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SOMMARIO:

1. Governo del territorio, autonomia regionale e paesaggio nella sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011. – 2. I rapporti tra urbanistica e tutela del paesaggio e l’attuazione dell’ordinamento regionale. La ripartizione delle funzioni amministrative. – 3. Tutela del paesaggio e ripartizione di potestà legislativa tra Stato e Regioni speciali. – 4. La riforma costituzionale del 2001 e la giurisprudenza costituzionale. – 5. Conclusioni.

1. Governo del territorio, autonomia regionale e paesaggio nella sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011.

La Corte costituzionale ha giudicato di recente le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge regionale con le quali la Regione Lombardia aveva dato proprie definizioni degli interventi edilizi, discostandosi parzialmente dalle definizioni poste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. In particolare normativa lombarda aveva compreso tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, senza riprodurre il limite, previsto invece dal testo unico, del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente. La normativa lombarda si fondava dunque sul presupposto che le disposizioni del testo unico sulle definizioni degli interventi edilizi avessero il carattere di disposizioni di dettaglio, suscettibili di essere sostituite da disposizioni regionali

La Corte costituzionale ha accolto le questioni di legittimità costituzionale ricordando la sua recente giurisprudenza, successiva alla riforma costituzionale del 2001. La Corte aveva già chiarito che la materia dei titoli abilitativi all’edificazione appartiene storicamente all’urbanistica, che a sua volta fa parte del governo del territorio e aveva ricondotto nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi. A fortiori, adesso, la Corte ha riconosciuto il carattere di princìpi fondamentali della materia alle disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.

La sentenza ha trovato conferma di questa sua interpretazione anche nella più recente legislazione statale in materia edilizia, ma è interessante notare che essa ha invocato anche ragioni attinenti alla tutela del paesaggio. Secondo la sentenza, la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio: e a questo riguardo essa ha citato la relazione illustrativa al disegno di legge presentato al Senato il 25 settembre 1920 dal Ministro della pubblica istruzione Benedetto Croce, disegno di legge che divenne poi la l. 11 giugno 1922, n. 778, Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico. Il paesaggio veniva ivi considerato come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».

Dopo questa citazione, la sentenza ha ricordato la recente e pertinente giurisprudenza della Corte costituzionale. Sul territorio «vengono a trovarsi di fronte» – tra gli altri – «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni». Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul paesaggio della Nazione, inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» e sulla sua tutela.

La decisione della Corte, ampiamente condivisibile, si presta a più di un commento, ciascuno dei quali meriterebbe di essere approfondito e motivato. Ma l’aspetto più interessante della sentenza della Corte costituzionale in rapporto al tema di questa relazione è costituito dal richiamo alla protezione del paesaggio, dalla tutela costituzionale di questo valore e dalla sua incidenza sul governo del territorio, ed è questo aspetto quindi che qui si riprende e sviluppa, con riferimento soprattutto alle Regioni a statuto speciale.

2. I rapporti tra urbanistica e tutela del paesaggio e l’attuazione dell’ordinamento regionale. La ripartizione delle funzioni amministrative.

La distinzione tra urbanistica e tutela del paesaggio riposa innanzi tutto sulla diversa e separata tradizione normativa di disciplina delle due materie: la tutela del paesaggio ha preceduto storicamente la disciplina urbanistica. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha poi contribuito a distinguere le due materie: due notissime sentenze del 1968 hanno risolto in modo diverso il problema della indennizzabilità dei vincoli urbanistici e di quelli paesaggistici, e quella impostazione è rimasta ferma in tutta la giurisprudenza costituzionale successiva.

La distinzione tra le due materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio emerse inoltre chiaramente in sede di prima attuazione delle Regioni ordinarie alle quali l’art. 117 Cost. attribuiva potestà legislativa in materia di urbanistica, senza menzionare il paesaggio. La legislazione statale allora vigente prevedeva una connessione tra la due materie. La c.d. legge ponte, la l. 6 agosto 1967, n. 765, aveva modificato la legge urbanistica stabilendo che in sede di approvazione del piano regolatore generale il Ministro dei lavori pubblici potesse introdurre d’ufficio le modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali e ambientali ed archeologici; e altrettanto la stessa legge aveva disposto anche per l’approvazione dei piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore generale. La tutela del paesaggio si attuava dunque in parte attraverso la pianificazione urbanistica comunale, con una limitazione molto significativa dell’autonomia del comune nella pianificazione del proprio territorio: le modifiche d’ufficio per la tutela del paesaggio, infatti, potevano avere anche carattere sostanziale. Ma per altra parte la tutela del paesaggio si realizzava, indipendentemente dalla disciplina urbanistica, a cura esclusiva dello Sato attraverso gli specifici provvedimenti previsti dalla l. 29 giugno 1939, n. 1497.

L’attuazione dell’ordinamento regionale tenne conto di questo doppio e parallelo regime di tutela. Furono allora trasferite alla Regioni ordinarie le sole funzioni in materia urbanistica compresa l’approvazione dei piani regolatori generali e dei piani particolareggiati, ma non anche le funzioni di tutela paesaggistica disciplinate dalla l. 1497/1939, con la sola eccezione della redazione e dell’approvazione dei piani territoriali paesistici, implicitamente considerati come piani essenzialmente urbanistici. D’altra parte la Corte costituzionale respinse le censure di illegittimità costituzionale avanzate dalla Regione Liguria nei confronti del decreto di trasferimento delle funzioni per l’omissione del trasferimento delle funzioni di tutela paesaggistica proprio sul presupposto della delimitazione della materia dell’urbanistica, di competenza regionale, alla stregua della definizione datane dall’art. 1 della l. 1150/1942, secondo cui l’oggetto della legge urbanistica era l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati. La giurisprudenza, sia amministrativa che ordinaria, continuò inoltre ad affermare, come già in precedenza, l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica dalla licenza edilizia, poi dalla concessione edilizia.

La connessione, ma anche la distinzione, tra urbanistica e tutela del paesaggio venne inoltre riconosciuta, cinque anni dopo, anche in sede di completamento dell’ordinamento regionale. La materia dell’urbanistica fu definita allora in modo molto più ampio rispetto all’art. 1 della legge urbanistica, la l. 1150/1942, facendo riferimento alla «disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente». Ciò nonostante le funzioni di tutela del paesaggio non vennero trasferite alle Regioni ma soltanto delegate loro, conservando all’amministrazione statale significativi poteri integrativi e di controllo. Si riconosceva così la connessione della tutela del paesaggio con la materia urbanistica e tuttavia si confermava che la tutela del paesaggio non rientrava nelle competenze proprie delle Regioni ordinarie: non si poteva applicare il primo comma, dell’art. 118 Cost., sulle funzioni amministrative regionali proprie, ma si poteva applicare soltanto il secondo comma dello stesso art. 118 Cost., sulla delega di funzioni statali.

La distinzione tra urbanistica e tutela del paesaggio era confermata, del resto, anche dall’ordinamento delle Regioni speciali, la cui autonomia legislativa è differenziata sia rispetto a quella delle Regioni ordinarie, sia tra le stesse Regioni speciali. La tutela del paesaggio compare infatti come materia autonoma, distinta dall’urbanistica, ma sempre rimessa alla potestà legislativa regionale esclusiva, negli statuti della Valle d’Aosta, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, ove la materia è di competenza delle due Province di Trento e Bolzano. Il Friuli-Venezia Giulia, invece, esercita in materia di paesaggio una diversa e minore potestà legislativa, di integrazione e attuazione della legislazione statale. Infine il paesaggio non figura nello statuto della Regione Sardegna come materia di potestà legislativa regionale.

Oltre all’autonomia legislativa delle Regioni speciali, bisogna considerare anche la loro autonomia amministrativa, realizzata per la tutela del paesaggio in modo distinto dall’urbanistica.

Per la Valle d’Aosta il trasferimento alla Regione delle funzioni amministrative in materia di tutela del paesaggio è avvenuto in due fasi distinte, di cui la prima è addirittura antecedente all’autonomia legislativa della Regione. Nel 1946 fu infatti stabilito che le attribuzioni spettanti alle Sovrintendenze alle antichità e belle arti fossero esercitate dalla Valle d’Aosta con uffici e personale propri. La Regione Valle d’Aosta pretese di disciplinare con propria legge anche le funzioni in materia di tutela del paesaggio spettanti a organi diversi dalla Soprintendenza, ma la legge regionale fu dichiarata costituzionalmente illegittima. Le altre funzioni dell’amministrazione dello Stato in materia di tutela del paesaggio sono state trasferite alla Regione Valle d’Aosta, senza eccezione alcuna, soltanto con le norme di attuazione dello statuto emanate nel 1978.

Per la Sicilia fino al 1975 sono mancate specifiche norme di attuazione dello statuto in materia di tutela del paesaggio. Tuttavia già nel 1962 la Corte costituzionale aveva chiarito che le attribuzioni nella materia, già di competenza dell’Alto commissario, dovevano intendersi trasferite al Presidente della Regione in veste di organo decentrato dello Stato, a sensi del d.lgs.C.p.S. 30 giugno 1947, n. 567. Nel 1975, poi, le norme di attuazione dello statuto hanno devoluto alla competenza propria della Regione siciliana tutte le attribuzioni degli organi centrali e periferici dell’amministrazione statale in materia di tutela del paesaggio (nonché di antichità, opere artistiche e musei). Conseguentemente sono passati alle dipendenze della Regione, entrando a far parete integrante della sua organizzazione amministrativa, gli uffici periferici del Ministero per i beni culturali esistenti nella territorio della regione aventi competenza nelle materie trasferite.

In Trentino-Alto Adige per tutti gli anni ’60 si ebbe di fatto un ordinamento differenziato tra le due province di Trento e Bolzano. In provincia di Trento, infatti, la tutela paesaggistica continuò a essere esercitata dalla Soprintendenza ai monumenti e gallerie di Trento. Per contro la Provincia autonoma di Bolzano, pur in mancanza di specifiche norme di attuazione dello statuto, emanò una propria disciplina normativa della materia e, sulla base di questa, si sostituì allo Stato nell’esercizio delle funzioni amministrative di tutela. Le censure di illegittimità costituzionale mosse nei confronti della legge provinciale di Bolzano, e motivate proprio dalla mancanza di norme di attuazione, furono rigettate dalla Corte costituzionale; anche la Provincia di Trento disciplinò quindi la tutela del paesaggio, subentrando allo Stato nell’esercizio delle relative funzioni amministrative. A seguito del nuovo statuto della Regione Trentino-Alto Adige del 1972 sono mancate specifiche norme di attuazione in materia di tutela del paesaggio. Le norme di attuazione relative alla tutela e alla conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare hanno tuttavia adeguato l’organizzazione amministrativa dello Stato al riparto delle funzioni anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio, disponendo la soppressione della Soprintendenza ai monumenti e gallerie di Trento.

Lo statuto della Sardegna attribuisce alla Regione potestà legislativa esclusiva in materia di edilizia e urbanistica, ma non in materia di tutela del paesaggio. Tuttavia, analogamente a quanto già disposto nel 1972 per le Regioni ordinarie, nel 1975 con norme di attuazione dello statuto sono state trasferite alla Regione la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici. In seguito, nuove norme di attuazione dello statuto, emanate nel 1979, hanno esteso alla Sardegna la soluzione già adottata dal d.P.R. 616/1977 per le Regioni ordinarie, disponendo in favore della Regione Sardegna la delega delle funzioni amministrative in materia di bellezze naturali e il trasferimento delle sezioni delle bellezze naturali delle Soprintendenze per i beni ambientali e architettonici, nonché delle commissioni provinciali per la tutela del paesaggio. L’efficacia della delega, tuttavia, è stata subordinata all’entrata in vigore di una legge ordinaria per il finanziamento degli oneri derivanti dall’esercizio delle funzioni, legge che è stata emanata solo quattro anni più tardi: l’adeguamento della Sardegna al regime delle Regioni ordinarie è avvenuto quindi con una consistente dilazione temporale.

Per il Friuli-Venezia Giulia le prime norme di attuazione dello statuto, nel 1965, hanno trasferito alla Regione le funzioni amministrative in materia di urbanistica, lasciando invariate le competenze statali in tema di tutela del paesaggio. Dieci anni dopo, in sede di adeguamento e integrazione di tali norme di attuazione, sono state trasferite alla Regione le funzioni amministrative previste, per le Regioni ordinarie, dall’art. 1 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, per la parte che già non le spettava in forza delle norme di attuazione precedenti: la Regione ha quindi acquisito la competenza alla redazione e approvazione dei piani paesistici, competenza che alle Regioni ordinarie era stata riconosciuta già nel 1972. Altrettanto è avvenuto, ma con dieci anni di ritardo, per le funzioni di tutela paesaggistica delegate alle Regioni ordinarie dal d.P.R. 616/1977: nel 1987 la delega è stata estesa anche al Friuli-Venezia Giulia che dunque ha dovuto ancora attendere per ottenere il proprio adeguamento a quanto già stabilito per le Regioni ordinarie.

3. Tutela del paesaggio e ripartizione di potestà legislativa tra Stato e Regioni speciali.

Nel primo periodo di attuazione dell’ordinamento regionale la Corte costituzionale fu chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge regionale con le quali la Valle d’Aosta aveva dichiarato bellezza naturale e zona di particolare importanza turistica tutto il territorio regionale, senza alcuna discriminazione. La Corte costituzionale accolse la questione, ritenendo che le disposizioni impugnate violassero il principio del giusto procedimento, un principio dell’ordinamento giuridico dello Stato che costituiva un limite anche per la potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di paesaggio.

Il principio del giusto procedimento, peraltro, costituisce un limite solo per la potestà legislativa regionale, non per la potestà legislativa dello Stato. La dichiarazione ex lege di interesse paesaggistico, preclusa alla legge regionale della Valle d’Aosta, è stata quindi possibile, oltre vent’anni dopo, per intere categorie di beni per un provvedimento normativo statale, il c.d. decreto Galasso, emanato nella forma di decreto-legge, dopo che un provvedimento amministrativo tendente allo stesso risultato (e ugualmente denominato decreto Galasso) era stato parzialmente annullato dal tribunale amministrativo regionale del Lazio.

Il decreto Galasso ha confermato la connessione tra urbanistica e tutela del paesaggio, pur nella distinzione tra le due materie, ammettendo l’equivalenza tra piani paesistici e piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali, e ha assunto grande rilevanza anche nei rapporti fra Stato e Regioni speciali. La legge di conversione ha infatti stabilito che le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, idonee dunque a limitare anche la potestà legislativa esclusiva in materia di paesaggio delle Regioni Valle d’Aosta e Sicilia e delle Province autonome di Trento e Bolzano.

La Corte costituzionale, chiamata a giudicare varie questioni relative al decreto Galasso, ha confermato ancora che la tutela del paesaggio non è assorbita nella materia dell’urbanistica, di competenza regionale, ha attribuito alla tutela del paesaggio il carattere di valore primario, insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro, ha dato rilievo al principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni per il perseguimento della tutela paesaggistica, ha riconosciuto il carattere di grande riforma economico-sociale della Repubblica nella nuova disciplina e ha quindi dichiarato infondate le censure mosse al decreto dalla Regione Valle d’Aosta e dalle Province di Trento e Bolzano, le quali avevano lamentato la lesione della loro potestà legislativa primaria.

Ma, per quanto concerne specificamente la Sardegna, bisogna ricordare anche un conflitto di attribuzioni sorto a seguito di un ordine del giorno approvato dal Consiglio regionale della Regione Sardegna il 27 luglio 1995, con il quale si era deciso di considerare definitivi i provvedimenti emanati nell’esercizio delle funzioni amministrative delegate in materia paesistica e di impegnare la Giunta regionale a adottare comportamenti conseguenti con il Ministero per i beni culturali e ambientali, mutando la prassi seguita in precedenza. La Corte ha accolto il ricorso confermando che il paesaggio costituisce, nel nostro sistema costituzionale, un valore etico-culturale che trascende la competenza della Regione in materia urbanistica e nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni e, in primo luogo, lo Stato e le Regioni, ordinarie o speciali, in un vincolo reciproco di cooperazione leale. La sentenza ha respinto la tesi che, vertendosi in materia di funzioni amministrative delegate, i provvedimenti regionali sarebbero stati da considerare definitivi e, in quanto tali, non soggetti a riesame, rilevando per contro che il regime giuridico dei provvedimenti regionali in materia paesaggistica era definito esaustivamente dall’art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431 (di conversione in legge del decreto Galasso), il quale poneva l’obbligo di comunicazione di tali provvedimenti al Ministero per i beni culturali e ambientali, proprio ai fini dell’esercizio dei poteri di controllo. La sentenza ha ricordato la giurisprudenza costituzionale secondo cui i poteri ministeriali previsti dalla l. 431 del 1985 sono posti a estrema difesa dei vincoli paesaggistici e, come tali, costituiscono parte di una disciplina qualificabile, per la diretta connessione con il valore costituzionale primario della tutela del paesaggio (art. 9 Cost.), come norme fondamentali di riforma economico-sociale, in conformità, del resto, alla esplicita e, in questo caso, pertinente autoqualificazione contenuta nell’art. 2 della stessa legge. E come le disposizioni legislative statali che prevedono doveri di comunicazione e poteri ministeriali di controllo non possono essere derogate, modificate o sostituite da leggi regionali, così, a maggior ragione, non possono essere violate dalla Regione nell’esercizio di potestà amministrative delegate. Tanto meno ne può essere resa dubbia l’effettività dal Consiglio regionale che, insieme agli altri organi direttivi della Regione, è destinatario di un dovere costituzionale di lealtà verso lo Stato. A tutela della Regione, la sentenza ha soltanto riconosciuto che il principio di leale cooperazione non opera in modo unidirezionale: al dovere della Regione di comunicare immediatamente i provvedimenti adottati e la documentazione sulla quale essi si fondano, corrisponde il dovere dello Stato di non determinare ingiustificati aggravamenti del procedimento con richieste di documentazione pretestuose, dilatorie o tardive, suscettibili di menomare l’esercizio delle attribuzioni regionali interferenti con la tutela del paesaggio. (SEGUE)

PROGRAMMA

Venerdì 2 dicembre

h. 15,30 saluti

h. 15.45: “Il significato di patrimonio culturale e paesaggio, fino alle recenti modifiche normative del Codice dei Beni Culturali”
Prof. Edoardo SALZANO, già Ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell’Università Iuav di Venezia

h. 16,30: “La pianificazione paesaggistica e urbanistica del territorio tra normativa statale e legislazione delle Regioni a statuto speciale: quadro costituzionale”.
Prof. Alberto ROCCELLA, docente di diritto urbanistico Università di Milano

h. 17.10: “La giurisprudenza amministrativa in materia paesaggistica tra potestà normativa e regolamentare delle Regioni a Statuto Speciale”, 
Dott. Luca MONTEFERRANTE, magistrato addetto al Massimario e Ufficio Studi del Consiglio di Stato

h. 17.50: Interventi

- on. Ugo CAPPELLACCI, Presidente della Regione Autonoma della Sardegna

- on. Claudia LOMBARDO, Presidente del Consiglio Regionale della 
Sardegna

- dott.ssa Maria Assunta LORRAI, Direttore Regionale Ministero Beni 
Culturali

- Prof. Avv. Benedetto BALLERO, Docente di diritto costituzionale e 
regionale

- dott. Stefano DELIPERI, presidente Associazione ambientalista Gruppo

Intervento Giuridico

DIBATTITO

Sabato 3 dicembre 2011

h. 9,15 “Potestà normativa e regolamentare delle Regioni (a Statuto Speciale) e possibili interferenze sull’ambito applicativo della norma penale”
Dott. Aldo FIALE, consigliere della Suprema Corte di cassazione.

h. 10,15: “La pianificazione del territorio tra tutela e valorizzazione del paesaggio e sviluppo sostenibile della Regione”
On. Avv. Giulio STERI, avvocato dello Stato e consigliere regionale

h. 11,00: “Orientamenti giurisprudenziali in materia di violazioni paesaggistiche”. Dott. Luca RAMACCI, consigliere della Suprema Corte di cassazione.

h. 12,00: interventi

- Dott.ssa Maria Paola MORITTU, Pres. reg. Associazione Italia Nostra

- Dott. Alberto SCANU, Presidente Associazione Industriali Sardegna Sud

- Ing. Gianluca COCCO, segretario Ordine Ingegneri Cagliari

- Arch. Tullio ANGIUS, Presidente Ordine Architetti Cagliari 


DIBATTITO

1. L’esperienza della pianificazione territoriale paesistica in Sardegna.

La “storia” della pianificazione territoriale paesistica in Sardegna è stata, come in altre regioni d’Italia, particolarmente travagliata1. Di piani paesistici o piani territoriali paesistici, previsti come facoltativi per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497) ne venne definitivamente approvato soltanto uno, quello del Molentargius e del Monte Urpinu2, già redatto dalla locale Soprintendenza per i beni ambientali, architettonici, artistici e storici e successivamente revisionato da specifica commissione regionale nominata in conseguenza del trasferimento della competenza in materia di redazione ed approvazione dei piani paesistici e piani territoriali paesistici dallo Stato alla Regione autonoma della Sardegna in forza dell’art. 6 del D.P.R. 22 maggio 1975, n. 4803.

