La proposta di legge Ac/70, (ovvero la "minaccia Realacci") in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana»: grande ritorno della filosofia di Maurizio Lupi e dello sprawl come scelta di vita, e giù gli argini all'eapansione infinita della "città della rendita" .La Repubblica 1 giugno 2013
LUPI in salsa ecologica: questo il senso della proposta di legge Ac/70, in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana». Bel titolo: peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2008 Maurizio Lupi propone una legge dove il suolo ha mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico.
Una concezione panurbanistica, in nome di “diritti edificatori” commerciabili; ma la proposta cade in un coro di proteste. Nel 2012 Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, presenta una legge sulla «Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo », che contiene due principi assai positivi: la riduzione del consumo dei suoli agricoli e la disciplina degli oneri di urbanizzazione (da destinarsi solo alle opere di urbanizzazione, secondo l’originaria norma Bucalossi, e non alla spesa corrente). Proposta caduta con la fine della legislatura. In che rapporto con questi “precedenti” è la proposta di legge Ac/70? Essa è totalmente dissociata non solo dal suo titolo, ma anche dalla relazione introduttiva.
La relazione, infatti, richiama il ddl Catania e ricorda i dati terrificanti (Istat, Ispra, Wwf) sul consumo di suolo in Italia, le misure di contenimento di altri Paesi, la risoluzione europea che impegna il governo a norme urgenti di analogo segno, il consenso dell’Ance (associazione dei costruttori) a un radicale cambio di rotta verso la riqualificazione degli immobili. Il testo della legge è fedele a queste premesse solo in minima parte ma per il resto non fa che rilanciare la legge Lupi. Dall’articolo 9 della proposta Lupi derivano, infatti, i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica », commerciabili senza limiti, nonché incrementati da ulteriori “premia-lità, compensazioni e incentivazioni”. Targata Lupi è anche l’idea che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune.
Nella proposta Ac/70, «il suolo non edificato costituisce una risorsa il cui consumo (...) è suscettibile di contribuzione » (articolo 1), e infatti gli oneri di urbanizzazione restano tal quali, anzi basta moltiplicarli per quattro (se l’area è «coperta da superfici naturali o seminaturali») o per tre (se si tratta “solo” di suoli agricoli), e il miracolo è fatto: qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.
Ben lungi dal limitare il consumo di suolo, la norma lo consacra traducendolo in un sovraccosto. Infine, istituisce i «comparti edificatori», mostruosa neoformazione dell’articolo 5, una sorta di consorzio dei proprietari privati di un’area determinata, che presentano poi al Comune «il piano urbanistico attuativo riferito all’intero comparto»: una vera e propria privatizzazione della pianificazione territoriale.
Ecco i primi frutti dell’ascesa di Lupi al ministero- chiave delle Infrastrutture. Se questa legge da Lupi l’avesse firmata lui, tutto regolare; ma a presentarla è Ermete Realacci, lunga storia in Legambiente, oggi presidente della commissione Ambiente alla Camera. Tra i firmatari meraviglia trovare Mario Catania, autore di un ddl di segno opposto, e Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni culturali ed ex presidente del Fai. Intanto, è in dirittura d’arrivo un pessimo dpr sulle autorizzazioni paesaggistiche, “semplificate” d’ufficio anche nelle aree soggette a vincolo individuale. Per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, sfugge come gli attentati al paesaggio e all’ambiente di queste norme-inciucio possano stare insieme con le (buone) dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che alla Camera ha insistito su ben altre priorità: controllare il rischio idrogeologico, tutelare gli ecosistemi, ridurre il consumo di territorio, pianificare le risorse idriche come bene comune, «puntare sulla trasformazione del tessuto urbano esistente e non su nuove edificazioni».
Se questo fosse il programma non di un ministro ma del governo, la proposta Ac/70, che si scrive Realacci e si legge Lupi, andrebbe immediatamente cestinata. Molto meglio sarebbe ripartire dal ddl Catania, da migliorarsi parametrando la riduzione del consumo di suolo su serie previsioni demografiche e sul censimento degli edifici abbandonati o invenduti. In questo senso, va la proposta presentata ieri da nove deputati del M5S (tra cui De Rosa e Zaccagnini), mirata a ridurre senza trucchi e senza inganni il consumo del suolo. Ma il tormentato iter di queste norme non avrà mai fine, se non ci decideremo a separare la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, sottoponendo questi ultimi a una rigorosa pianificazione pubblica che non può limitarsi all’ambito meramente comunale.
Un ultimo punto: alcuni firmatari della proposta Realacci, interrogati privatamente, confessano di aver firmato sulla fiducia, senza capirne bene il senso. C’è dunque da chiedersi come, nel buio delle “larghe intese”, lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum. E se sia legittimato non dico a varare, ma anche solo a sognare una qualsiasi riforma della Costituzione.
Oggi e domani a Roma convegno promosso dal WWF contro il consumo del suolo e l'inutile produzione edilizia, per la riqualificazione urbana. Il manifesto, 31 maggio 2013, rapporto scaricabile
«La vera ricchezza d'Italia - già Belpaese per antonomasia - sta nel suo patrimonio artistico e storico, paesaggistico e culturale»: sono ormai in molti ad individuare in questi beni comuni i possibili milestone di un prossimo riassetto sostenibile, non solo fisico, ma socio-economico e civile del paese.
Oggi, però, questo «tesoro» italiano - lascito delle molte civiltà stratificatesi nella nostra evoluzione spaziale e temporale - è sempre più obliterato, abbandonato al degrado, occultato, «affogato» dall'abnorme crescita urbana, dal pervasivo consumo di suolo che fa del territorio italiano la disastrosa, esasperata punta di un fenomeno, sprawltown, la città diffusa, che marca negativamente vaste regioni europee e occidentali.
Due cifre emblematiche di quella che sta diventando una catastrofe ci vengono dagli osservatori sul consumo di suolo, operanti presso diverse università, e riprese dal Coordinamento per la Difesa del Paesaggio: le rilevazioni satellitari restituiscono suoli urbanizzati pari a quasi il 20% dell'intera superficie territoriale nazionale, mentre le stime aggregate dall'ultimo censimento forniscono un numero di quantità di stanze vuote superiore ai 25 milioni, di cui circa un quinto localizzato nelle grandi città, e quasi altrettanto nelle villettopoli costiere e turistiche.
Tale sfracello di produzione edilizia se, paradossalmente, non risolve la domanda abitativa sociale - essendo determinata e dominata dai cicli della rendita speculativa, urbana e soprattutto finanziaria - ha prodotto ingenti quote di «urbanizzato contemporaneo abbandonato»; conseguente alla dismissione recente di attività produttive, industriali e agricole, commerciali, di servizio, o residenziali. O semplicemente, è stata dovuta dalla velleità di realizzare macrostrutture - infrastrutture, attrezzature - tanto gratificanti per il consenso suscitato dal loro annuncio, quanto spesso inutili e ingestibili per il contesto in cui si calavano.
Agli edifici storici abbandonati, di cui all'apertura, si è aggiunta così una quota ingentissima di cementificazione dismessa di recente. Il Wwf, con le sue migliori competenze tecnico-scientifiche, insieme ad una decine di sedi universitarie nazionali, sta realizzando una ricerca in tutte le regioni del paese su caratteristiche e potenzialità delle aree abbandonate, storiche e recenti, e sulle loro prospettive in termini di riutilizzo ambientale e sociale. Oggi e domani presso l'aula magna dell'Università Roma Tre, nel complesso, appunto recuperato, dell'ex Mattatoio - verrà presentato il primo rapporto della ricerca.
Sono state censite circa 600 aree, corrispondenti ad altrettante «situazioni territoriali» (individuate anche perché rappresentative di categorie più vaste), in tutte le regioni italiane, suddividendole per caratteri tipologici e funzionali e per contestualizzazioni funzionali; in modo tale da prefigurare per ciascuna di esse non solo un progetto di recupero - pure importante di per sé -, ma la costituzione di «elementi forti» per strutturare e sostanziare processi di blocco di consumo di suolo e deterritorializzazione negli ambiti interessati.
Le categorie tipologiche individuate vanno dai manufatti storico-culturali in abbandono, anche se talora già vincolati per la tutela, alle aree archeologiche abbandonate, alle architetture di prestigio, alle infrastrutture dismesse o mai completate, alle fortificazioni militari, alle aree industriali in disuso, a macrostrutture realizzate e mai utilizzate o ingestibili, a spazi aperti da rinaturalizzare nella città consolidata, a vastissime porzioni di patrimonio residenziale da recuperare.
Le situazioni urbane e territoriali interessate nelle diverse regioni sono molteplici: da interi comparti interni alla città storica e consolidata, a mancate recenti «nuove centralità» che dovevano segnare le ex periferie, alla campagna urbanizzata da riqualificare, a molte aree costiere o collinari, o di elevata suscettività paesaggistica cui riattribuire senso ecologico tramite blocco della nuova cementificazione e strategie di restauro ambientale; utile anche per il riuso delle aree non solo industriali dismesse.
Il riutilizzo sociale e paesaggistico dei luoghi e degli intorni interessati presuppone anche la capacità di leggere i contesti, oltre i singoli siti: su questo spesso sono di ausilio i piani paesaggistici recenti - i cui progetti di riqualificazione ambientale vanno assumendo sempre più spesso i profili guida di prossime economie verdi territorializzate dei territori coinvolti- che, per dettato strategico-normativo, analizzano gli spazi regionali per ambiti locali e comprensoriali e spesso ne prospettano «scenari di tutela, riqualificazione e valorizzazione sostenibile», non solo ecoterritoriale, ma socio-culturale. In questo quadro, i cluster spaziali individuati dalla ricerca per il riuso possono giocare ruoli decisivi.
Il Report tocca anche un'altra questione sostanziale: chi può mettere in pratica queste «interessanti politiche» in un momento di profonda crisi della «Politica»? la ricerca recupera il concetto di «Laboratorio Territoriale», coordinamento di abitanti, ambientalisti, difensori del territorio, istanze di restauro civile e costituzionale, già presenti in alcune esperienze di difesa e recupero del territorio recenti, come le Reti del «Nuovo Municipio» o dei «Comuni Solidali», e mira a ricontestualizzarli sui paesaggi, anche sociali, individuati.
Il rapporto Riutilizziamo l'Italia è scaricabile anche direttamente da QUI
Per arginare il consumo di suolo non bastano né allarmate tabelline statistiche, né i soli vincoli urbanistici, ma una politica del territorio che coniughi tutela, sviluppo, sostenibilità. L'Unità, 24 maggio 2013 (f.b.)
Li hanno chiamati con diversi nomi («choosy», bamboccioni), ma molto probabilmente sarà la prima generazione dal dopoguerra ad essere più povera di quella che l’ha preceduta. La pubblicazione del dato sul tasso di disoccupazione giovanile che nell’ultimo anno in Italia ha toccato il record assoluto del 35,3%, il livello più alto dal lontano 1977 è stata una scossa per il mondo politico che finalmente ha preso atto del fatto che non è più il caso di temporeggiare, ma di adattarsi ai nuovi cambiamenti imposti dalla nostra società.
Come annunciato anche dal presidente del Consiglio Enrico Letta in conferenza stampa subito dopo l’ultimo vertice straordinario del Consiglio Ue, il tema della disoccupazione giovanile è una «questione cruciale». E urgente, viene da aggiungere. Molto rischioso per la democrazia stessa, tanto da far datare il prossimo Consiglio straordinario dei 27 i primi di giugno.
Di fronte al tasso record della disoccupazione giovanile l’agricoltura si afferma come l’unico settore produttivo che ha difeso e anzi moltiplicato i posti di lavoro, con un incremento delle assunzioni del 3,6% nel 2012. Dati importanti, e che se analizzati nel dettaglio dimostrano, oltre i numeri, che questo fenomeno non coinvolge più solo i figli che subentrano all’attività di famiglia, ma neolaureati preparati e determinati che, a causa della crisi che chiude le porte degli altri settori, scelgono di scommettere sulla vita dei campi e reinventarsi produttori. Anche perché il settore è sempre più fiorente. Se un giovane su tre è senza lavoro e se per ricostruire l’Italia si è finalmente capito che si deve ripartire dalla terra, è necessario che il nuovo governo faccia tutto il possibile per incoraggiare l’approccio dei giovani all’agricoltura, favorendo un rinnovamento che passa attraverso le energie di questi «nuovi contadini» under 40 pieni d’ingegno e vena creativa.
I dottori dell'agricoltura
Secondo i dati Istat sull’occupazione, i nuovi «dottori dell’agricoltura» oggi sono quasi il 35% degli under 40 del comparto. Questa nuova agricoltura fatta di giovani anche con una laurea alle spalle è fondamentale per rinnovare un comparto che ha bisogno di aprire le porte alla competitività e alla creatività. E sono tante le imprese «junior» che hanno dimostrato un potenziale economico altissimo grazie ad una maggiore attitudine al rischio e al sempre più crescente interesse verso l’export, dimostrando anche un’elevata sensibilità per le tematiche sociali e ambientali.
Innovazione nei prodotti
Analizzando questo fenomeno e i dati Istat escono fuori altre curiosità sottolineate anche dalla Coldiretti, che ha individuato circa tremila giovani che hanno deciso di mettersi alla guida di un gregge come precisa scelta di vita per non arrendersi alla crisi. «Si tratta in gran parte di giovani che intendono dare continuità all’attività dei genitori – afferma la Coldiretti anche se non mancano nuovi ingressi, spinti da una scelta di vita alternativa a contatto con gli animali e la natura». Quando i giovani subentrano nelle aziende c’è un immediato riflesso sul prodotto aziendale. «La diffusa capacità di innovazione prosegue la confederazione si concentra sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ma anche nella capacità di presidiare il mercato attraverso nuove formule commerciali. La pastorizia è un mestiere ricco di tradizione, che ha anche un elevato valore ambientale e dalla sua sopravvivenza dipende la salvaguardia di razze in via di estinzione a vantaggio della biodiversità del territorio». La terra quindi come settore primario per creare opportunità e combattere la crisi.
Un segnale arriva anche con l’occupazione stagionale nei campi e con l’aumento di richieste di assunzione da parte di chi ha perso il lavoro in altri settori produttivi. Uno degli obiettivi da perseguire dovrebbe essere la possibilità di rendere l’agricoltura un’occupazione a tempo pieno, con interventi di tipo preventivo che consentano alle aziende agricole di mantenere i livelli occupazionali tramite l’adozione di provvedimenti straordinari per il contenimento del costo del lavoro, e non solo una soluzione temporanea per fronteggiare la crisi nell’immediato.
Nota: si veda anche sullo stesso tema e con i medesimi toni il pezzo di Piero Bevilacqua, "Una nuova agricoltura per le aree interne", dal convegno della Società dei Territorialisti (f.b.)
Le ragioni storiche e attuali per attribuire alle “aree interne”uno ruolo all’altezza delle esigenze di oggi e di domani. Relazione per il convegno della "Società dei territorialisti“, Milano, 14 maggio 2013”
A che cosa ci riferiamo allorché parliamo di agricoltura per le aree interne? Si tratta di uno slogan di propaganda politica “movimentista” ? Oppure di un'utopia che non ha alcun fondamento economico, né dunque alcuna possibilità di riuscita? All'obiezione si deve innanzi tutto rispondere con una considerazione storica. Non si tratta, infatti, di una progettazione o addirittura di una aspirazione a vuoto di volenterosi militanti. Per secoli l'agricoltura italiana è stata una pratica economica delle “aree interne”, vale a dire dei territori collinari e montuosi, gli ambiti orografici dominanti nella Penisola. Certo, c'era anche – e talora fiorente - l'agricoltura delle pianure, concentrata nella Pianura padana e nelle valli subappenniniche. Ma gran parte di queste aree sono state conquistate con secolari e talora imponenti lavori di bonifica che arrivano fin dentro il XX secolo. L'imperversare millenario della malaria – questa avversità ambientale caratteristica del nostro paese – ha tenuto a lungo lontano le popolazioni agricole dalle terre potenzialmente più fertili ed economicamente vantaggiose delle pianure. Dunque, dal punto di vista storico, fare agricoltura nelle aree interne non è una novità. Tanto è vero che essa continua a sopravvivere in tante zone collinari e montane in forme più o meno degradate e marginali.
La seconda obiezione, relativa all'economicità di una agricoltura in queste aree è che occorre intendersi su che cosa si intende per economicità. Per far questo occorre liberarsi di una idea riduzionistica di agricoltura che ha dominato per tutto il secolo passato. In queste aree non si può pensare alla pratica agricola come una impresa industriale che deve strappare margini crescenti di profitto, generare accumulazione di capitale, con sovrana indifferenza per ciò che accade alla fertilità del suolo, alla distruzione della biodiversità, all'inquinamento delle acque, alla salute degli animali, dei lavoratori e più in generale dei cittadini. L'agricoltura non è qui – e non dovrebbe esserlo mai – quello che è stata per tutta la seconda metà del Novecento: un'industria come un'altra. D'altra parte, rappresenta una conquista della cultura europea degli ultimi decenni la visione e la pratica di una agricoltura come attività multifunzionale. Una brutta parola per indicare che essa non è più una semplice pratica economica, ma costituisce il centro di erogazione di una molteplicità di servizi. E al tempo stesso incarna una esperienza sociale che intrattiene un rapporto complesso e avanzato con la natura, ispira nuovi stili e condotte di vita. Infatti l'agricoltura non è chiamata semplicemente a produrre merci da piazzare sul mercato, quanto anche a proteggere il suolo dai processi di erosione, ad attivare la biodiversità sia agricola che quella naturale circostante, a conservare il paesaggio agrario, tenere vivi i saperi locali legati ai mestieri e alle manipolazione delle piante e del cibo, a custodire la salubrità dell'aria e delle acque, a organizzare un turismo ecocompatibile, a organizzare forme nuove di socialità, ecc.
Ma che tipo di agricoltura si può oggi praticare su terre lontane ( ma non lontanissime, l'Appennino dista sempre relativamente poco dal mare) dai grandi snodi viarii e commerciali ? La dove non è possibile, né utile, né consigliabile organizzare produzioni di larga scala? Qui si può praticare soprattutto frutticultura e orticoltura di qualità. E sottolineo questo aspetto di novità storica della agricoltura di collina rispetto al passato. Si tratta di una agricoltura di qualità perché essa utilizza con nuova consapevolezza culturale un'attività produttiva fondata sulla valorizzazione di un dato storico eminente della nostra millenaria tradizione produttiva: l'incomparabile ricchezza della nostra biodiversità agricola. L'uso del termine millenario non svolge qui un compito di mera retorica. Serve innanzi tutto a marcare l'irriducibile diversità dell'agricoltura rispetto a tutte le altre forme di economia. Questa pratica finalizzata all'alimentazione umana, infatti, continua a esercitarsi su materie naturali che provengono da un lontanissimo passato, originano dalle selezioni genetiche massali delle popolazioni pre-italiche, si sono arricchite con la grande “globalizzazione agricola” dell'Impero romano (documentata da Columella) e ha ricevuto gli apporti di biodiversità e di saperi dal mondo arabo nel medioevo e dalle piante provenienti dalle Americhe dopo il 1492. Questa gigantesca accumulazione di varietà e di culture ha trovato nella Penisola le condizioni per insediarsi in maniera stabile e diversificata sin quasi ai giorni nostri. ( P. Bevilacqua, I caratteri originali dell'agricoltura italiana, in C.Petrini e U.Volli ( a cura di)La cultura italiana.Cibo,gioco,festa moda, UTET ,Tornino 2009)
Tale straordinaria biodiversità agricola – frutto dell'originalità della nostra storia e della varietà dei climi e degli habitat disseminati nella Penisola, dalle Alpi alla Sicilia - ha espresso la sua vitalità nell'agricoltura promiscua preindustriale. Campi nei quali coesistevano alberi da frutto di diverse varietà, ulivi, viti insieme spesso ai cereali, agli orti. Oggi questa agricoltura ritrova ragioni economiche per rifiorire, innanzi tutto perché può offrire prodotti che hanno qualità intrinseche superiori, sia di carattere organolettico che nutrizionale. In tanti vivai – e nelle coltivazioni degli amatori - si conservano ancora in Italia centinaia di varietà di meli, peri, susini, mandorli, peschi, viti a doppia attitudine, ecc. Si tratta di sapori scomparsi dall'esperienza sensoriale della maggioranza degli italiani e dal mercato corrente. Quest'ultimo offre oggi al consumatore poche varietà, quelle industrialmente più confacenti, per aspetto, conservazione e trasportabilità alla distribuzione di massa. Ormai guida e domina il consumo, non la qualità intrinseca del bene (freschezza, sapore, sanità), ma le sue caratteristiche esteriori di merce, la sua durabilità, la sua novità stagionale, il suo basso prezzo.
