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Carlo Petrini teme, giustamente, che la mancanza di una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sia un pesante contrbuto dell'Italia al degrado dell'ambiente. E necessario approvare la legge sul consumo di suolo in discussione al Parlamento? Abbiamo intervistato in proposito Vezio De Lucia.

Oggi si apre a Parigi la Conferenza mondiale sui cambiamenti di clima. Si parlerà molto di energie alternative, di risparmio energetico, di riduzione dei fattori inquinanti, di green economy e così via. I rappresentanti degli Stati si barcameneranno tra l’esigenza di dover contribuire alla riduzione di un rischio di catastrofe e quella di non ridurre il Pil, che sembra essere il totem della religione dominante. C’è grande attesa per i risultati, e una forte pressione che nasce dalle manifestazioni popolari in corso nelle strade e nelle piazze di tutti i continenti.

C’è invece chi denuncia già i limiti della conferenza, della sua stessa impostazione. Carlo Petrini, sul manifesto di oggi, rivendica il ruolo dell’agricoltura riprendendo una problematica sviluppata qualche giorno fa da Piero Bevilacqua. Petrini pone la questione del consumo di suolo. Egli scrive: “In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento”.

Vezio De Lucia è tra quelli che nel 2005 contribuirono a porre la questione promuovendo la sessione della Scuola di eddyburg dedicata al tema dello sprawl: l’insensato consumo di suolo provocato dalla sua utilizzazione edilizia al di là di ogni ragionevole utilità. Gli chiediamo di esprimere il suo parere odierno sull’argomento.

Ma innanzitutto gli domandiamo: Che cosa è successo da allora a oggi?
«Ti ricordi, Eddy, che siamo stati fra i primi, proprio tu, Gigi Scano e io, alla fine degli anni Settanta – quando tutt’e tre ci occupavamo di Venezia – a contrastare la saldatura edilizia del triangolo Mestre Padova Treviso evitando altre espansioni nella terraferma veneziana? Da allora, nonostante gli avvertimenti e le preoccupazioni del mondo ambientalista, le cose sono andate sempre peggio. Solo un dato, a Roma, dal 1971, la popolazione è rimasta più o meno la stessa ma la superficie urbanizzata è più che doppia. Quasi niente di buono è venuto dal mondo politico e dai poteri locali. Il tentativo più importante a scala nazionale per contenere e razionalizzare lo sviluppo edilizio fu quello della legge Galasso del 1985. Ma, salvo rare eccezioni ancora in vigore (il piano della costiera Amalfitana e della penisola Sorrentina, approvato con legge regionale), il bilancio è stato deludente. Va ancora peggio con i piani paesaggistici del Codice del paesaggio del 2008: il ministero per i Beni culturali è platealmente assente e solo tre regioni, la Sardegno, la Puglia e la Toscana, dispongono di un piano regolarmente approvato. In questo disastroso panorama giganteggia la figura di Anna Marson che, da assessore all’urbanistica della Regione Toscana nella trascorsa legislatura, ha portato all’approvazione l’unica legge efficace e rigorosa per fermare il consumo del suolo. E mi permetto di ricordare il piano regolatore di Napoli del 2004, il solo piano di una grande città che non prevede zone di espansione e ha sottoposto a tutela il suolo scampato all’apocalisse urbanistica dei decenni precedenti».

Che giudizio dai sull’iniziativa che assunse nel 2012 il ministro dell’Agricoltura Catania?

«Dopo l’ex sottosegretario Giuseppe Galasso, va riconosciuto a Mario Catania, ministro delle risorse agricole del governo Monti, di essere stato il solo esponente del governo italiano a impegnarsi per la difesa dalla cementificazione dei terreni agricoli, come auspicano Carlo Petrini e Piero Bevilacqua. Ma il condivisibile intento di Catania è stato vistosamente contraddetto dalla stesura del progetto di legge governativo, infarcito da tante e inverosimili condizioni e diversivi da convincerci che quell’intento non potrà mai essere realizzato. E con il trascorrere del tempo e dei governi (Monti, Letta, Renzi) il testo è andato sempre più scandalosamente peggiorando».

Hai dato un giudizio molto critico della legge attualmente in discussione in Parlamento. Quali sono le ragioni essenziali?
«In primo luogo, l’effettiva entrata in vigore delle norme di contenimento del consumo del suolo è subordinata a un malinteso rispetto del pluralismo istituzionale perseguito attraverso complicati meccanismi procedurali a cascata: Stato, Regioni, Comuni. Meccanismi che non hanno mai funzionato in altri campi, figuriamoci quando sotto tiro sono gli interessi di potentissimi settori dell’economia finanziaria e immobiliare. Non è difficile prevedere che, ove approvata, la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessaria e urgente (dal Lazio in giù), oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione.

«Ma il peggio è che, alla fine, la tutela del paesaggio agrario e dello spazio aperto è solo un fragile paravento al riparo del quale prendono corpo operazioni che addirittura favoriscono la speculazione immobiliare. Infatti, all’originario progetto di legge sono stati aggiunti due argomenti assolutamente estranei, anzi in contrasto con l’obiettivo del contenimento dell’uso del suolo, vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.
«I compendi agricoli sono il machiavello per la trasformazione dell’edilizia rurale in altre attività (amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, eccetera). Una legge che nasce per promuovere e tutelare l’agricoltura, il paesaggio e l’ambiente consente quindi la distruzione dell’attività agricola e dei relativi manufatti. Complimenti.
«Ancora più inquietante l’altra novità, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate, introdotta poco prima della presentazione del provvedimento in aula (avvenuta circa un mese fa). Si tratta di una delega al governo a emanare uno o più decreti legislativi volti a semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbane degradate. Una delega in bianco, sostanzialmente priva di principi e criteri direttivi, modello Sblocca Italia. Senza alcun rapporto con l’ordinaria disciplina urbanistica. E in questa circostanza, incredibilmente, sono del tutto ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia di urbanistica, che andavano bene come pretesto per ritardare l’entrata in vigore delle norme per contrastare il consumo del suolo.
«Approdato in aula, sembra che il progetto di legge che impropriamente continuiamo a chiamare Catania sia stato messo su un binario morto. Molto meglio così. Almeno gli esponenti del governo, a cominciare da Matteo Renzi (che voleva la legge approvata prima della conclusione dell’Expo di Milano) non potranno continuare a vantarsi di essere impegnati a difendere il paesaggio e il suolo agricolo».
Che fare adesso?
«Certo, se la politica è asservita all’economia e alla finanza, l’urbanistica – che è una voce della politica – è inevitabilmente screditata. Ma abbiamo la schiena dritta e andiamo avanti. Primo, denunciando l’imbroglio della legge Catania, non consentendo che ci mandino altro fumo negli occhi (come ha scritto Stefano Fatarella). Poi lavorando per far conoscere la legge toscana 65/2014 (quella di Anna Marson) perché sia proposta in altre regioni. A scala nazionale, più passa il tempo, più mi pare confermata la qualità del disegno di legge proposto da eddyburg nel giugno 2013 che il nuovo gruppo parlamentare Sinistra Italiana e il movimento 5 Stelle dovrebbero far proprio. Coraggio».
Riferimenti

Un'analisi puntuale dell'errore rappresentato dalla legge in discussione è nell'articolo di Vezio De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione; nella postilla altri link utili. La critica all'innovazione dei compendi agricoli è nell'articolo di Maria Cristina Gibelli, Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani» .

Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni. Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039

Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.

Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):

Un percorso in tre atti (impuri)

1. con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri dell’Ambiente, dei Beni Culturali e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni è definita la “riduzione progressiva vincolante, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale” (art. 3, c. 1);
2. la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);

3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).

Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.

Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.

Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).

Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).

Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.

Comunque, ammesso anche che il Consiglio dei ministri intervenga per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa male a nessuno, escludo che nella maggioranza delle Regioni si provveda per tempo a ripartire fra i comuni la riduzione del consumo di suolo fissata a scala regionale.
Ma ammesso ancora che, un giorno, questo possa succedere, non succederà mai che i comuni più disponibili nei confronti del cemento e dell’asfalto (dal Lazio in giù) provvedano nei tempi previsti a riformare gli strumenti urbanistici per cancellare le espansioni previste. Non c’è bisogno di una gran fantasia per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessario e urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione. Mi si può obiettare che la norma transitoria (art. 11) blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge. Ma la norma fa salvi opere, interventi, strumenti attuativi e procedimenti (anche solo adottati) che coprono abbondantemente i tre anni di moratoria.

Rigenerazione della speculazione

La proposta non si occupa solo di contenimento del consumo del suolo. Nel recente dibattito nelle commissioni VIII e XIII della Camera sono stati aggiunti altri due preoccupanti argomenti: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.

I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.

Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:

· siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;

· i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.

Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.

Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.

Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.

postilla
L'ultimo testo disponibile del disegno di legge C 2039, sulla base del quale è stato scritto l'articolo é scaricabile qui. L'argomento è stato trattato su eddyburg con numerosi articoli. Si vedano tra l'altro, i seguenti: gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Cristina Gibelli, 20 gennaio 2015 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani), di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).

Una lucida analisi delle molteplici cause alla radice del dissesto territoriale del Bel Paese (m.p.g.)

Mai celia popolare è stata più attuale e veridica: il territorio frana, si allaga, degrada e le politiche pubbliche latitano - o se intervengono generano ancor più guasti quando, con perfida sistematicità, sconfinano nell’illegale. Un panorama dolente quello italiano, bersagliato da eventi calamitosi portatori di danni e lutti, di frequenza e portata eccezionale, etichettati come “naturali” e perciò fatalisticamente ascritti all’infausto destino di una geomorfologia fragile e di un regime climatico in mutamento. Catastrofi che una più saggia attenzione agli equilibri ecosistemici e alla prevenzione potrebbe nella maggior parte dei casi evitare o comunque mitigare. Ma una subdola assuefazione all’estetica del dramma, cifra semiotica del nostro tempo, allontana la riflessione sulle cause, in quest’epoca barocca che sopperisce alla mancanza di etica con la ridondanza delle narrazioni.