Nessun esito, purtroppo, avevano avuto studi e lavori propositivi per piani paesistici svolti da alcuni fra i più importanti urbanisti italiano nel corso degli anni ‘604. L’obbligo posto in capo alle regioni “di redazione di piani paesistici o piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” con cui tutelare e valorizzare il proprio territorio (in primo luogo le aree tutelate con specifico vincolo paesaggistico) dall’art. 1 bis della legge 8 agosto 1985, n. 431 (la c.d. legge Galasso) ha, senza dubbio, dato impulso all’Amministrazione regionale. Dopo un primo periodo durante il quale aveva addirittura negato l’applicabilità di buona parte delle disposizioni della legge n. 431/1985 (nota Presidente Giunta regionale n. 11563 del 20 ottobre 1985), la Regione autonoma della Sardegna provvide ad individuare sedici zone di varia ampiezza sottoposte al vincolo temporaneo di non trasformabilità ai sensi dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985 fino all’approvazione dei previsti strumenti di pianificazione territoriale.

Con la legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 veniva ampliato l’ambito vincolante della pianificazione territoriale paesistica, giungendo a prevederla, oltre che per le aree tutelate con vincolo paesaggistico, perlomeno per la fascia costiera dei due km. dalla battigia marina: con gli artt. 12 e 13 venivano, nel contempo, posti vincoli temporanei (più volte reiterati) e graduali finalizzati all’approvazione definitiva dei piani territoriali paesistici.

Dopo l’adozione da parte della Giunta regionale ex art. 11 della legge regionale n. 45/1989 ed il prescritto periodo di pubblicazione negli albi pretori per le “osservazioni” da parte di chiunque vi avesse interesse, venne emanata la legge regionale 7 maggio 1993, n. 23 che, principalmente, conferì all’Esecutivo regionale la competenza già del Consiglio sull’approvazione definitiva dei piani territoriali paesistici ed individuò una serie di beni territoriali (in primo luogo la fascia dei 300 metri dalla battigia marina) tutelati con vincolo di integrale conservazione delle caratteristiche naturali e, conseguentemente, inedificabili. Per dare organicità all’operazione pianificatoria vennero approvate il 13 maggio 1993 ulteriori disposizioni di omogeneizzazione e coordinamento dei piani territoriali paesistici mentre nella seduta del 16 giugno 1993 la Commissione consiliare competente in materia urbanistica espresse il proprio parere ai sensi dell’art. 7 della legge regionale n. 23/1993. Nelle sedute del 3 e del 6 agosto 1993 la Giunta regionale deliberò l’approvazione dei quattordici piani territoriali paesistici, i quali vennero resi esecutivi con altrettanti decreti del Presidente della Giunta, dal n. 266 al n. 279 del 6 agosto 1993 e successivamente pubblicati sul supplemento ordinario n. 1 al B.U.R.A.S. n. 44 del 19 novembre 19937.

2. I provvedimenti di annullamento dei piani territoriali paesistici.

La concreta possibilità di forte “trasformabilità” senza particolari motivazioni di vaste aree di elevato valore ambientale (soprattutto lungo le coste) spinse l’associazione ecologista Friends of the Earth International - Amici della Terra ad impugnare tutti i decreti di esecutività dei piani territoriali paesistici chiedendone l’annullamento: sette davanti al T.A.R. Sardegna, i rimanenti con ricorso straordinario al Capo dello Stato. A conclusione del prescritto iter procedimentale (relazioni del Ministero per i beni culturali ed ambientali e delle locali Soprintendenze ai beni ambientali ed ai beni archeologici, controdeduzioni degli Assessorati regionali competenti in materia di beni culturali e di difesa dell’ambiente) sette decreti del Presidente della Repubblica, quattro adottati in data 29 luglio 1998 e tre in data 20 ottobre 1998, hanno annullato altrettanti decreti di esecutività di piani territoriali paesistici su conformi pareri del Consiglio di Stato (sezione II), resi in sede consultiva rispettivamente nelle adunanze del 13 e del 20 maggio 1998.

I pareri del Consiglio di Stato, accogliendo pressochè in toto le motivazioni addotte nei ricorsi ecologisti, hanno “demolito” l’operazione pianificatoria regionale. Nella prima serie di pareri (adunanza del 13 maggio 1998) il Collegio ha ritenuto, accogliendo un motivo di ricorso, che nell’individuazione degli ambiti territoriali qualificati da graduali interventi di trasformazione (“2 a”, “2 b”, “2 c”, “2 d” e “2 e”), indicati dall’art. 17 della normativa di attuazione dei piani territoriali paesistici, venissero previsti interventi ammissibili (artt. 18 e 22 della normativa di attuazione) “per tabulas ... in assoluto contrasto con la primaria esigenza di tutela del paesaggio. ... Sul piano pratico, risultano ammissibili una serie d’interventi in antinomia giuridica con la ratio di tutela del paesaggio”. La Sezione aveva puntualmente osservato che “risultano autorizzabili interventi per la realizzazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico: opere stradali, aereoportuali, ferroviarie, idriche, “B a” (parco giochi acquatici), “D b” (discariche ed impianti di depurazione), “D d” (dighe ed acquedotti), “F f” (insediamenti di tipo industriale), “G” (interventi di carattere estrattivo), “H” (interventi di carattere turistico: alberghi, residence) ed “I” (attività a carattere produttivo)”, mentre il successivo art. 21 della normativa di attuazione disponeva, in relazione alle aree classificate “2 d” una “gamma illimitata di usi consentiti in palese contrasto con l’interesse generale della salvaguardia del paesaggio”. Conseguentemente, “l’eccesso di potere ha determinato l’adozione di un atto in contrasto con la funzione primaria del piano territoriale paesistico”, la quale “è l’attuazione specifica della valorizzazione ambientale a livello di pianificazione urbanistico-territoriale”, come affermato dalla costante giurisprudenza costituzionale ed amministrativa9: i piani territoriali paesistici della Sardegna avevano invece “adottato una disciplina in contrasto con la tutela del paesaggio ... consentendo interventi di trasformazione non in linea con la natura paesaggistica delle aree”. Sembra opportuno evidenziare che non risultavano in alcun modo motivazioni di sostegno alle previsioni di modificabilità di aree tutelate con vincoli ambientali, neppure individuate le zone soggette ad uso civico (legge n. 1766/1927, regio decreto n. 332/1928, legge regionale n. 12/1994 e successive modifiche ed integrazioni)10, nè le volumetrie massime ammissibili, in violazione dell’art. 23, comma 1°, nn. 1 e 5, del regio decreto 3 giugno 1940, n. 1357, nè le qualità architettoniche dei nuovi edifici, con riguardo alla distribuzione e localizzazione del territorio. Infatti, la natura e le scelte operate dallo strumento di

pianificazione imponevano “l’assoluto rispetto del principio della congrua motivazione, in relazione ai dati di fatto emersi nell’iter istruttorio ed alle ragioni di diritto a fondamento delle scelte programmatorie“, mentre si è riscontrata “assoluta carenza di motivazione in ordine alla classificazione come trasformabili di zone oggetto di tutela paesaggistica, dotate di destinazione ad area protetta, gravate da usi civici, con presenza di vincoli idrogeologici, archeologici e come zone umide”.

La seconda serie di pareri, resi dalla seconda Sezione del Consiglio di Stato nell’adunanza del 20 maggio 1998, aveva, viceversa, ritenuto assorbente per il suo carattere fondamentale la censura concernente la previsione nell’atto impugnato della “trasformabilità” senza adeguata motivazione di aree di elevato valore ambientale tutelate con il vincolo paesaggistico o altri vincoli di natura ambientale.

Preventivamente la Sezione considerava che la normativa di attuazione dei piani territoriali paesistici prevede (art. 12) tre ambiti di tutela: gli ambiti di “conservazione integrale” (art. 13 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “1”, dove, per l’eccezionale valore dei caratteri naturalistici, storici e morfologici non risultavano ammesse alterazioni dello stato dei luoghi, ma soltanto interventi di ripristino e fruizione ambientale), gli ambiti di “trasformazione” (art. 17 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “2”, dove la “trasformabilità” del territorio veniva modulata in progressive cinque fasce in relazione ai valori ambientali presenti) e gli ambiti di “restauro e recupero ambientale” (art. 23 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “3”, dove, graduatamente, venivano consentiti interventi di risanamento ambientale). In primo luogo, il massimo Organo di giustizia amministrativa osservava che, nella “tabella degli usi compatibili” allegata ad ogni piano territoriale paesistico, soltanto per gli interventi di cui alla lettera A (uso di area protetta) risultava esplicitamente previsto il preventivo conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497/1939 (oggi artt. 146 e 159 del decreto legislativo n. 42/2004 e già art. 151 del decreto legislativo n. 490/1999), mentre per tutte le altre tipologie di intervento nulla era detto. Non si riteneva sufficiente “il procedimento di studio e accertamento di compatibilità paesistico-ambientale” di cui agli artt. 9 - 11 della normativa di attuazione “perchè, a tacer d’altro (ad es. sulla natura non di discrezionalità tecnica dell’atto conclusivo), si tratta di procedimento ed atto non sottoposto alle regole e ai controlli propri del procedimento di autorizzazione paesistica (ivi incluso il potere ministeriale di annullamento ex art. 82, nono comma, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, come introdotto dall’art. 1, quinto comma, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, che vale anche per la Regione Sardegna: Corte Cost., 18 ottobre 1996, n. 431)”.

Opportunamente è stato delineato il quadro normativo e giurisprudenziale del piano territoriale paesistico e dei suoi rapporti con il vincolo paesaggistico di cui alle leggi n. 1497/1939 e 431/1985 (ed oggi il decreto legislativo n. 42/2004, in precedenza il n. 490/1999). Il piano paesistico “è un mezzo di tutela del paesaggio che, sia nel suo momento genetico, che in quello funzionale, è connesso da un lato con i vincoli paesistici, da un altro con l’autorizzazione puntuale agli interventi, di cui all’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”: pertanto la relazione giuridica, secondo il sistema delineato dalla legge n. 431 del 1985, tra il vincolo paesaggistico/ambientale e il piano paesistico è, in senso temporale e procedimentale, di presupposizione, mentre in senso gerarchico e sostanziale, di sottordinazione del piano al vincolo e, conseguentemente, di sottordinazione del nullaosta al piano stesso.

La giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha, infatti, visto “nel piano paesistico uno strumento di attuazione del vincolo, in quanto atto inteso a disciplinarne l’operatività (Corte costit., 13 luglio 1990, n. 327) e a determinarne la portata, i contenuti, i limiti e gli effetti ... concretando un momento logicamente successivo della sua regolazione (Corte costit., 28 luglio 1995, n. 417), volto ad ulteriormente disciplinare ... l’operatività del vincolo paesistico, che in ogni caso permane e non viene meno (Cons. Stato, VI, 14 gennaio 1993, n. 29; Cons. Stato, VI, 20 gennaio 1998, n. 106)”. Il piano paesistico è, quindi, il peculiare “strumento” di attuazione “dinamica” del vincolo paesaggistico, lo presuppone e, naturalmente, non vi può derogare: deve mantenerne il contenuto precettivo e porsi, in sostanza, come ulteriore precisazione della caratteristica coercitiva del vincolo stesso mediante la preventiva valutazione di compatibilità paesistico-ambientale degli interventi proposti.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto, quindi, necessario ricordare che il contenuto precettivo fondamentale del vincolo paesaggistico consiste “nella imposizione del previo giudizio di compatibilità dell’opera che si intende realizzare con le esigenze dell’àmbito protetto e dunque con i valori ambientali e paesaggistici specifici della zona (Cons. Stato, VI, 11 giugno 1990, n. 600), giudizio che si estrinseca nella concessione o nel diniego dell’autorizzazione dell’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”

Per quanto riguarda il contenuto concreto del piano, esso deve individuare, zona per zona, gli interventi preclusi per la loro inconciliabilità con i contenuti del vincolo paesaggistico concernenti l’area determinata: il piano introdurrà, pertanto, un regime di non modificabilità assoluta di certe zone o di non compatibilità assoluta di determinate opere. “Per queste zone o opere, il giudizio di incompatibilità viene effettuato una volta per tutte, sì che non può esservi più nemmeno luogo alla autorizzazione. E’ questa la prima valutazione da compiere nell’estrinsecazione della discrezionalità tecnica che presiede alla funzione conservativa del vincolo”. Per le altre zone si dovrà continuare a procedere con la valutazione in concreto dell’eventuale compatibilità (magari con modifiche e/o prescrizioni) dell’intervento proposto mediante giudizio tecnico-discrezionale: qui il piano detterà criteri e parametri generali di giudizio, imporrà o vieterà tipologie di materiali o di tecniche costruttive, anche per il recupero ambientale, ma sempre “allo scopo conservativo di impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica (art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497)”.

Questa funzione del piano paesistico disposta dall’art. 1 bis della legge n. 431/1985 (successivamente dagli artt. 149 e 150 del decreto legislativo n. 490/1999 ed oggi dagli artt. 135, 143-145 del decreto legislativo n. 42/2004) si aggiunge e si integra con quanto indicato dall’art. 23 del regio decreto n. 1357/194014, con l’eventuale (v. Cons. Stato, Sez. VI, 12 novembre 1990, n. 951) ricognizione di beni individuati in via generale dalla legge (es. i boschi, v. Cons. Stato, Sez. VI, 19 maggio 1994, n. 794). Visto che il piano paesistico è sovraordinato alla pianificazione urbanistica (oggi ex art. 145, comma 3°, del decreto legislativo n. 42/2 004, già art. 150, comma 2°, del decreto legislativo n. 490/1999), ulteriore funzione assegnatagli è quella di condizionare la successiva attività pianificatoria, finendo per assolvere al compito di essere strumento di base della regolamentazione complessiva dell’uso del territorio tutelato con vincoli ambientali e di contenimento dello sviluppo urbanistico entro limiti e condizioni che assicurano inderogabilmente la conservazione dei valori ambientali tutelati.

La Sezione ha, poi, accortamente osservato che, in base all’equivalenza degli strumenti pianificatori stabilita dalla legge (ora art. 135 del decreto legislativo n. 42/2004, già art. 149, comma 1°, del decreto legislativo n. 490/1999 e art . 1 bis, comma 1°, ultima parte, della legge n. 431/1985), il piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali (strumento che, in sostanza, è stato previsto in Sardegna), che può riguardare anche aree prive di vincolo paesaggistico, non può che avere stessi contenuti e tipologia di “gestione” del vincolo in relazione alle aree tutelate, come interpretato dalla più autorevole giurisprudenza. I contenuti prescrittivi del piano hanno, inoltre, una funzione garantista, offrendo ai cittadini indirizzi e prevedibilità delle scelte della pubblica amministrazione in modo da poter svolgere le proprie valutazioni su progetti ed investimenti.

Il Collegio ha afferma, quindi, che il piano che difetti delle caratteristiche enunciate viene meno alla sua funzione “ed è quantomeno illegittimo per difformità rispetto al modello legislativo, quando non addirittura inesistente in quanto tale ... per assenza di realizzazione dalla funzione prescrittiva assegnatagli dalla legge come necessaria”: nel caso specifico i piani territoriali paesistici impugnati appaiono “realizzare non già uno strumento di attuazione e di specificazione del contenuto precettivo del vincolo, bensì una deroga ad esso” sia in relazione all’eliminazione della previsione della necessità del nullaosta paesaggistico per gli “usi compatibili” diversi da quelli sub “A - uso di area protetta”, sia in riferimento “alla funzione di progressione nella definizione del contenuto precettivo del Piano”.

Ma il Consiglio di Stato è andato ben oltre, censurando pesantemente l’operato della Regione autonoma della Sardegna. I piani territoriali paesistici annullati prevedevano, illegittimamente, “ampie categorie e tipologie di usi reputati come compatibili con un contesto le cui caratteristiche di bellezza naturale debbono essere salvaguardate”. Esse “sono in realtà di mole, impatto e rilevanza tale da comportare, sia nel loro insieme che ad una ad una, con gli elevati livelli di trasformabilità del territorio che consentono, il denunciato snaturamento delle caratteristiche naturali, ambientali e paesaggistiche che, invece, si afferma di voler tutelare e conservare”. Alcuni degli “usi compatibili” (infrastrutture stradali e ferroviarie, dighe ed altre opere idriche, aziende di trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, strutture per l’allevamento, cave, strutture ricettive, strutture residenziali stagionali) sono apparsi “assolutamente incompatibili” per le aree di conservazione integrale, “inadeguati ed incongrui” per le aree di interesse archeologico e “di compatibilità certamente da condizionare e limitare incisivamente” per le restanti zone dei piani al fine di preservare efficacemente i valori ambientali/paesaggistici che si intendono tutelare. Nel caso dell’attività pianificatoria svolta in Sardegna, affermava il Consiglio di Stato, “a ben vedere, appare che la preoccupazione reale sia stata quella di contrastare, usando in modo improprio dell’occasione offerta dalla pianificazione paesistica, gli effetti limitativi propri del vincolo, garantendo comunque l’effettuazione di ponderosi interventi, piuttosto che, al contrario, di definire i ristretti parametri di compatibilità che consentano di mantenere ... inalterato il quadro complessivo dei valori paesistico-ambientali protetti. Il che è, dal punto di vista del contenuto, l’esatto rovesciamento della funzione propria del piano paesistico”, realizzando un evidente vizio

E’ stato, conseguentemente, censurato il metodo stesso di individuazione delle tipologie di interventi definiti aprioristicamente “compatibili” (dei quali soltanto quelli di tipologia “A” previo specifico nullaosta): sembra voler precostituire, dal punto di vista paesaggistico, “le condizioni per l’affermazione della libertà dell’intervento (salva, nei limitati casi per cui è fatta restare, l’autorizzazione)”. Si è trattato, pertanto, dell’esatto contrario dell’operazione prima delineata di individuazione delle incompatibilità assolute e dei criteri di valutazione delle incompatibilità relative: “in realtà, ci si trova di fronte proprio al descritto illegittimo scopo di deroga al vincolo e dunque alla negazione della funzione essenziale e tipica del Piano paesistico”.

3. I successivi sviluppi.

La Giunta regionale, in seguito alla notifica dei provvedimenti di annullamento dei piani territoriali paesistici, adottò due provvedimenti cautelari ex art. 14 della legge regionale n. 45/1989 (deliberazioni G.R. n. 50/40 del 17 novembre 1998 e n. 54/10 del 9 dicembre 1998) che inibivano, rispettivamente nelle aree rientranti nei primi quattro e nei successivi tre piani territoriali paesistici annullati, gran parte degli interventi di modifica del territorio per un periodo di tre mesi decorrenti dalla pubblicazione sul B.U.R.A.S.

Successivamente, terminata l’efficacia dei detti provvedimenti, non è intervenuto alcun atto concreto finalizzato alla redazione dei nuovi atti (o al nuovo unico atto) di pianificazione territoriale paesistica. A livello normativo vi è stato il deposito presso il Consiglio regionale di una nutrita serie di disegni di legge di iniziativa della Giunta e di gruppi di consiglieri19, in ogni caso mai discussi dall’Assemblea elettiva. Sul piano amministrativo non risulta alcuna attività in merito.

In ogni caso hanno ripreso efficacia, ai sensi dell’art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999, i decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici annullati (Giara di Gesturi, Argentiera e Porto Conte, Stagni di Casaraccio e delle Saline, Capo Marrargiu, Stagno di San Teodoro, Litorale tra Badesi e Valledoria), come segnalato anche dall’Assessorato pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport con note n. 1035 TP/SS del 3 febbraio 2000 agli Enti locali interessati, alle Soprintendenze aventi sede nel territorio regionale, agli ordini e collegi professionali ed alle restanti strutture dell’Amministrazione regionale.

4. Le sentenze del T.A.R. Sardegna.

A distanza di quasi dieci anni dall’inoltro dei relativi ricorsi il T.A.R. Sardegna ha depositato sei sentenze (le nn. 1203, 1204, 1206, 1207 e 1208 del 6 ottobre 2003) di annullamento di altrettanti piani territoriali paesistici in seguito ai ricorsi inoltrati da Friends of the Earth International - Amici della Terra e da Legambiente limitatamente ai piani n. 1 “Gallura”, n. 7 “Sinis” e n. 11 “Marganai”. Le motivazioni di annullamento del T.A.R. Sardegna hanno fatto esplicito riferimento alle argomentazioni autorevolmente addotte dal Consiglio di Stato. Anzi, il Giudice amministrativo sardo ha iniziato il suo percorso logico di giudizio proprio dai pareri espressi dal Consiglio di Stato (“le ... osservazioni sono condivise dal Collegio”). In particolare il T.A.R. ha fatto propria “l’impostazione che la Seconda Sezione ha dato alla problematica, individuando nella tabella degli usi compatibili il punto nodale della disciplina”. Tale tabella, come ormai noto, impone l’acquisizione del parere di compatibilità paesistica soltanto per gli usi previsti alla lettera “A”, “mentre tale prescrizione non è ripetuta per gli usi elencati alle lettere successive”. Questa disposizione, ritenuta illegittima, comporta da sola, secondo il Giudice amministrativo sardo, l’illegittimità del “piano nel suo complesso”. Il T.A.R. cagliaritano ha accolto, inoltre, i criteri di definizione e di operatività elaborati dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato riguardo gli atti di pianificazione territoriale paesistica: “il piano territoriale paesistico si colloca fra il provvedimento d’apposizione del vincolo, che presuppone, ed il provvedimento con il quale vengono consentiti usi della zona vincolata, disciplinando l’esercizio del potere autorizzatorio, in modo da fornire parametri certi agli interessati”. Costituisce, pertanto, strumento di programmazione dell’attività gestionale tecnico-amministrativa del vincolo ambientale “anche nell’interesse dei proprietari immobiliari”, essendo conoscibili parametri ed indirizzi certi riguardo l’esercizio dei poteri discrezionali inerenti la gestione del medesimo vincolo.