E invece l'organizzazione di una distribuzione alternativa (tramite i gas, i gruppi del commercio eco-solidale, a km 0, ecc) può cambiare la natura stessa del prodotto finale. La diversità e varietà dei sapori, la salubrità e ricchezza vitaminica e minerale del frutto, la sua freschezza e assenza di conservanti e residui chimici, ne fanno un bene che acquista anche sotto il profilo culturale un nuovo valore. E naturalmente il rapporto diretto fra produttore e consumatore tende a rendere bassi e accessibili i prezzi. Dunque, non si propone il ripristino dell' ”agricoltura della nonna”, ma una nuova economia rispondente a una elaborazione culturale più avanzata e ricca del nostro rapporto col cibo, che incorpora anche una superiore visione della pratica agricola come parte di un ecosistema da conservare.
Questa agricoltura può far ricorso a molti elementi di economicità e di riduzione dei costi, di norma esclusi nelle pratiche industriali. Intanto la varietà delle colture – anche nelle coltivazioni orticole, grazie alla sapienza consolidata della pratica degli avvicendamenti e delle alternanze , ma anche alle nove tecniche come l'agricoltura sinergica– costituisce un antidoto importante contro l'infestazione dei parassiti. E' nelle monoculture, infatti, che questi possono produrre grandi danni, e debbono essere controllati – anche se con decrescente efficacia – tramite costosi e ripetuti trattamenti chimici. La conservazione di un habitat ricco di biodiversità naturale – grazie alle siepi, all'inerbimento del campo, ecc e al bando degli antipesticidi chimici - costituisce essa stessa un sistema di protezione contro i parassiti, perché ospita gli insetti utili, predatori degli infestanti. Un esempio di come la salubrità e varietà biologica dei siti non è solo utile alla salute umana, ma anche economicamente vantaggiosa. A questo proposito un aspetto da ricordare sono le microeconomie che si possono ottenere dalle siepi o dalla macchia selvatica. Un tempo avevano una larga circolazione stagionale, nei mercati contadini, i prodotti selvatici del bosco e della macchia mediterranea: sorbe, corbezzoli, giuggiole, cornioli, melograne, nespoli germanici, azzeruoli, ecc. Oggi sono rari e costosi prodotti di nicchia destinati al consumo di pochi intenditori. E invece potrebbero rientrare a pieno titolo nei circuiti economici della nuova agricoltura. Tanto più che alcuni di queste bacche, come la melagrana – ma la riflessione dovrebbe coinvolgere sia i cosiddetti “piccoli frutti”(lamponi, mirtilli, ribes, uva spina, ecc) che le cosiddette piante officinali – conoscono oggi un crescente utilizzo sia nella “cosmesi senza chimica”, che nella ricerca e nella produzione farmaceutica. Tali considerazioni dovrebbero anche investire un problema oggi rilevante in alcune aree- come ad es. la Toscana - dove la macchia selvatica rappresenta una forma di rinaturalizzazione spontanea e disordinata, che consuma sia il bosco di pregio, sia le aree agricole e pastorali, fornendo ai cinghiali, sempre più numerosi, la possibilità di danneggiare gravemente le colture delle aree collinari. E' evidente che qui occorre un intervento pianificato, che punti a una selvicoltura di qualità sia per il legno che per i prodotti del bosco e del sottobosco. E' attraverso il ripristino rinnovato di economie antiche ( fra queste spicca il castagneto), che si può avviare anche una difesa territoriale delle aree agricole secondo meccanismi di coordinamento e cooperazione fra diverse aree ed ambiti produttivi che in queste aree sono stati in funzione per secoli.
Nei frutteti si può molto utilmente praticare l'allevamento dei volatili ( polli, oche, faraone,ecc).Tale pratica già nota ai primi del '900 in alcuni paesi europei ( ad esempio nei meleti della Normandia) e oggi sperimentata da alcune aziende ad agricoltura biologica, combina un insieme sorprendente di vantaggi. I volatili, infatti, ripuliscono il terreno dalle erbe infestanti e lo concimano costantemente con i loro escrementi, facendo risparmiare all'azienda il lavoro e i costi del taglio delle erbe e quello della concimazione delle piante. Ma aggiungono all'economia aziendale uno straordinario apporto produttivo: le uova e la carne di pregio commerciabili tutto l'anno.
Sempre sul piano del contenimento dei costi è utile rammentare che qualunque azienda agricola produce una quantità significativa di biomassa. Sia sotto forma di rifiuti organici domestici, che quale residuo dei tagli, potature, controllo delle siepi, ecc. Ebbene, questo materiale – tramite il metodo del cumulo – si può trasformare in utilissimo compost per fertilizzare il suolo, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici, e risparmiando su tale voce di spesa che grava invece in maniera crescente sull'agricoltura industriale. Il costo dei concimi, è noto, dipende dal prezzo del petrolio. Un grande agronomo biodinamico, Eherfried Pfeiffer, sosteneva che un buon terriccio di cumulo può avere una capacità fertilizzante due volte superiore a quella del letame bovino: il più completo fra i fertilizzanti organici. (E. Pfeiffer, La fertilità della terra, Editrice Antroposofica 1940) Di questo terriccio si potrebbe fare commercio, come si fa commercio del fertilizzante ottenuto dalla decomposizione di sostanza organica da parte dei lombrichi. Nel Lazio, ad es., esiste qualche azienda che vende humus, un terriccio ricavato dalla “digestione” di letame bovino ad opera dei lombrichi.
Sempre sul piano del risparmio dei costi - senza qui considerare la buona pratica di impiantare pannelli solari sugli edifici, case, stalle, uffici, ecc, per rendere l'azienda autonoma sotto il profilo energetico – una riflessione a parte meriterebbe l'uso dell'acqua. La presenza di questo elemento è ovviamente preziosa e spesso indispensabile nelle agricolture delle aree interne. Ad essa si attinge normalmente con i pozzi azionati da motori elettrici. Se l'elettricità è generata da pannelli fotovoltaici il costo è ovviamente contenuto. Ma spesso non è così. E ad ogni modo, in tante aree interne, l'acqua potrebbe essere attinta in estate senza costi se durante l'inverno venissero utilizzati sistemi di raccolta delle acque piovane. Si tratta, ovviamente, di riprendere un sistema antico – in molte aree, come nella Sicilia agrumicola, ancora attivo – che utilizzi cisterne, vasche di raccolta, ecc. Questa cura dell'acqua comporterebbe una nuova visione del territorio e delle risorse circostanti alle singole aziende. E' evidente che una nuova agricoltura nelle aree interne, dovrebbe far parte di un progetto collettivo di rimodellamento dell 'habitat locale, che comporta il controllo delle acque alte, il loro incanalamento ottimale, ma anche il loro utilizzo in punti di raccolta ( tramite acquacultura, pesca, ecc), capace di combinare conservazione dell'assetto idrogeologico del suolo e pratica economica produttiva. L'agricoltura che progettiamo, dunque, costituisce un dialogo nuovo e più organico con la ricchezza delle risorse naturali, col mondo delle piante e degli animali, e insieme un presidio umano culturalmente più avanzato e complesso sul nostro territorio.
Infine due questioni rilevanti: il reperimento dei suoli dove esercitare le nuove economie e i protagonisti primi del progetto, vale a dire gli imprenditori, gli uomini e le donne che accettano la sfida. Per quanto riguarda la terra, la sua disponibilità e i suoi prezzi variano molto nelle stesse aree interne. In Toscana il valore fondiario può essere proibitivo, ma in tante aree appenniniche esso ha scarso valore. Occorreranno dunque forme di regolazione e di facilitazione - laddove non esistono già – di accesso alla terra a costi contenuti. Il problema fondamentale resta quello degli imprenditori. E' evidente che non si può lasciare alla spontaneità e alla capacità attrattiva di un progetto l'iniziativa imprenditiva. Sarà necessaria un'azione concordata con le varie forze territoriali in campo (amministrazioni, Coldiretti, sindacati, comitati locali, ecc.) che devono svolgere una funzione iniziale di promozione e coordinamento, oltre che di conoscenza e informazione: disponibilità della terra, presenza di boschi e macchie,ecc. Ma è evidente che la ricostruzione di un nuovo ceto di agricoltori per le aree interne passa oggi attraverso una nuova politica dell'immigrazione. Diciamo una verità sgradevole e assolutamente necessaria: il lavoro nelle campagne italiane viene svolto dal bracciantato di provenienza straniera, una gran parte del quale tenuto in condizione di semischiavitù. E' possibile tollerare tutto questo? Ricordo che tra gli immigrati sono presenti attitudini e saperi agricoli che potrebbero avere ben altra destinazione. Gli indiani hanno salvato di fatto l'allevamento bovino nel Nord d'Italia. Quanti giovani africani o dell'Est europeo potrebbero essere attratti dalla possibilità di condurre una piccola azienda agricola, insieme a connazionali o a giovani italiani?
Vedi anche di Bevilacqua “La vecchia talpa scava ancora” ,Per il convegno vedi il sito della Società dei territorialisti . La relazione di Bevilacqua sarà pubblicata, come altre svolte al Convegno di Milano, sul primo numero della rivista della SdT Scienze del territorio che si intitola "Ritorno alla terra" e che esce on line a fine giugno presso la Firenze University Press (FUP).
Al solito: piove, agricoltura disastrata, e si “scopre” che cementificare a vanvera produce solo guai, al massimo bolle edilizio-finanziarie. Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2013 (f.b.)
Ancora una volta si stila il bollettino di guerra. E si replica il solito vecchio copione. Sott'acqua infatti con il mais, la frutta e il riso, rischiano di finire i redditi degli agricoltori, ridotti in dieci anni del 25%, «provati» da costi alle stelle e da prezzi che continuano a scendere, come conferma l'ultima rilevazione dell'Ismea di aprile (-6%). D'altra parte l'agricoltura è una fabbrica a cielo aperto soggetta a un andamento meteorologico che negli ultimi anni sta diventando sempre più imprevedibile. Ma non basta la rassegnazione contro la natura matrigna.
Gli effetti delle piogge in cui stanno affogando le colture italiane più redditizie, le commodity che reggono le sorti del made in Italy alimentare, sono anche il frutto di una scellerata politica che ha bruciato migliaia di ettari di terre fertili e che ha reso i fiumi delle discariche. «Troppe case, strade e capannoni - denuncia Coldiretti Lombardia - hanno ridotto la capacità di drenare l'acqua in eccesso soprattutto nei periodi di maltempo». I terreni coltivati invece svolgono una strategica funzione di assorbimento dell'acqua «un airbag naturale» in grado di limitare i danni. Così come la presenza dell'uomo, il mantenimento dell'habitat, la celebrata funzione degli agricoltori guardiani del territorio sono un fondamentale antidoto agli attacchi della natura. È mancata una politica del territorio che certo avrebbe richiesto risorse, ma sicuramente inferiori rispetto a quelle necessarie per indennizzare i danni.
Nonostante gli appelli l'Italia continua a ridurre il suo patrimonio. Una recente indagine realizzata dal ministero delle Politiche agricole, in occasione della presentazione di un ddl contro l'erosione di suolo agricolo (rimasto in archivio), aveva stimato in dieci anni la perdita di 5 milioni di ettari coltivati per una superficie equivalente a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna messe insieme. Solo in Lombardia per fare posto al cemento si cancellano ogni anno 5mila ettari di aree verdi. E poi resta il nodo delle infrastrutture idriche con un piano di opere approvato da anni, ma che non riesce a decollare.
E così il mix tra l'azione dell'uomo, che taglia spazi alle coltivazioni, e il bizzarro andamento climatico mette in crisi i bilanci aziendali, portando l'agricoltura verso il tracollo. Con oltre 50mila aziende a rischio di chiusura entro quest'anno (previsioni della Cia). Quasi una beffa considerando che l'ultima stima sul Pil diffusa dall'Istat qualche giorno fa attribuisce al settore l'unico segno positivo. E se non si riesce a prevenire anche la strada dei risarcimenti è lastricata di ostacoli. Le assicurazioni infatti restano una debolezza strutturale delle imprese, conseguenza delle difficoltà economiche che impongono tagli ai costi aziendali. Una svolta dovrebbe arrivare dalla riforma della Politica agricola comune proiettata su una nuova strategia della gestione dei rischi.
Ma in attesa di nuove politiche non resta che la conta dei danni.
La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.
Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.
Un dossier monografico sul cosiddetto sviluppo del territorio, chi lo fa, a chi giova. Articoli di F. Sansa, A. Ferrucci, C. Tecce, M. Castigliani, M. Corona, Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2013
Il nostro paesaggio è anche Angelino
di Ferruccio Sansa
“Bisogna occuparsi dell’economia”, dicono. Come se l’ambiente fosse una fisima per intellettuali con il nasino all’insù. E intanto gli amici degli amici si riempiono le tasche devastando il paesaggio. Magari gli stessi imprenditori che foraggiano i politici chiamati ad amministrare e tutelare il territorio.
Che mistificazione! Che tradimento! L’ambiente - visto che di questi tempi i calcoli economici sono gli unici che paiono avere valore - è la nostra principale industria. Il turismo vale quasi il 15% del pil e dà più lavoro e ricchezza del mattone e delle autostrade.
L’ambiente è qualità della vita, soprattutto per i più deboli, gli anziani e i bambini. Vivere in un luogo integro significa benessere interiore. Significa, perché no?, avere pensieri migliori.
Ma l’ambiente - cioè anche l’aria che respiriamo, l’acqua e il cibo che ci nutrono - è anche quantità di vita. Campare meglio e di più. Come ci ha mostrato drammaticamente la vicenda Ilva (con i signori delle acciaierie che finanziavano sia destra che sinistra).
Ecco il nodo della questione. Ambiente naturale e civile sono strettamente legati. Di più, sono la stessa cosa. Il degrado dell’uno provoca quello dell’altro. Il territorio è diventato la zona grigia, opaca, dove gli interessi pubblici vengono mercanteggiati per favorire quelli individuali. Dei signori del mattone, delle autostrade, dell’acciaio. E pure dei partiti.
Ma la responsabilità è anche di noi cittadini che abbiamo svenduto la nostra terra, la nostra identità per quattro soldi. Scriveva Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”: “Quelle speculazioni edilizie nate per mancanza d’affetto”. Già, ci è mancato l’amore per il nostro Paese. Abbiamo voluto ignorare che l’ambiente italiano non è fatto soltanto di colline, montagne e città: il paesaggio siamo anche noi, con i compromessi e i tradimenti di governo, con i leader corrotti, con gli evasori. Allora, difendere l’ambiente significa proteggere noi stessi. Per dirla con Peppino Impastato: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”.
I veri padroni della politica
di Alessandro Ferrucci e Carlo Tecce
Anche nel passaggio dalla lira all’euro lo scalino è stato ammortizzato. Tanto era allora, il doppio dopo. Anzi, i benefattori della politica sono stati al passo con gli appetiti crescenti: bonifici con zeri abbondanti a coprire una perenne campagna elettorale. I nomi sono quasi sempre gli stessi: presunti capitani d’industria come la famiglia Riva, imprenditori dall’aspetto illuminato tipo la famiglia Benetton. O Diego Della Valle, sempre presente negli ultimi vent’anni. I più generosi e attenti? Tutte le realtà legate al mondo della sanità e dell’edilizia. Destra, sinistra, centro. Questo ballo coinvolge tutto il Parlamento.
Sulla via Emilia
Metodici. Puntuali. Con cifre crescenti. Sono i Merloni, proprietari dell’omonima azienda legata al mondo degli elettrodomestici e della termoidraulica. Nel 1994 intervengono con un assegno da dieci milioni a favore di Beniamino Andreatta, uno da 30 per Gerardo Bianco, 60 al Partito Popolare e 80 per la neonata Forza Italia. Ma la generosità non finisce qui: ecco 270 milioni al Patto Segni, sotto la formula del “deposito fruttifero a garanzia di scopertura bancaria” e altri 20 per il suo leader Mariotto. Cambia stagione, non la generosità. Nel 1999: 50 milioni ai Ds, altrettanti al Ccd. Occhio alla data: 2001. È l’anno della chance per Francesco Rutelli come leader del centrosinistra, l’anno della frase “mangio pane e cicoria”. Per rendere più sfizioso il companatico, i Merloni si presentano con 100 mila euro; al Patto Segni e all’Udeur appena 10 mila. Finisce la disponibilità.
A chi fa le scarpe?
19 marzo 2006. Vicenza. Silvio Berlusconi attacca violentemente Diego Della Valle. Il signor Tod’s replica dalla platea. Sembrano lontani umanamente e politicamente, almeno lì. Eppure qualche anno prima la storia era tutt’altra. Nel 1994 il proprietario della Fiorentina si presenta da Forza Italia con 100 milioni, mentre sono 135 per il Patto Segni, sempre con la formula del “deposito fruttifero”. Ma la vera amicizia è quella con Clemente Mastella: nel 1998 dà 50 milioni ai Cristiano Democratici per la Repubblica e 150 mila all’Udeur per la campagna del 2006, a firma di Andrea (altri 100 mila per la Margherita, da parte di Diego, maggiore dei fratelli). Parallelamente alla passione politica, cresce anche il pacchetto aziende, tanto da entrare, nel 2011, nella classifica di Forbes dedicata agli uomini più ricchi al mondo; al marzo del 2013 egli è al 965° posto (20° italiano), con un patrimonio di 1,5 miliardi di dollari.
Fattore di “mercato”
Coerente. Munifico e coerente. È Maurizio Zamparini, spesso in tv o sui giornali, perché proprietario del Palermo calcio. È un uomo di destra, e quella parte finanzia. Nel 1994 batte ogni record con due “assegni” da 250 milioni l’uno, a favore del defunto Msi, in procinto di trasformarsi in Alleanza nazionale. Nel 2001 diventano 200 mila euro; 103 nel 2006 al Ccd, mentre nel 2008 seduce l’Mpa di Lombardo con altri 100.