Non è mia intenzione affrontare il versante giudiziario del caos in cui versa il nostro territorio, benché ricchissimo di casi e di documenti processuali, anche se sarebbe interessante prima o poi tracciare una geografia dei riflessi spaziali del potere corruttivo, una perversa pianificazione a rovescio, implicita, i cui esiti appesantiscono le disfunzionalità e i disagi dei nostri sistemi urbani e infrastrutturali, che dovrebbero invece costituire la nervatura a supporto dell’efficienza, dello sviluppo e della qualità del vivere.Mi fermerò alle cause esplicite, ossia alle logiche che, negli ultimi trent’anni, hanno deciso la dilatazione insediativa e l’organizzazione del territorio. Anche così dovremo comunque constatare come si sia trattato di ragioni inquinate da scarsa lungimiranza, subalterne a un’idea di crescita sbilanciata verso il settore delle costruzioni e il consumo di suolo che ne è derivato, in cui la rendita immobiliare, per sua natura improduttiva, ha fatto da padrona.

Quando la bolla è esplosa, nel 2007 negli Stati Uniti e l’anno dopo in Europa, i migliori analisti (penso a Nomisma e Cresme) già avvertivano dell’esaurimento di un ciclo, della saturazione della domanda e dei pericoli insiti in un percorso speculativo che in Italia aveva visto aumentare i valori delle costruzioni di più del 60% soltanto nell’ultimo decennio. Ma l’euforia dell’investimento immobiliare aveva contagiato a tal punto la società italiana, per mentalità già orientata al “mattone”, che solo la stasi del mercato, ma siamo agli anni più recenti, ha fermato la corsa alle edificazioni – ora dirottata sulle Grandi Opere, nuovo vessillo della crescita, ennesimo capitolo dello sfruttamento del territorio. Opere intese unicamente come sbocco per capitali finanziari in cerca di remunerazione e non come momento di attrezzaggio ed efficientamento, le cui localizzazioni il più delle volte sono frutto di pressioni, corruzioni, cordate sotterranee incalzanti. In barba a qualsivoglia pianificazione.

Non a caso lo Sblocca Italia (decreto legge 12 settembre 2014, n. 133) si regge sul principio della deroga, che a sua volta, per escamotare la normativa vigente, poggia su un’interpretazione lasca e contorta del concetto di “interesse pubblico”, talmente dilatata da coprire ogni possibile opzione purché costruttivista. Dispositivi la cui ambiguità sembra fatta apposta per incentivare pratiche scorrette.Un contesto in cui lo spazio della nostra sussistenza è diventato terra di conquista, materia grezza da mettere in valore, un’appropriazione su cui gli abitanti non hanno voce – non c’è luogo che non abbia un comitato di cittadini che protesta per decisioni calate dall’alto che ledono gli ecosistemi o denuncia gli effetti negativi di opere inutili, sbagliate oppure iniziate e mai completate.

Un arrembaggio che calpesta la territorialità, quell’insieme composito e stratificato in cui culture locali, consuetudini di vita e modelli di sviluppo hanno sedimentato le combinazioni geografiche ed economiche su cui si fonda il nostro vivere. Frutto delle generazioni e delle loro dialettiche e dunque bene comune per eccellenza.Un processo di predazione dei patrimoni territoriali avviato con il boom industriale, ma che nell’ultimo trentennio, da quando la rendita immobiliare e finanziaria hanno predominato sugli investimenti produttivi, ha conosciuto ritmi e intensità straordinari. La cui responsabilità non sta in capo solo ai grandi speculatori avidi e corrotti, promotori delle operazioni immobiliari franate in crack colossali già prima dell’esplosione della bolla (i famosi “furbetti del quartierino”), ma vede coinvolta, per ragioni diverse, l’intera società.

Nell’immaginario collettivo italiano la casa di proprietà rappresenta un obiettivo, anche come espressione di status, perseguito a costo di sacrifici e indebitamenti. In Italia la maggior parte dei residenti ha la casa in proprietà, a cui si aggiungono seconde, terze, ennesime case acquistate come forma di investimento di fronte a rivalutazioni e rendimenti che, prima della crisi e dei recenti aggravi tributari, erano molto elevati.Una propensione favorita in quella fase dal facile accesso al credito, in cui le banche hanno svolto ruolo decisivo, sia a supporto e copertura delle grandi imprese, sia nei confronti dei piccoli investitori, a cui sono stati elargiti mutui anche quando le garanzie offerte non erano consone; al punto che nei bilanci degli istituti ora figura un patrimonio immobiliare svalutato e ingombrante esito di pignoramenti. Che si aggiunge al tanto nuovo invenduto inutilizzato.

Una mentalità rafforzata dalle politiche nazionali attraverso condoni, incentivi, premialità o anche indirettamente, com’è stato ad esempio con le misure fiscali di detassazione degli utili reinvestiti che hanno fatto spuntare come funghi i capannoni Tremonti, da subito inutilizzati. Tutto ciò in base all’assioma che l’edilizia sia la miglior leva della crescita, un pregiudizio che tuttora perdura benché smentito da una congiuntura che ne ha punito gli eccessi e mostrato i risvolti controproducenti.Una fiducia condivisa e con vigore applicata dagli enti locali che, stretti nelle morse dei tagli di bilancio, sono (stati?) paladini dell’urbanizzazione, i cui oneri rappresentavano un’entrata per le loro casse esangui, e tuttora faticano ad abbandonare la speranza che l’edilizia possa riprende ai vecchi ritmi e rimandano la revisione di previsioni fortemente sovrastimate oggi irrealistiche.

Un calderone di consensi che comprende anche i proprietari dei terreni, disposti a far carte false – e non è un’iperbole come ben sappiamo - pur di inserire i propri lotti nei piani di espansione e che ora, nella stasi del mercato, chiedono la cancellazione dell’edificabilità per evitare le imposte immobiliari. Un tira e molla poco dignitoso, mi pare, per l’ente pubblico ridotto a ruolo notarile di decisioni pilotate dai privati.Un insieme intrecciato di comportamenti che hanno proliferato nella generale atmosfera di rifiuto del congestionamento, dell’anomia e dei costi del vivere urbano che si diffonde nella società a partire dagli anni ’70 e propone come contraltare l’idealtipo di una campagna bucolica, paradiso ecologico e illusione di socialità. Un progetto destinato ad attualizzarsi nelle villette a schiera e nei palazzoni della periferia infinita, che hanno moltiplicato la mobilità, l’inquinamento e i costi - sociali ed economici, individuali e pubblici. Sicché il sogno agreste e le sue innocenti aspirazioni ecologiste, cavalcati dalle complicità speculative, figurano come paradossali correi dello sprawl e dello scempio perpetrato ai danni del mondo rurale.

Ora sotto il cielo frantumato dell’orgia edilizia regna grande confusione e benché da tutte le parti (finalmente) si gridi che bisogna fermare il consumo di suolo, non si va oltre gli slogan, le direzioni in cui muoversi non sono chiare mentre i cocci del disastro diventano più aguzzi ogni volta che piove. Il territorio, martoriato dal cemento e dall’asfalto, è entrato in squilibrio, non è più in grado di reggere le dinamiche naturali.

Una versione ampliata del testo è pubblicata sulla rivista il Mulino, 4/15, pp. 678-685.

postilla

Ahimè, la direzione di marcia sembra segnata. Sembra unanime l'accordo delle associazioni, delle corporazioni e dei partiti su un testo che non servirebbe affatto a ridurre il consumo di suolo. Anzi, fornirebbe un alibi a chi vuole continuare a praticarlo. Si tratta di quel disegno di legge intitolato "Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo", derivante dalla proposta dell'allora ministro per l'agricoltura Catania. Sarebbe una legge priva assolutamente di efficacia, che nella ipotesi migliore condurrebbe alla scomparsa del consumo inutile di suolo al 2050 come ha limpidamente argomentato su queste pagine Ilaria Agostini nel suo articolo del maggio 2015, scritto per La città invisibile e ripreso da eddyburg.

«Agricoltura. Per il G7 le associazioni per la difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai governi del mondo di dotarsi di una piattaforma sociale che metta al centro le organizzazioni contadine in lotta contro il land-grabbing». Il manifesto, 10 giugno 2015

Tre anni fa il Sum­mit G8 del 2012 pro­cla­mava la nascita della «Nuova Alleanza per la sicu­rezza ali­men­tare e la nutri­zione». L’accordo faceva leva sulla reto­rica stru­men­tale e ipo­crita dell’aumento della pro­du­zione di cibo per sal­vare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di per­sone. Il solito slo­gan usato cini­ca­mente per incen­ti­vare forme di spe­cu­la­zione, anche finan­zia­ria, che sem­brano aver tro­vato un nuovo Eldo­rado nell’accaparramento di terra agri­cola in Africa, Sud Ame­rica e Asia. In quell’occasione, una sorta di anti­pa­sto del Ttip, si tro­va­rono allo stesso tavolo dieci paesi afri­cani, non certo tra i più poveri, tra i quali Ghana, Nige­ria, Mozam­bico, Tan­za­nia, e cen­ti­naia di mul­ti­na­zio­nali dell’agro-industria tra cui le più grandi nella pro­du­zione di pesti­cidi, sementi ibride e Ogm (Yara, Car­gill, Monsanto).

Più mer­cato, più privatizzazioni
Die­tro le pro­cla­ma­zioni uffi­ciali si nascon­deva in realtà, senza un velo di imba­razzo, il ten­ta­tivo di aprire nuovi mer­cati in Africa alle imprese euro­pee e ame­ri­cane che, in cam­bio di un impe­gno vago ad inve­stire denaro con­tante nei dieci paesi afri­cani inte­res­sati, rice­vet­tero impe­gni pre­cisi da parte di que­gli stessi governi afri­cani per l’avvio di pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione della terra. In par­ti­co­lare fu pre­vi­sta la con­ces­sione a imprese mul­ti­na­zio­nali delle «terre comuni» uti­liz­zate da sem­pre dai vil­laggi per il sosten­ta­mento col­let­tivo delle comu­nità (land-grabbing), incluse poli­ti­che volte alla lega­liz­za­zione degli Ogm e di sementi bre­vet­tate con con­te­stuale cri­mi­na­liz­za­zione di pra­ti­che di scam­bio di sementi ope­rate dai con­ta­dini. Pre­vi­sta anche la tra­sfor­ma­zione della pro­du­zione agri­cola di tipo fami­liare su pic­cola scala, che in Africa riguarda ancora il 60% dei con­ta­dini e l’80% della pro­du­zione totale di cibo, verso sistemi di pro­du­zione indu­striale ispi­rati ad un modello che nel mondo ha già mostrato i suoi limiti: inqui­na­mento, cam­bia­menti cli­ma­tici, pro­blemi di obe­sità e malnutrizione.

