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Sono ancora poche le possibilità di lavoro in agricoltura per chi deve partire da zero e la politica dovrebbe farsi carico di agevolare il ritorno alla terra, ora che la ricerca di nuovi stili di vita inverte i flussi migratori fra le città e le campagne. Dovendo raccontarvi il mio percorso culturale e professionale devo premettere che mi ritrovo in una fase della vita in cui credo di avere messo in discussione tante certezze, aprendomi a delle scelte un po’ incerte ma senz’altro molto stimolanti. Non è facile riassumere in poco tempo il percorso di una vita, ma cercherò di farlo in poche parole, soprattutto per lasciare spazio ad altri interventi.

Mi occupo da quasi trenta anni dell’allevamento della vacca da latte e ho trascorso parecchio tempo in un mondo prevalentemente maschile, questo mi ha aiutato a pormi degli obiettivi cercando di migliorare le caratteristiche genetiche e produttive della mia mandria, ma ha anche contribuito ad accettare dei criteri di produzione e allevamento che negli ultimi anni mi mettevano a disagio e mi lasciavano insoddisfatta. D’altronde con tre figli, un marito, i nonni da seguire, l’orto, la stalla, un po’ d’impegno sociale e di attenzione alla politica del quotidiano, grossi spazi di tempo per ripensare o meditare sulla mia professionalità non ne rimanevano.

Soprattutto non ricevevo stimoli, ero uscita dall’università avendo appreso che la vacca da latte è una macchina eccezionale per trasformare erba e foraggi in latte e formaggi, ma le tendenze moderne mi spingevano a produrre grosse quantità di trinciato di mais, e a produrlo con i mezzi più moderni.

Apportando concimazioni chimiche al terreno, e lottando contro le malerbe con l’uso dei diserbanti chimici. Così ho incominciato a ripensare agli anni di studio, alla tesi di gruppo che avevo svolto in Val di Scalve, e mi sono accorta che i risultati del mio lavoro erano già stati superati dopo qualche anno di pratica agricola. Avevo con i miei compagni avviato la bellissima esperienza di gestire per pochi mesi una piccola stalla in cui svezzare con un sistema precoce le vitelle che, degli allevatori esageratamente fiduciosi, ci avevano affidato e alcuni anni dopo, nella mia stalla, ritornavo io stessa a usare il latte di vacca nello svezzamento e abbandonavo il latte artificiale.

La situazione del mercato, le quote, avevano ribaltato in poco tempo i risultati economici della mia tesi. Nonostante un dubbio avesse incominciato a farsi strada nella mia testa, ho continuato a rincorrere indici genetici, morfologici, produttivi, a compiacermi dei risultati ottenuti, però tanto più le mie vacche diventavano produttive più aumentava il divario tra il prezzo del latte e i costi sostenuti per produrlo. Avviata la stalla nel 1980 con una ventina di ettari siamo riusciti negli anni a raddoppiare la superficie coltivata passando dall’agricoltura convenzionale all’integrata, producendo la base foraggera della razione ma dovendo comprare all’esterno una grossa quota di mangimi.

Con la costante ascesa del prezzo dei mangimi, causato in parte dagli effetti climatici e dalle estati siccitose (problemi di aflatossine nel mais) e dalle speculazioni finanziarie nell’anno in cui il petrolio superò i cento dollari a barile, la gestione economica della stalla è diventata sempre più problematica. In questa situazione molti allevatori hanno continuato a credere nella crescita infinita, ad aumentare i capi, altri a chiudere, qualcuno a cercare altre vie. Io cercavo fiduciosa di resistere, un po’ perché ogni tanto guardavo la foto della stalla di brune dei miei nonni che durante i tempi della guerra erano riusciti a far studiare cinque figli mantenendoli al collegio, e un po’ perché ho sempre creduto che la piccola azienda zootecnica costituisca una forma di presidio e di difesa del territorio.

Fu la scelta di mio marito di trasformarci in azienda agrituristica a innescare il primo cambiamento, e a qualificare la nostra attività avviando dei contatti molti positivi con altre aziende.

Come spesso succede l’aprirsi a nuove idee e a contatti con l’esterno arricchisce enormemente il proprio bagaglio culturale e così mentre lui creava un Consorzio Agrituristico e incominciava una collaborazione nel comitato agricolo del Parco Sud, io decidevo di dedicare del tempo all’associazione Donne in Campo e alla creazione di un distretto equo solidale del Sud Milano (DES).

L’incontro con il DES, che ha come sostenitori molti gruppi di acquisto solidali, consumatori che prediligono il biologico, e la mia partecipazione a un seminario di Terra Madre sui cambiamenti climatici e l’agricoltura ecocompatibile, ha poi indirizzato la scelta più recente, e cioè la conversione all’agricoltura biologica.

Questa scelta comporterà da una parte una riduzione del numero di capi per ridimensionare il peso del carico animale sulla superficie coltivata, e dall’altra la ricerca di un diverso sbocco del latte prodotto che in parte verrà probabilmente caseificato e consumato all’interno del distretto. Ma comporterà anche la riduzione della coltivazione del mais, e l’avvicendamento di nuove colture con cui aumentare le produzioni proteiche riducendo drasticamente l’acquisto dei mangimi. Ce la faranno le mie vacche così selezionate negli anni?

Per adesso almeno le asciutte si godono il pascolo e hanno imparato a mangiare l’erba… Il resto sarà una sfida perché se un tempo pensavo che potessero essere biologiche le aziende che territorialmente erano favorite dall’essere isolate dai grandi centri urbani, ora ritengo che il cercare di produrre alimenti biologici all’interno delle fasce perturbane diventi una forma di presidio agricolo di fronte all’eccessiva urbanizzazione e al devastante consumo di suolo. E’ ormai fondamentale creare sinergie con i cittadini più attenti e sensibili alla difesa dei beni comuni prima che” la città cancelli la campagna “, come ha recentemente scritto in una sua relazione l’urbanista Edoardo Salzano. Certamente, l’ho capito in questi ultimi mesi andando a visitare aziende biologiche, questa è una scelta che ancora oggi pochi allevatori possono capire, ma certamente molto si potrebbe fare per cercare di diminuire l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura, concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, erbicidi, razionalizzando l’uso dei farmaci e dei presidi sanitari, ma soprattutto molto si deve fare per ridurre l’impatto dei combustibili fossili usati in agricoltura.

L’agricoltura industrializzata, basata sulla chimica, sui combustibili fossili, sui sistemi alimentari globalizzati, che si fondano a loro volta sui trasporti ad alta intensità energetica e a lunga distanza, ha un impatto negativo sul clima. I sistemi agricoli multifunzionali e biodiversi e i sistemi alimentari localizzati sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’era di cambiamento climatico. Le battaglie di Vandana Shiva per difendere i diritti dei contadini indiani nel continuare a prodursi le loro sementi, nel rifiutare le colture OGM e nel richiedere l’accesso all’acqua, non sono poi così lontane dalle nostre realtà, perché tutti i difetti delle monocolture industriali si stanno evidenziando ormai sempre di più. Il diffondersi della diabrotica da una parte, e la moria delle api dall’altra sono segnali preoccupanti di uno squilibrio creato dalla diffusione del seme conciato con prodotti dannosi all’ambiente e il cui uso, è dimostrato, è assolutamente inutile adottando tecniche agronomiche appropriate e il ripristino delle rotazioni colturali.

La direttiva nitrati, che in Italia come sempre si cerca di rimandare, ci impone delle riflessioni profonde sui metodi di allevamento, e sulle scelte programmatiche che hanno teso ad accorpare e a ingrandire le aziende agricole dimenticando nozioni fondamentali che impongono il rispetto degli equilibri tra la fertilità della terra, il suo sfruttamento e la densità di animali allevati. Ripensando agli anni dell’Università ricordo alcuni insegnamenti fondamentali ma l’esperienza più significativa è stata senz’altro quella delle tesi di gruppo. Ci insegnò a lavorare insieme, a progettare il piano di sviluppo della Comunità Montana, a rapportarci con gli allevatori, a far uscire dalla facoltà i docenti più disponibili e portarli sul territorio, a misurare le nostre nozioni sulle consuetudini delle pratiche agricole tradizionali, un’esperienza unica che non credo sia paragonabile al tirocinio che venne poi proposto agli studenti prima di laurearsi.

Se dovessi dare un consiglio ai ragazzi che studiano oggi agricoltura, li inviterei a rendersi più partecipi per difendere i beni comuni che l’amministrazione pubblica e la politica governativa continua a sacrificare in nome di un progresso e uno sviluppo che emargina i più deboli e arricchisce sempre gli stessi. Aria, terra, acqua, elementi fondamentali per garantire il vostro futuro sono sempre più mercificati.

L’aria sempre più inquinata, la terra consumata, l’acqua privatizzata, non scordiamoci che l’agricoltura, con le attività forestali, è indispensabile alla sopravvivenza umana, occorre garantire nuovi spazi e con coraggio avvicinarsi alle attività agricole.

Vorrei concludere con un commento di Carlin Petrini che proprio all’inaugurazione dell’edizione di Terra Madre del 2008 più o meno disse: “Se l’economia mondiale è messa in crisi da meccanismi che hanno premiato virtuosismi finanziari e accentuato i problemi della carenza di cibo e il dramma di intere popolazioni, è attraverso una nuova rivoluzione industriale che si potranno dare nuove risposte alla crisi dei modelli di sviluppo fin qui proposti, ma questa rivoluzione sarà fatta dai contadini di tutto il mondo che produrranno beni non effimeri riportando la terra e le sue risorse al centro dell’attenzione.”.

Da Cascina Isola Maria.

E’ un grido d’allarme finora rimasto inascoltato. «Ogni giorno in Italia scompaiono quasi 1000 ettari di suolo destinato all'agricoltura: produzione agroalimentare, turismo e ambiente». Ma Vittoria Brancaccio, simpatia tutta napoletana (è di Sorrento) e battagliera presidente di Agriturist, l’associazione agrituristica di Confagricoltura (riunisce circa 5 mila aziende) insiste su una battaglia che si annuncia non solo professionale, ma che potrebbe diventare il manifesto di una nuova filosofia cultural-agricola. «Tutti convengono sulla necessità di rilanciare il turismo valorizzando i nostri paesaggi e l'offerta enogastronomica; tutti concordano sulla necessità di tutelare le produzioni agricole italiane e di conservare il nostro patrimonio ambientale per difenderci dall'inquinamento e favorire l'ossigenazione dell'aria. Ma pochi sanno che tutto questo è fuori della realtà» annota. E spiega, dati alla mano: «In 25 anni, fra il 1982 e il 2007, abbiamo perso 3,1 milioni di ettari di superficie agricola utile (Sau) e 5,8 milioni di ettari di superficie agricola totale (Sat) - sulla base di dati Istat - Parte di questa terra sottratta all'uso agricolo è stata convertita in bosco, ma 1,8 milioni di ettari sono stati mangiati irreversibilmente dal cemento, al ritmo medio di 200 ettari al giorno».

Ma ad inquietare è il silenzio «assordante» del mondo politico italiano sul tema. «In Germania - ricorda la lady di Agriturist - dal 1999 vige una legge che obbliga, per nuove costruzioni, a recuperare almeno il 70% di suolo già urbanizzato, e in Inghilterra una normativa simile ha permesso la successiva crescita urbanistica di Londra senza rubare un solo ettaro alle campagne circostanti. E sono leggi che portano nomi importanti: Merkel, Blair. Noi abbiamo scritto a Berlusconi, provato a portare la questione in Senato, cercato di sensibilizzare “trasversalmente” gli esponenti dell’arco parlamentare, ma devo dire finora con scarsi risultati. Evidentemente ci sono argomenti più interessanti sul piatto da esaminare». E avvisa: «Autorevoli studi di urbanistica affermano che, quando saranno realizzati i piani di sviluppo territoriale già approvati dai comuni per i prossimi anni, il ritmo di sottrazione di suolo all'agricoltura segnerà un'ulteriore rilevante accelerazione». E non si tratta soltanto di terreni incolti che diventano «preda» della cementificazione, ma anche della realizzazione di infrastrutture che in qualche modo limitano o alterano il normale equilibrio agro-turistico. «La nostra prima richiesta che è anche un po’ uno slogan è quello di avere aziende dagli “orizzonti lunghi”». Il sogno di un paesaggio a misura d’uomo, il più possibile lontano da una visione «condominiale» del territorio.

Si veda anche la relazione di Vittoria Brancaccio e quelle di Massimo Quaini e di Edoardo Salzano al recente congresso di Agriturist (Riomaggiore, 1 dicembre 2009)

La battuta dell’architetto è intrigante. Con i capannoni del Nord Est sta succedendo qualcosa di analogo ai film di Totò, prima sono stati derisi e trent’anni dopo tutti li rivalutano. Anche in questo caso la rivisitazione è tardiva visto che ormai lungo la Pontebbana, la Valsugana e la Strada del Santo campeggiano le scritte «Vendesi» e «Affittasi». L’epicentro è nella provincia di Treviso con un 20% di capannoni inutilizzati ma dati analoghi interessano tutto il Veneto e il Friuli, con le sole eccezioni di Belluno e Rovigo. Una dimostrazione di come la storia (che sarebbe dovuta morire) sia arzilla e corra velocissima. Ci stiamo ancora interrogando sul riuso dell’archeologia industriale del Novecento, quella «nobile» alla Marzotto/Valdagno, con mattoni a vista, merletti e decorazioni di stampo storicista, e già siamo costretti a fare i conti con i resti materiali del post-fordismo, con le vestigia dell’industrializzazione diffusa.

Il prezzo (alto) allo sviluppo

I capannoni standard, a campata unica e volta a botte, quelli che gli americani chiamano shoe box, scatola di scarpe, sono quasi sempre di cemento grigio. Ottocento-mille metri quadri spesso attaccati all’abitazione dell’artigiano e a due passi dal bar Sport del paese. Negli anni del miracolo nord-estino ne sono nati dappertutto, quasi sempre lungo le strade come accadeva nel Far West e sono stati unanimemente giudicati il prezzo (alto) pagato allo sviluppo, la causa prima del degrado del paesaggio veneto. Nella Marca trevigiana su 95 comuni le zone industriali previste erano 313. In realtà le isole produttive con capannoni e carrozzerie arrivano almeno a quota mille, tutte sviluppatesi in maniera anarchica per colpa di sindaci, imprenditori, immobiliaristi e parroci che mentre i muratori tiravano su le pareti si giravano dall’altra parte. Il giudizio formulato dal grande geografo e paesaggista veronese Eugenio Turri in proposito era netto: «Architettura banale, spesso orribile e di forte visibilità, la cui tristezza si coglie soprattutto nei giorni festivi quando le aree industriali si svuotano».

Giuseppe Milan, direttore dell’Unione Industriali di Treviso, pensa però che sia utile riavvolgere il nastro: «Da noi il modello è stato quello della subfornitura. I Benetton, i De Longhi e gli Zanussi avevano segmentato il processo produttivo e ai piccoli imprenditori è stato chiesto di specializzarsi in una sola lavorazione. Questa divisione di compiti ha garantito per anni lo sviluppo, ha fatto la fortuna di tanti e quindi forse oggi non ha senso sputare nel piatto». Del resto ai tempi della crescita facile non c’era piano regolatore comunale che non prevedesse una zona industriale, una artigianale e una commerciale. Non partiva nemmeno la concorrenza tra i Comuni, tanto ce n’era per tutti, le aree nel giro di qualche anno raddoppiavano il loro prezzo e gli uffici urbanistica delle Unioni Industriali erano presi d’assalto dai Piccoli per le pratiche edilizie.

Usati come leva finanziaria

Gli stessi artigiani usavano poi il capannone come leva finanziaria per avere udienza e credito dalle banche. Ma il troppo stroppia e anche in casa leghista oggi ci si pone il problema del paesaggio da tutelare. I maligni sostengono che in questo modo il Carroccio vuole evitare che i capannoni diventino grandi abitazioni zeppe di immigrati, ma più probabilmente è maturata una nuova intransigenza verso il consumo indiscriminato del suolo.

Un vero censimento dei capannoni sfitti o in vendita nell’intero Nord-Est non c’è. È troppo presto. Alla mancanza di numeri certi viene in soccorso il colpo d’occhio. C’è chi per evocare un paragone tira in ballo gli scenari alla Philip K. Dick e il suo algido pessimismo post-moderno. Per operare, invece, un raffronto più prosaico e vicino a noi, il Nord-est dei capannoni vuoti è assai differente dalla cintura della ruggine attorno a Brescia, con le grandi cattedrali della siderurgia ormai svuotate che fanno mostra di sé a mo’ di dinosauri. L’industria veneta è più giovane, ha meno problemi di smaltimento dell’amianto perché, tutto sommato, chi cuciva vestiti non inquinava. Comunque quale che sia il paragone giusto, la prima ipotesi per i capannoni è rottamarli. «È quella che anche solo istintivamente piace di più» sostiene Ezio Micelli, architetto e assessore al Comune di Venezia. Qualche esperienza è stata fatta - racconta - e cita Montebelluna, la città del sindaco Laura Puppato che ha demolito alcuni impianti "che rappresentavano una ferita", ma anche San Donà di Piave ha operato in senso analogo. Buttarli giù non può essere però una ricetta da adottare e replicare all’infinito. Certo si potrebbe sostituire semplicemente verde a cemento, ma ciò presuppone un intervento finanziario di natura pubblica che di questi tempi è difficile anche sognare. Una strada più realistica porta a convincere e incentivare i proprietari privati di capannoni vuoti perché accettino uno scambio.

Esiste una legge regionale veneta che introduce il principio del credito edilizio, tu rottami da una parte a tue spese e hai diritto a una pari volumetria da costruire in un’altra. Dirlo è facile, realizzarlo un po’ meno. Intanto perché secondo un famoso studio dell’università di Padova (professor Tiziano Tempesta) in Veneto negli anni del mattone facile si è già costruito oltre ogni misura, ma anche non volendo prendere in considerazione i dettami dell ’urbanisticamente corretto, è difficile che in piena recessione un artigiano chiuda a Schio e avvii contemporaneamente un’altra attività a Belluno. L’idea dello scambio comunque è assai presente nel dibattito locale e la rivista Nordesteuropa, che organizza ogni anno in primavera il Festival Città-Impresa, sta studiando il tema per mettere a punto una nuova proposta. Anche l’idea cara all’ex governatore Giancarlo Galan di liberare il territorio costruendo grattacieli non sembra in realtà così attraente. Secondo Flavio Albanese, architetto e ex direttore di Domus, «per valutare i grattacieli bisogna capire cosa trovano sotto, che contesto e che accoglienza c’è, costruire in alto non può essere un mero espediente tecnico».

Revisionismo urbanistico



Se la rottamazione è una strada difficile, l’idea del riuso comincia a contare molti supporter della serie «i film di Totò non eran tremendi». È il revisionismo urbanistico che fa di necessità virtù. «Non ha senso rifiutare quello che abbiamo fatto per 40 anni - spiega Claudio Bertorelli, direttore del Festival Comoda/mente di Vittorio Veneto -. Lavorare sui capannoni non è un incubo ma una fantastica occasione. E poi il capannone è uno strumento molto flessibile». Aggiunge Flavio Albanese: «Brutti? È l’architettura dei condomini anni ’70 è forse bella? Vi sembrerà strano ma i capannoni sono assai pertinenti al modo di vivere di oggi. Guardate gli annunci di ricerca di case». Fino a 6-7 anni fa si cercava un appartamento da 140 metri quadri con un grande soggiorno, oggi invece tutti scrivono nelle primissime righe «ampio, spazioso e luminoso». L’idea che circola tra gli addetti ai lavori è di replicare in Veneto quanto fatto a Milano in Porta Genova o a Lambrate, un intelligente lavoro di riconversione urbanistica che deve far nascere occasioni di lavoro e loft da abitare, perché, «non è tempo di soldi pubblici, non siamo negli anni ’70, i capannoni vanno rimessi in commercio». Bertorelli giura che di esperimenti di questo tipo ormai ce ne sono in giro per il Nord-Est alcune decine. I casi più conosciuti sono quelli di Mario Brunello, che insediato il suo laboratorio musicale Antiruggine in un capannone nel centro di Castelfranco e di Cristiano Seganfreddo per l’arte contemporanea in piena Vicenza. Tutti laboratori di terziario, tutti esperimenti di un’economia nella quale si dà per scontato che viaggino campioni e idee al posto delle merci. Tutti test di maturità per la classe creativa veneta che adora il sociologo americano Richard Florida.

Tra manifatturiero e terziario

Ma quale sarà veramente l’economia del dopo-crisi? Ci sarà davvero una staffetta più o meno virtuosa tra manifatturiero «povero» e terziario creativo? Gli industriali di Treviso per risolvere il rebus dei capannoni partono da queste domande. Il direttore Milan sostiene che dalle informazioni raccolte è vero che i capannoni inutilizzati sono più frequenti nelle aree industriali più piccole e meno attrezzate ma la sorpresa è che in parallelo vi sono numerose imprese che hanno comunque esigenza di spazi più grandi rispetto al passato. Servono a creare un’organizzazione più efficiente del loro ciclo industriale e logistico. I nomi sono importanti come gli investimenti che hanno messo in cantiere: infatti Geox, Benetton, Breton, Texa e Polyglass negli ultimi mesi hanno, in controtendenza, accresciuto le loro superfici. Ma accanto alla logistica che ha bisogno di grandi spazi si intravede un ruolo anche per le matite. L'idea che circola tra i confindustriali è quella di assecondare una sorta di via trevigiana al design. Si è partiti ristrutturando una vecchissima fornace ad Asolo e lanciando Treviso Design ma l’idea è che un giorno o l’altro verranno buoni anche quei famigerati capannoni. A meno che nel frattempo non si siano trasformati tutti in discoteche.

Nota: quasi contemporaneamente a questo articolo, un quotidiano americano ne pubblicava un altro su temi identici, anche se in prospetiva diversa, sul noto caso di deindustrializzazione dell'area di Detroit, che propongo su Mall (f.b.)

Nei comuni più piccoli i grandi lavori

Silvio Rezzonico, Giovanni Tucci

In Lombardia si perdono ogni anno oltre 4.400 ettari di terreni agricoli, in Emilia Romagna più 7.700. Di questi, quasi 3.800 sono urbanizzati in Lombardia e quasi 3.000 in Emilia Romagna.

Insomma, è come se da un anno all'altro venisse costruito dal nulla un nuovo capoluogo di provincia di medio calibro.

Nelle tre regioni considerate nel primo rapporto 2009 redatto dall' Osservatorio sui consumi di suolo, la provincia con più aree trasformate per ospitare l'uomo è quella di Milano, che vede urbanizzato quasi metà del proprio territorio, seguita da quelle di Trieste, di Varese e di Rimini.

Sempre Milano, Brescia e Bergamo (in Lombardia), Bologna, Modena e Reggio (in Emilia Romagna), e Udine (in Friuli Venezia Giulia) sono in testa alla classifica degli ettari edificati ogni giorno. Tuttavia, se si guarda ai metri quadrati costruiti ogni anno in rapporto agli abitanti, si nota un cambiamento rilevante: in questo caso, sono le province agricole a registrare le trasformazioni maggiori (Mantova, Lodi, Reggio Emilia, Parma, Pordenone).

Nelle classifiche contenute nel rapporto si notano anche interessanti andamenti in controtendenza: per esempio l'incremento delle superfici a bosco, frutto dell'abbandono delle zone montane a favore delle pianure e delle colline pedemontane. «I dati aggregati non possono raccontare a fondo il meccanismo delle trasformazioni», spiega Paolo Pileri, docente di pianificazione territoriale presso il Politecnico di Milano e coautore del rapporto. Ad esempio, prosegue, «bisogna tenere conto che la nuova urbanizzazione cresce quanto più ci si allontana dal centro delle metropolio delle città, ed è proporzionalmente più intensa nei comuni più piccoli, come quelli sotto i 15mila abitanti, che in quelli più grandi. Questo sembrerebbe il banale effetto della disponibilità di spazi agricoli o naturali pùi ampi. Ma non è solo così.

Probabilmente incide anche l'incapacità delle piccole amministrazioni comunali di resistere alle pressioni degli interessi privati, tenuto conto del fatto che nei piccoli municipi le relazioni parentali e amicali sono molto strette, e condizionano di più l'elezione dei rappresentanti. E poi c'è la scarsa preparazione culturale e ambientale delle giunte più piccole».

Insomma, è il trionfo della città-arcipelago, che alterna le villette uni e bifamiliari, i piccoli condomìni, i capannoni delle piccole e medie imprese e i grandi contenitori del commercio e dell'intrattenimento (cinema multisala, discoteche, palestre): una città che spesso implica un'elevata mobilità dei cittadini, con le prevedibili conseguenze in termini di consumi energetici.

Con questo modello urbano, infatti, oltre il consumo del suolo, si incrementa anche quello di carburante: con l'aumento di percorrenza di un chilometro in auto, per ogni mille abitanti ci sono 700km in più da fare, cioè l'immissione in aria di 8o-100 ku di anidride carbonica (29-36 tonnellate in un anno).

In futuro uno sviluppo equilibrato non è garantito, anche perché non sempre i provvedimenti statali e locali sembrano agevolare questa tendenza. Si pensi per esempio ai piani casa regionali che premiamo gli incrementi di volumetria soprattutto per villette uni e bifamiliari e le piccole strutture produttive.

Oppure alla devolution in atto che prevede che i comuni si assumano in carico anche la gestione delle autorizzazioni ambientali oltre che della programmazione urbanistica. Il tutto con il rischio che la tentazione di incassare maggiori entrate dagli oneri di urbanizzazione e avere più consensi elettorali finisca per mandare in secondo piano l'attenzione al paesaggio.

Anche in Italia conquista terreno la «città diffusa»

Cristiano Dell'Oste

Chiunque abbia viaggiato in aereo tra Milano e Roma sa come si presentano gli Appennini. Montagne, boschi, qualche paesino, ogni tanto una città. Difficile guardando dal finestrino pensare all'Italia come a un territorio cementificato. Eppure, basta poco per cambiare prospettiva. Basta percorrere una delle tante strade provinciali che attraversano la pianura padana, costeggiate da capannoni, ville, palazzine e centri commerciali. Per la maggior parte costruiti negli ultimi dieci o vent'anni.

Dove sta, allora, la verità? La città diffusa, con le periferie che formano reti urbanizzate a bassa densità, occupa troppo territorio agricolo e naturale? Oppure, al di fuori delle pianure, sono i boschi ad avanzare? L'Osservatorio nazionale sui consumi di suolo istituito dal Dipartimento architettura e pianificazione del Politecnico di Milano, dall'Istituto nazionale di urbanistica e da Legambiente nei mesi scorsi ha condotto una prima ricognizione. I dati dicono che le aree occupate da edifici, strade e infrastrutture negli ultimi anni sono cresciute di 10 ettari al giorno in Lombardia tanto quanto 14 campi da calcio di 8 ettari in Emilia Romagna e di poco meno di un ettaro (8mila metri quadrati) in Friuli Venezia Giulia. Se queste tre regioni fossero rappresentative della media nazionale, vorrebbe dire che ogni giorno in Italia vengono occupati 100 ettari, cioè un chilometro quadrato.

Rappresentative, però, non sono, in quanto si tratta di aree tra le più urbanizzate. E manca all'appello tutto il Centro-Sud. Il problema, infatti, è che non esiste una mappatura completa, perché gli enti locali, salvo limitate eccezioni, non l'hanno mai considerata una priorità. Ad oggi le rilevazioni - escluse quelle in pagina e per la provincia di Torino - non sono comparabili, ad esempio perché chiamano in modo diverso cose uguali (un campo può essere definito «agricolo» in una regione e «seminativo» in un'altra) oppure perché le cartografie sono riferite a una data sola, e non consentono di cogliere i cambiamenti. Al disinteresse degli amministratori, peraltro, si contrappone la disponibilità dei costruttori a usare in modo più razionale il suolo. «Condividiamo l'obiettivo di un consumo intelligente, e quando possibile minore, di territorio. In questo senso, è fondamentale sapere dove e come si costruisce, sia in modo legale che illegale», afferma Paolo Buzzetti, presidente nazionale dell'Ance. «L'Italia è l'unico paese avanzato in cui non si riesce ad abbattere i vecchi edifici che non hanno caratteristiche di pregio prosegue -. Londra è un esempio eclatante di come si possa ripensare e ricostruire la città».

L'esperienza insegna, d'altra parte, che anche le migliori intenzioni spesso soccombono di fronte alla complessità e ai tempi lunghi delle procedure necessarie ad approvare i piani di riqualificazione. Proprio per questo, molti hanno guardato con interesse al piano casa.

«Abbiamo insistito molto sulla norma che consente di demolire e ricostruire», ricorda Buzzetti. E l'importanza di questa disposizione è stata sottolineata anche da Finco, la federazione delle imprese attive della filiera edilizia, che aveva chiesto (per ora invano) di rendere permanenti le misure sulla sostituzione edilizia.

La lezione che arriva dal rapporto, dunque, è doppia. Innanzitutto, bisognerebbe individuare le politiche pubbliche virtuose, in grado di contenere il consumo di suolo entro i limiti strettamente necessari e favorire uno sviluppo razionale delle città. Dopodiché, bisognerebbe completare al più presto la ricognizione del territorio in base a criteri omogenei, così da offrire ai comuni una base-dati accurata per programmare il governo del territorio.

