sto troppo vicino al marciapiede, mi possono sentire tutti che faccio pipì, ma è straordinario lo stesso”
Titolo originale: Let’s choose towns for all, not suburban sprawl - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo britannico è sul punto di prendere la decisione più importante da un decennio a questa parte sul futuro delle città e delle campagne. Il sistema nazionale di pianificazione può condurci alla ricchezza economica proseguendo nel processo di rinascita urbana, oppure scatenare le devastanti energie della dispersione. Sono trascorsi quasi tredici anni, da quando ci trovammo di fronte a una simile scelta. Nel 1999, dopo un approfondito dibattito pubblico sulla casa, l’espansione urbana, il degrado delle zone centrali, il governo istituì una apposita task force, da me presieduta. Nostro obiettivo era di porre termine a un’epoca di cattiva progettazione urbana periferica che risucchiava la vitalità dei centri riempiendo le strade di milioni di automobili. Volevamo sfruttare lo sviluppo economico per rivitalizzare città grandi e piccole, in modo sostenibile. Le nostre indicazioni erano sostenute da tutti i principali partiti politici.
Lunghi anni di lavoro sui grandi progetti di architettura in tutto il mondo, mi hanno convinto che un buon sistema urbanistico rappresenta la chiave della riqualificazione, e quindi dello sviluppo economico nelle città. Nel Nord America si notano enormi differenze fra situazioni come quelle di Detroit o Phoenix, dove l’assenza di buona pianificazione ha cancellato la vitalità dei quartieri centrali, e Portland o Vancouver, dove ci si è invece preoccupati di concentrare le trasformazioni nell’area interna. In Inghilterra ci sono più superfici già urbanizzate disponibili che in qualunque altro paese. Dando loro la precedenza, negli ultimi dieci anni, abbiamo visto tornare la vitalità nei centri più importanti del paese. Quartieri storicamente emarginati che si trasformavano, si ripopolavano, vedevano crescere i valori immobiliari. Aree urbane che si rafforzavano grazie a una coordinata crescita di case, uffici, negozi, attività culturali. Si sosteneva la vita collettiva, si arginava l’invadenza delle auto, si ripristinavano antichi edifici e spazi. Una città compatta non ha solo valore economico e sociale, ma è anche molto più energeticamente efficiente (fino a cinque volte tanto) di quanto non lo sia un insediamento disperso.
Se la Gran Bretagna vuole restare competitiva nello scenario globale, c’è bisogno di case e spazi del lavoro meglio concepiti. Purtroppo la rinascita urbana resta un fenomeno fragile, e con la recente crisi economica è molto rallentata, in alcuni casi si è addirittura fermata o peggio. Condivido la preoccupazione del comitato congiunto della Camera dei Comuni, quando si rileva che la bozza attuale di riforma urbanistica mette in primo piano gli aspetti economici, al di sopra di quelli sociali e ambientali. Sono anche del tutto d’accordo con la necessità di concentrarsi in prima istanza sulle superfici già urbanizzate, prima di pensare alle trasformazioni di aree libere; prima il centro, delle zone extraurbane. Anche il rapporto sulle arterie commerciali curato da Mary Portas afferma: “Una volta investito nella creazione di un capitale sociale nel cuore delle città, il capitale economico seguirà”. Sono perfettamente d’accordo: lo spazio pubblico è un diritto civile.
Al governo non mancano certo le migliori informazioni di prima mano su cosa dovrebbe essere cambiato. Credo che il sottosegretario responsabile, Greg Clark, le abbia ascoltate, spero che seguirà le raccomandazioni del comitato. Clark deve anche sfruttare il nuovo sistema urbanistico per dar senso a una crescita sostenibile. Che non vuol dire coniare nuove definizioni sul significato, ma di cosa vuole dire quel termine quando si tratta di territorio e edifici, ovvero esprimere un chiaro orientamento verso per quartieri compatti e a varie funzioni, inseriti nelle aree urbane esistenti, riqualificare ciò che già c’è, rispettare l’ambiente, la storia, rafforzare il tessuto economico e sociale dell’Inghilterra urbana.
Però si sta discutendo di qualcosa di più di questi particolari. In gioco c’è il riconoscimento da parte del governo, per usare le stesse parole di Clark, che c’è bisogno di “più pianificazione, non di meno” per garantire la certezza degli investimenti, prerequisito per una rapida ripresa economica. C’è anche bisogno di un nuovo impegno da parte delle amministrazioni locali per predisporre i piani regolatori. Scandalizza, che solo meno della metà del totale sia dotata di un piano aggiornato per governare lo sviluppo del proprio territorio. Il governo deve anche occuparsi delle competenze interne alle amministrazioni, che sono carenti. Se non si interviene, esistono zone del paese che resteranno ancora senza piani aggiornati per molti anni.
Arrivare a questa riforma nazionale è cruciale per il futuro del paese. Il 90% di noi abita e lavora in aree classificate urbane. Ci avviene gran parte della nostra attività economica. Se usassimo il sistema urbanistico per sostenere e rafforzare il sistema urbano, esso diventerà il motore economico dello sviluppo. Ma se consentiamo troppa libertà al mondo delle costruzioni per operare in zone extraurbane, sicuramente le prossime generazioni non ci ringrazieranno, perché saranno costrette a pagare un prezzo molto salato in termini di coesione sociale, degrado naturale, e anche occasioni economiche perdute
Titolo originale: Putin suggests a public green space to replace wasteland of Soviet grey – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Da quando è stato demolito il mostruoso Hotel Rossiya nel 2006, pare che nessuno abbia più saputo che farsene, di quell’enorme spazio che occupava, appena alle spalle delle cupole a forma di cipolla della cattedrale di San Basilio, vicino alla Piazza Rossa. Perlomeno, finché da lì non è passato qualche giorno fa Vladimir Putin. In visita insieme al sindaco di Mosca, al primo ministro è venuta un’idea. “Lo sa cosa penso? – ha detto Putin. Che in pratica negli ultimi anni si sono ormai costruite tutte le zone a parco del cuore di Mosca. Magari qui potremmo farci proprio un parco”.
Una osservazione casuale che potrebbe cambiar faccia al centro della città nei prossimi decenni. Il sindaco Sobyanin ha risposto che gli pare una idea “interessante”, e nell’arco di poche ore il suo ufficio annunciava ufficialmente la redazione di un progetto di parco in quell’area. Negli anni si erano accumulate una serie di proposte, tutte accantonate. All’inizio si pensava a un altro enorme albergo con centro commerciale, progettato dall’architetto britannico Lord Foster. Abbandonato dopo le difficoltà del costruttore per la crisi finanziaria. Poi si è passati a nuovi edifici amministrativi, per una zona che sta fra la Piazza Rossa e la Moscova. Un altro progetto che pare abbandonato. Nonostante la natura piuttosto estemporanea dell’ultima idea, sarebbero molti i moscoviti favorevoli a un parco, a mantenere a spazio pubblico una bella zona centrale della città, anziché trasformarla nell’ennesimo albergo di lusso o centro commerciale per ricchi.
Un importante critico di architettura, Grigory Revzin, l’ha definita una “idea brillante”. A Mosca è molto cambiato l’atteggiamento nei confronti dei parchi nell’ultimo anno, dopo che l’imprenditore Roman Abramovich ha iniziato a finanziare il rinnovo di Gorky Park e gli interventi di architetti e urbanisti. L’albergo Rossiya era un grigio mastodonte, in grado di contenere oltre 4.000 persone. All’epoca della costruzione negli anni ’60 per fargli posto era stato demolito un quartiere tradizionale. Oggi è stata demolita gran parte degli alberghi di epoca sovietica nel centro di Mosca, per sostituirli con moderni cinque stelle. L’area del Rossiya però era rimasta vuota, transennata e ingombra di macerie.
Titolo originale: Redlining 2.0: Microsoft App Would Help You Avoid Blighted Areas—And Keep Them Blighted - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Qualche giorno fa è stato annunciato il brevetto di una nuova app che consente a un pedone di usare il GPS per costruirsi un percorso attraverso la città.
Direttamente dal brevetto:
”Quando si parla di costruire percorsi si pensa sempre a un veicolo, meno al pedone. Certo sono molti coloro che si spostano in auto, ma sinora si sono ignorate le applicazioni per chi va a piedi. Mentre invece si averte molto forte la necessità di funzioni di questo tipo rivolte a chi di norma non usa l’auto, ad esempio perché non ne possiede una a causa del reddito, e abita in zone con problemi economici” .
Una buona notizia. Pare interessante vedere che una grande compagnia come Microsoft riconosca l’esistenza di modi per spostarsi anche diversi dall’auto. Mentre invece a guardare politici e amministratori cittadini parrebbe scontato che tutta l’attenzione vada in esclusiva agli automobilisti, quasi nulla agli altri (pedoni, ciclisti, utenti dei mezzi pubblici). Insomma che un marchio tanto importante si rivolga al pedone con un prodotto tanto utile è un piccolo ma fondamentale passo avanti per legittimare anche i non-guidatori.
Ma, come qualcuno ha già osservato, quella app fa sorgere un grosso problema: volendo, si può anche attivare un meccanismo che aiuta a evitare i “quartieri non sicuri”.
E quel “quartieri non sicuri” per tanti si traduce automaticamente in “ghetto” sollevando una serie di questioni razziali, di classe, violenza, cose già discusse da parecchi blog in modo più o meno approfondito e condivisibile. Comunque la si pensi sugli orientamenti più o meno marcati di consapevolezza – su cosa dovrebbe o non dovrebbe fare Microsoft e con quale urgenza – l’applicazione sembra proprio almeno confermare le cose così come stanno oggi: i quartieri degradati si devono distinguere in modo netto da quelli vivaci, e occorre avvisare la gente perché li eviti.
Ma allontanare i pedoni da certe aree può solo rafforzarne la condizione di “ghetto” allontanando ulteriormente quel passaggio che magari potrebbe riempire negozi, far vivere le strade quel tanto che basta per reagire al degrado. Rendersi visibili dall’esterno attira l’attenzione sulle potenzialità di un quartiere, scuote dal ristagno e dalla rassegnazione. Ad esempio il corridoio H Street a Washington DC con l’incredibile sviluppo degli ultimi cinque anni, o quanto sta ancora accadendo sulla St. Claude Avenue di New Orleans.