Freccia a destra
Qualche dubbio, un’unica certezza: un misterioso benefattore spedisce nel 1994 97 milioni di lire all’Msi, da poco al governo con Silvio Berlusconi. Sono tre bonifici provenienti dal Lussemburgo, una situazione talmente ingarbugliata da costringere Gianfranco Fini a scrivere: “La vostra somma non è stata ancora utilizzata. Vi preghiamo di volerci segnalare la causale di tale versamento”. Il titolare della società non sa cosa rispondere, ma si rifugia in un diplomatico “sostegno e stima da italiani residenti all’estero”. Peccato che dietro ci fosse il banchiere italo-svizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia, poi condannato a sei anni di carcere per appropriazione indebita nell’inchiesta di Mani Pulite.
Il “re” trasversale
Per Alfredo Romeo una condanna a quattro anni in primo grado, due e mezzo in appello e la prescrizione in Cassazione, a causa di Tangentopoli. Definiva i politici come “della cavallette! Anzi, delle iene”. Ma per lui una seconda opportunità, con un patrimonio immobiliare di 48 miliardi di lire da gestire e 160 milioni di incassi. E la capacità di intervenire, dove utile, con finanziamenti trasversali: 27.900 euro nel 2002 ai Ds di Roma, 12 a Forza Italia. Altri 20, sempre al partito di Fassino, per il 2005. E ancora 30 mila nel 2013 a Nicola Latorre, 25 al Centro Democratico. Oppure a Torino nel 2001: 30 mila per il sindaco Sergio Chiamparino, 40 a Forza Italia. Infine ha dato 60 mila euro a Renzi per le primarie. Attenzione: il business di Alfredo Romeo è di servizi offerti agli enti pubblici. Il 13 aprile di quest’anno la terza sezione della Corte d’appello di Napoli, lo ha condannato a tre anni per corruzione. Poche settimane prima aveva vinto una gara bandita dall’Anci per diventare partner della società che si occuperà della riscossione dei tributi.
La famiglia Riva
Tutti e tre schierati. Il padre Emilio Riva, assieme ai figli Nicola e Fabio: sono i proprietari dell’Ilva di Taranto, ora agli arresti domiciliari. Nel 2006 finanziarono la campagna elettorale di Pier Luigi Bersani con 98 mila euro. L’ex leader del Pd diventò ministro dello Sviluppo economico. Ma due anni prima, i tre uomini Riva, avevano elargito 330 mila euro a Forza Italia attraverso tre bonifici. Più altri “spicci”, ai berlusconiani di Bari, Taranto e Milano.
42 miliardi in sei anni
Nessuno ha mai negato che Forza Italia fosse la struttura politica di Publitalia 80, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, la più potente d’Italia ancora oggi. E nessuno ha creduto a Silvio Berlusconi quando si lamentava per i soldi spesi in campagna elettorale. Publitalia ha pompato denaro dal ’94 al 2000 a Forza Italia e ai propri alleati fra cui Alleanza nazionale, Lega Nord e Udc, ma anche la lista Pannella e Bonino Presidente: spesso si trattava di sconti sugli spazi pubblicitari oppure sconti “praticati secondo generali orientamenti di strategia commerciale”. Qualsiasi fosse la definizione giusta, il passaggio di favore e l’esborso di Cologno Monzese, la cifra ufficiale è spaventosa: circa 42 miliardi di lire in sei anni. Ma per confermare la generosità di Berlusconi va fatto notare un assegno di Forza Italia ai leghisti di Bossi e Maroni nel 2003, e non c’è scritto che si trattasse di divisione dei rimborsi pubblici: 300.000 euro.
Il re del mattone di lusso, soprattutto romano, Sergio Scarpellini ebbe i contratti per gli affitti di Montecitorio nel 1997. Qualche anno dopo, l’imprenditore donò 50 milioni di lire ai Ds calabresi e poi 48 mila euro ai Ds romani. Ma ha sempre contribuito alle spese dei partiti con le sue società, Milano 90 e Progetto 90. Sempre attento ai Ds prima e Pd poi: 200 mila euro in totale, 20 mila euro diretti a Michele Meta. Non manca il fronte centrodestra: 100 mila euro all’Udc, 50 mila al Pdl, 35 ai Cristiano Popolari di Baccini e 25 ai leghisti. Ma chiunque spende con speranza. Come Giuseppe Grossi, morto un paio di anni fa, vicino a Comunione e Liberazione, che aveva monopolizzato le bonifiche in Lombardia: per caso, prima dell’arresto, qualche anno addietro (2001 e 2004), diede 450 mila euro a Forza Italia. Funziona molto la tecnica della presenza costante con l’associazione Federfarma che pensa a tutti, proprio a tutti i partiti e ai tanti candidati.
Picconatore in aereo
L’aneddoto su Francesco Cossiga, allora presidente emerito, merita un racconto. Il picconatore viaggiava tanto e spesso a spese altrui: nel 1999, la Eliar lo portò tra la Spagna e l’Italia; nel 2000, Silvio Berlusconi in persona gli regalò un volo privato Roma-Nizza; poi la Joint Oriented pagò un Roma-Nizza. Ma chi si spese di più fu la Tiscali del conterraneo Soru che gli garantì un trasporto annuale gratuito – era il 2003 – da Cagliari a Roma e da Cagliari a Milano, andata e ritorno ovviamente. Questo introduce gli oltre 420 mila euro che la Energex diede al Ccd di Casini prima che diventasse Udc: la società anonima, sede in Lussemburgo, si occupa di noleggio aereo e la Camera non sa spiegare questi soldi di “capitale straniero”.
Re del mattone
Il costruttore romano Domenico Bonifaci, per la campagna elettorale fra Romano Prodi e Silvio Berlusconi, la sfida numero uno, diede in prestito 3 miliardi di lire al Pds. Ma è soltanto un esempio di quanto, in questi anni, abbiano speso costruttori e immobiliaristi per sostenere i partiti: non mancano i Gavio o Toto. Da quando Pier Ferdinando Casini ha sposato la figlia Azzurra, Gaetano Francesco Caltagirone, attraverso le varie società di famiglia o in prima persona, non si è risparmiato: ha donato 2 milioni di euro in poco tempo. Anche se, dieci anni fa, diede un piccolo contributo di 20.000 euro ai Democratici di sinistra romani. I Ds in giro per l’Italia, e in particolare nella Capitale, hanno sempre potuto contare sui signori del mattone. Salini non si è sprecata, scarsi 100.000 divisi fra le varie sezioni rosse, stessa cifra per Italiana Costruzioni che, però, ne ha dati 25mila all’Udc, più 120 milioni del ’96 al Pds.
Supermercati
Il patrón di Esselunga, Bernardo Caprotti, non ha mai nascosto le sue preferenze politiche. E i supermercati enormi, che puntellano soprattutto la Lombardia, sono merito di sapienza imprenditoriale e di un buon affiatamento con gli amministratori locali. Esselunga ha sempre finanziato i candidati di Forza Italia con bonifici di 20 milioni di lire, stiamo parlando degli anni che vanno dal 1996 al 2000, e tra i beneficiari si trovano anche l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini e l’attuale ministro Mario Mauro: entrambi, però, hanno mollato il Cavaliere per il professor Monti. Una volta sola, nel 2002, Caprotti stacca un assegno a suo nome di 200 milioni di lire per Forza Italia: l’anno prima la controllata Orofin ne aveva dati 500. Anche i centristi di Casini (Ccd) sono nelle grazie di Caprotti, che contribuisce con 210 milioni di lire in due rate.
Il colore dei soldi
La famiglia Benetton ha sempre fatto i propri (lauti) affari con debita distanza dai palazzi romani, ma accade qualcosa di strano nel 2006. Quando si comincia a parlare di una fusione tra Autostrade per l’Italia e la spagnola Albertis, un’operazione internazionale, e dunque anche politica. Prima di conoscere l’inquilino di Palazzo Chigi, se ci sarà la conferma di Silvio Berlusconi o il ritorno di Prodi, la società investe 1,1 milioni di euro e li distribuisce, sotto forma di donazioni, ai partiti. Un assegno di 150 mila euro ciascuno per la coalizione di centrodestra, Alleanza nazionale, Forza Italia, Lega Nord e Udc; stessa cifra per la coalizione di centrosinistra, Comitato per Prodi, Democratici di Sinistra, La Margherita e soltanto 50 mila euro per la piccola Udeur di Clemente Mastella. Il governo di Prodi avrà l’onore di battezzare lo scambio imprenditoriale con lo spagnolo Zapatero, ma Antonio Di Pietro, allora ministro per le Infrastrutture, si oppone con durezza. Finché il progetto non va malamente in archivio.
Mani di cemento sull’Ambiente
di Davide Milosa e Ferruccio Sansa
Noi siamo per la conservazione attiva del territorio". La chiamava così Massimo Caleo (Pd), allora sindaco di Sarzana. Erano i giorni dell'alluvione in Liguria. Che cosa intendesse Caleo era presto detto: il progetto della Marinella, un mega-porticciolo da quasi mille posti barca, 750 residenze, 200 esercizi commerciali, 25 stabilimenti balneari. Proprio alle foci del fiume Magra che provoca alluvioni un anno sì e l'altro pure. Un'operazione da centinaia di milioni che vede impegnato il Monte dei Paschi di Siena, la banca rossa. Nel cda della società sedeva in passato il cassiere della campagna elettorale del Governatore della Liguria, Claudio Burlando. Una conservazione “molto attiva”. Caleo è stato promosso senatore e, pochi giorni fa, capogruppo Pd alla commissione Ambiente del Senato.
Caleo è soltanto l'ultimo tassello della politica ambientale della nuova maggioranza grandi intese. Roba da far rimpiangere quasi tutti i governi precedenti. Il Pd ha chiesto il ministero dell'Ambiente a Enrico Letta e l'ha ottenuto. Qualcuno forse si aspettava che sull'importante poltrona arrivassero persone che hanno dedicato la vita alla tutela dell'ambiente come Salvatore Settis. O, magari, un ex deputato come Roberto Della Seta che ha combattuto per salvare Taranto dai fumi dell'Ilva incappando nell'ira della famiglia Riva. Macché, Della Seta, anzi, è stato trombato. Nemmeno lo hanno ricandidato al Parlamento.
Nella sede del ministero è arrivato invece lo spezzino Orlando : 43 anni, un funzionario di partito sveglio, che il Pd ha mandato a sbrogliare matasse molto aggrovigliate, come lo sfacelo dopo le primarie di Napoli vinte da De Magistris. Ma nel curriculum di Orlando ci sono altre cose. E soprattutto, hanno notato i critici, ne mancano: non si è mai occupato di ambiente. Non solo: in Liguria e alla Spezia in particolare, il Pd di cui Orlando era uomo forte si è fatto promotore di operazioni devastanti per il territorio. L'elenco è lungo: tanto per cominciare, si è detto, il porto della Marinella. Poi il faraonico progetto da 250 milioni del nuovo Waterfront della città. Racconta Stefano Sarti di Legambiente: “Due torri per alberghi, spazi commerciali, centro congressi, uffici, residenze e mega-parcheggio.
C'è chi ricorda una proposta di legge che Orlando ha presentato in materia di bonifica dei corsi d'acqua. In pratica, per ovviare alla cronica mancanza di fondi, si prevede che le imprese possano vendere la metà del materiale recuperato dalle escavazioni dei fiumi per pagare i lavori. "Il fine di questa proposta di legge – è scritto nel disegno di legge – è consentire la rimozione del materiale e di ripristinare i corsi d'acqua, prevedendo un meccanismo che garantisca la piena tutela del territorio e che eviti qualsiasi tipo di speculazione".
Tutto bene? No, almeno secondo gli ambientalisti. Spiega Alessandro Poletti di Legambiente: "Così si rischia che i comuni vendano letteralmente i loro fiumi per fare cassa. Che si scavi molto più del dovuto. Senza contare che escavare i fiumi non riduce il rischio di alluvioni, ma anzi talvolta le provoca".
Ma se Orlando non si è occupato di ambiente, al ministero c'è chi invece lo ha fatto. "Purtroppo", sostengono gli abitanti di Basiglio, comune dove è stato sindaco Marco Flavio Cirillo, neo sottosegretario del governo Letta.
Nel curriculum ci sono una speculazione tutta berlusconiana da 300mila metri cubi di cemento per un utile di 150 milioni e una battaglia senza frontiera contro l'Area C voluta dal Comune di Milano per ridurre l'inquinamento (con l’ipotesi di una class action contro la congestion charge). Queste le due carte che Cirillo porta in dote al governo Letta. Laurea in sociologia, consulente di marketing, Cirillo nasce in Forza Italia e cresce nel Pdl. Nel 2003 si candida a sindaco di Basiglio, comune a sud di Milano, sulla cui area Silvio Berlusconi ha costruito Milano 3. Cirillo sbanca le urne. Nel 2008 si ricandida e vince. Nel Pdl trova consensi e nel 2012 è in lizza per diventare coordinatore provinciale. Perderà a favore del larussiano Sandro Sisler. Poco male. Cirillo torna a occuparsi dell'amministrazione del suo comune e del nuovo Piano del governo del territorio.
Il business plan passa. E questo nonostante l'Associazione per il Parco sud Milano e il Comitato cittadino per il territorio di Basiglio facciano strenua opposizione: “La popolazione è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”. Il regolamento del comune prevede la possibilità di indire un referendum. Quorum raggiunto in pochi giorni. Si voterà. Ma solo sulla carta. Perché, rientrati dalle vacanze, i comitati si trovano ingarbugliati in una melina burocratica. Il 28 novembre il Pgt viene approvato. La giunta di Cirillo delibera la colata di cemento. La famiglia Berlusconi ringrazia. Il referendum può aspettare. Tanto più che tra pochi giorni a Basiglio si vota. Cirillo non ci sarà. Ma il Pdl resta favorito.
Dal consulente di marketing Cirillo, al dentista Giuseppe Francesco Maria Marinello, fresco presidente della Commissione Ambiente del Senato. Siciliano di Sciacca, Marinello per il suo esordio politico sceglie Forza Italia, poi passa al Pdl. Quindi l'ultima tornata elettorale lo promuove a palazzo Madama. Carriera veloce all'ombra di Angelino Alfano e Renato Schifani. Marinello in Parlamento si spende più per l'ippica che per l'ambiente. É, invece, grande sponsor della mega speculazione in contrada Verdura: la costruzione un campo da golf e di un lussuoso resort realizzati dalla Sir Rocco Forte and Family Spa. Il curriculum giusto per tutelare l’ambiente.
Dai movimenti studenteschi degli anni Settanta fino al parlamento. In Europa esistono realtà dove i Verdi non vivono relegati all’opposizione, ma partecipano attivamente al governo con politiche ecologiste e risultati. Reinhard Bütikofer, prima di essere membro del parlamento europeo e portavoce dell’European Green Party, è stato leader dei Verdi in Germania. Ora racconta di una storia di alti e bassi e di un futuro in cui i temi ecologisti dovranno per volere o per forza entrare nelle agende dei governi nazionali.
Qual è lo stato di salute dei Verdi in Europa in questo momento? Nella vita politica come in quella reale, non va sempre tutto bene e ci sono periodi più o meno buoni. Così alcuni partiti europei stanno ottenendo risultati, altri invece faticano un po’ di più. La domanda da farsi non è tanto “perché?”, ma “come facciamo a uscire da una tale situazione?”. Siamo una famiglia a livello europeo e attualmente i problemi sono uguali per tutti, dalla crisi economica fino alla disoccupazione giovanile. Il punto da capire è che viviamo nella stessa Europa.
Soluzioni che spesso ignorano le politiche per l’ambiente? Non ci voleva la crisi economica per vedere che ci sono governi che considerano l’ecologia una questione accessoria. Questo non aiuta né gli stati né le loro economie. È un dato di fatto che le potenze economiche per mantenere il loro successo debbano basarsi su innovazione e sostenibilità.
Come sono cambiate le battaglie ambientaliste nel corso degli anni? Non c’è dubbio che abbiano subito un’evoluzione. Io mi sento di dire che i Verdi europei sono riusciti in 20\30 anni a influire sull’opinione pubblica di numerosi paesi. Prima le tematiche verdi erano considerate minori o addirittura irrilevanti. Lentamente molti attori europei e politici stanno cominciando a capirne l’importanza.
Una sensibilità verde che però continua a essere isolata nel nord Europa? Bisogna stare attenti a non generalizzare. Nelle ultime elezioni europee, il partito dei Verdi in Grecia ha eletto un rappresentante a Bruxelles. Piano piano abbiamo successi anche a sud. Non posso negare però che in Germania, Francia e paesi Scandinavi ci siano per ora più risultati.
Qual è il segreto? In Germania abbiamo saputo fare buon uso di alcune caratteristiche dello stato tedesco. A livello locale, nei singoli lander, siamo riusciti a entrare nelle amministrazioni e quindi dimostrare che sappiamo stare al governo e non solo all’opposizione. E’ stato un passaggio molto importante perché abbiamo potuto dimostrare che non solo abbiamo una buona teoria e dei principi, ma anche che sappiamo metterli in pratica.
Essere ecologisti e governare tra i compromessi, come è stato possibile? Ad esempio siamo riusciti a far partire alcune politiche che promuovono l’uso delle energie rinnovabili sul territorio e abbiamo visto come queste possono creare posti di lavoro. E’ stato un grande successo e soprattutto ha dato credibilità a noi come partito agli occhi dei cittadini.
Perché in Italia secondo lei non siamo ancora riusciti a fare lo stesso? Esiste il partito dei Verdi in Italia e lo conosco bene. Parlo spesso con Angelo Bonelli, il presidente. Purtroppo non hanno rappresentanti in parlamento, ma so che stanno lavorando duro per le prossime elezioni europee. Vi osservo molto dall’estero e secondo me i Verdi nel vostro Paese sono deboli a causa delle troppe divisioni interne.
Cosa consiglia? Credo che se i Verdi non si disperdessero tra Sel, Pd o altre forze politiche, il partito potrebbe tornare ad avere una grande influenza. Di sicuro i Verdi europei sono pronti a dare tutto il sostegno necessario perché questo avvenga.
Il futuro è un’Europa verde? E’ ottimista? Io sono fortemente convinto che l’Europa abbia bisogno di idee verdi per uscire dalla crisi. Noi lo chiamiamo un “Green New Deal”. Se le istituzioni saranno pronte ad ascoltare il nostro appello e a implementare politiche mirate alla salvaguardia del nostro pianeta, non posso che essere ottimista. Il nostro motto è sostenibilità, non austerità.
LA STORIA
Un dicastero creato a tavolino per sorreggere il governo Craxi
FABBRICA DI POLTRONE. Il ministero dell’ambiente in Italia ha una storia molto stravagante. E’ Bettino Craxi che lo istituisce, ma non perché abbia mai patito per la condizione verde: ha solo la necessità di creare una poltrona per il Partito liberale che entra nella sua squadra di governo. E il primo ministro, quando il dicastero è quello dell’Ecologia, porta il nome di Alfredo Biondi, la stessa persona (e non l’unica) che emigrerà con molta naturalezza in Forza Italia.