I con­tratti impo­sti alle popo­la­zioni locali pre­ve­dono, tra le altre cose, il pieno ed esclu­sivo uti­lizzo di tutte le risorse sot­to­stanti e sovra­stanti la terra acqui­stata. Que­sto signi­fica che senza un limite con­trat­tuale, qual­siasi sia la col­tura che quell’azienda decide di col­ti­vare, oltre al ter­reno può disporre di tutta l’acqua che ritiene neces­sa­ria senza ver­sare alcun canone aggiun­tivo. Le popo­la­zioni locali dovranno lasciare quel luogo ormai non più loro, dopo di ché tutto quello che insi­ste su quel suolo diventa di pro­prietà delle aziende loca­ta­rie o dei fondi pen­sione occi­den­tali che hanno avviato enormi ope­ra­zioni di inve­sti­mento e spe­cu­la­zione su quelle terre. Si con­si­deri che negli ultimi anni sono stati acca­par­rati ter­reni per 87 milioni di ettari. Signi­fica cin­que volte la super­fi­cie ara­bile d’Italia, che nel suo com­plesso è di circa 30 milioni di ettari: si tratta del 2% delle terre col­ti­va­bili nel mondo. È lo stesso mec­ca­ni­smo finan­zia­rio adot­tato in Inghil­terra dal governo della signora Mar­ga­ret That­cher circa trent’anni fa con il fal­li­men­tare slo­gan «meno Stato, più mercato».

Per il report dell’associazione Terra Nuova e del Trans­na­tio­nal Insti­tute, i bene­fici pro­messi dal set­tore pri­vato e dai dona­tori eva­po­rano quando le orga­niz­za­zioni con­ta­dine più cri­ti­che e i loro soste­ni­tori cer­cano di deter­mi­narne gli impatti. Ciò che rimane è un sistema orga­niz­zato con lo scopo di pena­liz­zare i pic­coli pro­dut­tori a bene­fi­cio delle mul­ti­na­zio­nali attra­verso la pri­va­tiz­za­zione dei beni pub­blici e col­let­tivi dai quali dipen­dono le con­di­zioni di vita delle popo­la­zioni rurali. Pri­va­tiz­za­zione infatti in primo luogo signi­fica pri­vare tutti di beni comuni quali il suolo agri­colo e l’acqua. Pri­vati delle terre e dei mezzi di sosten­ta­mento, le comu­nità rurali non hanno altra scelta che inte­grarsi a con­di­zioni svan­tag­giose in sistemi di pro­du­zione di cui per­dono com­ple­ta­mente il con­trollo. L’alternativa per la soprav­vi­venza è migrare verso le città o altri paesi.

Giù le mani dalle sementi
È per que­sti motivi che in occa­sione del G7 le asso­cia­zioni impe­gnate nella difesa della sovra­nità ali­men­tare hanno chie­sto ai Governi dei paesi che hanno sot­to­scritto la Nuova Alleanza alcuni impe­gni pre­cisi, a par­tire dalla pre­di­spo­si­zione in ogni nazione di una piat­ta­forma sociale che com­prenda i diversi attori inte­res­sati da que­ste poli­ti­che. Tra que­sti ci dovranno essere le orga­niz­za­zioni con­ta­dine e gli altri gruppi emar­gi­nati, insieme a quelle che si occu­pano della difesa del diritto al con­senso libero, pre­ven­tivo e infor­mato di tutte le comu­nità vit­time della spe­cu­la­zione eco­no­mica sulla terra, oltre a quelle che garan­ti­scono la loro piena par­te­ci­pa­zione al governo del ter­ri­to­rio e delle risorse natu­rali. L’impegno con­ti­nua con la richie­sta di rispet­tare i diritti dei con­ta­dini a pro­durre, pro­teg­gere, uti­liz­zare, scam­biare, pro­muo­vere e ven­dere le pro­prie sementi e aumen­tare il soste­gno al sistema delle ban­che con­ta­dine dei semi. Fon­da­men­tale è la richie­sta dello stop con con­te­stuale revi­sione di tutti i pro­cessi sulla legi­sla­zione sulle sementi basati sulla con­ven­zione Upov del 1991. La richie­sta riguarda tutti i bre­vetti e le leggi che minac­ciano i diritti dei pic­coli agri­col­tori. Sono pre­vi­ste infine poli­ti­che pub­bli­che di soste­gno per que­sta cate­go­ria di pro­dut­tori, incluse le orga­niz­za­zioni della società civile e dei con­su­ma­tori a livello regio­nale e nazio­nale per svi­lup­pare un dibat­tito sulla sovra­nità ali­men­tare, sul diritto al cibo e sull’agro ecologia.

Le orga­niz­za­zioni che hanno sot­to­scritto la dichia­ra­zione a livello mon­diale sono nume­rose e tra que­ste si con­tano oltre a Terra Nuova anche Actio­nAid Inter­na­tio­nal, Africa Europe Faith and Justice Net­work, Grain, Green­peace Africa, La Via Cam­pe­sina Sou­thern and Eastern Africa, Oxfam, Trans­na­tio­nal Insti­tute, Unión Soli­da­ria de Comu­ni­da­des — Pue­blo Dia­guita Cacano, Réseau Maerp Bur­kina Faso, Coa­li­tion of Women’s Far­mers, Cnop Mali, Glo­bal Justice Now e molte altre. Un’iniziativa che vuole unire le asso­cia­zioni di tutto il mondo per com­bat­tere con­tro la fame, la mise­ria e soprat­tutto i grandi affari delle mul­ti­na­zio­nali, dell’agro-finanza e dei loro governi amici.

E verrebbe proprio da dire, a certi affabulatori a vanvera del cosiddetto sviluppo del territorio: eccotela qui la tua città infinita, pietrificata e morta. Corriere della Sera Milano, 10 maggio 2015 (f.b.)

MILANO - La provincia più cementificata d’Italia. E’ un triste primato quello della provincia di Monza e Brianza. Dagli anni 50 a oggi, il Monzese ha consumato il 34,7% del suo territorio. Oltre 14 mila ettari di terreno impermeabilizzato artificialmente e quindi non più recuperabile. Un problema che sta diventando emergenza, e non solo in Lombardia, quello del consumo di suolo. Basti pensare che, in Italia, per colpa della cementificazione, si è perso il 20% delle coste: oltre 500 chilometri quadrati, l’equivalente dell’intera costa sarda.

A lanciare un nuovo allarme è l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra) che, nel convegno scientifico «Recuperiamo terreno», organizzato con il Forum Salviamo il Paesaggio e con Slow Food, ha diffuso il «Rapporto sul consumo di suolo 2015»: una cartografia a altissima risoluzione, disponibile sul sito www.consumosuolo.isprambiente.it

Maglia nera, quindi, alla provincia di Monza, dove si trovano anche i due comuni più cementificati della regione: Lissone con il 64 % di suolo consumato e Sesto San Giovanni, con il 56 % . Milano si ferma, invece, al 47,8%, mentre l’area della nuova Città metropolitana ha già consumato il 26% del suo territorio. Terza, poi, si piazza Varese con il 18 % del suolo usato.

La Lombardia si conferma così la regione più «consumata» d’Italia, con il 10,4% di suolo impermeabilizzato. Una percentuale bassa, ma in grado di alterare direttamente o indirettamente il 58% del suolo lombardo: un’infrastruttura che spezza la continuità di un’area agricola, ad esempio, la modifica nel suo complesso e non solo per la parte cementificata.

Questoconsumo disordinato espone i centri abitati al rischio di alluvioni, frane,esondazioni e poi provoca degrado ambientale, perdita di terreni agricoli eaumento dell’inquinamento atmosferico. E’ urgente, quindi, una legge a tuteladel territorio, che non è un bene inesauribile e, una volta modificato, non puòtornare come prima. Un disegno di legge sul consumo di suolo è all’esame degliemendamenti nelle Commissioni Ambiente e Agricoltura, ha spiegato al convegnoChiara Braga, deputato e responsabile Ambiente del Partito democratico:«Occorre la strumentazione giuridica che possa davvero salvaguardare il suolonel suo valore agricolo e ambientale, perché non si continui solo a pensarlocome bene economico da sfruttare». Ma contro la nuova legge sono già statipresentati 400 emendamenti.

«I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte». La Repubblica, 4 maggio 2015

NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.