O ancora Brewerytown, un quartiere appena a nord ovest del centro di Filadelfia. Da tanto tempo emarginato, con elevati tassi di criminalità, ma zona ad elevata accessibilità pedonale individuata dall’amministrazione quando qualche anno fa si è voluta rilanciare la tranvia lungo Girard Avenue. Sollevando l’interesse di operatori immobiliari e investitori, e innescando un processo di calo della criminalità e incremento delle attività.
Una piccola precisazione: fra chi ha aperto una sede su Girard Avenue c’è anche Next American City, e io stesso ci ho comprato un appartamento. Come lo classificherebbe l’applicazione Microsoft un quartiere in piena trasformazione tipo Brewerytown? La app mi inviterebbe ad allontanarmi da casa, dal lavoro? Magari facendomi fare un giro lunghissimo per “quartieri sicuri”?
Titolo originale: The Irish squatters taking on empty homes and a bankrupt system – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’Irlanda esce da un altro anno di bilanci austeri e sofferenza economica, e un gruppo di giovani militanti ha iniziato a entrare negli immobili vuoti realizzati nel periodo del boom, e poi abbandonati da banche e immobiliaristi in tutto il paese. Il gruppo, che è legato al movimento irlandese Occupy, dice di volere una azione di massa verso case e appartamenti di proprietà della “cattiva banca” National Asset Management Agency (Nama), che li ha rilevati dagli speculatori dopo il crollo. Guidati da un ventisettenne che parla in gaelico, laureate a Galway, hanno occupato un edificio nella zona nord di Dublino che valeva 550.000 euro nel periodo del boom ma che ora è valutato 200.000. É vuoto da anni, così Liam Mac an Bháird e i suoi amici l’hanno occupato questo autunno per denunciare il problema della casa, oltre che il modo in cui costruttori e banche sono stati salvati coi soldi dei contribuenti.
Sono circa 400.000 gli immobili vuoti nel paese, e il National Institute of Regional and Spatial Analysis (NIRSA) avverte che così si potrebbero tener bassi i prezzi delle case per anni. Mac an Bháird ammette che il suo gruppo stia violando la legge, però aggiunge che così si evidenzia una importante questione politica. “Ci sono migliaia di senzatetto nel paese, 2.000 solo per le strade di Dublino stasera. E in tutta la città migliaia di alloggi, case e appartamenti vuoti: se ne potrebbe anche usare qualcuno come abitazione. Occupiamo anche mostrare in quale sistema ci tocca vivere. Le case potrebbero restar vuote anche dieci anni o più: e allora perche non dare un tetto a chi non ce l’ha?”
Il nascente movimento ha preso di mira una serie di immobili, tra cui una fabbrica di apparecchiature elettroniche nella zona Smithfield di Dublino. “Ho iniziato a discutere dentro al movimento Occupy sulla necessità di prendere possesso dagli immobili Nama a Dublino, per gettar luce sull’ingiustizia di un sistema che dà miliardi alle banche che hanno prestato soldi agli speculatori. Bisognerebbe trovar posto per tante persone dentro a quei quartieri fantasma che altrimenti andrebbero a pezzi vuoti. I circa 600 “quartieri fantasma” costruiti negli anni della Tigre Celtica sono diventati il simbolo della recessione irlandese. I costi di salvataggio delle banche che avevano prestato soldi a costruttori e speculatori negli anni di boom sono stati enormi. Gli economisti valutano le perdite delle banche a 106 miliardi di euro.
Cresce la rabbia verso coloro che la maggioranza degli irlandesi accusa del collasso: banche salvate e speculatori immobiliari. Una rabbia che si mescola alla povertà diffusa con la recessione che continua. I dati più recenti dell’Ufficio Statistica nazionale pubblicati prima di Natale rilevavano una contrazione del Pil dell’1,9% nell’ultimo trimestre 2011. Nello spazio gestito da Occupy davanti alla Banca Centrale Irlandese, punto di riferimento per l’opposizione ai salvataggi indiscriminati, Mac an Bháird ha sottolineato che il movimento imporrà alcune regole per l’occupazione di immobili.
“Niente droghe e niente alcolici nelle nostre occupazioni, perché si tratta di un’azione politica. É anche un’azione rigorosamente non-violenta, coerente con il movimento Occupy. E non ci approprieremo di qualcosa non nostro, nelle occupazioni”. Spiega che per sopravvivere praticheranno lo “skip diving”, raccogliendo ogni giorno gli scarti alimentari delle grandi di supermarket. Il governo irlandese ha imposto a dicembre ulteriori tagli di 2,2 miliardi di euro a dicembre, per ridurre il debito, e Mac an Bháird dice che vuole raccogliere sostegni anche da gruppi normalmente conservatori.
“Anche nello spazio Occupy alla Banca Centrale, vengono dei borghesi a dirci che sono d’accordo con noi. Sono loro che oggi stanno pagando l’avidità di banchieri e costruttori, di un sistema corrotto. Capiscono la logica di occupare edifici che altrimenti sarebbero lasciati per anni a marcire”. Il gruppo vuole ora occupare un importante edificio di proprietà Nama a Dublino per mettere alla prova l’atteggiamento delle autorità. “Sarà interessante vedere se sono proprio decisi a evacuare dei senzatetto da quell’edificio, di proprietà dello stato e dunque dei cittadini, e lasciato lì vuoto per anni”.
Titolo originale: The city of the future begins to rise in Kenya's suburbs – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Suddivisa in aree residenziali miste o commerciali e terziarie, coi suoi complessi ad appartamenti da otto piani che si affacciano su viali alberati a tre corsie, la città di Tatu dà un’impressione di ordine che di solito non evocano le altre città del Kenya. Ma si tratta della “prima città davvero pianificata dell’Africa”, secondo Cameron Rush di Planning, l’impresa promotrice di questo insediamento da mille ettari, mentre ci mostra i progetti di cosa sarà quando nel 2013 arriveranno i primi abitanti. Sicuramente non manca la domanda: ogni anno sono 200.000 i kenyani che si trasferiscono dalle zone rurali in città, e lì si vive già in una situazione congestionata.
L’attuale carenza di abitazioni nella sola Nairobi si calcola in 200.000 alloggi l’anno, dove il 60% della popolazione vive sul 6% della superficie. Tatu è una visione, magari ambiziosa, di come il paese stia cercando di trovare soluzioni al problema. “I confini della città non consentono di operare su grandi superfici per la crescita” spiega Arnold Meyer di Renaissance Capital, branca immobiliare della banca russa di investimenti Renaissance. Che da molto tempo acquista terreni in Africa, convinta delle grandi potenzialità del continente, superiori a quelle dei paesi ricchi.
Quando si è messa in vendita una piantagione di caffè vecchia di 120 anni, a nord di Nairobi, l’hanno comprata e immediatamente iniziato a riflettere su una possibile trasformazione urbana vicino alla capitale. Era l’idea iniziale di Tatu. Le dimensioni sono di due o tre volte il centro di Nairobi, più o meno identiche a quello di Johannesburg, Tatu è pensata per ospitare 62.000 persone. Se il centro terziario di Nairobi vive 12 ore al giorno, con gli impiegati degli uffici bloccati nel traffico delle ore di punta la mattina, e poi la sera per tornare a casa, Tatu dovrebbe vivere su ventiquattro ore.
La Renaissance non costruisce direttamente. Si sono acquistati i terreni, ottenuti i permessi, realizzate le infrastrutture, dalle reti dell’acqua a quelle dell’elettricità. Corsi d’acqua e falde esistenti mettono a disposizione 25 milioni di litri al giorno, e l’ente statale del Kenya per l’energia fornisce 150MW, il 10% del consumo attuale. Così si creano possibilità immobiliari, trasformando ex zone agricole in aree edificabili. L’idea è che a quel punto entrino in campo i costruttori a fare il resto.
La Renaissance sta sviluppando progetti simili di altre città in Zambia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e Ghana, e vorrebbe che Tatu non apparisse come certi progetti improbabili del passato, partiti e quasi mai portati a termine in Africa. Il contesto di crescita gioca a suo favore. Nel 1980 la popolazione del continente era di 400 milioni. L’anno scorso si era superato il miliardo, entro i prossimi 30 anni si arriverà a due miliardi. Nel giro di meno di dieci anni saranno almeno quindici le città a superare il milione di incremento. Nairobi è una, e poi Cairo, Lubumbashi, Accra, Lusaka e Addis Abeba. Per Lagos in Nigeria si prevede una crescita di due milioni, e la Renaissance immagina di riproporre il concetto di nuova città pianificata in tutta l’Africa.
“Ovunque si guarda, ci sono città capitali e non tanto congestionate e non più in grado di gestire alcuno sviluppo” continua Meyer. “Molti investitori capiscono in fretta quanto le città possano essere il principale fattore di crescita in Africa. Spingono l’innovazione, la creatività. Di solito si pensa all’Africa come un posto senza speranza. Pensiamo invece a come nel 1880 fosse Londra, il peggiore slum del mondo. All’epoca il censimento dava 35 persone per alloggio. Niente gabinetti, e le fogne erano a cielo aperto per strada. Sicuramente un posto poco piacevole. Ma dalla congestione è scaturita l’innovazione, con effetti moltiplicatori. Oggi la stessa cosa sta accadendo in Africa. Le città attirano persone, che nella grande densità trovano soluzioni”.
Una delle critiche al progetto di Tatu, è che possa togliere vitalità al centro di Nairobi, inducendo una migrazione di case e uffici nel suburbio. La Renaissance risponde che invece Tatu avrà un effetto di stimolo sulla capitale, non diverso da quanto accaduto a Johannesburg anni fa. “Sandton era un’area interessante e ci si trasferirono da un momento all’atro molte attività. Si crearono dei vuoti in centro. Arrivarono alcuni imprenditori a convertire quegli spazi a uso residenziale, era una cosa che avrebbe dovuto succedere anni prima. Così cominciarono ad arrivare dei giovani, che apprezzano lo stare vicino alla vita sociale”. Se non ci si può spostare a piedi, allora arriva l’idea della città coordinata come Tatu, che integra servizi e trasporti collettivi.