Anche perché, come hanno denunciato i responsabili dell'Osservatorio davanti alla commissione Ambiente della Camera, da un punto di vista scientifico oggi nessuno può dire con certezza quale sia la percentuale di suolo italiano urbanizzato. Di fatto, con le conoscenze attuali, è difficile andare oltre le impressioni del comune viaggiatore che osserva il paesaggio fuori dal finestrino. Tutto questo mentre in altri paesi come Germania, Olanda e Svizzera vengono effettuate rilevazioni annuali poi utilizzate pr elaborare la pianificazione urbanistica.

In Cina lo «sport dei ricchi» sta «inghiottendo la terra dei poveri». A leggere l’attacco del Quotidiano del popolo, l’ufficialissima voce del Partito comunista, contro il golf, riecheggia nella mente il perentorio «È uno sport borghese» con il quale il presidente venezuelano Hugo Chavez ha motivato la chiusura di due campi da golf lo scorso agosto. Oggi è la Cina a dichiarare guerra agli amanti delle 18 buche. La nuova battaglia di Pechino, però, difficilmente potrà essere bollata come una scelta ideologica, ma al contrario mira al rispetto della legge. Il giro di vite deciso dal governo cinese contro i green colpirà infatti solo i campi “illegali”, ossia costruiti senza autorizzazione dopo la moratoria imposta dal governo nel 2004.

Una misura resa necessaria per la salvaguardia delle già scarse terre destinate all’agricoltura e delle risorse idriche della Cina. «In un Paese dove il territorio agricolo è di soli 1,4 mu (circa 900 metri quadrati) per persona - commenta Dong Zuoji, direttore del dipartimento per la Pianificazione territoriale del ministero della Terra e delle risorse - è ridicolo che i campi da golf possano occupare 40 o 50 ettari». Senza contare i 3.000 metri cubi di acqua giornalieri che occorrono per innaffiare e tenere ben verde ogni campo. Uno spreco di risorse che sembra non tener conto della carenza d’acqua che affligge in maniera cronica molte zone del Paese, soprattutto nel nord, alla quale, nelle ultime settimane, si è aggiunta la terribile siccità che ha colpito la Cina meridionale e lasciato senza acqua potabile ben 2,5 milioni di persone.

Problemi ai quali il governo cinese aveva provato a porre rimedio anche con la moratoria sulla costruzione dei campi che avrebbe dovuto tutelare i terreni e che non è tuttavia riuscita a bloccare l’abusivismo. Da quando nel 1984 venne aperto il primo green del Paese, con la rapida crescita economica, anche la passione per il golf si è andata via via espandendo. Le cifre parlano di 500 campi autorizzati che potrebbero diventare 2.700 entro il 2015, e 3 milioni di golfisti che, secondo le previsioni della China golf association, nel prossimo decennio potrebbero raggiungere i 20 milioni.

Un business che solo lo scorso anno ha prodotto oltre 60 miliardi di yuan (5 miliardi di euro circa) e fa gola a molti. L’inchiesta governativa, lanciata a settembre in concomitanza con il piano da 15 miliardi di yuan per il censimento delle terre, ha già scoperto i primi casi di abusivismo. Tra i più eclatanti è da annoverare un impianto nella provincia dell’Hebei che occupava illegalmente 100 ettari destinati all’edilizia e ben 126 ettari di terreno agricolo. Ma si è solo all’inizio e i primi risultati certi si avranno solo entro il 2010. Una cosa è certa, conclude Dong, i colpevoli saranno «puniti severamente».

Non è che nel suo regno, e mondo ideale, non ci siano cantieri, s’affretta a precisare. «Abbiamo fermato il consumo di suolo - dice secco - non l’edilizia». Si recupera ciò che già esiste, e avanti così. Non un centimetro di più. È la spina nel fianco di palazzinari e imprenditori che in quel borgo inviolato ci fiutano l’affare ma che contro la sua porta a ogni tentativo vanno a sbattere. L’artefice di un piccolo mondo a impatto zero, dove anche il cimitero è "eco" e sull’ambiente si prova a pesare il meno possibile. Alle lusinghe di asfalto e mattone non cede, il sindaco anti-cemento dell’hinterland milanese. Domenico Finiguerra da quell’orecchio non ci sente. Da quando aveva trent’anni, oggi ne ha 38, è il primo cittadino di Cassinetta di Lugagnano, una ventina di chilometri a sud ovest di Milano dove 1.800 persone hanno sposato la sua filosofia di sostenibilità.

Anzitutto opponendosi alla superstrada che Regione e Anas vogliono nei due parchi, Ticino e Sud Milano, fino a Malpensa e che quest’anno, con la resistenza del loro sindaco, ha arruolato nuovi oppositori. Cassinetta oggi è un’eco-cittadina che si fa da sé e votata al risparmio energetico. Per la scuola materna della città, Gianni Rodari, inaugurata un anno fa, il Comune ha acceso un mutuo di un milione. «Sul tetto abbiamo realizzato un impianto fotovoltaico a costo zero - spiega - è realizzato con un consorzio di comuni della zona, E2sco, che sostiene i costi e si accolla i rischi. Noi cediamo il diritto di superficie, abbattendo la bolletta della scuola. Una volta ammortizzato l’impianto, rivenderemo l´energia con qualche decina di migliaia di euro di entrata». Anche al cimitero si risparmia: investiti 2mila euro, ne tornano indietro ogni anno 2.500. «Tutte le lampadine sulle lapidi da 5 watt sono state sostituite da led che di watt ne consumano solo 0,38 cioè meno del 10 per cento». Niente luminarie, poi, che consumano troppo. L’idea di fondo è ridurre le spese d’utenza.

La politica pro-paesaggio, però, ha dei costi. Nelle casse comunali se non entrano centinaia di migliaia di euro di oneri d’urbanizzazione, da cantieri e infrastrutture, in qualche modo i conti devono tornare. «Ho dovuto aumentare le tasse, vedi l’Ici sulla seconda casa, la mensa a scuola e i centri estivi. Ma ho anche azzerato le spese di rappresentanza. Niente ufficio stampa, ci si sposta a proprie spese, l’auto blu è una Panda verde. Sobrietà è la parola d’ordine di questa rivoluzione». Un prezzo da dividere un po’ per uno, per salvare casa propria. Per far cassa, al posto di nuovi palazzi, il sindaco s’è inventato i matrimoni a pagamento nelle ville della zona. «In sei mesi abbiamo racimolato 15mila euro, sposarsi sul Naviglio è molto romantico».

Nato 38 anni fa da una sarta e un muratore, entrambi lucani, il paladino del verde di Cassinetta è un ambientalista atipico. Mai militante di associazioni verdi. La sua coscienza ecologista è nata sul campo. «A 22 anni ero consigliere comunale ad Abbiategrasso con il Pds di Occhetto - racconta - mi è bastato un mandato, dal ‘94. Case su case, si andava avanti a colpi di centri commerciali. Non mi sono più ricandidato». Quattro anni più tardi è già in sella a una bicicletta a bussare a centinaia di porte come candidato sindaco, lista civica (vicina al centrosinistra) a Cassinetta, comune con cui è entrato in contatto mentre era alla guida di una casa per anziani cui la Croce azzurra cassinettese portava i pasti. Campagna elettorale a impatto zero. «Una sfida quasi impossibile, in una roccaforte del centrodestra da sempre, con Formigoni e Berlusconi al 70 per cento. Solo me stesso e le mie idee». Ma ha funzionato, anche per il secondo mandato. Oggi Finiguerra dirige la biblioteca comunale ma a Opera, i suoi assessori guadagnano 70 euro, lui 500, come sindaco però. «Così non devo rendere conto a nessuno». Se non ai cittadini, che hanno appoggiato la sua rivoluzione.

Le tavole sono consultabili nel file allegato in calce al testo.

1. Stop al consumo di suolo

Contro la dissennata cementificazione del territorio e la distruzione del paesaggio è da tempo in atto una vasta offensiva sociale e culturale. L’associazione Stop al consumo di suolo è da tempo una realtà in crescita e l’adesione all’appello conta un sempre maggiore numero di contatti[1]. All’associazione partecipano Eddyburg, AltritAsti, Gruppo P.E.A.C.E. Pace, Economie Alternative, Consumi Etici, Movimento per la Decrescita Felice, AltrItalialtroMondo, Comitato per la Bellezza, Associazione dei Comuni Virtuosi. Insieme a questa rete di amministrazioni pubbliche e comitati, anche le grandi associazioni ambientaliste e culturali sono impegnate nel contrastare la distruzione dei beni naturali e la riduzione della biodiversità. WWF, Fai, Italia Nostra e Legambiente sono concretamente impegnate nel contenere la dilagante espansione urbana.

Questo vasto movimento non ha finora potuto fare affidamento su dati certi sulla quantità di suoli agricoli che ogni anno viene urbanizzato e sottratto agli usi naturali. Gli unici indicatori di riferimento sono, come noto, la quantità di ettari sottratti all’agricoltura calcolati dall’Istat (3,5 milioni di ettari nel periodo 1990–2005) e il dato del consumo di suolo misurato dall’Agenzia Ambientale Europea tra il 1991 e il 2001 che aveva stimato in circa 8.400 ettari/anno la quantità di suolo sacrificata per l’urbanizzazione[2]. Il primo dato non rappresenta il reale consumo di suolo, poiché indica soltanto gli ettari sottratti all’agricoltura e dunque non necessariamente urbanizzati. Si tratta di aziende agricole che chiudono il ciclo produttivo o di aree coltivate che vengono abbandonate. Il secondo dato, al di là delle metodologie di interpretazione[3], si riferisce anche ad un periodo in cui l’attività edilizia è stata bassa in conseguenza dell’inchiesta Mani pulite[4].

Recentemente l’Istat ha fornito i dati sulle volumetrie realizzate in Italia nel periodo di tempo che va dal 1995 al 2006, proprio a partire da quel 1995 in cui inizia a verificarsi un attenuarsi degli effetti di Tangentopoli e l’attività edilizia -anche in relazione della congiuntura mondiale- inizia un’ascesa inizialmente lenta e successivamente sempre più impetuosa. Attraverso l’interpretazione di questi dati si è stimata con ragionevole approssimazione il valore del consumo di suolo in atto nel nostro paese, anche se si deve sottolineare preliminarmente che le informazioni Istat sono sicuramente sottostimate rispetto alla realtà. Esse, come noto, si basano sull’invio dei dati relativi al rilascio delle concessioni edilizie da parte delle amministrazioni comunali. E’ noto che questo invio non è sistematico: le informazioni fornite dall’istituto centrale sono conseguentemente sottostimate rispetto alla realtà. Inoltre, il fenomeno abusivo, quantitativamente importante in molte regioni italiane, sfugge per definizione alla rilevazione.

Pur con questi limiti i dati riescono a fornire un quadro attendibile e –soprattutto- verificabile attraverso le letture della crescita dell’urbanizzazione del territorio che iniziano ad essere prodotte alla scala locale.

2. Si è costruito per “il mercato”

Iniziamo dai dati sulle costruzioni residenziali. Sono state costruite quasi 9 milioni di stanze per abitazione (8.897.959 corrispondenti a 1.122.043.692 metri cubi realizzati) (tav.1 file pdf).

Alle stanze di nuova costruzione vanno aggiunte quelle realizzate attraverso ampliamento di edifici esistenti, pari a oltre un milione (1.043 mila, vedi tav. 5). Si arriva in totale a circa 10 milioni di stanze. Questa enorme offerta non ha alcuna relazione con l’aumento della domanda. La popolazione italiana dopo una sostanziale stasi in tutto il decennio 1990-2000 ha iniziato a crescere con tassi molto modesti soltanto per l’apporto della popolazione straniera, la cui presenza è emersa in particolare con i due provvedimenti di regolarizzazione del 2002 (tav.2 file pdf)[5].

Il milione 900 mila abitanti di incremento demografico registrato dal 1995 al 2006 è rappresentati quasi esclusivamente dagli immigrati, persone che, salvo eccezioni, non hanno la minima possibilità di accesso alle abitazioni costruite nel quindicennio. Soltanto l’1% di queste, infatti, è costituito da alloggi pubblici: tutto il resto sono abitazioni private. Tant’è vero che in tutte le più grandi città italiane esiste una diffusa emergenza abitativa: ci sono fasce sempre più ampie di popolazione che a causa del fenomeno dell’impoverimento del ceto medio, della precarizzazione del lavoro e dell’impennata dei prezzi delle abitazioni, soffre di gravi disagi abitativi. Risulta dunque evidente che l’enorme mole di costruzioni realizzate non ha alcuna corrispondenza con la domanda, ma è evidentemente legata ad altri fattori. E’, come noto, un fenomeno comune a molti altri paesi: si è costruito molto perché il fiume di denaro virtuale creato dell’economia finanziaria doveva trovare luoghi in cui materializzarsi: le città e il territorio.

3. Il consumo di suolo del segmento residenziale

Vediamo ora di calcolare il valore del consumo di suolo prodotto dal segmento abitativo. Sono stati costruiti 562.885 edifici: incrociandoli con la volumetria totale (un miliardo e 122 mila metri cubi) si vede che il volume medio dei fabbricati e di circa 2.000 metri cubi (1.993, per la precisione). La tavola seguente ci dice che dimensione media dei piani delle abitazioni realizzate è compresa tra 2 e 3 piani. In particolare risulta che le abitazioni fino a due piani rappresentano percentualmente il 52,1% dell’intera produzione edilizia, a dimostrazione del fenomeno di diffusione residenziale che caratterizza il territorio italiano (tav. 3 file pdf)[6]. L’impronta a terra dell’edificio medio di 2.000 metri cubi è pari a circa 290 metri quadrati[7].

Per calcolare la dimensione del lotto impegnato dall’edificio medio si è assunto il valore del rapporto tra superficie coperta e superficie fondiaria contenuto nel decreto ministeriale sugli Standard urbanistici che per le zone consolidate “B” stabilisce un parametro pari a 1/8 tra impronta dell’edificio e superficie fondiaria[8]. Il lotto tipo ha dunque una misura di circa 2.320 metri quadrati. Il territorio fondiario consumato dai 562.885 edifici è dunque pari a circa 130.600 ettari. Se si considera che la volumetria realizzata è pari a 1 miliardo e 122 di metri cubi, si ottiene un indice di fabbricabilità fondiaria risulta pari a circa 0,9 metro cubo per metro quadrato (0,86 mc/mq), indice del tutto congruente con le caratteristiche prevalenti dell’urbanizzazione diffusa.

Per tener conto delle urbanizzazioni primarie, dei servizi e dei parcheggi, considerando che per le zone a bassa densità il rapporto tra superficie fondiaria e quella territoriale è generalmente di 4 a 6, si devono aggiungere 196 mila ettari. Si arriva così a 326 mila ettari di territorio consumato. L’indice di fabbricabilità territoriale scende a poco meno di 0,4 mc/mq, valore anche in questo caso coerente con le caratteristiche delle trasformazioni diffuse.

Si deve infine aggiungere al dato stimato una percentuale relativa all’abusivismo. Il peso dell’abusivismo è sistematicamente stimato da Ecomafia, pubblicazione annuale curata dall’Osservatorio ambiente e legalità di Legambiente che stima intorno al 20% la percentuale dell’abusivismo sulla quota legale[9]. Ai precedenti 326 mila ettari vanno pertanto aggiunti ulteriori 65.000 ettari.

In conclusione, la quantità di territorio consumata nel periodo 1995 – 2006 dal comparto residenziale è pari a 390 mila ettari.

4. Il “piano casa” è già stato realizzato

L’Istat pubblica anche la quantità di volumetrie residenziali realizzate attraverso gli ampliamenti degli edifici esistenti. Si tratta di 146.267.196 metri cubi, per un totale di 287.996 abitazioni e 1.043.467 stanze (tav. 4 file pdf). E’ evidente che questo tipo di attività, a parte trascurabili eccezioni, non produce aumento di consumo di suolo.

Il motivo per cui pubblichiamo la tavola degli ampliamenti è relativo ad un'altra questione, e cioè il rapporto delle quantità realizzate con il cosiddetto piano casa annunciato dal Governo nazionale nel mese di marzo 2009 e i successivi provvedimenti regionali. Dal dato Istat di vede infatti che il mercato edilizio aveva già diffusamente utilizzato le possibilità regolamentari per gli ampliamenti degli edifici esistenti. Il primo atto di ogni buon governo dovrebbe essere quello della conoscenza sistematica delle questioni affrontate. In questo come in molti altri casi, il legislatore si è invece affidato alla sorte. Oggi dal mondo della Confindustria si levano alte grida contro “la burocrazia che blocca i piani casa”[10]. In realtà il motivo vero del fallimento è che si erano già realizzate molte costruzioni ampliando gli edifici esistenti.

Anche un’altra serie di informazioni fornite dall’Istat, pur esulando dallo specifico obiettivo della presente ricerca, è di grande utilità per comprendere gli effetti della valorizzazione immobiliare di questi anni. Le informazioni statistiche riportano la distribuzione dimensionale dell’edilizia residenziale realizzata. Il vertiginoso aumento dei valori immobiliari di questi anni ha causato una riduzione delle superfici alloggiative. Oltre al fenomeno della diffusione residenziale, siamo dunque in presenza di un evidente fenomeno di diminuzione dello standard abitativo. Il decennio del liberismo trionfante ha intaccato il diritto alla città perché ha esteso l’urbanizzato oltre ogni limite e costretto le famiglie meno abbienti a trasferirsi sempre più lontano dalle città e nello stesso tempo ha eroso il diritto ad una casa adeguata alle esigenze del nucleo familiare (tav. 5 file pdf). Si vive sempre più lontano e e in case sempre più modeste.

Ulteriore passo della restaurazione privatistica delle città, come nota Paola Bonora, sarà quello di abbassare la durevolezza delle abitazioni, costruendo alloggi da rottamare in tempi brevi (20 anni al massimo) così da alimentare un mercato drogato di demolizioni e ricostruzioni[11].

5. Il consumo di suolo del segmento produttivo

Oltre al comparto residenziale, l’Istat certifica che sono stati realizzati 246.451.984 metri quadrati di manufatti produttivi (tav. 6 file pdf). Soltanto con la realizzazione dei capannoni sono stati dunque consumati 24.645 ettari di terreno.

Assumendo un indice di occupazione medio dei lotti pari al 30% si raggiunge un valore fondiario dei lotti edificati pari a 82.150 ettari. Per tenere conto delle strade di allacciamento e di distribuzione e dei parcheggi si è raddoppiata la precedente quantità. In complesso il consumo territoriale di suolo delle nuove costruzioni è di 164.300 ettari.

L’Istat fornisce ancora i dati quantitativi sugli ampliamenti degli edifici produttivi esistenti, 45.974.441 metri quadrati (tav. 7 file pdf). A differenza del comparto residenziale, in questo caso gli ampliamenti produttivi producono aumenti del consumo di suolo. Vengono infatti utilizzati nuovi suoli non urbanizzati per aumentare le linee di produzione o per ampliare le aree di stoccaggio. Tenendo conto dell’incremento per le urbanizzazioni primarie (anche in questo caso si è utilizzato un parametro di aumento del 100%) si raggiunge il valore di 10.000 ettari (9.194).

Alla somma dei due precedenti valori (173.500 ettari) si deve ancora aggiungere una percentuale del 20% per tener conto dell’abusivismo, e cioè altri 34.700 ettari.

Il consumo di suolo per il comparto produttivo è complessivamente pari a circa 210 mila ettari.

6. Il consumo di suolo per la realizzazione delle infrastrutture

Il calcolo del consumo di suolo causato dalla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali realizzate negli undici anni considerati non può fare affidamento su alcun dato statistico. Per stimarlo si è operato sui valori della larghezza standard degli impalcati infrastrutturali per le tipologie ferroviarie e per quelle autostradali o stradali. Il parametro lunghezza è stato calcolato sulle opere realizzate in questi anni: la tratta di alta velocità ferroviaria tra Napoli e Torino, la terze corsie autostradali (Roma-Orte, tratta Adriatica, etc); le nuove tratte (variante di valico appenninico, etc.); l‘adeguamento del grande raccordo anulare a Roma e la Salerno-Reggio Calabria.

Se si pensa che soltanto per l’alta velocità ferroviaria si può valutare il consumo di suolo in circa 25 mila ettari, una stima prudenziale ci fa arrivare al valore complessivo di 150 mila ettari di terreno consumato.

Il consumo di suolo per la realizzazione delle infrastrutture arriva a 150 mila ettari.

7. La coerenza dei dati stimati con gli studi esistenti

La somma del consumo di suolo residenziale, di quello produttivo e di quello infrastrutturale porta ad un valore di 750 mila ettari. Questo risultato è stato verificato con quelli desunti da concrete indagini di campo.

La provincia di Milano ha pubblicato nel 2009 il Quaderno n. 28 del Piano territoriale dedicato al consumo di suolo. La ricerca “Consumo di suolo. Atlante della provincia di Milano” è stata redatta in collaborazione con il Centro studi Pim e riporta il dato sintetico del consumo di suolo calcolato nel periodo 1999 – 2004 in5,5 metri quadrati di suolo per abitante/anno.

Il dato calcolato all’interno della ricerca (750 mila ettari) porta ad un dato sensibilmente più alto, e cioè 11,6 metri quadrati/abitante/anno. In realtà il dato è comparabile con quello calcolato dalla Provincia di Milano per due motivi. Il primo di natura legale: nel milanese la percentuale dell’attività abusiva è pressoché vicina allo zero e il valore dell’11,6 deve subire una decurtazione pari al 20%, diventando pari a 9,3 mq/ab/anno. Il secondo motivo è invece legato ai valori di densità edilizia che nel caso delle aree metropolitane è molto superiore al dato utilizzato per il calcolo del consumo di suolo medio.

L’Istat fornisce i dati relativi alla distribuzione del numero di piani degli edifici residenziali disaggregati rispetto alla dimensione degli organismi urbani, in particolare fornisce quelli relativi alle città italiane con oltre 500 mila abitanti[12]. Dalla tavola 8 si vede che se la percentuale delle abitazioni realizzate su tre piani è identica al dato nazionale (33,6), ben diverso è invece il peso degli edifici di 5 e 6 piani. Nei grandi centri urbani gli edifici ad alta densità assumono un peso notevolmente maggiore: gli edifici di cinque piani rappresentano l’8,8% nelle grandi città mentre il dato nazionale era del 2,4% (tav. 3 file pdf). Gli edifici con 6 e più piani di abitazione raggiungono nelle grandi città la percentuale del 17,2% rispetto alla media nazionale dell’1,5%[13].

Se si tiene conto dei due fenomeni (assenza di abusivismo e maggiori densità urbane) il valore calcolato su scala nazionale dell’11,6 scende nel caso della provincia di Milano a circa 7,0, molto vicino a quello di 5,5 mq/ab/anno misurato dagli uffici tecnici provinciali.

8. In undici anni è sparita l’Umbria. In un anno Ravenna

Come accennavamo, i tre addendi del consumo di suolo raggiungono in totale 750 mila ettari nel periodo della rilevazione 1995-2006, e cioè oltre 68.200 mila ettari/anno.

Ciò vuol dire che, se si tolgono le aree già urbanizzate, in undici anni è stata coperta dal cemento e dall’asfalto una regione grande quanto l’Umbria e che ogni anno sparisce per lo stesso motivo l’intero comune di Ravenna[14]. Un dato che può certo far piacere agli idolatri dell’urbanistica contrattata-perequativo-compensativa. Un dato spaventoso per coloro che hanno a cuore la tutela del paesaggio e delle bellezze naturali italiane.

Per la verità, passata -anche se non del tutto- l’ubriacatura neoliberista gli urbanisti che si immolano sempre e comunque all’urbanistica promozionale e ai mercatini dell’urbanpromo sono in rapido declino e senza grandi argomenti. Aumenta invece il numero delle persone che denunciano questo intollerabile stato di cose. Non soltanto i soggetti che elencavamo in premessa, ma anche grandi intellettuali come Barbara Spinelli che di recente ha scritto “Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d'omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe[15].

Non ci sono parole migliori per tentare di fermare per sempre il “grande sacco dell’Italia” e il consumo di suolo.

[1] Al 10 novembre gli iscritti all’associazione sono 13.092, di cui almeno 200 comitati e associazioni di cittadini. Il sito è www.stopalconsumoditerritorio.it

[2] I dati sono riportati nella ricerca effettuata dal WWF e dall’Università di L’Aquila. Vedi “2009, l’anno del cemento”. Dossier sul consumo di suolo in Italia, a cura del WWF Italia, 2009.

[3] E’ stato utilizzato il sistema Corinne Land Cover che non apprezza le urbanizzazioni sotto una soglia dimensionale elevata.

[4] La produzione edilizia del decennio 1991 – 2001 si attesta su una media di 200 mila alloggi /anno. Raggiunge i 300 mila alloggi negli anni 2004-2005.

[5] In numero dei permessi di soggiorno al 1 gennaio 2008 sono 2.063.127. Nel 2002 erano 1.448.392.

[6] Si veda in particolare No Sprawl, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano. Alinea editrice, 2006.

[7] Si è assunto un valore medio tra due piani (6,00 ml) e tre piani (9,00 ml), e cioè 7,0 metri.

[8] Il Decreto ministeriale 1444/68 definisce le zone B di completamento urbanistico “le parti del territorio parzialmente edificate in cui la superficie coperta dagli edifici esistenti non sia inferiore al 12, 5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona”.

[9] Legambiente, Osservatorio ambiente e legalità, Ecomafia 2009. Pagg. 175 e sgg.

[10] E’ il titolo d’apertura del quotidiano della Confindustria evidenziato su quattro delle cinque colonne dell’inserto dedicato a Roma e al Lazio il 28 ottobre 2009.

[11] Paola Bonora, E’ il mercato bellezza, in Eddyburg dal 29.03.09. In corso di pubblicazione. Dall’inizio del 2009 da parte dell’Ance sono ormai numerosissime le uscite mediatiche tese a “convincere” l’opinione pubblica che realizzare

case a rapido degrado sia l’unico modo per risolvere il problema abitativo delle famiglie a basso reddito. Come prassi consolidata, interessi egoistici se non bassamente speculativi vengono spacciati per interessi generali, complice un compiacente mondo dell’informazione.

[12] Come noto, le città italiane con popolazione superiore ai 500 mila abitanti sono sei. Nell’ordine Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova.

[13] Il fenomeno del aumento delle densità urbane è anche causato dalle caratteristiche dell’urbanistica contrattata che ha di fatto consegnato le città alla proprietà fondiaria. Un approfondito studio del fenomeno è contenuto in un recente volume di Sergio Brenna, La strana disfatta dell’urbanistica pubblica, Maggioli editore, 2009.

[14] La superficie territoriale dell’Umbria è pari a 8.546 chilometri quadrati. Quella del comune di Ravenna 652,89 chilometri quadrati.

[15] Barbara Spinelli, Il grande sacco dell’Italia, La Stampa, 4 ottobre 2009, consultabile su eddyburg: http://www.eddyburg.it/article/articleview/13937/1/352

Chiunque può riprendere questo articolo o sue parti alla condizione di citare l'autore e la fonte come segue: tratto dal sito web http://eddyburg.it

Un provvedimento per compensare i mancati introiti che il Comune incassa quando concede di costruire. Non un centimetro quadrato dei pregiati terreni comunali compresi fra il Ticino e il Naviglio Maggiore verrà dunque occupato da nuove costruzioni. Si ristruttura solo quel che già c´è. La piccola rivoluzione i cittadini amministrati da Finiguerra l´accolgono con favore: per loro vale la pena pagare un po´ più di soldi, ma avere un territorio e un paesaggio intatti. E così, quando vanno a votare per le politiche, assicurano a Pdl e Lega il 65 per cento dei voti, ma quando rinnovano il Consiglio comunale non hanno tentennamenti. La lista civica di centrosinistra guidata da Finiguerra, classe 1971, laurea in scienze politiche, direttore della Biblioteca comunale di Opera, ha preso il 51 per cento nel 2003 e il 62 nel 2007, un mese dopo aver approvato il piano regolatore.

Cassinnetta ha 1.800 abitanti. È un borgo solcato dal Naviglio, che disegna un paesaggio d´acqua dove le grandi famiglie milanesi fra Cinquecento e Settecento edificarono splendide ville, come i casati veneziani fecero sul Brenta (i Visconti Maineri, i Trivulzio, i Birago Clari Monzini, i Negri Campi). Ma Cassinetta, dichiarata Riserva della biosfera dall´Unesco (ce ne sono solo altre sei in Italia), è al centro di una regione in cui le pressioni edilizie sono imponenti. Confina con Abbiategrasso e lambisce l´estrema periferia milanese. È sulla direttrice che porta a Malpensa e potrebbe veder scorrere, a poche centinaia di metri, l´autostrada a quattro corsie che dovrebbe condurre all´aeroporto, con il corredo di svincoli, capannoni e centri commerciali che simili infrastrutture trascinano. Qui il cemento avanza a ritmi vorticosi: il 43 per cento di tutto il territorio della provincia di Milano è urbanizzato, ma Finiguerra può vantare che nel suo paese la percentuale scende al 19. E l´altro 80? Fa gola, sarebbe lo sfogo naturale di quell´incontinenza edilizia che dilaga nella "megalopoli padana", come la chiamava il geografo Eugenio Turri. Ma tutti i progetti, le pressioni, le chiacchiere suadenti vanno a sbattere contro la porta del sindaco. Alcuni anni fa la Villa Clari Monzini, gioiello dell´architettura tardo cinquecentesca, era in rovina. Venne acquistata da un immobiliarista che si presentò al Comune proponendo di costruire nel parco una sessantina di appartamenti divisi in tre palazzine. La risposta di Finiguerra fu: niente palazzine, ristrutturi la villa. E così è andata. Ora l´edificio splende con i suoi colori tenui.