Una storia da libro italico di quegli anni tutti da bere. Un ministero creato a tavolino, scorporato da quello Beni culturali, nato anche per una necessità numerica la volontà del Caf (l’asse Craxi, Andreotti e Forlani) per sorreggere la prima presidenza del consiglio al Partito socialista. Bondi non brilla come ministro. E soprattutto i liberali hanno una necessità continua di distribuire poltrone: dopo Bondi la reggenza tocca a Valerio Zanone, massone e numero uno del partito. Quando il primo agosto del 1986 il ministero dell’Ecologia diventa ministero dell’Ambiente, tocca a Francesco De Lorenzo, liberale anche lui, negli anni a seguire potentissimo ministro della sanità. Dura appena un anno e Craxi, nell’aprile dell’anno successivo non ha più i numeri e nel governo tornato nella Democrazia cristiana e affidato per la quarta volta nella storia ad Amintore Fanfani va all’indipendente Mario Pavan.
Fanfani è una scelta di transizione. Tra il 1987 il 1992 si susseguono quattro governi (Goria, De Mita, Andreotti VI e Andreotti VII) e l’Ambiente resta sempre nelle mani del socialista Giorgio Ruffolo. Nel periodo tangentopoli arriva il primo ministro Verde ed è Carlo Ripa di Meana che poi passa il testimone a un giovanissimo Francesco Rutelli. Gli anni più recenti, invece, vedono l’allargamento dei poteri del ministero (delega anche sui porti) e la fa da padrone Altero Matteoli. Emiliano Liuzzi
Ministero delle seggiole Sarebbe meglio abolirlo
di Mauro Corona
L’ambiente è tutto ciò di cui non si occupa il ministro dell'Ambiente. Soprattutto là, dove c'è ancora un patrimonio naturale integro, ma mancano i servizi. Quassù, nella Valcellina, manca tutto, eppure le istituzioni permettono furti di ghiaia. Una vera mafia dell'oro bianco: con la scusa delle esondazioni non sistemano le strade, ma fanno prelevare la ghiaia. Stessa cosa con l'acqua. Abbiamo vinto un referendum, ma si continua comunque a concedere le centraline ai privati. E ancora: si blocca l'acqua dei torrenti, che è il bene più importante, anche da vedere. Perché il ministro dimentica anche che c'è un patrimonio psicofisico dell'occhio, che è lo stesso occhio di quando si ascolta una so-nata di Mozart o di Beethoven.
L'ambiente poi è anche pastorizia. Noi qui, ad esempio, abbiamo un parco (non mi piace molto parlare sempre di noi, ma devo farlo perché stiamo soffocando nell'ambiente incolto) dove hanno vietato il pascolo alle greggi. A Longarone per far passare il Giro d'Italia hanno bloccato per giorni la transumanza delle pecore: le cacche delle pecore sporcavano la strada e davano fastidio alle bici. Ma è mostruoso, perché la transumanza è una cosa che avviene da secoli. Le pecore brucano e lasciano escrementi che concimano la terra.
Bisogna poi recuperare i vecchi lavori. Perché ai ragazzi non si insegna il lavoro del bosco (qui ce ne sono di immensi)? Perché non gli permettiamo di recuperare la manualità, facendo sentieri, lavorando la legna, per poi magari vendere il ricavato alle cooperative? In questo modo si potrebbe avere un occhio attento all'ambiente. Dobbiamo capire che l'ambiente è una fabbrica a getto continuo. Che non si sfrutta con gli impianti di sci, dove si ruba e si spreca acqua per la neve artificiale. Ma investendo in altro, come percorsi per bambini, dove portare le scolaresche in gita, e insegnare loro le diverse specie di alberi, la loro carta d'identità, dove la corteccia è il viso e le foglie i capelli. Allora perché non facciamo percorsi per i bambini e i loro genitori? La mancanza di strade e sentieri è gravissima.
Aveva ragione il grande scrittore, Jean Giono, l'uomo che piantava gli alberi: il vero bisogno sta nelle piccole valli, dove ci si può chiamare da una costa all'altra. Qui non abbiamo servizi, non abbiamo negozi alimentari di frutta e verdura. Non abbiamo un tabacchi, una macelleria, e non abbiamo un'edicola. Eppure si vive anche di giornali, è inutile dire di no: serve anche leggere i quotidiani, visto che siamo tra le nazioni che leggono meno. Allora se l'ambiente fosse gestito da uno che sa come cavare un albero, che sa quando tagliarlo, e come sfruttarlo, si salverebbe questo patrimonio immenso, creando anche dei posti di lavoro. E invece si dedicano solo alle chiacchiere e alla cementificazione. Pensano a costruire ponti, autostrade, impianti di risalita, seggiovie e funivie, invece di incentivare il camminare e fare dei progetti per dei percorsi a piedi.
Dove sono le istituzioni? Dov'è questo governo? Lo dico a Letta, non vada a rinchiudersi in un convento a fare il frate, venga invece a vedere i problemi reali della gente. La Valcellina è tempestata di tir che rubano la ghiaia e li fanno passare da una strada del 1901. La domenica siamo bombardati dalle gare motociclistiche - perché pare che la Valcellina, da Longarone a Montereale, sia la più bella pista d'Europa - e nessuno ti protegge da un inquinamento acustico mostruoso.
Il ministero dell'Ambiente, a questo punto andrebbe abolito, perché non esiste, non serve a niente. È popolato da seggiolai. Anzi nemmeno, visto che qui i seggiolai impagliavano le sedie, loro invece le sedie le scaldano e basta. E l'Unesco è una patacca fasulla, farebbe bene a riprendersi il suo marchio che è vilipeso tutti i giorni. Mi secca fare la parte del grillesco, ma è così e lo è sempre stato.
Qui il paese di Erto non esiste più. Cinquant'anni fa hanno ammazzato duemila persone. Un genocidio. E quel 9 ottobre 1963 i telegiornali nazionali non hanno detto una parola, nemmeno di 3 secondi, mentre venivano uccise migliaia persone. Anche quello era ambiente. Lo scriveva Jorge Luis Borges: nell'ambiente ci vive l'uomo. E il vescovo George Berkeley: la mela non si può gustare da sola, perché ci vuole la mela e il palato che la gusta. Quindi l'uomo deve essere il palato che gusta questo ambiente, che gusta la natura. Ma deve trovarla buona la mela, ancora tutta intera. Invece la troviamo marcita, per l'incapacità di avere idee.
E non è che il ministero faccia di tutto per deturpare l'ambiente, semplicemente non ha idee. Quelle idee che dovrebbero provenire da chi l'ambiente lo vive. Ecco perché mi schiero contro la Tav, perché non si tratta solo di danneggiare l'ambiente ma anche l'anima di chi vive lì da secoli. Loro, gli abitanti della Val di Susa, hanno paura di veder la loro terra sconvolta, così come è stato fatto qui nel Vajont. La gente dovrebbe scendere in piazza non con i fucili, ma con le zappe. In tempo di crisi, in cui non si possono vendere scarpe, né vestiti, né occhiali, né automobili, bisogna tornare al bene primario: la legna per scaldarsi, il cibo per nutrirsi. Questo si deve vendere. Ed è l' ambiente che ti dà il cibo e il legno. Sarà la terra a darci i prodotti. Partiamo da lì. Impariamo a procurarci il cibo e a sfruttare i boschi. Saremo salvi e con un sacco di tempo libero. E la terra tornerà a fiorire e sorridere.
(testo raccolto da Emiliano Liuzzi)
Mauro Corona è nato nel 1950 e vive nella sua Erto (Pordenone), a due passi dal Vajont. É scrittore, alpinista e scultore. È autore di molti libri che raccontano l’uomo e le montagne. Tra gli altri: “Il volo della martora”, “Le voci del bosco”, “Finché il cuculo canta”, “Gocce di resina”, “La montagna”, “Nel legno e nella pietra”, “Aspro e dolce”, “L’ombra del bastone”, “Vajont: quelli del dopo”, “I fantasmi di pietra”, “ Storia di neve”, “La fine del mondo storto” (premio Bancarella 2011), “La ballata della donna ertana”, “Venti racconti allegri e uno triste”. L’ultima sua opera è “Confessioni Ultime”.
La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.
Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.
Dietro la maschera (già di per se bruttina) dello sfruttamento turistico dei paesaggi più pregiati si nascondeil volto orrendo del saccheggio neocolonialistico delle risorse naturali del continente più povero del mondo. La Repubblica, 12 aprile 2013
Cinema, negozi e zoo. Obiettivo: 1 milione di turisti. Pechino sfrutterà anche le materie prime ma gli ambientalisti protestano. Lo scalo dovrebbe essere pronto in due anni e sarà il più grande del sud del continente. Allarme degli ecologisti di tutto il mondo
PECHINO - La Cina costruirà un nuovo aeroporto internazionale affacciato sulle cascate Vittoria, patrimonio dell´Unesco tra due parchi nazionali di Zimbabwe e Zambia. Lo scalo sarà il più grande dell´Africa meridionale e punta ad attirare nel cuore della foresta pluviale oltre un milione di turisti all´anno. Più che un aeroporto, si annuncia un mega-centro dello shopping e del divertimento. Con centinaia di negozi, ristoranti, cinema, alberghi e uno zoo che metterà in mostra elefanti, bufali, giraffe e ippopotami per i visitatori ossessionati da foto-ricordo ad alta velocità.
L´aeroporto cinese, in mezzo al Matabeleland, scatena furiose polemiche nel continente africano e allarma gli ecologisti di tutto il mondo. Sotto accusa il nuovo potere di Pechino, che non esita a distruggere i luoghi più belli dell´Africa in cambio di materie prime, facendo affari con dittatori isolati dalla comunità internazionale. Il progetto dello scalo è stato presentato ieri nella capitale cinese e i lavori saranno ultimati entro due anni. Investendo oltre 200 milioni di dollari, finanziati dall´"Export-Import Bank of China", saranno realizzati anche 4 chilometri di superstrada per collegare le piste all´autostrada per Harare, oltre che 100mila metri di piazzole per gli aerei, 20mila metri di terminal e 5 parcheggi. Il responsabile del gruppo dello Jiangsu che si è aggiudicato i lavori, Zhu Haifeng, ha negato che le infrastrutture andranno a distruggere uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del pianeta. Le popolazioni locali, ndebele e makololo, denunciano invece l´abbattimento indiscriminato di foreste secolari, il rischio di estinzione per gli ultimi sei rinoceronti bianchi rimasti nel parco nazionale «Mosi-oa-tunya» e il pericolo di impoverimento idrico delle cascate. Gli ambientalisti stranieri sostengono che scaricare un milione di turisti all´anno tra shopping center, alberghi e visite guidate, imporrà la realizzazione di nuove centrali elettriche e un consumo d´acqua capace di abbassare la straordinaria portata di oltre 9mila metri cubi al secondo delle Victoria Falls. Pechino ha già presentato i voli diretti da 5 metropoli cinesi e ha assicurato di aver solo accettato l´invito del presidente Robert Mugabe. Lo Zimbabwe, sull´orlo del collasso economico, non spenderà un dollaro: i costi dell´aeroporto saranno coperti dalla concessione del suo sfruttamento commerciale, da licenze per il taglio di legname e da materie prime. Per i media africani l´annunciata cementificazione cinese delle cascate Vittoria è già il simbolo del neo-colonialismo di Pechino. Il luogo, che gli indigeni chiamano «il fumo che tuona», è stato scoperto dallo scozzese David Livingstone nel 1855, in pieno dominio britannico, che lo intitolò alla regina Vittoria. Da allora non ha più avuto pace. È stato minacciato da un ponte ferroviario e già oggi è preso d´assalto da 300mila turisti all´anno decisi ad ammirare un fronte d´acqua largo 1,5 chilometri e con un´altezza media di 128 metri, il doppio delle cascate del Niagara.
Il governo cinese difende il nuovo aeroporto assicurando che diventerà uno dei motori della ricostruzione economica dello Zimbabwe e che il progetto rientra in un piano più vasto di «valorizzazione dei luoghi più belli del mondo». La Cina si appresta a superare gli Usa e a diventare il primo esportatore di turisti del pianeta, mentre i cinesi hanno già conquistato il primato della spesa per vacanze all´estero. Business che il dittatore Mugabe, che a fine marzo ha incontrato in Sudafrica il nuovo leader Xi Jinping, non vuole lasciarsi sfuggire.
Tra gli africani però cresce la paura di essere riconquistati da una potenza straniera. In Zambia i minatori sono scesi in sciopero dopo che manager cinesi hanno sparato sugli operai in rivolta contro le paghe da fame, il Congo denuncia la deforestazione causata dall´"invasione gialla", in Kenya sale la protesta contro l´inquinamento dei grandi laghi, distrutti da serre e pescicolture cinesi, mentre il presidente nigeriano tuona contro il «neocolonialismo di Pechino che sfrutta le materie prime degli africani per poi rivendere a loro sottoprodotti finiti». Proprio l´aeroporto delle cascate Vittoria, secondo gli ecologisti, diventerà la pista di decollo privilegiata per l´esportazione verso l´Asia delle risorse naturali di Zambia e Zimbabwe.
Prima nel Nordest per consumo di suolo negli ultimi vent’anni. In provincia oltre 30 mila le case vuote. il Messaggero Veneto, 30 marzo 2013, allegato documento scaricabile
PORDENONE. Nonostante la provincia di Pordenone realizzi il 40 per cento del Pil regionale agricolo, è la realtà nel Nordest dove si è consumato più suolo negli ultimi decenni. Ad attestarlo una ricerca condotta dal dipartimento di Scienze agrarie e ambientali dell’università di Udine utilizzato dalla Provincia di Pordenone nell’ambito dell’osservatorio sulle politiche abitative che sta continuando il suo lavoro di analisi ed elaborazione di proposte alle amministrazioni comunali per quanto riguarda l’urbanistica e l’edilizia. In base a tale ricerca, negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila la Destra Tagliamento risulta al primo posto nel Triveneto per incremento delle aree urbanizzate, con un aumento del 19,7 per cento, seguita da Padova, Verona e Rovigo. La provincia di Udine, nello stesso periodo, mostra un aumento più contenuto che si attesta intorno all’11,5 per cento.
«Il primato della provincia di Pordenone per incremento relativo di aree urbanizzate - spiega nella sua relazione, acquisita agli atti della Provincia, Elisabetta Peccol dell’ateneo friulano - diventa più rilevante se viene letto in relazione al dato sulla percentuale di aree urbanizzate sul totale della superficie amministrativa. Infatti, già nel 1990 la Destra Tagliamento presentava una copertura di aree urbanizzate del 5,9 per cento, maggiore rispetto alla provincia di Udine (5,34 per cento)». Con il rilevante incremento in particolare nel periodo 1990-2006, Pordenone passa al 7,04 per cento di superfici urbane rispetto al 5,95 per cento di Udine.
Le perdite assolute di superfici agricole nello stesso periodo, evidenzia la ricerca, vedono Pordenone sempre nelle prime posizioni, con 2 mila 718 ettari, dopo Padova, Verona e Udine. «Se viene data lettura della perdita totale su base annuale - continua il documento - risulta che il Friuli occidentale ha perso 182 ettari di superfici agricole ogni anno. Tale valore riflette sia la crescita di aree urbane su terreni agricoli, sia l’avanzamento del bosco, causato in parte dall’abbandono dei pascoli nelle aree montane, che per l’intero periodo è di 113 ettari». Gli effetti della cementificazione si sono visti nel periodo post-crisi: con l’esplosione della bolla immobiliare che ha portato, dal 2001 al 2009, alla costruzione di oltre 25 mila abitazioni (8,4 milioni di metri cubi di cemento) il 19 per cento degli immobili - tra vecchi e nuovi - risulta disabitato. In sostanza, come attesta l’Osservatorio provinciale, sono quasi 30 mila le case vuote che riuscirebbero a soddisfare la domanda del mercato da qui fino al 2020.
Il consumo di suolo, peraltro, non è solo uno spreco in sè, soprattutto visto che l’ondata di cemento è stata sproporzionata rispetto alle possibilità del mercato. «Le aree rurali - spiega la Peccol - svolgono un importante ruolo nel mantenimento della qualità dell’ambiente tra cui la salvaguardia idrogeologica, la conservazione della biodiversità, la valorizzazione delle risorse naturali locali, la difesa del patrimonio genetico vegetale e animale locale». La ricetta imposta dalla sostenibilità futura non può che concretizzarsi in piani urbanistici a cubi zero, dove si mettono in campo - attraverso piani settoriali - incentivi per la ristrutturazione e riqualificazione energetica degli edifici esistenti. Una sfida che parte da Pordenone alle prese con la redazione del nuovo piano regolatore.
Nota: una parte dello studio è scaricabile direttamente da qui
Dal presidente del FAI un appello proposta che probabilmente stride con la sostanza degli interessi territoriali che sostengono il nuovo governo regionale, ma tentar non nuoce. Corriere della Sera, 4 marzo 2013 (f.b.)
Roberto Maroni è stato eletto governatore della Lombardia. In quanto nuovo presidente del Fai (Fondo ambiente italiano), mi auguro che il legame che da sempre lega la Regione alla Fondazione possa perdurare e rinforzarsi, sviluppando costruttivamente la dialettica tra le istituzioni. Nell'augurare a Maroni un ottimo lavoro, ricordo alcuni temi che il Fai considera di importanza principale.
Nel programma di Maroni spicca la necessità di limitare il consumo del suolo nella Regione e per ciò ci complimentiamo con lui. È necessario intervenire prontamente e con decisione, cogliendo l'occasione dei piani urbanistici (Pgt) ancora da approvare in circa un terzo dei Comuni lombardi. Dati allarmanti emergono dai primi 753 piani regolatori approvati, secondo i quali nei prossimi anni si consumerebbe il 112% di suolo in più rispetto a quanto consumato nel periodo 1999-2007 da tutti i 1546 Comuni. Possiamo continuare così?
Quando l'Italia era un Paese fondamentalmente agricolo non esisteva il dissesto idrogeologico, che si è manifestato la prima volta con l'alluvione di Firenze. Per mettere in sicurezza il territorio, l'agricoltura deve riprendere a svolgere un ruolo decisivo, soprattutto nelle zone montuose, sovente abbandonate. L'identità lombarda ha radici profonde nell'agricoltura, eppure le terre di questa Regione, tra le più fertili d'Europa, sono occupate progressivamente dal cemento, invase dal bosco, oppure vengono abbandonate. La nutrizione è il tema dell'Expo 2015. La nuova economia della Regione dovrebbe partire proprio da un rilancio dell'agricoltura, secondo una strategia da reinventare.
Il programma elettorale di Maroni tratta anche della mobilità sostenibile. Per raggiungere un tale lodevole obiettivo è necessario impedire alcune autostrade non ancora attuate, come quella Broni-Mortara, che divorerebbe, da sola, almeno 1500 ettari di ottimi terreni. Vanno incrementate le mobilità su ferro e ciclopedonale, mentre va ridotta quella su gomma, anche per migliorare l'aria che respiriamo. Il sistema dei parchi e delle aree protette è un vanto della Lombardia. È necessario garantirne l'integrità ma anche fare di più. Elevando, per esempio, il Parco del Ticino (riconosciuto dall'Unesco nel programma Mab, The Man and the Biosphere) alla dignità di primo parco transnazionale d'Europa. Perché ciò possa avvenire è necessario rinunciare alla costruzione della Terza pista alla Malpensa, che divorerebbe, insieme alle costruzioni annesse, la più grande brughiera del Sud d'Europa. Piuttosto è da rendere utilizzabile la seconda pista, allontanandola quanto è necessario dalla prima.