“Tatu sarà gestita in modo integrato per assicurare una qualità urbana, ambientale, di gestione scarichi e rifiuti senza pari nelle municipalità del Kenya” conclude Rush. “Ciò significa migliore spazio pubblico, qualità della vita e dell’ambiente per tutti”.
Nota: il sito ufficiale con molte informazioni e materiali a disposizione, è http://www.tatucity.com Scaricabile qui di seguito il piano urbanistico generale della nuova città
In realtà la critica principale che viene sollevata a Tatu City da un certo numero di professionisti, ricercatori e movimenti urbani non è che la nuova città satellite possa sottrarre forza al centro di Nairobi. Piuttosto viene contestata la capacità del progetto di essere una soluzione al vero problema di Nairobi, rappresentato dal degrado degli insediamenti informali, che accolgono due terzi della popolazione urbana.
La nuova Tatu City non sarà in grado di ospitare nessuno dei due milioni di abitanti che vivono oggi a Nairobi e che infittiscono le fila dei poveri urbani. La nuova città è pensata e progettata in funzione di una middle upper class, in ascesa ma che comunque rappresenta una percentuale molto bassa della popolazione attuale, e oggi può già contare su un offerta abitativa di tutto rispetto. Negli ultimi due anni infatti a Nairobi si è costruito moltissimo. Non mancano le case, mancano le case per i poveri, che è tutta un’altra faccenda.
Peraltro l’espansione urbana collegata a Tatu city non consisterà solamente nella costruzione della nuova città. Tutt’intorno sorgeranno automaticamente nuovi quartieri informali, dove la lower class - che sarà impiegata per mantenere puliti e sorvegliati i nuovi quartieri – troverà posto non potendosi di sicuro permettere l'affitto o l'acquisto di uno dei nuovi immobili. La nuova città quindi attirerà una nuova popolazione urbana tendenzialmente abbiente, o sposterà quella esistente, lasciando invariato l’enorme problema dei quartieri informali, e aprendo la strada a nuovi problemi, infrastrutturali, di espansione delle baraccopili e di gestione dell’area metropolitana.
Il processo di acquisizione delle terre a piantagione e la loro parziale rivendita ha già consentito alla multinazionale di intascare un’enorme rendita sulla base della trasformazione del suolo da inedificabile ad edificabile. Il processo che ha reso la trasformazione di queste aree in edificabile è stato poco trasparente e presumibilmente viziato da ‘corruption deals’. Tra l’altro l’amministrazione ha concesso l’autorizzazione senza chiedere in cambio oneri di urbanizzazione adeguati che avrebbero consentito di coprire spese infrastrutturali e alla costruzione della “città pubblica” così carente di servizi e infrastrutture.
Anzi, la rete di trasporto per collegare la nuova città con il centro e l’aeroporto (dall’altra parte della città) è completamente a carico dei contribuenti e assorbe una parte del bilancio che potrebbe essere investito in altre zone della città, più bisognose. Per non parlare della sostenibilità ambientale di occupare terre agricole e aumentare lo sprawl di questa città che già soffre di inquinamento e invivibilità ambientale. Magari è proprio l’insalubrità del centro di Nairobi che crea la spinta e la domanda di nuovi insediamenti ai margini della bella e pulita campagna keniota. Non è comunque un mistero che oggi il settore immobiliare risulti trainante più del caffè e del tè!
Si tratta di una vera e propria città privata: Tatu City è solo l'ennesima ‘gated community’, solo un po’ più grande delle altre! La regia di questo progetto è totalmente privata, il governo nazionale, per parola di alcuni ministri, ha dato il suo beneplacito, mentre la municipalità di Nairobi è rimasta estranea all’intero processo e i cittadini completamente all’oscuro. Certamente non è questo che rappresenterà il progetto giusto per Nairobi, certamente non per la maggior parte dei suoi abitanti che rimarrà estranea al processo di sviluppo e beautification così auspicato dalle forze politiche ed economiche del paese.
Titolo originale: Agenda 21 Should Not Divert Attention from Homegrown Anti-Growth Policies – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Ambientalismo radicale, settori economici, e le ubique masse dei soliti nimby, cercano da anni e anni di cambiare la forma della città americana secondo le loro amate politiche di “crescita sostenibile”. Tutti questi militanti operano per imporre norme urbanistiche tali da obbligare tutti ad abitare in modo più denso, eliminando qualunque possibilità di scelta in materia di case, discriminando i cittadini a bassi redditi, spingendo la gente a spendere di più per abitare, a rinunciare all’automobile a favore della metropolitana, del tram, dell’autobus o della bicicletta.
Tutte queste cose — che prendono via via il nome di “New Urbanism” o “trasformazione sostenibile” o “tutela degli spazi aperti”— vedono da molto tempo l’opposizione di alcuni cittadini a causa del loro effetto negativo sulla crescita economica, la concorrenza, il livello di vita de paese. Come rilevato dalla Heritage Foundation, là dove si sono applicate politiche di smart-growth sono notevolmente aumentati i prezzi delle case, escludendo così dalla proprietà dell’abitazione i nuclei familiari a redditi medio-bassi. A sua volta, l’alto prezzo delle case obbliga gli acquirenti a contrarre molti debiti, e questo ha contribuito ai meccanismi che hanno condotto alla attuale recessione. In realtà i peggiori problemi coi pignoramenti esistono in quegli Stati con norme urbanistiche più rigide: Florida, California, Arizona, e Nevada.
Ma negli ultimi anni alcuni oppositori della smart-growth che operano a livello locale hanno imparato a mettere in discussione una iniziativa del 1992 delle Nazioni Unite detta Agenda 21, a sostegno di varie politiche basate sui medesimi principi della smart-growth. Hanno cioè riconosciuto in questa Agenda 21 semplicemente un altro modo per far divergere la loro opposizione ai programmi degli estremisti ambientalisti nazionali.
I principi ispiratori della Agenda 21 altro non sono se non quelli della Smart-Growth
L’Agenda 21 è molto articolata, si tratta di un ambizioso piano di azione presentato alla Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite del 1992 (UNCED) di Rio de Janeiro, in Brasile, e adottata dai paesi partecipanti come “piano integrato delle azioni da intraprendere a livello globale, nazionale e locale da agenzie delle Nazioni Unite, Governi, Associazioni, in ogni area di impatto umano sull’ambiente”. Nelle sue oltre 300 pagine, l’ Agenda 21avanza centinaia di specifici obiettivi e strategie da adottarsi alle varie scale. Proposti in quattro sezioni:
La dimensione economico-sociale (es. cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo sostenibile nei paesi in via di sviluppo, combattere la povertà, modificare i consumi, promuovere insediamenti sostenibili);
Conservazione e gestione delle risorse (es. tutela dell’aria, pianificazione nell’uso del territorio, promozione dell’agricoltura sostenibile e dello sviluppo rurale);
Rafforzamento del ruolo di alcuni soggetti (es. donne, bambini, popolazioni indigene, mondo del lavoro e sindacati); infine
Strumenti di attuazione (es. finanziamenti, trasferimento tecnologico, istruzione e consapevolezza pubblica, diritto internazionale).
Insomma la UNCED è esplicitamente orientate a far sì che i governi “ripensino al proprio sviluppo economico individuando modi per fermare la distruzione di risorse naturali insostituibili e l’inquinamento del pianeta… Il messaggio del Vertice è quello di cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti, per arrivare alle trasformazioni necessarie”. L’Agenda 21 chiama esplicitamente i governi a intervenire per regolamentare qualunque potenziale impatto delle attività umane sull’ambiente.
Se messe in pratica, le politiche esposte dall’Agenda 21 ampliano di parecchio l’ambito di intervento dei governi nelle decisioni economiche, ostacolano crescita e sviluppo, limitano le scelte individuali e la flessibilità in quelle locali. Chi vi si oppone dovrebbe temere i tentativi del governo Usa per applicarla, a livello nazionale e locale. L’Agenda 21 però non è vincolante; dipende totalmente dai vari livelli amministrativi per l’attuazione, e quindi in sé e per sé non rappresenta una minaccia. Se certo si tratta di politiche molto preoccupanti, è perché non restano confinate nell’ambito della sola Agenda 21. Esse permeano di sé l’agenda della smart-growth tanto ampiamente condivisa in varie parti degli Stati Uniti, a danno delle economie locali.
I principi del’ambientalismo radicale derivati dall’Agenda 21
Le politiche di smart-growth così come si trovano nell’Agenda 21 traggono la propria origine nel pensiero di sinistra europeo e di alcuni intellettuali americani, che precede di molto l’adozione dell’Agenda. In realtà delle medesime politiche esiste una versione britannica — che ha avuto una forte influenza sul pensiero e l’azione ambientalista della sinistra americana e internazionale che in gran parte ha contribuito a scrivere Agenda 21 — risalente agli anni ‘20. Come ha scritto il Principe Carlo:
«Da più di ottant’anni la Campaign to Protect Rural England lotta per la difesa del delicate intreccio delle aree di campagna che ci restano. La lungimiranza dei suoi padri fondatori fu straordinaria: nel 1926 Clough Williams-Ellis, che ricordo molto bene e ammiro immensamente, pubblicava il suo L‘Inghilterra e la Piovra, una polemica contro la dispersione urbana, e lo stesso anno Sir Patrick Abercrombie scriveva il suo saggio, La conservazione dell’Inghilterra rurale. Da allora prosegue la lotta, e si sono ottenuti grandi risultati ».
Scelte del genere sono alla base della legge urbanistica approvata dal governo socialista nel 1947, che obbligò tutto lo sviluppo urbano successivo entro i confini della città esistente, e sono state un disastro per l’economia. Oggi i cittadini del Regno Unito abitano le case più piccole e costose di tutti i paesi avanzati del mondo.
Il movimento americano per la smart-growth si afferma decisamente nei primi anni ’70, quando le città della California e dell’Oregon iniziano a riprodurre le politiche britanniche anti-sprawl con norme urbanistiche restrittive per contenere la suburbanizzazione. Un po’ per volta, si diffondono poi in tutto il paese, con sempre più città a adottare scelte che scoraggiano l’espansione suburbana, salvo per i più ricchi. Questo impegno contro la crescita non è spinto esclusivamente da una visione distorta dell’ambiente, ma anche dal progetto di già abita questi idilli rurali, di mantenerne fuori altri che potrebbero rovinare la comunità suburbana.