Il verde è salvo, salve sono le rogge che irrigano i campi, ma per il Comune, ogni volta che svaniscono oneri di urbanizzazione (prima che arrivasse Finiguerra erano dai 100 ai 150 mila euro l´anno) si apre un buco nel bilancio. Eppure, al cemento che garantisce gli oneri, Cassinetta preferisce le tasse. Qui è stata aumentata l´Ici e adesso che l´hanno abolita sulla prima casa, Finiguerra l´ha incrementata di un punto su tutte le attività produttive. Poi ha alzato del 10 per cento il costo delle mense scolastiche e raddoppiato quello dei centri estivi. «Non abbiamo toccato le spese sociali», spiega, «ma abbiamo tagliato su tutto il resto: io prendo 500 euro mensili, i quattro assessori 70. Non abbiamo macchine di servizio, solo una Panda del 1990. Abbiamo sostituito tutte le lampadine del cimitero per risparmiare elettricità e sulla scuola materna abbiamo installato pannelli fotovoltaici».

Il Comune non ha spese di rappresentanza, tutte le iniziative culturali sono pagate da sponsor. Scatta la molla della "finanza creativa", ma invece che svendite di patrimonio pubblico e cartolarizzazioni, ecco i matrimoni in villa. A Cassinetta vengono a sposarsi da tutta la Lombardia e allora si è fatto un accordo con la proprietaria di una villa settecentesca, che offre il catering, e il Comune si fa pagare da 750 a 1.500 euro per celebrare nozze anche a mezzanotte, con passeggiata sui bordi del Naviglio.

Finiguerra è stato chiaro fin da subito con gli elettori di Cassinetta. Il suo programma prevedeva stop al consumo di suolo, bene non riproducibile e indispensabile sia per le produzioni agricole sia per i paesaggi che genera. E con quel programma ha vinto, nonostante le tasse.

Su eddyburg una cartella dedicata a Cassinetta di Lugagnano

Nella foto (di Cristina Gibelli) Domenico Finiguerra a Lodi, tra F. Bottini ed E. Salzano

Il governo Berlusconi ha promesso di battere la crisi rilanciando il business del mattone. In realtà dietro ai piani dell'esecutivo, a cominciare da quello sulla casa, non c'è altro che un nuovo sacco edilizio. Regione per regione ecco la mappa della nuova speculazione

Più cemento per tutti. Con il cosiddetto piano casa, e con altri interventi ispirati alla stessa ideologia della deregulation edilizia, il governo Berlusconi promette di battere la crisi rilanciando il business del mattone. Ma la ripresa resta dubbia. La crisi e il crescente indebitamento delle imprese e delle famiglie compromettono le capacità di investimento dei privati. A guadagnarci sicuramente saranno pochi grandi speculatori. Mentre per la maggioranza dei cittadini il nuovo boom dei cantieri rischia di produrre danni a lungo termine molto più gravi dei benefici apparenti e immediati. Un colpo di grazia per il già moribondo territorio italiano. Un'ipoteca pesante sul futuro del turismo, dell'agricoltura di qualità e della nuova economia verde. A lanciare l'allarme,insieme a tutte le più importanti associazioni per la difesa dell'ambiente e del paesaggio, sono autorevoli studi tecnicoscientifici e perfino gli asettici rapporti dell'Istituto nazionale di statistica. A differenza dei politici, gli esperti concordano che gran parte delle regioni hanno già raggiunto un livello di «saturazione edilizia ». Una nuova ondata di cemento «in un Paese come l'Italia, in cui il territorio è da sempre molto sfruttato», avverte l'Istat, «non può essere considerata in nessun caso un fenomeno sostenibile». Ma il peggio è che il piano casa è come una scommessa al buio: l'Italia è l'unico Stato occidentale dove già ora l'edilizia è fuori controllo, perché mancano perfino le misurazioni di quanti boschi, prati e campi vengono ricoperti ogni giorno dalla crosta inquinante del cemento e dell'asfalto.

Assalto al territorio

Dagli anni Novanta i comuni italiani stanno autorizzando nuove costruzioni a ritmi vertiginosi: oltre 261 milioni di metri cubi ogni 12 mesi. Nel giro di tre lustri, dal 1991 al 2006, ai fabbricati già esistenti si sono aggiunti altri 3 miliardi e 139 milioni di metri cubi di capannoni industriali e lottizzazioni residenziali.

È come se ciascun italiano, neonati compresi, si fosse costruito 55 scatole di cemento di un metro per lato. Il record negativo è del Nordest, con oltre un miliardo di metri cubi, pari a una media di 98 scatoloni di cemento per ogni abitante. Il risultato, secondo l'Istat, è «impressionante ». Al Nord l'intera fascia pedemontana è diventata un'interminabile distesa di cemento e asfalto «quasi senza soluzioni di continuità»: città e paesi si sono fusi formando «una delle più vaste conurbazioni europee». Una megalopoli di fatto, cresciuta senza regole e senza alcuna pianificazione, che dalla Lombardia e dal Veneto arriva fino alla Romagna. Al Centro «stanno ormai saldandosi Roma e Napoli». E nel Mezzogiorno «l'urbanizzazione sta occupando gran parte delle aree costiere». L'escalation edilizia, come certifica sempre l'Istat, non ha alcuna giustificazione demografica. Tra il 1991 e i 2001, date degli ultimi censimenti, la popolazione italiana è lievitata solo del 4 per mille, immigrati compresi, mentre «le località edificate sono cresciute del 15 per cento».

Nonostante questo, dal 2001 al 2008 il consumo di territorio è aumentato ancora: in media del 7,8 per cento, con punte tra il 12 e il 15 in Basilicata, Puglia e Marche e un record del 17,8 in Molise. Fino agli anni '80 la Liguria era la regione più cementificata. Negli ultimi sette anni le capitali del mattone, come quantità assolute, sono diventate Lazio, Puglia e Veneto. Solo quest'ultima regione ha perso altri 100 chilometri quadrati di campagne. A colpi di condoni Le statistiche dell'Istat segnalano un rapporto diretto tra i nuovi fabbricati e le sanatorie dei vecchi abusi, varate sia dal primo che dal secondo governo Berlusconi. Nonostante i proclami di regolarizzazione che accompagnavano ogni condono, l'edilizia selvaggia ha continuato ad arricchire i furbi: nel 2008 l'Agenzia per il territorio ha scoperto, solo grazie alle foto aeree, oltre un milione e mezzo di immobili totalmente sconosciuti al catasto, cioè non registrati neppure come abusivi. Uno scandalo concentrato al Sud. Al Nord invece la legge Tremonti del '94, che detassava gli utili per farli reinvestire in nuovi macchinari aziendali, in realtà ha fatto esplodere la costruzione e l'ampliamento dei capannoni industriali e commerciali: oltre 156 milioni di metri cubi all'anno.

Dietro la cementificazione del territorio c'è anche un'altra ingiustizia fiscale. Damiano Di Simine, responsabile di Legambiente in Lombardia, spiega che «l'assurdità del caso italiano è che i comuni sono costretti a finanziarsi svendendo il territorio »: «Gli oneri di urbanizzazione, da contributi necessari a dotare le nuove costruzioni di verde e servizi, si sono trasformati in entrate tributarie, per cui le giunte più ricche e magari più votate sono quelle che favoriscono le speculazioni». Nei paesi europei più avanzati succede il contrario: apposite "tasse di scopo" puniscono chi consuma territorio. Mentre in Italia, come segnala l'Istat, la pressione edilizia è tanto forte da scaricare i cittadini perfino «in aree inidonee per il rischio sismico o idrogeologico ». E tra migliaia di enti inutili, non esiste neppure un ufficio pubblico che misuri l'avanzata del cemento. La distruzione del verde L'unico studio di livello scientifico è stato pubblicato all'inizio di luglio da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano, dell'Istituto nazionale di urbanistica e di Legambiente. L'Istat infatti può quantificare, scontando i ritardi delle burocrazie locali, solo i «permessi di costruire», cioè le licenze legali. Alle statistiche ufficiali, dunque, sfuggono tutti gli abusi edilizi, oltre alle chilometriche colate di asfalto, dalle strade ai parcheggi, che accompagnano e spesso precedono le nuove costruzioni.

Mettendo a confronto foto aree e mappe della stessa scala, disponibili solo in tre regioni e in poche altre province, i ricercatori di questo "Osservatorio nazionale sui consumi di suolo" hanno scoperto che in Lombardia, tra il 1999 e il 2005, sono spariti 26.728 ettari di terreni agricoli. È come se in sei anni fossero nate dal nulla cinque nuove città come Brescia. La media quotidiana è spaventosa: ogni giorno il cemento e l'asfalto cancellano più di 10 ettari di campagne in Lombardia e altri 8 in Emilia, dove tra il 1976 e il 2003 (ultimo aggiornamento geografico) è come se Bologna si fosse moltiplicata per 14. Lo studio smentisce anche il luogo comune che vede nel cemento l'effetto dello sviluppo produttivo. In Friuli, tra il 1980 e il 2000, è scomparso meno di un ettaro al giorno. Mentre il Piemonte ha perso più di 68 chilometri quadrati di campagne nel decennio 1991-2001, quando il suolo urbanizzato è aumentato dell'8,7 per cento, mentre la popolazione è scesa dell'1,4. Gli urbanisti del Politecnico ammoniscono che questo modello di sfruttamento (l'Istat lo chiama «consumismo del territorio») ha ricadute pesantissime sulla vita delle famiglie. «Il fenomeno delle seconde e terze case è legato anche alla fuga dalle città sempre più invivibili», riassume il professor Arturo Lanzani: «Ma la scarsissima qualità dei nuovi progetti finisce per spostare il traffico e lo smog verso nuovi spazi congestionati ». Paolo Pileri, il docente che dirige l'Osservatorio, fa notare che «in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Svezia e Svizzera i governi cambiano le leggi urbanistiche per limitare fino ad azzerare i consumi di suolo. Mentre in Italia non abbiamo neppure dati attendibili». Anzi, il governo punta tutto su un nuovo boom edilizio.

Le pagelle al piano casa

Per il presidente di Italia Nostra, Giovanni Losavio, la riforma berlusconiana «è peggio di un condono, perché abolisce le regole anche per il futuro: permessi e controlli diventano inutili, ora basta la parola del progettista». «Bocciatura piena » anche da Legambiente, che ha fatto l'esame delle singole leggi (o progetti) regionali di attuazione: «promosse» solo Toscana, Puglia e provincia di Bolzano, che oltre a salvare parchi e centri storici, impongono rigorose migliorie ecologiche e risparmi energetici. A meritare i voti peggiori sono i piani casa delle regioni più cementificate: in Veneto la legge Galan concede aumenti di volume perfino ai capannoni più orribili, in Sicilia la giunta progetta «bonus edilizi fino al 90 per cento acquistabili dai vicini». E in Lombardia spunta il "lodo Cielle": un premio del 40 per cento per l'edilizia sociale, ma con «possibile vendita a operatori privati». «Rimandate con debiti» tutte le altre regioni, mentre in Val d'Aosta è pronto il «piano camere»: più cubatura anche per gli alberghi. Il bilancio nazionale è «un puzzle urbanistico con regole diverse in ogni regione». E se in generale le giunte di sinistra resistono al Far West edilizio, la Campania fa eccezione. Vezio De Lucia, urbanista di Italia Nostra, e Ornella Capezzuto, presidente del Wwf Campania, sono i primi firmatari di un appello che descrive il piano casa varato dalla giunta Bassolino come «un nuovo sacco edilizio»: «Il solo annuncio della liberalizzazione delle nuove residenze nelle aree dismesse, senza neppure il limite che le fabbriche interessate siano davvero già chiuse, ha fatto triplicare in pochi giorni il valore dei capannoni». Il consigliere regionale della sinistra Gerardo Rosania, che da sindaco di Eboli fece demolire 437 villette abusive, lancia una mobilitazione antimafia: «Ci si dimentica che qui siamo in Campania. Chi può fare incetta di industrie abbandonate pagando subito è solo la camorra». (30 luglio 2009)

Una vergogna solo italiana

di Paolo Biondini

'I paesi civili frenano il cemento, qui il governo lo incentiva': colloquio con Edoardo Salzano

Edoardo Salzano è uno dei più autorevoli urbanisti italiani. Il suo sito Eddyburg.it sta diventando il primo forum di informazione e discussione democratica sullo sviluppo edilizio, l'ambiente e il paesaggio.

Che ne pensa del piano casa?

"È un'iniziativa vergognosa, che avrà effetti devastanti. È' l'ennesima conferma che la cementificazione è una scelta politica: si favorisce uno sviluppo basato solo sull'appropriazione privata della rendita fondiaria. L'ideologia della bolla immobiliare ha fatto danni in tutto il mondo, ma l'Italia è l'unico Paese che continua a incentivarla. Ci stiamo allontanando sempre di più dall'Europa".

Come si costruisce nei paesi più civili?

"Per capirlo basta sorvolare l'Europa in aereo. In paesi come Austria, Germania, Olanda e Francia c'è una pianificazione rigorosa che segna un taglio netto tra città e campagna. In Italia c'è una marmellata edilizia, chiamata 'sprawl', spalmata su quasi tutto il territorio. La grande differenza è che nei paesi avanzati si cerca da tempo di controllare e limitare la cementificazione".

Qualche buon esempio?

"La Germania ha programmato dal '98 una direttiva rigorosa per ridurre entro il 2020 il consumo di suolo, facendolo scendere da 120 a meno di 30 ettari al giorno. E ci sta riuscendo. Nel Regno Unito fin dal '99 l'obiettivo è di realizzare almeno il 60 per cento della nuova edilizia abitativa in aree già urbanizzate. Perfino negli Usa, dove le estensioni sono gigantesche, alcuni Stati come l'Oregon hanno imposto confini invalicabili allo sviluppo delle città. In Italia il problema è totalmente ignorato. Cresce solo quella che Tonino Cederna chiamava la crosta di cemento e asfalto".

Molti cittadini si mobilitano con associazioni, comitati e raccolte di firme. Il vero problema è che la lotta alla speculazione edilizia non trova un'adeguata rappresentanza politica?

"Purtroppo non è solo il centrodestra, ma anche una parte del centrosinistra a teorizzare la cosiddetta urbanistica contrattata, le grandi opere in deroga a tutto e magari gli accordi sottobanco con i furbetti del quartierino e gli immobiliaristi d'avventura. C'è un pensiero unico che va combattuto con una svolta culturale: il suolo libero è una risorsa scarsa che va conservata. E per farlo serve una pianificazione più seria e più vasta di quella comunale". (30 luglio 2009)

Punto primo: il suolo è un bene comune. Punto secondo: si edifica solo su aree dismesse. Punto terzo: ogni nuova costruzione su suolo libero dovrà essere compensata con una superficie doppia destinata a parco. Questa, in sintesi, è la proposta di legge presentata in consiglio regionale da Legambiente Lombardia.

Negli ultimi sei mesi l’associazione ambientalista ha raccolto le firme di oltre 12.000 cittadini lombardi intenzionati a mettere il freno alla colata di cemento che si abbatte ogni giorno nella nostra campagna. L’avanzata di strade, case, centri commerciali, capannoni, spesso desolatamente sfitti, non lascia indifferenti i lombardi consapevoli che sui suoli regionali si giocherà il futuro dei propri figli e nipoti, perché una aggressione così massiccia al territorio è già una seria ipoteca per le future generazioni. Il ritmo con cui spariscono i terreni, inghiottiti da asfalto e cemento, è infatti serrato e preoccupante: 103.000 metri quadri in meno ogni giorno, come dire che ogni tre ore sparisce una superficie di Lombardia pari a quella occupata dal Duomo di Milano. Per di più si costruisce senza produrre alcuna ricchezza e senza rispondere a vere esigenze sociali, ma solo per aggiungere volumi dove il suolo costa meno: in campagna.

Non potrà mai esistere un’edilizia virtuosa fino a quando risulterà conveniente occupare nuovi suoli agricoli piuttosto che recuperare spazi sottoutilizzati. Dobbiamo ripensare il modo in cui si costruisce nella nostra regione: non ha senso costruire quartieri a zero emissioni in posti dove si è costretti a percorrere ogni giorno 100 km in auto per andare al lavoro.

Deve essere fermata l’emorragia dei suoli agrari che è, oggi, il male più grave di cui soffra la nostra regione e l’intero paese. La terra è un bene comune limitato e non rigenerabile, senza il quale non è possibile nutrire il pianeta.

Per questo l’obiettivo principale dell’associazione del cigno, dichiarato ai consiglieri regionali, è ottenere un riconoscimento giuridico per il suolo, che ancora manca nella legislazione del nostro paese. Non abbiamo molto tempo per invertire la rotta, deve passare il principio che il suolo è un bene di tutti, ogni consumo o danneggiamento di questa risorsa rappresenta un vero e proprio danno nei confronti della comunità. Legambiente e i cittadini che hanno sottoscritto la proposta di legge chiedono a gran voce al legislatore regionale di intervenire prima che il danno all’agricoltura e al paesaggio lombardo sia irreversibile.

Sulla proposta di Legambiente vedi anche, su eddyburg, la critica di Gianni Beltrame, la risposta di Damiano Di Simine e la replica di Beltrame

200mila metri quadri ogni giorni mangiati dal cemento che avanza nel bacino del Po. Questo l’inquietante risultato che emerge dal primo rapporto sui consumi di suolo presentato oggi a Milano dall'Osservatorio Nazionale sul Consumo di Suolo (ONCS), costituito da INU, Legambiente e DiAP del Politecnico di Milano. 20 ettaridi territorio che l'urbanizzazione ricopreogni giorno, in un processo inesorabile che cancella quotidianamente aree grandi come 12 piazze del Duomo di Milano o, se preferite, 28 volte Piazza Maggiore di Bologna.

Il primo rapporto sui consumi di suolo è lo strumento necessario per avviare nel nostro Paese la raccolta sistematica di dati necessari a conoscere le dimensioni di un problema ambientale, fortemente connesso al modo in cui si sviluppano le nostre città, ma fino ad oggi sostanzialmente inesplorato.

Su 20 regioni infatti, solo 6 hanno avviato la ricognizione delle trasformazioni del suolo nel tempo, e tra queste spicca la Lombardia con 288.000 ettari di superficie ormai 'sigillati' dall'urbanizzazione. In Emilia Romagna invece, su un arco temporale esteso dal 1976 al 2003, il territorio urbanizzato è quasi raddoppiato, passando dal 4,8 al 8,5% della superficie regionale, mentre ancora maggiore è stata la perdita di aree agricole: ben 198.000 ettari, l'intera superficie media di una delle 9 province emiliano-romagnole.

In Friuli Venezia Giulia, nel ventennio 1980-2000 si sono dilapidati 'solo' 6.482 ettari agricoli, ma dobbiamo tener conto che siamo in presenza di una regione di dimensioni ben più modeste e con una popolazione inferiore a 1.200.000 abitanti. Altissimo poi il dato dell'urbanizzato consolidato pro-capite: per ogni abitante residente vi sono ben 581 mq di superfici urbanizzate, contro i 456 dell'Emilia Romagna, i 310 della Lombardia e i 296 del Piemonte.

“Siamo partiti dal prendere atto di questa situazione di grave carenza informativa – dichiara Federico Oliva, Presidente nazionale INU – che costringe coloro che si confrontano con il governo delle trasformazioni, e quindi in primo luogo gli urbanisti e gli amministratori, ad essere privi di qualsiasi riscontro reale circa l'efficacia delle scelte di pianificazione: da qui la decisione di costituire un Osservatorio Nazionale sui Consumi di Suolo, che produca dati ma soprattutto pungoli le istituzioni a farlo in modo sistematico, coordinato e trasparente”. ONCS infatti può contare solo sull'impegno e sul lavoro volontario promosso dalle organizzazioni che lo compongono, ma lo sforzo di ricerca ed elaborazione necessario a raggiungere l'obiettivo, quello di produrre una rappresentazione fedele e aggiornata del consumo di suolo in tutta Italia, è davvero immane.

Tra le regioni su cui l'Osservatorio ha potuto lavorare con dati di buona qualità vi sono le tre del bacino padano (Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte): 200.000 metri quadri, ovvero 20 ettari è la superficie di territorio che l'urbanizzazione ricopre ogni giorno nel bacino del Po, tenendo conto che 20 ettari corrispondono alla dimensione di 12 Piazze del Duomo di Milano o, se preferite, a 28 volte Piazza Maggiore di Bologna.

Il lavoro dell'osservatorio non si è limitato a misurare il suolo 'consumato' dall'urbanizzazione, ma ha valutato anche le trasformazioni del suo uso: suoli agricoli che vengono abbandonati alla natura, zone umide bonificate o ripristinate, insomma una 'fotografia' delle mutazioni recenti del nostro paesaggio. Anche per quanto riguarda il fenomeno preoccupante dell'erosione delle superfici agricole il protagonista resta l'urbanizzazione, responsabile di 2/3 delle perdite di suolo agricolo, con l'aggravante che ben difficilmente i suoli 'sigillati' da cemento e asfalto potranno mai tornare ad essere produttivi: nelle regioni del Grana Padano e dei salumi 'made in Italy', Emilia Romagna e Lombardia, ogni giorno scompaiono 32 ettari di superfici agricole: le dimensioni di una media azienda cerelicola.

“Il dato ha una sua chiara e drammatica gravità, legata alla scomparsa definitiva delle terre più fertili e produttive d'Europa – rileva Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia – seguendo l'esempio della Germania della Merkel, l'Italia deve darsi un piano nazionale di lotta al consumo di suolo, per questo i dati che descrivono la gravità del fenomeno sono indispensabili, sia per averne piena consapevolezza, sia per monitorare il raggiungimento di obiettivi di riduzione. La mancanza di dati attendibili sul consumo di suolo non giova a nessuno, se non a chi intende avere le mani libere per continuare a spalmare cemento sul territorio'

Tra le maggiori difficoltà nel 'misurare' il consumo di suolo vi è quella di individuare regole comuni di riferimento, che permettano di rendere confrontabili i dati raccolti dalle diverse istituzioni: anche questa è una parte (forse la più importante) della sollecitazione che l'osservatorio intende esprimere nei confronti della comunità scientifica “Rimettere al centro delle politiche urbanistiche la ‘questione suolo’ con tutte le implicazioni sul piano ambientale e sociale che essa impone – dichiara Paolo Pileri del DIAP Politecnico di Milano - è oggi urgent, ha a che fare con la vita di tutti noi e con la qualità di questa vita nei luoghi in cui viviamo. Il suolo è un bene comune sul quale occorre una politica saggia e lungimirante che non può essere quella attuale, peraltro basata sulla quasi totale non conoscenza di quali e quanti suoli si consumano e dove: ad esempio l ’agricoltura paga un prezzo elevatissimo (-10 ettari/giorno in Lombardia, -8 in Emilia Romagna) e su questo l’università può e deve dare il suo contributo tecnico e scientifico per migliorare lo stato delle conoscenze e contribuire a dare risposte”.

Nel dettaglio, dalle aggregazioni provinciali emerge il primato della Lombardia: regione capofila, in Italia, nella produzione di valore aggiunto agrozootecnico, un settore che dipende strettamente dalla disponibilità di suolo agricolo. Ebbene, nel periodo 1999-2006 questa regione ha perso 26.778 ettari di superfici agricole, in gran parte (oltre 22.000 ettari) divenuti urbanizzati, quindi persi irreversibilmente, il resto abbandonati o perchè in aree montane o perchè ridotti a scampoli dove l'interesse a coltivare terreni è crollato. Il risultato consolidato è quello di una regione in cui 288.000 ettari di superficie sono ormai 'sigillati' dall'urbanizzazione: vuol dire che quasi il 14% dell'intera superficie regionale è urbanizzata ma, se ci riferiamo alle superfici della pianura (circa il 55% del territorio regionale), la Lombardia ha già consumato e coperto di cemento quasi un quarto dei suoi territori ad alta vocazione agricola. Perfino peggiori, se rapportati ad una regione che ha meno della metà della popolazione lombarda, sono i numeri dell'Emilia Romagna. Qui i dati sono disponibili su un arco temporale più esteso, dal 1976 al 2003, nel corso del quale il territorio urbanizzato è quasi raddoppiato, passando dal 4,8 al 8,5% della superficie regionale. Ancora maggiore è stata la perdita di aree agricole: ben 198.000 ettari, l'intera superficie media di una delle 9 province emiliano-romagnole, 'bruciati' in un solo trentennio, anche se nel caso di questa regione l'abbandono di ampie superfici coltivate nell'area appenninica ha fornito un contributo determinante alla trasformazione dei suoli. Solo apparentemente più contenuti i dati per un'altra regione settentrionale, il Friuli Venezia Giulia, che dispone di una banca dati sull'uso del suolo. Qui nel ventennio 1980-2000 si sono dilapidati 'solo' 6.482 ettari agricoli, ma dobbiamo tener conto che siamo in presenza di una regione di dimensioni ben più modeste e con una popolazione inferiore a 1.200.000 abitanti. Il dato pro-capite del suolo consumato infatti è alto anche qui: ogni anno, per ogni abitante del Friuli Venezia Giulia, vengono urbanizzati 2,5 mq di territorio. Altissimo è poi il dato dell'urbanizzato consolidato pro-capite: per ogni abitante residente in Friuli Venezia Giulia vi sono ben 581 mq di superfici urbanizzate, contro i 456 dell'Emilia Romagna, i 310 della Lombardia e i 296 del Piemonte. Dati che si spiegano almeno in parte con la presenza, in Piemonte e Lombardia, di aree metropolitane caratterizzate da una forte densità di popolazione in rapporto alla superficie urbanizzata e che danno conto anche di forti differenze tra province della stessa regione (l'urbanizzato pro-capite della Provincia di Milano, ad esempio, è pari a 221 mq/ab, mentre in una provincia a forte caratterizzazione rurale, come quella di Mantova, il dato pro-capite è pari a 684 mq/ab), una forbice destinata ad accrescersi con l'espandersi incontrollato del fenomeno dello 'sprawl' insediativo: in pratica, il consumo di suolo legato all'urbanizzazione è soprattutto a carico delle superfici coltivate, confermando una tendenza storica che, nell'arco di un intero secolo, ha visto la crescita di città e insediamenti a danno della campagna. Arrestare la crescita del consumo di suolo non è dunque solo una grande sfida per la tutela del nostro paesaggio, ma anche una garanzia di presidio delle superfici agricole che da secoli sono state destinate a 'nutrire il pianeta'.

Superficie urbanizzata nelle regioni: dato complessivo e pro-capite


Abitanti (stima '04) Superficie urbanizzata, ettari (anno di riferimento) Sup. urbanizzata pro-capite, mq/ab
Lombardia 9300000 288.000 (2006) 310
Piemonte 4400000 130275 (2001) 296
Emilia Romagna 4100000 187000 (2003) 456
Friuli Venezia Giulia 1200000 69717 (2000) 581

Postilla

Finalmente. Nel 2005 eddyburg aveva lanciato in Italia il tema del consumo di suolo, fino ad allora del tutto ignorato non solo dalla politica e dalle istituzioni, ma anche dalla cultura urbanistica, fin dai tempi della ricerca di Giovanni Astengo sulle aree metropolitane (vent'anni fa); salvo pochissime eccezioni, come il lavoro di R. Camagni, M.C. Gibelli e P. Rigamonti sul costo dell’insediamento diffuso (2002). Abbiamo dedicato al tema, quell’anno, la prima edizione dellla Scuola di eddyburg; i materiali hanno dato luogo a un libro, No Spraw, edito da Alinea nel 2006. Contemporaneamente un gruppo di amici di eddyburg ha proposto un progetto di legge centrato sul contrasto al consumo di suolo, elaborato sulla base di una proposta formulata da Luigi Scano e presentata dall’associazione Polis e da Italia nostra alla commissione parlamentare (2004). Alcuni gruppi della sinistra oggi non rappresentata al Parlamento presentava, quasi integralmente, la proposta di eddyburg.

Intanto, mentre l’Accademia taceva, l’INU era affaccendato a tentar di mediare tra la Legge Lupi per la privatizzazione dell’urbanistica e le deboli posizioni della sinistra maggioritaria. Del resto, aveva plaudito a quel piano regolatore di Roma che, appellandosi a inesistenti “diritti edificatori”, aveva avviato una gigantesca operazion e di consumo del suolo prezioso dell’Agro romano.