Il T.A.R. ha ripreso esplicitamente il percorso logico-giuridico del Consiglio di Stato anche per quanto concerne l’individuazione del piano territoriale paesistico quale strumento di definizione del contenuto precettivo del vincolo ambientale e di autoregolamentazione preventiva di taluni aspetti della discrezionalità tecnica che presiede al procedimento di esame delle istanze di modifica delle aree vincolate. Puntualmente, “il piano paesistico, essendo in posizione inferiore, ha nel vincolo il suo titolo ed il suo limite e non può modificarlo o derogare ad esso, ma può (anzi ... deve, per ciò che attiene alla normativa d’uso e di valorizzazione ambientale del territorio) solo specificare i contenuti precettivi, ed il contrasto tra i due va risolto in favore del vincolo”.

Il piano deve, anche per il Giudice sardo, provvedere ad individuare – “per un’evidente ragione di economia dell’azione pubblica successiva” – gli interventi, le tipologie, le aree di elevato valore naturalistico-ambientale dove è esclusa qualsiasi attività di modifica territoriale a causa dell’incompatibilità con i valori tutelati. La conclusione non ha potuto essere che la medesima: “le ampie categorie e tipologie di usi reputati come compatibili con un contesto le cui caratteristiche di bellezza naturale devono essere salvaguardate sono in realtà di mole, impatto e rilevanza tale da comportare, sia nel loro insieme che ad una ad una, con gli elevati livelli di trasformabilità del territorio che consentono il denunciato snaturamento delle caratteristiche naturali, ambientali e paesaggistiche che, invece, si afferma di voler tutelare e conservare”.

In sostanza, anche in considerazione del lungo tempo trascorso dal deposito dei ricorsi avverso i provvedimenti portanti i suddetti atti di pianificazione (1994) e dalle decisioni relative ai ricorsi straordinari al Capo dello Stato (1998), non sembra proprio seguita una via logico-giuridica originale21.

In attesa dei nuovi piani e di un’eventuale normativa regionale transitoria, hanno ripreso efficacia, ai sensi dell’art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999, gli ulteriori decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici ora annullati (Castello di Quirra, Porto sa Ruxi, Monti dei Sette Fratelli, Rio Piscinas di Arbus, Costa di Siniscola e Orosei, Costa ed entroterra di Baunei e Dorgali, Castelsardo, Arcipelago della Maddalena). Successivamente si sono susseguite iniziative politiche ed amministrative finalizzate ad una nuova attività di pianificazione, anche se poco produttive sul piano concreto.

5. Un problema trascurato: la vigenza dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985.

Soltanto con la nuova Amministrazione regionale conseguita alle elezioni del giugno 2004 si è avuto un deciso impulso finalizzato ad una nuova attività di pianificazione territoriale paesistica. Il primo provvedimento amministrativo di rilevante importanza è stato proprio in tema di salvaguardia costiera ed in vista della nuova pianificazione. Un aspetto problematico decisamente importante ha riguardato la tipologia di provvedimento da adottare e, purtroppo, non ha soccorso la palese difficoltà di coordinamento e raccordo normativo fra disposizioni di tutela paesaggistica succedutisi nel tempo. In particolare per quanto concerne l’applicabilità dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985 per l’adozione di provvedimenti di vincolo di non trasformabilità temporanea di aree costiere (ed aree interne) già tutelate con il vincolo paesaggistico fino all’adozione del nuovo piano territoriale paesistico.

In primo luogo, si deve evidenziare che l’art. 1 ter della legge n. 431/1985 appare tuttora vigente, al pari dell’art. 1 quinques che consente l’adozione di provvedimenti con simile finalità: infatti non risulta stato abrogato dall’art. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 (T esto unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali) nè dal recente art. 184 del decreto legislativo n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). L’art. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 testualmente dispone: “... sono abrogate le seguenti disposizioni: ... decreto legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1985, n. 431, ad eccezione dell’articolo 1 ter e dell’articolo 1 quinques”. L’art. 184 del decreto legislativo n. 41/2004 fra le disposizioni abrogate non cita gli articoli 1 ter ed 1 quinques della legge n. 431/1985. Si ricorda che l’abrogazione di disposizioni di legge, per principio generale del nostro ordinamento, deve essere esplicita (“ubi lex voluit, dixit”). Ulteriore elemento che depone per la loro vigenza è costituito dall’art. 159, comma 5°, del decreto legislativo n. 42/2004, il quale dispone che le autorizzazioni paesaggistiche nelle aree tutelate con il citato art. 1 quinques (zone non tutelate dal vincolo paesaggistico ed individuate dalle regioni, in base al D.M. 21 settembre 1984, antecedente alla legge n. 431/1985, come “non trasformabili” fino all’adozione del piano territoriale paesistico) non possano essere emanate fino all’approvazione del relativo piano territoriale paesistico: se la norma fosse stata abrogata, la disposizione sarebbe priva di senso e di contenuto.
 Appare opportuno evidenziare che la competenza dell’Esecutivo regionale all’adozione di provvedimenti di tutela cautelare in materia paesaggistica risulta rafforzata dall’art. 57, comma 2°, lettera e, del D.P.R. n. 348/1979 (normativa di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna): infatti l’Amministrazione regionale beneficia di competenza delegata per “la adozione di provvedimenti cautelari anche indipendentemente dalla inclusione dei beni nei relativi elenchi”. Ai sensi di tale disposizione sarebbe possibile includere fra quelle tutelate con vincolo di non modificabilità temporanea anche le aree costiere non tutelate da precedente vincolo paesaggistico. Altro problema che può presentarsi è quello relativo alla scadenza del termine del 31 dicembre 1986 entro il quale, ai sensi dell’art. 1 bis della legge n. 431/1985, le regioni dovevano approvare definitivamente i propri piani territoriali paesistici e del termine di “centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge ...” n. 431 del 1985 per l’adozione da parte delle regioni di provvedimenti di vincolo temporaneo ai sensi del citato art. 1 ter. In questo caso la giurisprudenza costituzionale e amministrativa è costante e netta: si tratta di termini di natura ordinatoria e non perentoria, il cui effetto fondamentale è quello di far sorgere il potere-dovere statale di esercizio sostitutivo delle competenze in materia di pianificazione territoriale paesistica (vds. sentenza Corte cost. n. 36 del 1995 ed ordinanza Corte cost. n. 53 del 2003). La giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha assunto tale posizione in una casistica non indifferente, confermando che tali vincoli di temporanea non trasformabilità venivano meno soltanto con l’approvazione definitiva del piano territoriale paesistico (vds. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2001, n. 2131; Cons. Stato, sez. VI, 13 ottobre 1993, n. 713). Chiarissima, a titolo di esempio, è la sentenza Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 1988, n. 1179: “il termine di centoventi giorni, previsto dalla legge n. 431/1985 per individuare le aree in cui proibire eventuali modifiche, preordinate a non pregiudicare le decisioni relative ai piani paesistici, ha certamente funzione sollecitatoria e non carattere perentorio, mancando una precisa necessaria indicazione in tal senso; è infatti contro gli scopi e lo spirito della legge stessa ritenere che l’inerzia delle regioni privi automaticamente di difesa cautelare, per un lungo periodo di tempo, vasta porzione del territorio”. Sulla medesima linea interpretativa è anche la giurisprudenza penale.

Appare sgombrare il campo ad ogni evanescente dubbio il medesimo T.A.R. Sardegna: con le note sentenze nn. 1203 – 1208 del 6 ottobre 2003 di annullamento di sei decreti presidenziali di esecutività di altrettanti piani territoriali paesistici, ha esplicitamente affermato che “resta fermo l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere all’approvazione di un nuovo piano ... con esercizio della facoltà di cui all’art. 3 ter (rectius 1 ter)”.
Di tale facoltà è stata pienamente consapevole anche la precedente Giunta regionale che, con la deliberazione n. 38/2 del 24 ottobre 2003, ha riconosciuto come pienamente vigenti gli ulteriori decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici ora annullati (Castello di Quirra, Porto sa Ruxi, Monti dei Sette Fratelli, Rio Piscinas di Arbus, Costa di Siniscola e Orosei, Costa ed entroterra di Baunei e Dorgali, Castelsardo, Arcipelago della Maddalena). Si ricorda che in precedenza, nel 1998 con l’annullamento di sette decreti di esecutività di altrettanti piani territoriali paesistici, avevano ripreso vigore (art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999) altri provvedimenti assessoriali analoghi. Con la successiva deliberazione n. 1/4 del 13 gennaio 2004 la Giunta regionale invitava i Comuni a proporre eventuali “rivisitazioni” dei citati decreti assessoriali, intendendo perfettamente vigente la possibilità di intervenire in materia: infatti, con decreto assessoriale 16 giugno 2004, n. 15/ASS è stata effettuata la ridelimitazione dell’area tutelata con vincolo di non trasformabilità temporanea ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 nel territorio comunale di La Maddalena (SS) su istanza dell’Amministrazione comunale, anche se, sotto il profilo giuridico, l’atto è apparso inefficace per mancata pubblicazione della nuova perimetrazione, qualificata parte integrante ad ogni effetto dell’atto medesimo. L’atto di ridelimitazione è stato successivamente annullato con decreto assessoriale n. 18 del 9 agosto 2004 sul presupposto dell’avvenuta abrogazione dell’art. 1 ter della legge n. 431 erroneamente per effetto del combinato normativo di cui agli artt. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 e 184 del decreto legislativo n. 42/2004. Per quanto sopra argomentato, invece, non solo appare tuttora giuridicamente possibile adottare provvedimenti di vincolo di non trasformabilità temporanea di aree costiere (ed aree interne) già tutelate con il vincolo paesaggistico fino all’adozione del nuovo piano territoriale paesistico, ma, per quanto concerne la Sardegna, per le rimanenti zone non tutelate con il vincolo paesaggistico vi può essere la possibilità offerta dall’estensione del provvedimento di tutela attraverso il disposto dell’art. 57, comma 2°, lettera e, del D.P.R. n. 348/1979.

6. La nuova pianificazione paesistica, fra il Codice dei beni culturali e del paesaggio e la legge regionale Sardegna n. 8/2004.

Gli aspetti fondamentali della nuova fase di pianificazione paesistica sono stati profondamente innovati in questi ultimi anni, dopo la prima fase, quasi “volontaristica”, della pianificazione ai sensi della legge n. 1497/1939 ed il secondo periodo, dato dalla pianificazione su scala vasta ai sensi della legge n. 431/1985. Attualmente l’attività di pianificazione paesistica trova il proprio quadro di riferimento normativo generale delineato dall’obbligo di tutela e valorizzazione del territorio derivante dalla Carta costituzionale (art. 9), dalla Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000, dal decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. (artt. 135, 143-145), dalla legge regionale n. 45/1989 e successive modifiche ed integrazioni, dalla legge regionale n. 8/2004 e dall’accordo tra il Ministero per i beni e le attività culturali e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio adottato con la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (atto n. 1239 del 19 aprile 2001).

E’ fondamentale quanto riportato dal recente Codice dei beni culturali e del paesaggio (c. d. Codice Urbani), il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i.
La Parte terza del codice raccoglie le disposizioni inerenti la tutela e la valorizzazione dei beni paesaggistici.

Un elemento di innovazione che orienta la nuova disciplina è costituito dalla definizione di paesaggio, quale “parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni” (art. 131 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). E’ stato, poi, introdotto il principio della cooperazione tra le amministrazioni pubbliche nel definire gli indirizzi e i criteri che attengono alle attività fondamentali rivolte al paesaggio ed è stata anche indicata la prospettiva dello sviluppo sostenibile, quale elemento che, ferma restando la priorità dell'obbligo della salvaguardia e della reintegrazione del paesaggio, può concorrere con essi al raggiungimento degli obiettivi di tutela del territorio (art. 132 del decreto legislativo n. 42/2004 s.m.i.). Anche sotto questo profilo il codice innova la precedente legislazione, dando riconoscimento normativo al concetto dello sviluppo sostenibile e attraverso di esso alla possibilità di assicurare la localizzazione, minimizzare gli impatti ed assicurare la qualità progettuale delle opere e degli interventi che sia necessario realizzare in aree di particolare valore. In precedenza, si ricorda che l’art. 150 del decreto legislativo n. 490/1999 prevedeva l’obbligo statale di individuazione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda i valori ambientali, con finalità di orientamento della pianificazione territoriale paesistica” secondo le modalità di cui all’art. 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, obbligo confermato ora dall’art. 145, comma 1°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.: si tratta, di fatto, della previsione di un atto di indirizzo e coordinamento in materia di pianificazione territoriale. L’art. 150, comma 3°, del decreto legislativo n. 49 0/1999 introduceva, invece, la possibilità, sotto il profilo giuridico (sotto il profilo sostanziale non sussisteva alcun ostacolo neppure in precedenza), di “speciali forme di collaborazione delle competenti soprintendenze alla formazione dei piani” con regioni e comuni grazie ad accordi con il Ministero per i beni e le attività culturali. Si trattava della previsione formale di intese Stato – Regione (o Stato – Comune) per attività di co- pianificazione (principalmente piani territoriali paesistici e piani urbanistici comunali). Ora tale facoltà è stata specificata dall’art. 143, commi 10°-12°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. a tutte le ipotesi di pianificazione paesaggistica (estendendo la possibilità di collaborazione al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio) con una importantissima disposizione: qualora non siano state raggiunte intese sull’elaborazione dei piani (che devono contenere anche la tempistica per l’approvazione definitiva) e non segue l’elaborazione congiunta dei medesimi, non potrà venir meno la fase di esame delle autorizzazioni rilasciate dalla Regione o dagli Enti locali sub-delegati da parte delle competenti Soprintendenze con il potere di annullamento per motivi di legittimità (artt. 143, comma 12°, 156, comma 5°, e 159 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). In caso di inerzia regionale, ai fini dell’approvazione definitiva del piano elaborato d’intesa con le amministrazioni statali, esso è approvato in via definitiva con provvedimento ministeriale (art. 143, comma 10°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m .i.). La centralità attribuita allo strumento degli accordi, ai fini dell’adeguamento dei piani esistenti e comunque dell’elaborazione dei nuovi, mira a superare i conflitti spesso verificatisi fra amministrazioni regionali ed organi ministeriali ed a rendere finalmente possibile l’attuazione di quella leale e proficua cooperazione fra Stato e Regioni nella tutela del paesaggio, costantemente richiamata dalla Corte costituzionale. Si tratta di forme collaborative Stato – Regione che andrebbero incentivate ai massimi livelli e che possono prevenire lungaggini, dilazioni, contrasti istituzionali e, particolarmente, gli interventi sostitutivi statali in caso di inadempienza regionale conclamata ai sensi dell’art. 156, comma 1°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. (già artt. 149, comma 3°, del decreto legislativo n. 490/1999 e 1 bis, comma 2°, della legge n. 431/1985).. Tali forme collaborative hanno trovato, infine, piena dignità giuridica con l’accordo tra il Ministero per i beni e le attività culturali, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio, stipulato in sede di Conferenza Stato – Regioni nella seduta del 19 aprile 200127 sulla scorta dei lavori dell’allora Commissione di riforma della normativa in materia di tutela paesaggistico-ambientale costituita in seguito alle risultanze della I Conferenza nazionale sul paesaggio e degli indirizzi scaturiti dalla Convenzione europea del paesaggio sottoscritta dai Paesi membri del Consiglio d’Europa a Firenze il 20 ottobre 2000. In tale accordo vengono per la prima volta indicati criteri ed indirizzi di carattere generale della “gestione” del paesaggio e della pianificazione paesistica, obiettivi di qualità e meccanismi procedurali di controllo e vigilanza, ma – soprattutto – viene individuata la necessità di attivazione di “processi di collaborazione costruttiva fra le pubbliche amministrazioni di ogni livello aventi competenza istituzionale in materia di tutela e valorizzazione paesistica” con particolare riferimento proprio all’attività di pianificazione.

La protezione e valorizzazione del paesaggio viene, quindi, ora assicurata in primo luogo mediante un’adeguata pianificazione paesaggistica (art. 135 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) estesa a tutto il territorio, sempre mediante “piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici” che, “con particolare riferimento ai beni” tutelati con vincolo paesaggistico (art. 134 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), definiscono “le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile”. Estremamente rilevante è la previsione dell’individuazione congiunta Stato – Regione, in sede di co-pianificazione, dei beni paesaggistici (aree con vincolo paesaggistico, ulteriori aree meritevoli di tutela, ecc.) prevista dall’art. 135, comma 1°, secondo periodo, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. e fondamentale per la predisposizione dei piani paesistici.

Il Codice mantiene, comunque, la potestà di imporre vincoli provvedimentali, attribuita alle Regioni, sulla base delle valutazioni delle commissioni miste regionali o, in caso di inerzia, al Ministro (artt. 136-142 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). Rispetto alla pianificazione, i vincoli assumono il ruolo di anticipare le opportune forme di tutela per singole aree o complessi immobiliari, e comunque costituiscono il presupposto imprescindibile di cui la disciplina territoriale dovrà tener conto. L’attività pianificatoria viene, quindi, estesa a tutto il territorio regionale. E’ questo il primo aspetto innovativo rispetto alla normativa previgente, che sanciva l’obbligo di pianificare le aree tutelate ope legis e la facoltà di pianificare le località dichiarate di notevole interesse pubblico. Il secondo elemento di novità è costituito dall’individuazione delle fasi costitutive, dei contenuti e delle finalità del piano paesaggistico. L’elaborazione dei piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali aventi comunque valore di piano paesaggistico è quindi, per la prima volta, ricondotta a principi ed a modalità comuni per tutte le regioni e tali da assicurare una pianificazione adeguata (artt. 143-145 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). Viene previsto che il piano ripartisca il territorio regionale per ambiti omogenei (art. 143, commi 2°-5 °, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.): da quelli che possiedono un pregio paesistico di notevole rilievo fino a quelli, invece, degradati che quindi necessitano di interventi di riqualificazione, così da individuare i differenti livelli di integrità dei valori paesistici, la loro diversa rilevanza e di scegliere per ogni ambito le forme più idonee di tutela e di valorizzazione. Alle caratteristiche di ogni ambito debbono corrispondere obiettivi di qualità paesistica da preservare o conseguire. La prioritaria attività conservativa dei valori e delle morfologie tipiche del territorio è stata affiancata dall’elaborazione delle linee di uno sviluppo che sia compatibile rispetto ai diversi livelli dei valori già accertati. Lo sviluppo non deve comunque diminuire le valenze del paesaggio e deve, in particolare, salvaguardare le aree agricole che ricevono particolare attenzione nella disposizione. Tra gli obiettivi viene anche contemplata la riqualificazione delle aree compromesse o degradate e, di conseguenza, il recupero dei valori perduti o la creazione di nuovi valori paesistici. Al piano paesaggistico, in considerazione della diversità e dell’efficacia delle previsioni, è stato attribuito un contenuto conoscitivo, prescrittivo e propositivo.

Dopo oltre sessanta anni dalle leggi del 1939 sulle cose d’arte e sulle bellezze naturali, con il Codice, per la prima volta, è stata tentata una risistemazione aggiornata (e non solo compilativa come è invece avvenuto per il Testo unico del 1999) del corpus normativo sui beni culturali ed il paesaggio. Dal lato dei beni paesaggistici è stata operata una vera rivoluzione copernicana nella direzione del superamento della empasse amministrativa dovuta al continuo conflitto con le istanze regionali e locali di pianificazione del territorio, al fine di pervenire a una pianificazione e gestione del paesaggio maturata nell’accordo con le realtà territoriali, ma pur sempre capace di salvaguardare prioritariamente gli straordinari caratteri culturali dei paesaggi italiani come patrimonio identitario dell’intera collettività nazionale.