Negli anni ’80 queste scelte conducono il Presidente George H. W. Bush a costituire una commissione, coordinata dal ministro per la Casa e lo Sviluppo Urbano, Jack Kemp, che indaghi sui loro impatti nelle città e per la crescita, esprimendo un giudizio. Il rapporto finale: Not in My Back Yard: Removing Barriers to Affordable Housing, rappresenta una formidabile critica alla serie di scelte che oggi chiamiamo “smart growth”. Ma la smart-growth continua a crescere negli Stati Uniti. Cresce e si irrigidisce, acuisce gli effetti sui prezzi delle casei ovunque. Esplode l’urbanistica delle zone esclusive, e si adottano orientamenti verso un determinato “profilo” demografico. Scelte che limitano le trasformazioni edilizie a tipi costosi, per “escludere economicamente” i ceti a basso reddito, vale a dire soprattutto minoranze razziali.
Commentando lo scoppio della bolla edilizia americana, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne notava seccamente come la Gran Bretagna avesse scampato questo tipo di crisi che aveva messo in ginocchio l’America, perché invece di espandere la propria dotazione di case, “Noi ci siamo salvati dato che in questo paese non si può costruire nulla”. É vero che la bolla edilizia negli Usa si è dovuta anche a certa avventatezza, ma le scelte smart-growth hanno giocato un ruolo fondamentale nel costruire e esasperare questa bolla, e la successiva recessione. A ben vedere, sono gli Stati e le aree metropolitane con le norme territoriali più rigide ad aver sofferto di più il crollo dei prezzi (ovvero California, Florida, Arizona, e Nevada) nonché dei gravi problemi di pignoramenti poi.
Non mancare il vero obiettivo
Chi si oppone all’Agenda 21 non dovrebbe farsi distrarre dall’osservare le manifestazioni più tangibili dei principi smart-growth delineati dal documento. Se si guarda troppo all’Agenda 21, aumenta la probabilità che vengano messe in pratica politiche locali risalenti ai primi anni ’70 da parte di amministrazioni federale, statali, locali, e in grado di peggiorare la qualità della vita, restringere la libertà di scelta individuale, limitare il diritto di proprietà, a solo vantaggio dei gruppi ambientalisti e di altri interessi consolidati.
A peggiorare il problema, l’Amministrazione Obama ha calorosamente adottato principi smart-growth, e più in generale irrigidito e ampliato la regolamentazione ambientale e sullo sfruttamento delle risorse naturali. É il ministro dei Trasporti, Ray LaHood, l’uomo chiave dell’Amministrazione per imporre agli americani politiche smart-growth. Insieme ad altri esponenti del governo, è alleato a vari rappresentanti di governi statali e amministrazioni locali, o gruppi di interesse quali Urban Land Institute, Agenzie di Pianificazione Regionale, Smart Growth America, la American Public Transportation Association, il Sierra Club, Friends of the Earth, più associazioni economiche locali assai poco lungimiranti.
Chi si oppone a questa politica ha operato molto efficacemente. Un buon esempio arriva dallo Stato della Florida, dove il Governatore Rick Scott (Repubblicano) e la maggioranza del parlamento hanno cancellato pochi mesi fa una legge sulla smart-growth in vigore da venticinque anni. Quando sono messi in pratica, questi orientamenti sollecitati dall’Agenda 21 ostacolano crescita economica e ricchezza. Quindi vale certamente la pena di impedire qualunque attuazioni dell’Agenda 21 in America a livello nazionale, e l’adesione delle amministrazioni locali di contea, città e cittadine all’International Council for Local Environmental Initiatives (ICLEI), oggi Local Governments for Sustainability. Ma ciò si deve considerare solo nel quadro di un più ampio impegno per spingere il governo Usa ad abbandonare i devastanti programmi smart-growth ed evitarne dei nuovi.
Titolo originale: Suburban farms meet opposition as they look to change business – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Maxine e Robert Walker lavorano al restauro della vecchia fattoria a Woodbine da quando l’hanno comprata nel 1994. L’ultimo progetto è di sostituire tutta una parete marcia in legno del granaio, dopo aver rifatto le fondamenta e sostituito il tetto di lamiera.Per contribuire a sostenere le spese di rinnovo della Harwood Horse Farm, vorrebbero affittare parte dei poderi a privati, e aprire un negozio di antiquariato dentro a un vecchio capanno. Per questo hanno richiesto l’autorizzazione alla Howard County, ma così a quanto pare gli Walker si sono persi degli amici. I vicini lungo la tranquilla strada di Jennings Chapel stanno cercando di fermarli da cinque anni, perché c’è la minaccia di generare traffico, sporco, e una indebita attività commerciale.
Per protestare hanno anche organizzato un corteo.Un contrasto che ne riassume molti altri nell’area di Baltimora, dove sono parecchi gli agricoltori che provano a diversificare l’attività, visti i terreni troppo piccoli per garantire guadagni sufficienti dalla sola coltivazione. Ci sono varie forme di agriturismo — dai labirinti nel granturco, alla costruzione di spaventapasseri, ai frutteti servitevi da soli — attive da molto. Ma spuntano nuove attività, ponendo problemi alle amministrazioni locali che hanno posto vincoli rigidi alle funzioni commerciali consentite in aree agricole.
"É difficile per noi amministratori capire dove esattamente sta il confine” spiega Gene L. Swackhamer, ex presidente della Farm Credit Bank e già membro del consiglio 4-H Foundation.Difficile distinguere fra un improvvisato banco vendita di prodotti un vero e proprio negozio, e ancor più difficile quando le attività sono proprio del tutto nuove, come sazi usati per eventi, corsi di pittura, o anche di baseball, solo per citare alcune proposte.Nella Howard County quest’anno, gli agricoltori si trovano al centro della discussione in consiglio, per decidere se rendere più elastici i vincoli su apicoltori e viticoltori. Nella circoscrizione della Baltimore County sono state parecchie negli ultimi anni le battaglie legali anche di alto profilo sulla possibilità per i contadini di vendere direttamente prodotti in loco. Secondo Swackhamer è difficile guadagnarsi di che vivere con una piccola azienda, che ha costi troppo elevati rispetto a quanto frutta. I coltivatori hanno un secondo lavoro spesso, due entrate, come nel caso degli Walker, cercano un modo di ricavare altri profitti dall’azienda mantenendo comunque l’attività agricola.
Sono molti i vicini lungo la strada di Jennings Chapel che hanno testimoniato contro il progetto degli Walker, convinti che potrebbe distruggere la comunità, portando un’attività commerciale troppo vicino a case e campi, e magari attirando nuove costruzioni."É qualcosa che rappresenta una grossa trasformazione nell’area” commenta uno dei vicini, Robert Styler. “Esistono zone specificamente destinate alle costruzioni, e questa non lo è”. Le norme della Howard County impongono che gli eventi organizzati dagli Walker debbano tenersi all’aperto, e Styler spiega che così li si concentra nei mesi di bel tempo, con un fastidio costante per i residenti.“Non c’è mai pace, ora. Certo ci sono sempre state le macchine agricole, ma è tutta un’altra cosa, particolare, inserita nel paesaggio”.
Sorgono timori molto simili a quelli di Styler, quando le aziende cercano nuove attività che si allontanano dall’agricoltura tradizionale”. Tutto bene fin che si tratta di cose che c’entrano con la campagna, ma “la gente si preoccupa quando si tratta di produzione o vendita”, cose che potrebbero essere fatte altrove senza interessare le zone agricole, spiega Teresa Moore, direttrice esecutiva dell’associazione Valleys Planning Council. Che promuove piani di tutela nella fascia nord-occidentale della Baltimore County.E si ricorda di problemi simili di governo del territorio.Con la sua azienda da cento ettari nella Long Green Valley, Bobby Prigel voleva a tutti i costi aprire un negozio di latticini, alla Bellevale Farm. Prodotti biologici dal latte delle vacche, ma il progetto fu fermato perché i vicini contestavano l’attività commerciale, in un’area dove sono parecchie e aziende tutelate dalle costruzioni attraverso specifici programmi.
Questa settimana, la corte d’appello statale ha deliberato che i vicini hanno pieno diritto di rivendicare i propri diritti in tribunale."Noi vogliamo solo mantenere in piedi l’azienda” spiega Prigel. Si deve trovare un modo per reggere la concorrenza di quelle più grandi del West e straniere, continua, cosa resa ancora più difficile dai costi alti dei terreni in zone suburbane. "Dobbiamo far profitti nella BaltimoreCounty”.Quelli che abitano vicino alla Springfield Farm di Sparks, si sono preoccupati quando il proprietario voleva aprire un chiosco sulla strada, racconta la Moore. Sostengono che su terreni agricoli non si debba svolgere un’attività commerciale, attività vietata anche nelle aree residenziali.Brad Powers, ex sottosegretario dal Dipartimento dell’Agricoltura e presidente di Shore Gourmet, che sostiene la creazione di piccoli mercati nelle aziende, spiega che cose come chioschi stradali e labirinti nel granturco sono molto diverse. Qualcuna si somma alla produzione alimentare, altre, come quelle degli Walker, proprio no.
“Si tratta di qualcosa di più di una funzione commerciale” giudica. Le piccolo aziende si sono rafforzate grazie alla nuova tendenza a “comprare locale” o ai progetti di agricoltura partecipata, specie quelle più vicine ai centri abitati con una base consistente di potenziali clienti. Sono contadini che semplicemente “cercano di fare la limonata coi limoni” sfruttando la vicinanza della clientela per guadagnare, racconta Susan G. Summers, portavoce del Maryland Farm Bureau. Nella Howard County, Ted Mariani, membro dell’associazione Cittadini Preoccupati, spiega che sono molte le aziende che hanno cercato nuovi metodi per guadagnare anche su superfici piccole. La sua associazione sostiene la tutela delle aree rurali.“Nell’ultimo decennio alcune aziende di questa contea hanno deciso che coltivare cereali o allevare bestiame è molto difficile” per la concorrenza di quelle più grandi.Parecchi contadini affittano terreni altrui per allargarsi e riuscire a guadagnare. Altri magari vorrebbero cominciare a lavorare il latte e vendere prodotti, invece di venderlo in Pennsylvania per la trasformazione, ma questa è una attività non ammessa.