Per presentare al mondo la Lombardia durante l'Expo, bisogna puntare sul suo splendido patrimonio culturale: dalla Villa Reale di Monza al Sacro Monte di Varese. Il Fai, nato per servire il bene comune, è a disposizione della Regione per contribuire a dare valore e a comunicare questa ricchezza paesaggistica, storica e artistica, tutta da dispiegare e raccontare al Globo, riconoscendone il sistema. Sarebbe di straordinaria importanza se gli assessori, in questo caso quelli che si occuperanno di territorio, agricoltura e cultura, potessero essere scelti in base al merito e all'amore per le ricchezze della Regione accumulatesi nei secoli, abbandonando il metodo triste della spartizione politica.
Infine una raccomandazione di carattere più generale. La nostra Costituzione presuppone il rispetto del Codice per i beni culturali e la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione riservata alle Soprintendenze. Qualsiasi attentato a tale legge e a questa organizzazione, che l'Europa ci invidia, sarebbe un vulnus ai principi primi della nostra convivenza civile e un piegare l'interesse generale a interessi particolarissimi. Su ciò il Fai sarà inflessibile.
Le reazioni diffuse alla crisi economica se non altro dimostrano alcune potenzialità per il territorio, la città, le aree periurbane, da non sottovalutare. Corriere della Sera Lombardia, 13 febbraio 2013, postilla
MILANO — Meno carne, pesce, ortaggi e frutta in tavola. Più uova, farina, pane, riso e pasta. Sulle tasche dei lombardi la crisi pesa e li costringe anche a cambiare il menu. E nel carrello della spesa non solo si impoverisce la qualità, ma diminuisce anche la quantità, tanto che i consumi alimentari nel 2012 sono scesi del -5,7%. «Sono tagli e rinunce degni di un'economia di guerra», dice Giuseppe Elias, assessore regionale all'agricoltura, esaminando il rapporto di Unioncamere sullo stato di salute del settore. Un comparto «green» che, come spiega il presidente Francesco Bettoni, anche negli ultimi tre mesi dello scorso anno «conferma una situazione difficile»: trimestre negativo per il lattiero-caseario e per le carni bovine, positivo solo per il mercato di suini, cereali e vini, grazie all'export (+6,5% a novembre), che rimane il salvagente per tante aziende agricole, considerato il continuo calo della domanda interna.
Non solo però i lombardi cambiano stile e abitudini a tavola. Infatti, in tempi di portafogli più magri, c'è anche un ritorno del «fai-da-te» casalingo: l'impennata di vendite di farina, uova e burro sta a indicare che le famiglie hanno la tendenza a preparare pane, biscotti, torte e pasta in casa, rinunciando ad acquistarli al supermercato. Così come è boom dell'orto «fai-da-te»: in giardino, o sul balcone, dilagano le coltivazioni domestiche di insalata, pomodori, piante aromatiche, zucchine, melanzane, piselli, fagioli, basilico. E non è tutto: perché, con i consumatori sempre a caccia di sconti e risparmi, da Sondrio a Pavia sono precipitati (-3,3%) gli affari per i piccoli negozi di alimentari, come per fruttivendoli e macellerie; mentre sono volati quelli per i discount (+3%) e per i mercati contadini dove c'è un miglior rapporto qualità/prezzo.
Ma, se le famiglie tirano la cinghia, anche le 50.258 aziende agricole della Lombardia non sorridono. Anche perché, negli ultimi tre mesi del 2012, hanno chiuso 248 fattorie, mentre il 78% degli imprenditori della terra ha già annunciato che non farà investimenti nel 2013. Numeri allarmanti, tanto che l'assessore Elias parla di «scenario preoccupante», mentre il ricercatore Luca Marcora, che ha messo a punto per Unioncamere l'analisi congiunturale del quarto trimestre 2012, spiega che «l'aumento dei costi di produzione e la debolezza dei consumi interni continuano a penalizzare gli agricoltori». E il futuro è tutt'altro che roseo: perché all'orizzonte si affaccia la minaccia di nuove multe europee per il probabile sforamento delle quote latte, perché la siccità che ha falciato (-25%) l'ultimo raccolto di mais, perché chi produce latte, Grana Padano, carne bovina, ortaggi e frutta continua a lavorare in perdita.
Postilla
La spinta verso l'agricoltura fai da te è certamente il sintomo di una crisi, che non è congiunturale ma di sistema. Ma pensare che indichi una soluzione proponibile per l'intera umanità sarebbe come se, ai tempi di Marx, si fosse pensato di uscire dal capitalismo della borghesia proponendo di tornare all'autoconsumo del feudalesimo. E' certamente più difficile pensare (e costruire) un domani che superi il presente anziché riproporre il passato. Purtroppo è l'unica via che consenta di uscire dalla barbarie presente senza ricadere (se pure fosse possibile) in quella dei bel tempi andati
Consumo di suolo, paesaggio, agricoltura. Il Forum per i territori chiede ai candidati un impegno preciso. Comunicato stampa e un'iniziativa su cui impegnarsi, prima e dopo il 25 febbraio, postilla
La rete delle 879 organizzazioni che danno vita al Forum nazionale per la difesa del territorio e del paesaggio inizia da oggi a sottoporre ai candidati di tutti gli schieramenti in lizza alle elezioni. zioni
politiche del 24/25 febbraio – attraverso la diretta azione dei suoi 143 comitati locali “Salviamo il Paesaggio” – un proprio documento di priorità sui temi connessi al concreto contenimento del consumo di suolo e alla salvaguardia dei territori e del paesaggio, con postillaSi tratta di otto punti “secchi”, ovvero otto leggi prioritarie che il Forum nazionale invita a promuovere o a eliminare sin dall’inizio della nuova legislatura, richiedendo ai candidati di esprimere la propria condivisione e, dunque, a sottoscrivere un preciso impegno.
Le adesioni dei candidati verranno puntualmente segnalate sul nostro sito e costituiranno dunque una mappa documentale per tutti gli elettori sensibili al tema del consumo di suolo (ormai al centro dell’agenda politica nazionale).
LE LEGGI DA FARE SUBITO
1. Approvare il DDL dedicato alla valorizzazione delle aree agricole e al contenimento del consumo del suolo, approvato a fine legislatura dal Consiglio dei Ministri e ancora da dibattere nelle commissioni e in aula, apportando nel contempo una serie di miglioramenti suggeriti dal Forum.
2. Una legge che regoli, tramite la partecipazione dei cittadini, la pianificazione e la salvaguardia dei suoli liberi e del paesaggio, secondo lo spirito delle “linee guida” formulate dal Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio.
3. Una legge che regoli il ciclo di vita degli immobili, includendo obblighi di recupero degli inerti che ne riducano drasticamente lo smaltimento in discarica.
LE LEGGI DA ELIMINARE SUBITO
1. La cosiddetta “legge Obiettivo”, così da riportare le attuali 390 opere in essa contenute nell’ambito delle procedure ordinarie.
2. I commi 1, 2 e 3 della cosiddetta legge “Sviluppo bis”, così da azzerare gli incentivi per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (di importo superiore a 500 mln di euro) anche in mancanza di un equilibrio del piano economico.
3. Il cosiddetto “silenzio assenso” e il “piano per le riqualificazioni delle città”.
4. La possibilità di dichiarare siti “di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati”, così da non più consentire l’autorizzazione di progetti edificatori in deroga alle vigenti leggi urbanistiche (è il caso, ad esempio, del Muos di Niscemi …).
E INFINE …
Una ultima richiesta: l’assunzione dell’impegno a non approvare norme in campo urbanistico, edilizio, paesaggistico, culturale o ambientale, in contrasto con i principi di tutela del territorio, dei beni culturali, del paesaggio, dei suoli liberi e dell’ambiente in genere. Questa richiesta di impegno può apparire semplicistica, ma nel corso degli anni (nel recente periodo, in particolare) l’approvazione di norme in stridente contrasto con l’articolo 9 della Costituzione o con quelle di rispetto urbanistiche e paesaggistiche, ci suggeriscono di non dare nulla per scontato …
qui potete cercare, e trovare, il testo integrale del documento
Consumo di suolo non è solo devastazione del paesaggio e della natura. E' anche minaccia all'alimentazione. Una riflessione per eddyburg sollecitata dal rapporto ISPRA presentato lo scorso 5 febbraio a Roma.
I dati presentati dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) lo scorso 5 febbraio fanno fare un passo in avanti al nostro Paese, aumentando la consapevolezza verso un temadi enorme attualità ed urgenza e mettendo le istituzioni in una posizione di rapidadecisione in merito. Ma il tema del consumo dei suoli è anche urgente perché èstraordinariamente legato alla contrazione della produzione di cibo. Insommaper forza di cose, se avanza il cemento, indietreggia il cibo. E seindietreggia il cibo, aumenta la dipendenza di una nazionedall’approvvigionamento di materia prima agricola dal mercato estero. Eprobabilmente il continuo aumento di questi ultimi anni della nostra spesa perimportare rispetto a quella per esportare cereali e prodotti agricoli di basenon è disgiunto dai consumi di suolo agricoli. Nel 2011 il saldo tra import edexport agricolo è di molto peggiorato andando a -1,2 Miliardi di EURO contro i-768 milioni del 2010…insomma spendiamo sempre di più per comprare materiaprima per cibo e sempre meno la esportiamo (fonte: Ministero delle PoliticheAgricole Alimentari e Forestali - Rivista telematica – www.aiol.it).
Ma non solo aumenta la dipendenza conl’estero. Aumenta anche l’esposizione al rischio di non essere più in grado diassicurare cibo ai propri abitanti con le risorse di suolo esistenti. Questo sichiama attacco alla sovranità alimentare o alla sicurezza alimentare (e ilministro Catania lo aveva ben evidenziato nel rapporto tecnico che accompagnavala prima proposta di legge). E in effetti se si fanno due calcoli trasformandoi consumi di suolo in cibo, vengono fuori cose sorprendenti.
Se accettiamo per un italiano una dieta calorica di 2500kcal/giorno e assumiamo, rielaborandole, le indicazioni di uno studio INEAriportato da Luca Mercalli (1) con cui si stabiliva la corrispondenza trafabbisogno calorico, varietà della dieta mediterranea (cereali, latte, grassi,carne, burro, uova, etc.) e superficie agricola necessaria per sostenere quelladieta, esce che occorrono circa 1500 m2 per persona per garantire il propriofabbisogno annuo. In altri termini vuol dire che con 1 ettaro mangiano 6,6persone.
Si tratta di una cifra di molto approssimata e indicativa che nontiene conto di tanti altri fattori ma che qui ci è molto utile per farci unordine di grandezza di cosa significhi il consumo di suolo in termini di contrazionedel cibo. Se quegli 8 m2 al secondo fossero terreni agricoli, sarebbe come direche ogni ora 19 persone in meno sono alimentabili in questo Paese con lerisorse di terra del Paese. Gli italiani stanno attentando a se stessi!Con quelle cifre, secondo me ancora sottostimate rispetto adun fenomeno che è probabilmente molto più acuto e diffuso (2), ogni anno non simettono a tavola 167.000 persone. È come se una città come Perugia o ReggioEmilia si trovasse da un anno all’altro senza cibo. E tutto questo calcolo èfatto immaginando di destinare tutta la produzione nostrana al mercatonazionale, cosa che sappiamo bene non essere vero, visto che il nostro ciboviene esportato in tutto il mondo e attrae eno-gastronauti da tutto il mondo. Pertantoi dati dovrebbero esser ancor più gravi. Quindi, come ho cercato di dire conquesto semplice esercizio sicuramente perfettibile ma sufficiente a farcicomprendere una parte importantissima del problema, il consumo di suolo insidiail Paese su più fronti e lo sta mettendo in ginocchio.
Gli strumenti con cui gestiamo il suolo sono vecchi e inadatti.Abbiamo leggi inadeguate (il testo unico ambientale definisce il suolo come leinfrastrutture e gli abitati…leggere per credere: art. 54 L. 152/06) e non vi èconsapevolezza che il suolo sia una risorsa ambientale fornitrice di serviziecosistemici per tutti (anche questo si è detto a Roma in quel convegno: vd.relazioni di Terribile, Claps, Marchetti, Gardi, etc.). Ma non solo. Ladimensione ambientale della risorsa suolo non è affatto intercettata tra lecompetenze urbanistiche dei comuni e delle altre amministrazioni. L’uso delsuolo continua ad essere dominato dalla rendita. Gli effetti ambientali deiconsumi non entrano in alcun bilancio. Ogni comune pianifica se stessotrattando il proprio territorio come una sorta di regno completamente disgiuntodal vicino. Rarissimi i casi di cooperazione sull’uso del suolo. E questo nonva bene perché paesaggio, suolo, ambiente, acqua…sono risorse in confinabiliche richiedono cooperazione pianificatoria che abbiamo perso del tuttosoggiogati da ben altri interessi.
Così anche l’urbanistica oggi deve farelucidamente i conti con le sue responsabilità che prendono nuovi nomi, come adesempio la responsabilità verso la tutela della sovranità alimentare. Ma moltiamministratori e urbanisti ancora sono lontani dal misurarsi con questadimensione che invece è urgente e grave (solo 8 italiani su 10 possono mangiaredai nostri campi).
Anche per tutto ciò credo sia urgente che, parlando dicontenimento del consumo di suolo si parli di riforma seria delle competenzedelle amministrazioni locali per quanto riguarda la materia ambientale e quindianche per l’uso del suolo. I comuni non possono più governare da soli, comesono stati di fatto ridotti ad essere (le province sono state svuotate e leregioni hanno spesso delegato tutto verso il basso), un patrimonio collettivodi interesse generale e comune (3), verso il quale occorre una dimensione diresponsabilità che supera i propri confini. Occorre aiutarli con strutture diaccompagnamento e di cooperazione per centrare un obiettivo comune, ben diversospesso dall’obiettivo del Comune.
(1) Mercalli L. e Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino, p. 225
Un'autorevole conferma dei dati sulla devastante dimensione della sottrazioni di suolo alla naturalità, senza contare le altre forme di land grabbing. Quando tutela del paesaggio e urbanistica non s'incontrano. La Repubblica, 8 febbraio 2013, postilla
OTTO metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni: questo il ritmo del forsennato consumo di suolo che sta consumando l’Italia. Questo dato, che colpisce come una mazzata, emerge dagli studi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) che ricostruiscono l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Siamo passati da un consumo di suolo di 8.000 kmq nel 1956 a oltre 20.500 kmq nel 2010, come dire che nel 1956 ogni italiano aveva perso 170 mq, nel 2010 la cifra è salita a 340 mq pro capite. Tra i divoratori di suolo trionfa la Lombardia, seguita dal Veneto e dal Lazio. Cifre impressionanti, che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9 % per il nostro martoriato Paese. È come se ogni anno si costruissero due o tre città nuove, delle dimensioni di Milano e di Firenze, e questo in un Paese a incremento demografico zero.
Per chi dunque costruiamo, e perché? Da cinquant’anni trova credito in Italia la menzogna secondo cui l’edilizia (comprese le “grandi opere” pubbliche) sarebbe uno dei principali motori dell’economia. È per questo che si sono succeduti, da Craxi a Berlusconi, irresponsabili condoni dei reati contro il paesaggio. In nome di una cultura arcaica, l’investimento “nel mattone” continua ad attrarre investimenti, anche per “lavare” il denaro sporco delle mafie, stabilizzandolo nella rendita fondiaria. Sfugge a politici e imprenditori che la presente crisi economica nasce proprio dalla “bolla immobiliare” americana. Peggio, essi si tappano gli occhi per non vedere che la crisi che attanaglia l’Italia è dovuta, anche, alla mancanza di investimenti produttivi e di capacità di formazione. Si utilizza, invece, il nostro suolo come se fosse una risorsa passiva, una cava da fruttare spolpandola fino all’osso.
Che questo accada nel Paese che per primo al mondo ha posto la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato (articolo 9 della Costituzione) è un paradosso su cui riflettere. Se agli altissimi principi costituzionali corrispondono pessime pratiche quotidiane, è prima di tutto perché al boom post-bellico, con la sua fame di benessere, non è corrisposta una crescita culturale (né mai vi sarà finché la scuola pubblica viene trattata come un fastidioso optional, secondo la filosofia delle destre). Ma è anche per il peccato d’origine della normativa prebellica: alla legge Bottai sulla tutela del paesaggio (1939) seguì infatti la legge urbanistica del 1942, ma non fu creato fra le due il necessario raccordo, quasi che fosse possibile chiedere alle Soprintendenze di tutelare un paesaggio senza città, ai Comuni di gestire città senza paesaggio.
La Costituzione radicalizzò il contrasto, ponendo le competenze sul paesaggio in capo allo Stato e quelle sul territorio e l’urbanistica in capo alle Regioni (che di solito sub-delegano i Comuni), con una giungla di conflitti di competenza che coinvolge i ministeri dei Beni Culturali, dell’Ambiente e dell’Agricoltura, ma anche regioni, province e comuni. È negli interstizi di questa normativa deficitaria e barcollante che si insediano gli speculatori senza scrupoli, i divoratori del suolo, i nemici del pubblico bene.
Interrompere queste pratiche stolte, si sente ripetere, è impossibile perché vanno protette la manodopera e le imprese. Non è vero. Di lavoro per imprese e operai ve ne sarebbe di più e non di meno se solo si decidesse di dare priorità assoluta alla messa in sicurezza del territorio (il recente rapporto congiunto dell’Associazione nazionale costruttori edili e del Cresme-Centro di ricerche economiche e di mercato dell’edilizia fornisce dati impressionanti su necessità e inadempienze in merito). Se si decidesse di dare priorità al recupero degli edifici abbandonati, di abbattere gli orrori che assediano le nostre periferie sostituendoli con una nuova edilizia di qualità anziché catapultare grattacieli nel bel mezzo dei centri storici.
Se si verificassero i dati sulle proiezioni di crescita demografica prima di autorizzare nuove edificazioni. È falso che vi siano da una parte i “modernizzatori” che cementificano all’impazzata e dall’altra i “conservatori” che non costruirebbero più una casa e condannerebbero alla disoccupazione gli operai. La vera lotta è un’altra: fra chi vuole uno sviluppo in armonia con il bene pubblico e la Costituzione, e chi vede nel suolo italiano solo una risorsa da saccheggiare a proprio vantaggio.
Postilla
I risultati delle analisi dell’autorevole Ispra confermano i dati quantitativi sul consumo effettivo di suolo degli ultimi anni misurati in più sedi . Il trend a livello nazionale (i mediatici 8 mq al secondo) calcolato dall’Istituto conferma l’ordine di grandezza di grandezza delle valutazioni compiute localmente in varie parti d’Italia (la Toscana, l’Emilia-Romagna, la Lombardia): circa 35mila ettari vengono sottratti al territorio ogni anno rurale (agricolo + naturale). Non si tratta più di valutazioni approssimative fondate sulle statistiche della riduzione della superficie delle aziende agricole, ma di dati che misurano l’effettiva trasformazione di terreni porosi e in vario modo caratterizzati da “naturalità” in terreni laterizzati: la “repellente crosta di cemento e asfalto”, per dirla con Antonio Cederna, che sigilla il suolo (soil sealing) tagliando una delle radici che legano la città dell’uomo dalla vita del pianeta. Chi promosse nel 2005, l’edizione della Scuola di eddyburg dedicata a questo innaturale fenomeno, allora ignorato alle istituzioni della cultura e della politica, può oggi essere soddisfatto almeno per la presenza di dati quantitativi attendibili e per l’attenzione dell’opinione pubblica. Siamo però ancora lontani non solo da provvedimenti efficaci per contrastare il fenomeno, ma perfino dalla generale consapevolezza del carattere radicale delle soluzioni necessarie.