La Regione autonoma della Sardegna è stata, quindi, chiamata a fare la sua parte.
In concreto la prima iniziativa adottata dalla nuova Amministrazione regionale è stato il nuovo provvedimento cautelare (deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1) ex art. 14 della legge regionale n. 45/1989 per tutta la fascia costiera dei metri 2.000 dalla battigia marina, seppure con diverse eccezioni (es. i territori comunali dove sono operativi i P.U.C.). La durata del provvedimento cautelare è stata prorogata a mesi sei con la successiva deliberazione G. R. 9 novembre 2004, n. 46/1, previo deliberato del Consiglio regionale del 5 novembre 2004, in attesa della legge regionale 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale). Con la legge regionale n. 8/2004 sono state quindi poste misure di salvaguardia provvisorie finalizzate al nuovo piano paesistico. Viene prevista, in luogo dei precedenti 14 piani territoriali paesistici, la redazione di un unico piano paesaggistico regionale (P.P.R.) relativo alle aree costiere ed a quelle interne (art. 1). Il P.P.R. avente i contenuti previsti dall’art. 143 del codice dei beni culturali e del paesaggio, una volta definitivamente approvato, costituirà il fondamentale strumento di riferimento della programmazione territoriale regionale e degli enti locali. A differenza di quanto effettuato con la legge regionale n. 45/1989, ora la Regione autonoma della Sardegna richiama e fa propria a tutti gli effetti la disciplina statale paesistico-ambientale. La procedura per l’approvazione del P.P.R. è disciplinata dall’art. 2: nell’iter sono coinvolti gli enti locali, i soggetti interessati, le associazioni ambientaliste riconosciute mediante un’istruttoria pubblica in cui “chiunque può presentare osservazioni al Presidente della Regione” sulla proposta di P.P.R. E’, inoltre, previsto un passaggio in Consiglio regionale (Commissione consiliare competente in materia urbanistica) per un parere sul P.P.R. adottato, naturalmente dopo l’esame motivato delle osservazioni presentate e dopo un parere del Comitato tecnico regionale per l’urbanistica. Entro i 30 giorni successivi al parere consiliare la Giunta regionale approva definitivamente il P.P.R., al quale i Comuni dovranno adeguarsi con i loro piani urbanistici comunali (P.U.C.) entro dodici mesi dalla pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione. Vengono poste, poi, misure di salvaguardia provvisorie fino all’adozione del P.P.R. (e comunque per non più di 18 mesi), ulteriori rispetto a quelle già previste dall’art. 10 bis della legge regionale n. 45/1989 (come posto dall’art. 2 della legge regionale n. 23/1993). Sono, quindi, tutelati con il “divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché ... di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione” i territori compresi nella fascia dei mt. 2.000 dalla battigia marina, anche se elevati sul mare (500 mt., se nelle Isole minori), nonché i “compendi sabbiosi e dunali”. Tali disposizioni non si applicano nei Comuni dotati di P.U.C. ed in quelli ricadenti nel tuttora vigente piano territoriale paesistico n. 7 del Sinis (art. 3), deroghe che indubbiamente appaiono menomare in modo sensibile la portata delle disposizioni di salvaguardia. Dalle misure di tutela provvisorie sono inoltre esclusi: gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di consolidamento statico, di restauro e di ristrutturazione che non aumentino volumetrie e non alterino lo stato dei luoghi, la destinazione d’uso e il numero delle unità immobiliari, nonché modesti volumi tecnici strettamente funzionali alle opere principali; gli interventi agro-silvo-pastorali con esclusione di costruzioni residenziali; gli interventi di forestazione e di taglio colturale; le opere di risanamento idrogeologico e degli abitati; gli impianti tecnologici, l’eliminazione delle barriere architettoniche, le zone sportive (senza volumetrie), le vasche idriche, le varianti non essenziali alle concessioni già emanate, le opere precarie e stagionali; le opere pubbliche da realizzarsi nell’ambito dei piani di risanamento urbanistico di cui alla legge regionale n. 23/1985; le infrastrutture di servizio nelle aree di sviluppo industriale in conformità ai relativi piani vigenti. Altre deroghe alle misure di salvaguardia di cui all’art. 3 sono relative all’esclusione della loro vigenza per le zone omogenee “A” e “B” dei centri abitati e delle frazioni e per le zone “C” immediatamente contigue alle “B” ed intercluse. Nelle restanti zone omogenee possono essere realizzati i soli interventi previsti negli strumenti urbanistici attuativi già approvati definitivamente e convenzionati alla data dell’11 agosto 2004 (data di pubblicazione della deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1) e che abbiano legittimamente avviato le opere di urbanizzazione o abbiano realizzato il reticolo stradale e “si sia determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi” e, per le zone “F”, venga rispettato il dimensionamento massimo del 50 % delle volumetrie ammissibili con il decreto interassessoriale n. 2266/U del 20 dicembre 1983. Nelle aree boscate l’edificazione è consentita soltanto nelle radure naturali e con una distanza minima dal limitare del bosco di mt. 100 (art. 4). I P.U.C. ed i relativi piani attuativi devono essere corredati dallo studio di compatibilità paesistico- ambientale, che, a sua volta, deve essere predisposto con i criteri e le procedure di cui alla direttiva n. 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti dei piani e dei programmi sull’ambiente – V.A.S. (art. 5). Per le zone turistiche “F” deve essere rispettato il dimensionamento massimo del 50 % delle volumetrie ammissibili con il decreto interassessoriale n. 2266/U del 1983 (art. 6). Sulla base di specifici criteri in armonia con le linee guida del P.P.R., la Giunta regionale può approvare in deroga alle disposizioni della legge regionale n. 8/2004 interventi pubblici finanziati dall’Unione europea, dallo Stato, dalla Regione, dagli enti locali o da enti strumentali (art. 7).

Le norme transitorie (art. 8) prevedono la validità dei P.U.C. vigenti purchè non modificati dopo la deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1 (è consentita l’adozione di varianti per riportarli al legittimo stato previgente), la possibilità di approvare definitivamente P.U.C. in itinere entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge se corredati dallo studio di compatibilità paesistico- ambientale. Analogamente possono essere adottati relativi strumenti attuativi solo se corredati dallo studio di compatibilità paesistico-ambientale. Fino all’approvazione definitiva del P.P.R. è stabilita una moratoria per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonte eolica, salvo che siano stati definitivamente autorizzati alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 8/2004 ed i lavori siano stati avviati comportando una modifica irreversibile dello stato dei luoghi. Gli impianti precedentemente autorizzati in assenza di positiva conclusione di procedimento di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) che non abbiano avviato i lavori (con irreversibili modifiche del territorio) possono essere realizzati solo in caso di positiva conclusione del procedimento di V.I.A. Gli ultimi articoli della legge regionale n. 8/2004 riguardano abrogazioni e sostituzioni di termini (art. 9) l’entrata in vigore della legge medesima il giorno successivo alla pubblicazione, il 26 novembre 2004 (art. 10).

L’autore del documento è il fondatore e animatore della battagliera e attrezzatissima associazione ecologista Gruppo d’intervento giuridico onlus (GRIG), il cui blog, sistematicamente aggiornato, è preziosa fonte informativa sulla Sardegna (e non solo)

La geremiade sui rischi e sul degrado del tanto cospicuo patrimonio storico-artistico-culturale di cui è dotata l'Italia è facile. La impongono le cose, e l'argomento fornisce sempre un elemento di colte e civili discussioni e proteste, in privato e in pubblico. Non si può neppure dire che in questo campo non si sia fatto e non si faccia niente. Sforzi ne sono stati fatti, e i risultati non sono mancati. Tuttavia, l'aspetto e i problemi della realtà sono quello che sono, e fanno perfino apparire debole e inadeguata la pur continua geremiade in materia. Chi volesse avere un'idea concreta e dettagliata dello stato delle cose, può subito farsela grazie al libro che Roberto Ippolito ha bene intitolato Il Bel Paese maltrattato. Viaggio tra le offese ai tesori d'Italia (Bompiani, pp. 308, 18). Un viaggio che spesso fa venire la voglia di non proseguire nella lettura, tanti e tanto scoraggianti sono gli episodi e gli aspetti di quel maltrattamento che Ippolito descrive saltando da un angolo all'altro del Paese. Eppure, il lettore non sa separarsi dalla lettura di questa Iliade di guai, perché l'interesse del tema è inesauribile e irresistibile. Ippolito ha fatto bene a non limitarsi ai beni culturali (artistici, archeologici etc.) e a trattenersi altrettanto sul paesaggio e l'ambiente.

Una lunga sedimentazione storica ha, infatti, determinato in Italia sia un'alta consistenza del patrimonio storico, sia un'organica saldatura fra il patrimonio e il territorio, facendone una unità che è essa stessa un grande valore. Anche Ippolito indulge molto alla diffusa concezione, per cui, trascurando o maltrattando il suo patrimonio, l'Italia sfrutta sempre meno una grande fonte di lavoro e di reddito. Di qui una retrocessione del turismo straniero nella fatal penisola, musei languenti, siti archeologici sempre meno appetiti, e così via, mentre in altri Paesi avviene il contrario. Concezione non nuova (ricordate i «giacimenti» dei beni culturali definiti come il «petrolio» italiano?), e certo per nulla infondata, ma che, tuttavia, è insufficiente, e, al limite, anche fuorviante. È verissimo che i beni culturali (e così il paesaggio e l'ambiente) sono anche beni economici, e che, come tali, possono essere formidabili fonti di ricchezza, sicché il trascurarli è negativo anche per la vita economica. Sulla natura dei beni culturali come beni economici bisogna, però, intendersi. I beni economici non hanno, infatti, valore se non assicurano redditi, e in tal caso possono essere, perciò, senz'altro abbandonati, risparmiando costi e cure improduttivi o anche soltanto poco redditizi. I beni culturali, rendano o non rendano, non possono mai essere dismessi, e impongono quindi costi e cure che sono sempre gli stessi. Se nessuno visita più, o solo in pochi visitano, gli Uffizi o gli scavi di Pompei, che facciamo? Li abbandoniamo al loro destino? La risposta è ovvia.

La prima, massima e indefettibile ragione delle cure per i beni culturali è nei beni culturali stessi. L'economia è importante, ma non è, in questo campo, la priorità assoluta. La priorità assoluta è la conservazione di un patrimonio, che è il primo, fondamentale e irrinunciabile documento e base di una tradizione e di una identità nazionale e civile, e, insieme, un patrimonio di tutta l'umanità. Bisogna rendersene conto, per pesanti e svantaggiose che possano esserne le conseguenze, per qualsiasi Paese e, in specie, per l'Italia il cui patrimonio è dell'intensità, diffusione e qualità che tutti sanno. Rimedi? Abbracciarsi la croce e portarla, con tutta la fatica necessaria. Non ve ne sono altri. Due o tre cose si possono, però, ancora notare. Uno, che sia osservata col massimo rigore la legislazione esistente, che in Italia, specie per il paesaggio, non è affatto male. Due, che l'impresa più straordinaria in Italia resta sempre, anche a questo riguardo, una buona amministrazione ordinaria delle cose. Tre, che in Italia lo Stato da solo non ce la fa, né per i costi, né per la gestione, e che perciò deplorare lo Stato è necessario, ma non risolutivo, se la cosiddetta società civile non fa la sua parte. Non è molto. Ma sarebbe già tanto se si traducesse in qualcosa di concreto.

Sprawl e verticalizzazione delle città sono espressioni speculari del consumo ingiustificato di territorio conseguente alla valorizzazione economica dei patrimoni privati che porta al degrado dei beni comuni e all’aumento del disagio per gli abitanti.

Nel corso dell’incontro nazionale “Paesaggio Bene Comune” promosso dal movimento “Stop al consumo di territorio” e dal Comitato “non grattiamo il cielo di Torino”, presso la sede della Provincia di Torino, oltre 200 tra cittadini, esperti, rappresentanti di associazioni e di comitati, provenienti da varie parti del Paese, hanno discusso e si sono trovati d’accordo intorno al tema del Paesaggio - “sintesi di elementi naturali e costruiti nella quale la comunità dei cittadini si riconosce” (Convenzione UE, 2000) - come “Bene Comune”.

Dopo aver messo a confronto esperienze e studi, essi si rivolgono al Paese, al mondo della cultura, della politica e dell’economia per denunciare una generalizzata gestione del territorio che non riesce a controllare i processi, anche necessari, di trasformazione e produce un degrado del paesaggio che è sotto gli occhi di tutti: dissesto idrogeologico, inquinamento, contesti ambientali naturali compromessi, distruzione delle aree agricole, incontrollato allargamento dei confini urbani, degrado di contesti storico artistici, patrimonio immobiliare inutilizzato o sotto utilizzato, nascita di nuovi quartieri privi di servizi e di qualità, con perdita di identità sociale e culturale dei centri e delle periferie.

La difesa dei territori agricoli e naturali da ulteriori infrastrutturazioni e urbanizzazioni va di pari passo con la difesa della storia delle funzioni e del paesaggio delle nostre città penalizzate sia da espansioni ingiustificate a bassa densità sia da densificazioni esasperate, che occupano aree dismesse o vuoti urbani, miracolosamente scampati alle precedenti speculazioni edilizie. La verticalizzazione delle città storiche che non risolve il problema del consumo del suolo, ma al contrario introduce processi di snaturamento dei contesti sociali e di degrado del paesaggio, è inoltre condotta in assenza di un censimento dei bisogni reali ed è guidata dalla logica della mera valorizzazione immobiliare. Le Amministrazioni locali, strangolate dai tagli statali ai bilanci, cercano di tamponare la crisi incamerando oneri di urbanizzazione e introiti da vendite di aree pubbliche e demaniali (inclusi fiumi e coste) avviando dinamiche che, invece di controllare le rendite e la speculazione, ne diventano il motore principale. Queste pratiche, alimentate da scelte politiche ed economiche miopi, vanno in controtendenza rispetto a una opinione pubblica in cui sta invece crescendo la consapevolezza del valore del paesaggio come bene comune, ricchezza e risorsa di tutti i cittadini, tutelato dalla Costituzione, e particolarmente significativo per un paese ricco di storia e di intensa antropizzazione come l'Italia. E’ dunque necessario e urgente contrastare lo spreco del territorio e l’edificazione in altezza nei contesti paesistici consolidati, attraverso azioni forti per riportare l'architettura e l'urbanistica ad una gestione equilibrata e di qualità del territorio, nell'interesse generale.

L’incontro si è svolto a Torino per chiedere inoltre una pausa di riflessioni sull’introduzione dei grattacieli in una città che ha iniziato a trasformarsi da polo industriale a centro culturale, della ricerca e tecnologico del terzo millennio, anche nella prospettiva delle celebrazioni per il 2011, centocinquantesimo anniversario dell'Unità di Italia. Il paesaggio urbano, integrato nel suo contesto naturale e montano, è elemento fondamentale del patrimonio collettivo di questa città: chiediamo per questo uno stop ai progetti di grattacieli già autorizzati e in generale allo sviluppo verticale nel centro e nei nuovi quartieri. Non intendiamo mettere in discussione le prerogative di nessuno, ma chiedere saggezza, lungimiranza e disponibilità a valutare soluzioni diverse. Un confronto culturale, tecnico e urbanistico di questo tipo non potrebbe che onorare la tradizione democratica e pluralista di Torino e dell'Italia.

“Paesaggio Bene Comune” è infine l'appello che noi lanciamo a cittadini, studiosi e amministratori per collaborare in tutte le regioni italiane affinché si metta davvero mano alla formazione dei piani paesaggistici, come prescritto dal codice, e ai conseguenti piani urbanistici, si dia vita ad un censimento del patrimonio edilizio esistente e non utilizzato e si fermino i processi di espansione edilizia e di trasformazione del territorio che non siano attentamente valutati sotto tutti i profili della sostenibilità ambientale, paesaggistica, sociale, culturale. La vera sostenibilità sarà la capacità di conservare, restaurare e valorizzare, nell’interesse di tutti, con attenzione e garbo, l'immenso patrimonio culturale e ambientale - il Paesaggio - del nostro Paese.

Torino 17 aprile 2010

L’articolo 11 della legge 133/2008 esordisce stabilendo che “ al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana “ approva con successivo Decreto un piano nazionale di edilizia abitativa.

Il Piano è rivolto all’incremento del patrimonio immobiliare ad uso abitativo;

ha ad oggetto la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente;

deve tener conto dell’effettivo bisogno abitativo presente nelle diverse realtà territoriali;

il Piano si attua attraverso cinque tipologie di intervento:

·costituzione di fondi immobiliari;

·incremento del patrimonio abitativo di edilizia;

·promozione da parte di privati di interventi di cui al decreto legislativo163/2006;

·agevolazioni, anche amministrative, in favore di cooperative edilizie;

·realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale anche sociale.

La legge e la bozza del Decreto nulla dicono come viene garantito il livello minimo essenziale di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana. A proposito la persona può non essere umana?

Forse ci può venire in aiuto il Decreto Interministeriale del 22 aprile 2008 “ Definizione di alloggio sociale ai fini dell’esenzione dall’obbligo di notifica degli aiuti di stato” cosi come riportato all’articolo 2 , settino comma “L’alloggio sociale deve essere adeguato, salubre, sicuro e costruito o recuperato nel rispetto delle caratteristiche tecnico-costruttive indicate agli articoli 16 e 43 della legge 457/78. Nel caso di servizio di edilizia sociale in locazione si considera adeguato un alloggio con un numero di vani abitabili tendenzialmente non inferiore ai componenti il nucleo familiare e comunque non superiore a cinque oltre ai vani accessori quali bagno e cucina. L’alloggio sociale deve essere costruito secondo principi di sostenibilità ambientale e di risparmio energetico, utilizzando, ove possibile, fonti energetiche alternative.”

Al comma 4 dell’articolo 11 della legge 133/2008 viene stabilito che il Ministero delle Infrastrutture promuove la stipulazione di accordi di programma al fine di concentrare gli interventi sulla effettiva richiesta abitativa dei singoli contesti attraverso la realizzazione di programmi integrati di promozione di edilizia residenziale e di riqualificazione urbana.

I programmi integrati sono attuati anche ai sensi del decreto legislativo 163/2006 mediante …… i cinque punti riportati sulla legge.

Il comma 6 prevede che i programmi integrati siano finalizzati “a migliorare e a diversificare, anche tramite interventi di sostituzione edilizia, l’abitabilità, in particolare, nelle zone caratterizzare da un diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano.”

I programmi integrati debbono prevedere appositi cronoprogrammi ……( comma 8);

Il comma 9 recita “. L'attuazione del piano nazionale può essere realizzata, in alternativa alle previsioni di cui al comma 4, con le modalità approvative di cui alla parte II, titolo III, capo IV, del citato codice di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163.

Chi decide l’alternativa? Anche il Decreto non ci aiuta a capire questo aspetto.

Il comma 10 prevede che una quota del patrimonio immobiliare del demanio può essere destinata alla realizzazione degli interventi previsti dall’11 della legge.

Nel Decreto attuativo non c’è traccia di questa tipologia di interventi e con quali finanziamenti??

Il comma 11 prevede che per una migliore realizzazione dei programmi i Comuni e le Province possano associarsi ai sensi del decreto legislativo 267/2000. Ma per fare cosa???

Quanto sopra è previsto nell’articolo 11 della legge 133 ma vediamo come si innesta la bozza del Decreto del Presidente del consiglio dei Ministri.

L’articolo 1 del Decreto prevede le linee di intervento del piano casa così come previsto dal comma 3 della legge 133.

Ma vediamo in dettaglio:

al punto a)del comma 3 della legge 133 si prevede la costituzione di fondi immobiliari destinati alla valorizzazione e all’incremento dell’offerta abitativa;

il punto a) dell’articolo 1 del decreto prevede un sistema integrato di fondi immobiliari per l’acquisizione e la realizzazione etcc.

Il termine valorizzazioneriportato sulla legge è stato sostituito con acquisizione.

La dotazione finanziaria del Piano casa sulla legge non viene esplicitata, c’è solo un rinvio a tutta una serie di leggi riportate al comma 12.

Nel Decreto compare finalmente un importo di 150 milioni di euro per la costituzione di un sistema integrato di fondi immobiliari ma solo per gli anni successivi al primo e poi parla delle residue risorse.

Il primo comma dell’articolo 2 parla genericamente della dotazione finanziaria del Fondo senza specificare ripartizioni tra i diversi tipi di interventi possibili.

Ci viene in soccorso l’articolo 3 del Decreto dove viene ribadito che 150 milioni di euro sono finalizzati al finanziamento “della costituzione di un sistema integrato di fondi immobiliari” e per la restante parte, ancora incognita, alle altre tipologie di interventi tra cui i programmi integrati di edilizia residenziale anche sociale. Sottolineo la parola anche e sottolineo la novità del decreto rispetto alla legge: i fondi per i programmi integrati sono ripartiti su base regionale.

Sono, quindi, gli unici finanziamenti ripartiti preventivamente alle singole regioni. Ma le Regioni non decidono niente!!!!

Nel decreto viene ribadito che i programmi integrati sono approvati con appositi accordi di programma. Ma mi sembra di interpretare ai sensi dell’articolo 4 del Decreto che il Ministero delle infrastrutture, che è il promotore degli accordi di programma, individua, anche le localizzazioni di tali strumenti in base alla effettiva richiesta abitativa nei singoli contesti, rapportati alla dimensione fisica e demografica del territorio di riferimento.

Mi chiedo: come fa il Ministero a valutare l’effettiva richiesta abitativa, quali sono i parametri???? E poi sarà il Ministero ad individuare gli ambiti e/o Comuni nei quali presentare programmi integrati???

Le altre tipologie di intervento chi le presenta e a chi, chi sceglie, etc????

Nulla viene specificato

Molto è lacunoso ma vediamo le certezze-.

Il Decreto all’articolo 7 definisce i criteri di selezione delle proposte, tutte tranne il sistema integrato di fondi immobiliari, e richiede che le proposte debbano pervenire entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto con le modalità dell’articolo 8.

In forza di tale articolo ( il numero 8 ) il Ministro delle infrastrutture nomina delle commissioni selezionatrici delle proposte i cui membri sono formati da rappresentanti designati dal Ministero, dalle Regioni e dall’ANCI.

Bene. Le domande per le varie tipologie di intervento chi le presenta e dove?

Mi sembra di capire che le domande vadano presentate al Ministero e di conseguenza le Regioni, a cui compete per norma costituzionale la materia dell’edilizia residenziale, sono le grandi escluse.

Inoltre le domande vanno presentate secondo criteri di selezione riportati all’articolo 7 del Decreto e quindi stabiliti dal Ministero.

I parametri dell’articolo 7 come si correlano tra di loro? Quale parametro è più importante o pesa più di un altro? Come viene valutata la dimensione demografica dei Comuni? Si mette a raffronto Roma con 2,7 milioni di abitanti con Firenze con 365.000, Bologna con 954.000, Venezia con 298.000, Torino con 900.000, Milano con 1.300.000, Napoli con 957.000, Palermo con 666.000 o Perugia con 162.000.

Dove sono stabiliti i parametri di salubrità, vivibilità e sicurezza dell’alloggio??( vedi nota a parte )

Sono parametri stabiliti dalle Commissioni e quindi a posteriori??

Presentare una proposta è un salto nel buio.!!!

E arriviamo all’articolo 10 del Decreto che disciplina il Sistema Integrato di Fondi Immobiliari.

In questo caso il Decreto fissa molti paletti alla istituzione del Fondo:

Il ministero delle Infrastrutture promuove il Fondo immobiliare nazionale a cui possono intervenire investitori istituzionali di lungo termine.

Il Fondo è dedicato allo sviluppo di una rete di fondi immobiliari e di investimento che contribuiscono a rispondere al bisogno abitativo attraverso iniziative locali promosse da soggetti pubblici e/o privati nell’ambito della definizione di alloggio sociale ai sensi del Decreto Interministeriale 22 aprile 2008. Sottolineo alloggio sociale perché dopo ci ritornerò.