Nella più densamente popolata Ellicott City, i proprietari della Elioak Farm (220 ettari) gestiscono anche il parco giochi Foresta Incantata per arrotondare i proventi, non potendo costruire dato che c’è il vincolo agricolo dagli anni ‘80.“Cerchiamo di promuovere attività a valore aggiunto nelle aziende” spiega Mariani, e intende anche le norme urbanistiche meno restrittive per gli apicoltori approvate quest’anno.Da maggio l’amministrazione della Howard County Council consente, con alcune contestazioni, ai viticoltori di aprire spacci, ma sono molti gli abitanti preoccupati per il traffico, il gran numero di presenze, il rischio di attività commerciali di una certa dimensione in zona.Nel caso degli Walker prima era stata approvata un’autorizzazione, ma poi i vicini di Woodbine hanno presentato ricorso.
Nel corso delle udienze, si sono espressi in modo contrario, a causa di disagi come il traffico su quelle strette strade di campagna, il rumore della musica, il timore per una attività che si svolge tanto vicino a zone residenziali e agricole. Altri ancora anticipavano il fastidio per le luci troppo forti, le grandi feste all’aperto rumorose e fino a tardi.“Non pensavo che sarebbe successo tutto questo” dice Maxine Walker. “Pensavo fosse un’idea magnifica, una cosa che potevamo condividere”.Le attività si sarebbero svolte soprattutto di giorno perché “la bellezza del posto è con la luce”. Quando i vicini hanno espresso i loro timori per le grandi folle in zona, lei ha risposto di aver avuto qualche richiesta per eventi, ma per cose piccole, come i compleanni di qualche bambino.
Ogni anno gli Walker ospitano parecchie centinaia di persone in occasione della Iron Bridge Hounds fox hunt, senza alcun problema. Alcuni dei vicini partecipano anche.La decisione definitive sul caso dovrebbe arrivare entro il 12 dicembre. E se qualcuna delle parti presenterà di nuovo ricorso si passa al tribunale.Ma nonostante tutto Maxine Walker si dice ancora convinta di continuare nel recupero degli immobili alla loro gloria di un tempo. Comunque vada con la disputa sulle autorizzazioni edilizie, “Tutta la zona sta cambiando. Potremmo anche vivere comodamente lasciando tutto come sta ora, ma vogliamo migliorare. Dà tanta soddisfazione”.
Nota: probabilmente per capire meglio il contesto di tutela dello spazio aperto questo articolo andrebbe letto anche in parallelo alla nostra nota sul Piano Territoriale del Maryland (f.b.)
Titolo originale: London: an urban neo-Victorian dystopia – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Londra, famosa un tempo per la sua mescolanza sociale, via via divenne sempre più una città economicamente segregata, dopo il varo delle misure di rigore nel 2011, cominciarono sei anni di disordini che cambiarono per sempre il suo volto. Nel 2015, gli studiosi coniarono le definizione di "utopia negativa urbana neo-vittoriana" a descrivere le traumatiche trasformazioni sociali e urbanistiche della città, che avevano iniziato a paragonare alla Londra descritta da Charles Dickens 160 ani prima. La riforma della casa e dei sussidi nel 2012 e 2013 aveva sospinto decine di migliaia di inquilini a basso reddito fuori dalle zone centrali, verso la periferia più estrema della capitale, e anche oltre fino a Margate, Hastings, Milton Keynes e Luton. Innescando così una inesorabile progressiva separazione fra ricchi e poveri, e una serie di gravi problemi sociali.
Un’era di vero e proprio boom per alcune zone privilegiate, come la fascia dei quartieri agiati lungo la sponda settentrionale del Tamigi, da Westminster a Notting Hill a Hammersmith, soprannominata dagli agenti immobiliari “La Via Dorata”. Chelsea, Kensington e Marylebone, un tempo punteggiati di aree a case economiche o sacche di povertà, erano diventati uniformemente ricchi, sempre più richiesti dai ceti medio-alti in cerca di un rifugio lontano dalla difficile realtà della crisi. E questi abitanti ricchi erano sempre più ossessionati dai prezzi crescenti degli immobili, o dalla opportunità o meno di privatizzare la propria via, dal confronto di professionalità delle agenzia di sicurezza private inglesi e polacche, dalla crescente difficoltà di trovare personale di servizio per cucina e pulizie.
Nel 2017 vennero vendute le ultime case di proprietà pubblica nella circoscrizione di Westminster, ai sensi delle norme 2011 sul diritto di acquisizione. L’amministrazione del municipio si liberava anche della metà delle proprie biblioteche e parchi, centri per bambini e edifici scolastici, per cui non esisteva sufficiente domanda, a causa delle trasformazioni demografiche ed economiche dell’area. Molto meno serena, la situazione fuori da questa zona ricca. Sporadici scoppi di rivolte, e siti di opinione orientati a destra che riferivano di una fascia suburbana minacciosa popolata da giovani disoccupati. I responsabili dei servizi sanitari temevano epidemie di tubercolosi da sovraffollamento a Tower Hamlets. A Barking, il British National Party lanciava la sua campagna contro i "Mangiapane a tradimento" decentrati da Londra nell’esodo successivo al taglio dei finanziamenti per la casa 2012-2013.
Un negozio della Tesco a Hackney inventò nel 2013 l’iniziativa “giornate della crisi”, offerta di alimentari a buon mercato il giorno di versamento dei sussidi. L’Esercito della Salvezza nel 2015 toccava la quota di distribuzione del milionesimo pasto, a una famiglia di Walthamstow. Nel 2014, un consorzio di enti per la casa popolare aveva convertito alcuni edifici vuoti del Villaggio Olimpico in “ostello” per giovani senzatetto. I criminologi rilevavano incrementi di furti e scippi. Gli assistenti sociali sottolineavano elenchi infiniti di casi di bambini bisognosi di sostegno, e gli psichiatri notavano una crescita esponenziale delle ricette mediche per antidepressivi. Gli uffici sanitari calcolavano che i tassi di suicidio, di gravidanza di minori, di ricoveri in ospedale, nelle zone povere erano cinque volte tanto la media cittadina.
Gi statistici discutevano sul raggiungimento o meno della quota simbolo di un milione per le persone apparentemente “scomparse” dalle liste elettorali e da altri elenchi ufficiali. Annnciando nel 2017 la fine della crisi, il governo attaccava le cosiddette cassandre disfattiste nei media. La Gran Bretagna era sopravvissuta alla peggiore crisi dopo la seconda guerra mondiale, restando unita, dichiarava il primo ministro da dietro lo scherma antiproiettile sulla soglia del numero 10 di Downing Street: “Come sempre, ce l’abbiamo fatta, tutti insieme”.
Nota: in particolare per quanto riguarda il rapporto fra soluzioni britanniche di centrodestra alla crisi e trasformazioni del territorio, si veda anche questa breve Rassegna su Mall (f.b.)
Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini
Con le dimensioni assunte a scala globale dal progetto di nuovi insediamenti, emerge la necessità sia di comprendere concretamente, sia di affrontare disciplinarmente il problema delle città socialmente (oltre che economicamente e ambientalmente) sostenibili. L’esperienza insegna quanto spesso non si tenga conto sul lungo termine delle necessità sociali nel programmare ad ampia scala abitazioni e quartieri. Ciò si deve in parte ai modelli di finanziamento dei progetti, dove la pianificazione è svolta dagli uffici pubblici, ma gli investimenti sono dei costruttori privati.
Di norma si dà la precedenza alla realizzazione delle case rispetto ai servizi, per ottenere il gettito con cui si finanziano le infrastrutture o le case economiche. Gli abitanti vanno a stare così in spazi privi di negozi, scuole, autobus, spazi di ritrovo in grado di offrire relazioni sociali. La situazione si protrae spesso per parecchi anni, anche se il quartiere cresce sino a dimensioni che giustificano perfettamente quei servizi locali. Ai problemi della casa si sommano le urgenze economiche, e le varie difficoltà di rapporto fra i soggetti pubblici e privati aumentano ancora la tendenza a pensare prima alle costruzioni che alla qualità urbana. Il che non toglie l’altissimo valore sociale responsabilità politica di affrontare le conseguenze di lungo termine, il degrado dei nuovi quartieri, i problemi emergenti. Del resto sono molto elevati anche i costi di questo degrado, economici certo, ma soprattutto sociali.
Se non si risponde alla necessità e diritto di avere delle infrastrutture a orientamento sociale qualunque nuovo quartiere può rapidamente imboccare la spirale in discesa del degrado. Fra gli esempi più vistosi si possono citale le banlieue di Parigi, il complesso Cabrini Green a Chicago, Broadwater Farmnella fascia settentrionale di Londra, o Park Hill a Sheffield che oggi è in corso di riqualificazione con un costo di 170 milioni di euro. Alcuni quartieri, come il Pruitt-Igoe di St. Louis negli USA o il Fountainwell Placedi Glasgow, sono stati completamente demoliti. In altri casi si interviene con riqualificazioni profonde e altissimi costi, come a Castle Vale a Birmingham, o Robin Hood Gardens e Holly Street a Londra. Sempre a Londra il complesso Heygate a Elephant and Castle, dove abitavano 3.000 persone, è stato demolito nel maggio 2011, con un costo approssimativo di dieci milioni di euro, più naturalmente gli oltre 40 milioni per le nuove case. Le cifre poi non rispecchiano davvero il costo sociale sostenuto dalla comunità, vent’anni di convivenza col crimine, comportamenti devianti, abitazioni di scarsa qualità, la pessima fama di quartiere fra i peggiori della città.