Si è persa così l’occasione di una maggioranza di centro-sinistra per approdare a una buona legge . Il quadro politico è peggiorato, ma per fortuna oggi non siamo più soli, sebbene l’attenzione al tema cruciale del consumo di suolo sia molto al di sotto del livello necessario. Si comincia a studiare. Questoperò è lungi dal bastare. Soprattutto se contemporaneamente si mostra cedevolezza, comprensione e perfino accordo su una politica di ulteriore incentivo al consumo di suolo, come quelle espressa dalla recenti “leggi-casa” d’aprés Berlusconi, o da piani regionali pieni di chiacchiere e poveri d’efficacia, o da grandi attenzioni verso i “promotori immobiliari” e i fan dello “sviluppo del territorio”

“Il territorio è un’opera d’arte: forse la più alta, la più corale che l’umanità abbia mai espresso … e nasce dalla fecondazione della natura da parte della cultura”

(Alberto Magnaghi)

L’eroica agricoltura degli stretti terrazzamenti del Parco nazionale delle Cinque Terre farà da sfondo ai tre giorni di lavoro dei dirigenti e degli associati di Agriturist in occasione del Forum Nazionale del prossimo autunno. L’agriturismo tra opportunità e limiti di sviluppo: riscoperta, tutela e valorizzazione delle risorse dimenticate e maltrattate sarà il tema ispiratore del Forum autunnale. Cominceremo un percorso con l’obiettivo di arrivare a ridisegnare l’agriturismo dei prossimi anni, quello che dovrà rappresentare una unicità mediterranea per l’Europa e i Paesi extraeuropei, che dovrà evidenziare al massimo le sue peculiarità e difendere i contesti culturali, paesaggistici e produttivi nei quali si trova ad operare.

Il Forum vuole suscitare una riflessione sulla specificità e sul rilievo imprenditoriale e culturale dei nostri associati, le cui aziende possono rappresentare, con sempre maggiore incisività, un importante nodo territoriale, crocevia tra il mondo degli agricoltori, dei viaggiatori, di quelli che nel trasformare le innumerevoli pregiate produzioni agricole del nostro Paese, le caricano di suggestioni e di appeal.

Nel far questo se ne fanno portavoce in ambiti sociali con i quali un tempo la residuale agricoltura delle terre dell’osso mai avrebbe osato entrare in contatto!

Perchè il nuovo agricoltore, ridisegnato dal decreto di orientamento del 2001, è una figura colta, che ha relazioni con altri settori, anche con quelli del mondo delle città e che all’interno del suo mondo agricolo fa parte di reti complesse: è una figura che abita il territorio e ne ha cura, perché sa che questa cura è funzionale ad attivare le finalità sociali, culturali, formative e di ospitalità della azienda agricola. Egli ha nel suo DNA il concetto di sostenibilità, e conosce a fondo la differenza sostanziale tra questa e la sopportabilità. E’ infatti consapevole che l’ambiente che lo circonda non è una bestia da soma, e che non lo si può schiantare sotto un peso eccessivo, come era ben noto agli agricoltori antichi ed agli indiani d’America. Sa bene che “il territorio non è un asino”! E che non lo si può parassitizzare, o “sfruttare”, ma che l’unico rapporto sano è quello simbiotico, che ha alla base reciprocità e rispetto.

“L’azienda agricola del futuro - come afferma Alberto Magnani in un saggio dal titolo Il progetto locale - è più simile (in chiave laica) all’Abbazia Cistercense che a una semplice fabbrica di produzione merci”. Nei momenti bui come quello che stiamo vivendo bisogna dunque ritornare ad aver fiducia nella forza delle idee. E’importante provare a riformulare le parole chiave che regolano la definizione e la comunicazione delle nostre attività.

Nel Forum autunnale di Agriturist cercheremo quindi concretamente di comprendere quali azioni formative, imprenditoriali, culturali e politiche far seguire a questi momenti di riflessione.

Ripensare lo sviluppo oggi significa ripensare alle risorse che abbiamo e all’uso che ne facciamo. Molte aziende agrituristiche italiane abitano e animano territori marginali, e cercano di trasformare questa marginalità in opportunità: esempi di successo, come quello delle Cinque Terre, di alcuni piccoli Comuni che, partendo dal basso, cominciano ad adottare comportamenti virtuosi, iniziano a moltiplicarsi e rappresentano un importante volano di sviluppo culturale.

E’ interessante notare, consultando le più importanti guide gastronomiche, che la più alta concentrazione di “stelle” e “forchette” si trova nei piccoli centri, e che questi chef pluridecorati hanno fatto della rivisitazione dei prodotti locali il loro punto di forza. Ma al di la delle grandi individualità dei grandi chef molte ricette si sono consolidate nel rispetto della stagionalità, e l’anima degli abitanti e degli agricoltori la ritroviamo nel piatto, fonte di ispirazione dei pluristellati, ma oggi opportunità irripetibile per una ristorazione agrituristica che deve avere il coraggio e la capacità di scegliere i piccoli numeri e la caratterizzazione di alta qualità.

Dove anche un semplice piatto, frutto di studio, attenzione, conoscenza tramandata, con i suoi ingredienti irripetibili nel tempo e nello spazio, rappresenta un distillato della storia, un’emozione multisensoriale, un elemento della nostra cultura materiale.

E inizia a percepirsi la possibilità di sviluppare un vasto “museo diffuso”, con le sue pievi romaniche asimmetriche nella campagna pistoiese, con i Pontormo nelle cappellette sperdute, con il museo di Leonardo a Vinci e il piccolo capolavoro del Museo dell’Olio di Farfa, in Sabina, con il piccolo Antiquarium di Boscoreale, quello naturalistico di Corleto Monforte negli Alburni, il Museo del Giocattolo povero di Massicelle di Montano Antilia, quello della civiltà contadina di Ortodonico, la riserva biologica di Morigerati con i musei della civiltà contadina e della cera, in Cilento, costella le nostre campagne e rappresenta, con i suoi luoghi al di fuori dei grandi e cannibaleschi flussi turistici che divorano le nostre città d’arte, una straordinaria potenzialità di rivitalizzazione dei territori in cui operano le nostre aziende agrituristiche: esso deve essere comunicato ai nostri ospiti, glielo si deve offrire come una gemma preziosa insieme allo stimolo che possiamo fornire a ridiventare tutti un po’ meno distratti e un po’ più viaggiatori. Molte di queste piccole delizie valgono spesso da sole il viaggio e il soggiorno.

La scommessa diventa allora per i nostri territori più poveri quella di fare della loro arretratezza, dell’oblio in cui sono caduti, una verginità sulla quale costruire il percorso di allontanamento dalla miseria e di approdo alla nobiltà di uno sviluppo costruito non sulla quantità di merci, ma sulla cura, sulla cultura e sulle relazioni.

Bibliografia

Alberto Magnani, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000

Eduardo Salzano, Qualche parola per il territorio, in: eddyburg.it 9.05.2009

Marco Boschini e Michele Dotti, L’anticasta. L’Italia che funziona, EMI, 2009

Antonio Paolucci, Così il Museo Diffuso potrà creare lavoro, in: Corriere Lavoro, 6.06.2003

Links utili

eddyburg.it

www.comunivirtuosi.org

www.territori.formez.it

www.reteleader.it

Deregolazione, sprawl, abuso di suolo, immobiliarismo di ventura: una crisi annunciata di postmoderna immoralità

[in corso di stampa]

Tante implicazioni nel titolo per suggerire l’intrico di questioni racchiuse nel generico termine "sprawl". Un fenomeno noto da decenni, su cui sono state scritte pagine e pagine di varia letteratura. Da quella accademica, alla narrativa, alla cronaca. Tutte a tentare di cogliere un processo che ha stravolto l’immagine consolidata di città e cercare nuove rappresentazioni in grado di restituire la complessità di un cambiamento che ribalta l’atavico moto centripeto verso i magneti urbani e spande nel territorio gli effetti di un’urbanità incompiuta.

La discussione sul binomio centrato/acentrato è datata. Anche la coesistenza di gerarchie e reti è consapevolezza acquisita da tempo. Poi il piano analitico si è inclinato all’ambiguo, ha colto l’occasione del molteplice per volgersi a narrazioni sfumate, in cui il ricorso al polifonico ha generato un caos semantico che vede tutto allo stesso tempo come vero/verosimile e falso/falsificabile. Un mondo di illusioni di cui la città è il castello incantato, con le sue meraviglie e i suoi orrori. Come sempre il ritratto della società che l’ha prodotta.

Ripudiato il realismo come categoria d’antan, le mani sulla città fanno scandalo, gossip, ma non suscitano progetto politico. Mani che appartengono a speculatori finanziari senza scrupoli, quando non compromessi in affari illeciti. Il destino della città affidato non a generici investitori privati, ma al capitale di rischio lanciato in azzardi societari e borsistici privi di reale copertura.

Meglio allora le suggestioni che le analisi, prendere parte al grande gioco linguistico, stupire degli involucri senza guardare dentro, sotto la superficie translucida e ingannevole. Riprodurre, quando anche in chiave critica e con metafore raffinate, lo spettacolo duale della metropoli, i suoi luccichii e i suoi buchi oscuri. Stare al gioco insomma, adeguandosi alla grammatica effervescente dell’estetica postmoderna, che esige formule ad effetto, spot, enfatizza l’opaco come paradigma e prova cinica noia quando affiora qualche lacerto di verità. Le mille etichette inventate per raccontare lo sprawl raramente infatti si sono accompagnate a seria denuncia degli effetti devastanti del consumo di suolo e a coerente proposta urbanistica e politica.

Ha prevalso un senso di disincanto malizioso e compiaciuto di tanta postmodernità, di snobistico dèjà vu, che ha seminato indifferenza. Un distacco intellettuale che ha trasformato la babele di discorsi in chiacchiericcio alla moda, liquido, polveroso e volutamente effimero. Un’accondiscendenza consapevole e compromessa, che ha portato un contagio di indifferenza e disinteresse. In campo sociale tradotto in rassegnazione e rinuncia alla partecipazione.

Nel silenzio assordante dell’urbanistica, la pianificazione è trasfigurata in metaprogetto, si è rifugiata nella retorica, per lasciare campo nella realtà ai soli giochi dei poteri economici. Mentre le voci dissonanti, tacciate di antipolitica, vengono intese come sgradito rumore di fondo, retaggio di un tempo critico preistorico. Che non c’è storia prima del post-, non c’è memoria, tutto dev’essere nuovo, o a dire meglio innovativo, formula taumaturgica del presente.

Ci siamo fatti imbambolare dalla metropoli postumana, fingendo di non accorgerci che è il campo di riconfigurazione del capitalismo postindustriale. Un dispositivo per produrre valore che gioca sulle debolezze del nostro tempo.

Ora, come abbiamo lasciato che fosse, ci penserà il mercato. Ad approfondire le differenze e divaricare la forbice delle diversità. A mostrare che le pulsioni globalitarie verso uno spazio isotropo sono inganno. Quando la crisi piomberà come una scure vendicativa sulle villette a schiera e i palazzoni delle periferie, sui cittadini indebitati e sui rumeni, albanesi, marocchini che li hanno costruiti e sono morti senza risarcimenti nei cantieri. Morderà da vicino, la crisi. Non sfogherà i suoi impulsi solo sui lontani Sud - le cartoline esotiche che suscitano tanta compassione. Anche nell’occidente il liberismo potrà finalmente dispiegare tutta la sua potenza animale, quella nefasta dopo tanto sciupio.

Lasciar fare al mercato è stata regola morale in questi anni, fede condivisa. La libera economia nella sua forma più sregolata e radicale è diventata l’oppio che ha drogato le società e i gruppi sociali, dalle classi dirigenti, accecate dal mito della concorrenza, ai cittadini, trasformati in consumatori senza diritti. La macchina del consumo è la matrigna del cemento e dell’asfalto che deturpano città e campagne. Ha frantumato coesioni e appartenenze innescando gare individuali e impari. Ha fecondato desideri e inventato soluzioni appropriate ad ogni ceto, affinché chiunque potesse autogratificarsi nell’atto dell’acquisto. Travolti solidarietà e familismi, l’individuo ha ricostituito la propria identità sugli oggetti. Sulla capacità di scialo, in competizione con quel vicino che un tempo sentiva solidale e ora gli è concorrente.

Nelle code chilometriche dello shopping, nelle resse notturne in attesa dell’uscita di novità, negli ingorghi intorno agli ipermercati, liturgie di un mondo succube delle promesse commerciali. Una società che si è atomizzata e chiusa dietro montagne di cianfrusaglie la cui rapida obsolescenza è progettata a tavolino da stuoli di consulenti. Tra cui architetti. Quegli stessi che, dopo il ripudio dell’urbanistica e del suo sguardo prospettico e regolativo, accartocciano le facciate, edificano grattacieli pencolanti e cercano in ogni modo di stupire, dare spettacolo, di innovare (ecco il mantra che torna). Il perché di questa fortuna – mediatica e mondana - dell’architettura non se lo chiede neppure La Cecla (2008), che sull’argomento ha scritto di recente un gustoso pamphlet, in cui però finisce per limitarsi a distinguere i buoni dai cattivi (architetti), senza toccare la radice del problema.

Descrizioni che non spiegano la trasposizione immobiliare del processo di valorizzazione economica (capitalistica, aggiungerebbe Harvey con ragione). La crisi sta mettendo in drammatica evidenza un processo, comune a tutti i paesi avanzati, che sugli asset immobiliari ha trasferito buona parte degli investimenti liberati dalla deindustrializzazione. Quella parte che non si è delocalizzata. Un fenomeno che sul presupposto volatile della finanziarizzazione, ha consentito l’uscita dei capitali dal fordismo e trasformato città e campagna urbanizzata in cantieri di valorizzazione. Cataste di mattoni a sostenere castelli di danaro virtuale. Crediti poggiati su fondamentali altrettanto instabili: promesse, concessioni, varianti, accordi di programma, impegni spesso carpiti attraverso corruzioni. Sulla edificabilità prima ancora che sull’edificato, com’è classico della rendita fondiaria urbana. Un processo che ha però assunto negli ultimi due decenni andamento convulso, con ricadute rovinose sul territorio e i paesaggi.

Un consumo vorace di suolo, vivibilità e bellezza.

Immobiliarismo di ventura

La simbiosi tra la più antica delle forme di accumulazione, la pietrificazione, e la più spregiudicata e ipermoderna delle modalità finanziarie ha generato uno spazio infinito di speculazione che ora stritola i malcapitati che, soggiogati da martellanti campagne su favolistiche opportunità di realizzo, fidavano di aver tesaurizzato le proprie risorse nell’uno o nell’altro campo. Un sostegno reciproco che si è tenuto in equilibrio precario finché la domanda è riuscita a coprire l’offerta e i comportamenti finanziari hanno mantenuto una pur lasca legalità, ma che ora, con la cadenza lenta ma inesorabile del domino, rischia di travolgere economie e società locali. Perché dunque scandalizzarsi, ora che il disastro è compiuto, che si è lasciato fare.

Innanzitutto per l’immorale ingordigia dell’operazione che in Italia, dall’inizio degli anni ’80, ha consumato un quinto della superficie agricola per coprirla di cemento e asfalto. Per la mancata calibratura di offerta e domanda, con gli effetti di sovraproduzione che hanno paralizzato il mercato e ora rischiano di dissestare le economie locali. Il mercato "frana", scrive il Cresme, riferendosi al secondo semestre del 2008, e sottolinea di avere anticipato già da due anni di un mercato saturo o in via di saturazione. Ma la libertà di intrapresa non ascolta avvertimenti, non accetta di darsi regole, ha in orrore l’idea di programmare. Preferisce evidentemente le catastrofi e la decimazione selettiva che ne deriva.

Ma ora la noia di un po’ di cifre (non così scontate, si vedrà).

Tra 1999 e 2007 (dati Cresme, 2008) la crescita del valore aggiunto in costruzioni è doppio (+24,0%) di quello totale dell’economia italiana (+12,2%). Un incremento molto vicino - non a caso direi - al tasso di crescita registrato nel medesimo arco di tempo dal settore delle intermediazioni monetarie e finanziarie (+20,2%). Entrambi ben lontani dall’andamento degli altri settori di attività, con agricoltura in calo del 6,5%, industria con un modestissimo +2,8%, dato che compendia annate in negativo, servizi +9,7% e commercio +14,8%. Una radiografia essenziale ma eloquente dei pesi economici e della configurazione produttiva della società italiana postindustriale.

Un quadro in cui le imprese che operano nel vasto campo immobiliare rivestono un ruolo da protagoniste: le aziende di costruzione passate da 590.000 nel 2000 a quasi 776.000 nel 2007, con un incremento del 31,6%, e quelle immobiliari da 151.000 a quasi 250.000, cresciute come funghi con un incremento del 59,2%. Cifre eccezionali rispetto a tutte le restanti tipologie di imprese che, nel medesimo lasso di tempo, sono aumentate di un risicato 1,4%. Ce ne eravamo accorti vedendo moltiplicarsi le vetrine di intermediazione immobiliare e i giornaletti di offerte, ma questi dati riescono a immiserire le percezioni.

Non a caso l’associazione delle industrie delle costruzioni vanta un contributo complessivo al prodotto interno lordo dell’11% nel 2007 (dati ANCE, 2008) e che tra 1998 e 2007 gli investimenti in costruzioni sono aumentati del 29,4%, con un andamento percentuale più che doppio rispetto al PIL.

Una situazione che accomuna l’intero occidente, in cui l’Italia, nella frenesia edilizia che ha caratterizzato l’ultimo decennio, ha tenuto comportamenti analoghi a quelli degli altri paesi, forse più moderati (la media dell’Unione Europea è dell’11,9% ). L’Irlanda, ad esempio, detiene nel rapporto tra investimenti in costruzioni e PIL il primato del 20,5%, il più alto considerando Europa e Stati Uniti. Questi ultimi si limitano –ma il 2007 per gli USA è già anno di crisi – al 10,3%. La Spagna si attesta al 18%. I paesi con gli indici più modesti sono Svezia (8,1%) e Germania (9,85).

In alcune situazioni limite dello scenario europeo la variazione degli investimenti in costruzioni nell’intero decennio è straordinaria: l’Irlanda, tra 1998 e 2007, ha incrementato gli investimenti dell’82,2%, la Spagna del 73,4%, la Grecia del 69,9%, sono gli esempi di maggiore impatto. L’incremento dell’intera Unione è stato del 25,3%, dato che compendia anche i negativi di Germania (-12,8%) e Portogallo (-11,5%). Cifre nel cui merito andrebbero sviluppati approfondimenti e confronti sui coevi andamenti economici, particolarmente brillanti di alcuni paesi, o su ritardi pregressi in campo edilizio, e che tuttavia non sembrano sufficienti per giustificare una smania edificatoria che alla fine ha prodotto un’offerta che ha superato la domanda e la capacità di assorbimento, come è manifesto nella maggior parte dei paesi più esposti.

Dopo tanta libertà d’azione, ora il mercato regola i conti chiudendo, non ne vuole più sapere di costruzioni, ce ne sono troppe, non sa che farsene, il gioco si è azzerato. Peccato avvenga a danno di cittadini che troveranno le proprie risorse immobilizzate in abitazioni svalutate e in questo momento pressoché prive di reali possibilità di scambio se non con forti perdite, di cui dovranno comunque sobbarcarsi ratei di mutuo sempre più onerosi.

Eppure le avvisaglie di una crisi imminente c’erano state, si sarebbe potuto intervenire. Se consideriamo i soli investimenti in residenze, in Irlanda nel 2007 calano vistosamente del 10,2% dopo un incremento record del 97% tra 1998 e 2006; andamenti analoghi a quelli spagnoli.

Negli Stati Uniti i valori immobiliari sono in calo già da quattro anni, i prezzi delle abitazioni sono crollati del 30-50%, con una perdita di ricchezza per i proprietari che viene stimata a fine 2008 intorno ai 4.000 miliardi di dollari e previsioni funeree per il 2009. In Irlanda, Regno Unito e Spagna la svalutazione del mercato immobiliare oscilla tra il 20 e il 30%. I listini delle società immobiliari italiane quotate in borsa sono calati fino al 90% dei valori precedenti la crisi.

Un gioco in cui i vincitori sono solo quelli che hanno già realizzato. Le grandi imprese che negli anni di espansione hanno disseminato il territorio di palazzoni raccolti in pretestuose nuove centralità prive di servizi collettivi e collegamenti.

Nell’assenza di sguardo pubblico, anzi con attiva compiacenza delle istituzioni che, in un clima di esaltata deregolazione, si sono prostituite per accaparrarsi investimenti privati. Per essere attrattive. In un intreccio sconveniente tra legale e illegale che è all’attenzione delle magistrature. Il banco insomma non era in mano pubblica, ai privati l’intera posta, alla collettività i costi economici e territoriali.

Il fenomeno non è recente. In Italia gli investimenti in nuove costruzioni, valutati a valori costanti, nel corso degli anni ’80 sono stati di 632,2 miliardi di euro, negli anni ’90 di 570,5 mld, di 659,4 mld nell’ultimo decennio (per quest’ultima fase Cresme contabilizza anche previsioni stimate in negativo per l’ultimo biennio). Come termine di paragone possiamo tenere a mente che, nel solo 2007, l’intero valore della produzione (ossia comprensivo di costruzione di nuovi edifici e manutenzione dei vecchi) nei 19 paesi europei considerati dalla conferenza Euroconstruct ammonta a 1.519 miliardi di euro (di cui il 56,9%, ossia 865 mld, nel nuovo). Il Italia, nel medesimo anno, il valore della produzione ammonta a quasi 199 mld di euro, di cui 87 investiti in nuovi edifici e i restanti in manutenzioni (Cresme 2008).

Liberismo e ordinaria immoralità

Chi critica gli eccessi consumistici, lo spreco e le esasperazioni speculative operate sul territorio nell’ultimo ventennio viene spesso accusato di moralismo. Ecco che ritorniamo al titolo. Di sguardo troppo severo nei confronti della gioiosa macchina del profitto. Ma la morale, nell’Italia dell’iperliberismo palazzinaro, ha assunto connotazione sfuggente, relativa. Non può tarpare le ali del libero costruire. Arrestare l’innovazione.

Ma nonostante questa interpretazione molle che in campo urbanistico consente praticamente tutto, i casi di corruzione si accumulano sui tavoli dei giudici. Non è bastato dunque aggirare le regole fino a vanificarle attraverso strumenti concessori di varia natura, secondo un’accezione della legittimità anch’essa assai lasca. Pure questi ultimi fragili paletti esigono collegialità, consenso, debbono sottostare ai tempi e modi delle procedure amministrative in regime democratico. Intralci che è più agevole, rapido, superare comprandolo il consenso. Tutto ha un prezzo. La corruzione degli amministratori è entrata nei costi edificatori. Forse gli analisti che contabilizzano la crisi e rilevano per gli ultimi anni un aumento innaturale dei prezzi di vendita degli immobili, dovrebbero mettere nel computo anche questa voce di spesa.

Episodi che nella storia italiana del lungo boom edilizio non hanno avuto carattere di eccezionalità, ma ricorrono con una frequenza che spinge a ritenerli strutturali al settore, una delle fasi del ciclo produttivo. Situazioni in cui il potere amministrativo e politico, ritenendosi evidentemente coperto e (moralmente) protetto dalla generale euforia liberista e deregolativa, non si è limitato a lasciar fare, ma ha scelto le scorciatoie dell’interesse personale. Per la Liguria, una regione che detiene il primato assoluto del consumo di suolo (il 45,5% tra 1990 e 2005), un’inchiesta giornalistica documenta in maniera accurata gli intrecci tra politici di tutti gli schieramenti e immobiliaristi (Preve e Sansa, 2008). Saviano ha raccontato nel celebratissimo Gomorra il riciclaggio di danaro sporco nelle costruzioni. Berdini denuncia la città in vendita (2008). Zanfi (2008) indaga sulla città abusiva. Chartroux mette a confronto scandali immobiliari ed emergenza abitativa (2008).

Il fenomeno è dunque denunciato e noto, e tuttavia inarrestabile. Coperto e nascostamente ammirato dalla fragile etica comune come il versante astuto dell’immoralità ipermoderna che prospera dentro la cultura permissiva e affaristica del liberismo. Che ha intaccato tutti gli ambienti, anche quelli di cui un tempo si vantava il buon governo del territorio.

La domanda?

Così lo sprawl continua a dilagare nelle campagne, a ledere i paesaggi offendendoli con scatoloni ripetitivi e malformi. Per rispondere alla domanda di famiglie in fuga dalla città alla ricerca di serenità agreste, costi contenuti, aria respirabile, si diceva.

Una domanda tuttavia che raggiunto il suo apice nel 2002, negli anni successivi è in graduale calo. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio si creano numerose nuove famiglie per una serie congiunta di fattori che vanno dalla fuoruscita dalla famiglia d’origine dei baby boommer degli anni ’60, alla sanatoria per gli immigrati, all’adesione della Romania all’Unione Europea che consentono la legalizzazione di presenze straniere. Le famiglie di nuova formazione raggiungono il tetto massimo di circa 400.000 nel 2002, poi scendono gradatamente fino a meno di 200.000 nel 2006, risalgono, ma fittiziamente per solo effetto delle sanatorie, a 234.000 nel 2007.

Le imprese continuano però ad incrementare le nuove costruzioni e a partire dal 2005 la produzione di nuove costruzioni supera sempre il numero di nuove famiglie: 71.000 abitazioni costruite in più del numero di nuove famiglie nel 2005, 136.000 nel 2006, 104.000 nel 2007 (dati Cresme, 2008).

La dinamica delle famiglie non è peraltro un indicatore significativo della domanda di abitazioni nell’attuale fase di stallo demografico. In cui a crescere è solo la componente straniera, ma prevalentemente per effetto di ufficializzazioni di presenze sommerse di fatto già insediate. E’ mancata dunque l’intelligenza di tenerne conto e di valutare l’affievolirsi della domanda potenziale.

La produzione di nuove abitazioni è proseguita in maniera incessante e cieca. Il numero di nuove costruzioni, tra 2000 e 2007, è aumentato del 70%. La percentuale di nuove abitazioni sull’intera offerta immobiliare passa dal 27,9% nel 2000 al 40,9% nel 2007, al 46,7% nel 2008. Tra 2008 e 2010 saranno ultimate altre 840.000 abitazioni già cantierate o autorizzate (Cresme, 2008).

Anche le rilevazioni ISAE sulle propensioni all’acquisto avrebbero potuto costituire un utile campanello d’allarme sul potenziale di assorbimento del mercato. Mentre nel 2000 il 9% delle famiglie italiane dichiara l’intenzione di comprare casa, a partire dal 2004 tale quota si abbassa e oscilla tra il 2,5% e l’1%. Tutti segnali che sono stati ignorati. Un liberismo poco lucido e lungimirante, solo arraffone. Una crisi cercata.

Mercato del lavoro e plurietnicità

A farne le spese, oltre ai cittadini segregati nei quartieroni di periferia e nelle villettopoli, saranno soprattutto i lavoratori. Gli occupati nel comparto delle costruzioni rappresentano il 27,9% del totale degli addetti al secondario, l’8,4% dell’intera popolazione attiva (ANCE, 2008). Nel 2007 il totale degli occupati del settore costruzioni ammonta a poco meno di 2 milioni (dato ANCE), si valutano inoltre intorno ai 400.000 quelli coinvolti nell’indotto (dato Cresme).

Sappiamo bene inoltre che le piccole e piccolissime aziende edili, anch’esse vittime predestinate della crisi, celano notevoli quote di lavoro sommerso, soprattutto di stranieri immigrati illegalmente. Benché normative recenti abbiano portato ad una certa emersione – nel 2007 infatti gli addetti ufficiali aumentano – il calo di occupati è in atto già dal 2006 e si è confermato nel primo semestre del 2008. Nelle imprese di maggiori dimensioni, dove il ricorso al lavoro nero è meno frequente, la diminuzione di occupati è visibile anche nel 2007 (- 0,7%) e di tutta evidenza nel primo semestre del 2008 (-4,2% secondo Cresme).

Un settore dunque, anche sotto il profilo occupazionale, di grande rilievo economico, la cui crisi sta coinvolgendo per primi i lavoratori stranieri irregolari, che perdono il lavoro senza tutela e ammortizzatori. Un problema non piccolo nella situazione sociale odierna e nel clima xenofobo che già si respira nelle aree settentrionali, le stesse in cui si prevede saranno maggiori i contraccolpi della sovraproduzione edilizia.

Il comparto si caratterizza per una presenza particolarmente significativa di lavoratori stranieri regolari, il doppio dell’occupazione media straniera nell’insieme dei settori economici. La loro presenza, scrive ANCE, è aumentata anche quando l’occupazione totale nel settore era in calo: nel primo semestre 2008 mentre l’occupazione complessiva del settore costruzioni diminuisce, quella di stranieri continua ad aumentare del 6,4%. Complessivamente gli occupati stranieri rappresentano il 14% del totale di occupati del settore, con una ripartizione del 18,5% al Nord, 21% al Centro, 3,3% al Sud.

Il crollo del mercato

Il ciclo immobiliare positivo durato dieci anni si è concluso nel 2006. Un ciclo espansivo "eccezionale, senza eguali nella storia del nostro paese e nella storia delle costruzioni a livello mondiale", lo definisce il Cresme.

Se il 2007 ha mostrato una modesta flessione, nel 2008 la caduta delle transazioni è di tutta evidenza. L’Osservatorio del Mercato Immobiliare – che ha deciso di dare cadenza trimestrale alle proprie Note al posto delle semestrali, misura forse dettata dall’emergenza crisi - nel terzo trimestre ’08 valuta un decremento tendenziale del 13% complessivo, con una punta del 14,1% nel residenziale che conferma l’andamento del primo semestre. Cresme fornisce una valutazione addirittura più pessimista e prevede un calo tendenziale delle compravendite di abitazioni del 17,3%.