Un gruppo di lavoro definirà il piano delle attività necessario all’avvio del Fondo, i requisiti delle Società di gestione e lo schema di regolamento di gestione del fondo stesso.

Di seguito all’articolo 10 vengono evidenziati i criteri di articolazione del fondo …..

Non risulta come e chi decide l’assegnazione dei finanziamenti a valere sui primi 150 milioni di euro.

Sarà il gruppo di lavoro nel suo regolamento di gestione che dirà qualche cosa in più??

O saranno domande presentate al Ministero, non so da quale soggetto giuridico, e poi vagliate dallo stesso Ministero secondo i criteri stabiliti al comma 4 dell’articolo 10??

Ritengo che tali criteri siano generici e che sicuramente per essere efficaci dovranno subire un ulteriore approfondimento da parte di …….. del gruppo di lavoro….. prima o dopo la presentazione delle domande???

Inoltre. al comma 7 sempre dell’articolo 10 viene riportato che “ nell’ambito del 10% del proprio ammontare complessivo, il Fondo nazionale potrà promuovere iniziative locali derogando etc….

Mi chiedo chi è il Fondo nazionale che deroga???

Al comma 9 dell’articolo 10 del Decreto viene previsto che il Ministero delle Infrastrutture può utilizzare le risorse disponibili anche per l’attivazione di strumenti finanziari innovativi.

Dunque è sempre il Ministero il primo attore e le Regioni??

Quali sono le risorse disponibili, chi le quantifica, chi le controlla, dove compaiono chi fa le domande con queste nuovi strumenti ? ( fondi di garanzia, forme di finanziamento il pool, piani di risparmio casa ).

Parametri di finanziamento art. 5 del Decreto.

Il contributo statale riguarda tutte le categorie di interventi individuati dal comma 3 dell’articolo 11 della legge con esclusione dei fondi immobiliari.

Il contributo concesso, come noto, non potrà essere superiore al 30% del costo di realizzazione, acquisizione o recupero degli alloggi, ed i beneficiari saranno quelli individuati al comma 2 dell’articolo 11 della legge.

Articolo 6 del Decreto.

Gli alloggi realizzati o recuperati ai sensi della legge 133 andranno locati per una durata non inferiore a 25 anni, quindi per tutti gli interventi anche per quelli realizzati con i Fondi Immobiliari.

Che cosa succede dopo i 25 anni?

Inoltre la durata di 25 anni scaturisce dall’articolo 2, comma 285, della legge 244/2007 e leggendo tale articolo viene il dubbio che gli alloggi realizzati ai sensi della legge 133 debbano essere localizzati esclusivamente nei Comuni ad alta tensione abitativa.

Di quanto sopra non c’è nessun riferimento nella legge.

Implicitamente il Decreto esclude da un ipotetico finanziamento tutti i Comuni che non siano classificati ad alta tensione abitativa.

Può un decreto attuativo fare una scelta del genere quando la legge non dice nulla su questo aspetto??

Il comma 8 dell’articolo 11 della legge 133 nelle ultime due righe stabilisce “. Le abitazioni realizzate o alienate nell'ambito delle procedure di cui al presente articolo possono essere oggetto di successiva alienazione decorsi dieci anni dall'acquisto originario.”

Di quanto sopra non c’è traccia nel Decreto.

Come si correlano i due fatti che:

tutti gli alloggi realizzati o recuperati ai sensi della legge 133 andranno locati per una durata non inferiore a 25 anni con l’alienazione decorsi 10 anni dall’acquisto originario???

Ritorniamo al Sistema Integrato di Fondi Immobiliari e precisamente all’articolo 10, 2° comma.

Il fondo di investimento nazionale è dedicato allo sviluppo di una rete di fondi immobiliari etcc …. Nell’ambito della definizione di alloggio sociale ai sensi del citato decreto interministeriale del 22 aprile 2008.

Al comma 2 dell’articolo 1 del citato Decreto si trova la definizione di alloggio sociale che così recita “ E’ definito alloggio sociale l’unità immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi al libero mercato.”

L’alloggio sociale per sua definizione deve essere adibito a locazione permanente.

Mi chiedo, allora, tutti gli alloggi realizzati attraverso il Fondo di investimento nazionale sono il locazione permanente?

Ma l’articolo 6 della bozza di Decreto, come ho già fatto presente dice un’altra cosa e cioè che tutti gli alloggi realizzati o recuperati ai sensi della legge 133 andranno locati per una durata non inferiore a 25 anni; forse diventerà locazione permanente per gli alloggi realizzati con i Fondi di investimento.

Concludo ritornando a sottolineare le prime parole dell’articolo 11 della legge 133: Il cosiddetto Piano Casa deve garantire i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo.

Credo che la regione Lazio come tutte le altre regione debba essere pronta a raccogliere questa sfida anticipando le mosse del Ministero.

A tale proposito alcune regioni si sono già mosse in questo senso, prima fra tutte la regione Veneto che, con una deliberazione consiliare del 6 novembre 2008, ha approvato il Piano triennale per l’edilizia residenziale pubblica che definisce fino al 2010 il fabbisogno abitativo.

Non mi risulta che la Regione Lazio stia facendo una cosa del genere per anticipare le scelte che sicuramente farà il Ministero per tutto quello che ho detto prima.

Inoltre il Decreto troverà uno scoglio nel passaggio alla Conferenza tra Stato e Regioni per i motivi insiti nella legge e nel decreto che non sto a ripetere.

Inoltre come ulteriore informazione il Consiglio di Amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti il 24 settembre 2008 ha approvato la costituzione di una società di gestione del risparmio ( SGR) di fondi comuni di investimento immobiliari, attraverso la quale la Cassa potrà prendere parte ad iniziative nel settore dell’edilizia residenziale.

Massimo Rinversi

Nella primavera del 1862 si decise di trasferire in via definitiva la capitale d’Italia a Firenze. Ci arriverà nel 1864 con la convenzione approvata a settembre. Torino doveva dunque fare i conti con la perdita di rango, di ricchezza e di posti di lavoro.

In quella stessa primavera il sindaco Emanuele Luserna di Rorà, esponente di una famiglia aristocratica torinese appartenete alla destra storica, convoca il consiglio comunale per ragionare sul futuro della città. La commissione istituita approverà nel maggio un documento in cui si teorizzava l’apertura allo sviluppo industriale. Ai finanziamenti ci avrebbe pensato Quintino Sella, ministro delle finanze e anche consigliere comunale. Una delle quattro condizioni individuate per potere avviare tale sviluppo era quella di realizzare case popolari per le famiglie operaie. Nel 1887 venne approvato il primo piano regolatore moderno che ampliava la città oltre la cintura daziaria.

A Milano la impetuosa industrializzazione dell’ultimo scorcio dell’800 provoca, come noto, drammatici problemi sociali. Un anno dopo la strage del generale Beccaris, nel 1899 la giunta comunale del sindaco socialista Giuseppe Mussi programma e avvia la realizzazione di quattro quartieri di case popolari sfruttando la legge Luzzatti del 1903. I quartieri di Mac Mahon, Ripamonti, Spaventa, Tibaldi verranno realizzati dall’amministrazione liberale subentrata nel 1904 alla precedente. Altri due quartieri li realizzerà la Società umanitaria, Lombardia e Solari. Le realizzazioni seguono il piano regolatore del Beruto approvato nel 1885 (presiedeva la commissione urbanistica Giovanni Battista Pirelli).

E’ del tutto evidente che oggi siamo in altro orizzonte storico e culturale, ma se ho richiamato questi due nobili esempi di programmazione è per il loro valore di metodo. Di fronte a fenomeni nuovi si programma lo sviluppo e si disegna la città. E’ il pubblico che definisce i destini delle città.

Per giudicare la proposta di bando per la realizzazione di hausing sociale in zona agricola approvata dalla giunta Alemanno, è perciò indispensabile dare un breve giudizio sulle trasformazioni urbanistiche di Roma. E, sulla base di quanto sta avvenendo valutare se la proposta di bando sia più o meno coerente con la realtà.

Roma dopo gli anni del sacco urbanistico

Sono tre, in sintesi, i grandi fenomeni in atto nella città.

  1. Dal punto di vista programmatorio e giuridico Roma ha un piano regolatore approvato pochi mesi fa che presenta un inaudito dimensionamento specie se rapportato al fatto che la popolazione non cresce (crescono ma di pochissimo le famiglie) e tanto meno esiste una domanda di spazi per attività terziaria. Dei settanta milioni di metri cubi (in realtà sono circa 85 perché c’è da considerare la quota di contrattazione prevista ad esempio nei Print che sono ben 150 in tutta Roma) ne restano da realizzare soltanto 25/30 milioni. Pochi se li si giudica dal punto di vista della vicinanza della data di approvazione e qui entra in campo la necessità di abolire l’istituto dell’accordo di programma come strumento urbanistico. Molti se li si legge in relazione dell’esigenza di realizzazione case popolari: circa 9 milioni di metri cubi nella stima dell’amministrazione capitolina;
  2. Le dinamiche demografiche sono fortemente squilibrate. Centro storico e area interna all’anello ferroviario soffrono di uno spopolamento preoccupante dovuto all’incontrollata impennata dei valori immobiliari. In dieci anni sono andati via circa 200 mila abitanti. Nel centro storico abitano ormai meno di 100 mila abitanti. I quartieri storici del piano del 1931 hanno oggi una popolazione inferiore a quella che avevano nel 1951!. La zona intermedia fino al Gra è anch’essa sottoposta ad un evidente spopolamento neppure compensato dalle trasformazioni realizzate in questo periodo (nel complesso -71 mila abitanti in dieci anni). Cresce soltanto l’area fuori del raccordo anulare (+77 mila abitanti) e cresce –soprattutto- l’area metropolitana (circa 200 mila abitanti dal 1991 a oggi).

Area metropolitana che, è bene sottolinearlo, ha ormai valicato i confini provinciali investendo tutta la regione (Nepi-Monterosi in provincia di Viterbo; Passo Corese a Rieti; Segni a Frosinone; Aprilia- Cisterna a Latina). Questa dinamica è stata amplificata dalle politiche abitative del comune di Roma che ha acquistato alloggi per l’emergenza abitativa in ogni luogo della provincia e oltre come nel caso di Aprilia. Roma si è dunque frammentata invadendo un territorio incontrollato e incontrollabile dal punto di vista dell’offerta di trasporto pubblico: per riprendere il felice titolo del convegno odierno, non solo case senza abitanti, ma case sempre più lontane dai posti di lavoro;

  1. Questa devastante esplosione residenziale non deve essere sembrata sufficiente alla amministrazione uscente, se è vero che nel breve spazio di sette anni sono stati realizzati 28 giganteschi centri commerciali in prevalenza avulsi dal tessuto urbano, in grandi spazi aperti isolati dai quartieri residenziali che non solo stanno aggravando il sistema della mobilità, ma hanno ulteriormente aggravato l’esplosione fisica della città.

Con il nuovo Prg e con l’uso spregiudicato dell’accordo di programma sono stati consumati qualcosa come 15.000 ettari di suolo agricolo e portando l’area urbanizzata a circa la metà dell’estensione totale (129.000 ettari complessivi). Spero soltanto che si eviti almeno in questa sede di venirci a ripetere che con il nuovo piano sono stati tutelati “per sempre” 87.000 ettari di terreno. E’ un dato falso. Sono convinto che molti l’hanno ripetuto in buona fede, ma è un falso e bisogna abbandonarlo una volta per tutte. Il mio invito è abbastanza pressante, sui dati non abbiamo in questi anni di solitudine sbagliato una virgola. Del resto anche quando abbiamo denunciato il nuovo sacco di Roma non siamo stati presi sul serio. Pochi giorni fa è stata Repubblica ad accorgersi del misfatto e tra poco diventerà senso comune, una condanna senza appello di 15 anni di laissez faire.

Se questo è lo stato della città, mi sembra evidente che il giudizio sul bando comunale deve essere molto severo. C’è stato il sacco urbanistico di Roma e la città è esplosa e frammentata: se venisse attuata la proposta del sindaco Alemanno segnerebbe la fine delle già tenui possibilità di riscatto dell’immensa periferia e dell’intera città. Una responsabilità gravissima.

Quel che resta dell’agro romano va tutelato senza ulteriori indugi e bisogna impedire ogni ulteriore compromissione. Da questo punto di vista, deve essere giudicata con molto favore l’iniziativa promossa dal consigliere regionale Enrico Fontana, e sottoscritta già da molti suoi colleghi, che ha elaborato un proposta legislativa tesa a tutelare quel poco che resta di un bene della cultura universale. E poi il piano regolatore – proprio in virtù del suo gigantesco dimensionamento- consente senza troppi sforzi di dare soddisfazione all’emergenza abitativa. Ne parlerò tra poco. Vorrei prima ragionare con voi sull’altra grave conseguenza che la nuova proposta di ulteriore urbanizzazione comporta, e cioè quello della perpetuazione della rendita fondiaria.

L’anomalia italiana: il dominio incontrastato della rendita immobiliare parassitaria

Dico questo perché al di là delle appartenenze politiche e culturali, dobbiamo chiederci come mai a fronte della decisione di far costruire di 70/85 milioni di metri cubi di cemento -di cui metà residenziali- non ci sia stata la minima previsione di alloggi per famiglie disagiate. Come più in generale dobbiamo chiederci coma mai di fronte ad un boom edilizio su scala nazionale che ha qualche similitudine con il periodo del boom edilizio degli anni 60-70 (370.000 abitazioni realizzate nel 2007) non sia stata realizzata pressoché nessuna casa popolare.

E’ un problema enormemente più grave di quello –già gravissimo- della distruzione dell’agro romano: siamo l’unico paese in Europa. Portare avanti il bando per le aree non servirà soltanto a distruggere quanto (poco) resta dell’agra romano servirà per condannare ancora il nostro paese al peso della rendita proprio ora che si riapre un ragionamento serio sull’economia reale mondiale. Il problema è che non è più la mano pubblica a guidare la trasformazione della città. Sull’onda della grande rivoluzione neoliberista, in Italia anche le città sono diventate un fattore economico.

Eugenio Occorsio, giornalista del settimanale economico della Repubblica, aveva qualche tempo fa intervistato uno dei più importanti economisti di Wall street, Allen Sinai, già consulente di Bush senior e di Clinton. Afferma Sinai “Forse in Europa non ci si rende conto dell’importanza e della centralità del mercato immobiliare in America. Ad esso è legato tutto, a partire dai consumi che sono continuamente finanziati dai prestiti ulteriori che le banche erogano a fronte di rivalutazioni dell’appartamento, per cui serve che questo si rivaluti senza soste. E’ un meccanismo in virtù del quale si finanzia la maggior parte dei consumi americani che sono il motore dell’economia”.

Siamo diventati americani, unici in Europa, ma senza avere i sistemi di contrappesi istituzionali e di controllo che in quel paese esistono. Ed ecco allora il dilagare della rendita. Nel paragrafo “Come si formano le bolle immobiliari” Gianni Dragoni (Sole 24 0re) e Giorgio Meletti (La7) nel loro recente libro “La paga dei padroni” affermano: “ La tecnica dello scambio di immobili può facilitare la crescita del valore. Le società di calcio fanno la stessa cosa con i giocatori. Ho un portiere che vale un milione e lo cedo ad un’altra società per cinque. Allo stesso prezzo compro dalla stessa società un mediano che vale un milione di euro. Alla fine non è passato un euro, ma i due giocatori hanno quintuplicato il loro valore. Quel maggior valore viene scritto nel bilancio societario e serve per ottenere più credito dalle banche”.

In questo folle balletto non c’era evidentemente posto per le case popolari. Anche perché il prg di Roma voleva essere programmaticamente “il piano dell’offerta”. La domanda sociale non esisteva per definizione nell’urbanistica neoliberista. Ma i danni culturali non si fermano qui. C’è chi sostiene autorevolmente che l’economia di questi ultimi venti anni abbia rappresentato un concreto rischio per i diritti dei cittadini e per la stessa democrazia. Guido Rossi afferma così nell’introduzione al libro di Robert Reich “Supercapitalismo”: “Insomma, il libero mercato e la concorrenza spietata tra le imprese, e cioè il supercapitalismo, hanno minato, se non distrutto una parte assai importante della democrazia e dei diritti dei cittadini. La tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione, hanno dato potere ai consumatori e agli investitori e i cittadini l’anno perduto”.

E mentre il mondo si interroga sul futuro dell’economia dopo la crisi che ha investito i mercati finanziari, nella commissione ambiente della Camera dei Deputati è iniziato l’iter della legge Lupi sul governo del territorio che dice sostanzialmente due cose: il futuro delle città deve essere deciso paritariamente dai proprietari dei terreni e le amministrazioni pubbliche e vengono aboliti i diritti, proprio come afferma Rossi, individuali sanciti dalla legge sugli standard urbanistici del 1968. Insomma, siamo l’anomalia d’Europa. Abbiamo la testa girata all’indietro pensando che un altro giro di rendita risolverà i problemi strutturali del paese.

Anche il bando del comune di Roma è all’interno di questa cultura: afferma infatti che le case potranno essere costruite oltre che in zona agricola anche nelle aree con destinazione a pubblici servizi: come dice Guido Rossi si comprimono i diritti collettivi e Roma anticipa addirittura la famigerata legge Lupi.

Utilizzare il piano esistente

Peraltro, e mi avvio alla conclusione, l’alternativa esiste senza grandi sforzi e in tempi strettissimi. Solo alcuni esempi con l’avvertenza che i provvedimenti che suggerirò non necessitano di variante urbanistica: se si volesse poi porre mano ad una urgente revisione normativa del piano i numeri sarebbero largamente superiori.

a) Per riprendere il ragionamento sulla coerenza tra i fenomeni urbani (lo spopolamento dell’area centrale) e le politiche di intervento, le caserme di Prati si prestano ad una straordinaria sperimentazione di un nuovo ruolo del pubblico. Case popolari invece che soldati, perché non tentare? Lo so che sarebbe un intervento costoso, ma sentite cosa affermava ieri Robert Solow, premio Nobel per l’economia, intervistato sulla Stampa dal bravissimo Maurizio Molinari: “Siamo all’inizio di una nuova fase economica nel segno del calo della produzione e dell’occupazione. Le aziende arrancano e gli investimenti privati pure. Tocca alla finanza pubblica svolgere il proprio ruolo, con sapienza e senza eccessi, per mettere in circolazione denaro sufficiente per sostenere i livelli di occupazione e portare alla ripresa dei consumi”. Analogo è il caso di altre caserme dismissibili o dello stesso ospedale San Giacomo che si voleva sacrificare sull’altare della redditività ad ogni costo. Con politiche mirate si possono ricavare oltre 2.000 alloggi;

b) le aree pubbliche previste all’interno delle centralità. Una precisa norma di piano afferma infatti che all’interno delle centralità urbane, le principali sono Romanina, Madonnetta e Massimina, ma c’è anche da ragionare sul caso Bufalotta, esiste una quota di superficie fondiaria e di cubatura pubblica. Si tratta di oltre 500.000 metri quadrati di Superficie utile lorda. Pur ipotizzando che metà di essa sia mantenuta a uso terziario possono essere realizzati 4.000 alloggi;

c) veloce attuazione dei 35 piani di zona approvati nel 2005 (delibera 53): si tratta di 7.500 alloggi;

d) riutizzazione delle numerose scuole pubbliche già dismesse (si pensi al caso della Magliana dove per “valorizzare” la scuola “8 Marzo” si vorrebbe addirittura costruire una funivia per scavalcare il Tevere: un folle frutto del tanto mitizzato “modello romano”) o dismissibili senza comprimere il diritto allo studio. Sono oltre 15 e potrebbero ospitare circa 1.000 alloggi;

e) riutilizzazione attraverso il cambio di destinazione d’uso di immobili pubblici non più utilizzati. Si tratta di numerose proprietà sparse nella città che possono diventare alloggi. (penso a Monte Sacro). La stima prudenziale riguarda altri 1.000 alloggi.

e) definitiva soluzione al fenomeno delle occupazioni in atto da tanto tempo che, anche attraverso le forme dell’autocostruzione, riguarda la sistemazione di almeno 500 famiglie.

E’ dunque chiaro che l’alternativa c’è senza attivare politiche che devasteranno ulteriormente l’agro romano. Vorrei concludere evidenziando ancora un volta i nostri ritardi sull’Europa. Si comincia ad esempio a ascoltare con troppa frequenza di un’ulteriore possibilità di intervento. Visto, si dice, che il commercio è in crisi, costruiamo alloggi pubblici sulle aree che hanno ancora quella destinazione. Altri ci aggiungono anche la mutazione delle destinazioni presenti all’interno degli articoli 11 che stentano a decollare.

Metto a confronto questa politica di generosa alimentazione della rendita parassitaria con quanto si sta facendo in Spagna, dove pure in questi anni si è costruito in maniera impressionante. Il governo spagnolo vista la crisi del settore intende responsabilmente acquistare attraverso un bando le aree edificabili che non hanno più mercato per costruirvi alloggi pubblici. In buona sostanza si vuole far diventare più ricca l’intera comunità e non i proprietari di suoli agricoli. Sempre in Europa, segnatamente in Germania e Gran Bretagna si consolidano politiche per il rigoroso contenimento del consumo del bene comune per eccellenza: lo spazio agricolo.

E proprio qui sta la grande distanza del dibattito italiano dall’Europa: siamo troppo pochi a parlare di beni e interessi comuni. Ma il cambiamento è nelle cose. Le sfide che abbiamo di fronte non permettono più il “lusso” della rendita parassitaria, tipica di un paese arretrato. Basta dunque con i giochi sulle aree agricole e si torno al governo pubblico della città gettando nel cestino la famigerata legge Lupi.