È questa la più impressionante tra le moltissime notizie contenute dal rapporto 2015 sul consumo di suolo che dopodomani sarà reso pubblico dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Ispra. Nel 2014 abbiamo “tombato” col cemento altri duecento chilometri quadrati di suolo: ogni giorno perdiamo 55 ettari, ogni secondo ci giochiamo tra i 6 e i 7 metri quadrati di futuro. In totale il suolo consumato in Italia è arrivato a quota 21mila chilometri quadrati, cioè il 7 per cento del territorio.
Dai numeri dell’Ispra appare consolidata la tendenza per cui, dal 2008, il Nord Ovest guadagna (cioè perde...) terreno rispetto al Nord Est. In altre parole, si costruisce di più proprio nelle regioni che negli ultimi anni hanno pagato, per il cemento, il prezzo più alto in termini di vite umane e di danni materiali: la Liguria, per esempio. I numeri del cemento vanno, infatti, incrociati con quelli del brusco cambiamento climatico e del conseguente aumento del rischio idraulico e geologico. In un convegno sul Cambiamento climatico, rischio idrogeologico e pianificazione urbanistica tenutosi recentemente all’Università di Firenze, il meteorologo Andrea Corigliano ha notato che «dei 74 eventi alluvionali totali italiani che si sono verificati dal 1951, 55 si sono manifestati dopo il 1990 e ben 26 solo negli ultimi quattro anni». In altre parole, gli effetti dell’immissione di anidride carbonica nell’atmosfera (nel 2014 la più elevata degli ultimi 800 mila anni) si stanno sommando a quelli del sigillamento del terreno: e la conseguenza sono le devastanti alluvioni urbane, che tutto sono tranne che una catastrofe naturale.
Di naturale c’è davvero poco, in questa nostra folle corsa al cemento. I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte. E se nel 2014 il suolo consumato per ogni cittadino italiano sembra, per la prima volta, lievemente scendere, non è perché si costruisca di meno, ma è a causa della ripresa demografica, dovuta in grandissima parte all’immigrazione. Come una specie di terribile peccato originale, i “nuovi italiani” si addossano un consumo statistico di suolo davvero impressionante: circa un chilometro quadro a testa!
E non si deve pensare che il Mezzogiorno sia esente dalla peste grigia del cemento. Dopo Lombardia e Veneto si attestano immediatamente la Campania e la Puglia.
Ed è impressionante - ma non sorprendente - vedere che la regione del Crescent (il più incredibile scempio edilizio della Penisola, che ha sfregiato la città e il paesaggio di Salerno per volontà del sindaco Vincenzo De Luca, ora candidato alla presidenza della regione) nel 2013 si è cementificata più di Toscana, Emilia Romagna, Lazio: con una percentuale che si attesta tra il 7,8 e un mostruoso 10,2 per cento del territorio.

Di fronte a queste cifre, appaiono un balsamo le parole del nuovo ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, il quale ha subito promesso che si costruiranno solo opere utili (ovvio? No, sarebbe rivoluzionario), e che si romperà con la legislazione d’emergenza pro-cemento made in Maurizio Lupi. Ma c’è da fidarsi?
Il disegno di legge sulla “semplificazione” presentato dal presidente del consiglio Matteo Renzi di concerto con la ministra Marianna Madia promette, al contrario, di aggravare le conseguenze del micidiale Sblocca Italia, voluto da Lupi e fatto approvare da Renzi nello scorso novembre. Si tratta di una legge delega che - se approvata - permetterà, tra l’altro, al governo di estendere il micidiale meccanismo del silenzio-assenso (già sostanzialmente dichiarato anticostituzionale nel 1986) anche «alle amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini» (articolo 3). Facile immaginare cosa succederà, in un Paese che ha smantellato e reso inefficienti le sue “magistrature del territorio”: saranno più veloci i permessi alle opere inutili legate ad interessi privati. E che dire dell’articolo 2, che delega il governo a introdurre il principio della decisione a maggioranza nelle conferenze dei servizi? Gli interessi dell’ambiente e della salute dei cittadini saranno in maggioranza o, come sempre, in minoranza?
La battaglia contro il cemento si perde prima nelle leggi corrotte, e poi sul territorio: dipende dall’azione del governo Renzi ciò che leggeremo nel prossimo rapporto Ispra. O il governo invertirà la rotta, o leggeremo che ci siamo suicidati ancora un po’. La scommessa sarebbe facile: ma sul futuro dei nostri figli non si può scommettere.

«Da Istat e ministero delle Finanze identikit delle abitazioni: 116 metri quadri, quattro stanze, 80% di proprietà. Spazi più ampi e confortevoli rispetto a dieci anni, famiglie meno numerose. Per chi non può permettersi proprietà né affitto privato, un’altra storia». La Repubblica, 22 febbraio 2015

La casa degli italiani - la casa privata, di proprietà - è sempre più grande e confortevole. E ha sempre meno cucina: deve lasciare spazio al soggiorno, nuovo centro del vivere interno. Per i fornelli è sufficiente un angolo cottura, in cucina non serve più abitarci. Soprattutto, le abitazioni (private) degli italiani sono in continua crescita. I “730” del 2013, ultimi analizzati dal ministero delle Finanze, dicono che a catasto sono inserite più unità immobiliari di quanta popolazione sia iscritta all’anagrafe: 60 milioni e 217mila pezzi quando i residenti, in Italia, nel 2012, erano 59 milioni e 394 mila. Di questi accatastamenti (cinque milioni in più in cinque anni), 33 milioni e 481mila sono abitazioni a uso residenziale, uno stock impressionante. Il resto, sono box e pertinenze. Il rapporto numerico dice che c’è un appartamento intero a disposizione di ogni italiano virgola 56. In un anno - 2011 su 2012, piena crisi economica - sono state costruite o sono emerse un milione e 100mila abitazioni in più. Gru e impastatrici non si fermano, e così l’anelito degli italiani: la casa.

Ecco, il 76,6% delle famiglie vive in un’abitazione di proprietà, dice il Mef. Al Sud si supera l’82 per cento. E l’abitazione in media, sorprendente, è larga 116 metri quadrati. Nell’immaginario immobiliare italiano ci sono i bilocali metropolitani per coppie, o per famiglie con un bambino: tutti stipati in un fazzoletto, ci si racconta. Ma i dossier statistici dicono che nell’Italia delle città medio-piccole, della provincia, delle molte seconde case, in verità le metrature si allargano.
In Umbria le abitazioni arrivano - è la media - a 133 metri quadrati, in Friuli e Veneto a 132. Visto che le nostre famiglie si assottigliano ma in cifra generale aumentano (sono passate da 21 milioni e 811mila nel 2001 a 26 milioni e 612mila nel 2011), cresce anche lo spazio a disposizione di ogni persona: 40,7 metri quadrati. Era di 36,8 metri dieci anni prima. Il dato che fa comprendere come gli italiani a casa loro stiano larghi è questo: su oltre 12 milioni di edifici residenziali quelli con un solo numero interno (uno stabile, un appartamento) sono più della metà: 6 milioni e 300mila. Quelli con più di dieci interni sono solo 455 mila, meno del 4 per cento. Significa che villette e appartamenti unici sono dodici volte più diffusi dei grandi palazzoni metropolitani.
I dati dell’Agenzia delle Entrate, presentati alla Camera la scorsa settimana, s’incrociano e incontrano con quelli prodotti tra giugno e agosto del 2014 dall’Istat con un ponderoso lavoro di tre anni sul censimento 2011 della popolazione (e delle sue case). Si scopre che un terzo dei cittadini italiani vive in quattro stanze, un quinto in cinque stanze, un sesto in appartamenti con più di sei stanze. Ecco, sono solo il 12 per cento i residenti compressi in mono e bilocali.
Gli studi certificano, poi, che la civiltà ha raggiunto davvero tutti. Il 99,9% delle case ha almeno un gabinetto: sono rimaste fuori solo 33mila residenze. Il 99,4% accoglie almeno una doccia o una vasca. Il 98,3% è servito dall’acqua potabile (si scende di cinque punti nelle Isole), il 96,8% è raggiunto dalle tubature di un acquedotto. Sì, il 99% delle abitazioni italiane conosce l’acqua calda, anche in campagna, anche in montagna. Sette volte su dieci con lo stesso impianto si possono riscaldare sia le camere che i rubinetti (si sale all’85,6% nel Nord-Est, si crolla al 35,5% nelle Isole). Sei residenze su dieci hanno un solo gabinetto, ma la quota di appartamenti con il secondo e terzo bagno è cresciuta del 27,1% sul 2001 (+29,6% al Sud).
Dicevamo la cucina, segno delle scelte architettoniche e di comfort degli italiani. È vero che tre quarti delle abitazioni del paese hanno una cucina abitabile, ma sono 2,3% in meno rispetto al 2001. Anche il cucinino, sottrazione per le case più piccole, è in decrescita dell’1,9% negli ultimi dieci anni. Poiché far da mangiare è necessario, si abolisce il vecchio schema per insediare un angolo cottura (+7,9%) che consente al soggiorno di avanzare nelle case moderne. In Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento un quarto delle case è ormai dotato solo di angolo cottura, elemento che invece non decolla in Sicilia (5,3%), Puglia (7,5%) e Calabria (8,2%).
Dal 1971 al 2011 le abitazioni occupate sono passate da 15 milioni e 301mila a 24 milioni e 141mila per crescere ancora l’anno successivo. Le costruzioni non si fermano, e questo nonostante il 22,7% degli appartamenti sia vuoto o occupato da non residenti. Il fenomeno non può che svalutare il patrimonio degli italiani. Oggi una casa in Italia ha un valore medio di 181 mila euro, 1.560 euro a metro quadrato, l’1,8% in meno sul 2011. Un box vale in media 20mila euro, una soffitta di pertinenza 5.400 euro. A Roma un’abitazione viene prezzata 380mila euro, 800 mila nelle zone pregiate. A Milano 250mila euro, 700mila per i quartieri migliori. A Napoli 300mila nella media.
Poi ci sono quattro milioni e mezzo di affittuari, e sono l’11,2% in più in due anni. Nel Centro Italia guadagnano in media 11.500 euro l’anno, al Nord 10mila, al Sud e nelle Isole 7.500. Infine l’esiguo stock delle case popolari, per chi non può permettersi una proprietà, né un affitto privato. Ma questa è un’altra storia, di disponibilità, di metrature, di decenza. Lì - Milano e Roma l’hanno fatto vedere di recente - per ottenere e poi conservare un appartamento si fa la guerra.

«L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza». La Repubblica Milano, 16 febbraio 2015

In un contesto fra i più densamente popolati d’Europa, qual è l’area milanese, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno è la messa in campo di nuovo, massiccio consumo di suolo, oltretutto promosso direttamente dal soggetto pubblico. Tanto più in presenza di tante aree dismesse, che da anni attendono di essere recuperate, alcune delle quali già dotate di elevata accessibilità trasportistica e perfettamente integrabili con la città compatta. Ma questa è la scelta operata per Expo 2015 da un ceto politico che ama creare valori immobiliari anziché città. Ora c’è da fare i conti con un’isola metropolitana, estesa per 1,1 milioni di metri quadri e separata dal resto del territorio da autostrade e ferrovie.