Il complesso Heygate – insieme a tanti altri quartieri popolari degli anni ’60 e ’70 – si è attirato forti critiche per l’architettura cosiddetta “brutalista”. All’inizio piaceva anche agli abitanti per le abitazioni spaziose e moderne, ma presto si iniziò a dire che così si isolavano gli alloggi, sic ostruivano spazi “morti” aumentando il rischio di comportamenti antisociali, ambienti rigidi non in grado di adattarsi alla vita contemporanea, e costosi da mantenere. Ma poi si critica anche oggi la decisione di demolire Heygate. Ci si chiede che logica ci sia nel distruggere tante case economiche in un’epoca in cui ce ne sarebbe tanto bisogno, mettendo in primo piano quanto in vent’anni abbiano contribuito la cattiva gestione e l’abbandono, al degrado. Forse il caso Heygate è il segno di un atteggiamento che cambia verso la casa popolare in generale, lo spazio urbano, la proprietà dell’alloggio.
In altri quartieri non si riesce a realizzare una vera complessità mescolando redditi diversi, case pubbliche e private. A Londra coi Docklands, quartiere di riqualificazione degli anni ’80 e ’90, residenziale e finanziario, si sono visti purtroppo tanti appartamenti di lusso dove vanno gli operatori finanziari, ma nessun intervento di case economiche per i rediti più bassi delle famiglie dell’East End. Il che sfocia in una tensione fra chi già nel quartiere ci abitava e i nuovi arrivati, con problemi di comportamenti antisociali e identità. Prima dell’attuale tendenza alla realizzazione di nuovi insediamenti, uno dei più importanti programmi del mondo per nuove città fu quello inglese delle New Towncon32 insediamenti fra il 1946 e il 1970 abitati complessivamente da tre milioni di persone. Questa esperienza ha dimostrato come ignorare la dimensione sociale dei nuovi spazi, le aspirazioni e opinioni dei residenti, sia causa di problemi di lungo termine.
L’esame della letteratura scientifica sui vari casi di nuovi insediamenti del mondo sottolinea la difficoltà di questi spazi a trasformarsi in vere e proprie città: spesso occorrono anche più di quindici anni perché si sviluppi qualche tipo di rete sociale locale. Alcune ricerche sulla Cina rilevano quanto manchi un sistema di rapporti per periodi assai lunghi, dopo il completamento dei quartieri. Si capisce il bisogno di infrastrutture a carattere sociale di alta qualità, di servizi a sostegno degli abitanti, di partecipazione alle decisioni, di spazi e attività condivisi. Egualmente importanti anche forse meno visibili di facilitazione all’incontro fra abitanti, costruzione di reti e condivisione.
Alcune ricerche della fondazione Joseph Rowntree sui quartieri riusciti ad articolata composizione sociale individuano nove priorità. Precisamente: buone abitazioni; buone scuole; quartieri sicuri, gradevoli, ordinati; assistenti sociali; asili infantili; case economiche integrate nell’insieme; attenta collaborazione fra i vari enti interessati nel progetto; personale che segua il quartiere; supervisione degli spazi pubblici e del verde. Senza questi presupposti un nuovo quartiere difficilmente produrrà coesione,ambienti vivaci che conferiscono identità e appartenenza. I casi studiati mostrano come i quartieri privi di servizi e operatori adeguati soffrano di tutta una seri di disagi sociali. L’insegnamento delle new town britanniche è di alti tassi di malattie, anche psicologiche, isolamento spesso determinato dalla povertà dei collegamenti, raggiungere amici, parenti, posti di lavoro. Altro problema quello di abitazioni poco flessibili, dove non si riesce a mantenere abitanti o attirarne dei nuovi, scarse occasioni di partecipare alle decisioni urbanistiche, con risultati di servizi e spazi inadeguati: e costi economici e sociali.
I quartieri degradati spesso hanno problemi di manutenzione; ad esempio in Gran Bretagna il forte incremento di coloro che comprano case per affittarle ha reso difficile intervenire in quartieri problematici. Difficile impedire a qualcuno di trasferirsi dove vuole, magari abbandonando chi non può farlo. Nei casi più estremi, il quartiere degradato diventa una sacca di emarginati, di soggetti vulnerabili, e relativi comportamenti antisociali, questioni di salute, istruzione, ordine pubblico. Nei quartieri si deve cercare di mantenere un insieme di abitanti a vario reddito, fasce di età, tipo di godimento dell’alloggio, per ottenere spazi desiderabili sul lungo termine. Spesso si sceglie un posto perché le case sono migliori, c’è più spazio pagando meno, ci sono occasioni di lavoro. Ma come insegna l’esperienza e dimostrano le ricerche, se non si risolvono da subito i problemi delle infrastrutture sociali, dell’isolamento, dei piccoli motivi di insoddisfazione, poi rapidamente si può scivolare nel degrado.
Il National Housing Audit del CABE nel 2007 ha rilevato un rapporto diretto tra infrastrutture sociali, servizi, e soddisfazione degli abitanti di un quartiere. E in media anche quando c’era un’ottima opinione per le case, il gradimento calava per i quartieri in generale, si descrivevano problemi di carenza di spazio pubblico, strade poco sicure per i bambini e i ciclisti, poca identità spaziale. L’insoddisfazione cresce man mano si resta di più in un quartiere: dopo un anno è scontento il 18%, solo il 10% chi ci sta da meno. La fama più o meno buona della zona si definisce molto presto: è una volta che c’è, è molto resistente al cambiamento.
L’identità di un quartiere si basa sul tipo di case, la forma o l’uso in proprietà o in affitto, i ceti sociali e il reddito, professione dei capifamiglia, immigrati. Anche se col tempo ci si evolve, la prima impressione può persistere a lungo e influenzare la disponibilità di altri a trasferirsi. Bradley Stoke, nuovo quartiere alla periferia di Bristol realizzato negli anni ‘80, è stato ribattezzato dalla stampa locale “Sadly Broke” [tristemente fallito] per via della quantità di proprietari che faticavano col mutuo. E anche vent’anni dopo quel “Sadly Broke” resiste. Ci sono già segnali che anche la nuova generazione di nuovi quartieri e città incontra certi problemi. Chenggong, a Kunming, Cina meridionale, Ordos e Qingshuihe nella Mongolia interna, sono esempi di “città fantasma”, progettate dal nulla per attirare investimenti e favorire sviluppo locale, sono vuote e lasciate a metà. Si trovano staccate dai centri esistenti, a 20 o 30 chilometri, pensate per particolari attività come estrazione mineraria, uffici governativi, università che dovrebbero trasferirsi lì.
I lavori si sono fermati a Qingshuihe nel 2007 dopo due anni. Oggi ci sono case e alberghi vuoti, giusto di fianco alla città vecchia che è “assai bisognosa di interventi sociali e infrastrutturali”. A Chenggong si dice ci siano 100.000 nuovi appartamenti, edifici pubblici, campus universitari e una metropolitana leggera: ma non ci abita nessuno.Si ritiene che sia la distanza dalle città esistenti, uno dei motivi del fallimento cinese. In un articolo sui problemi di Ordos e Qingshuihe si legge:“non è realistico pensare che una comunità si sradichi dal proprio contesto sociale e culturale da un momento all’altro: è insostenibile”. Lo stesso è avvenuto nelle nuove città egiziane del deserto. Mancanza di servizi infrastrutture sociali, unita alla distanza dal Cairo, ha reso molto difficile attirare nuovi abitanti.
In tutti questi esempi, osservatori da vari prospettive ritengono di poter trovare la risposta per come provare negli anni a venire a costruire a dimensione conforme, quartieri adatti agli abitanti. Ma si continuano anche a ripetere i medesimi errori, nonostante la ricerca e l’evidenza indichino obiettivi sociali, economici e ambientali diversi. Le amministrazioni locali, gli uffici governativi, gli enti per le case popolari, devono collaborare con urbanisti e costruttori a far sì che i nuovi quartieri nascano integrati in un quadro sociale, economico, ambientale, con strategie di investimento adeguate, se non si vuole correre il rischio di un fallimento.
(il rapporto integrale, circa 60 pagine con una breve prefazione di Peter Hall, è scaricabile direttamente da qui)
Titolo originale: Visions of a Development Rising From the Sea– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Ai newyorkesi piace un sacco, pure troppo qualche volta, inventarsi sempre nuovi nomi a definire nuove aree in gran voga, che sia NoMad (a Nord di Madison Square Park) o SoBro (South Bronx) o addirittura BoCoCa (Boerum Hill, Cobble Hill e Carroll Gardens). Adesso arriva pure LoLo: il più creativo di tutti dato che quel quartiere ancora non esiste.
LoLo, che sta per Lower-Lower-Manhattan, è una delle prime proposte uscite dal nuovo Centro Studi Immobiliari della Columbia University. L’area si creerebbe collegando Lower Manhattan e Governors Island tramite imbonimento con milioni e milioni di metri cubi di terra, in modo simile a quanto successo con Battery Park City negli anni ‘70. Su un arco di venti-trenta anni, calcolano al Centro, su LoLo si potrebbero realizzare circa otto milioni di metri quadrati di superficie di pavimento, con un gettito di oltre 16 miliardi e mezzo di dollari per l’amministrazione cittadina.
Forse si tratta di un progetto impossibile, dato che le norme per le costruzioni su area di colmata sono molto rigide. E poi Governors Island è diventata una meta molto popolare per il tempo libero e gli eventi artistici. Ma si tratta comunque di una di quelle idee di ampio respiro di cui New York ha sempre bisogno, pensa Vishaan Chakrabarti, direttore del centro studi e titolare della cattedra Marc Holliday di sviluppo immobiliare alla Columbia.
Fra gli altri progetti allo studio del centro, il modo in cui la città potrebbe stimolare nuove trasformazioni modificando le norme di zoning. Ci sono quasi quattrocento milioni di metri quadrati di diritti edificatori non sfruttati, settanta milioni solo a Manhattan. Il metodo più comune usato per costruire è quello di acquisire da edifici accanto i cosiddetti “diritti d’aria” ovvero di edificare verticalmente. Se si rendessero più elastiche le norme di zoning, secondo il Centro, un costruttore potrebbe acquisire diritti d’aria non solo da edifici accanto, ma in tutta l’area omogenea.