Ancora una documentata denuncia della devastazione del territorio prodotto dall'ideologia dominante e dalle conseguenti pratiche. Il Fatto quotidiano online, 7 febbraio 2013
Otto metri quadrati di terreni vergini vengono ricoperti di cemento e asfalto ogni secondo. Ogni cinque mesi viene cementificata un’area pari a quella di Napoli; ogni anno una superficie uguale all’estensione di Milano e Firenze. Sono questi i dati impressionanti che l’Ispra, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, ha presentato ieri in un affollato e qualificatissimo convegno.
L’Ispra ha avuto lo straordinario merito di aver sistematizzato tutti gli studi e le ricerche che negli ultimi anni avevano riguardato il fenomeno e di aver ricostruito per la prima volta l’andamento del consumo di suolo in Italia dal 1956 al 2010. Cinquantatré anni fa era urbanizzato il 2,8% del territorio, contro la media europea del 2,3%. Al 2010 il consumo di suolo italiano è pari al 6,9% e manteniamo il triste record europeo. Nel 1956 la graduatoria delle regioni più cementificate vedeva la Liguria superare di poco la Lombardia con quasi il 5% di territorio “sigillato”, distaccando, Puglia a parte (4%), tutte le altre. Dopo mezzo secolo la situazione cambia:la Lombardia supera la soglia del 10%, ponendosi in testa alla classifica, seguita da Puglia, Veneto, Campania, Liguria, Lazio e Emilia Romagna, ma quasi tutte le altre (14 su 20) oltrepassano abbondantemente il 5% di consumo di suolo.
Il dato è ancor più impressionante se si pensa che il territorio italiano è morfologicamente tormentato, presenta vaste zone collinari e montagne dove è pressoché impossibile costruire e cementificare. Il consumo di suolo ha dunque aggredito le parti pianeggianti ed è ancora l’Ispra ad aver documentato che lungo la costa adriatica, quella ligure, quella romana e della conurbazione napoletana i valori di occupazione del suolo raggiungono valori anche superiori al 40%. Per la pianura padana compresa tra Bergamo e Venezia era già stato l’Istat due anni fa ad aver denunciato la esistenza di un gigantesca conurbazione a bassa densità che ha divorato milioni di ettari di campagna e non ha rispettato neppure i fiumi.
Ed ecco la prima conseguenza della follia italiana: con cadenza regolare le aree pianeggianti vengono investite da gigantesche ondate di acqua che non riesce più a defluire negli alvei fluviali. Alessandria, Genova, le Cinque terre,la Lunigiana, Vicenza e tanti altri tragici esempi, forniscono la misura dell’insensata strada che l’Italia ha intrapreso. Piangiamo centinaia di morti innocenti, di devastazioni urbane e paesaggistiche, di miliardi di euro di danni. Uno sviluppo cieco imposto dalla rendita fondiaria speculativa sta riducendo il nostro paese in una gigantesca colata di cemento.
La seconda conseguenza sta nel disordine urbano e nelle disfunzioni che verifichiamo nella vita di ogni giorno. Ci si muove a fatica nelle nostre città: stiamo diventando un paese immobile perché prigioniero del cemento. E perdiamo così preziose occasioni di lavoro in questi tempi di crisi. La delocalizzazione che nei decenni precedenti prediligeva i paesi più poveri, oggi riguarda la Svizzera o la Carinzia, dove chi investe trova aree funzionali, trasporti che funzionano, servizi tecnologici di avanguardia.
E mentre i paesi europei, Germania per prima, approvano regole che limitano l’espansione urbanistica, nel Veneto dove i capannoni industriali abbandonati rappresentano il 50% della “capannonia” costruita negli anni della crescita economica si sta ad esempio dando il via alla costruzione di 5 nuove “città del divertimento” che divoreranno altri 200 ettari di campagna. Tutte le città, piccole e grandi, continuano ad espandersi senza fine mentre aumentano le case vuote. Si costruisce per favorire gli investimenti della grande finanza internazionale, anche con le grandi opere inutili: dal Ponte sullo stretto, all’Alta velocità della Val di Susa, dal raddoppio dell’aeroporto di Fiumicino, alla folle corsa a costruire porti turistici che, come ad Imperia, nascondono il malaffare. L’Ispra ha compiuto dunque un atto di grande rilevanza: ha reso noti i dati nazionali e ha dato l’allarme su quanto potrebbe accadere se non blocchiamo per sempre l’espansione urbana.
Ma di questo, come noto, i tre maggiori contendenti (Pd, Monti e Pdl) non parlano in campagna elettorale. Il sistema Sesto San Giovanni, e cioè l’assoluta discrezionalità con cui si aumentano a piacere le volumetrie da realizzare è un comodo giocattolo che permette guadagni illeciti e consenso sociale.
Stop al consumo di suolo e Salviamo il paesaggio sono invece le due grandi spine nel fianco di questo sistema di potere cieco e insensibile al bene comune. E sarà la voce delle popolazioni che non ne possono più di vedere devastato il paesaggio italiano a invertire il corso degli eventi. Anche grazie al prezioso lavoro dell’Ispra.
Bel Paese? Mica tanto. L’Italia, più che sul lavoro, è diventata una Repubblica fondata sul cemento. E lì rischia di restare, con i piedi piantati nell’asfalto di un territorio sempre più urbanizzato, brutto e, per giunta, pericoloso. Non è una storia nuova, anzi, e proprio il fatto che risalga a tempi lontani la rende ancora più inquietante. «Non so, non so perché, perché continuano a costruire le case e non lasciano l’erba», cantava il “ragazzo della via Gluck” di Celentano nel 1966 e, alla fine, si chiedeva «se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà...».
SCAVIAMO COME TALPE - Quasi mezzo secolo dopo, produciamo cemento come nessun altro: una media di 565 chilogrammi per cittadino, di fronte a una media europea di 404. Per «vantare» questo primato ci servono quantità mostruose di sabbia, ghiaia e pietrisco, i cosiddetti «materiali inerti» con cui si realizza il cemento. Quindi scaviamo come talpe instancabili, deturpando il territorio: nel 2010 c’erano 5.736 cave attive e 13 mila dismesse, che al di là dell’ufficialità salivano a un numero non quantificabile, visto che molte Regioni italiane non le censiscono nemmeno, come risulta dall’ultimo studio sull’attività estrattiva di Legambiente. Le imprese del settore, vendendo sabbia e ghiaia, ricavano circa 1 miliardo e 115 milioni di euro all’anno, mentre nelle casse pubbliche, in cambio delle concessioni per le cave, entrano meno di 45 milioni. Sembra «materiale inerte» anche lo Stato, visto che la tassazione media sull’attività estrattiva è all’incirca del 4% e ci sono regioni come Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, dove si cava senza pagare un euro. In Inghilterra, tanto per fare un esempio, si paga il 20%.
SOLUZIONE - Per scavare e devastare di meno un sistema esiste, e negli altri Paesi europei lo si utilizza: si recuperano i materiali dalle costruzioni e dalle demolizioni, piccoli o enormi che siano. Nei Paesi Bassi il quantitativo di materiale edile riciclato è del 95,1%, in Danimarca il 94,9%, in Belgio il 90%, in Germania l’86,3%. Noi chiudiamo la classifica con un misero 10% (dati Eurostat e Ispra), mentre va a finire nelle discariche o negli inceneritori il restante 90%, con tutti i costi ambientali ed economici che questo comporta. Per spiegare questo comportamento anomalo va detto che in Danimarca, per esempio, buttare materiale edile in una discarica costa una tassa circa cinque volte più alta di quella che si paga in Italia. Da noi, in più, a incentivare l’«usa e getta» c’è anche l’ampia offerta delle convenienti discariche abusive nelle mani della malavita, e quindi è tutta una ruota che gira, dalla parte sbagliata.
LOGICA SBAGLIATA - In sintesi, siamo i primi a produrre cemento e gli ultimi a saperlo riciclare. Le ragioni di questa giostra stanno, in buona parte, nella quantità di nuove costruzioni realizzate negli ultimi anni: 260 mila solo nel 2009 tra abitazioni e fabbricati non residenziali. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel decennio 2001-2011, di fronte a un incremento della popolazione stimato in un milione di nuclei famigliari, sono stati costruiti 1 milione e 571 mila nuovi alloggi residenziali. L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, autore di Paesaggio, Costitizione e cemento, ha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare davanti all’invasione di mesti condomini, vedremo coste luminosissime e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz’anima. Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». Per la verità lo stiamo già vedendo: secondo l’Istat dal 1990 al 2005 la Sau (Superficie agricola utilizzata) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande come Lazio e Abruzzo messi insieme.
GLI ABUSI ALLA LOGICA - Non c’è zona che si salvi, da questo gioco del “Lego” in scala reale. Basta guardarsi in giro, a cominciare da Roma, caput mundi. In zona Laurentina, tanto per fare un esempio, ai bordi del raccordo anulare (all’altezza dell’uscita 25) sta sorgendo, molto a rilento per la verità, il quartiere Tor Pagnotta (il nome è già un programma), che prevede un totale di circa 25 mila nuovi residenti, di cui per ora circa 16 mila ancora virtuali, e che si è esteso anche su un’area che doveva essere parco pubblico vincolato, attorno a zona monumentale e paesaggistica. Decine di palazzine ad alveare, alte anche dieci piani, che sorgono in mezzo a torri medioevali e dove non sembra esserci una corsa ad andare ad abitare, considerato anche che i mezzi pubblici promessi tardano ad arrivare e i costi al metro quadro vanno dai 5 mila euro in su. Un’altra spianata sta facendosi largo nella zona di Barberino del Mugello dove, con i lavori per il raddoppio dell’autostrada, si sta puntando al record della più grande area di servizio d’Europa, che occuperà una superficie di decine di ettari, destinata a coprire i quasi tre milioni di metri cubi di «smarino», materiale di risulta delle escavazioni per i nove chilometri di tunnel fatti in zona. Come polvere buttata sotto il tappeto. Peccato che lì sotto passino anche gli affluenti del lago del Bilancino, fonte di approvvigionamento per gli acquedotti delle province di Firenze, Prato e Pistoia. Per una beffa del destino, che gli abitanti della zona ritengono intollerabile, l’area su cui sorgeranno decine di pompe di benzina, ristoranti, bar, un centro commerciale e un parcheggio che sembra il Madison Square Garden, si chiama «Bellosguardo». Per la cronaca va detto che, attualmente, sull’A1 c’è un’area di servizio a 10 chilometri in direzione nord e a 16 verso sud.
DANNI MATERIALI - Basta puntare il dito sulla cartina italiana, anche a caso, e difficilmente non ci si imbatte in costruzioni, piccole o grandi che siano. Moltissime abusive, visto che secondo un dossier di Fai e Wwf, dagli anni Cinquanta a oggi, si sono registrati 4,6 milioni di abusi edilizi: 75 mila all’anno, 207 al giorno. Ma al di là degli abusi alla legge, sono quelli alla logica e all’estetica che fanno venire i brividi. Come i due nuovi borghi residenziali, alberghi, parcheggio da 800 posti auto, cinque piscine, undici bar e altrettanti ristoranti, 97 posti barca che stanno sorgendo nella baia di Sistiana, a 20 chilometri da Trieste, e che occuperanno l’intero piccolo golfo lasciato vuoto da una cava abbandonata.
PIENI E VUOTI - Il paesaggio, anche quello urbano, è fatto di pieni ma anche di vuoti. Se si riempie tutto, si vive male. «Se affacciandosi dalla finestra si vedono solo muri e strade, invece di piante e prati, si ha una sensazione di sradicamento», dice Roberto Mazza, professore di psicologia dello sviluppo e di metodologia del servizio sociale all’Università di Pisa. «La sensazione è quella dello sradicamento: non ci si riconosce più nel panorama e l’ambiente che ci circonda assume toni ostili. In questo contesto anche la vicinanza di altre persone è soltanto fisica, ma priva di contenuto emotivo, priva di quel legame umano rappresentato da valori comuni». Mazza, su questi temi, ha scritto un libro: Psico(pato)logia del paesaggio. Disagio ambientale e degrado psicologico, insieme con l’epidemiologa Silvia Minozzi. La sintesi è chiara: «Patologie come schizofrenia, o disturbi come anoressia, bulimia o depressione si manifestano con frequenza molto maggiore in aree ad alta densità di urbanizzazione. Per esempio un’analisi condotta su dieci recenti studi compiuti in Europa e negli Usa evidenzia che l’incidenza della schizofrenia è più che doppia nelle aree urbane rispetto a quelle rurali». In più, a rendere inguardabile questo orizzonte costellato di gru, c’è anche il fatto che si continuano a costruire case destinate a restare in gran parte vuote. In totale sono 5 milioni e 320 mila gli alloggi dove non abita nessuno: quasi 250 mila solo a Roma. Ma anche nelle ricche province del Nord, la situazione non è diversa: in quella di Bergamo le case disabitate sono circa 100 mila, a Brescia città 82 mila.
LA RIVOLTA DELLA NATURA - Secondo un dossier del 2011 sul mercato edilizio italiano, firmato dalla commissione Ambiente e lavori pubblici della Camera, «tre anni di mercato in flessione hanno prodotto il dato allarmante di uno stock di “giacenze” che si attesta attorno ai 120 mila alloggi invenduti». I prezzi delle case non sono più accessibili ai normali lavoratori; dice infatti la stessa Commissione: «Nel 1965 per acquistare una abitazione semicentrale di una grande città servivano 3,4 annualità di reddito di una famiglia a reddito medio, mentre nel 2008 tali annualità sono diventate nove». «Siamo a un vero e proprio punto di crisi delle costruzioni in Italia», commenta Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente. «Malgrado milioni di case costruite negli ultimi due decenni c’è una grave emergenza abitativa nelle città. Proprio la crisi deve portare a un cambiamento, ora la priorità devono essere lo stop al consumo di suolo e gli investimenti nelle aree urbane, dove demolire e ricostruire per dare case a chi ne ha veramente bisogno e con consumi energetici azzerati, dove portare tram e metropolitane, e per mettere in sicurezza il territorio». Infatti il Paese asfaltato si ribella, a suo modo, senza preavviso: frane, smottamenti, esondazioni. In Liguria, tanto per puntare a caso il dito in un’altra zona, secondo la Protezione civile, il 98% dei Comuni (232 su 235) «presenta un’elevata criticità idrogeologica» e «155 mila persone vivono o lavorano in aree considerate pericolose». «Se andiamo avanti così, chissà come si farà, chissà....». Aveva già senso chiederselo nel 1966, figuriamoci adesso.
A leggere il virtuoso documento della Commissione europea sembra di leggere Manzoni: "sopire" bisognava che facesse Don Abbondio, per servire i prepotenti, "limitare, mitigare, compensare" dice oggi l'Europa, per contrastare il consumo di suolo . Per di più, sapendo già che la "compensazione" diuventerà un "green washing". L'articolo e il documento sono ripresi dal sito web Salviamo il paesaggio, 15 gennaio 2013
Con il documento “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo” la Commissione Europea ha di recente posto l’attenzione all’eccessivo consumo di suolo nel Vecchio Continente. La sfida – peraltro ambiziosa come ammette lo stesso Janez Potočnik commissario europeo per l’ambiente – è quella per cui ogni Stato membro dovrà tener conto delle conseguenze derivanti dall’uso dei terreni entro il 2020, con il traguardo di un incremento dell’occupazione di terreno pari a zero da raggiungere entro il 2050.
“La posa di superfici impermeabili nel contesto dell’urbanizzazione e del cambiamento d’uso del terreno, con conseguente perdita di risorse del suolo, rappresenta una delle grandi sfide ambientali per l’Europa d’oggi” scrive nella prefazione al documento Potočnik.
Prima di addentrarsi a spiegare quali possono essere gli approcci tesi a limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo, la Commissione Europea indica un elemento di base necessario per raggiungere l’obiettivo “consumo di suolo = zero”: la piena collaborazione tra tutte le autorità pubbliche competenti, non solo dei dipartimenti preposti alla pianificazione e alle questioni ambientali ma anche, e in particolare, quegli enti governativi (Comuni, Province e Regioni) che gestiscono un territorio. È quindi ora che il consumo di suolo diventi un’aspirazione condivisa.
Dalla metà degli anni ’50 la superficie totale delle aree urbane nell’UE è aumentato del 78% mentre la crescita demografica è stata di appena il 33%.Questo significa che in tutta Europa la tendenza a “prevedere” piani di espansione urbanistica senza un’equilibrata correlazione con le effettive esigenze demografiche è prassi comune.
Attualmente, le zone periurbane presentano la stessa estensione di superficie edificata delle aree urbane, tuttavia solo la metà di esse registrano la stessa densità di popolazione. Lo sprawl è un fenomeno pericoloso: la diffusione di nuclei caratterizzati da bassa densità demografica costituiscono una grande minaccia per uno sviluppo urbano sostenibile. Inoltre l’espansione della città eleva i prezzi dei suoli liberi entro i confini urbani incoraggiando così il consumo verso l’esterno, consumo che a sua volta genera nuove domande di infrastrutture di trasporto e pendolari che si spostano per raggiungere il proprio posto di lavoro.
Passiamo all’aspetto dell’impermeabilizzazione. Oltre a ridurre gli effetti benefici che un terreno ha sull’ecosistema, l’impermeabilizzazione di un ettaro di suolo significa far evaporare una quantità d’acqua tale per cui viene impiegata l’energia prodotta da 9000 congelatori, circa 2,5 kWh, per rendere quel terreno arido. Supponendo che l’energia elettrica costi 0,2 EUR/kWh, un ettaro di suolo impermeabilizzato fa perdere circa 500mila euro a causa del maggior fabbisogno energetico. Limitare l’impermeabilizzazione del suolo è sempre prioritario rispetto alle misure di mitigazione ma laddove questo non avviene verde pubblico e uso di materiali permeabili sono i due principali elementi per tendere verso il risparmio energetico. Tale risparmio è un vantaggio per le economie europee vessate dalle spese: ad esempio un tetto verde riduce i costi energetici di un edificio dal 10% al 15%. Per non parlare dell’inquinamento: un albero calato all’interno di un contesto urbano può catturare 100 grammi netti di polveri sottili l’anno. Calcolando i costi di riduzione delle polveri, piantare un albero in città significa investire 40 euro all’anno.
Queste sono solamente alcune delle buone prassi che l’Europa caldeggia in fatto di limitazione del consumo di suolo e indica come ultima spiaggia la “compensazione”, sempre che questa non si trasformi in mero “green washing”.
In alcune brevi affermazioni, il rinnovato ruolo del settore per il territorio, l’ambiente, l’alimentazione e il progresso della società. Documento redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans e presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 (f.b.)