Il masterplan ha ulteriormente accresciuto il carattere insulare con un profluvio di specchi d’acqua e una fascia boschiva lungo tutto il perimetro. L’acqua sarà ben presto putrescente, mentre il recinto alberato è destinato al degrado perché non strutturale a qualsiasi ipotesi di riuso dell’area. Qui sta il secondo errore: non aver progettato insieme Expo e dopo Expo. Ora si dovrà fare i conti con una enorme “piastra” cardodecumanica: un’infrastruttura di reti primarie (fognatura, acqua, elettricità ecc.), costata 165 milioni di euro, da cui sarà difficile prescindere e che renderà difficile, se non impossibile, il rispetto del piano inserito nell’Accordo di Programma che vuole il 54% dell’area destinata a parco pubblico. La grande colata di cemento della “piastra”, in ogni caso, costringerà il parco a brandelli e in una posizione marginale. Il contrario del modello del campus inaugurato da Thomas Jefferson con l’Università della Virginia (1800-1819), dove una grande radura verde è il cuore del complesso.

Già, l’università. È questo il coniglio dal cappello che, a detta del presidente della Regione Roberto Maroni e di molti commentatori, può fare uscire dai guai Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Una società indebitata per 160 milioni di euro con le banche e che ha messo all’asta l’area a partire da una base di 315,4 milioni, registrando lo scorso novembre una prima risposta negativa del mercato.

L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza: i soldi dovranno saltare fuori (ci penserà Renzi, o chi per lui). Quanti? I 315,4 per l’area più i 400 milioni di euro per realizzare il nuovo campus, che ospiterebbe tutte le facoltà scientifiche della Università Statale ora a Città Studi (Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica).

Tace per ora il Comune di Milano, a cui spetta l’ultima parola. Anche perché questa operazione gigantesca richiede un passaggio da far tremare i polsi: decidere il destino del grande quadrilatero che verrebbe liberato a Città Studi (sulla cui vendita l’Università Statale conta di ricavare 200 milioni di euro). Un’operazione simile a quella riuscita a Fondazione Fiera? Se il balzo localizzativo ha punti in comune con quell’operazione, si presentano difficoltà ben maggiori sia nel punto di partenza (cosa fare a Città Studi?) che nel punto di atterraggio (chi paga e come sarà il campus?). A Città Studi un altro scempio come quello di Citylife? Non lo sopporterà la città e, in una condizione di bolla immobiliare cronica, non lo sopporterà il mercato.

Quanto a un campus universitario nell’area Expo, sarebbe la somma di due debolezze: quella di Milano città che perde una risorsa preziosa e quella di un’università che sul terreno delle relazioni territoriali si assimila a uno shopping center.

Vuoi per la fretta di approvare una legge sostanzialmente improvvisata, vuoi per le pressioni delle lobbies, in Lombardia si è quantomeno combinato un pasticcio. La Repubblica Milano, 14 febbraio 2015

La nuova legge regionale sul consumo del suolo impedisce ai sindaci che lo desiderano di approvare delle varianti al Pgt che riducano l’impatto sul territorio. Ci hanno già provato Bergamo, Brescia e Cremona. È l’effetto paradossale delle nuove norme che prevedono che per tre anni i progetti in essere potranno essere confermati o meno da sindaci e operatori. Il Pd lombardo denuncia: «È un’assurdità. Lo avevamo detto che questa legge era un pasticcio. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». L’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio getta acqua sul fuoco: «Non è vero. La circolare interpretativa che arriverà nelle prossime settimane chiarirà tutto».

La legge contro il consumo del suolo, fortemente voluta dal governatore Roberto Maroni, impedisce di fatto ai comuni che lo desiderano di approvare varianti ai loro Pgt che prevedano una riduzione dell’impatto sul territorio. A fare l’amara scoperta finora sono state le amministrazioni di Crema, Brescia e Bergamo, tutte guidate dal centrosinistra, che hanno chiesto ai tecnici della Regione un’interpretazione della legge: vogliono sapere se era possibile approvare una variante al Pgt per ridurre i cosiddetti residui, ovvero le aree non ancora lottizzate. Un dettaglio tutt’altro che irrilevante, visto che l’ultimo rapporto sul consumo del suolo redatto dalla società di ricerca regionale Eupolis rivela che le previsioni di trasformazione del Pgt lombardi già approvati comporteranno un ulteriore consumo di suolo attualmente libero pari a 53mila ettari, più altri 22mila relativi ai residui.

La denuncia è del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella che attacca: «Lo avevamo detto che la legge era un pasticcio e adesso i fatti ci danno ragione. Se un comune non può approvare una variante al proprio Pgt per ridurre il consumo di suolo da subito perché la Regione permette di farlo solo tra quale anno significa che il provvedimento è sbagliato e inadeguato. È un’assurdità. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». Il dubbio nasce dall’interpretazione del quarto comma dell’articolo 3 della nuova legge regionale, che stabilisce che «i comuni possono approvare unicamente varianti al Pgt e ai piani attuativi al Pgt, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione delle previsioni di trasformazioni già vigenti». In altre parole, a pari previsioni. Un effetto paradossale, dato che le nuove norme dovevano avere lo scopo di combattere il consumo del suolo, non di impedirne la riduzione. La nuova legge prevede infatti che i documenti di piano dei Pgt, compresi quelli già scaduti prima dell’entrata in vigore della legge, devono considerarsi “cristallizzati”. Almeno per i prossimi 30 mesi, il periodo transitorio entro il quale comuni e operatori del settore dovranno confermare o meno i progetti in essere.

Alcuni comuni capoluogo hanno chiesto nei giorni scorsi un’interpretazione agli uffici dell’assessorato. Anche diversi comuni del bergamasco avrebbero chiesto spiegazioni al dirigente dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica durante la tappa del tour a Bergamo per illustrare i contenuti delle nuove norme. L’assessore regionale Viviana Beccalossi nega tutto: «Nelle prossime settimane emaneremo una circolare applicativa che chiarirà tutto. Si tratta di una legge molto complessa. Fino ad ora non è stata presa alcuna decisione». Il direttore generale dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica Paolo Boccolo ammette che il passaggio della legge è «controverso» e che la circolare applicativa servirà per «chiarire in modo inoppugnabile » se i comuni potranno o non potranno approvare varianti per ridurre i residui. Per chiarirlo, sarà decisivo stabilire nella circolare se tra le previsioni di trasformazioni già vigenti potranno essere aggiunte anche quelle che prevedano una riduzione dell’entità e non il rispetto del vincolo delle pari previsioni. Fino a quel momento, però, il dubbio e l’effetto paradossale rimarranno.

Le recenti "opinioni" di Vezio De Lucia e di Maria Cristina Gibelli, che abbiamo pubblicato pochi giorni fa, e il punto cui è giunta la discussione sulle norme volte a limitare il consumo di suolo, ci inducono a riesporre il nostro punto di vista. con molti link nel testo

Nel settembre 2005, nell’ambito di una sessione della Scuola di eddyburg dedicata al consumo di suolo ci si rese conto che in Italia nessuno, sia sul versante della cultura urbanistica ufficiale, sia su quello della politica e dell’amministrazione, si era reso conto della drammaticità del fenomeno, lo aveva denunciato e aveva proposto soluzioni al riguardo. Nei mesi successivi un gruppo di amici di eddyburg elaborò una proposta di legge che voleva costituire un’alternativa alla malfamata proposta Lupi di quegli anni. Essa concerneva i “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” (quindi lo stesso tema della legge Lupi) ma aveva il suo focus sul contenimento del consumo di suolo.

La “legge di eddyburg” fu pubblicizzata con un libro, numerosi articoli sulla stampa nazionale, e con una serie di incontri, tra i quali una presentazione ai parlamentari nella Sala delle colonne della Camera dei deputati. Tra il novembre e il dicembre 2007 gruppi di parlamentari delle varie articolazioni parlamentari della sinistra presentarono la proposta di eddyburg come un loro progetto di legge, cosa di cui ovviamente fummo felici.

La XV legislatura si concluse nell’aprile 2009, senza che fosse giunto a compimento l’iter della proposta Lupi né che fosse avviata la discussione delle altre proposte legislative.

Ma il tema era diventato di generale interesse. Ha contribuito notevolmente, nel novembre 2008, la costituzione del forum “Stop al consumo di suolo”, (promosso e organizzato dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra) di cui eddyburg fu tra i fondatori.

Gli anni passarono. Nel 2012 il ministro per l’agricoltura Mario Catania definì e fece approvare dal Consiglio dei ministri un ddl «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo», di cui furono ampiamente apprezzate le buone intenzioni ma criticato, spesso severamente, il dispositivo. (vedi qui numerosi scritti in proposito). Ulteriori proposte legislative seguirono. Nessuna giunse all’approvazione, mentre si susseguirono provvedimenti nazionali e regionali che accrescevano, “facilitavano” e “snellivano” l’ulteriore consumo di suolo.

Il blocco immediato dell’irragionevole consumo di suolo (di cui ormai si cominciavano a valutare la quantità e le conseguenze) apparve sempre più urgente. Ma nessuna delle proposte presentate in sede di legislazione nazionale apparve idonea a quella che si rivelava un’emergenza sempre più drammatica, Alcuni degli stessi amici di eddyburg che avevano formulato la proposta del 2006 si convinsero che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni e ai loro poteri.

L’unica possibilità concreta per agire subito sul territorio era quella di affidarsi alla norma della Costituzione che attribuisce poteri esclusivi allo Stato e quindi alla sua diretta capacità di “comando” sui comuni: nella fattispecie, al riferimento del secondo comma, lettera s), dell’articolo 117 della Costituzione. Un gruppo di amici di eddyburg formulò e presentò, sulle pagine del sito, una nuova proposta.

Nella sintetica relazione allo snello articolato si afferma che la nuova normativa proposta non attiene, come la precedente e quasi tutte quelle sul tappeto, «alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione», (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali): un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli. Altrettanto incerti – si prosegue - sarebbero stati i risultati facendo riferimento, per salvaguardare il territorio non urbanizzato, a una apposita categoria da aggiungere a quelle ex lege Galasso, il che avrebbe comportato l’assoggettamento ai tempi e alle determinazioni della pianificazione paesaggistica, che lo Stato e quasi tutte le Regioni hanno di fatto accantonato»

Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di affermare all’art. 1 della proposta «che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Pertanto la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione". Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.