Ritornando ai dati OMI, calano le compravendite anche delle altre destinazioni d’uso: il terziario del 13,4%, il commerciale del 12,8%, il produttivo è l’ambito meno coinvolto e cala solo del 3,6%, ma non aveva mai avuto andamenti particolarmente brillanti. Il settore residenziale mostra il calo maggiore nel Nord (-16,1%), mediano nel Centro (-13,3%), più basso nel Sud (-10,3%).

Anche in questo caso va notato che già nel 2007 si era avvertito un forte rallentamento del mercato, con un calo complessivo delle compravendite del 7,1%, che seguiva un 2006 anch’esso in calo quantomeno per quanto riguarda l’immobiliare commerciale (-4,3%) e il terziario (-3,2), sostanzialmente stazionari gli altri ambiti ma con una media di un risicato +1,3% già in controtendenza rispetto agli anni precedenti. Segnali non ascoltati con dogmatica aspettativa di crescita continua e inarrestabile.

Finanziarizzazione e immobiliarizzazione

Siamo dunque arrivati alla rottura del ciclo che ha visto immobiliarizzazione e finanziarizzazione come ambiti di riconversione dei capitali che, tramontato il modello fordista, abbandonato l’investimento industriale e deflagrata la cosiddetta new economy, hanno visto vantaggioso lanciarsi in settori entrambi in fase di effervescenza e quindi in grado di offrire margini di eccezionale profitto. L’immobiliare in veste di garante ipervalutato, il finanziario nel ruolo di circolante a sostegno, a monte, di imprenditori e investitori e a valle degli acquirenti.

Investimenti che nel caso dell’immobiliare esauriscono il proprio ciclo di valorizzazione nell’atto costruttivo, di fabbricazione e immissione sul mercato e i cui realizzi devono trovare subito nuovi momenti di investimento, nuove costruzioni da edificare. Un modello economico che ha trasformato città e territori urbanizzati in cantieri del profitto. Un meccanismo che tuttavia non può ripetersi all’infinito come si trattasse di beni di facile usura e dunque da riprodurre a getto continuo. Gli edifici hanno caratteristiche di durevolezza che limitano la loro immissibilità sul mercato e li vincola alla domanda molto più di altri beni. Il cui rigonfiamento artato dalla logica consumistica ha finito comunque per scontrarsi con l’esaurirsi della capacità di indebitamento del versante debole della catena, la cui insolvibilità è stata il soffio, debole ma implacabile, sul castello di carte.

Una fase del capitalismo che è prevedibile si cercherà di sostenere accorciando il ciclo edilizio, ossia la durata dei manufatti, in modo da riedificare ciò che si demolisce. Una procedura da tempo applicata negli Stati Uniti, dove il ciclo edilizio è molto più breve che nella vecchia Europa che ha a cuore le proprie memorie, ma che sicuramente troverà spazio per esercitarsi nelle pieghe di periferie urbane abbandonate al degrado.

Nei territori della neourbanità

Questione interessante in prospettiva territoriale è l’andamento del mercato immobiliare nelle diverse tipologie di centri. La contrazione delle compravendite infatti è più accentuata nei comuni minori, dove sfiora mediamente il 16%, con cali massimi al Nord (-18%) e nel Centro (-17,3%), più contenuti al Sud (-11%), mentre nei comuni capoluogo si ferma alla soglia media del - 9,3% (con punta massima nelle città del Nord, -10,7%, di quasi otto punti superiore alla quota dei piccoli comuni).

Situazione che diventa ancor più marcata nel confronto degli andamenti tra le principali città italiane e le loro province. Benché il dato mediano tra le 10 città che OMI considera sia analogo a quello appena riportato per l’insieme dei capoluoghi italiani (-8,9% nelle città, -16,7% nel resto della provincia), in questo confronto si notano situazioni molto diversificate che meriterebbero maggiori approfondimenti di quanto in questa occasione sia opportuno produrre.

A livello di esempio, colpisce in particolare il comportamento del mercato a Bologna e nella sua provincia: in città il calo di compravendite nel terzo trimestre ‘08 è del 5,3%, uno dei più contenuti tra le città esaminate. In compenso il calo nel resto della provincia è uno stratosferico –26,8%, il più alto tra tutte le provincie metropolitane esaminate. Gli errori di pianificazione commessi nell’area vasta di Bologna, ma è più corretto dire del mancato coordinamento delle scelte edificatorie tra i comuni in cui si è riversata la popolazione bolognese, vengono al pettine. La conurbazione milanese si conferma territorio omogeneamente urbano, i differenziali nelle transazioni sono sostanzialmente conformi: -12,3% il comune centrale, - 14,4% il resto della provincia. Torino mostra andamenti pressoché identici: città –12,4%, provincia – 12,8%. Roma invece presenta una situazione analoga a quella bolognese, benché non tanto radicale: capoluogo – 9,8%, provincia –22,3%.

Prudenza vuole che non assegniamo a queste cifre sul calo delle vendite un valore consolidato o predittivo. Sono tuttavia eloquenti di un trend ormai biennale che rischia di evolvere in direzione di diversificazioni in cui le periferie tornano tali e non i bucolici paradisi propagandati dalle agenzie immobiliari. Sono consapevole dunque del valore provvisorio dei dati sul calo delle transazioni immobiliari che ho appena presentato e mi auguro che le prossime rilevazioni smentiscano i miei timori. Sta di fatto che il mondo intero vive un momento di forte preoccupazione e che la consapevolezza degli eccessi di produzione immobiliare – testimoniata dai dati di natura storica - diventa sempre più manifestamente preoccupazione per le sorti economiche dei sistemi territoriali.

Lontani dall’agglomerato

Si è dunque scoperchiato il velo di una speculazione esasperata aggravata dal lassismo delle istituzioni locali nel concedere sviluppi edilizi. Non si è saputa coniugare la crescita con coerenti politiche di governo del territorio. La polverizzazione apparentemente casuale degli insediamenti, in realtà legata alla maggiore o minore permeabilità delle classi dirigenti locali alle molte lusinghe del liberismo, ha generato territori incongrui sotto il profilo funzionale e qualitativo, disgregati da un insieme di forze opposte tendenti sia alla centralizzazione che alla dispersione. Non condivido a questo riguardo le posizioni di chi ritiene che in ogni modo i territori si siano "autorganizzati" e abbiano da sé prodotto reticoli funzionali. Quella che vediamo ogni giorno sulle strade non è, a mio modo di vedere, autorganizzazione, e men che meno espressione di "città di città" – due termini che affondano le proprie ragioni nel paradigma epistemico della scuola territorialista (Magnaghi, 2000) e sono ben lungi da significati strumentali. La definirei piuttosto funzionalizzazione coatta, coercizione.

Code obbligate, inevitabili, per raggiungere servizi che sono rimasti ancorati a un’idea di città compatta e non ricalibrati alla nuova dimensione metropolitana. Cittadini dispersi che hanno mantenuto con la città legami indissolubili, perduti in periferie non attrezzate per rispondere ai bisogni elementari delle famiglie. Obbligati all’uso dell’automobile in assenza di una qualsivoglia logica di trasportistica collettiva. Per i quali il godimento dei benefici della ruralità è fatto notturno e domenicale, ma principalmente apoteosi del transito (automobilistico) in un moto pendolare perpetuo tra casa, ufficio, scuola, centri commerciali, ecc. Prigionieri di corpuscoli insediativi dormitorio o di piccoli centri con la cui bellezza e socialità non hanno tempo di entrare in relazione, con effetti di desocializzazione che ricadono in forme devastanti sulle giovani generazioni, incapaci di interagire e comunicare.

Chiusi negli universi separati simbolizzati dai micro fazzoletti di terra delle villette a schiera circondati da muretti vicinali enormi, sproporzionati ed escludenti (Che ricordano il finage di cui si ragionava un tempo in merito alle piccole proprietà contadine preindustriali e alla loro chiusura individualistica). O ingabbiati nei palazzoni affastellati in false centralità mai compiute, cui mancano i fondamenti basilari per esser tali. Cittadini che hanno compiuto una scelta insediativa che ritenevano conveniente, non una scelta di vita e intrattengono con il mondo rurale un rapporto superficiale, distaccato, e continuano a rapportarsi alla città. Continuano a sentirsi cittadini di una metropoli che, incapace di rispondere ai loro bisogni, li ha cacciati senza neppure regolarne l’esodo.

Effetti perversi di quella diffusione della rendita fondiaria urbana auspicata dalle municipalità per mettere in valore il territorio, incrementare entrate fiscali e patrimonio. Un’interpretazione del valore territoriale che non tiene conto della qualità della vita e ha usato gli abitanti come strumento di una crescita economica priva di razionalità. E innanzitutto priva di umanità.

Non c’è umanità nella reiterazione infinita dei tipi edilizi e dei contenitori informi dei centri commerciali, enormi e tutti uguali. Alieni alle campagne. A distruggere bellezza, un bene comune dissipato in nome di un’idea di innovazione che sul consumo – di territorio, della città, di bellezza, di socialità – ha il proprio cardine. Come sono tutti uguali i villaggi finti shakespeariani degli out-let, con le stradine sinuose, le fontanelle da cui non si può bere, le casine leziose. Scenografie immutabili, come in un film che gira e rigira ma resta sempre uguale, rassicurante e asettico nella sua illusorietà.

La retorica del localismo di maniera, del vivere agreste, di identità e comunità da rinverdire si fanno marketing, colonizzano l’immaginario collettivo, come direbbe Latouche. Mentre anche i centri storici gentrificati perdono personalità per assumere quella commerciale e griffata, identica in ogni città del mondo, ossessiva. Un processo di anomizzazione che induce desocializzazione, la fuga e la ricerca (vana) di territorialità. Un circolo perverso in cui i cittadini sono le vittime sacrificali. Se (come sperabile) dovesse arrestarsi al più presto la caduta del mercato, rimarranno in ogni modo lo scempio del territorio e lo snaturamento dei paesaggi, la perdita di beni irriproducibili di proprietà comune e indivisibile. Peserà anche l’aver sottratto terreni produttivi all’agricoltura di prossimità, essenziale sotto il profilo ambientale tanto più in tempi di crisi della globalizzazione.

Spazi deterritorializzati dello sprawl

Una graduale deterritorializzazione annienta luoghi e milieux e trasforma i territori in spazi sterili. Disumanizzati da un’appropriazione mercantile straniante. Saltano senso di appartenenza e identificazione territoriale per lasciar posto alle sole relazioni commerciali, in cui lo spazio è fruito a pagamento e il cittadino ha la sola veste di consumatore. Spazi paralleli, diversificati per target di spesa, calibrati alle diverse capacità economiche. Mondi segregati per status.

In un’ambiguità insanabile tra valore d’uso e valore di scambio, spazio pubblico e spazio privato e continue erosioni dei diritti comunitari. E mentre gli spazi pubblici vanno in degrado per incuria, quelli privati assumono la fisionomia collettiva che deriva dalla frequentazione commerciale. Anche gli elementi più squisitamente istituzionali – sicurezza e sorveglianza – garantiti da società di interesse privato. Condizione che accomuna espansioni residenziali conformate a gated cities e centri polifunzionali in guisa di edge cities. Espressioni della città dilatata post-regolativa, in cui il mercato è l’unico decisore e le forze esogene che plasmano la crescita i suoi tentacoli operativi.

Spazi da consumare, fabbriche di desideri. Paesi dei balocchi, seducenti e ammiccanti nei loro abiti di scena disegnati dagli stilisti del marketing. La città dipinta a tinte forti, esasperate, esaltando le contraddizioni, la pluralità di stimoli, compreso il brivido elettrizzante della paura. La ruralità pensata invece per altri pubblici, colta nel fascino nostalgico e fané, nella grazia bucolica di un’eterna primavera cinguettante. Mondi in cui immaginario e potenza persuasiva sono componenti organiche del processo di valorizzazione. Le tante "corti dei molini", "tenute della duchessa", "magioni del granduca" e via favoleggiando, di cui le agenzie immobiliari offrono ricco campionario, ne sono populistica espressione. Esercizi di gentrification delle periferie che implodono con il fango dentro casa alla prima pioggia, le sbarre antintrusione alle finestre, la distanza dai servizi. Anche il panorama espropriato al godimento collettivo dalla schiera di villette di maggior pregio che ne impedisce la vista e ne ha fatto patrimonio privato.

Costi della polverizzazione

Se applichiamo alla città esplosa i parametri dell’analisi geografica, comprendiamo meglio la crisi del mercato immobiliare e riusciamo a vederla come conseguenza diretta del venir meno dei requisiti che avevano fatto apprezzare le localizzazioni residenziali periferiche.

In primo luogo i paesaggi, che una volta deturpati non hanno più la bellezza che esercitava attrattiva e conferiva valore. Un depauperamento che non è solo culturale e simbolico ma anche direttamente economico – va spiegato agli innovatori a tutti i costi.

La rendita fondiaria deriva inoltre da principi allocativi di natura funzionale che commisurano il valore del territorio al grado di attrezzaggio, in definitiva alla distanza dai servizi e ai costi per raggiungerli. Un criterio poggiato sulla distanza, non in termini metrici ma isocronici, che deprezza le aree lontane. La città infinita, immobile nel traffico, sconta diseconomie di agglomerazione e di percorrenze incommensurabili – infinite appunto. Tutto ciò si traduce in aumento dei costi a carico dalle famiglie e conseguente deprezzamento dei valori fondiari. E meraviglia ci sia ancora chi enfatizza la cosiddetta morte della distanza per motivare lo sprawl con la diffusione dei sistemi di comunicazione informatica. Nei cui spazi virtuali in effetti si sono rifugiati i cittadini metropolitani. Per supplire alle difficoltà di spostamento e incontro.

La disseminazione caotica delle residenze è avvenuta senza pianificazione logistica. Parametro che è stato invece adottato per la dislocazione dei centri commerciali, pensando però alla sola mobilità privata e a nuovi assi di scorrimento e parcheggi in loro supporto – anche in questo caso con indifferenza a territori e paesaggi, deturpati da svincoli, soprelevate, immense superfici di cemento e catrame. Un disordine distributivo che ha comportato costi di urbanizzazione particolarmente onerosi e ora pesa sulla gestione dei servizi essenziali.

Deregolazione e fallimento dell’urbanistica

Gli urbanisti, tra i principali responsabili di tanto disastro, hanno fallito il loro compito, non hanno saputo affrontare la città discontinua, la bassa densità, il salto di scala, la diversa tramatura dell’urbanità. Sono rimasti ancorati alla città compatta e non hanno saputo (voluto?) vedere gli effetti territoriali di comparti urbanistici delocalizzati al di fuori della conurbazione. Hanno progettato astratti oggetti edilizi senza contestualizzarli nei territori, riflettere sulle diversità e complessità dei sistemi locali, sui requisiti funzionali che strutturano centralità, definiscono reti connettive e sistemi relazionali. Nessuna preoccupazione neppure nei confronti dei problemi ambientali e geomorfologici che, ignorati, producono catastrofi niente affatto naturali. Il territorio trattato come spazio informe, liscio. D’altro canto che ci si può attendere da chi definisce "naturali" i paesaggi? Esecutori che hanno realizzato acriticamente le commesse delle amministrazioni e dei privati.

Ma se a questi ultimi non si può imputare la natura di operatori economici in cerca di profitto, politici, amministratori e direzioni tecniche locali portano il peso della compromissione con i peggiori istinti del liberismo. Dopo il rigetto della pianificazione come strumento di regolazione e di governo, la mistica della concorrenza, del mercato e della conduzione imprenditoriale degli enti locali hanno concesso un’espansione senza limiti e piano. A spaglio, inondando i territori come un fiume in piena, in assenza di argini normativi o anche solo di buon senso. La retorica della governance e della sussidiarietà come alibi e arma legale.

L’urbanistica frammentata a livello comunale, chiusa nel recinto dei confini amministrativi e quindi incapace di cogliere le correlazioni di area vasta di un’urbanità discontinua bisognosa di coordinamento. Una prospettiva autoreferenziale che ha convinto ogni municipio, in concorrenza con i vicini, a incentivare gli investimenti immobiliari nel proprio territorio senza che un livello istituzionale di più ampio sguardo esplicasse una qualche forma di piano e di controllo per regolare gli accrescimenti e calibrarli alle necessità reali. In un quadro di strumenti urbanistici che la deregolazione ha voluto sempre più allentati e permissivi, non a caso diversissimi per denominazione e forma giuridica. Una situazione in cui crisi finanziaria degli enti locali, Ici, oneri di urbanizzazione e scambi perequativi hanno congiurato contro scelte più oculate da parte dei comuni. Mentre le istituzioni della pianificazione si limitavano a blande raccomandazioni che nei fatti venivano disattese, in assenza di potere di controllo verticale, in forza di un principio di sussidiarietà troppo rispettoso dell’autonoma legittimità delle deroghe e disarmato a intervenire nel merito. L’urbanistica ha finito per adeguarsi alle logiche degli interessi speculativi, realizzati attraverso la stipula, di volta in volta, di accordi bilaterali in cui l’interesse collettivo è stato dimenticato. Il diritto pubblico sacrificato a favore di transazioni di natura privatistica.

La colonizzazione metropolitana

La città è cambiata, bisogna prenderne atto. Una serie di forze giustapposte e contrastanti ne ha mutato forma e natura. Il modello dell’urbanizzazione ha colonizzato il pianeta, inglobando le altre espressioni territoriali e piegandole all’omologazione. La complessità appiattita e raramente indice di urbanità ma sinonimo di nuovi e più profondi conflitti e disuguaglianze. La campagna è stata fagocitata da un moto centrifugo che, procedendo per chiazze, ha prodotto generale uniformizzazione dei luoghi, atopia. Le identità territoriali atrofizzate a favore dei simulacri finzionali di cui ci parla da tempo Augé.

Un cambio di scala che ha interrotto la continuità del tessuto, frantumato il corpo solidale della città moderna e creato lacerazioni, porosità, rotto gli insiemi territoriali. E con essi le relazioni umane che li innervavano e ne erano artefici, divenute aleatorie, anonime, di un cosmopolitismo contraddittorio e irto di conflitti.

Al punto che diventa legittimo chiedersi quale sia oggi il significato di locale e dove si sia rifugiata la capacità di topogenesi in grado di restituire anima agli spazi, come direbbe Hillman. Un problema che non appassiona i decisori, proni ai dettati mercantili, e assai poco anche il mondo intellettuale, impegnato a prodursi in fantasmagorie estetizzanti.

Un’urbanità monca di convivialità, direbbe Choay, e dunque ridotta a crosta amorfa e infertile, in cui la città non è riuscita a trasformarsi in metropoli, in città madre di luoghi, di sistemi locali territoriali capaci di coesione e solidalità. La deformazione della città come specchio, concrezione morfologica di una società polverizzata, ghettizzata dai redditi e dai consumi, dagli stili di vita e dell’abitare.

I territori vengono retrocessi a spazi uniformi all’interno di un dispositivo urbano totale e totalizzante che vede come unico protagonista il liberismo e la sua carica (paradossalmente?) liberticida di ogni espressione autonoma e dissenziente. Le relazioni umane si trasformano in conflitto o si rifugiano in isole di resistenza, in micro utopie comunitarie e reticolari il cui potenziale di riterritorializzazione è inversamente proporzionale alla visibilità. Bollate con il marchio dell’antipolitica o contaminate dalle logiche mercantili non appena escono dalla condizione marginale, allargano la sfera delle relazioni e acquisiscono consensi. Idee e pratiche percepite come sovversive dell’ordine consumistico totalitario.

Oltre lo sconfinamento verso la riterritorializzazione

Che fare dunque di fronte a un quadro disgregato in cui le forze coesive hanno lasciato mano libera all’anomia, alla deterritorializzazione? La crisi in cui siamo precipitati finalmente apre gli occhi anche agli indifferenti (e sono consapevole dell’assurdità di questo "finalmente" che mette in luce la miopia di una società che si sveglia solo di fronte alle catastrofi). Che il modello consumistico e la globalizzazione che l’ha supportato abbiano prodotto frutti avvelenati diventa consapevolezza sempre più allargata.

Ora però bisogna trovare modi per uscire dal declino che cambino alla radice le logiche che hanno governato il mondo. Non sono possibili meri rattoppi, debbono mutare le concezioni di base che guidano l’economia. Piccoli aggiustamenti all’esistente non farebbero che prolungare l’agonia e produrre nuove e più profonde disparità.

Il tema della decrescita (Latouche, 2008), sinora osteggiato e irriso, comincia a trovare consensi. Quello che veniva giudicato pensiero utopico privo di reale applicabilità si è dimostrato capace di preveggenza e credo debba diventare il punto di vista da adottare per riprogettare i territori dell’infinita disgregazione urbana.

Bisogna però prima di tutto capire la nuova natura della città e chi siano i suoi cittadini. Se sotto il profilo morfologico dobbiamo constatare dispersione e polverizzazione, che ne è dei sistemi territoriali? in che misura e quanto in profondità la frammentazione ha intaccato i reticoli delle relazioni e la coesione che un tempo ne aveva fatto dei modelli organizzativi? come possiamo rianimare percorsi di cittadinanza condannati all’afasia? come invertire la rotta e indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi?

La tentazione è quella di volgere lo sguardo all’indietro, di guardare con nostalgia ciò che città e campagna sono state, azzerare il tempo e ripercorrere il cammino a ritroso. Ma se in alcuni casi, quando ad esempio si tratti di salvare documenti storici del percorso di lunga durata della costruzione paesaggistica, conservare diventa prioritario, se ci sono in gioco variabili umane la salvaguardia non può essere sola conservazione. Non si può cristallizzare ciò che nel frattempo è mutato, bisogna tener conto della diacronia delle trasformazioni antropologiche ed esistenziali. Il territorio, costruzione umana per eccellenza, non può sfuggire ai propri ritmi ed è da ciò che è diventato che bisogna ripartire. Sulla sua inarrestabile processualità va innestata la prospettiva della riterritorializzazione attiva, la riconfigurazione dei luoghi a partire dai soggetti e dal vivere conviviale. Progettando territori in cui l’umanità sia al centro della metamorfosi. Se i cittadini non si identificano nella città densa, nella sua insalubrità e anomia e tuttavia desiderano non rescindere i legami con l’urbano, si dovranno trovare soluzioni rispettose del cambiamento culturale e fondare un tipo nuovo di città, che sappia armonizzare e coordinare le diverse realtà ed esigenze. L’idea di città di città può rappresentare un embrione di ragionamento.

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In 5 anni già dati permessi per 94 milioni di metri cubi. Negli anni Ottanta si costruivano 10 milioni di metri cubi di capannoni, saliti fino a 38 milioni nel 2002

MILANO — Tirar su l'equivalente d'una palazzina di tre piani alta dieci metri, larga 10 e lunga 1.800 chilometri può davvero rilanciare l'Italia «nel pieno rispetto dell'ambiente », come dice Claudio Scajola? In un paese dove solo lo 0,97% degli abusi «non sanabili» è stato demolito? Auguri. Tanto più che una regione simbolo qual è il Veneto, stando a uno studio universitario, ha già oggi tante abitazioni e cantieri aperti da soddisfare la domanda di case, onda immigratoria compresa, fino al 2022. Se poi dovesse calare l'immigrazione, fino al 2034. Quando l'oggi giovanissimo Pato sarà già in marcia verso la cinquantina.

Prendiamo la tabella dei metri quadri a disposizione oggi degli europei. Ogni italiano ha in questo momento 36,3 metri quadri di casa. Cioè quasi il doppio di un ceco o di un ungherese, più o meno quanto un francese o uno spagnolo (che vivono in territori enormemente più vasti), un po' più di un greco o di un belga. Davanti a noi stanno più comodi i tedeschi (41,3 metri quadrati a testa), gli svedesi (43,6) gli olandesi (48,3), gli austriaci (50,4), i danesi (53) e gli inarrivabili abitanti del Lussemburgo, uno staterello urbanizzato che svetta con 62,7 metri pro capite, ma per la particolarità e dimensione non andrebbe manco messo nel mazzo.

Si dirà: «Visto? Siamo nella media». Vero. Tutti gli europei che hanno case più grandi, però, hanno due caratteristiche. O godono di spazi molto maggiori dei nostri, come gli austriaci che hanno il doppio di territorio pro capite di noi o gli svedesi che ne hanno quasi il decuplo. Oppure, a differenza di noi che abbiamo il 33% della superficie montagnosa e forestale, vivono in territori molto più pianeggianti, quali i tedeschi, gli olandesi o i danesi, il cui cucuzzolo più alto, il Moellehoi, svetta a 170 metri e 86 centimetri sul livello del mare.

Per capire quanto pesino queste differenze basta rileggere gli atti di un seminario di qualche anno fa promosso tra gli altri dalla allora presidente provinciale leghista Manuela Dal Lago sul consumo del suolo in una delle province forti dell'Italia, Vicenza. Seminario dal quale emerse che l'uomo, in tutta la sua storia, aveva occupato dall'età della pietra ai primi anni Cinquanta 8.674 ettari. Per poi occuparne, nell'ultimo mezzo secolo, molto più del doppio: 19.463.

Una colata di cemento che ha stravolto la campagna descritta da Goffredo Parise e Luigi Meneghello fino al punto che il calcolo della «impronta ecologica» (un indice che attraverso sistemi complessi misura il livello dei nostri consumi) ogni vicentino si ritrova oggi a disporre di poco più di tremila metri quadri di territorio, ma ne consuma per 39.000. Una scelta obbligata per uscire da secoli di fame, miseria, emigrazione? In parte, se è vero che nella seconda metà del Novecento l'aumento della popolazione non ha superato il 32% e la superficie urbanizzata è aumentata dieci volte di più: 324%.

Un'accelerazione spettacolare, ma accompagnata da contraccolpi sul paesaggio, sull'inquinamento, sulla viabilità. E addirittura accentuata nell'ultimo decennio del Novecento con un aumento della popolazione del 3% (52 mila abitanti in più dei quali 37 mila immigrati) e un'impennata dell'edilizia abitativa del 13%. Per non dire della parallela impennata industriale che, seminando dubbi perfino fra i più eccitati esaltatori del mitico Nordest, portò a un dato paradossale: ogni neonato vicentino arrivato nel decennio si ritrovava in dote un blocco di 3.718 metri cubi di calcestruzzo. Il tutto distribuito non uniformemente, ma quasi sempre in pianura. Esattamente come nel resto del Veneto dove, tolti quelli di montagna e larga parte di quelli collinari, i 444 comuni adagiati nell'ormai ex campagna hanno quattro o cinque aree industriali ciascuno se non, in certi casi, otto o nove.

Il prezzo? Elevatissimo, rispondono gli esperti: ogni miliardo di euro di crescita reale in più sarebbe costato un consumo di mille ettari di campagna. Il che significherebbe, appunto, che se avesse ragione il ministro Scajola a sostenere che il «piano casa» può mettere in moto 60 miliardi di euro, questo porterebbe a occupare come minimo 60 mila ettari di territorio con l'equivalente in cemento d'un mostro come quello calcolato all'inizio.

Ne vale la pena? Mah... Una ricerca di Tiziano Tempesta, ordinario del Dipartimento Territorio dell'Università di Padova, lascia qualche perplessità. Almeno nel Veneto. E non solo sul piano dell'ambiente, del paesaggio, delle margherite e delle violette. Spiega il professore che non solo una nuova colata di cemento rischia di dare il colpo di grazia a una pianura dove negli anni Ottanta si costruivano mediamente 10 milioni di metri cubi di capannoni l'anno saliti via via fino a una mostruosa quota di 38 milioni nel 2002, tirati su spesso solo per approfittare della Tremonti Bis e oggi malinconicamente vuoti. Ma che la case a disposizione sono già più che abbondanti.

Se è vero che lo standard di riferimento per ogni programmazione di questi anni è stato di 120 metri cubi per abitante (cioè 40 metri quadri: quattro più dell'attuale media nazionale), «tra 2001 e 2006 sono state rilasciate concessioni edilizie per nuove abitazioni o ampliamenti per un volume pari a 94,6 milioni di metri cubi» contro un aumento della popolazione intorno all'1% l'anno. Risultato: sono già state costruite in questi anni «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone». Il triplo delle 243.000 in più (in buona parte straniere) registrate. Morale: se anche proseguissero (difficile, di questi tempi) gli «elevatissimi tassi d'immigrazione degli ultimi anni, le concessioni edilizie» già rilasciate saranno «sufficienti a soddisfare la domanda di case per i prossimi 13 anni». Con un tasso immigratorio ridotto a quello (che già era alto) degli anni Novanta, basterebbero per altri 25. Fino, appunto, al lontano 2034. Non basta. Nello studio di Tempesta si sottolinea una contraddizione che farà drizzare le orecchie a diversi: negli ultimi anni di risacca segnati da un calo del manifatturiero del 5,6%, «uno dei motori dell'immigrazione è stato il boom edilizio: il 65% dei nuovi posti di lavoro creati nel Veneto dal 2001 al 2006 ha riguardato il settore delle costruzioni». Non basta ancora: «Analizzando i dati Istat sul rilascio di concessioni edilizie e sul valore aggiunto del settore costruzioni, si può stimare che nel Veneto, per aumentare dell'1% il prodotto interno lordo, sia necessario realizzare ogni anno non meno di 6,5 milioni di metri cubi di abitazioni, pari a una capacità insediativa aggiuntiva di circa 55.000 abitanti». Irreale, secondo i demografi. Tanto più se qualcuno puntasse a 55 mila neonati di «pura razza Piave».

E allora? Allora «non sembra plausibile che, in una situazione di crisi del credito e di eccesso di offerta di abitazioni » la faccenda possa tradursi davvero in un affare.