Il centro Studi ASSET, un’associazione di professionisti, studiosi, dirigenti pubblici e privati, sindacalisti e politici, ha chiamato gli amministratori di Roma e Lazio, urbanisti e imprenditori, dirigenti ed esperti di finanza, insieme ai sindacati e ai movimenti di lotta per la casa, per fare il punto sulla politica abitativa a fronte dell’emergenza dei senza tetto, degli sfrattati e di quanti perdono la casa per il costo insostenibile dei mutui.

I movimenti di lotta per la casa si scontrano da anni con il muro di gomma delle amministrazioni e delle forze politiche che hanno mostrato di essere più sensibili alle ragioni della rendita che a quelle del diritto all’abitare.

Il tema della politica abitativa emerge, di volta in volta, come questione di ordine pubblico, a fronte delle occupazioni di palazzi disabitati e di immobili inutilizzati, o come denuncia inascoltata quando le città grandi, e Roma per prima, approvano programmi e progetti per milioni di metri cubi senza prevedere la risposta alla drammatica mancanza di alloggi di edilizia sociale.

Il soddisfacimento del diritto alla casa, in quanto diritto primario, non può essere subordinato, come ormai appare naturale, alla realizzazione di rendite edilizie e finanziarie; deve essere un compito dello Stato.

Dal ’94, con la liquidazione della Gescal, che serviva a finanziare le case per i lavoratori, lo Stato non ha più stanziato fondi per l’Edilizia Residenziale Pubblica. Le case popolari, intanto diminuiscono, per la politica di dismissioni e di cartolarizzazioni, mentre la domanda aumenta, anche alimentata dai nuovi cittadini immigrati, dalla crescita delle famiglie monoparentali e degli studenti fuorisede.

Le Regioni ed i Comuni, al pari delle Stato, hanno guardato all’edilizia privata e alle opere pubbliche auspicando e illudendo che il mercato privato potesse risposte alla domanda di case per le fasce di reddito basso o, addirittura, senza reddito. L’esperienza dice che anche i programmi sostenuti da finanziamenti pubblici, destinati a realizzare alloggi a canone convenzionato, sono stati pochissimi, assolutamente insufficienti e, in ogni caso, accessibili a fasce di cittadini a reddito medio-alto. Le “case popolari” non ci sono mentre aumentano gli sfratti, si innalzano i canoni a livelli speculativi, i patrimoni dei Comuni vengono ceduti a prezzi stracciati con la motivazione ipocrita di fare cassa per finanziare l’edilizia sociale; e le cartolarizzazioni del patrimonio degli Enti hanno costretto moltissime famiglie a lasciare la casa non potendo affrontare l’onere del mutuo o dell’affitto ricalcolato ai valori di mercato.

La cattiva gestione degli Enti per la edilizia sociale, ancorché effettiva e radicata da decenni in molti casi, non è stata combattuta e, anzi, per un verso continua ad essere considerata strumento di consenso politico e, per altro verso, è divenuta l’alibi per affidare ai privati e al mercato la soluzione del problema; e i privati hanno priorità e fini diversi dal soddisfacimento della domanda sociale che non ha la forza economica di accedere al mercato.

Il governo Prodi, per la prima volta dopo 13 anni, nella Finanziaria 2007, aveva finanziato con 550 milioni di Euro, un programma di Edilizia Residenziale Pubblica; intervento limitato, nella quantità e nella qualità, ma poteva costituire la partenza. Il governo Berlusconi, nella Finanziaria 2008, ha cancellato quel finanziamento e lo ha assorbito in un generico Piano-casa ( art. 11 della legge 6 agosto 2008 ) la cui definizione è demandata ad un decreto delegato che deve dare il via ad un sistema di fondi immobiliari a cui lo Stato partecipa in modo consistente. A questo fine si ipotizza di utilizzare anche la Cassa Depositi e Prestiti; anche se non sembra ancora definito il rapporto con gli Enti Locali, debitori della stessa Cassa, che potrebbero compensare il loro debito con la cessione del patrimonio immobiliare abitativo.

Alla luce di questi annunci ed in attesa del decreto delegato, in fase di difficile definizione per i conflitti di competenza che si aprono con le Regioni,, gli operatori privati e le cooperative del settore, con propri progetti e sulla base di una intesa comune, si propongono come soggetti attuatori del piano. “Lo Stato ci dia i soldi, anche attraverso un fondo promosso e gestito dalle banche, i Comuni ci diano le aree edificabili, a fare l’affare ci pensiamo noi”. Questa appare, in tutta evidenza, l’intesa tra i cosiddetti soggetti attuatori. In questo modo, se i fondi attendono un ritorno economico ai livelli attuali del mercato e se i Comuni operano ulteriore occupazione di suolo agricolo, le case che si potrebbero eventualmente costruire sarebbero solo accessibili ai redditi medio-alti; il problema sociale non verrebbe neppure scalfito. D’altra parte, i fondi immobiliari richiedono l’impegno e l’apporto del sistema bancario e finanziario e quello di soggetti attuatori e gestori dei programmi abitativi eventualmente realizzati; il che innalza ulteriormente il livello dei canoni praticabili alle condizioni di mercato.

Il piano casa, tanto sbandierato, appare essere un clamoroso annuncio propagandistico di difficile realizzazione e, laddove realizzato, una leva per speculazioni finanziarie e fondiarie.

Le Regioni denunciano, a buon diritto vista la pessima assegnazione di funzioni operata con la riforma del Titolo V della Costituzione, di essere espropriate. Le procedure previste per l’avvio dei programmi, ancorché inadeguati, sono talmente farraginose che difficilmente possono concretizzarsi e, in ogni caso, non in tempi compatibili con l’emergenza denunciata.

È significativo che il traguardo temporale del Piano Casa, anche nelle previsioni aggiornate del Comune di Roma, sia slittato al 2016 mentre l’emergenza attuale, in tutte le sue fasce, ha raggiunto li livello di 40/45 mila nuclei. Le più ottimistiche previsioni del Campidoglio si attestano a poche migliaia di unità abitative destinate all’affitto a canone convenzionato e ad altre migliaia destinate all’acquisto agevolato. Per l’Edilizia Residenziale Pubblica, quella sociale da destinare a chi non ha redditi per varcare la soglia del mercato, ancorché convenzionato o agevolato, c’è l’immaginifico percorso ipotizzato nella famosa delibera programmatica N. 110/05.

L’unico percorso che si profila spedito e sgombro di ostacoli è la possibilità di derogare ai Piani regolatori e attuare varianti urbanistiche con accordi di programma; a conferma che la valorizzazione della rendita fondiaria e finanziaria costituisce il vero obiettivo di cui il piano-casa è il pretesto.

L’unico piano per le case popolari che, nel bene e nel male, ha funzionato nel nostro paese, e che prende il nome da Amintore Fanfani, superava il vincolo del mercato in quanto a totale onere dello Stato e, seppure ha costituito un fattore non secondario di espansione della rendita fondiaria in ragione della valorizzazione di aree agricole, si poneva, purtuttavia, come termine calmieratore del mercato edilizio. E di nuovo, oggi, dopo la prova provata che il mercato non produce la soluzione dei problemi sociali ma anzi li aggrava, la questione è proprio quella di dare come potere pubblico le risposte che il mercato non è in grado di dare. Si tratta di assumere con intelligenza e responsabilità che ci sono beni e diritti che vanno tenuti fuori dal recinto della produzione mercantile e sottratti alla speculazione.

La conferenza è centrata su Roma perché la capitale è emblematica come realtà dell’emergenza-casa, perché ha un Piano Regolatore nuovo che non prevede l’ERP, perché ha un patrimonio immobiliare sfitto superiore al fabbisogno sociale, perché la nuova Amministrazione, in questo in continuità con la vecchia, ha emanato un bando per acquisire altre centinaia di ettari di “agro romano” da cementificare, tralasciando sostanzialmente tutte le aree trasformabili del PRG che contiene una previsione di oltre 70 milioni di metri cubi di edificazioni su aree pari a 15.000 ettari sottratti all’agricoltura Roma rappresenta la summa delle contraddizioni e, in quanto le evidenzia, rappresenta il quadro della condizione del paese e delle grandi città in particolare.

Il Centro Studi ASSET, per l’attenzione e la critica esercitata in questi anni sulle politiche urbanistiche e abitative, ha dato incarico a me, perché già assessore regionale di Rifondazione Comunista all’urbanistica e casa dal ’95 al 2000, di coordinare la Conferenza. Con questa iniziativa, quindi attraverso ASSET, riprendo un impegno anche operativo nella battaglia politica per i diritti delle fasce deboli e dei ceti popolari e per la tutela del territorio gravemente compromesso dalle politiche liberiste e speculative che si sono svolte in questi anni e che ancora incombono.

Questa conferenza intende costituire un contributo al confronto tra i soggetti chiamati a dare le risposte che servono alla città e alla domanda sociale impegnando le istituzioni in primo luogo. Le imprese, nella misura in cui entrassero nella logica di compensare il proprio utile in un rapporto di partenariato con il pubblico per il soddisfacimento della domanda delle fasce medio basse, potrebbero contribuire a produrre la svolta nella urbanistica romana, dal “piano dell’offerta” al “piano che serve”. Il movimento cooperativo, che ha rappresentato uno strumento forte per la politica abitativa, è chiamato a recuperare i valori della mutualità da cui ha tratto origine, per contribuire a dare la casa a chi non può accedere al mercato.

Per me, per noi di ASSET, questa è anche la occasione per richiamare la sinistra che oggi è fuori dal Parlamento ad alzare lo sguardo oltre la gestione delle proprie questioni interne e la verifica delle proprie identità; e misurarsi con le questioni sociali che costituiscono, insieme, la ragione, lo strumento e l’obiettivo della ragion d’essere di qualunque forza che voglia intendere la politica come “ scienza della trasformazione” e non come opportunità per la propria legittimazione autoreferenziale.

Nella presentazione grafica – nel programma a stampa – di questo nostro contributo al festival è caduto per comprensibili ragioni di semplificazione il sottotitolo che meglio lo avrebbe spiegato e a cui teniamo molto anche perché credo che si sia rimasti in pochi a condividerne la proposizione o almeno ad avere la imprudenza di enunciarla. Voglio dire della “attualità della Carta di Gubbio”, dettata ormai sono cinquant’anni e ripudiata perfino dall’ANCSA, l’associazione che proprio su quelle dichiarazioni si era costituita. Una dottrina, si dice, misurata nei secondi anni 50 del secolo scorso sulle dimensioni e i problemi delle piccole città dell’Umbria che allora avevano conservato pressoché intatta la forma e non erano strette dalla pressione di slabbrate periferie e dunque su tipi non rappresentativi della varietà e complessità di condizioni urbane tra loro incomparabili. E son passati cinquant’anni, si insiste, l’elaborazione della cultura della città è giunta a nuovi approdi (i tempi del rinnovo della cultura degli architetti sono, facile constatazione, rapidissimi) e i processi di trasformazione urbana registrano oggi situazioni e problemi che allora neppure erano immaginabili. Come è oggi possibile, si conclude, parlare di “unitario bene culturale” dove il centro storico, e specie nelle maggiori città, ha smarrito i suoi confini, registra vaste porzioni di tessuto edilizio profondamente alterato, e pure nelle sue tipiche funzioni, per il quale dunque è improponibile la dottrina del restauro urbano?

E anche il codice dei beni culturali e del paesaggio non ha inteso ricomprendere nella sua disciplina il centro storico (ma meglio si direbbe l’insediamento urbano storico, la città storica insomma, che se è divenuta geometricamente centro lo deve alla smisurata e recente espansione, che la stringe da ogni lato, come periferia assai spesso priva di qualità urbana: solo Ferrara ha saputo preservare sul lato a nord il rapporto diretto con la campagna, per la sua addizione verde), neppure, dicevo, il “codice” ha voluto riconoscerlo come autonomo – tipico e specialissimo - bene culturale nel suo complesso unitario, secondo il suggerimento di Italia Nostra disatteso dalla commissione preposta alla recente e conclusiva revisione.

E’ certamente vero che le regole dettate dalla Carta di Gubbio sono di per sé insufficienti ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico. Perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale. Ma è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti.

E se alla città storica come organismo urbano unitario si deve riconoscere la qualità di bene culturale, ad essa sono appropriati i modi del restauro, adeguati, si intende, alla specialissima natura di un oggetto che è sede, in senso proprio, della vita delle persone e che alla persistenza delle condizioni della loro vita vede legata la preservazione dei suoi complessi valori.

Di risanamento conservativo si era dunque parlato (e ancora vogliamo parlare) come la risposta moderna, e innovativa nel metodo, alla esigenza (da nessuno messa in discussione) di tramandare la città “storica” quale connotato essenziale e sicuramente il più incisivo, della identità del nostro paese.

Si era creduto che gli argomenti opposti dai Brandi e dai Cederna a chi continuava a rivendicare l’incomprimibile diritto dei moderni ad esprimersi con il proprio autentico linguaggio entro i contesti antichi (come sempre, perbacco, era avvenuto nel passato e antistorico sarebbe stato quindi negarlo agli architetti di oggi!) avessero definitivamente convinto. Negare all’architettura “moderna” la legittimità ad intervenire nei contesti storici non implica affatto un pregiudizio nei suoi confronti, ma al contrario quella negazione si fonda sul riconoscimento dei suoi più autentici valori che sono di rottura della tradizione e che la rendono perciò incompatibile (per questi stessi caratteri intrinseci che hanno saputo raggiungere esiti di alta qualità formale) con il principio di spazialità prospettica al quale obbediva l’architettura del passato. Tra il Palazzo Massimo alle Colonne di Corso Vittorio con le sue finestre balconate e la Casa sulla cascata con i suoi sporti, ogni continuità è spezzata, osservava Brandi. E’ la coscienza storica del passato, rifletteva Cederna, acquisizione della cultura dei “moderni”, che ci impone di rispettare la spazialità dei centri storici e di rifiutare la contaminazione reciproca tra i modi tradizionali di costruire la città del passato e gli stilemi dell’architettura contemporanea. Il rapporto tra antico e moderno, aggiungeva, si pone non già al livello edilizio per impossibili accostamenti, ma a quello più ampio, urbanistico, perché il risanamento dei centri storici e la costruzione della moderna città sono operazioni diverse nei metodi ma complementari, essendo agli architetti di oggi affidato il compito arduo, che ancora attende di essere adempiuto, di riscattare i più recenti insediamenti urbani dalla mortificante condizione di periferia della città storica, per restituirli alla dignità di autentica città moderna. Insomma la conservazione dei centri storici è la vera innovazione, siamo moderni perché rifiutiamo di comportarci come era legittimo (perché la cultura di quei tempi lo consentiva) nel passato, ma oggi non possiamo più mettere con il Bernini i torricini sul frontone del Pantheon (e fu un errore rimuoverli nell’ottocento). Ed è tutta moderna la concezione stessa del centro storico come organismo complesso che non è fatto soltanto (mi rendo conto di dire banalità) della successione delle singole architetture e deve la sua unità alla integrazione degli elementi compositivi di diversa epoca e natura, valendo gli spazi inedificati (siano strade, piazze, orti e giardini) quanto le strutture costruite (e dunque l’ inserto di un nuovo edificio vale come la demolizione di quello antico). Ed è moderna, nuova, complessa, la scienza della conservazione, del risanamento conservativo (non solo del singolo edificio ma del complessivo organismo urbano), che ancora non ha dato soddisfacenti risposte ai molti ed ardui problemi che ad essa si pongono (per indicarne uno soltanto, il rifiuto in ogni caso del ripristino sembra espressione di un pregiudizio ideologico) ed esige impegnativi approfondimenti. Certo è che il restauro urbano non è attitudine rinunciataria ed esprime una tensione di elaborazione progettuale che è pari alla creazione del nuovo e se certi interventi nei propositi ricondotti al metodo del risanamento conservativo non possono essere condivisi, il fenomeno non mette in crisi la praticabilità del metodo stesso, ma pone l’esigenza di un suo affinamento, specie con riguardo alla fase della esecuzione dell’opera e dei relativi controlli.

Il discorso che si è fatto fin qui, si sarà ben capito, implica il netto, ma Italia Nostra crede motivato, rifiuto a considerare il centro storico come il campo aperto agli esercizi di stile della nuova architettura impegnata a testimoniare (ma così, affermandosi, si nega) in un velleitario confronto con l’antico il linguaggio autenticamente moderno, nel proposito di accrescere con il proprio contributo la qualità sedimentata nell’ambiente urbano storico. E francamente preoccupa il cedimento delle istituzioni della tutela di fronte alla restaurazione di quella cultura del passato che non sa riconoscere i valori autentici della città storica e rifiuta le regole consolidate di un rigoroso restauro, accreditandosi con l’autorevolezza intimidatrice delle stars dell’architettura internazionale (la moltiplicazione vertiginosa dei volumi per il Teatro del Piermarini alla Scala; la magniloquente cortina che musealizza l’ ara pacis e chiude il quadrilatero del grande sventramento di piazza Augusto Imperatore, completando idealmente il grandioso progetto littorio degli anni trenta del novecento). Lo stesso ministero per i beni culturali attraverso la sua direzione per l’architettura e l’arte contemporanee accetta e anzi espressamente promuove “la sfida della qualità”, dove la garanzia della qualità sarebbe assicurata dall’istituto del concorso naturalmente entro l’orizzonte internazionale. E non ha fatto scandalo che, contro le finalità istituzionali di tutela, a un simile strumento di selezione si sia ricorsi per trovar soluzione a un tema che correttamente doveva intendersi come tema di rigoroso restauro: il prospetto posteriore “non finito” della fabbrica del Vasari sarà completato con la realizzazione dell’idea vincente di una monumentale via di uscita dagli Uffizi, moderna versione della Loggia dei Lanzi, come assicura il progettista.

Credo che Italia Nostra debba rifiutare “la sfida della qualità”, sorprendentemente presentata come il promesso esonero, alla condizione di una sfuggente “qualità”, dalle regole del restauro delle strutture urbane storiche e perfino del singolo monumento; e allarmata esprimere un fermo richiamo alla responsabilità delle istituzioni della tutela.

1. C’è sempre più bisogno di paesaggio

La percezione, drammaticamente nitida, degli effetti generati dalla frenetica trasformazione che interessa, oramai da trent’anni, gran parte del territorio italiano (e non solo) chiede a noi tutti, urbanisti o amministratori, esperti o semplici cittadini quanto meno una pausa di riflessione.

Una riflessione che dal punto di vista degli addetti ai lavori dovrebbe essere dedicata, in prima istanza, alla ricerca di un effettivo punto di incontro tra approccio analitico e capacità di dare risposte concrete alla crescente domanda di paesaggio posto dalla nostra società. L’assunzione di impegno a spendersi per una comprensione non solo teorica, ma anche propositiva, dei fenomeni della dispersione nell’intento di arginare, e se possibile correggere, quanto avvenuto (e sta avvenendo) nei nostri territori in termini di consumo di suolo e di risorse vitali, di produzione di caos funzionale e di malessere dell’abitare[1].

All’interno del dibattito avviatosi già da qualche anno e centrato sulla necessità di una riforma culturale e operativa dell’urbanistica, finalizzata a ricucire i fili di un discorso slabbrato e sempre più autoreferenziale, sembra riaffacciarsi sulla scena dell’immaginario disciplinare, a distanza di quasi cinquant’anni dalle prime formulazioni, quel concetto che a cavallo degli anni ’50 e ’60 andava sotto il nome di «progettazione integrale»[2].

Non saprei dire se la definizione possa essere ritenuta ancora appropriata, almeno sul piano del linguaggio specialistico. Comunque sia, al di là di ogni interpretazione o sfumatura terminologica (verso le quali nutro, soprattutto in questa sede, scarso interesse), ciò che mi sembra importante sottolineare è che tale concetto, nella sua formulazione originaria, esprimeva fiducia nella continuità tra pianificazione socio-economica, piano urbanistico, intervento architettonico. Il tutto si sintetizzava in un nuovo modello di sviluppo, quello della pianificazione regionale teorizzata tanto dai geografi quanto dagli urbanisti[3], e nell’immagine della cosiddetta «città-regione», definita dai protagonisti del dibattito di quegli anni come “esperienza insieme architettonica e urbanistica che supera le limitazioni insite nei concetti di edificio, di quartiere e di città, per interessare tutto, alla sua vera grandezza, l’ambiente per la vita dell’uomo”[4].

Ma la bontà di un’idea, sappiamo, non la rende, necessariamente, vincente. Così di lì a poco, nelle diverse posizioni accademiche, che vedranno l’opporsi dell’«architettura» all’«urbanistica», si farà strada un’interpretazione totalmente diversa di questo che inizialmente sembrava essere, invece, un obiettivo condiviso: saperi e relativi percorsi esperienziali tenderanno a radicalizzarsi nel tentativo di avere il primato sugli studi della città e del territorio.

Non è questa la sede dove ripercorrere, anche solo i tratti più salienti, della storia dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Mi interessa invece sottolineare come, nel cercare tracce di paesaggio, è possibile riconoscere al dibattito della fine degli anni ’50, e di quello poco successivo, un’attualità davvero straordinaria ed anche un’originalità poi rapidamente obliterata a favore di una diversa preoccupazione: quella di mettere a punto strumenti di analisi finalizzati principalmente a fondare scientificamente il piano, relegando ad un ruolo del tutto subalterno la conoscenza e il rispetto per la «materialità del territorio», il suo essere palinsesto fisico, economico e sociale, considerando ininfluente il suo futuro assetto formale e fisico.