Del resto è stato proprio il principio adottato nella zona del progetto High Line, a cui ha lavorato Chakrabarti quando era consulente dell’ufficio di Manhattan per il cittadino Department of City Planning. Lì I costruttori possono acquisire diritti aerei da qualunque proprietà, confinante o meno. “Credo nel libero mercato” dichiara Chakrabarti. “Se c’è un bacino di acquisto limitati, le proprietà tendono ad alzare eccessivamente i prezzi, nel caso in cui il mercato si fa più fluido i diritti aerei si assestano. La cosa ha funzionato magnificamente con la High Line, oltre i nostri sogni più spinti”.
Il Center for Urban Real Estate funziona da quest’estate alla Columbia presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation. Oltre a Chakrabarti il gruppo conta su un altro professore e un ricercatore a tempo pieno, più la partecipazione parziale di un professore. I finanziamenti sono della Carnegie Corporation e della Open Society Foundations, oltre che dalla facoltà di architettura. La Durst Organization, che ha da poco donato quattro milioni di dollari alla facoltà e alla biblioteca, sostiene gli eventi annuali di presentazione delle ricerche del Centro. Prima di entrare alla Columbia nel 2009, Chakrabarti è stato vicepresidente esecutivo alla Related Companies, grossa impresa di costruzioni, per cui ha collaborato a coordinare il progetto Hudson Yards e la ristrutturazione della Moynihan Station. Continua a collaborare come consulente per la compagnia su vari progetti.
Il Centro sta anche iniziando la redazione di un Rapporto, titolo NYC2040, sulle trasformazioni edilizie di New York in un arco di trent’anni a venire, tenendo conto di politiche pubbliche e questioni ambientali. Alcuni risultati dello studio potrebbero essere anche anticipate in primavera, con pubblicazione definitiva entro l’estate. Per quanto riguarda il progetto per Governors Island, Chakrabarti ne aveva già parlato a un incontro tenuto dalla Municipal Arts Society. Mentre la versione integrale della proposta è stata esplicitata settimana scorsa al convegno “Zoning the City” del Department of City Planning.
Chakrabarti non ha ancora presentato ufficialmente il progetto LoLo agli uffici cittadini. Si rende conto che si tratta di una cosa “enorme” che necessita complesse valutazioni ambientali, procedure, e modifiche normative. Ma nonostante la difficoltà si dichiara convinto che non sia molto più complicato della variante urbanistica e realizzazione del progetto Hudson Yards, o del prolungamento della Linea 7 della metropolitana. In entrambi in casi la procedura è stata molto complessa. Ci vorranno decenni, con un costo per la città di miliardi di dollari.
La proposta comprende quaranta ettari di area a tutela storica nazionale sull’isola, 300.000 metri quadrati circa per edifici a servizi pubblici come scuole, 130 ettari di spazi aperti. Il gettito delle trasformazioni edilizie sarà sufficiente a sostenere i costi di prolungamento delle linee 1 e 6 della metropolitana nel nuovo quartiere, e per un ponte che collega con l’area di Red Hook sulla sponda di Brooklyn. Robert Pirani, direttore esecutivo dell’associazione Governors Island Alliance, gruppo che partecipa anche alla Regional Plan Association, dice di dover ancora vedere il progetto completo. Ma da quanto ne sa Pirani mette in dubbio la possibilità che con questa colmata di collegamento fra Manhattan e Governors Island si possano stimolare trasformazioni positive. “Col traghetto ci vogliono cinque minuti da Manhattan, ed è una gestione molto economica. Secondo me il fatto di essere staccato da Manhattan non impedisce affatto le trasformazioni”.
E aggiunge: “La città deve certo dotarsi di infrastrutture migliori sull’isola, dall’acqua potabile ai trasporti pubblici, così che poi qualunque intervento possa essere considerato come tutti gli altri, anziché qualcosa di amorfo e anomalo. I costruttori vogliono certezze, è quello che manca”. Il Centro propone anche l’uso di colmate per creare isole-barriera nella baia per proteggersi dalle onde, di eliminare le sponde a muro esistenti attorno a Governors Island e sostituirle con cosiddetti margini morbidi, superfici inondabili con maggiore capacità, secondo gli studiosi, di assorbire gli effetti di una tempesta. I materiali per la colmata possono essere messi a disposizione dal Genio Militare che di norma draga il porto di New York per mantenere la profondità dei corridoi di navigazione. Nei prossimi 55 anni, si calcola di dragare 180 milioni di metri cubi dal fondale, di cui la maggior parte dovrebbe essere smaltito in altre colmate o in miniere abbandonate sparse per tutto il paese.
Prima che fossero approvate le norme ora vigenti sull’imbonimento e la possibilità di costruirci sopra, era il metodo correntemente usato per ampliare la superficie della città, come per Battery Park City, realizzata dagli scavi per la costruzione del World Trade Center. È un metodo ampiamente utilizzato nelle città di tutto il mondo. Si sono usati 250 milioni di metri cubi di interramento per l’aeroporto di Hong Kong, e ben 6,65 miliardi di metri cubi per nuove superfici urbane nella baia di Tokyo. Quindi la proposta di Governors Island è abbastanza modesta, visto che si utilizzerebbero circa 23 milioni di metri cubi, stando ai calcoli dello studio. “Vishaan pensa in modo globale” giudica Vin Cipolla, presidente della Municipal Arts Society di New York, che ben conosce il progetto per Governors Island, “e non si fa certo intimorire dalle cose che possono stimolare verso il futuro una regione come la nostra”.
Titolo originale: House builders lobbied cabinet privately to get planning relaxed – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I maggiori costruttori del paese hanno esercitato privatamente pressioni sui ministri per far sì che le regole di pianificazione diventassero molto più elastiche, come rivelano alcuni documenti in possesso del nostro giornale. I responsabili delle principali imprese come Barratt, Bovis e Redrow hanno chiesto che fosse introdotto il principio della “riposta positiva pregiudiziale” alle domande di trasformazione, i che significa una enorme spinta per la loro attività. E questo principio è diventato uno dei pilastri del national planning policy framework (NPPF) oggi in corso di discussione, e che dovrebbe entrare in vigore la prossima primavera.
Nel giugno 2010, mentre ne era in corso la scrittura, la Home Builders Federation (HBF) aveva chiesto la pregiudiziale, tramite lettera molto esplicita che è circolata fra il Cancelliere George Osborne, il ministro per le aree urbane Eric Pickles, quello per le attività economiche Vince Cable, i responsabili per la casa e l’urbanistica Grant Shapps e Greg Clark. I responsabili della federazione affermavano che questo criterio doveva “essere assolutamente introdotto”, e che si trattava di uno di quelli “essenziali” del nuovo indirizzo in urbanistica. I costruttori sottolineavano anche come quel messaggio fosse una “lettera privata rivolta a lei e ai suoi colleghi ministri e altri rappresentanti del governo, che non intendiamo rendere pubblica”.
Per i costruttori si tratta di costruire migliaia di abitazioni su aree greenfield grazie a questo orientamento. Il governo sostiene che con la riforma si darà un impulso alla crescita economica aumentando l’offerta di case, che l’anno scorso è crollata a un minimo di 102.720 mentre gli obiettivi erano più del doppio. I conservazionisti sostengono invece che quella clausola rappresenta un semaforo verde per costruire comunque e dappertutto. Si teme che possa condurre a una cementificazione delle campagne, visto che il concetto di “sostenibile” tocca gli aspetti economici e sociali oltre che ambientali.
Quella richiesta si inserisce in un quadro di continue pressioni fra lettere, rapporti, incontri coi ministri, gruppi di lavoro di alti responsabili del settore privato e del governo. Uno scambio documentato grazie alla legge sulla pubblicità degli atti. Secondo una delle lettere, è il sottosegretario alla casa ad aver esplicitamente chiesto ai rappresentanti del settore si esplicitare cosa “avrebbero voluto leggere nel progetto di legge sul decentramento e il localismo, e quali contributi e idee su altri aspetti della riforma urbanistica ". La Federazione risponde di essere certamente “favorevole a quel tipo di orientamento preventivo, ma di sicuro di non averlo concepito”. Inoltre: “Nella lettera chiediamo di introdurre assolutamente un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Non si tratta di una indicazione nostra, ma di quanto è promesso in un documento del partito Conservatore del febbraio 2010”.
Il governo è già stato criticato per ché si riteneva che la sua politica urbanistica fosse troppo pesantemente influenzata dai costruttori. Sono tre o quattro i componenti della commissione consultiva per la riforma ad avere legami diretti col settore. Ma il Mnistero delle Aree Urbane nega qualunque influenza. “’idea di introdurre un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili è una politica consolidata del partito Conservatore sin dalla pubblicazione delle nostre linee urbanistiche nel febbraio 2010. Compare nel nostro manifesto, ed è esplicitamente nominata nel programma della coalizione di governo”.
La commissione ambiente della camera dei Comuni lo scorso mese ha chiesto ai rappresentanti dei costruttori di queste pressioni ministeriali. John Slaughter, responsabile delle relazioni esterne della Federazione, insieme a Liz Peace, che rappresenta i maggiori operatori riniti nella British Property Federation, ha risposto. La presidente della commissione Joan Walley, ha domandato se il documento bozza delle linee guida fosse “allineato alle proposte che voi avevate presentato ai ministri”. La Peace ha risposto che “nessuno del mondo delle costruzioni ha parlato degli orientamenti favorevoli alle trasformazioni sostenibili. Quello viene dal governo e dai ministri. Non samo stati assolutamente coinvolti nelle stesura delle linee guida, né discusso i principi generali. É stata una sorpresa interessante al momento di pubblicazione della prima bozza”. Slaughter concorda, aggiungendo che “naturalmente ci siamo incontrati, coi ministri, è del tutto normale che avvenga da parte delle persone del settore”.
Le lettere al governo in possesso del Guardian mostrano come, dopo un incontro dello scorso luglio con Steve Morgan, presidente della Redrow, nel quale il costruttore lamenta quello che considera un “abuso” delle norme sulle osservazioni da parte di chi si oppone ai progetti, Eric Pickles scrive: “Sono lieto che possiate collaborare strettamente coi nostri funzionari per sviluppare le questioni che abbiamo discusso”. Neil Sinden, responsabile per la Campaign to Protect Rural England, che chiede al governo di rivedere la riforma urbanistica, commenta: “Da questi documenti pare proprio che qualcuno nel governo si sia avvicinato un po’ troppo alla lobby dei costruttori, consentendo [al settore] un’influenza esagerata. Non sorprende che il mondo delle costruzioni abbia tanto spinto per l’orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Così si consente loro di minacciare le amministrazioni locali con costosissimi ricorsi, nel caso in cui i progetti non siano approvati”.