Quello che segue è l’Executive Summary del rapporto Farming’s Value to Society: realising the opportunity, redatto da Peter Carruthers, Michael Winter e Nick Evans, delle università di Exeter e Worcester, presentato alla Oxford Farming Conference, gennaio 2013 – Traduzione di Fabrizio Bottini
Un tempo il valore dell’agricoltura per la società era compreso chiaramente e valutato. Non capitava certo che qualcuno ponesse la questione: “a cosa serve l’agricoltura?”. Ma a partire dagli anni ’70 e ’80, con l’affermarsi dei tipo di attività intensiva sul modello prevalente dal dopoguerra, l’atteggiamento collettivo nei confronti dell’agricoltura si è sempre più caratterizzato per i timori sull’impatto ambientale, o come vengono trattati gli animali, o la Politica Agricola Comunitaria (PAC), i finanziamenti, la sovraproduzione. Di conseguenza, gli agricoltori sono stati sempre più messi ai margini. Dai sondaggi di opinione emerge oggi che il pubblico ha di nuovo un atteggiamento favorevole all’agricoltura. E il settore e il suoi rappresentanti recuperano fiducia.
Una fiducia che però non può basarsi esclusivamente sull’immagine pubblica, ma richiede una migliore comprensione anche scientifica del perdurante valore sociale del settore. Questo studio cerca di rispondere all’esigenza. Utilizzando abbondanti fonti di altri studi pubblicati, il rapporto ricostruisce il valore dell’agricoltura per la società, almeno in Gran Bretagna, con l’obiettivo di aggiungere alcuni aspetti forse meno noti. “Agricoltura” vuol dire attività, persone, territorio. Quindi questo valore deve essere valutato usando molti indicatori. Al centro dello studio c’è l’analisi degli aspetti alimentari, territoriali, sociali, e del relativo valore. Si esaminano poi gli atteggiamenti della collettività nei confronti del settore, le principali sfide pubbliche per il futuro, e si esprimono alcune raccomandazioni.
L’atteggiamento del pubblico
L’atteggiamento del pubblico rispetto agli agricoltori e all’agricoltura risulta in genere positivo, anche se non manca una cospicua minoranza con opinioni negative. Ma l’argomento è comunque poco conosciuto. Gran parte delle persone considerano importante l’agricoltura per l’economia e sono convinte che giochi un ruolo altrettanto importante per la tutela dell’ambiente; esiste preoccupazione per il trattamento degli animali da allevamento e gli organismi geneticamente modificati.
Le sfide per la politica
Anche la nostra agricoltura nazionale ha di fronte le questioni della sicurezza alimentare globale, del cambiamento climatico e dell’energia, ma si deve agire sulla scorta sia dell’esperienza di quanto siano stati pesanti gli impatti ambientali del modello di coltura intensivo. La politica deve saper mettere al centro del settore agricolo e alimentare le esigenze attuali e future della società, e a tale scopo risulta essenziale comprendere quale valore abbia l’agricoltura per la società.
Il cibo
La produzione alimentare resta il valore principale dell’attività agricola, sia al momento attuale che nelle proiezioni future. Oggi in Gran Bretagna il settore dà da mangiare a una popolazione di 63,5 milioni di persone, e sostiene attività che complessivamente contribuiscono per quasi il 7% al valore aggiunto lordo. La sicurezza alimentare è un elemento molto apprezzato. Gran parte delle persone è convinta che dovremmo essere ancor più autosufficienti da questo punto di vista. Ma non si accetta sicuramente di farlo a costo di compromettere il benessere degli animali da allevamento o la tutela dell’ambiente. Esiste una parte notevole del valore attribuito a ciò che si mangia derivante dalla sua origine. Le persone apprezzano di sapere da dove viene il loro cibo, e come viene prodotto: di particolare significato il trattamento degli animali e la provenienza regionale, nazionale britannica, o locale. Il comparto del mercato alimentare “etico” (nazionale) è più che raddoppiato negli ultimi dieci anni, e oggi pesa per il 2,7% del totale della spesa alimentare. Per alcuni è importante un rapporto diretto coi produttori, come evidenziato dalla crescita dei negozi di vendita diretta, dei farmers’ markets e dell’agricoltura urbana partecipata.
Il territorio
Oltre alla produzione alimentare, il territorio agricolo esprime anche altre attività come quelle del turismo, della caccia o dell’equitazione, che svolgono un ruolo importante nelle economie e nelle società locali. Coltivare ha effetti sia positivi che negativi sull’ambiente naturale: quelli negativi oggi sono diminuiti, ma impongono ancora costi ambientali, c’è molto lavoro da fare. Il valore sociale e culturale dell’agricoltura si esprime nel paesaggio, nella natura, nei luoghi.
Valori
L’agricoltura è un valore perché corrisponde a idee di sostentamento, sicurezza, relazioni fra le persone e con la natura, tradizione, identità. Quest’ultimo aspetto rispecchia molti dei vantaggi sociali e culturali riassunti sopra. Per corrispondere alle aspettative si deve continuare a poter accedere alle campagne e all’agricoltura, a mantenere forti legami fra questa e la società tutta, proteggere l’ambiente naturale e la sua cultura. Una prospettiva etica dovrebbe spingerci ad andare oltre il solo pensare alla “produzione” in termini di costi e benefici, e considerare quello fra agricoltura e società come rapporto reciproco responsabile, di servizio e cooperazione. L’etica deve anche presiedere alla nostra considerazione del valore pubblico dell’agricoltura e al suo rapporto con la considerazione sociale.
Un valore complessivo
L’agricoltura risponde a dei bisogni e rappresenta una risorsa, offre una ampia serie di vantaggi e servizi (oltre a comportare dei costi). Coinvolge la vita delle persone in modo assai più complesso di altri settori. I vari tipi di valore inerenti l’agricoltura però, e i relativi indicatori sociali corrispondenti, non sono certo facili da ricondurre a una valutazione complessiva, che la osservi contemporaneamente da vari punti di vista. Per farlo, per comunicare queste prospettive di valori alla società, oltre che per trarne giovamento, il settore agricolo (sia in quanto tale, sia per le politiche che lo riguardano) deve rafforzare i suoi rapporti col pubblico, chiarire quale sia la massa critica di aziende e occupati necessaria agli obiettivi, come usare le politiche agricole comunitarie e di altro per obiettivi sociali. In futuro, il settore dovrà trarre ispirazioni e idee da un ampio ambito di risorse, anche esterne a sé: quello di cui c’è bisogno non sono tanto soluzioni tecniche, ma innovazioni sociali.
Raccomandazioni
Ad accrescere il valore sociale complessivo del settore agricolo si raccomanda di:
• Produrre più alimenti dei quali sia chiara l’origine e costruire una relazione diretta fra produttori e consumatori.
• Rafforzare la comprensione collettiva del ruolo alimentare dell’agricoltura e delle aziende.
• Aggiornare e riflettere sulle raccomandazioni del 2002 della Commissione Europea sul futuro agricolo e alimentare, riguardo al “recupero del contatto col pubblico” e sviluppare strategie per il futuro.
• Stimolare la biodiversità nelle champagne, riconoscendone gli ampi benefici sociali ed economici in un quadro di programmi agro-ambientali.
• Contribuire alle questioni sociali e della salute, aprendo a nuove accessibilità e frequentazioni, per attività fisiche nelle campagne, e sviluppando gli aspetti terapeutici, soggiorni brevi, care farming.
• Individuare i motivi per cui la collettività non sfrutta appieno i vantaggi offerti dalle campagne per l’attività fisica all’aperto, valutandone anche il potenziale in termini di risparmio per la salute e le terapie.
• Stimolare una maggiore partecipazione ai programmi di aperture delle aziende al pubblico
• Sfruttare il sistema dei valori economici e etici anche nei rapporti con la politica e le sue scelte.
• Sfruttare le tecniche della partecipazione alle decisioni come strumenti privilegiati per valutare i potenziali del settore e il coinvolgimento del pubblico.
Nota: credo sia di particolare interesse, questo breve estratto dalla Oxford Farming Conference, anche perché si inserisce in un filone di riflessione storico per l'organizzazione del territorio, ovvero quello del rapporto città-campagna declinato in salsa britannica, che ha prodotto solo per fare un esempio a suo tempo l'idea di Città Giardino di Howard; suggerisco per chi volesse ampliare il raggio delle conoscenze la lettura di un altro estratto, dal progetto Città Nuova del 1919, per una ricostruzione nazionale post-bellica equilibrata, appunto nel solco della città giardino ma con particolare riguardo alla produzione agricola. L'ho tradotto per Mall col titolo L'agricoltura nella Città Nuova (f.b.)
Le proposte di chi autorevolmente esprime le attese di una delle essenziali componenti, sociali e culturali, del fronte che contrasta l'abnorme consumo di suolo. La Repubblica, 4 gennaio 2013, con una postilla un po' lunga
Mancano meno di due mesi alle prossime elezioni, l’attenzione si concentra, come ovvio, sulle candidature e sulle future alleanze; tuttavia si avverte una diffusa sensazione di ripartenza, di possibilità di riscrittura che non si avvertiva da tempo. Complice una crisi di portata storica che coinvolge tutto e tutti: che attraversa l’economia, l’ambiente, la politica, la vita quotidiana delle persone. E quindi tocca pensare. Cosa vogliamo? O meglio: di cosa abbiamo bisogno? E cosa vogliamo fare per ottenerlo? Chiedere ai candidati di occuparsi di “politiche alimentari”, ovvero di ripensare, ridisegnare, quelle che finora sono state, in modo impreciso, inadeguato e insufficiente, chiamate “politiche agricole”, non è cosa di poco conto per il futuro di questo Paese. Su questo terreno vale la pena di sottolineare quelle che secondo me dovrebbero essere le priorità del prossimo governo centrale, ma anche dei prossimi governi regionali, dato che anche alcune regioni rinnoveranno i loro amministratori tra poche settimane. Quattro punti, quattro pensieri, quattro piccoli ma forti pilastri su cui appoggiare un nuovo modo di pensare l’agricoltura di questo paese; una miniagenda, se volete, quasi un foglietto di appunti.
1 — Politiche alimentari significa politiche condivise e interconnesse: ambiente, agricoltura, educazione, salute, economia, giustizia, sviluppo, industria, beni culturali. Dove inizia un settore e finisce l’altro? Non si può dire, non esiste confine. Se si fa politica per il cibo e per l’agricoltura si fa, finalmente, politica per tutti, si tutela il bene comune. Come si fa? Non lo sappiamo fare perché non l’abbiamo mai fatto. Ma un tavolo condiviso, un posto in cui tutti i ministri e tutti gli assessori verificano, prima di vararli, la coerenza dei provvedimenti di cui si fanno portavoce sarebbe un buon inizio.
2 — C’è un disegno di legge già approvato che attende di diventare legge. È stato ribattezzato “Salva suoli”. L’ha presentato il ministro Mario Catania, che l’ha scritto e migliorato con la collaborazione delle Regioni e della rete di associazioni della società civile. Serve a porre, sia pure con imperdonabile ritardo, fine alla dissipazione del suolo agricolo italiano, alla cementificazione ignorante che ha devastato il nostro territorio e di cui paghiamo il prezzo in dissesti e vite umane ad ogni temporale. È un lavoro facile, è quasi tutto fatto. È solo un lavoro da finire, e i candidati che nelle prossime settimane si diranno a favore della protezione del territorio italiano provino a dirlo in modo più chiaro: dicano che si impegneranno perché quel disegno di legge diventi al più presto una legge nazionale.
3 — Le nostre campagne hanno bisogno di ripopolarsi. Perché il made in Italy passa dai campi e dalle mani dei nostri produttori. E le mani dei produttori oggi sono rugose, sono stanche, sono mani anziane. E spesso sono mani che non sanno a chi consegnare tutta la loro esperienza e tutti i loro saperi. E, come si sa, i nostri giovani hanno bisogno di lavorare. E di sentirsi protagonisti di quello che producono e di quello che diventano. L’agricoltura può dare a un giovane tutto questo, a patto che smetta di essere sinonimo di emarginazione sociale e di difficoltà economica. E a patto che accedere al lavoro agricolo smetta di essere una specie di corsa a ostacoli, contro la burocrazia, le normative sproporzionate, l’impossibilità di accedere a crediti ragionevoli. Quindi i candidati che nelle prossime settimane intendono parlare di lavoro giovanile potrebbero intanto impegnarsi a facilitare questa fetta di lavoro giovanile: quello in agricoltura. Perché sono tanti i giovani che ci stanno provando, e, nonostante tutto, ci stanno riuscendo. Ma sono tantissimi i giovani che ci stanno pensando e che rinunciano prima di provare perché le difficoltà sono davvero troppe.
4 — E infine, un compito facile facile. Decidiamo una volta per tutte che agricoltura serve al nostro paese. Un paese fatto di milioni di piccole aziende agricole. Un paese che ha il biologico tra i suoi vanti. Un paese che basa la sua ricchezza sulla biodiversità di razze animali, varietà vegetali domesticate e spontanee, di prodotti tipici e delle tante biodiversità che quelle implicano: la biodiversità delle sementi tradizionali, dei microrganismi del suolo, delle agricolture tradizionali. Ecco, cosa serve a un paese così? Non serve un’agricoltura di brevetti, non serve un’agricoltura di multinazionali, non serve un’agricoltura di contoterzisti. Non servono gli Ogm. Semplicemente non servono. E già questo basterebbe a richiedere un impegno per fare in modo che vengano esclusi dal nostro futuro alimentare. Se a questo si aggiungono i tanti punti non ancora chiariti a proposito delle colture Ogm, la necessità di continuare ad investigare e a fare ricerca per definirne con chiarezza i possibili impatti sull’ambiente, sulla salute e sull’economia risulterà chiaro che appellarsi al principio di precauzione sarà la cosa più ovvia da fare, decidendo che il nostro paese resta Ogm free. Quindi quei candidati che nelle prossime settimane parleranno di green economy, potrebbero partire anche da qui: dal più vasto settore di green economy che abbiamo, da sempre, sotto gli occhi: l’agricoltura sostenibile. Ecco, una mini agenda, se volete; o meglio, un bigino – si parva licet componere magnis – da portare con sé lungo la prossima legislatura. Perché questo terzo millennio sarebbe proprio ora che iniziasse.
Postilla
L’articolo di Petrini sottolinea giustamente l’assenza totale, dall’Agenda Monti, di proposte relative all’agricoltura e alla politica alimentare. E’ una delle numerose facce della politica del territorio, che è assente in quell’Agenda. Un’assenza che non è casuale, ma è dovuta al fatto che nell’ideologia montiana il territorio è, nel suo insieme come nelle sue parti, una risorsa da spremere, non un patrimonio da gestire con accortezza e parsimonia. Se un’agricoltura industrializzata dà al PIL un contributo maggiore di un’agricoltura a km zero ben venga, e ben vengano le altre forme di land grabbing se il risultato economico (nell’economia data, che per i montiani è l’unica possibile) è lo stesso.
Chi non è d’accordo con i montiani e vuole difendere le prospettive di un futuro diverso dovrebbe proporsi due obiettivi, a mio parere essenziali: contrastare subito il consumo di suolo e promuovere una efficace politica del territorio. Sul primo punto nutriamo fortissimi dubbi sull’efficacia della proposta Calabria. Li esprimeva recentemente in queste pagine Vezio De Lucia, con una “opinione” su cui avremmo voluto che si aprisse un fruttuoso dibattito. Che fare? Se effettivamente vi fosse un Parlamento che volesse di contrastare subito e con efficacia il consumo di suolo derivante dalle irragionevoli espansioni delle aree urbanizzate, allora basterebbe riprendere la strada aperta nel 1985 dalla legge Galasso, e decidere che il territorio rurale poichèbappartiene a quel paesaggio che «è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive» (B. Croce) va tutelato al pari delle coste marine e dei corsi d’acqua, dei boschi e dei monti: nell’immediato con un vincolo, in prospettiva con una avveduta e lungimirante politica del territorio, Lo proponevamo del resto fin dal 2005 quando, a conclusione di una sessione della Scuola di eddyburg nella quale, allora solitari, lanciammo un’argomentata denuncia del consumo di suolo e un appello al suo contrasto Certo, per essere efficace in un contesto nel quale la maggioranza dei decisori vede il vincolo come un ostacolo allo “sviluppo” (quindi qualcosa di esecrando) una simile decisione deve giovarsi del potere di tutte le autorità dotate di poteri in questo dominio: quindi, in primo luogo lo Stato, che ha con il Codice del paesaggio un potere che nella Galasso non aveva.
Sul secondo punto (cioè sulla necessità di un approccio non settoriale (giustamente sollevato da Petrini) alle politiche territoriali dobbiamo domandarci che cosa significa promuovere una corretta politica territoriale. Occorre partire da un presupposto: se il territorio è un sistema, in cui tutte le cose (e tutte le scelte) interagiscono, allora si devericorrere a un metodo, e a un insieme di strumenti, che siano anche essi olistici: quindi quelli della programmazione e della pianificazione territoriali. Naturalmente concepiti, organizzati e gestiti in modo omogeneo ai principi essenziali della democrazia, così come questa è definita, nei suoi principi e nelle sue regole, dalla Costituzione che i padri della nostra Repubblica ci hanno dato. Sarebbe bello se nel concorrere alle prossime elezioni qualche formazione politica affrontasse con un po’ di rigore questi temi, cominciando magari col domandarsi perché la politica politicante (e le stesse istituzioni) abbiano abbandonato quei principi e manomesso alcune di quelle regole.
Procede l'iter di approvazione del disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo. Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili i documenti approvati dal Consiglio dei ministri e dalla Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome. (m.b.)
Come è noto, il Consiglio dei ministri, nella seduta del 16 novembre scorso ha approvato in via definitiva, dopo aver acquisito il parere favorevole della Conferenza unificata delle regioni e delle province autonome, il disegno di legge per la valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo.
Per chi volesse ricostruire l'iter del provvedimento, rendiamo disponibili:
- la proposta iniziale predisposta il 10 settembre e sottoposta al Consiglio dei ministri il 14 settembre;
- il parere della Conferenza unificata, consegnato il 30 ottobre, con allegate le proposte di emendamento proposte dal Governo nella seduta del 23 ottobre e gli ulteriori emendamenti richiesti dalla Conferenza;
- il testo definitivo, approvato dal Consiglio dei ministri il 16 novembre.
Tra i punti principali posti dall’assessore Marson all’attenzione della affollata platea in Sala Pegaso, c’è il fatto che il governo prevede di distribuire ulteriori quote edificatorie, anziché fissare degli obiettivi quantitativi di riduzione del consumo di suolo. “Nelle Regioni più avanzate – ha detto Marson – con una solida tradizione pianificatoria come la Toscana, vengono fatti molti sforzi per ridimensionare le previsioni eccessive degli strumenti urbanistici più datati. Non è sempre facile rivedere le previsioni urbanistiche già in essere, ma c’è una differenza sostanziale tra rispettare le previsioni operative conformative della proprietà privata e far salve invece tutte le espansioni pensate sul lungo periodo come quelle dei piani strutturali”.
“La Regione Toscana in questa legislatura – ha chiarito Marson – ha messo a punto nuove politiche di contrasto al consumo di suolo nel governo del territorio, i cui risultati saranno pienamente apprezzabili soltanto in futuro. Per quanto riguarda invece la qualità del territorio e del paesaggio, nella nuova redazione del Piano paesaggistico regionale stiamo lavorando a una interpretazione strutturale basata su idrogeomorfologia, ecosistemi, sistemi insediativi policentrici, e territorio rurale. Per ora abbiamo ottenuto, primi in Italia, la validazione da parte del Mibac del lavoro di vestizione dei vincoli per decreto”.