Tutto ciò non desta alcuna meraviglia. Del resto, com’è stato scritto, le tracce di paesaggio rimandano ad “un paradigma debole e multiforme, nato su un termine anfibio, capace di connotazioni molteplici, resistente ad ogni esclusiva connotazione, in cui conoscenza e modificazione si intrecciano, scambiandosi volentieri i ruoli”[5]. Le stesse ragioni che portano al centro della discussione disciplinare anche il tema del paesaggio vanno cercate in dominanti molto variegate: dalla maggiore attenzione e preoccupazione verso le questioni ambientali[6] alla riscoperta dell’arte e del valore olistico dei luoghi[7], dal crescere dell’approccio patrimonialista che inserisce il paesaggio nel catalogo dei beni e delle risorse storico-culturali all’azione riformatrice della Convenzione Europea del Paesaggio.

Guardando all’oggi, quello che appare fecondo è il dilatarsi, sempre più fiducioso, dei confini disciplinari, espressione di un’attitudine intellettualmente e scientificamente più generosa che lascia spazio a questo comune sentireper il paesaggio che aggrega, in modo sempre più ampio e convinto, esperti tecnici e opinionisti di vari settori, ma anche associazioni di cittadini e perché no? persone comuni.

2. “Who owns the paradise?”: il paesaggio tra interessi particolari e visione di bene comune

Il paesaggio, come abbiamo visto, rappresenta un campo di interesse che più facilmente di altri riesce a mettere insieme approcci disciplinari e culturali diversi, uniti dalla comune volontà di riconoscere allo stesso una straordinaria qualità maieutica.

Il paesaggio si presenta come fucina di idee, come grande laboratorio,sempre più affollato e variegato, dove si incontrano saperi diversi e dove si sperimentano non solo e non tanto nuove teorie o nuovi filoni di ricerca[8]. Un contesto in cui – quando parliamo di progetto di luoghi – si mettono a punto, nel confronto con gli abitanti, nuove prassi e nuove, ed originali, forme di progettualità.

Forse per questa ragione, nella disciplina urbanistica, così come nella pianificazione, il paesaggio costituisce, al di là di qualunque ragione strumentale, un tema sempre più ineludibile, un discorso obbligato (sarebbe troppo ottimistico definirlo centrale) anche nella gran parte dei dibattiti pubblici.

C’è allora da domandarsi quale sia la vera causa di questo progressivo irrompere del paesaggio nel discorso della cultura urbanistica. Ma poi ancora: se e come il paradigma del paesaggio possa far emergere una nuova cultura capace di innovare i saperi e le loro forme di espressione.

Indubbiamente la Convenzione Europea sul Paesaggio (CEP) ha giocato un ruolo fondamentale nel dinamizzare gli interessi e le azioni sul terreno del paesaggio facendolo diventare un tema importante – non più subordinato – del dibattito urbanistico. La CEP ha contribuito anche a dare vigore alle riflessioni teoriche riproponendo il quesito relativo su come interpretare e valutare il rapporto tra trasformazione del territorio e produzione di paesaggio, facendo emergere la grande disponibilità di conoscenze, competenze e interessi trasversali che consentono al paesaggio, appunto, di diventare un terreno di sperimentazione culturale, politica e tecnica.

C’è poi da chiedersi quanto questo parlare paesaggio corrisponde effettivamente al diffondersi di una lingua franca, di un codice comune,che scaturisce, prendendo a prestito le parole di Danilo Dolci,da “un concepire affine, disponibile ad ampliarsi nel confrontarsi”[9].

La ricerca di un linguaggio comune sembrerebbe soddisfare il bisogno di comunicare in modo sempre più ampio la convergenza di interessi e di obiettivi che, come dicevo all’inizio, accomuna molte e differenti discipline. Il paesaggio ci appare allora come risorsa anche in quanto struttura comunicativa, che come tale non si limita al solo dialogo, ma si spinge all’interazione comunicativa, si propone cioè come “alternativa ai tradizionali rapporti unidirezionali” [10].

Malgrado i molti segnali positivi, la battaglia contro la diffidenza nei confronti di questo «paradigma debole e multiforme» non è del tutto vinta. Per questo è utile affermare che ragionare sul paesaggio non significa, come ancora qualcuno pensa, attardarsi a discutere di questioni astratte. Riformare l’approccio alla comprensione e alla gestione delle trasformazioni territoriali, proprio a partire dal paesaggio, può significare, al contrario, riuscire a dare una chance a quella che potremmo definire, prendendo a prestito un felice ossimoro di Ernst Bloch, un’ “utopia concreta”[11].

Non mancano neppure voci critiche, o fortemente dubbiose, sulla correttezza e sull’efficacia del messaggio espresso dalla Convenzione Europea sul Paesaggio. Queste posizioni di dissenso, espresse da figure molto impegnate proprio nella difesa dell’integrità del paesaggio, fanno leva sull’interpretazione di alcuni dei passaggi chiave del testo della Convenzione.

Uno di questi è quello che associa (i detrattori dicono: vincola) il paesaggio alle sorti dello sviluppo locale.

La critica mossa alla coppia paesaggio-sviluppo locale deriva dal fatto che secondo questa lettura interpretativa il paesaggio, per essere considerato risorsa, dovrebbe sottostare alle regole del mercato, della competizione, delle performance produttive, ….

C’è in effetti il rischio, è inutile negarlo, di una pericolosa banalizzazione, se non addirittura di mistificazione, dell’idea stessa di paesaggio, quando tendiamo ad associarlo allo sviluppo. Ed é un rischio non esclusivo solo dell’esperienza italiana. Guardando però all’Italia possiamo dire che, a dispetto dell’articolo 9 della Costituzione, il nostro Paese, purtroppo, s’è distinto per un comportamento tutt’altro che virtuoso.

Proprio per scongiurare questo pericolo credo sia molto utile provare a guardare con maggiore attenzione al di fuori dei nostri confini, ai molti esempi positivi che con la loro presenza ci rassicurano sulla praticabilità di scelte alternative da cui trarre alcuni utili insegnamenti.

Penso innanzitutto al caso della Francia, e alla grande campagna fotografica associata alla rivisitazione dei valori del paesaggio messa in campo già da alcuni decenni prima dal DATAR e poi dal Ministero dell’Ambiente con lo scopo di documentare il territorio nazionale e di stabilire un punto di partenza da cui far emergere politiche di tutela e di valorizzazione nuove affinché il “prodotto territoriale”, scaturito da queste eventuali trasformazioni, possa considerasi compatibile con le politiche di tutela ma anche di costruzione di nuovi paesaggi di valore[12].

Poi penso alla Spagna, più in particolare alla Catalogna, al grande e capillare lavoro messo in campo sin dal novembre 2004 dall’Observatori del Paisatge, struttura tecnico-politica che potremo considerare una sorta di cabina di regia da cui deriva il coordinamento di tutte le attività di pianificazione, di messa in atto – attraverso le Carte del Paesaggio – di innovativi strumenti di governo del territorio che obbligano a considerare il paesaggio come punto di partenza di una nuova organizzazione spaziale, attribuendo alla sua tutela e alla sua corretta valorizzazione (non alla sua mercificazione) il ruolo di volano dello sviluppo[13].

Altrettanto positivamente potremo parlare, com’è noto, dell’Inghilterra, così come di molti altri paesi europei che da tempo hanno messo in conto la necessità e l’utilità di un censimento e della catalogazione dei paesaggi tradizionali, di quei milieu in cui si riconoscono interrelazioni ancora molto forti tra dimensione culturale, sociale, economica[14]. Contesti contraddistinti da valori simbolici e associativi assai complessi di cui il paesaggio è forse la più efficace forma di espressione/rappresentazione.

Le esperienze citate, le volontà istituzionali che le hanno prodotte, ma anche le comunità che le hanno faticosamente fatte proprie, e il cambiamento di valori che questa nuova consapevolezza comporta, fanno immaginare il paesaggio (soprattutto quello tradizionale) come laboratorio di cittadinanza costruita attraverso la riaffermazione del suo mandato più nobile: quello educativo, inteso in termini di riscoperta delle radici e dei processi evolutividelle identità locali e tradotto, laddove l’osmosi tra generazioni è ancora forte, nella “ricerca di un inserimento armonioso” dell’opera dell’uomo nel mondo naturale, sostituendo “l’atteggiamento del predatore” come lo definisce Serge Latouche, “con quello del giardiniere”[15].

Non c’è spazio, né tempo per poter approfondire adeguatamente l’argomentazione. Credo valga la pena ritornare su queste riflessioni perché trovo che vi siano moltissime analogie tra l’idea di una nuova concezione di paesaggio, scaturita da un importante cambiamento di valori culturali e sociali, e il “circolo virtuoso della decrescita serena” di cui parla largamente Latouche[16].

3. Paesaggio: territorio abitabile, ma con cura.

Rosario Assunto afferma che il paesaggio può essere assimilato al concetto di “realtà in cui l’uomo abita”. Una realtà che “egli esperisce direttamente, può produrre, modificare (secondo l’inglese landscaping) in meglio o in peggio; o anche distruggerla, cancellandola dal proprio orizzonte”[17].

Seguiamo ancora per un attimo il pensiero di Assunto.

Egli ci dice che il paesaggio è uno spazio (o una rappresentazione dello spazio). Dunque il paesaggio non occupa uno spazio, né è oggetto nello spazio. In altre parole, secondo Assunto, la nozione di spazio è costitutiva (ma non esaustiva) del concetto di paesaggio.

Nella valutazione dell’esperienza pratica, ci viene anche fatto osservare, però, l’identificazione del concetto di paesaggio con quello di spazio è stata portata all’estremo. L’ «idea del paesaggio come spazio», in altri termini, non sembra soltanto esprimere un punto di arrivo, ma addirittura si può dire che esso incarni l’epilogo stesso della storia del paesaggio, che si traduce, appunto, nel trattare il «paesaggio come puro spazio».

Sul piano concreto Assunto suggerisce di guardarsi attorno, facendo un semplicissimo esercizio che è quello di “percorrere una delle tante autostrade costruite negli ultimi decenni, oppure ispezionare uno qualsiasi degli insediamenti d’abitazione, degli impianti industriali, dei complessi turistici che sono stati costruiti negli ultimi dieci e quindici anni”[18]. In Italia, continua Assunto, il fenomeno di banalizzazione è stato forse più vistoso che altrove, raggiungendo proporzioni macroscopiche. Le ragioni di questo drammatico “primato” vanno ricercate in una sorta di “voluttà sostitutiva, derivata dal sentirsi artefici di una vera e propria rivoluzione culturale, al negativo, che si avventava contro il paesaggio della memoria e della fantasia per ridurlo a semplice spazio della geometria”[19].

La rivoluzione culturale di cui parla Assunto vede moltissimi attori principali, purtroppo, anche tra gli architetti e gli urbanisti. Ad essi, ma non solo ad loro, Assunto attribuisce molte delle responsabilità nell’aver retrocesso il paesaggio a «semplice spazio».Tutto il nostro territorio, ci rammenta, “è segnato dai residui della produzione e del consumo: frammenti morti di materiali in gran parte, com’è noto, indistruttibili”[20].

A questo proposito, é utile ricordare che la crescente attenzione versi i temi del paesaggio nulla ha potuto, però, contro il dannosissimo depositarsi sul suolo italiano di detriti edilizi, residenziali o produttivi, così come di discutibili opere infrastrutturali. Come non riflettere, anche qui, sulla colonizzazione arrogante e indifferente, cifra indelebile di moltissime aree del nostro territorio, su quella territorializzazione scellerata che ha portato con sé l’inevitabile male di vivere (e di lavorare), delineando con drammatica precisione i tratti di quel «paese spaesato» di cui parlano sempre più spesso molti cittadini e che gli addetti ai lavori e gli analisti costantemente registrano[21].

I dati, messi a disposizione da Legambiente e dal CRESME in una relazione del giugno 2007 e ripresi da Francesco Erbani in una cronaca che utilizzo come fonte, ci parlano di 3 milioni 231 mila appartamenti realizzati nell’ultimo decennio. 331 mila costruiti solo nel 2006 dei quali 30 mila abusivi. E poi ancora 7 mila capannoni sorti soltanto nel 2005. Non si contano quelli già precedentemente realizzati e inutilizzati. Ma ci sono anche 6 mila cave attive e circa 10 mila dimesse. Un patrimonio, dice Lorenzo Bellicini, direttore del CRESME, stimato attorno ai 53 metri cubi di cemento per ogni cittadino italiano. Ma questo, si intuisce dall’articolo di Erbani, rappresenta solo un piccolo assaggio de “l’assalto al paesaggio” di cui parla Erbani nel suo articolo. Alle considerazioni sulla quantità vanno affiancate quelle sulla qualità del prodotto urbano e post-urbano esprimendo un giudizio non meramente estetico della materia sciatta che dà forma e sostanza alla città occasionale e diffusa [22].

L’esperienza empirica consigliata da Assunto, ci aiuta sotto diversi punti di vista.

In particolare esorta ad indagare a fondo, e in modo più specifico, anche se ancora per difetto, sulla coppia paesaggio-risorsa ricavandone, indirettamente, il monito ad addentrarsi con grande cautela nel terreno incerto della cosiddetta valorizzazione del paesaggio, che troppo facilmente è stata assimilata, pensiamo ad esempio alle politiche per il turismo, ai concetti di “produzione” e di “consumo”[23], declinazioni assolutamente compatibili con i principali attributi dell’essere in sé risorsa: la soggettività, la relatività e la funzionalità.

Ma quali dunque allora le alternative? Arturo Lanzani, in uno scritto del 2002, propone sette strategie per il paesaggio[24]. Non trovo esplicitata, forse perché già compresa nelle diverse formulazioni, l’idea di paesaggio come milieu[25]. Personalmente credo che la complessità dei temi del paesaggio possa essere ricondotta ed interpretata in modo ancora più corretto se letta in chiave di milieu. Anzi, proprio questa dimensione, composta tanto di oggetti che di valori[26], consente di rendere evidente il ruolo da attribuirgli anche nel campo dell’agire urbanistico.

Utilizzare il concetto di milieu significa interpretare in modo ampio il paradigma del paesaggio come risorsa e di stabilire le regole attraverso cui costruire il progetto locale non come esperienza assoluta ma di progetto latente (o il progetto implicito di cui parla Dematteis) dove il paesaggio si manifesta come luogo di rappresentazione delle necessità e degli interessi collettivi[27].

4. Paesaggio passato. Paesaggi futuri.

In chiusura vorrei provare a fare un rapido salto indietro nel tempo ricordando un altro capitolo della storia dell’urbanistica italiana.

Cinquant’anni fa, più o meno di questi tempi, si davano alle stampe gli atti del VI Convegno Nazionale di Urbanistica, tenutosi a Lucca l’anno precedente (novembre del 1957). Titolo del convegno e del volume: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale. La seduta inaugurale si apriva con la presentazione di Adriano Olivetti, presidente dell’INU, seguita dalla relazione di apertura di Giuseppe Samonà e dalla presentazione della proposta di legge quadro sulla tutela delle bellezze naturali e del patrimonio artistico e culturale, relatore Gianfilippo Delli Santi[28].

Si tratta, a mio parere, di un documento importante, uno dei tanti, che può essere utilizzato a testimonianza dello svolgersi di un dibattito (animato anche al di fuori dell’INU, si pensi solo agli interventi di Italia Nostra nata nell’ottobre del 1955) che già al tempo assumeva toni molto appassionati e decisi.

In questa raccolta di interventi, tra i diversi resoconti e prese di posizione, vi sono moltissime analogie con la discussione, tutt’oggi molto attuale, relativa al tema della concettualizzazione del paesaggio in relazione alle pratiche di gestione del territorio.

Tra gli interventi più interessanti sembra emergere quello di Edoardo Vittoria, singolare figura di intellettuale e di progettista fortemente segnato dall’esperienza olivettiana. All’inizio del suo contributo egli si sofferma sulla definizione di paesaggio per rendere più chiari quali debbano essere gli obiettivi di una difesa seria ma anche propositiva e creativa del paesaggio. Vittoria afferma che “il paesaggio può essere inteso unicamente come integrazione dello spazio fisico nel quale vive e lavora l’uomo contemporaneo” e prosegue dicendo che “l’ambizione di un nuovo paesaggio nasce da una riflessione su tutto il paesaggio esistente che non può essere scisso nelle sue parti buone e nelle sue parti cattive, secondo una schematica suddivisione dei periodi storici. […] Questa concezione del paesaggio – continua Vittoria – non più limitata ai soli elementi tradizionali, nasce in conseguenza di fatti edilizi, se si vuole anche negativi […] che hanno determinato problemi originali, espressioni di nuovi modi di vita, e che hanno condizionato la trasformazione del paesaggio verso un più razionale impiego delle opere naturali e delle opere costruite […]”[29].

Ho letto nelle parole di Vittoria, ma in realtà anche di molti altri protagonisti di quell’incontro e del più ampio dibattito di quegli anni, una grande vicinanza con quanto scritto, quasi cinquant’anni più tardi, ma forse in modo più opaco, nella Convenzione Europea del Paesaggio.

Questo mi fa dire, con ancora maggiore convinzione, che non è soltanto opportuno, ma addirittura necessario, certamente improcrastinabile, un slancio d’orgoglio rinnovato e di presenza costruttiva nella scena europea per la messa in campo di politiche territoriali profondamente riformate e basate sul ruolo strategico del paesaggio, nel rispetto anche di quest’ultima testimonianza storica che ci parla del grande impegno culturale e civile espresso dai molti intellettuali italiani nella difesa del patrimonio paesaggistico,

Gli esempi che citavo prima, in particolare quello della Catalogna, così ammirata dagli architetti e dagli urbanisti di casa nostra, devono significare che il cambiamento è possibile: un cambiamento che sia in grado di aprire una nuova stagione di impegno dove al dibattito seguono i fatti; alle strategie e ai programmi se si vuole, se si ha coraggio, i progetti.

[1] Come sappiamo la bibliografia attraverso cui studiare la genesi, l’evoluzione e il declino della cosiddetta «città diffusa» è straordinariamente ampia. Cito, per sintesi, il volume di F. Vallerani – M. Varotto (a cura di), Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro, 2005, dove, alle analisi di carattere strettamente fisico e funzionale, si affiancano acute riflessioni “sullo spazio vissuto, sulla qualità della vita, sulla quotidianità esistenziale, sul crescente disagio nei confronti del vistoso declino del bel paesaggio veneto, prestigiosa eredità millenaria di cui sembra essersi perso non solo il valore memoriale, ma anche le più elementari competenze per salvaguardarne l’integrità idrogeologica ed ecologica”, p.13.

[2] Il contesto in cui si formalizza questa nuova visione di «urbanistica continua e continuamente variata» è quello del VII Congresso INU del 1959 nell’ambito del quale si tenne una famosa «tavola rotonda» i cui temi furono riproposti da L. Quaroni, G. De Carlo e E. Vittoria in Urbanistica, n. 32, dicembre 1960 cit. anche in Durbiano G. – Robiglio M., Paesaggio e architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2003, p. 37. I medesimi concetti vengono poi ripresi in De Carlo G., La nuova dimensione della città. La città regione, Relazione di sintesi al Seminario, ILSES, Milano 1962.

[3] Sui temi del regionalismo, agli albori della pianificazione regionale, vedasi tra gli altri Bonora P., I geografi nel dibattito sulla questione regionale (1944-1948), Pitagora Editrice, Bologna 1980; Corna-Pellegrini G., “La dimensione regionale della politica economica”, Civiltà degli scambi, settembre 1960 ora anche in Bonora P. (a cura di), Giacomo Corna-Pellegrini. Italia paese nuovo. Saggi geografici ed economici, Edizioni Unicopli, Milano 1989, pp. 103-116; AA. VV., La pianificazione regionale, Atti del IV Congresso Nazionale di Urbanistica (Venezia 18-21 Ottobre 1952), Istituto Nazionale di Urbanistica, Roma 1953.

[4] VII Congresso INU, cit.

[5] Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.

[6] L’approvazione, avvenuta nel 1985, della legge 431 (la cosiddetta legge Galasso) che impone alle regioni la redazione di piani paesistici e la messa a punto di strumenti specifici per le aree di tutela speciale serve, in qualche modo, a rilanciare l’interesse per il paesaggio attraverso però l’espressione di un approccio più generale ai temi dell’ambiente e della qualità del territorio. Per una ricostruzione, non convenzionale, della genesi della legge 431 cfr. F. Erbani, Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente, Laterza, Bari 2002.

[7] Cfr. P. Castelnovi (a cura di), Il senso comune del paesaggio, Ires, Torino 2000.

[8] “Un modo per convergere nello studio intorno [al paesaggio] – sostiene Lucio Gambi – è quello di accoglierlo come problema: problema che manda a carte al vento i nostri tradizionali, gelosi ritagli disciplinari”, Gambi L., Riflessione sui concetti di paesaggio nella cultura italiana degli ultimi trent’anni, in Martinelli R. – Nuti L. Fonti per lo studio del paesaggio agrario, Atti del III Convegno di Storia Urbanistica, Ciscu, Lucca 1999, p. 9 ripreso anche in Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.

[9] Citato in Mazzoleni C., La relazione società e ambiente in una prospettiva maieutica: incontro con Danilo Dolci, http://danilo1970.interfree.it/prop.html.

[10] Ibidem.

[11] E. Bloch, Il principio della speranza, Garzanti, Milano 1994. Sull’interpretazione del pensiero di Bloch vedasi anche Pozzoli C., L’utopia possibile. Per una critica della follia politica, Rusconi, Milano 1992.

[12] Sull’esperienza dell’Observatoire photographique du paysage e del Bureau des paysages del Ministére de l’Amenagement du territoire et de l’Environment si veda Seguin J.-F., Séquence paysages-revue de l ‘Observatoire Photographique du Paysage - 2000, Arp Éditions, Bruxelles 2000.

[13] Cfr. Observatori del Paisatge, http://www.catpaisatge.net. Per un inquadramento sulle politiche territoriale e il paesaggio in Catalogna e in Spagna cfr. Nogué J., El tratamiento de la temática paisajística en Cataluña y en Espagna, in Mata R. – Tarroja A., El paisaje y la gestión del territorio. Criterios paisajísticos en la ordenación del territorio y el urbanismo, Deputació Barcelona – Xarxa de municipis, 2006, pp. 53-60.