Se poi ci mettiamo anche le ferite che rischiano di essere inferte al patrimonio artistico e monumentale che è il tesoro dell'Italia...

Sosteneva Eugenio Turri che la bellezza dei centri storici della nostra regione è derivata dalla loro funzione di vetrine nelle quali la nobiltà spendeva i redditi ricavati dalle campagne, esibendoli nei nobili palazzi che fiancheggiano le principali vie cittadine, a partire da Canal Grande a Venezia sino a corso Palladio a Vicenza, corso Cavour a Verona, via XX Settembre a Conegliano e così via. “Ma alla bellezza delle città – scrive sempre Eugenio Turri – corrispondeva allo stesso modo quella delle campagne, perché lo spirito che muoveva la cultura dei signori, anche se non tutti impegnati nello stesso modo, era quella di far produrre i campi attraverso un uso sapiente delle conoscenze agrarie alla cui crescita attendevano esperti prestigiosi e molti degli stessi nobili, appassionati e attenti gestori delle loro possessioni” (E. Turri, La megalopoli padana, 2004).

A testimonianza di quanto fosse ben disegnato il paesaggio agrario veneto dei secoli passati, Turri cita una annotazione dello scrittore settecentesco Charles De Brosse, che affermava non esistere scena più bella o meglio ornata di quella offerta dalla campagna che si estende tra Vicenza e Padova, una terra che “vale forse da sola tutto il viaggio in Italia”.

Di questo paesaggio, patrimonio storico culturale di inestimabile valore ed imprescindibile elemento costitutivo dell’identità veneta, rimangono oggi solo frammenti sparsi, isole circondate e progressivamente sommerse da una inarrestabile alluvione di cemento. “La chiesa romanica – osserva ancora Eugenio Turri – accanto al capannone, il paesaggio dolcissimo dei colli con le ville venete straordinarie testimonianze del passato, offeso dai residences banali, da architetture che nulla hanno attinto dalle meravigliose scuole degli architetti ed artisti veneti”.

In un graffiante articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 18 settembre 2004, Gian Antonio Stella, riportando i dati presentati ad un convegno organizzato a Montecchio dall’Accademia Olimpica, denunciava con molta efficacia l’inverosimile consumo di territorio agricolo e la sistematica distruzione di paesaggio e risorse agrarie causati – in particolare nell’area vicentina – dall’allora tanto celebrato modello di sviluppo economico veneto. Nella provincia di Vicenza tra il 1991 ed il 2001 si era registrato un incremento di 52.mila abitanti (dei quali 37.140 stranieri immigrati), a cui era corrisposta una crescita di edilizia residenziale di 56 milioni di metri cubi: per ogni nuovo abitante si erano costruiti oltre 1.070 mc di nuovi fabbricati ed un numero di abitazioni quattro volte superiore a quelle necessarie rispetto all’incremento del numero delle famiglie. Una volumetria complessiva che si può tradurre nell’immagine di un capannone largo 10 metri, alto 10 e lungo 560 chilometri.

In quel decennio la provincia di Vicenza registrava la perdita di oltre 18.mila ettari di terreno agricolo. Una distruzione di risorse dovuta all’entità delle nuove volumetrie residenziali e non, ma anche alla caotica dispersione dei nuovi insediamenti nel territorio periurbano e rurale: in 50 anni, dal 1950 al 2000, a fronte di un incremento del 32 % della popolazione provinciale (da 608.mila a 807.mila abitanti), la superficie urbanizzata era aumentata del 342 %, ovvero di dieci volte tanto (da 8.674 ettari a 28.137 ettari). L’occupazione e impermeabilizzazione dei suoli, un’edilizia incurante dei problemi energetici, il boom dell’auto e del trasporto privato, l’inquinamento indotto, un’economia fondata sulla crescita illimitata dei consumi e sulle logiche dell'usa e getta, facevano sì che l’impronta ecologica di ogni vicentino risultasse pari a 3,9 ettari, ovvero undici volte superiore alla quantità di terreno biologicamente attivo effettivamente disponibile nella provincia di Vicenza (pari a circa 0,33 ettari/abitante).

La situazione di Vicenza non era certo un’eccezione nel panorama della nostra regione ed in particolare nella sua area centrale: un’area che, occupando il 25,7 % del territorio, accoglie il 50,7 % della popolazione ed il 47,2 % della abitazioni (930.mila al censimento del 2001, delle quali ben 80.mila non occupate). Una vera e propria nebulosa insediativa, una metropoli sorta spontaneamente senza alcun disegno ordinatore e senza i servizi e le infrastrutture di una metropoli, caratterizzata dalla ingombrante presenza di capannoni, centri commerciali, lottizzazioni residenziali disseminati senza alcuna logica apparente se non quella del profitto immediato dei proprietari delle aree e con l’avvallo di amministrazioni locali compiacenti, sempre pronte ad approvare varianti e variatine di piano regolatore illudendosi di poter rimpinguare i propri bilanci con le entrate dell’ICI.

Un consumo di territorio talmente abnorme da far sì che lo stesso presidente della Regione, Giancarlo Galan, si sentì in dovere di proclamare alla stampa nella primavera del 2003 : “Basta capannoni!”. Un proclama che, purtroppo, venne smentito dallo stesso Galan un anno e mezzo dopo in un convegno di Forza Italia tenutosi a Cortina.

Nell’aprile 2004 il Consiglio Regionale approva la nuova legge urbanistica, che riprende molte delle novità e degli indirizzi legislativi già in vigore in altre regioni del centro e nord Italia. E’ significativo rileggere le ragioni ed i criteri che – secondo la Relazione al Consiglio presentata dall’allora Presidente della 2.a Commissione, Raffaele Buzzoni – ispiravano i contenuti della nuova legge. Tra questi la necessità di promuovere uno sviluppo sostenibile e durevole, la volontà di tutelare il paesaggio e la qualità degli insediamenti e la presa d’atto che, pur in presenza di un “territorio completamente pianificato”, si era verificata una “sostanziale incapacità di governare e controllare in modo adeguato la pianificazione territoriale” e che si erano “assecondati processi di spontaneismo insediativi, sia residenziale che produttivo” che hanno prodotto “un sistema disordinato che rischia di pregiudicare ogni ulteriore crescita economica”, un processo di disordinata urbanizzazione del territorio riproposto dai vigenti PRG, che “evidenziano una crescita esponenziale di nuove zone residenziali e produttive non accompagnata da una seria e adeguata valutazione del reale fabbisogno e da una attenta verifica dello stato di attuazione delle aree già esistenti”, il tutto connesso all’intenzione dei Comuni di ricavar “maggiori introiti dall’ICI e dagli oneri di urbanizzazione”.

Pur non essendo la migliore delle leggi possibili, la nuova legge urbanistica del Veneto indica alcune importanti finalità prioritarie, in una logica di governance in grado di combinare progetti e programmi con l’effettiva gestione nel tempo delle trasformazioni territoriali, ed introduce nuovi strumenti di piano quali l’articolazione del vecchio PRG in PAT (piano strutturale) e Piani d’intervento, i PATI (piani intercomunali di assetto territoriale), la perequazione, la compensazione urbanistica ed i crediti edilizi, l’obbligatorietà della VAS – Valutazione ambientale strategica. C’era dunque da sperare che la nuova legge urbanistica favorisse l’affermarsi di una svolta radicale nella pianificazione territoriale, condizionando e modificando in positivo lo stesso modello di sviluppo economico e sociale veneto. Purtroppo così non è stato.

L’annuncio della nuova legge e poi le molte proroghe e deroghe concesse prima della sua effettiva entrata in vigore hanno determinato una corsa generalizzata alla presentazione da parte dei Comuni di nuove varianti di PRG, di nuove lottizzazioni e urbanizzazioni. Il nuovo PTRC – Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, i cui studi vennero avviati con la “Carta di Asiago” del febbraio 2004 e che dovrebbe recepire le indicazioni della Convenzione Europea del Paesaggio, pur preannunciato nei contenuti da molti documenti preliminari, deve ancora vedere la luce mentre i piani territoriali provinciali ed i PATI, quand’anche orientati ad una maggiore tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, quasi mai si traducono in una normativa prescrittiva e vincolante e/o in strumenti in grado di conferire effettiva operatività alle previsioni di piano, lasciando troppo ampi margini di discrezionalità ai Comuni, legittimati a continuare – soprattutto sul versante dell’edilizia residenziale – il gioco perverso del sovradimensionamento volumetrico dei propri PAT in funzione di fabbisogni abitativi tanto generici quanto spesso del tutto fantasiosi (anche perché attualmente l’unico vero fabbisogno è quello di case in affitto a canone sociale per le classi economicamente più deboli e per gli immigrati, una domanda abitativa che non trova certo risposta nelle iniziative edilizie della grande speculazione immobiliare).

Nel 2004, l’anno della nuova legge urbanistica, i Comuni del Veneto autorizzano 38 milioni di mc di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di mc di volumetrie residenziali (Benedetta Castiglioni e Viviana Ferrario, ARS n. 114, 2007), superando la media di 40 milioni di mc di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi. Un boom edilizio, sorretto soprattutto dalla bolla speculativa che ha caratterizzato la finanza nazionale ed internazionale di questi ultimi anni. Un boom che non ha eguali nel passato e che fa sì che la nostra regione si collochi al primo posto in Italia per l’entità dei volumi di edilizia residenziale e non residenziale annualmente autorizzati con concessione edilizia dai Comuni. Un quadro d’insieme decisamente preoccupante, ben descritto da Tiziano Tempesta dell’Università di Padova, che osserva come le nuove abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono potenzialmente in grado di dare alloggio a circa 600.mila nuovi abitanti: se anche rimanessero costanti gli elevati tassi d’incremento demografico registrati negli ultimi anni per effetto dei nuovi fenomeni migratori, ci vorranno circa 15 anni per utilizzare tutte le case messe in cantiere (Tiziano Tempesta, Agripolis – Legnaro, 2007).

Tutti sembrano convenire sulla necessità di porre un freno alle disastrose conseguenze sociali ed ambientali dei meccanismi della rendita fondiaria e della speculazione immobiliare, meccanismi che non sembrano avere più alcuna diretta relazione con l’effettivo fabbisogno espresso dalla domanda abitativa e dalla produzione industriale. Eppure non c’è amministrazione comunale che non rivendichi la possibilità di consumare quota parte dei residui terreni agricoli ed ambiti naturalistici del proprio territorio per realizzare nuove infrastrutture e consentire nuove urbanizzazioni e lottizzazioni. Una rivendicazione motivata anche dal fatto che – data la sempre maggiore scarsità di risorse finanziarie – non vi sarebbe oggi altro modo di realizzare gli standard urbanistici previsti dai piani regolatori (verde, scuole, nuove strade, centri civici, servizi in generale,…) se non concedendo nuove cubature edificabili ai proprietari dei terreni. E’ la via della cosiddetta “perequazione urbanistica”, ultimo provvidenziale rimedio per i Comuni che – anche negli anni di vacche grasse – si sono limitati a disegnare il verde pubblico sulle carte di piano senza procedere all’acquisizione delle aree e che oggi – dopo le sentenze della Corte Costituzionale che impongono la corresponsione di una indennità per i vincoli finalizzati all’esproprio e che hanno elevato il valore dell’esproprio al valore di mercato – non ritengono che la creazione di nuovi parchi e spazi verdi debba essere una priorità di bilancio.

Certo la “perequazione urbanistica” (consistente di fatto nella concessione di nuove volumetrie edificabili ai proprietari privati in cambio della cessione al Comune di quota parte dei terreni di proprietà) può risultare, a determinate condizioni, uno strumento utile per l’attuazione delle previsioni di piano. Nella visione e nella pratica urbanistica di molti amministratori sembra però prevalere una interpretazione dei meccanismi perequativi quale soluzione taumaturgica di tutti i problemi della pianificazione urbanistica. Non solo. Subordinando l’attuazione degli indirizzi di piano all’iniziativa dei privati, questa interpretazione della perequazione costituisce di fatto un implicito riconoscimento di uno “jus aedificandi” connaturato alla proprietà dei suoli, un diritto che l’ente pubblico potrebbe solo regolamentare ma non negare (anche se in realtà nessuna legge dello stato italiano lo ha mai esplicitamente riconosciuto). E’ quanto ad esempio avvenuto a Padova dove – anticipando la stessa legislazione regionale – con una Variante di PRG (approvata con i voti sia dal centrodestra che dal centrosinistra) si sono trasformati oltre 4,7 milioni di mq di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, sia pure con indici differenziati, delegando ai privati il progetto delle nuove lottizzazioni ed ottenendone in cambio uno spezzatino di aree di verde pubblico in mezzo o ai margini dei nuovi caseggiati. In realtà la perequazione è un’arma a doppio taglio, destinata a generare il fallimento di ogni politica urbana se il Comune non si pone come soggetto attivo, come protagonista diretto della progettazione e della gestione delle trasformazioni urbane, non limitando la propria funzione a quella di certificatore delle iniziative dei privati. La perequazione non può essere considerata il fine della pianificazione urbanistica, bensì solo come uno tra i possibili strumenti operativi del piano, da applicarsi a specifici comparti urbani e non indiscriminatamente a tutto il territorio, per l’attuazione di un chiaro e condiviso progetto di città pubblica e di infrastrutture ecologiche, così come ad esempio è avvenuto per la formazione di una cintura verde periurbana a Ravenna o per realizzazione di un organico sistema del verde urbano a Jesi e Vercelli. Prioritario deve sempre essere un disegno urbano che ponga l’accento sugli spazi aperti ed i servizi destinati alla vita comunitaria, sulla costruzione di una rete ecologica urbana connessa alle risorse naturalistiche del territorio, ed è in funzione di questo disegno che – situazione per situazione – può essere giudicato utile un accordo perequativo con i privati. Un accordo che, in generale, preveda la salvaguardia integrale degli spazi a più elevata valenza ambientale ed il trasferimento dei “diritti edificatori” concessi in altro ambito urbano (“perequazione ad arcipelago” o compensazione urbanistica), preferibilmente in aree dimesse e/o degradate ove effettuare interventi di recupero e riqualificazione urbanistica ed ambientale.

Purtroppo nella maggior parte delle amministrazioni locali sembra ancora prevalere una logica del giorno per giorno ed una prassi di pura e semplice “ragioneria urbanistica”. Una prassi sganciata da ogni visione strategica a cui continua a corrispondere una sostanziale incapacità di pianificazione e di governo a più ampia scala da parte degli enti sovraordinati. Una prassi che – con processi di tipo molecolare, ma non per questo meno dirompenti – prosegue imperturbabile nell’opera di sistematica distruzione del paesaggio.

“Un paesaggio, per usare ancora una volta le parole di Eugenio Turri, che più che brutto è noioso, irritante nella sua ripetitività, senza sorprese, con il suo traffico intasato sulle sue strade principali, la macchina come elemento onnipresente, onnivoro, insopportabile”. Le uniche iniziative di più ampio respiro a scala territoriale che sembrano destinate al successo – in sintonia spesso con le nuove complanari, tangenziali, raccordi anulari e camionabili finanziate dalle società autostradali per veder rinnovate le loro concessioni – risultano essere quelle della grande speculazione immobiliare, finalizzate alla realizzazione – in luoghi sensibili del territorio regionale – di mega centri commerciali e per il tempo libero. I casi più clamorosi – di seguito riportati – sono quelli del faraonico progetto di “Euroworld” nel delta del Po, della “Città dei motori” , tra Verona e Mantova, di “Veneto City”, tra Venezia e Padova nelle vicinanze della Riviera del Brenta. Progetti che spesso trovano convinti sostenitori tra gli amministratori regionali e che già oggi determinano tutta una serie di attese ed operazioni speculative sulle aree interessate o limitrofe e la progettazione di nuove infrastrutture di supporto, quali la camionabile prevista sul tracciato (o a lato) della mai completata idrovia Padova-Mare.

Che fare? Senza dubbio uno dei compiti fondamentali delle associazioni ambientaliste continua ad essere quello della battaglia in difesa dei beni storici e paesaggistici del nostro territorio, di quanto ancora si conserva del passato, della denuncia di una prassi urbanistica miope e dello smascheramento di operazioni immobiliari che – in nome di un preteso quanto spesso fantomatico sviluppo economico – rispondono solo agli interessi di alcune società private distruggendo beni comuni e luoghi identitari della nostra collettività.

Ma l'azione di denuncia non è sufficiente. Distruzione e degrado del paesaggio e del territorio possono essere efficacemente contrastati solo avendo la capacità di proporre strategie e progetti alternativi, fondati su una lettura del territorio quale ecosistema complesso che può essere riqualificato e rigenerato con un insieme integrato di interventi finalizzati alla formazione di una rete continua di siti e corridoi ecologici in grado di assicurare la biodiversità, di contribuire al disinquinamento dell'aria e dei suoli e di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, al potenziamento del sistema della mobilità e dei trasporti collettivi (in particolare su ferro) pianificando in relazione a detto sistema una più equilibrata distribuzione dell'edificato e dei servizi a scala metropolitana, all'affermazione della cultura e dell'innovazione tecnologica connessa all'ecologia quali motori del rinnovamento urbano. Strategie di lungo periodo e progetti concreti per la tutela dei paesaggi storici e dei beni naturalistici, ma anche per la costruzione di nuovi, più sostenibili e gradevoli paesaggi urbani e periurbani, riconoscendo – come fa la Convenzione Europea del Paesaggio – che il paesaggio, se pianificato e gestito in modo adeguato, può divenire un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni, svolgendo fondamentali funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituendo una risorsa favorevole allo stesso sviluppo economico.

E' essenziale sottolineare come, ai fini della formazione di paesaggi di più elevata qualità estetica ed ecologica anche in ambito periurbano oltre che in aperta campagna, un ruolo decisivo deve essere attribuito alle tecniche ed all'organizzazione delle attività agricole. Ricordavamo all'inizio come il paesaggio veneto – in particolare quello agrario – sia stato, con quello toscano, uno dei più prestigiosi a livello nazionale ed europeo. Va però anche ricordato che il paesaggio agrario è il frutto di un processo di antropizzazione della natura e dell'evolversi delle culture e delle tecniche di coltivazione; è, come scriveva Emilio Sereni, “... quella forma che l'uomo, nel corso e ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale” (E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano). Si può, in altri termini, affermare che il paesaggio – quello agrario in particolare – deriva da un progetto di civilizzazione, è l'espressione di una civiltà e di una cultura. La bellezza, il valore estetico di un paesaggio derivano soprattutto dalla sua capacità di rendere leggibile il senso, l'ordine, le relazioni intercorrenti, il significato culturale delle sue componenti. Non è sufficiente salvaguardare una villa veneta od una casa rurale tipologicamente ed architettonicamente significativa, se nel contempo se ne distrugge il contesto, il rapporto un tempo esistente con l'organizzazione del territorio. Nella percezione di un paesaggio, oltre alla dimensione ecologica (espressa dal rispetto delle leggi che regolano la biodiversità e l'evoluzione naturale, la riproducibilità dei componenti), sono fondamentali la dimensione culturale e simbolica. “Il paesaggio – afferma il sociologo Georg Simmel – non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, l'una accanto all'altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme... così come una quantità di libri accatastati non è una biblioteca, ma lo diventa quando un concetto unificante li ordina secondo il proprio criterio formale”.

Fondamentale è dunque salvaguardare le colture ed i terreni agricoli anche nell'area centrale della nebulosa metropolitana veneta ovvero nei luoghi oggi soggetti ad una più intensa attività di infrastrutturazione ed urbanizzazione. Senza tutela del mondo rurale – ha scritto di recente Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food – sia per quanto riguarda la sua produttività, sia per quanto riguarda la sua bellezza, non può esserci tutela dell'ambiente e del paesaggio (La Repubblica, 5 ottobre 2008). Negli ultimi quindici anni, se si fa un confronto tra i censimenti agricoli del 1990 e del 2005, in Italia sono spariti più di 3 milioni di ettari di superfici libere da costruzioni e infrastrutture, un'area più grande del Lazio e dell'Abruzzo messi insieme. Di questi 3 milioni poco meno di 2 milioni di ettari erano superfici agrarie. “E' uno dei più grandi mutamenti, afferma sempre Carlo Petrini, che il nostro Paese ha subito nel secondo dopoguerra e non accenna a diminuire: sparisce la campagna, insieme ai contadini, si perdono spesso i terreni più fertili in pianura e in prima collina. Gli appezzamenti che resistono sembra che stiano lì, in attesa che qualcuno ci speculi su. Il suolo, se non muore a colpi di fertilizzanti o pesticidi, sparisce... E' uno scempio senza fine, che pregiudica la qualità delle nostre vite in termini ecologici e anche gastronomici. Sì: gastronomici, perché ne va anche del nostro cibo, della sua qualità, della sua varietà e della possibilità di poterlo comprare senza che provenga da un altro continente, con tutti gli enormi problemi che ne conseguono”.

Con l'entrata in vigore della nuova legge urbanistica regionale, Regione, Province e Comuni hanno avviato un processo di revisione e ridisegno dei propri strumenti urbanistici. E' dunque questo il momento di intervenire, evitando che in attesa dei nuovi piani continui l'aggressione al territorio e richiedendo che a tutti i livelli della pianificazione – in stretta connessione con la programmazione economica e sociale e con l'allocazione delle risorse di bilancio – divenga centrale non solo il tema della formazione di una rete ecologica in grado di compenetrare gli stessi ambiti urbani, ma anche specificamente quello della riconversione biologica delle attività agricole. Significativo è, da questo punto di vista, l'esempio della Germania dove governo federale e Länder promuovono e finanziano per l'attuazione dei piani paesaggistici specifici progetti di ricomposizione fondiaria e riordino territoriale, coinvolgendo direttamente nell'elaborazione dei piani agricoltori, allevatori, proprietari dei boschi, cittadini e associazioni ambientaliste. Progetti che prevedono specifici contributi o sgravi fiscali per chi rinuncia all'uso di fertilizzanti chimici e provvede alla manutenzione di vigneti, frutteti storici e strade alberate, al ripristino di muri a secco e terrazzamenti, siepi di confine e recinzioni tradizionali ed al restauro degli edifici rurali.

Vige in Germania, nell'ambito delle procedure pianificatorie, il “principio di cooperazione”, in quanto si ritiene che la salvaguardia del patrimonio naturale ed il controllo della pressione antropica sull'ambiente siano difficilmente realizzabili senza la collaborazione attiva dei cittadini. L'obbligatorietà del coinvolgimento e della partecipazione dei cittadini – sia pure ancora con molti limiti ed ambiguità – viene affermata anche dalla nuova legislazione urbanistica delle nostre Regioni e dalle procedure indicate dalla Comunità Europea per la formulazione della VAS – Valutazione Ambientale Strategica prevista per la pianificazione urbanistica e territoriale. E' un principio di cui, come associazioni ambientaliste, dobbiamo rivendicare la più ampia applicazione, proponendo regole chiare e procedure obbligatorie, che non possono certo esaurirsi nel meccanismo tradizionale delle “Osservazioni” a giochi conclusi e delle “Controdeduzioni” (che nel 99 per cento dei casi respingono la Osservazioni presentate da cittadini e associazioni, in quanto ritenute “non congruenti” con l'impostazione del piano adottato dall'amministrazione).

L'elaborazione dei piani territoriali ed urbanistici, a partire dall'impostazione degli studi preliminari sino alla fase delle fondamentali scelte strategiche e della definizione delle priorità d'intervento, deve divenire un'importante occasione per attivare un processo di”apprendimento collettivo”, un processo di crescita del “capitale sociale” che – come sostiene l'urbanista Roberto Camagni – deve avvenire attraverso la promozione della comunicazione, della partecipazione, della fiducia e della cooperazione, ovvero attraverso la mobilitazione di tutta la società civile”. Un processo partecipativo e cooperativo che deve operare ai diversi livelli istituzionali, ma anche attraverso il dialogo costante con i cittadini e l'associazionismo economico, sociale, culturale ed ambientalista, finalizzato alla costruzione di una visione condivisa del futuro delle comunità locali, condizione essenziale per assicurare efficacia agli stessi strumenti di piano.

Novembre 2008

Il testo in formato .pdf è scaricabile qui.

L’Italia è un paese meraviglioso. Ricco di storia, arte, cultura, gusto, paesaggio.

Ma ha una malattia molto grave: il consumo di territorio.

Un cancro che avanza ogni giorno, al ritmo di quasi 250 mila ettari all’anno.

Dal 1950 ad oggi, un’area grande quanto tutto il nord Italia è stata seppellita sotto il cemento.

Il limite di non ritorno, superato il quale l’ecosistema Italia non è più in grado di autoriprodursi è sempre più vicino. Ma nessuno se ne cura.

Fertili pianure agricole, romantiche coste marine, affascinanti pendenze montane e armoniose curve collinari, sono quotidianamente sottoposte alla minaccia, all’attacco e all’invasione di betoniere, trivelle, ruspe e mostri di asfalto.

Non vi è angolo d’Italia in cui non vi sia almeno un progetto a base di gettate di cemento: piani urbanistici e speculazioni edilizie, residenziali e industriali; insediamenti commerciali e logistici; grandi opere autostradali e ferroviarie; porti e aeroporti, turistici, civili e militari.

Non si può andare avanti così! La natura, la terra, l’acqua non sono risorse infinite.

Il paese è al dissesto idrogeologico, il patrimonio paesaggistico e artistico rischia di essere irreversibilmente compromesso, l’agricoltura scivola verso un impoverimento senza ritorno, le identità culturali e le peculiarità di ciascun territorio e di ogni città, sembrano destinate a confluire in un unico, uniforme e grigio contenitore indistinto.

La Terra d’Italia che ci accingiamo a consegnare alle prossime generazioni è malata. Curiamola!

Campagna promossa da:

AltritAsti, Gruppo P.E.A.C.E. Pace, Economie Alternative, Consumi Etici - http://www.altritasti.it;

AltrItalialtroMondo, il blog del sindaco di Cassinetta di Lugagnano – http://domenicofiniguerra.wordpress.com;

Cibernetica Sociale Italia, http://www.ciberneticasociale.org;

eddyburg. Urbanistica, politica, società - http://eddyburg.it;

Movimento per la Decrescita Felice - http://www.decrescitafelice.it

Per aderire inviare una e-mail qui:
info@altritasti.it

Scaricate qui sotto il manifesto con l’elenco delle prime firme

Nelle botti piccole ci sta il vino buono, sostiene qualcuno. Allora perché stupirsi se per citare un esempio di buona pianificazione oggi in Italia, ricorriamo al Piano di governo del territorio [1] (Pgt) di un piccolissimo comune, quello di Cassinetta di Lugagnano?

A ridosso del Naviglio Grande, 26 km a sud ovest di Milano, Cassinetta si trova immersa nello splendido scenario naturale del Parco del Ticino, riserva della Biosfera Unesco. Nel 2007 ha definitivamente approvato un Pgt a crescita zero, un piano, cioè, che non contiene previsioni di crescita dell’insediamento e che punta a mantenere il più possibile intatto il proprio territorio agricolo.

Sarebbe riduttivo, però, limitarsi all’aspetto quantitativo: il concetto di crescita zero è in effetti uno slogan, dietro il quale si cela un ragionamento più complesso su quale debba essere il futuro del territorio e in che modo lo si voglia concretamente realizzare.

Cerchiamo, dunque, di aggiungere qualche dettaglio in più.

Lo stato di fatto: localizzazione e dinamiche territoriali

Per la sua struttura urbana, Cassinetta è un piccolo caso da manuale: un nucleo compatto, più o meno baricentrico rispetto all’intero territorio comunale, circondato da un’estesa “cintura” agricola. Una cintura agricola il cui pregio è stato riconosciuto perfino dall’Unesco, che è frutto di una lunga e tenace azione di tutela e che ha costituito per lungo tempo la base economica di questo piccolo centro: la rete idrica principale del Naviglio Grande e quella secondaria fatta di canali, rogge e fontanili innervano ancora oggi tutto il territorio comunale.

Facile mantenere intatto il territorio, si potrebbe pensare, per un comune che ha solo 1800 abitanti e nessun attività produttivo-commerciale di grosse dimensioni al proprio interno. Non proprio, in realtà, se si considera la tendenza dominante alla città dispersa, soprattutto nelle regioni settentrionali: un centro urbano in cui si trovano le attività principali e uno sciame di piccoli centri o, peggio, di semplici e isolate lottizzazioni, che instaurano con il centro principale un rapporto di stretto pendolarismo, con esiti quantomeno problematici in termini di mobilità, inquinamento ed efficienza dei servizi pubblici.

In questa tendenza sono spesso i piccoli comuni a subire le pressioni maggiori: non interessa il territorio del comune per quello che può offrire al suo interno ma in funzione della sua maggiore o minore vicinanza al centro di riferimento. E questo vale indistintamente per le lottizzazioni residenziali come per i grandi centri commerciali.

Ragionando in questi termini, appare chiaro che la struttura urbana di Cassinetta di Lugagnano non è affatto scontata: a soli 26 km da Milano, questo piccolo centro ha subito, come i comuni limitrofi, un aumento della popolazione che, visto il continuo calo delle nascite, è da ascrivere quasi totalmente alle migrazioni dai centri maggiori.