Il testo della proposta e la relazione sono pubblicati in eddyburg del giugno 2013 nel testo dell’articolo di Vezio De Lucia “Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato”.

L’obiettivo della proposta del 2013 è più limitato di quello cui si riferiva la “legge di eddyburg” del 2006 (è terribile la velocità con la quale peggiora la situazione culturale, politica e territoriale dell'Italia!). E' un obiettivo parziale rispetto a quello di trasformare il nostro territorio in un ambiente pienamente adeguato al ben-vivere delle persone di oggi e di domani. Ma è l'obiettivo che è indispensabile raggiungere subito se non vogliamo che il territorio sia interamente trasformato in una "repellente crosta di cemento e asfalto", e che sia distrutto per sempre il residuo patrimonio di bellezza, saggezza e civiltà che la generazioni che ci hanno preceduto ci hanno tramandato.

Ricerche USA sull'influenza delle tipologia insediative sui comportamenti sociali rivelano interessanti corrispondenze. Sarebbe bello se anche nello Stivale ci fossero analoghe ricerche. Millennio urbano, 29 dicembre 2014 Sono le caratteristiche insediative ad orientare le persone verso gli schieramenti politici o viceversa? Negli Stati Uniti è noto da tempo come gli abitanti delle aree urbane dense votino in prevalenza per i democratici, mentre quelli della dispersione suburbana per i repubblicani, ed una recente ricerca ha messo in luce il fatto che l’orientamento politico e la scelta del posto in cui vivere tendano a coincidere. Invece nel nostro paese analoghe rilevazioni sono ancora di là da venire, anche se si potrebbero trovare analogie con le dinamiche statunitensi ad esempio in quelle regioni, come la Lombardia e il Veneto, fortemente caratterizzate dalla dispersione insediativa e da quasi un quarto di secolo inclini a far prevalere lo schieramento politico di centro destra.

Tornando dall’altra parte dell’Atlantico, un nuovo rapporto del Pew Research Center sulla crescente polarizzazione politica mostra quanto grande sia il divario tra liberal, che coincidono con i democratici, e conservatori, identificabili invece con i repubblicani, riguardo a comportamenti e stili di vita. Il fatto che gli appartenenti ai due gruppi tendono a socializzare e ad informarsi solo al loro interno – anche se i conservatori lo fanno in modo più radicale – era già noto da tempo e tuttavia l’ aspetto che spicca di più, perché raramente misurato, sono le divisioni ideologiche tra chi preferisce vivere in luoghi caratterizzati dalla percorribilità pedonale e chi invece si affida alla dipendenza dall’auto tipica dello sprawl suburbano.

La correlazione tra modelli insediativi e voto

L’istituto che ha svolto la ricerca ha chiesto agli intervistati de preferiscono vivere in una zona dove “le case sono più grandi e più distanziate, le ma scuole, i negozi ed i ristoranti si trovano a diversi chilometri di distanza,” oppure dove “le case sono più piccole e più vicine tra di loro, e le scuole, i negozi e ristoranti sono raggiungibili a piedi”. Gli intervistati si sono equamente divisi tra il 49 per cento che sceglie la prima ubicazione e il 48 per cento che preferisce la seconda. Il fatto che il divario circa la preferenza del luogo in cui vivere corrisponda all’orientamento politico all’interno dei due gruppi è la novità messa in luce dalla ricerca. Mentre i tre quarti degli intervistati “costantemente conservatori” preferiscono una ubicazione suburbana come luogo in cui vivere, e solo poco più di un quinto sceglie un ambito urbano caratterizzato dalla pedonalità, tra gli americani “coerentemente liberali” le percentuali sono invertite.

Se da una parte la distribuzione del voto hanno da tempo mostrato una correlazione tra l’orientamento liberal e la densità tipica dei centri urbani – che potrebbe spiegarsi con il fatto che gli abitanti delle città americane sono più spesso poveri ed appartenenti a minoranze – la relazione tra le preferenze di un certo modello insediativo e l’ideologia politica non erano necessariamente così evidenti. Si tendeva a considerare probabile che chi vive in città semplicemente non possa permettersi di vivere nei sobborghi. Al di là delle condizioni economiche non era stata presa in considerazione la possibilità che ci fosse una precisa scelta che ha a che fare con le caratteristiche insediative. Specularmente gli elettori delle circoscrizioni non urbane potevano semplicemente essere conservatori in quanto più prossimi al mondo rurale, espressione di un modello sociale che attribuisce un grande valore alla disponibilità di spazio e di risorse, anche se non particolarmente incline ad usare l’auto per ogni necessità.

Al di là delle condizioni economiche

Il sondaggio dimostra che in effetti i liberal preferiscono potersi spostare a piedi ed i conservatori invece danno più valore allo spazio ed alla privacy. I liberal d’altra parte hanno maggiori preoccupazioni ambientali, sono consapevoli di quanto sia più efficiente vivere in case più piccole e cercano di evitare l’uso dell’auto. Le aree più dense ad accessibilità pedonale contribuiscono inoltre a creare un senso di comunità, basata sugli incontri che si possono fare camminando o sul trasporto pubblico, che prevede anche la diversità economica, etnica, culturale, eccetera. Inoltre, chi preferisce la condizione urbana tende a dare più valore allo spazio pubblico piuttosto che a quello privato.

Al contrario i conservatori non conferiscono alcun valore alla condivisione ed alla diversità e preferiscono investire i loro soldi nei giardini privati piuttosto che in un parco pubblico. Nell’indagine del Pew Research Center emerge che essi hanno più probabilità dei liberal di affermare che è importante per loro di vivere vicino solo a ai loro simili e, rispetto ai democratici, i repubblicani tendono ad essere meno giovani, istruiti e cosmopoliti.

Insomma la questione sulla quale invita a riflettere il rapporto sembra un po’ essere quella ben nota dell’uovo e della gallina: sono le scelte urbanistiche ad esse in grado di modificare gli orientamenti individuali in relazione alla desiderabilità di un certo modello sociale o è la politica che veicola la propria idea di società anche attraverso gli strumenti dell’urbanistica?

Riferimenti

Pew Research Center for People & the Press, Political Polarization in the American Public.
Ben Adler, Why liberals like walkability more than conservatives, Grist, 13 giugno 2014.
Sullo stesso argomento si veda anche, M. Barzi, La città è di sinistra e la campagna è di destra?, Millennio Urbano, 8 marzo 2013.

«La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato elimina dal Testo Unico per l’edilizia un articolo-cardine della legge n.10/1977 (Bucalossi). Da quel momento i Comuni sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente. Una follia». Left, 20 dicembre 2014

Il governo Renzi annuncia lo stop al consumo di suolo, ma con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità va in direzione opposta. I Comuni continueranno a usare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”. A danno dell’ambiente, del paesaggio e dei servizi. Impermeabilizzato il 7,3 % di suolo italiano. Napoli il Comune con più cemento e asfalto. Poi Milano. Lombardia e Veneto le regioni più impermeabilizzate. Restano per questo in superficie in tutta Italia 270 milioni di tonnellate di acqua piovana all’anno.

Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità. Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la legge di stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti. Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa con la legge di stabilità.

La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato, a sei giorni dalla sua uscita di scena per far posto al nuovo governo Berlusconi, elimina dal Testo Unico per l’edilizia su proposta del ministro per la Funzione pubblica, Franco Bassanini (una lunga milizia a sinistra, prima nel Psi , poi nella Sinistra indipendente, nominato nel 2008 da Giulio Tremonti presidente della potente Cassa depositi e prestiti) un articolo-cardine, il n.12, della legge sui suoli n.10/1977 voluta dal repubblicano Pietro Bucalossi. Esso prescriveva che «i proventi delle concessioni e della sanzioni» dovevano essere versati in un conto corrente vincolato, per essere «destinati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, nonché all’acquisizione delle aree da espropriare per la realizzazione dei programmi pluriennali».
Tutto cancellato. Da quel momento i Comuni - ai quali il governo centrale trasferisce sempre meno soldi - sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente.
Una follia perché in tal modo i piani urbanistici vengono stravolti con cento varianti, pur di far correre l’edilizia che, non a caso, galoppa dal 2001 al 2008, sino alla gelata della recessione mondiale. A danno ovviamente dell’ambiente urbano e del paesaggio, a danno dei servizi primari e secondari da fornire ai cittadini. Nel primo caso strade, fogne, luce, gas, illuminazione pubblica, aree a verde, parcheggi, ecc. Nel secondo, asili, scuole materne e poi di ogni livello, consultori, chiese, verde attrezzato di quartiere e altro ancora.
Di più: quel denaro fresco che entra nella casse comunali col pagamento delle concessioni edilizie ha un effetto positivo effimero. Non nel medio e lungo periodo: fatti i dovuti investimenti nei servizi, al Comune, e quindi, alla lunga, ai suoi abitanti quel vorticare di concessioni edilizie tornerà in fronte come un boomerang. Con l’aggravante di ritrovarsi un territorio e un paesaggio degradato dall’abbinamento cemento+asfalto. Quel boom dei primi otto anni del nuovo secolo ha almeno sanato la “fame di case” a prezzo o a fitto equo, medio-basso? Neanche per sogno: si trattava di condominii, di ville e villette “di mercato”. Molte erano seconde e terze case destinate a sfasciare definitivamente territorio e paesaggio. Quindi la domanda di case economiche o sociali - per giovani coppie, per famiglie immigrate, ecc. - non ha ricevuto da questo boom edilizio risposte di sorta. Così si è creato un enorme stock di alloggi e di uffici vuoti, invenduti, sfitti, in tutte le città italiane, a fronte del quale fioccano le occupazioni di case, popolari e non.
Non c’erano mezzi legali per frenare, per ridurre questa folle corsa? C’era il Codice per il paesaggio che prescrive, da anni ormai, ad ogni Regione di co-pianificare col Ministero dei Beni culturali e di approvare poi quel piano paesaggistico in grado di obbligare gli italiani alla virtù e alla saggezza. Sì, ma soltanto una regione per ora, la Toscana, per merito della giunta presieduta da Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, ha redatto e approvato, fra polemiche roventi di cavatori, immobiliaristi, costruttori, speculatori vari, il piano paesaggistico e con esso la nuova legge urbanistica. E le altre? Più ombre che luci, a volte buio pesto. La fresca legge lombarda forse riuscirà a peggiorare le cose.
Malgrado la crisi, anche nell’ultimo triennio, secondo i dati dell’Ispra, il consumo di suolo ha galoppato follemente. Eppure la superficie agricola italiana si era già ridotta nel quarantennio 1971-2011 del 28 %, circa 5 milioni di ettari in meno, una superficie pari a Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna sommate insieme. Mentre l’abbandono ormai cronico della montagna fa precipitare a valle acqua, tronchi, fango, terra in quantità inusitate durante le piogge battenti di ogni stagione ormai. In pianura questa fiumana violenta trova terreni già allagati perché resi “impermeabili” da asfalto e cemento per superfici immense e che quindi non assorbono più una massa d’acqua enorme: 270 milioni di tonnellate all’anno. Milano è, dopo Napoli, il Comune più impermeabilizzato con oltre il 60 % della superficie seguito a ruota col 48 % da Monza. Acqua di sopra e acqua di sotto: la falda sotterranea è risalita rapidamente con la chiusura dei complessi siderurgici e tessili. Per cui Seveso, Lambro e altri corsi d’acqua straripano sempre più spesso.
Ultima beffa. Meno soldi da Roma? Si “fa cassa” con gli oneri di urbanizzazione (fra dieci anni qualcuno pagherà) e si alzano le tasse comunali. Dal 1997, cioè dalla prima legge Bassanini sul federalismo amministrativo, esse sono state inasprite del 200 %, contro il 35-36 % di quelle statali. Se questo è il federalismo, torniamo ad un regionalismo, equilibrato e “controllato”. L’“autocorrezione” dei vari enti ha prodotto in realtà un’“autocorruzione” diffusa, inquinante, insostenibile.