[14] Per uno rapido sguardo alla recente esperineza inglese vedasi Selman P., “Community Partecipation in the Planning and Management of Cultural Landscape”, Journal of Environmental Planning and Management, Vol. 47, No. 3, May 2004, pp. 365-392; Id., “The ‘Landscape Scale’ in Planning: Recent Experience of Bio-geographic Planning Units in Britain”, Landscape Research, Vol. 30, No. 4, October 2005, pp. 549-558; Id, Planning at the Landscape Scale, Routledge, London, 2006.

[15] Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 43; Id., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2006. Sul tema dell’agire della “società paesaggistica” si veda tra gli altri Donadieu P., “Può l’agricoltura diventare paesistica?”, in Lotus, n. 101, 1999, pp. 60-71; Id., La société pajsagiste, Actes Sud-Ensp, Arles 2001; e Clement G., Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.

[16] Ivi, p. 44.

[17] Assunto R., Il paesaggio e l’estetica, Edizioni Novecento, Palermo 1994, p. 22.

[18] Ivi, p. 24

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Comitato per la Bellezza – Centro Studi TCI, Un Paese spaesato. Rapporto sullo stato del paesaggio italiano, I Libri Bianchi del Touring Club Italiano, n. 12, 2001

[22] Erbani F. “L’assalto al paesaggio”, La Repubblica, 20 giugno 2007, p. 59.

[23] Cfr. Urry J., Consuming Places, Routledge, London 1995

[24] Lanzani A., Qualificare/Regolare le trasformazioni, in Clementi A. (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Meltemi, Roma 2002, pp. 262-291 anche in Lanzani A., I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2002, pp. 206-255.

[25] Sul tema cfr. anzitutto Berque A., Mediance. De milieu en paisage, Gip Reclus, Montpellier 1990. Per un inquadramento più generale sul tema del milieu in rapporto ai temi urbani e territoriali cfr. Governa F., Il milieu urbano. L’identità territoriale nei processi di sviluppo, Franco Angeli, Milano 1997.

[26] Entriking N., The betweeness of the place, Towards a Geography of Modernity, Macmillan, London1991, p. 7.

[27] Sul tema cfr. Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Bonora P., Sistemi locali territoriali, trascalarità e nuove regole della democrazia dal basso, in Marson A. (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 113-120.

[28] AA.VV., Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, Istituto nazionale di Urbanistica, Roma 1958.

[29] Vittoria E., Una nuova concezione del paesaggio, ivi, p. 146-147.

L'ultimo intervento del Cittaterritorio Festival, affidato al grande storico dell'architettura Joseph Rykwert dal titolo "La città ideale: che cosa resta di un'utopia", ha ripreso l'esigenza di una progettualità urbanistica espressa dal primo intervento di Bernardo Secchi e l'ha coniugata con la necessità di un'architettura della socialità avanzata sabato da Saskia Sassen. Anche per questa sintesi, la sua dissertazione sulla città utopica è stata la migliore conclusione possibile dell'evento, salutato da un tendone gremito in Piazza del Municipio.

Secondo Rykwert, il futuro è inaspettato, e la statistica non può aiutarci a prevederlo. A questa indeterminatezza, noi possiamo reagire con la passività, o con il progetto: "il progetto in architettura, è un proiettile lanciato verso il futuro, che richiede terreno solido sotto i piedi, inteso come conoscenza della propria situazione". Costruire una casa è anche costruire una città, cioè il contesto dell'edificio, così "ogni progetto non può essere fine a sé stesso, passando dal disegno, al cantiere all'edificio in modo meccanico, ma ci deve essere un'elaborazione concettuale". Il progetto può avere due obiettivi: uno ovvio e raggiungibile ed uno che rimarrà irraggiungibile ed irraggiunto. Questo è il senso del pensiero utopico. "Noi cerchiamo sempre di fare meglio sapendo che non sarà fatto, nonostante possa sembrare un paradosso".

E per dimostrare come il progetto formale privo di una visione sociale, sia un concetto superato, Rykwert ha portato l'esempio di Le Corbusier che negli anni '20 aveva progettato un modello di città tecnocratica per tre milioni di abitanti con al centro otto palazzi di 60 metri e un aeroporto, poi, nel dopoguerra, intervenendo nella ricostruzione di Marsiglia, aveva invece progettato un sistema di palazzi a stecca con al centro uno spazio collettivo, fatto di caffé, alberghi e uffici, che prima era negato. Successivamente, attorno agli edifici del grande architetto, ne sono stati costruiti altri, che li imitavano, ma senza un progetto, con il solo effetto di interrompere la prospettiva fino al mare. "Molti miei contemporanei - ha detto Rykwert - sembrano sedotti dagli insegnamenti di certi professori i quali cercavano di liberare l'impresa formale dei grandi architetti del ‘900 da qualsiasi impegno sociale. Io invece ho cercato di tener libera la ricerca formale che rispetta un legame tra forma costruita e un pensiero sociale. Dall'altra parte mi sembra che questa ricerca sia minacciata dall'insegnamento forse più raffinato che l'architetto operante nella società tardo-post capitalistica, nella società dove manca qualsiasi occasione sociale, quella società del populismo mercantile di cui parlava Gregotti, non può nutrire speranze di elaborare un ordine architettonico. La ricerca formale può solo mirare presentare forme vuote di qualsiasi pretesa significativa ed è contro questi due formalismi che ho cercato di proporre un impegno con la ricerca di un modo di incarnare la speranza sociale in un ordine formale. Ed è appunto questo impegno che voglio proporre come la ricerca più attuale in quanto mira a una cosa irraggiungibile, occulta che offre il pensiero utopico: non chiedo che si costruiscano città ideali, sarebbe ridicolo, ma chiedo invece che nel pensare la città non si renda all'immensità delle forze laceranti, il tessuto urbano, ma si proceda al progetto tenendo sempre presente la ricchezza e l'efficacia del pensiero utopico".

Con un'ovazione degna di una star, i presenti hanno salutato questo grande pensatore dimostrando che anche tematiche così astratte e complesse possono catturare un vasto pubblico, non solo di addetti ai lavori.

E invece proprio agli architetti, agli urbanisti e ai costruttori, si è rivolto il Sindaco Gaetano Sateriale in chiusura: "Non esagerate, non vogliate lasciare per forza un segno nella città e considerate sempre il contesto in cui lavorate".

Poi ha aggiunto: "Per quanto riguarda me, l'ideatore del Festival Giuseppe Laterza e l'organizzazione di Ferrara Fiere, siamo già al lavoro per la prossima edizione del Festival, arrivederci!".

Che cos’è che fa di un luogo «un luogo seducente». E che cosa, al contrario, fa sì che un luogo emani disagio, alienazione.

Da molti anni Joseph Rykwert, storico dell’architettura, origini polacche, a lungo professore negli Stati Uniti, adesso londinese, uno dei grandi studiosi della città e delle sue forme - dal mondo classico alle moderne megalopoli - indaga sul senso profondo di una costruzione urbana, al di là degli aspetti architettonici, economici e persino razionali fino a sondare un limite che sembrerebbe del tutto improprio, trattando di questi argomenti, quello che distingue il conscio dall’inconscio. La seduzione del luogo si intitola uno dei suoi libri più celebri, un libro che torna in questi giorni dopo molti anni (Einaudi, pagg. 366, euro 26).

Il tema della seduzione coglie la città nel momento in cui essa attraversa, sostengono tanti urbanisti, un passaggio di stato.

Cosa sia città è difficile a dirsi con la stessa sicurezza di quando essa era un aggregato piuttosto denso di edifici e di strade, di centro e di periferia, sufficientemente distinto da ciò che città non era. La città ora si disperde, secondo alcuni esplode, secondo altri rimette insieme i suoi pezzi sparsi in quella che un tempo era campagna. Si trasforma, seguendo logiche riconoscibili, oppure soddisfacendo interessi speculativi. Questo accade in maniera molto diversa, spiega Rykwert, da un capo all’altro del pianeta. Ma accade un po’ ovunque. Una delle frasi che Rykwert predilige è di Italo Calvino, da Le città invisibili:

«Le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altra bastano a tener su le loro mura».

Partiamo da qui, professor Rykwert, che cos’è la seduzione di un luogo?

«Per qualsiasi insediamento occorre risalire a una serie di fattori conoscitivi che lo governano, a fattori simbolici. Prenda la città di epoca romana».

Com’è nata quella città?

«Si era sempre detto che fosse l’esempio di un ordine razionale, perché si ispirava al modello dell’accampamento militare. E invece è vero il contrario. Sia l’accampamento che la città potevano essere abitate solo dopo cerimonie che ne spiegavano il senso.

Quella pianta rettangolare rispecchiava credenze, oltre all’idea che gli uomini avevano del mondo e al posto che occupavano in esso».

Prima la seduzione e poi altri fattori più razionali.

«Nel mondo antico la pianta di una città corrisponde a certe idee sull’ordine del cosmo, per esempio. Successivamente intervengono questioni economiche e politiche, la divisione dei suoli, delle proprietà. Poi, quando quelle concezioni cosmologiche si sono logorate, si è passati a costruire le città cercando un altro ordine dentro sé stessi e modellando in questo modo l’ambiente».

Di ciò lei parla a lungo in un altro suo libro, L’idea di città. La seduzione è dunque una forza intrinseca al tessuto urbano.

«A Città del Messico, nonostante l’immensa estensione delle sue baraccopoli, esiste un centro raccolto intorno allo Zòcalo, la piazza tracciata da Cortés all’indomani della Conquista, la cui potenza attrattiva non è cancellata da una crescita urbana incontrollata. Persino Manhattan, il luogo al mondo più conformato dalla globalizzazione, ha uno status di città che non è solo economico. La seduzione dipende in gran parte anche dalla nostra capacità inventiva nel manipolare concetti e forme».

Si spieghi meglio.

«In generale la città moderna appare piena di contraddizioni. Ospita culture diverse, gruppi etnici diversi, religioni diverse. Questa sua frammentazione, questa sua disponibilità, persino i suoi conflitti sono attraenti».

Lei ha studiato il Rinascimento italiano, Leon Battista Alberti, «la città ideale», descrivendo come l’architettura si proponesse il rinnovamento sociale. Ora questa pretesa pare messa in forte discussione. Perché?

«Perché si contestano quei sistemi politici dirigisti, sia di destra che di sinistra, e l’architettura razionalista che nel Novecento hanno costruito quartieri più o meno sperimentali, che nonostante fossero molto costrittivi, lasciavano intuire un’idea di riorganizzazione sociale».

Lei si riferisce ai grandi insediamenti popolari, anche molto diversi fra loro, sorti in tante città europee.

«A Francoforte o ad Amsterdam gli abitanti di questi insediamenti sono spesso contenti della loro sorte. Ma preponderante è il luogo comune che un esperimento sociale, frutto di un pensiero utopico, sia solo un’avventura fallimentare. Ora siamo approdati a uno stadio della società tardo-capitalista nel quale l’idea che un’impresa edilizia produca un miglioramento sociale sia fasulla e controproducente. E’ l’ideologia del mercato imperante più che il fallimento di un progetto legato a un’idea di società».

Secondo le Nazioni unite, più di metà della popolazione mondiale vive oggi in un contesto urbano. Che impressione le fa?

«E’ un’impressione paurosa. Perché lo svuotamento del mondo rurale non può che portare a carenza di cibo, di grano e di riso, in particolare, che grava soprattutto sui paesi poveri».

E in effetti è nei paesi poveri che si concentra questo nuovo urbanesimo. Ma che cosa c’è di urbano in città come Kinshasa, Nairobi, Lagos o Città del Messico? Che cosa seduce di questi luoghi?

«Ogni luogo ha la sua storia e modi diversi di seduzione. Non bisogna fermarsi ai dati che indicano solo le quantità di crescita. Città del Messico, come le dicevo, ha poco a che fare con le altre metropoli che lei cita. Ha una storia millenaria. E la relazione difficilissima tra il suo centro e le favellas ci rimanda alla crescita delle prime città industriali e ai modi in cui si attirava popolazione rurale, una storia complessa, tragica. Il Congo e il Kenya sono invece società costruite sulle rovine di stati semi-nomadi, con forti divisioni tra loro. E la Nigeria ha un’altra storia ancora, legata al passato del grande impero africano».

Non generalizziamo, lei insiste, anche di fronte a fenomeni che appaiono simili come la spaventosa crescita delle megalopoli africane. A costo di sbagliare, le chiedo: come giudica il fenomeno della dispersione abitativa?

«Mi pare già in fase di trasformazione. Il tessuto sociale sta producendo nuove aggregazioni e credo che ancora non siano perfettamente compresi gli effetti delle comunicazioni elettroniche».

E dal punto di vista della qualità ambientale? Questo modo di occupare il territorio non è sempre più dipendente dalle automobili, costose e inquinanti?

«Questo è un problema, sicuramente. Ma va esaminato caso per caso. E poi non credo che i gas di scarico siano l’effetto peggiore, quanto il fatto che la rete stradale è sommersa da una marea di automobili che saturano lo spazio. A San Paolo del Brasile i ricchi preferiscono l’elicottero per muoversi in città».

Molte grandi città si trasformano con le Olimpiadi. Milano ospiterà l’Expo del 2015. E si sono subito aperte polemiche. Come giudica queste occasioni? Si può evitare che si trasformino in pure operazioni immobiliari?

«Le Olimpiadi hanno avuto effetti positivi solo nelle città che hanno assorbito il loro impatto, come Barcellona. In altri luoghi lo sforzo finanziario ha lasciato una scia di debiti. Dopo il fiasco pubblicitario della fiaccola di Pechino e le delusioni degli ultimi Expo mi sembra legittimo chiedersi il perché di tante attenzioni. Sono comunque esperienze che si collocano ai bordi della vita urbana».

Si apre oggi a Ferrara, e si chiude domenica, la prima edizione di «Cittàterritorio Festival»: quattro giorni d’incontri in cui architetti, storici, urbanisti, economisti, sociologi, studiosi d’estetica si confrontano sulla realtà urbana del terzo millennio. Il festival è promosso dal Comune e dall’Università di Ferrara, dalla Regione Emilia-Romagna e dallo Iuav di Venezia. L’organizzazione è di Laterza Agorà e Ferrara Fiere. Sponsorizza l’Eni. Sul tema Centro e periferia, intorno al quale ruota questa prima edizione del festival, pubblichiamo una riflessione di Stefano Boeri, direttore della rivista Abitare.

Per secoli, studiosi di ogni disciplina hanno provato a definire la città ricorrendo a metafore (la città come una macchina, come il corpo umano, come una rete, come un testo..). Hanno anche utilizzato categorie astratte di misurazione: la dimensione, l'estensione, l'altezza, la demografia, l'infrastrutturazione, l'attrattività. Niente da fare. «Città» è un termine che - forse perché comprende noi stessi che cerchiamo di definirlo - è sempre sfuggito ad una definizione apodittica.

Eppure tutti noi, vivendo e attraversando quotidianamente i suoi spazi e i suoi paesaggi, sappiamo bene cosa sia, oggi, una città. Ad esempio sappiamo che a distinguerla dal resto del territorio è soprattutto una densità fisica determinata dalla compressione di costruzioni (edifici, volumi, architetture) in un unico territorio. Ma è anche una densità di infrastrutture. Una città significa migliaia di metri di rotoli e griglie di strade, piazze, tunnel sotterranei, viadotti, tubature in cui scorrono i flussi dell'urbanità contemporanea: le folle dei cittadini, la moltitudine dei veicoli, le infinite varianti delle merci che ci vestono, alimentano, divertono, aiutano; e poi le acque, le correnti energetiche, i gas; i flussi finanziari che scorrono nelle reti immateriali; e infine le immagini verbo-visive: migliaia di parole e figure che volano nei cablaggi, nelle reti digitali, nei coni d'ombra dei satelliti. Tutto questo significa anche densità di nodi: areoporti, stazioni, fiere, ortomercati, banche, scuole, centri commerciali, headquarter, cattedrali, interporti, monumenti… punti, emergenze, coaguli verso cui i flussi vengono convogliati, orientati, rilanciati nel gioco infinito degli scambi.

I nodi di una città rappresentano il punto di coagulo - negli spazi fisici - delle infrastrutture e dei flussi. Ma non solo: i nodi ci aiutano anche a cogliere l'altra fondamentale dimensione dell'urbanità: quella simbolica. Per esistere, oggi più che mai, una città deve costituirsi come un'entità riconoscibile e condivisa per le moltitudini sempre più variegate dei suoi cittadini. Non esiste città senza quella misteriosa alchimia di luoghi, di ricordi intimi, di memorie condivise capace di volare nell'immaginario collettivo e di saldare in una parola o in una sensazione - magari sfuggente - tutte queste cose insieme.

Da Milano a Dubai, da Roma a Città del Messico, da Napoli a Los Angeles le città si stanno espandendo nel territorio; crescono i loro reticoli, si addensano i flussi e i nodi, aumenta la loro dimensione geografica e demografica, svaniscono i confini con la campagna e con le città contigue, sfuma il loro perimetro. Eppure, in questa vertiginosa estensione spaziale - dura, fisica, minerale - l'unica densità che permette a questi agglomerati di essere percepibili come entità singolari per noi che le abitiamo è legata a qualcosa di immateriale e aleatorio: un'idea condivisa, l'immagine di un luogo e di un'atmosfera… Oggi più che mai le città sono simboli oppure, semplicemente, non sono.

Siamo nel vivo di una formidabile trasformazione delle logiche di evoluzione delle città europee. Nel vivo di una transizione che (per usare una metafora che associa la città ad una lingua) riguarda sia la sintassi che la grammatica dei nostri spazi di vita.

Io credo che il modo più efficace per descrivere questa transizione (che ci sta portando verso una nuova condizione urbana, dai confini ancora incerti) sia di usare i concetti di «differenza» e «variazione». La città moderna, nata con la rivoluzione industriale e con le sue infrastrutture, si basa su una sintassi chiarissima che opera per «differenze» tra le parti del grande organismo urbano. Il centro storico medievale è un insieme distinto dall'insieme delle zone costruite durante il Rinascimento. Le aree degli isolati regolari costruiti nel corso dell'800 sono diverse dalle frange della periferia costruita dallo Stato nel dopoguerra; che sono a loro volta diverse dai quartieri di villette che cingono la campagna urbanizzata.

Fino a qualche anno fa, uscendo dal centro verso l'esterno delle nostre città, noi percorrevamo un viaggio nello spazio e nel tempo; dal passato verso il presente. Attraversavamo in sequenza pezzi distinti di città e ogni zona aveva un perimetro chiaro. Ogni parte era omogenea e distinta nettamente dalle altre. E dentro il perimetro di ogni parte omogenea di città, agiva il principio di «variazione»: gli edifici, simili per storia e funzione, variavano tra di loro secondo elementi secondari (altezza, finiture, materiali, arredi esterni…) che però non smentivano il carattere distintivo complessivo della parte urbana.

Differenza tra parti omogenee, variazione tra edifici simili all'interno della stessa parte. Ecco la sintassi della città moderna, che ha assorbito e regolato secoli di evoluzione urbana.

Oggi, ma sarebbe meglio dire da qualche decennio, tutto questo è cambiato. La «città per parti» è intaccata, sommersa, contraddetta, da un modo del tutto diverso di crescere della nuova città. La città contemporanea non cresce più per parti omogenee, ma piuttosto per singoli edifici. Migliaia di costruzioni singole, una diversa dall'altra, che occupano nuovi territori e scompigliano le parti consolidate della città moderna.

Se viaggiamo in una porzione nuova di città vediamo scorrere una serie di oggetti eterogenei: la palazzina residenziale, l'autolavaggio, il capannone industriale, il quartiere di villette a schiera, lo svincolo, il centro commerciale, il borgo storico, il call center… monadi solitarie anche se sono accostate e ammassate nello stesso fazzoletto di territorio. E se cerchiamo le somiglianze tra queste edifici, non riusciamo a costruire degli insiemi geograficamente continui (delle parti omogenee) bensì delle costellazioni di edifici sparsi, accumunati dalla stessa radice tipologica (le villette con le villette, i capannoni con i capannoni).

Il punto è che questi due modelli evolutivi - quello della città moderna e quello della città contemporanea - oggi si sovrappongono, confliggono negli stessi spazi. Perché in fondo rappresentano le società urbane che le determinano e coabitano negli stessi spazi.

La città contemporanea riflette - anche nelle sue parti più centrali e storiche - la nuova grande energia molecolare che alimenta le società urbane: una moltitudine di soggetti e istituzioni che hanno le risorse giuridiche, economiche e politiche per cambiare piccole porzioni di spazio. E che lo fanno.

Qui sta il senso primo della transizione epocale che stiamo vivendo. Le città italiane, le città europee non sono più la scena di un gioco tra pochi grandi soggetti (i latifondisti, le amministrazioni pubbliche, i potentati politici, le banche, le grandi famiglie industriali…) che governano grandi porzioni omogenee di territorio. Sono diventate il campo di azione di una moltitudine di attori spesso attenti solo al loro piccolo spicchio di spazio, spesso spregiudicati e a volte arroganti, disposti a tutto.

Qui sta uno dei grandi paradossi della contemporaneità: che la democratizzazione delle società urbane sta frammentandolo in tanti sottosistemi lo spazio collettivo delle nostre città. Una società abitata da una moltitudine di minoranze sta costruendosi un territorio a sua immagine e somiglianza. Da qui, inutile dirlo, i grandi problemi di governo e orientamento che assillano tante amministrazioni pubbliche, tanti urbanisti, tanti pianificatori.

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