Dal 1961 al 2001, la popolazione di Cassinetta è aumentata del 48,05% e, solo nel decennio 1991-2001, si è registrato un incremento del 31%, passando da 1152 a 1519 abitanti, per arrivare, infine, ai 1742 del 2005, dato di riferimento per l’intero Pgt. [2] Un trend che trova conferma anche in altri piccoli comuni limitrofi.

Tuttavia, Cassinetta è riuscita a mantenere intatto gran parte del suolo agricolo, che oggi rappresenta la maggior percentuale del territorio comunale; è presente un piccolo nucleo artigianale produttivo nella zona sud-ovest, ma la maggior parte degli occupati si continua a registrare proprio nel settore agricolo.

Le risorse

Strettamente intrecciato al problema della localizzazione e delle dinamiche territoriali c’è quello delle risorse economiche. Con il crescere del deficit nazionale e il consolidarsi del decentramento amministrativo degli ultimi anni, ad un aumento delle funzioni e delle responsabilità degli enti territoriali non ha fatto seguito un aumento dei trasferimenti, che, anzi, continuano a diminuire. Il problema del reperimento delle risorse per far fronte a spesa corrente e investimenti è dunque cruciale e lo è in particolar modo per i piccoli comuni che ricevono in misura minore l’apporto dei capitali privati.

In questo quadro, la possibilità di ricorrere agli oneri di urbanizzazione per coprire le voci di spesa corrente ha innescato un meccanismo perverso: le amministrazioni locali concedono più facilmente pezzi del proprio territorio perché con quello che incamerano in termini di oneri di urbanizzazione e ICI possono coprire parte delle spese correnti.

La risposta di Cassinetta di Lugagnano, in questo senso, è stata invece molto netta. Quella che era un’idea molto chiara solo del sindaco, Domenico Finiguerra, è diventata una scelta dell’intera comunità, grazie alle assemblee pubbliche tenutesi nelle fasi iniziali della redazione del Pgt.

L’elemento più interessante della fase partecipativa è che i cittadini sono stati messi di fronte ad una scelta precisa: finanziare la spesa corrente e gli investimenti con gli oneri di urbanizzazione, investendo, quindi in nuove lottizzazioni, oppure intervenire sulla fiscalità locale, permettendo così anche l’accensione di mutui per investimenti?

La scelta dei cittadini è stata sostanzialmente quella di non alterare il patrimonio ambientale di Cassinetta di Lugagnano lasciando spazio a nuove edificazioni, accettando, quindi, anche un aumento delle imposte comunali. In questo modo, la redazione stessa del piano si libera di un fardello pesante, quello del “fare cassa” con il territorio.

Il Piano e la crescita zero

Valorizzazione intesa come tutela del territorio e del paesaggio agricolo, minimizzazione del consumo di suolo e compatibilità degli interventi con le risorse disponibili: sono gli elementi strategici del Pgt di Cassinetta di Lugagnano, in funzione dei quali vengono definiti tutti i singoli interventi.

Redatto da Antonello Boatti e definitivamente approvato nel giugno 2006, il piano si compone di una documentazione chiara, accurata e molto dettagliata. Rispetto alle premesse fatte, è interessante soffermarsi sul Documento di piano, un documento che ha carattere conoscitivo, programmatorio e di indirizzo, che non interviene direttamente sulla conformazione della proprietà [3]. E’ proprio con il Documento di piano che vengono affermati i principi ispiratori dell’intero Pgt:

“Il Documento di Piano individua gli obiettivi strategici di politica territoriale a partire dal miglioramento e dalla conservazione dell’ambiente per tracciare le linee dello sviluppo sostenibile del Comune di Cassinetta di Lugagnano in coerenza con le previsioni di carattere sovracomunale. In esso sono indicati gli obiettivi quantitativi di sviluppo complessivo del PGT comprendendo in essi il recupero urbanistico e la riqualificazione del territorio minimizzando il consumo di suolo. […]

Il Documento di Piano inoltre nel riassumere le principali indicazioni riguardanti l’utilizzazione, il miglioramento e l’estensione dei servizi pubblici e di interesse pubblico determina la compatibilità degli interventi previsti con le risorse economiche attivabili dalla pubblica amministrazione.

In considerazione della dimensione del comune in termini di popolazione residente (abitanti 1.742 al 31.12.2005) e delle caratteristiche particolarissime del suo tessuto edilizio storico di assoluto pregio ed unicità si ritiene innanzitutto che non esistano le condizioni e neppure le utilità di ricorrere a strumenti di compensazione, perequazione ed incentivazione urbanistica di cui all’art. 11 della LR 12/2005. […]”[4]

Favorire il recupero e minimizzare il consumo di suolo: ma come si arriva alla crescita zero? La risposta in realtà è abbastanza banale: mediante un’approfondita analisi demografica, volta a determinare il realistico fabbisogno abitativo di Cassinetta di Lugagnano da qui al 2015.

Lo studio, infatti, conduce ad una previsione molto contenuta: l’incremento della popolazione previsto al 2015, in termini di nuovi abitanti, è del 3,6%. A ciò, si aggiunge l’incremento della domanda di abitazioni legata alla formazione di nuovi nuclei familiari: quest’ultima è considerata una domanda fisiologica, indipendente cioè dall’aumento del numero degli abitanti.

Su queste basi, viene formulata una previsione di 695 nuovi abitanti, cui corrisponde una capacità insediativa residenziale, aggiuntiva rispetto all’esistente, di 695 nuovi vani (abitante/vano). Alla nuova domanda abitativa si farà fronte attraverso:

- recupero puntuale di edifici

- riconversione, mediante piani attuativi, di aree produttive incompatibili con il tessuto residenziale circostante, con una quota del 20% di edilizia convenzionata e una quota del 5% di edilizia a canone sociale

- completamento di previsioni vigenti (piani di lottizzazione e di recupero)

- saturazione delle aree già edificate (zone B).

Di fatto, non verrà consumato suolo agricolo: le previsioni di nuova edificazione e di trasformazione e recupero del patrimonio esistente sono concentrate dentro il tessuto consolidato e compattano ulteriormente un insediamento dai confini abbastanza netti.

Fin qui la domanda abitativa. Ma anche sul fronte delle previsioni di nuovi insediamenti commerciali, il Pgt opera scelte coerenti con i principi ispiratori: nessuna grande struttura commerciale [5], incremento delle medie e piccole strutture esistenti entro i parametri fissati dal piano, nuove attività ricettive, “ che confermino e incrementino la vocazione turistica del comune[6]

Infine, il potenziamento della rete dei servizi. In particolare, il piano prevede:

- il recupero delle piste ciclabili esistenti, legate alla rete del Naviglio e dei canali secondari, e la realizzazione di nuovi tratti per l’implementazione della rete;

- la costruzione di una nuova scuola dell’infanzia, volta a soddisfare la domanda esistente e quella prevista;

- una serie di micro-interventi su spazi verdi, strade, parcheggi ed edifici, finalizzati all’ottimizzazione e al completamento delle reti esistenti.

Complessivamente, la dotazione di standard residenziali passa da un rapporto di 29,17 mq/abitante ad un rapporto di circa 30,91 mq/abitante [7], mentre quella di standard per attività produttive passa da una percentuale standard/superficie del 2,09% ad una percentuale del 12,48%.

Un ultimo aspetto, non secondario quanto a importanza, è rappresentato dal rapporto con le previsioni del Piano territoriale di coordinamento (Ptgp) della Provincia di Milano. La previsione che interessa direttamente il territorio di Cassinetta di Lugagnano è quella di una nuova arteria stradale tra lo svincolo di Magenta dell’A4 e Albairate e la tangenziale ovest di Milano, sfruttando in parte la viabilità esistente.

Si tratta di una previsione ritenuta non in linea con i principi e le scelte del Pgt, il cui costo verrà finanziato con la legge 345/1997 per l’accessibilità all’aeroporto di Malpensa. Nel Documento di piano si rileva che:

“[…] Questa nuova infrastruttura viabilistica coinvolge il territorio di Cassinetta nella sua parte est nel cuore del Parco del Ticino con un forte impatto per l’ambiente e il paesaggio che con questa nuova previsione verrebbe deturpato nel suo carattere agricolo. […]” [8]

E ancora:

“[…] Il collegamento tra la S.S. 11 a Magenta e la tangenziale ovest così come previsto dal progetto definitivo dell’ANAS, è una scelta assolutamente discutibile sul piano strategico della pianificazione del trasporto interferendo su un territorio ad altissima qualità ambientale all’interno del Parco regionale della Valle del Ticino in un’area ricca di fontanili, rogge e canali di irrigazione ancora molto interessata dall’attività agricola.

Cassinetta di Lugagnano si presenta in sostanza come un insieme storico – paesaggistico prezioso da valorizzare messo a repentaglio da un’arteria come il collegamento tra la S.S. 11 a Magenta e la tangenziale ovest così come previsto dal progetto definitivo dell’ANAS. […]

Dal punto di vista trasportistico sempre nella Valutazione Ambientale Strategica – Rapporto ambientale – conclude che non è neppure motivata e documentata la necessità e la dimensione della infrastruttura proposta. […]”[9]

La scelta, chiaramente esposta nello stesso Documento di Piano, è quella di non tenere conto nel Pgt la previsione del nuovo collegamento e, anzi, vengono proposte due alternative che permetterebbero di mantenere l’integrità del territorio agricolo di Cassinetta.

Un piano conservatore?

L’immagine dall’alto di Cassinetta di Lugagnano da qui al 2015 sarà probabilmente molto simile a quella di oggi: un centro abitato dai confini ben definiti e ampie distese coltivate intorno. Eppure, una vista dal basso, ad altezza d’uomo, ci restituirà forse un’immagine molto diversa, di una realtà trasformata, fisicamente e socialmente, rispetto a 10 anni prima.

Se accettiamo l’idea che il piano sia strumento per governare le trasformazioni del territorio, dobbiamo anche accettare l’idea che la trasformazione non sia legata solo alla crescita della popolazione e, conseguentemente, a quella edilizia.

Cassinetta di Lugagnano in 10 anni farà i conti con un aumento degli abitanti di circa il 3,6 % e con una diversificazione della domanda dovuta a nuovi nuclei familiari: è in funzione di questi dati che, attraverso il piano ha dato un indirizzo preciso alla trasformazione che inevitabilmente il territorio è destinato a subire. Un indirizzo talmente deciso da contestare anche le scelte operate a livello provinciale con il Ptcp nel momento in cui mettono a rischio l’integrità di quel paesaggio agricolo riconosciuto come bene da tutelare.

Nel 2015 ci sarà una rete ciclabile più fitta, una nuova scuola, insediamenti in dismissione riconvertiti e, soprattutto, le nuove generazioni potranno ancora godere del paesaggio agricolo che è arrivato fortunatamente fino ad oggi. Il Pgt conserva di fatto il patrimonio storico e naturalistico governando la trasformazione delle aree urbanizzate.

C’è qualcosa di replicabile in questo modello? Sicuramente: i principi di fondo. Svincolare il futuro del territorio dalle esigenze di bilancio, pensare a cosa è giusto tutelare, capire quali siano i margini della trasformazione, puntare a minimizzare il consumo di suolo. Soprattutto, ricominciare ad ancorare il piano a previsioni realistiche.

La crescita zero, forse, non è di per sé replicabile e realisticamente bisogna mettere in conto che una città abbia anche necessità di nuovi insediamenti: ma è nel processo e nelle premesse prima ancora che negli esiti l’elemento più significativo di questa esperienza. Un processo che non interessa unicamente la pianificazione comunale, ma potrebbe (e dovrebbe) ispirare anche quella sovracomunale e di area vasta: infatti, per quanto il Pgt di Cassinetta di Lugagnano possa essere preso ad esempio, il suo successo dipenderà anche dalla risposta dei territori limitrofi alla pressione insediativa generata dalle nuove infrastrutture di livello regionale.

[1]Il Piano di Governo del Territorio è stato istituito con la legge regionale lombarda n. 12 dell’11.03.2005 e smi. Il piano si compone di tre documenti fondamentali: Documento di Piano, Piano dei Servizi e Piano delle Regole (artt. 7-10 L.R. 12/2005).

[2]Documento di Piano – Elaborato 01 – Quadro conoscitivo del territorio comunale

[3]Art. 8 della LR 12/2005 e smi

[4]Documento di Piano – Elaborato 3 DP – Obiettivi di sviluppo residenziale e produttivo, sostenibilità ambientale, compatibilità degli interventi con le risorse economiche

[5]“Considerate le attuali ipotesi di PGT e i programmi regionali in vigore per la provincia di Milano non si prevedono nuove strutture di grandi dimensioni”, (Documento di piano – Elaborato 1.L – Piano del Commercio. Norme di programmazione, art.4).

[6]Ibidem

[7]La legge regionale 12/2005 prevede un rapporto minimo di 18 mq/abitante

[8]Documento di Piano – Elaborato 2 DP – Quadro ricognitivo

[9]Ibidem

Tutti convengono sulla necessità di rilanciare il turismo valorizzando i nostri paesaggi e l’offerta enogastronomica, tutti convengono sulla necessità di tutelare le produzioni agricole italiane, tutti convengono sulla necessità di conservare il nostro patrimonio ambientale per difenderci dall’inquinamento e favorire l’ossigenazione dell’aria... Ma pochi sanno che tutto questo è fuori della realtà. La realtà è un’altra: dal 1982 al 2005, in appena 25 anni, ci siamo mangiati quasi 6 milioni di ettari di suolo agricolo, con una riduzione della superficie coltivata di 3,1 milioni di ettari.

Per suonare la sirena di emergenza il Presidente di Agriturist, Vittoria Brancaccio, ha preso carta e penna e ha scritto al Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, esponendogli i dati ISTAT che documentano questo saccheggio, e ricordando come in Germania, già nel 1999, l’allora ministro dell’Ambiente, Angela Merkel (oggi Primo Ministro), emanò una legge che obbligava, per nuove costruzioni, a recuperare almeno il 70% di suolo già urbanizzato. L’ha seguita il Primo Ministro britannico Tony Blair, nel 2001, con una legge simile che ha permesso la successiva crescita urbanistica di Londra senza rubare un solo ettaro alle campagne circostanti.

Aggiunge, senza alcuna illusione, il Presidente di Agriturist: “Autorevoli studi di urbanistica affermano che, quando saranno realizzati i piani di sviluppo territoriale già approvati dai comuni per i prossimi anni, il ritmo di sottrazione di suolo all’agricoltura segnerà una ulteriore rilevante accelerazione”.

[omettiamo di riportare la tabella, che è comunque consultabile nel file allegato]

“Ci rivolgiamo a Lei, signor Presidente - conclude il Presidente di Agriturist - perché la sistematica sottrazione di suolo all’agricoltura è un problema intersettoriale che investe ampiamente l’interesse nazionale sotto il profilo agricolo, turistico, paesaggistico, ambientale. Ed esprimiamo l’auspicio che Ella voglia attivare immediatamente una iniziativa governativa per affrontarlo efficacemente”.

Il messaggio è stato inviato per conoscenza ai ministri dell’Agricoltura, Luca Zaia, e dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, e al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega per il Turismo, Michela Vittoria Brambilla.

Postilla

Ripetiamo sempre le stesse cose, peerchè chi si occupa di consumo di suolo commette sempre gli stessi errori. Anche Confagricoltura commette l’errore di confondere la riduzione della superficie agraria con l’aumento delle aree urbanizzate. È un errore grave, simmetrico rispetto a quello di calcolare l’aumento dell’urbanizzazione basandosi sulle quantità misurate con il programma Corine di rilevamento satellitare.

Come abbiamo più volte scritto in eddyburg, nel primo caso si sommano alle superfici urbanizzate tutte quelle che corrispondono all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali da agricole sono diventate incolte o restituite al “selvatico”. Nel secondo caso non si contano le aree che sono urbanizzate dalle infrastrutture e dall’insediamento sparso, che occupino con continuità superfici inferiori a 25 ettari.

Che il consumo di suolo, utile solo ai cementificatori parassiti, sia gigantesco è indubbio; ma sparare cifre sbagliate contribuisce a consolidare i cementificatori.

Su un tema di attualità ( urban sprawl o étalement urbain) per la ricerca urbana, a causa della dinamica manifestata da questo fenomeno in molte città, metropoli e magalopoli in tutto il mondo, questa opera collettiva si pone come una riflessione scientifica a favore del rilancio della pianificazione.

Anche se lo sguardo critico si rivolge all’Italia, il volume ha il merito di mettere in evidenza le specificità del fenomeno nei diversi contesti locali, sottolineando quindi che non esiste un modello di città che sia stato capace di arginare spontaneamente il processo di dispersione insediativa, ma che spetta agli attori pubblici e privati di farsi carico con preoccupazione di questa incessante diluizione dei tessuti insediativi.

Preceduta da un’introduzione di Edoardo Salzano che evidenzia in maniera esplicita la tesi avanzata nel volume, e cioè il riconoscimento delle consequenze nefaste della dispersione urbana e i rimedi suscettibili di contrastarle, la prima parte, a carattere descrittivo, fornisce un resoconto dei fenomeni indotti dal successo della città diffusa. Per gli autori si tratta di un vero e proprio fenomeno di « anarchia urbana ». Anche se l’Italia non dispone ancora di un osservatorio nazionale sul consumo di suolo ( che va a detrimento del paesaggio e del patrimonio forestale), alcune regioni italiane come ad esempio l’Emilia Romagna sono in grado di quantificarne la rilevanza: in questa regione la crescita del territorio urbanizzato è stata del 73% fra il 1976 e il 1994 e del 52% nel decennio 1994-2003. Dunque negli ultimi trent’anni, la crescita è stata del 163%: una nuova regione urbanizzata e mezza che è venuta ad aggiungersi nel corso del tempo a quella preesistente.

La seconda parte ha un carattere più normativo come evidenzia chiaramente il primo capitolo (curato da Maria Cristina Gibelli) sui costi collettivi della dispersione urbana e sugli strumenti di pianificazione che potrebbero anticiparla e prevenirla.

L’analisi in questa parte del volume si basa anch’essa prevalentemente su esempi di città italiane, ma il riferimento è anche a ricerche europee (soprattutto francesi) e americane, come ampiamente evidenziato nelle bibliografie.

Al volume è allegata in appendice la proposta di legge (2006) dell’associazione Eddyburg, molto impegnata a combattere la dispersione insediativa. L’associazione dispone di un sito internet (eddyburg.it) che è mediamente visitato da 100.000 accessi al mese.

L’interesse di questa opera è plurimo. Le analisi esplicative sulla dispersione insediativa manifestatasi negli ultimi tre decenni ne attribuiscono in primo luogo la responsabilità all’assenza di una legge urbanistica nazionale aggiornata (la legge vigente risale al 1942) in una situazione in cui, con il supporto di molte leggi urbanistiche regionali, i comuni beneficiano di margini di autonomia sempre più ampi nel concedere i permessi di costruire. Gli autori deplorano una situazione generale di crescente “ laissez-faire”, particolarmente acuta nella regione Lombardia o ancora nel territorio del comune di Roma dove il paesaggio rurale sembra destinato ad essere annullato sotto l’invasione delle lottizzazioni.

Nel saggio di Piero Cavalcoli si evidenzia invece la lungimiranza della Provincia di Bologna che si propone di porre sotto controllo il fenomeno attraverso una strategia fondata sul policentrismo e la « diffusione concentrata ». Questa regione sta anche promuovendo l’associazionismo volontario intercomunale, sperimentando altresì un modello di compensazione territoriale fra i comuni associati.

La specificità dell’opera collettiva curata da Gibelli e Salzano risiede tuttavia non tanto nella semplice constatazione delle dispersione urbana, un fenomeno che molti paesi stanno subendo, quanto nella esplicita presa di posizione a favore di un rilancio della pianificazione e di una azione pubblica in difesa del territorio non urbanizzato. Questa posizione non raccoglie un consenso generalizzato: anzi, è criticata da molti amministratori locali, urbanisti e persino ricercatori che stanno delegittimando in maniera radicale le ragioni del piano poiché esso rischia di perturbare la dinamica immobiliare. Quella che è comunque una precisa scelta culturale del volume è corroborata delle preoccupazioni crescenti di cittadini e comitati di cittadini che sempre più si stanno organizzando a livello locale. L’esempio più noto è quello del conflitto fra promotori immobiliari e abitanti a proposito di una lottizzazione a villette nella Val d’Orcia in Toscana. Gli abitanti si sono organizzati per proteggere il borgo storico di Monticchiello e le loro iniziative hanno avuto una risonanza molto ampia da parte dei media e dalla stampa quotidiana che hanno denunciato la debolezza dello stato e l’inerzia delle regioni e dei comuni nell’utilizzare gli strumenti di cui potrebbero disporre.

I lettori potranno anche verificare la capacità degli autori (urbanisti e ricercatori) di inserire le loro riflessioni in una prospettiva storica. Per gli autori lo sprawl (il termine utilizzato dai ricercatori e dai mezzi di comunicazione anglo-americani) costituisce non soltanto una minaccia per il patrimonio urbano e rurale, ma per i fondamenti stessi della storia della città in Italia e in Europa. Se infatti l’urbanizzazione a “bassa densità” si iscrive nella continuità dell’esperienza urbana di alcuni paesi (come gli Stati Uniti), non è questo certamente il caso dell’Italia. Questo riferimento alla dimensione di lungo periodo – mentre generalmente i ricercatori e gli urbanisti di questo inizio del nuovo secolo hanno molte difficoltà a conciliare tecnica e storia- ha significative convergenze con le idee difese nel volume collettivo La ville insoutenable[1] dove è pubblicato anche una saggio di Maria Cristina Gibelli.

No sprawl è un’opera di cui si raccomanda la lettura a tutti coloro che si interrogano sulla opportunità a medio termine della dispersione urbana, ma presenta un interesse anche per tutti coloro che continuano a dubitare della opportunità dell’intervento pubblico nella gestione spaziale delle città e delle campagne in una fase in cui la tematica dello Sviluppo Sostenibile si inscrive invece progressivamente nel sentire comune.

[1] .A. Berque, Ph. Bonnin et C. Ghorra-Gobin (ed.) La ville insoutenable, Paris, Belin, 2006.

ROMA - Ci sono le ville e le villette, i capannoni industriali e i centri commerciali, i magazzini e gli spazi espositivi. C’è un reticolo di cemento che invade silenziosamente il territorio, si chiama tecnicamente "dispersione urbana" o, più ottimisticamente, "città diffusa". È la fine della divisione tra città e campagna a cui si assiste ormai da anni, è l’avvento della città unica, senza confini. Milano, Roma, Napoli, Torino sono gli agglomerati più vasti dove si assiste all’espansione continua nello spazio circostante. Una trasformazione geografica epocale che dilaga senza incontrare ostacoli, un’aggressione dei terreni dovuta anche alla svendita incontrollata di pezzi di territorio messa in atto dai comuni, autorizzata dai sindaci per fare cassa.

In Italia l’80 per cento della popolazione vive ormai nel 5 per cento del territorio, lo sottolinea il rapporto 2008 della Società geografica italiana "L’Italia delle città, tra malessere e trasfigurazione". In duecento pagine i curatori fanno un’analisi di quello che sta accadendo sul suolo, ai paesaggi. Le città sono cambiate, dicono i geografi, per l’immaginario collettivo sono ancora quelle di un secolo fa, ma a quell’idea corrispondono ormai solo i centri storici, al posto della vecchia urbs ci sono agglomerati senza confini e senza gerarchie.

«Il 5 per cento del territorio italiano è occupato da agglomerazioni urbane dove vive l’80 per cento della popolazione mentre il 7 per cento degli abitanti occupa il 20 per cento», spiega Giuseppe Dematteis, coordinatore del rapporto e professore di Geografia urbana al Politecnico di Torino. «Fuori dalle grandi agglomerazioni c’è una dispersione che consuma suolo con danni rilevanti per la campagna e il paesaggio, per la mancanza di infrastrutture. È una devastazione permessa dai comuni che danno le autorizzazioni pur di ricavare risorse, i comuni infatti concedono autorizzazioni per costruire case in zone agricole o mettere fila di capannoni lungo le strade, per questo incassano gli oneri di urbanizzazione e l’Ici, sono cifre enormi, a cui si aggiungono tutte le collusioni tra costruttori e amministratori». Su questa svendita del territorio non ci sono dati: «Il grosso del cambiamento c’è stato fino agli anni 70, con le ondate migratorie, ma non è mai terminato e continua l’aggressione di terreni sempre più rari».

La città diffusa, è scritto nel rapporto, è una realtà non soltanto italiana ma nel nostro Paese ha assunto una pervasività e un’intensità uniche, come nelle aree di industrializzazione nel Centro-Nord. Città che si ramificano, si dissolvono dando vita a un altro fenomeno incontrollato, quello della dispersione abitativa. «È terribile vedere le aree di pianura invase da case», dice Edoardo Salzano, urbanista che ha dedicato molte analisi e battaglie allo sprawl. È questo il termine inglese usato già negli anni Cinquanta per la crescita urbana senza regole. «Nelle altre città europee c’è una linea netta tra città e campagna, da noi c’è una linea continua autorizzata dalle leggi. Il fenomeno, che è sempre esistito, è andato via via peggiorando, un decreto alcuni anni fa, consentì di utilizzare i finanziamenti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per il bilancio comunale, da quel momento i sindaci con difficoltà di cassa hanno aumentato il numero delle concessioni edilizie. Ora come se non bastasse c’è stato il decreto legge del giugno scorso, di cui nessuno ha parlato, che impone a comuni, province e regioni di fare l’elenco delle proprietà immobiliari per venderle o metterle a reddito, risorse pubbliche devono essere trasformate in qualcosa che renda». Intanto il territorio si trasforma e diventa altro. Addio quindi alla città e addio anche alla campagna. Al loro posto ecco le aree metropolitane, la regione-urbana, le città-regioni, termini burocratici per esorcizzare il fantasma della megalopoli.

(fonte: Cresme)

Anno 2000: i Comuni possono spendere i soldi delle licenze edilizie SOLO a fronte di investimenti.

Anno 2001, ottobre: i Comuni sono autorizzati a spendere i soldi delle licenze edilizie per fare quello che gli pare, grazie al nuovo Testo Unico sull’edilizia.

Arriva il boom edilizio.

Anno 2000: 159.000 abitazioni costruite.

Anno 2007: 298.000 abitazioni costruite e 38.000 ampliamenti di abitazioni.

Le licenze raddoppiano in 7 anni, il territorio italiano viene cementificato da palazzine, nano grattacieli, hangar, seconde, terze, quarte ville, parcheggi, garage. I Comuni raddoppiano gli incassi senza alcun obbligo di destinazione d’uso. Hanno la licenza di uccidere il territorio.

Il territorio comunale, lo dice la parola stessa, è patrimonio “comune” dei cittadini che lo abitano. Appartiene a loro. Il bosco, il prato, la vista panoramica, un posto per passeggiare o far giocare i propri figli, il parco, i giardini o, anche, un semplice spazio vuoto per vedere l’orizzonte. Chiarito che il territorio è dei cittadini e non del sindaco fasciato a festa e dei suoi assessori che sono SOLO dipendenti comunali facciamoci qualche domanda.

Dove sono finiti i soldi delle licenze edilizie concesse senza più l’obbligo di investimento? Nuovi servizi, asili, piste ciclabili, trasporti pubblici non si sono visti. Farei un’indagine, Comune per Comune.

Quanto ancora si può cementificare il paesaggio italiano? Si può solo tornare indietro, decementificare. Il turismo sta morendo di cemento.

Quali sono le maggiori imprese edili che hanno ottenuto le licenze? I costruttori comandano ormai più del sindaco Moratti e del sindaco Topo Gigio, devono uscire dai consigli comunali. Sono lì, anche se non sono stati eletti.

Il processo infernale messo in moto dal Testo Unico del 2001 va fermato. Bisogna riportare le lancette al 2000. Meno cemento, meno soldi per i partiti, i veri padroni dei Comuni. I cittadini devono presentarsi in consiglio comunale per chiedere i motivi dello scempio edilizio e documentare l’incontro con una telecamera.

Il Bel Paese è nostro, riprendiamocelo.

Postilla

Consumo di suolo e crescita smisurata degli investimenti immobiliari sono facce della stessa medaglia. Mediatori e complici a volte obbligati e a volte compiacenti i sindaci, incapaci di gestire i bilanci senza svendere il territorio comune (il futuro dei loro figli). Mentre s’impoverisce il patrimonio comune si accrescono i patrimoni privati, senza neppure che si riesca a tosare in modo adeguato la rendita parassitaria. Fino a quando la politica lascerà queste verità in esclusiva a Beppe Grillo?

”La vie moderne demande, attend un plan nouveau,

pour la maison et pour la ville

(Le Corbusier, 1931)

Ville Radieuse: un nome che evoca un sogno, il sogno di una nuova città a misura d’uomo, concepita per sostituire quella malsana città compatta in cui tutte le funzioni si mescolano senza soluzione di continuità. E’ il mito del ‘900, quello del modernismo, tanto dibattuto nei CIAM e nelle Università, un mito che pretendeva di assegnare ad ogni attività umana i suoi spazi ben definiti e che tentava di ordinare quella complessità che per millenni aveva contraddistinto qualsiasi ambiente urbano. Un mito che rievoca inevitabilmente il suo principale creatore: Le Corbusier.

Radiant City, film-documentario prodotto dal National Film Board Canadese, ricorda quel mito e spiega ai più, criticandolo molto esplicitamente, uno dei suoi prodotti più devastanti (o almeno ritenuto tale): il suburbio.