Approvata la legge lombarda che favorisce il consumo di suolo, ben riassunta dalla dichiarazione del rappresentante di Forza Italia che abbiamo usato tra virgolette come titolo. Articoli da la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 21 novembre 2014


la Repubblica Milano

CEMENTO LIBERO SI POTRÀ EDIFICARE
UNA SUPERFICIEIL TRIPLO DI MILANO

di Andrea Montanari

Una colata di cemento grande tre volte la superficie di Milano. Pari a ben oltre mezzo miliardo di metri quadrati di territorio lombardi attualmente non edificati dove nei prossimi due anni e mezzo si potrà costruire. Questo l’effetto più immediato della nuova legge sul consumo del suolo approvata l’altra notte in Consiglio regionale con i soli voti della maggioranza di centrodestra che governa la Regione. Per rendersene conto, basta incrociare i dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale con quelli sul potenziale consumo di suolo per i prossimi anni, in base ai Pgt, ovvero i piani del governo del territorio già approvati dai comuni lombardi. Di cui 1126 su 1544 sono già stati ufficialmente comunicati. Il totale delle aree di potenziale trasformazione previsto è già approvato ammonta a 414.193.400 metri quadrati. Un dato che sale a circa 550.000.000 metri quadrati con la proiezione sul totale dei comuni lombardi. E visto che la superficie totale di Milano è di 182.000.000 mq i conti sono presto fatti. Nonostante la Lombardia sia già una delle regioni più urbanizzate e cementificate d’Europa, dove negli ultimi anni il suolo è stato consumato al ritmo di 140mila metri quadrati al giorno. L’equivalente di venti campi di calcio.

La nuova legge prevede che per trenta mesi, inizialmente dovevano essere 36, tutto resterà come prima. Nel senso che i progetti in essere che rientrano nei Pgt approvati potranno essere confermati da sindaci e costruttori entro due anni e mezzo.

Il testo uscito dall’aula del Pirellone è stato effettivamente parzialmente modificato, ma non è detto che l’effetto finale sarà quello di evitare nuovo consumo del suolo. Non è affatto vero che da oggi non si potrà più costruire su aree agricole. Molti terreni coltivati infatti secondo gli attuali Pgt sono aree trasformabili. Il che significa che entro 30 mesi una quota di queste aree potrebbe andare persa. È vero che la nuova legge prevede sa subito uno stop alle varianti, ma c’è una scappatoia. Basterà che i comuni utilizzino lo strumento del Piano integrato di Intervento, cioè dimostrino un interesse pubblico, per esempio una strada o una pista ciclabile.

L’aumento fino al 30 per cento degli oneri di urbanizzazione per le edificazione su suoli liberi, ad esempio — sostiene Legambiente — rischia di essere un blando disincentivo per i privati, troppo modesto per essere efficace. Considerata la scarsa incidenza di questo contributo sul costo finale dell’edificio. Per paradosso, invece, potrebbe addirittura diventare «uno stimolatore di appetiti per le finanze esigue di molti comuni, che confidano di tornare a far cassa sulla svendita del territorio». Il periodo transitorio ridotto a trenta mesi non sembra dare ulteriori garanzie. Sia perché la legge non esclude la possibilità di proroghe, ma soprattutto perché le nuove norme non impediscono ai comuni di confermare le precedenti previsioni di ampliamento contenute nei Pgt, anche oltre la decorrenza del termine. Per non parlare del fatto che la nuova legge non prevede controlli o sanzioni.

I dati sul consumo del suolo in Lombardia elaborati da Legambiente e dal Centro di Ricerca sui consumi di suolo mostrano una situazione allarmante. Dal 1999 al 2007 sono stati urbanizzati 34.163 ettari e si sono persi in maniera definitiva 43.275 ettari su superfici agricole. Mentre in meno di dieci anni le aree antropizzate sono passate dal 12,6 per cento al 14.

Ambientalisti divisi, opposizione compatta: “Favoriti i costruttori”

Per Roberto Maroni e per l’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi «è una svolta epocale», ma per il coordinatore del centrosinistra in Regione Umberto Ambrosoli resta «una legge pessima. Abbiamo votato contro perché in Lombardia per l’ambiente si e si deve fare di più».

Anche dopo il via libera del Consiglio regionale la nuova legge sul consumo del suolo continua a dividere. Non solo il mondo politico, visto che le nuove norme sono state approvate con i soli voti della maggioranza di centrodestra, ma anche quello ambientalista che definisce «ammazzasuolo » le nuove norme. «In Lombardia si continuerà a spalmare cemento sui suoli agricoli» attacca il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. Si spacca anche il Wwf. La delegata Paola Brambilla esprime «grande apprezzamento » e parla di «risultato importante che dovrebbe ora sti- il governo». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd Enrico Brambilla che osserva: «La maggioranza si è approvata la sua legge. Nessuno si do- vrà stupire se nei prossimi anni il consumo del suolo aumenterà ». L’assessore Beccalossi fa notare «che i miglioramenti apportati al testo sono utili, anmolare che grazie all’accoglimento di emendamenti importanti dell’opposizione », Il Movimento Cinque Stelle denuncia insulti e aggressioni in aula. Pare che dai banchi del centrodestra sia volata addirittura una bestemmia. I grillini chiamano in causa il presidente del Consiglio regionale ciellino Raffaele Cattaneo per non essere intervenuto.

Gianmarco Corbetta dell’M5S ribadisce il giudizio «negativo su una legge sbagliata». Per contro Stefano Bruno Galli della lista Maroni invita «i Cinque Stelle ad avere rispetto per le istituzioni». Un clima aspro e teso che anche mercoledì notte ha addirittura rischiato ad un certo punto di far slittare il voto finale a ieri. Il ciellino Luga Del Gobbo prova a gettare acqua sul fuoco. Ricordando che alla fine le opposizioni «hanno deciso di confrontarsi su contenuti abbandonando la strada dell’ostruzionismo». Fabio Altitonante di Forza Italia ammette che le nuove norme non scontenteranno la categoria dei costruttori. «Conosciamo bene l’importanza del settore, che in Lombardia occupa quasi 300mila persone, per un valore superiore a venti miliardi di euro l’anno. Con questa legge daremo più agevolazioni e incentivi, favorendo i progetti di recupero e riqualificazione».

Corriere della Sera Milano
NUOVA LEGGE:
DIVISI SUL NO AL CEMENTO

di Laura Guardini, Paolo Marelli


MILANO - Come a Cassinetta di Lugagnano — «apripista» nel 2007 — Solza, Ronco Briantino, Ardesio, Ozzero, Pregnana Milanese e altri ancora tra i 1.531 comuni lombardi che hanno già scelto il «consumo di suolo zero»: questa è la prospettiva che il territorio regionale può vedersi aperta, fra 30 mesi, dalla nuova legge approvata l’altra notte dal consiglio regionale, con 41 voti della maggioranza e 27 «no» di Pd, M5S e Patto Civico.

Sei sono i punti cardine della nuova normativa: da subito sono impossibili varianti su suoli con destinazione agricola; sono previsti incentivi per il recupero di aree ed edifici dismessi; scende da 3 anni a due e mezzo il tempo utile per realizzare i progetti di nuove costruzioni su aree ex agricole divenute edificabili: in Lombardia si tratta di 600 milioni di metri quadrati. E ancora: le infrastrutture sovracomunali (autostrade e ferrovie) rientrano nel computo del suolo «mangiato»; la soglia del consumo dovrà basarsi sulle indicazioni Istat relative all’aumento della popolazione. Infine, la legge prevede disincentivi, con un balzello del 5% a carico dei costruttori che intendono edificare «dentro il tessuto urbano» e un aumento degli oneri di urbanizzazione da un minimo del 20 a un massimo del 30% al di fuori dei centri abitati.

Dopo nove mesi di veti incrociati, litigi e modifiche in corso d’opera, è così finalmente arrivata al traguardo la nuova normativa che manda in pensione quella del 2005. Una vittoria del cemento secondo alcuni, del verde secondo altri: nello stesso mondo ambientalista le due maggiori organizzazioni, Wwf e Legambiente, esprimono parere opposti.