Naomi Luhde-Thompson, responsabile per l’urbanistica dei Friends of the Earth, aggiunge: “I costruttori hanno avuto rapporti privati di discussione col governo e lo riteniamo scorretto. La bozza di NPPF trabocca di cose che derivano da queste pressioni, nulla che sia mai stato discusso in pubblico”. Con l’orientamento favorevole ai progetti sostenibili si mette nelle mani dei costruttori uno strumento in grado di scavalcare qualunque tentativo di strategia territoriale delle amministrazioni locali, visto che "dentro il documento delle linee guida non c’è alcuna indicazione sulla insostenibilità di costruire su aree greenfield”.
Ci sono già superfici sufficienti per 620.000 abitazioni
I costruttori lamentano da tempo che la costruzione di case è bloccata dalla scarsa disponibilità di superfici e dalle norme urbanistiche troppo rigide. Ma una recente ricerca (vedi commento e rapporto scaricabile su Mall) mostra come a livello nazionale ci sia una scorta sufficiente già a disposizione del settore per costruire 620.000 case, di cui quasi il 50% con qualche tipo di autorizzazione già rilasciata. Un gruppo di pressione legato al settore delle case economiche ha dichiarato al parlamento che i costruttori “sostanzialmente stanno limitando l’offerta attraverso il controllo che esercitano su queste superfici che già possiedono”. E aggiunge che i ministri sbagliano ritenendo che il settore inizierà a trasformarle una volta rese più elastiche le norme, dato che ci sono più profitti sulle aree greenfield.
Le pressioni dei costruttori riguardano soprattutto le zone del sud-est e i centri meglio collegati a Londra da linee ferroviarie. La fascia occidentale londinese e il corridoio autostradale M4-M3 sono un obiettivo particolare, con molte delle amministrazioni sottoposte a pressione dal settore, mentre gli abitanti temono l’invasione degli spazi di green belt con case di lusso. L’associazione per le case economiche sostiene che gli operatori inizieranno a costruire sui terreni già controllati solo se ci sarà una pressione fiscale contro questo accaparramento. “Fin quando non avranno alcun rischio di perdere soldi tenendosi queste scorte, non saranno mai sfruttate”.
Titolo originale: The Food Revolution and Its Impact on Real Estate – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Cosa può contribuire insieme a fermare il riscaldamento globale, dar da mangiare a chi ne ha bisogno, renderci più sani, e aumentare il valore degli immobili? In una sessione da tutto esaurito nel recente convegno autunnale Urban Land Institute di Los Angeles abbiamo appreso che la risposta al problema è l’agricoltura a base locale. Negli Stati Uniti spesso si considera ciò che mangiamo senza conferirgli particolare importanza, dove lo si coltiva, come viene prodotto. Ma come sta imparando anche il settore delle costruzioni, il cibo può avere grossi effetti anche sul successo o meno di importanti progetti edilizi, specie in questi tempi economicamente problematici.
Il convegno “Rivoluzione alimentare e ricadute sul settore immobiliare” ha proposto tre diversi esempi di quanto il tema si stia imponendo non solo nella nostra dieta, ma anche sui quartieri. Coordinata dall’esperta californiana California di marketing Beth Callender, l’assise ci ha fornito spunti di riflessione sul ruolo del cibo come fattore di miglioramento dei complessi edilizi, strumento per costruire identità e comunità, marchio che può caratterizzare un progetto.
Si parte con la presentazione di Christian Meany, associato del costruttore di San Francisco Wilson Meany Sullivan. Nel 1998, la Wilson Meany Sullivan è stata scelta dal Porto di San Francisco per riqualificare il Ferry Building, famoso complesso della città affacciato sul mare.
Affidato in concessione per 66 anni e trasformato, il Ferry Building è uno straordinario esempio di riuso pubblico-privato. I lavori sull’edificio del 1898 hanno riguardato il ripristino della facciata storica occidentale, della torre campanaria e Grand Hall alta 201 metri. Ma l’elemento che ha davvero determinato la rinascita di tutta l’area è stato il mercato alimentare in stile europeo al pianterreno, che attirando più di un milione di visitatori l’anno ne ha fatto una delle mete principali di tutta San Francisco. Prima è stato trasferito lì con accordi specifici un farmers market già esistente. Questo a sua volta ha attirato altri esercenti. Oggi complessivamente il mercato garantisce un gettito di quasi 13.500 dollari al metro quadro.
Il secondo intervento è stato quello di Brent Herrington della DMB Associates e presidente di Kukuiula Development Company. DMB opera dall’Arizona ed è una compagnia immobiliare diversificata con tradizione sia nei complessi terziario-commerciali, che turistici e per il tempo libero, che di quartieri residenziali in tutto l’ovest degli Stati Uniti. La relazione di Herrington si è concentrata sul ruolo dell’agricoltura in un complesso turistico di lusso. Con una consolidata esperienza in fatto di ampi spazi a verde e aperti, per quartieri come DC Ranch e Verrado, entrambi in Arizona, la DMB sta oggi realizzando Kukuiula, villaggio vacanze a bassa densità su un’area di 405 ettari nell’isola hawaiana di Kauai. Come gran parte di questi interventi di lusso, anche Kukuiula comprende un classico campo da golf, luogo di riunione, complesso termale-benessere, la cosa particolarissima però qui è rappresentata dalla fattoria a gestione comune su 4 ettari. Affacciata su un lago che copre altri 9 ettari, produce banane, papaye, bietole, agrumi, erbe aromatiche, ananas, rucola, alberi del pane e altro.
C’è un piccolo gruppo di dipendenti, ma sono in molti gli abitanti che hanno scelto di sporcarsi le mani con lavoro volontario sulla terra, o altri che semplicemente se ne stanno a contemplare, godendosi però poi i prodotti a tavola. Impressionante la varietà di frutti fiori, verdure che si riesce a produrre in così poco spazio, ma ancor più impressionante quanto abbia pesato la fattoria sulla scelta degli acquirenti e l’immagine del villaggio, spendendo relativamente poco(circa un milione di dollari), specie se la si paragona agli altri costosi servizi come il campo da golf, il club, o la spa (qui siamo sui 100 milioni).
L’ultima relatrice è stata Sibella Kraus, presidente di Sustainable Agriculture Education (SAGE) a Berkeley, California. All’inizio degli anni ’80 la Kraus era una cuoca al famoso ristorante Chez Panisse, poi ha iniziato a impegnarsi nella divulgazione dell’agricoltura di prossimità. SAGE opera nel campo delle coltivazioni urbane e della partecipazione degli abitanti in una prospettiva di sostenibilità. Secondo la Kraus, agricoltura urbana non significa solo far crescere delle cose, ma anche rafforzare la comunità. Ci ha raccontato come sempre più quartieri in città diverse stiano sviluppando esperienze del genere, a partire da un “greenprint” [gioco di parole su blueprint, che significa il lucido di un progetto n.d.t.]. Un greenprint a scala regionale individua gli spazi in cui è possibile investire in aree aperte, nello stesso modo in cui si fa con gli investimenti immobiliari.
Si mangia ogni giorno, e pare del tutto logico che si avvicini il più possibile a casa la produzione alimentare, specie se si pensa al’impronte ecologica che deriva dal trasporto e distribuzione. Come ama ripetere James Howard Kunstler, “É finita l’era dell’insalata mista che viaggia tremila chilometri”. La Kraus è sembrata particolarmente convinta dell’importanza di collegare agricoltura, tutela naturale, educazione ambientale, in un sistema di parchi agricoli, cinture produttive, zone di conservazione. Ha raccontato le esperienze in corso di food belt periurbana a Fresno e altre città della California. Ha trattato il tema dell’agriturismo sollecitando le amministrazioni a distinguersi proprio sul “sapore del luogo”.
Quando riflettiamo sul futuro del settore immobiliare, quindi è evidente come alimentazione e agricoltura diventino sempre più importanti, e anche convenienti.
Titolo originale: New York’s green new underground – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sotto Delancey Street nel Lower East Side di Manhattan stanno nascosti nel buio e inutilizzati più di cinquemila metri quadrati di percorsi lastricati e soffitti a volta. Il terminale ferroviario del ponte di Williamsburg è abbandonato dal 1948, ma oggi ha suscitato l’interesse di un gruppo di investitori con un progetto ambizioso: convogliare sottoterra la luce naturale per creare un parco nel sottosuolo. Non si conoscono i particolari della soluzione tecnologica sviluppata dall’architetto James Ramsey, che è anche nel gruppo dei finanziatori, e resterà un mistero fino alla prevista dimostrazione. Ramsey ha comunque fatto cenno all’uso delle fibre ottiche.
La apprezzeranno i newyorkesi questa idea fuori del comune, così come successo per altri parchi urbani? Qui il livello dell’offerta è piuttosto alto dopo la seconda fase della High-Line a luglio, parco lineare ricavato da un tratto ferroviario sopraelevato in disuso che doveva essere demolito. Mentre oggi à una fascia erbosa sopra il livello stradale. La trasformazione ha consentito sia la conservazione di uno straordinario elemento di archeologia industriale, che attirato sei milioni di visitatori, lontano dal traffico. Non sorprende quindi che siano spuntate iniziative simili a Filadelfia, Chicago o Rotterdam.
Il sotterraneo di Delancey Street è sicuramente più audace della High Line, ma soprattutto si può fare? “Un’idea davvero stravagante, bizzarra, ma credo che abbia dei contenuti naturali” ribadisce Ramsay. Però restano parecchie questioni a cui rispondere, replica Nikolaos Karadimitriou, esperto di riqualificazione urbana all’University College di Londra. “É un progetto in grado di innescare qualche flusso economico, delle attività, delle tasse?” Potrebbe rivelarsi essenziale il sostegno degli abitanti. É il fattore che ha determinato il successo del caso della High Line. E stavolta potrebbe trasformare una “idea stravagante e bizzarra” in uno spazio verde per il Lower East Side