Protagonista è la famiglia Moss, una tipica famiglia che decide di comprare casa in un suburbio, spinta dalle più classiche delle motivazioni: un prezzo ragionevole per uno spazio dove cinque persone, genitori e tre figli, possono vivere comodamente, parcheggiare senza problemi la loro macchina ed essere protetti dal caos della downtown. Si tratta – come si scopre alla fine – di una famiglia costruita a tavolino, ma ciò non toglie nulla al realismo della narrazione.

Radiant City ci racconta il suburbio per quello che è: un agglomerato di case, dove lo spazio pubblico è inesistente, da cui e in cui non puoi muoverti senza una macchina – ma chiaramente ce ne vogliono almeno due per nucleo familiare – e in cui, nonostante i diversi pezzi vengano chiamati community, di quel senso di comunità tanto ricercato non c’è nemmeno l’ombra. Ogni membro della famiglia, ad eccezione della figlia più piccola, si relaziona in maniera diversa con lo spazio in cui vive, rappresentando così diversi “personaggi tipici” del suburbio.

La mamma, Jane, accetta di buon grado la vita suburbana, perché le offre una casa nuova, grande, tutta sua, anche se la contropartita è dover pianificare mese per mese gli spostamenti dell’intera famiglia. Il padre, Evan, un po’ meno entusiasta di quella vita, tenta di nascondere le sue frustrazioni e le sue reali aspirazioni, al punto di farci credere che per lui le due ore passate ogni giorno in macchina imbottigliato nel traffico di una comunissima highway siano salutari, perché può rilassarsi, pensare alla sua vita, ascoltare musica.

E’ intorno a lui che ruota una delle “chicche” del film, un musical fai-da-te ( Suburbs – The Musical) che ironizza sulla vita suburbana, celebrando in particolare la sacralità del giardino:


The mower clips

the tender tips

row by row

in even strips

the sharped blade

beheads the foe

and as it flies you civilize

the earth below

here it cries

circumcise

mow...

Notice your neighbours

engaging in similar labours

toiling over their turf

which is perfectly verdant and bright

my grass is greener

and grows with a nicer demeanor...

la falciatrice taglia

le tenere punte

riga per riga

in strisce regolari

la lama tagliente

decapita il nemico

e mentre vola tu civilizzi

la terra sotto i tuoi piedi

ecco che piange

si purifica

falcia...

Guarda i tuoi vicini

impegnati negli stessi lavori

che lavorano sodo sul loro prato

verdeggiante e luminoso

la mia erba è più verde

e cresce molto meglio...

I due figli, Nick e Jennifer, rappresentano altre due “costanti”: il primo, impegnato in giochi macabri, rappresenta l’effetto degenerativo della crescita in un ambiente desolante e triste come il suburbio. La seconda, invece, va in palestra (la Gymtastics!), suona il piano e fa karate, simulando così quel superimpegno cui invasati genitori sottopongono spesso i loro figli nell’illusione di dargli una scelta che loro, sostengono, non hanno mai avuto.

L’interesse di questo pseudo-documentario non è tanto nella novità delle informazioni: sui suburbi si è detto e scritto tanto e, tutto sommato, non ci viene detto nulla di nuovo rispetto a ciò che già sapevamo. Radiant City, però, riesce a dare una panoramica esaustiva del fenomeno, affrontando quasi tutti gli aspetti e i problemi della vita suburbana e rendendo il tema accessibile al largo pubblico. Le vicende e le emozioni della famiglia Moss si alternano alle spiegazioni degli “specialisti” – architetti, pianificatori, scrittori e filosofi – e ai vari dati statistici – quanto spazio spreca il suburbio, quanto sono più obesi i giovani abitanti suburbani rispetto ai loro coetanei cittadini e via discorrendo.

Chi guarda Radiant City senza essersi mai posto il problema di che cosa significhi la vita suburbana di fronte alle informazioni chiare e discretamente approfondite del film probabilmente capirà un po’ meglio l’ambiente in cui vive. Come spesso accade, questo non basterà a risolvere il problema, ma, probabilmente, qualcuno resterà meno insensibile di fronte a quelle distese di terreno occupate da migliaia di villette disposte ordinatamente lungo strade deserte o di fronte a tristi centri commerciali persi nel vuoto.

In Italia la situazione è notevolmente diversa. Le nostre grandi città hanno periferie tristi e degradate, ma nulla di lontanamente paragonabile ad un suburbio. C’è un problema di dimensione: le grandi città italiane sono decisamente più piccole delle grandi città nordamericane. Ma non solo. In Italia sono troppe e troppo pesanti le sedimentazioni storiche per pensare di costruire senza porsi il problema di un centro, dei servizi e soprattutto dello spazio pubblico.

La storia ci ha consegnato una realtà in cui oltre le grandi città iniziano i piccoli comuni, sia da un punto di vista culturale che spaziale. Non è infrequente che chi non può permettersi il centro della grande città preferisca fare il pendolare dal piccolo comune limitrofo piuttosto che finire in periferia.

Certo, anche il Belpaese ha le sue “villettopoli”, ma si tratta di piccole lottizzazioni, lontane dai suburbi che si estendono per chilometri e chilometri. E infatti, l’italiano che guarderà Radiant City tirerà probabilmente un sospiro di sollievo nel vedere raccontato un fenomeno che qui fortunatamente non ha mai preso piede.

Tutto fantastico, quindi? Non proprio, perché la storia non basterà a metterci in salvo: forse non avremo mai una Evergreen (il nome della community in cui vivono i Moss), ma il rischio che corrono le nostre città e in generale il nostro territorio è comunque molto alto e le cronache dei giornali ce lo dimostrano. E se scaviamo un po’, scopriremo che all’origine di questo rischio c’è una parentela significativa con il suburbio nordamericano.

Uno dei concetti che i tecnici e gli studiosi intervistati dai registi di Radiant City rimarcano spesso è che il suburbio sia un prodotto del dopoguerra ed è alle teorie moderniste che si addossa gran parte della colpa per la sua diffusione. Non si tratta di un errore, ma è bene fare qualche precisazione.

Semplificando molto un processo durato decenni, dopo la Seconda Guerra Mondiale la situazione economica delle famiglie migliora, tra alti e bassi, di anno in anno. Le tecnologie progrediscono, i sistemi di produzione si evolvono, le distanze si riducono e per molti la scelta di dove vivere diventa quasi del tutto indifferente rispetto al luogo di lavoro, perché alla base c’è la consapevolezza di potersi spostare agevolmente. Grazie all’automobile, e non solo, ogni individuo è indipendente dal resto del mondo.

C’è dunque una questione eminentemente pratica all’origine del suburbio: la diffusione dell’automobile. E a conferma di ciò c’è il fatto che proprio a partire dagli anni trenta, quando questo nuovo mezzo di trasporto cominciava a diffondersi, in America si era rotto definitivamente il rapporto tra la pianificazione delle infrastrutture e quelle degli insediamenti, che fino ad allora avevano avuto un’unica regia pubblica. Gli investitori privati cominciano ad avere maggiore libertà di manovra: acquistano terreni lontani dai centri urbani, dove costano di meno, lottizzano e vendono. Il pubblico provvederà poi a seguire le loro decisioni con la costruzione della rete viaria.

Parallelamente a questo cambiamento epocale prendono corpo le teorie anti-urbane di Le Corbusier e soci, che hanno avuto un ruolo non secondario nell’alimentare il mito della vita solitaria e lo spirito di repulsione verso la città di cui il suburbio è concreta manifestazione. Esse rientrano più o meno consapevolmente in una tradizione culturale che considera la complessità dell’ambiente urbano in modo negativo: la vita di prossimità e la condivisione dello spazio con altri individui, infatti, spingono l’uomo verso la corruzione e l’immoralità e per questo vanno combattute.

Grazie all’automobile, adesso la battaglia appare più semplice: edifici immersi nel vuoto al cui interno si cerca di riprodurre in altezza quella complessità tipica delle città. Tutt’intorno, larghe autostrade in cui il traffico e il caos della vita cittadina saranno solo un lontano ricordo. Con qualche timida opposizione, sarà questo il leit motiv della ricerca architettonica per gli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Se riconosciamo nella diffusione dell’automobile e nel consolidarsi di uno spirito antiurbano l’origine del suburbio, allora dobbiamo anche riconoscere che il Belpaese ha avuto il suo “suburbio”. Quella stessa storia che ci ha protetto dalle distese di anonime villette, non ci ha messo al riparo dalla tendenza a costruire in modo diffuso, senza la necessaria attenzione per lo spazio pubblico e con enormi consumi, di suolo e di energie. Il nostro è un suburbio fatto di villette sparse, di palazzine in cui si rinchiudono piccole enclaves familiari, in cui le città crescono per micro-lottizzazioni che spesso non fanno sistema. Il principio è lo stesso che sta dietro a Evergreen: si costruisce lì dove l’automobile permette di arrivare dal centro in tempi ragionevoli, per poter avere il proprio spazio riparato e poter evitare il caos delle città. Il modello insediativo che ne scaturisce è molto diverso, ma in proporzione altrettanto dannoso.

Tutto questo avviene in un contesto politico-amministrativo in cui il pubblico ha rinunciato già da tempo a pianificare la crescita edilizia e a controllare che quella crescita avvenga nel rispetto dei piani-proclami adottati e approvati. A cadenze ricorrenti il pubblico provvede a condonare quei piccoli e grandi disastri che la sua disattenzione ha provocato e che ormai non suscitano più né sdegno né condanne.

Ma lamentarci perché il pubblico non difende abbastanza il territorio non basta. Il “pubblico”, in fondo, è fatto di amministratori che prendono atto dei desideri delle varie Jane Moss italiane: una casa nuova a un buon prezzo, uno spazio abbastanza grande per far crescere i propri figli e stare lontani dal caos della vita cittadina. E così, fatti i dovuti distinguo, non è improbabile che una pièces teatrale dal titolo “Villettopoli – Il musical” possa chiudersi così:


Looking for a place

you'd want to call your own

looking for a place

that's always growning

not overgrown

Searching for the finest school

playgrounds and pools

sensible zoning

with rational rooms...
Alla ricerca di un luogo

che sia tutto tuo

alla ricerca di un luogo

che cresca

ma non sia sovraffollato

Alla ricerca delle migliori scuole

dei campi da gioco e delle piscine

uno zoning sensato

con alloggi razionali...

Per chi volesse saperne di più, qui c'è il sito ufficiale del film; qui, invece, una recensione pubblicata sul New York Times.

Dichiarazione di Aalborg

Ci impegniamo a svolgere un ruolo strategico nella pianificazione e progettazione urbane, affrontando problematiche ambientali, sociali, economiche, sanitarie e culturali per il beneficio di tutti.

Lavoreremo quindi per:

● rivitalizzare e riqualificare aree abbandonate o svantaggiate.

● prevenire una espansione urbana incontrollata, ottenendo densità urbane appropriate e dando precedenza alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.

● assicurare una miscela di destinazioni d’uso, con un buon equilibrio di uffici, abitazioni e servizi, dando priorità all’uso residenziale nei centri città.

● garantire una adeguata tutela, restauro e uso/riuso del nostro patrimonio culturale urbano applicare i principi per una progettazione e una costruzione sostenibili, promuovendo progetti architettonici e tecnologie edilizie di alta qualità.

Entrare nell’Era del recupero, invertire la tendenza nel consumo di suolo

Il territorio della provincia di Milano è ovunque intensamente urbanizzato: i dati Misurc [ mosaico degli strumenti di pianificazione n.d.r.] del 2006 registrano una media del 34%, distribuito in modo molto diversificato nel territorio provinciale, attorno al 10-15% nelle aree attorno al Parco Sud e fino quasi alla saturazione a Milano (63%) e oltre in molti centri del nord milanese e della Brianza. Il resto del territorio è costituito per circa il 55% da colture agricole e per la quota residua da aree naturali e forestate, da aree umide, laghi e corsi d’acqua. Anche i processi di urbanizzazione in corso sono ancora quantitativamente significativi.

L’area urbanizzabile (definita in espansione dai piani urbanistici comunali, censiti dal Misurc 2006) è mediamente pari al 13%. In 121 Comuni (su 189) è superiore al 25% del territorio e in 45 Comuni (erano 33 nella rilevazione Misurc 2005) è addirittura oltre il 50%. Rispetto ai precedenti dati disponibili si osserva un significativo aumento delle previsioni di urbanizzazione contenute nei piani regolatori.

Il verde urbano esistente, includendo aree di parco, è quantificabile attorno ai 25 m2/ab. su base provinciale, ma anche in questo caso si tratta di un dato medio che andrebbe invece letto con parametri diversi (l’accessibilità a breve distanza per i cittadini, l’esistenza di aree agricole circostanti l’urbanizzato), viste le fortissime differenze tra i vari Comuni (vi sono 25 Comuni con meno di 10 m2/ab e solo 4 Comuni con più di 100 m2/ab).

Anche il verde urbano pianificato ai sensi degli esistenti PRG presenta forti escursioni, con un valore medio di 19 m2/ab, ma realizzato grazie ai soli 5 Comuni in cui il dato è maggiore a 75 m2/ab (Bibbiano, Tribiano, Pieve Emanuele, Usmate Velate, Cusago. In 65 Comuni la disponibilità pianificata è infatti inferiore a 10 m2/ab.

Dati significativi su cui riflettere sono anche quelli relativi al volume di nuovi fabbricati e alle superfici occupate da nuove abitazioni (in crescita, come valore assoluto e pro-capite), anche se in misura inferiore al più diffuso sprawl che caratterizza altre province della Lombardia.

Le misure di protezione e tutela esistenti (il territorio della provincia di Milano è interessato da 6 parchi regionali e da 14 parchi locali di interesse sovra comunale) hanno fino a oggi svolto un’azione di contenimento dei processi di urbanizzazione e di artificializzazione del territorio. Ora è in corso l’adeguamento degli strumenti di pianificazione territoriale, sia a livello provinciale (PTCP) che comunale (PGT). È l’occasione per produrre una svolta, per riconoscere il limite oggettivo a questo processo di artificializzazione del territorio. Scegliere cioè la sfida del recupero delle aree dimesse, della riqualificazione ambientale dei comparti urbanistici e edilizi già esistenti, investendo sull’innovazione ambientale (si veda Box), stimolando e aiutando i Comuni a trovare alternative migliori alla svendita dei propri territori.

Tasso di artificializzazione reale e pianificato

1 Nella Provincia di Milano la superficie artificializzata (incluso verde urbano, aree estrattive e discariche) nel 2000, pari a 756 km2, ricopriva già il 38% del territorio (dati riferiti alla cartografi a di Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali -DUSAF- del 2000). Tale percentuale era mediamente più elevata nell’area Brianza (52%) rispetto all’area di Milano con esclusione del capoluogo (30%), ma risultava molto più elevata nella città di Milano (73%). Quella percentuale scende attorno al 10-15% nelle aree attorno al Parco Agricolo Sud Milano (i valori più bassi sono quelli dei Comuni di Morimondo, Besate, Zelo Surrigone, Nosate) e si impenna fi no a oltre l’80% in molti centri del Nord milanese e della Brianza (Sesto San Giovanni, Cusano Milanino e Vedano al Lambro con valori pari quasi al 90%).

L’artificializzazione del suolo è determinata principalmente dal residenziale e da insediamenti produttivi, rispettivamente il 20% e il 9% della superficie territoriale provinciale, più elevati nell’area Brianza (pari al 31% e 11% del territorio dell’area) e nella città di Milano (pari al 33% e 12% del territorio comunale). Le vie di comunicazione e il verde urbano rappresentano ciascuna circa il 2,5% del territorio provinciale, risultano più elevate nel capoluogo (rispettivamente 11% e 7%) e, per il verde urbano, nei Comuni di Vedano al Lambro, Monza, Segrate, Cinisello Balsamo e Corsico (oltre il 10% del territorio comunale), per le vie di comunicazione, nei comuni di Bresso, Segrate e Peschiera Borromeo (anche qui oltre il 10% del territorio comunale). Le aree artificializzate destinate ad altri usi hanno un peso decisamente minore.

2 In base al mosaico degli strumenti urbanistici comunali l’area urbanizzata pianificata (escluso il verde urbano), consolidata e in espansione, della provincia di Milano ricopre il 42% del territorio, pari a 825 km2. Considerando che il verde urbano pianificato è pari a poco meno del 10% del territorio provinciale, la superficie artificializzata pianificata risulta pari al 51% del territorio provinciale (suddiviso tra il 38% consolidato e il 13% in espansione). Il solo residenziale pianificato, pari al 16% del territorio provinciale (più di 300 km2), costituisce la categoria di destinazione funzionale più estesa e gran parte di tale superficie è consolidata, a differenza del verde urbano pianificato, la cui superficie è principalmente in espansione.

Le aree produttive, i servizi e le vie di comunicazione ricoprono ciascuna più del 7% del territorio provinciale e anche per esse gran parte della superficie è consolidata.

Superficie urbanizzata e urbanizzabile pianificata

Il mosaico al 2006 degli strumenti urbanistici comunali offre anche altri dati complementari a quelli appena esposti.

L’area urbanizzata pianificata consolidata (esclusa quindi l’area in espansione) ricopre il 34% del territorio della Provincia di Milano, con una superficie pari a 681 km2. (il dato si discosta leggermente da quello del 38% registrato dal Dusaf 2000 (ind. 5.1) anche per ragioni di codificazione, non è incluso il verde urbano). Si conferma comunque la differenza sensibile tra l’area Brianza (46% del territorio dell’area) e l’area Milano senza capoluogo (28%) e si evidenzia la criticità dei fenomeni di consumo già individuati dal Dusaf: in 45 Comuni della provincia l’area urbanizzata è oltre il 50%, tra essi vi sono tutti i Comuni con più di 50.000 abitanti residenti ad eccezione di Monza (48% del territorio comunale urbanizzato); in 24 Comuni la percentuale di urbanizzato supera addirittura il 60%, tra essi vi è la città di Milano (63%). Solo in 68 Comuni (su 189) l’area urbanizzata è inferiore al 25% del territorio, ma tra essi vi sono 39 Comuni con meno di 5.000 abitanti residenti.

Il rapporto tra superficie pianificata urbanizzata o ancora urbanizzabile e la superficie totale del territorio è un altro indice di consumo del suolo: maggiore è tale valore e maggiore è la pressione antropica esistente o potenziale sul territorio. Le dinamiche di consumo, considerando anche il potenziale, presentano il quadro in tutta la sua gravità: il valore medio della provincia è pari al 42%, con valori sensibilmente diversi per l’area Brianza (57%) e l’area Milano se si esclude il capoluogo (35%), la città di Milano presenta un valore pari al 71%. Valori superiori al 90% caratterizzano i Comuni di Cusano Dilanino, Vedano al Lambro, Sesto San Giovanni e Cerro Maggiore, valori inferiori al 10% si hanno nei Comuni di Morimondo, Besate, Ozzero, Nosate, Zelo Surrigone e Rosate.

Verde urbano reale e pianificato

1 In base alla cartografi a di Destinazione d’Uso dei Suoli Agricoli e Forestali – DUSAF -, il verde urbano esistente sul territorio provinciale, includendo aree sportive e ricreative, nel 2000 era quantificabile attorno ai 21 m2/ab (la media aritmetica dei Comuni è invece di 25 m2/ab), con fortissime escursioni tra i vari Comuni (vi sono 25 Comuni con meno di 10 m2/ab e i Comuni di Bubbiano, Tribiano, Nosate e Pieve Emanuele con più di 100 m2/ab). Considerando il solo verde urbano (parchi e giardini e aree verdi incolte), solo 17 Comuni (su 189), equamente distribuiti tra le aree di Milano e Brianza, dispongono di una superficie pari ad almeno 25 m2/ab (tra i quali Segrate, Carpiano, Vedano al Lambro e Basiglio con oltre 50 m2/ab e Monza con 39 m2/ab), mentre 84 Comuni hanno meno di 10 m2/ab (la città di Milano presenta un valore appena superiore, pari a 10,3 m2/ab).

2 Al 2006 il verde urbano pianificato dagli strumenti urbanistici comunali (considerando il verde comunale consolidato) ai sensi degli esistenti PRG è complessivamente pari a circa 5.000 ettari nell’intera provincia di Milano (pari al 2,5% del territorio) e presenta anch’esso forti escursioni tra i diversi Comuni, con un valore medio di 13 m2/ab (la media aritmetica dei Comuni è invece di 19 m2/ab). In 65 Comuni la disponibilità pianificata è inferiore a 10 m2/ab e in 5 Comuni è maggiore a 75 m2/ab (Bibbiano, Tribiano, Pieve Emanuele, Usmate Velate, Cusago).

Nella Provincia di Milano sono presenti anche 2.164 ettari di verde sovracomunale pianificato e consolidato. Considerando anche il verde pianificato in espansione, il totale del verde (comunale e sovracomunale, consolidato e in espansione) nell’intera provincia di Milano è di quasi 18 mila ettari, pari a circa il 9% del territorio provinciale.

Fabbricati residenziali di nuova costruzione

Questo indicatore consente di evidenziare le variazioni e le tendenze nel tempo della produzione edilizia, nonché la pressione determinata dall’incremento della massa edificata (spazio occupato) e indirettamente dall’uso di risorse utilizzate per la edificazione.

Nella provincia di Milano il volume di fabbricati residenziali di nuova costruzione è progressivamente aumentato dal 2000 al 2004, passando da 5,6 a 7 milioni di m3 per una variazione complessiva del 25% in più nell’ultimo anno rispetto al primo.

Il volume pro capite di nuova costruzione è stato crescente nel periodo considerato, ad eccezione del 2002, passando nell’intero periodo da 149 m3 ogni 100 abitanti residenti a 183 m3/100ab.

La superficie di abitazioni relativa agli stessi fabbricati è passata dal 2000 al 2004 da 897 a 1.070 mila m2, per una variazione complessiva del 19% in più nell’ultimo anno rispetto al primo. La superficie pro capite è passata da 24m2/100ab a 28m2/100ab, mentre il numero medio di stanze per ogni nuova abitazione è diminuito da 3,5 a 3,0 stanze.

Aree da bonificare e aree bonificate

Le aree contaminate (non ancora bonificate o già bonificate) in provincia di Milano individuate e censite all’inizio del 2007 sono pari a 3.335 ettari, corrispondenti a 168m2 per ogni ettaro di superficie del territorio provinciale. Tali aree sono maggiormente concentrate nell’area Milano (173 m2/ha di superficie dell’area) rispetto all’area Brianza (147 m2/ha di superficie dell’area).

Le aree attualmente bonificate costituiscono il 28% delle aree contaminate; il 24% delle aree ancora contaminate hanno attualmente in corso la bonifica e il 46% sono aree soggette a verifica o in altre fasi dell’iter di bonifica.

L’area Brianza è caratterizzata da una percentuale di aree già bonificate sensibilmente maggiore rispetto all’area Milano (rispettivamente 45% e 24% delle aree contaminate), che tuttavia presenta una percentuale maggiore di aree in corso di bonifica (26% dell’area Milano rispetto al 18% dell’area Brianza).

Sui 149 Comuni della provincia nei quali sono state individuate aree contaminate, le bonifiche sono state completate in 21 Comuni, i Comuni che presentano una maggiore superficie ancora da bonificare sul loro territorio sono Arese, Sesto San Giovanni e Varedo (con più di 1.500 m2/ha del territorio comunale).

Densità della popolazione

Nei Comuni della provincia di Milano la popolazione residente totale è passata dai 2,32 milioni del 1951 ai 3,71 milioni nel 2001 (con un incremento del 59%), ai 3,87 milioni del 2005 (con un ulteriore incremento del 4%). La densità di popolazione, è passata da 1.174 ab/km2 nel 1951 a 1.954 ab/km2 nel 2005. Dal dopoguerra l’incremento maggiore della popolazione è avvenuto nel primo trentennio (+60%), è rimasto quasi stabile fino al 1981, in seguito al quale c’è stata una leggera diminuzione (-3,4% nel ventennio successivo) recuperata (+4,4%) negli ultimi 5 anni.

L’area Brianza ha sempre avuto una densità di popolazione inferiore rispetto all’area di Milano, ma la differenza dal 1991 è andata diminuendo. Al 2005 l’area Brianza presenta una densità di 2.115 ab/km2, decisamente superiore a quella dell’area Milano (pari a 1.249 ab/km2 se si esclude il capoluogo). Milano città presenta attualmente una densità di oltre 7.200 ab/km2, pari a quasi 4 volte la densità media provinciale e a quasi 6 volte la densità media dei rimanenti Comuni dell’area di Milano, in passato tuttavia ha toccato densità ancor più elevate (nel 1971, con 9.530 ab/km2, aveva una densità pari a circa 10 volte quella dei restanti Comuni dell’area).

Nota

Afferma il sito web della Provincia

"L’obiettivo è delineare un’analisi d’insieme del territorio provinciale che affronti il tema della sostenibilità con un approccio integrato e capace di comprendere gli aspetti legati all’ambiente, alla società, all’economia.

Una lettura dello stato del territorio della provincia milanese con un approccio integrato che prende in considerazione una serie di indicatori, con esplicito riferimento agli Impegni di Aalborg: gestione locale della sostenibilità e delle risorse naturali, pianificazione territoriale, traffico e mobilità, salute, economia, equità e giustizia sociale.

"Il Rapporto costituisce inoltre un’importante banca dati, con interessanti disaggregazioni a livello comunale e di macroaree. Un patrimonio di informazioni e sollecitazioni da utilizzare per definire un programma per la sostenibilità della Provincia di Milano e un sistema di riferimento per orientare e verificare l’efficacia delle politiche già in atto a livello provinciale e comunale" .

Gli altri capitoli e informazioni sono scaricabili alle pagine dedicate (f.b.)

Se volessimo stilare una classifica dei temi più citati all’interno del forum “Ambiente e Territorio” della due giorni della “Sinistra e degli ambientalisti” (Milano, 1-2 dicembre) il consumo della risorsa suolo si collocherebbe sicuramente al primo posto. Consumo di suolo come uso sbagliato di una risorsa irriproducibile, scarsa, preziosa. Un bene, il suolo, inteso come bene collettivo, come l’acqua, l’aria, l’energia. Da utilizzare con parsimonia e per la cui conservazione occorrono politiche locali e nazionali. Il documento finale della due giorni milanese infatti a governo e parlamento chiede addirittura una legge che ne limiti l’uso, come da tempo hanno legiferato in Germania, Olanda e Inghilterra.

Paesi che, a partire dal riconoscimento del suolo come risorsa scarsa, si sono dati obiettivi e tempi di raggiungimento. In Italia non esistono dati sul consumo annuo di suolo. La Provincia di Milano, da tempo alle prese con il rifacimento del Piano territoriale di coordinamento territoriale (Ptcp), ha provato a quantificarne l’uso e i dati sono preoccupanti. In media, nei 189 comuni della provincia Milano compresa, il valore di consumo di suolo è oggi pari al 34% del totale. Dato destinato a crescere al 42,7% se tutte le previsioni urbanistiche esistenti dovessero realizzarsi. I piani regolatori e i piani di governo del territorio oggi vigenti hanno in seno un incremento percentuale di 8,7 punti, che corrisponde a circa 159 km quadrati. Il dato provinciale, per la verità, è un indicatore medio, che vale il 70% a Milano e nei comuni di prima corona, 66, 57 e 35% rispettivamente nella Brianza occidentale, centrale e orientale, 31% nel Castanese e Magentino, 60% nell’Alto Milanese e Sempione e 19% nel Sud Milano. Quest’ultimo risultato confortante è reso possibile dall’esistenza dal 1990 del Parco regionale agricolo Sud Milano, che in molti, a destra e a sinistra, vorrebbero modificare.

La letteratura scientifica sostiene che, superato il limite del 55%, un territorio è nell’impossibilità di rigenerarsi dal punto di vista ecologico e ambientale. Il Ptcp, presentato in Giunta provinciale più di due mesi fa e ancora fermo al palo, pone – e sarebbe la prima volta per il nostro Paese – per il territorio milanese un obiettivo strategico e anche quantitativo: consentire un incremento del 5% rispetto alle previsioni urbanistiche in corso, portando il dato medio al 45% del totale della superficie provinciale. Un obiettivo non rivoluzionario, riformistico si potrebbe dire, ma che pare non bastare a una certa cultura politicoamministrativa milanese che ancora non pone limiti per una risorsa scarsa e chiari obiettivi di sostenibilità. Un incremento insediativo contenuto, quello previsto dal Ptcp, che dovrà collocarsi nelle aree dismesse, lungo le linee di forza del trasporto pubblico, nei poli provinciali attrattori di servizi a scala sovracomunale.

Per evitare nuovo spreco di territorio, per garantire i parchi regionali sottoposti a violenti attacchi da parte del centro destra e non solo, mantenere la continuità della rete ecologica provinciale, combattere il fenomeno della dispersione urbana (lo sprawl urbanistico), consentire la continuità dell’attività agricola. Questi oggi sono i contenuti del Piano territoriale della provincia di Milano, condivisi dall’assemblea milanese della sinistra e degli ambientalisti, che chiede anche qualità dell’abitare e del paesaggio in una delle aree più antropizzate del Paese. Un’assemblea che ha posto con forza il tema del governo del territorio lombardo e milanese, in chiave innovativa e sostenibile.

E che nei processi di trasformazione in atto ha rivendicato il proprio ruolo di governo.

(Pietro Mezzi è assessore al Territorio della Provincia di Milano)

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