Sugli aspetti quantitativi del consumo di suolo sono stati affinati i sistemi di monitoraggio sul consumo di suolo, e introdotti nuovi indicatori di valutazione degli effetti indotti dalle nuove urbanizzazioni sul territorio e sul paesaggio, come quello della frammentazione.
E’ stata rafforzata l’attività di verifica della coerenza tra Piano di indirizzo territoriale regionale e la pianificazione urbanistica locale, attraverso le osservazioni e, quando necessario, il ricorso alla conferenza paritetica interistituzionale. Le diverse integrazioni alla legge regionale sul governo del territorio, necessarie per recepire provvedimenti nazionali, sono state usate al fine di iniziare a diversificare le procedure per il riuso delle aree già urbanizzate rispetto al nuovo consumo di suolo agricolo. Ciò sia nel 2011 con la legge 40, che ha introdotto una nuova norma per la rigenerazione urbana, che con la legge 52/2012 che disciplina le procedure per le grandi superfici di vendita, differenziandole a seconda che interessino edifici già esistenti o nuove aree agricole, e prescrivendo in questo ultimo caso la pianificazione sovracomunale e la distribuzione degli oneri di urbanizzazione tra tutti i comuni.
“Più in generale – ha proseguito Marson – con la revisione organica della legge 1 che presenteremo a breve, il principio che nuovi impegni di suolo sono consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti, sarà sostenuto da dispositivi operativi efficaci a garantirlo”.
“Ma una volta fermato il consumo di suolo – si chiede Marson – come si garantisce la qualità del territorio non consumato? Nel caso del Parco agricolo della Piana, ad esempio, abbiamo approvato la salvaguardia su circa 7.000 ettari di aree in gran parte agricole, sottoposte a straordinarie pressioni edificatorie in quanto comprese all’interno dell’area urbanizzata più estesa della Toscana. La sfida ora è di riuscire a promuovere per tali aree politiche integrate capaci di valorizzarne l’uso agricolo e la multifunzionalità ambientale e paesaggistica”.
“In generale – ha concluso Marson – la posta in gioco per l’intera regione è quella di un efficace integrazione delle politiche settoriali nella cura del territorio, con la sfida di una nuova visione capace di conciliare lo sviluppo produttivo e sociale con la valorizzazione del capitale territoriale toscano e con l’esigenza di adattamento ai cambiamenti climatici. E qui torniamo al paesaggio nella sua interpretazione non solo estetico-percettiva ma strutturale”.
Settis: “Diamo un taglio lineare al consumo del suolo”
“Per difendere il nostro paesaggio serve un atto simbolico e concreto insieme: diamo un taglio lineare al consumo del suolo, chiedendo ai Comuni di diminuire del 2% il suo utilizzo”. Lo ha detto l'Accademico dei lincei e autore di “Paesaggio Costituzione e cemento”, intervenendo questa mattina al Convegno “Uso versus consumo del territorio rurale” organizzato dalla Regione Toscana presso la presidenza in Palazzo Strozzi Sacrati in piazza Duomo a Firenze.
Settis ha detto di aver inviato una proposta in questo senso al ministro dell'agricoltura Mario Catania, presente anch'egli al convegno e lo ha elogiato per aver posto attenzione alla questione del consumo del suolo agricolo, presentando un disegno di legge che ha giudicato buono, anche se migliorabile.
“Niente può tutelare meglio il nostro paesaggio – ha precisato Settis – di un'agricoltura di qualità e di fronte ad un numero di appartamenti costruiti negli ultimi anni che è 387 volte superiore al numero di nuovi abitanti, servirebbe una legge composta da un solo articolo, capace di incentivare i consumi a chilometri zero e anche il lavoro in agricoltura. L'hanno fatta in Brasile e prevede che ogni mensa utilizzi per almeno il 30% i prodotti agricoli di aziende locali”. Lo studioso ha detto poi che ogni anno a novembre ci sbalordiamo del fatto che l'Italia frana, ma dobbiamo sapere che siamo il Paese più franoso d'Europa e che a questo occorre porre rimedio.
A questo scopo ha illustrato infine alcune proposte migliorative del decreto sulla protezione del suolo agricolo, affermando che il Parlamento può trasformarlo in legge prima della fine della legislatura e augurandosi che il ministro abbia la forza per ottenerne la conversione.
Rossi: “In Toscana importanti cambiamenti nelle politiche del territorio”
“Siamo a metà della legislatura e possiamo dire che la Toscana ha compiuto importanti passi avanti nel cambiamento delle politiche del territorio”. E’ la valutazione espressa oggi dal presidente Enrico Rossi nel suo intervento al convegno “Uso versus Consumo del territorio rurale”, che si è svolto nella sede regionale di Palazzo Strozzi Sacrati a Firenze.
“Fin dal nostro programma di legislatura – ha proseguito – abbiamo puntato quanto più possibile sulla salvaguardia del territorio agricolo e la tutela del paesaggio. Questa idea, combinata con il rilancio del manifatturiero, ci è sembrata l’unica in grado di far ripartire uno sviluppo di qualità nella nostra regione. Abbiamo ripreso una discussione positiva e utile con i comuni per quanto riguarda i piani strutturali, abbiamo compiuto un altro passaggio straordinario con la “vestizione” dei vincoli. Con la revisione della Legge 1 punteremo, non in modo generico, sul riuso”.
“A tutto questo – ha continuato Rossi – aggiungo altre due svolte non meno radicali: il divieto a costruire nelle zone ad alto rischio idraulico, che costituiscono il 7% del territorio pianeggiante della Toscana, e la riforma dei Consorzi di bonifica, che vogliamo finalizzare alle attività di manutenzione. Tutto ciò mi sembra infine possa costituire una buona base per un accordo con il governo, nello spirito di qella visione complessiva del governo del territorio che ispirò anche l’attività di un grande presidente toscano, Granfranco Bartolini”.
“Questo convegno – ha concluso il presidente – ha cercato di ricollegare politica e pensiero, la politica, che pensa troppo poco, con gli intellettuali, a volte troppo distanti dalla concretezza. Purtroppo il tema della qualità dello sviluppo è assente dal dibattito politico attuale, pensiamo alla ripresa come a un riavvio che riprodurrà le linee di tendenza del passato. Invece dobbiamo affrontare il problema della gestione della finanza internazionale, della redistribuzione della ricchezza, della definizione di nuovi consumi. L’idea di una austerità fatta pagare solo ai ceti più deboli non è condivisibile, mentre è una idea di cambiamento del modo di produrre e di consumare quella su cui dobbiamo lavorare di più”.
Petrini cita Pasolini: “ Il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”
“La terra è il vero bene comune ed è una risorsa non rinnovabile. E l’agricoltura è il bandolo di tutto. Il problema è che manca la terra per i giovani, ma mancano anche i giovani per la terra. Siamo davanti a una crisi sistemica, entropica. O cambiano i paradigmi, il modello di sviluppo, oppure arriviamo a un punto di non ritorno. L’agricoltura deve ridiventare centrale. Non bastano i pannicelli caldi per curare il malato-terra”. Così Carlo Petrini, presidente di Slow Food internazionale, che oggi è intervenuto a Firenze alla tavola rotonda organizzata dalla Regione Toscana su “Uso vs.consumo del territorio rurale”.
Nel suo intervento in Sala Pegaso Petrini ha affermato di apprezzare la filosofia che ispira il disegno di legge del governo per fermare il consumo di suolo proposto dal ministro per le politiche agricole e forestali Mario Catania, seduto accanto a lui al tavolo regionale. “Se c’è un buon intendimento, non ci si deve lamentare. Questo è il primo ministro che fa qualcosa in questa direzione. Bisogna solo mettere mano ad alcuni aspetti tecnici. Il vero rischio è che il disegno di legge non venga preso in esame ora e che sia rimandato al prossimo governo. Peraltro i candidati alle primarie mi sembrano silenti in tema di agricoltura”.
“Oggi la popolazione contadina – prosegue Petrini – è il 3% e molti hanno più di 60 anni. Bisogna invertire la tendenza, i nuovi contadini devono diventare i nuovi presidi del territorio. Giovani che non vogliono fare la vita grama dei padri, ma che sono consapevoli che la perdita dell’agricoltura è una perdita di coesione sociale e che il rapporto contado-città, nato proprio in Toscana con le botteghe artigiane come terzo elemento costitutivo, è la prima espressione sociale di civiltà. Non dimentichiamoci delle parole di Pasolini che in uno dei suoi Scritti corsari afferma che il giorno in cui questo paese perderà contadini e artigiani non avrà più storia”.
“Dovere primario della politica – dice Petrini rivolgendosi al ministro Catania, al presidente Rossi, agli assessori Marson e Salvadori – è porre l’agricoltura al centro, darsi da fare perché sia una opzione praticabile e promuovere con tutti i mezzi il ritorno alla terra di molti giovani, garantendo una retribuzione adeguata a un lavoro fondamentale che è manutenzione del territorio, prevenzione, salvaguardia della memoria collettiva e cura della bellezza del paesaggio. Non è solo questione di leggi, ma di filosofia, dobbiamo dare ai giovani la prospettiva di un progetto di vita. In questo dobbiamo essere tutti complici”.
2007-2010: più di 3.000 ettari di urbanizzazioni a spese del territorio rurale.
Sono 197.000 gli ettari di superficie urbanizzata del territorio toscano al 2010, pari all’8,53 del territorio regionale che si estende su una superficie di 2.298.869 ettari. Questo in base al monitoraggio sull’uso del suolo effettuato dagli uffici regionali sulla base di una rilevazione condotta secondo le metologie europee del Corine Land Cover, ma con un dettaglio ed una precisione confrontabili con quelli della cartografia regionale in scala 1:10.000.
Dal 2007, con l’obiettivo di reiterare il monitoraggio ogni tre anni, tutto il territorio regionale viene analizzato e classificato per verificarne le variazioni: questo consente di ottenere affidabili statistiche per valutare i trend di modifica del suolo. Sappiamo quindi che al 2010 la superficie agricola è pari a 882. 740 ettari (38,40%), quella boscata è pari a 1.198.257 (52,12%), e quella urbanizzata è di 196.198 ettari (8,53%). Al 2007 la superficie agricola corrispondeva a 885.801 ettari (38,53%), quella boscata era pari a 1.198.630 (52,14%), e quella urbanizzata a 192.926 ettari (8,39%), testimoniando quindi un incremento tra il 2007 e il 2010 di 3.272 ettari di superficie urbanizzata a spese della superficie agricola che infatti è calata di 3.061 ettari. Quella boscata è calata nel triennio di 373 ettari.
Questi sono alcuni dei dati relativi al territorio toscano presentati all’inizio della tavola rotonda “Uso vs.consumo del territorio rurale” che si è svolta oggi nella sede della Presidenza della Regione Toscana. I dati sono ora consultabili anche sul sito della Regione Toscana, alla voce “Territorio”.
La variazione media annua tra il 2007 e il 2010 indica una crescita dell’urbanizzato pari allo 0,047% che corrisponde ad un aumento del consumo medio giornaliero di 2,99 ettari in questi tre anni. Tra il 1954 e il 1978 si attestava sui 4,83 ettari, per salire ai 4.97 ettari di consumo giornaliero nel decennio 1978-88. Tra il 1988 e 1996 la media giornaliera era di 3,42 ettari, e tra il 1996 e il 2007 di 4,19.
Le stime ed i trend per i periodi antecedenti al 2007, e per la precisione relativi agli anni 1954, 1978, 1988, 1996 e 2007, sono stati ricavati con una classificazione di tipo campionario, più rapida e meno costosa, che consente una analisi anche a ritroso nel tempo, sulla base di ortofotocarte disponibili per diversi anni per l’intero territorio regionale.
Presentati anche i dati sull’abbandono del territorio rurale: sono quasi 236 mila gli ettari di superficie agricola utile abbandonati dal 1982 al 2010 in Toscana secondo l’Istat, mentre in base ai dati Artea, più accurati, tra il 2006 e il 2010 si calcola l’abbandono di 95.863 ettari con una media annua più elevata. Si conferma quindi un evidente processo di abbandono dei territori agricoli.
Sono stati anche analizzati i piani strutturali di 143 comuni (pari alla metà circa di quelli toscani e al 37% del territorio regionale) da cui è emerso che le previsioni di consumo di suolo solo in questi comuni sono pari a 48,9 milioni di metri quadri di Sul (superficie utile lorda) cui vanno aggiunte tutte le superfici per le urbanizzazioni e gli standard urbanistici. In queste previsioni solo il 6,5% riguarda il riuso dell’esistente, mentre il 23,3% è destinato a scopo residenziale, il 29,3% a edifici industriali/artigianali e il 3,8% a fini commerciali. Negli strumenti urbanistici comunali il rapporto tra nuovi impegni di suolo e riuso è quindi pesantemente a favore del primo.
Titolo clamorosamente sbagliato: non succede affatto nelle stalle, e naturalmente non è una rivoluzione. Però, anche se per motivi elettorali, è un passo avanti, futuri eletti consentendo. Corriere della Sera Lombardia, 21 novembre 2012, postilla (f.b.)
MILANO — Una rivoluzione high tech nelle stalle. Dagli alpeggi della Valtellina alle cascine della Bassa arriverà Internet ad alta velocità. Le aree agricole di montagna, come le fattorie di pianura, non saranno più tagliate fuori dalla rete. Nelle zone rurali di 47 comuni della Lombardia è infatti in arrivo la banda larga, con 198 chilometri di fibra ottica, che metteranno online oltre 34 mila abitanti, un fetta della nostra regione finora dimenticata dalle autostrade del web. L'annuncio, con un investimento di 8 milioni di euro da parte del Pirellone, è stato dato ieri dall'assessore regionale all'agricoltura, Giuseppe Elias.
Da Verceia, 1.116 abitanti, all'imbocco della Valchiavenna, all'incrocio fra le province di Sondrio, Como e Lecco, a Retorbido, 1.434 anime, allo sbocco della valle Staffora, nell'Oltrepò Pavese, le aziende «verdi» si preparano a dire addio al digital divide: niente più fossato tecnologico che penalizza aziende e residenti: «La banda larga è un vantaggio per tutte le realtà produttive di un territorio e, in questo caso, renderà più efficiente il lavoro degli imprenditori agricoli — ha spiegato l'assessore Elias —. I 47 comuni interessati dagli interventi sono stati individuati nelle zone svantaggiate della Lombardia e si vanno ad aggiungere ai 132 comuni che in passato hanno già beneficiato di interventi simili.
Tutti infatti devono poter accedere ai servizi di telecomunicazioni e di accesso a Internet che rappresentano un passaggio obbligato verso l'innovazione, l'occupazione e la crescita». Abbattere l'isolamento digitale, continua l'assessore, è dunque «un obiettivo strategico, perché stimolerà e faciliterà lo sviluppo e le competitività delle imprese che operano in questi territorio agricoli».
Postilla
È almeno dall’epoca dei primo congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che chi ne capisce, nel nostro paese, prova a spiegare alla politica che modernizzazione e urbanizzazione stupida e cementificata non sono sinonimi. Col filogovernativo a oltranza Vincenzo Civico che tuonava “Urbanistica Rurale = Urbanistica Fascista”, e altri meno perentori ma più analitici che iniziavano a spiegare come i suoli agricoli andassero gestiti con le medesime prospettive che in fondo già si erano rivelate utilissime per i densi ambienti urbani, ma rigorosamente senza confondere i due piani. Già: città e campagna, eterno dilemma che ancora oggi gli stracciamutande praticoni della cosiddetta Città Infinita autostradale manco si immaginano, e i banchieri che li pagano neppure per scherzo. Ma esiste eccome, e oggi si chiama consumo di suolo, almeno per chi considera il problema sul versante corretto, senza confonderlo con estetismi di lusso, o benintenzionate sparate a vanvera, o miserabili carriere personali. E una delle tante risposte è appunto tornare a quei primi vagiti della pianificazione territoriale moderna: un assetto regionale equilibrato, sul versante ambientale, socioeconomico, alimentare, dei rapporti fra produzione e consumo, senza dimenticare le ragionevoli aspettative di progresso personali e collettive, passa per la modernizzazione delle campagne. Che come insegnava già Arrigo Serpieri (nome certamente ignoto ai tuttologi televisivi), o di là dell’oceano provava a spiegare un po’ più tardi per esempio Lewis Mumford, non vuol dire trascinare i contadini in fabbrica e l’asfalto sui campi. Ma fare quella cosa lì, che l’assessore di centrodestra dimissionario ci ha gentilmente concesso, di migliorare la vita delle vacche e di ciò che sta loro attorno (f.b.)
A fronte dei disastri dell'urbanizzazione scema, uno dei tanti motivi per cui non costruire ovunque è un nuovo modello socioeconomico, oggi. La Repubblica Milano, 14 novembre 2012 (f.b.)
Il CHILOMETRO zero funziona. Cresce il fatturato, sale l’occupazione e aumenta anche la percezione di un fenomeno in grado di rilanciare il settore agroalimentare. Nonostante la crisi, in Lombardia il 56 per cento delle aziende aderenti al progetto Campagna Amica della Coldiretti dichiara un fatturato in crescita, il 39 per cento è stabile e solo il 5 per cento perde soldi. Un miracolo, in tempi come questi, a cui se ne aggiunge un altro: la crescita dell’occupazione. I lavoratori impiegati in questo settore nel 2010 erano 505, nel 2011 sono saliti a 894 e a ottobre di quest’anno sono arrivati a quota 1.100.
Vendere direttamente al consumatore — bypassando la filiera della distribuzione che comporta prima di tutto un aumento del prezzo per il cliente finale — sembra essere un affare. E chi lavora bene la crisi non la sente. Dal 2008 le aperture di farmer’s market aderenti alla rete sono in crescita costante e i nuovi punti vendita saltano fuori come funghi: dal 2010 al 2011 sono cresciuti del 77 per cento, mentre dal 2011 al 2012 del 32 per cento.
Questi dati sono ancora più significativi se messi a confronto con altri settori. Secondo i dati della Coldiretti, dal 2009 il commercio è in grande sofferenza, con una punta negativa fra il 2011 e il 2012 quando ha fatto registrare un calo complessivo del fatturato intorno al 24 per cento. Per questo l’agroalimentare a chilometro zero con i suoi grafici in salita si candida a essere uno dei settori trainanti dell’economia locale. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, lo spiega con un aneddoto: «Qualche giorno fa ho incontrato uno studente della Bocconi vicino alla laurea. Mi ha raccontato che dopo aver discusso la tesi, sarebbe andato in Val Brembana per aprire un agriturismo e un allevamento con un punto vendita di prodotti alimentari. Ecco, una cosa del genere fino a qualche anno fa era impensabile: oggi è un’idea vincente». Se un giovane bocconiano decide di investire tempo e conoscenze economiche in questo modo significa che è un settore di successo. Ma probabilmente c’entra anche la crisi. «Il disastro che ha colpito l’economia mondiale — aggiunge Prandini — ci ha fatto riscoprire i valori del lavoro agricolo. Forse tutto questo potrà esserci di ispirazione per cambiare le nostre abitudini ed essere una guida per le nuove generazioni».