Paola Brambilla, presidente regionale del Wwf, esulta e parla di «un risultato importante che ora dovrebbe stimolare il governo all’emanazione di una legge che riconosca il valore ecologico del suolo»: si tratta di considerare la terra come bene comune, come «casa di tutti gli habitat naturali». È invece una bocciatura quella espressa da Damiano Di Simine, numero uno di Legambiente Lombardia: «Il futuro non sono le lottizzazioni, ma le ristrutturazi0ni dei vecchi edifici. Dopotutto il mercato immobiliare è da tempo senza domanda: c’è chi costruisce, ma non c’è chi compra. Tanto che nella nostra regione ci sono 1,4 milioni di vani vuoti, a cui si sommano centinaia di capannoni e uffici non utilizzati».

Su questo stesso tema, che cavalca da anni, torna anche Coldiretti, ricordando che sono ben più di 4 mila i chilometri quadrati (una superficie equivalente alle province di Cremona e Mantova) sottratti dal cemento all’agricoltura tra il 1990 ed oggi: «Finalmente l’argomento è stato affrontato — dice il presidente regionale Ettore Prandini —. Meglio sarebbe se lo stop alle costruzioni fosse immediato. Ma durante la finestra dei 30 mesi di edificazione possibile, probabilmente sarà ancora la crisi a fare da calmiere e a frenare il cemento. Per questo noi auspichiamo che almeno una parte di quei 600 milioni di metri quadrati tornino all’originaria destinazione agricola».

Il presidente Roberto Maroni e la maggioranza sottolineano che «si tratta di una svolta epocale, resa possibile con un provvedimento coraggioso e fortemente voluto». L’assessore al Territorio, Viviana Beccalossi, ricorda« le misure di incentivazione per gli interventi di recupero e ristrutturazione del costruito e la valorizzazione dei terreni dismessi».

«Questa è una brutta legge, il suolo lombardo aveva bisogno di ben altro. Abbiamo cercato di ridurre il danno e in parte ci siamo riusciti», dicono invece i capigruppo di Pd e Patto Civico, Enrico Brambilla e Lucia Castellano. Negativo anche il giudizio dei Cinque stelle: «È una legge sbagliata — sottolinea Gianmarco Corbetta — che favorirà comunque il consumo di suolo». Via libera invece all’unanimità del consiglio regionale all’istituzione della «Banca della terra lombarda», che punta a «mantenere e incrementare la produttività agricola e a favorire il ricambio generazionale, affidando ai giovani e alle donne le terre demaniali abbandonate».

L'esempio della legge urbanistica della Toscana: la prima legge urbanistica regionale che azzera il consumo di suola. Intervento al convegno Stop al consumo del territorio, Cassinetta di lugagnano, 15 novembre 2014, in calce il link alla locandina


1. Finalmente una bella notizia

Finalmente una bella notizia: la Regione Toscana ha approvato una straordinaria legge di riforma urbanistica, efficace e immediatamente operativa, che mette in mora Governo e Parlamento, e conquista di prepotenza il centro del dibattito. Ci dà forza, e mette a nudo l’ipocrisia di quanti continuano a dichiarare di condividere l’obiettivo di contenerere il consumo del suolo con la stesso atteggiamento che nell’ultimo quarto di secolo è stato assunto a proposito della sostenibilità ambientale. Proclamandone universalmente e solennemente l’importanza, ma in pratica quasi sempre relegandola a una stanca, inconcludente retorica.

Mi riferisco al fatto che si continua a parlare di contenere il consumo del suolo, un obiettivo così vago e generico che va bene a tutti (anche a Lupi). Occore invece non contenere, ma bloccare, subito, il consumo del suolo. I dati sono ormai abbastanza noti, ricordo solo che in circa 60 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre la popolazione italiana è cresciuta, più o meno, del 20%, il consumo del suolo è cresciuto piu o meno del 1.000%. Non dobbiamo perdere altro tempo, dobbiamo pretendere risultati immediati ed efficaci.

2. Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero

È bene preliminarmente chiarire che Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero. Un equivoco che ogni tanto ritorna. Nessuno può ragionevolmente sostenere che si debba subito e dovunque fermare l’attività costruttiva (lo propone soltanto una componente estremistica dell’ambientalismo). Ci sono sacche di bisogni: abitativo, di servizi (compreso il verde pubblico), e di altro che impongono urgenti interventi. Il punto è che il soddisfacimento dei bisogni non obbliga affatto a continuare con la tradizionale edificazione nello spazio aperto, ma deve corrispondere a nuove modalità operative (e concettuali): recupero, riconversione, rifacimento, rigenerazione, riutilizzo, ripristino, riqualificazione, ristrutturazione, restauro urbanistico: sono decine i sinonimi, e a ciascuno di essi corrisponde una diversa e, di fatto, inedita politica del territorio.
3. Due piccioni con una fava
Si tenga conto, tra l’altro, che operando dentro lo spazio urbanizzato, con le modalità appena dette, si possono raccogliere due risultati, due piccioni con una fava:
a) soddisfare i bisogni pregressi per i quali è stato disposto l’intervento
b) attivare processi di riqualificazione urbana che, per mancanza di risorse, sarebbe impossibile promuovere diversamente.

Lo stop al consumo del suolo è un cambiamento di carattere epocale. È vero che la rendita continuerà ad esistere anche dentro al perimetro urbanizzato, ma la sua dimensione – in senso spaziale e finanziario – sarà comunque ridotta, disarticolata, frammentata, formata da una pluralità di soggetti, non più concentrata in monopoli-oligopoli potentissimi che controllano la stampa, la televisione, l’amministrazione e la politica.

Tutto ciò significa anche un cambiamento del modo di fare urbanistica, un mestiere in larga misura da reinventare, anche da un punto di vista tecnico e professionale: una serie di parametri (per esempio altezza e densità) che abbiamo tradizionalmente utilizzato come limiti massimi, dobbiamo imparare a usarli anche come minimi.

4. È finita un'era


Ma non tutti hanno capito che finisce un’era. E che al riguardo ci sia grande confusione lo si vede dai disegni di legge in discussione al Parlamento, sono ben 16: 11 alla Camera e 5 al Senato, per iniziativa sia del Governo che di tutte le forze politiche.
Sono testi talvolta molto complicati, qualche volta bizzarri, qualcuno addirittura controproducente. Personalmente sono scettico sul loro esito perché sono quasi tutti riferiti alla materia “governo del territorio” e quindi al comma 3 dell'art. 117 della Costituzione, comma che, come sapete, riguarda le materie oggetto di legislazione concorrente, quelle cioè per le quali la potestà legislativa spetta alle Regioni, mentre allo Stato compete soltanto la determinazione dei principi fondamentali (cosiddetta legge cornice). Il che comporta la seguente inevitabile procedura:
a) approvazione della legge cornice (contenente i principi fondamentali) da parte del Parlamento nazionale
b) in attuazione della legge cornice, le Regioni approvano la legge ordinaria
c) finalmente i Comuni possono adeguare i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni della legge regionale e quindi ai principi fondamentali della legge statale.

Stime ragionevoli prevedono 15-20 anni prima che un siffatto percorso legislativo produca risultati effettivi. Per non dire della Campania o del Lazio, Regioni fra quelle che peggio governano il proprio territorio, i cui tempi saranno ancora più lunghi, e provvedimenti di tutela si avranno quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto di una repellente crosta di cemento e di asfalto (Antonio Cederna).

5. L'alternativa vincente

In alternativa, se si vuole davvero realizzare, presto e bene, l’obiettivo dello stop al consumo del suolo si deve abbandonare la materia governo del territorio (e quindi il comma 3 dell’art. 117), per far capo al comma 2 dell’art. 117 della Costituzione, cioè al comma che riguarda le materie di esclusiva competenza dello Stato (grazie alle quali, cioè, lo Stato può dettare immediatamente comandi ai Comuni). Potremmo ricorrere, per esempio, alla materia tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali – lettera s) del secondo comma dell’art. 117 –, e in tal modo si può formare e approvare una semplicissima ed efficacissima legge ordinaria come quella che trovate sul sito eddyburg, che tutti conoscete:

6. La riforma urbanistica della Toscana

Tralascio l’illustrazione delle proposte all’esame del Parlamento, per fermarmi finalmente sulla legge di riforma urbanistica dalla Regione Toscana, approvata nei giorni scorsi, da mercoledì 12 novembre sul Bollettino ufficiale della Regione, legge dovuta soprattutto all’impegno di Anna Marson e del presidente Enrico Rossi.
Un testo molto complesso che affronta tutti gli aspetti del governo del territorio, ben 256 articoli che vanno dalla partecipazione al monitoraggio, all’inserimento della politica abitativa fra gli standard urbanistici, a un grande impegno nella prevenzione dei rischi sismici, idrogeologici. Impossibile qui soffermarsi su aspetti particolari, riprendo solo le prescrizioni che inibiscono ogni ulteriore consumo del suolo.
La formulazione è giuridicamente molto semplice, la legge impone a ciascun Comune della Toscana di distinguere nel proprio territorio due parti:
a) la parte urbanizzata
b) la parte non urbanizzata.

E impone che le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi, vanno tutte costruite dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro urbanizzato la legge dichiara esplicitamente che non si può realizzare edilizia residenziale. Insomma, in Toscana mai più si potranno fare case in campagna. È proibito per legge. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure, che tra l’altro prevedono, per ogni intervento, il potere di veto della Regione.

Il presidente della giunta regionale Toscana, Enrico Rossi, quando fu presentato il disegno di legge dichiarò: "Finisce la stagione degli ecomostri e delle villette a schiere in Toscana" (allude al noto scandalo di Monticchiello, denunciato da Alberto Asor Rosa nel 2006).


7. Due cose da fare
La Toscana, l’ho detto prima, ha messo in mora Governo e Parlamento e questa circostanza va sfruttata fino in fondo. Soprattutto chiedendo al Governo due cose importantissime:
a) di fare ricorso a un decreto legge (stavolta con il nostro pieno consenso) riprendendo il testo eddyburg, notoriamente ispirato agli stessi principi della legge toscana
b) di cestinare la controriforma Lupi presentata nei mesi scorsi, che è esattamente agli antipodi rispetto alla legge toscana, come ha subito e puntualmente denunciata eddyburg, che ha anche raccolto centinaia di firme contro.

8. Chi è Maurizio Lupi

Per l’illustrazione della sciagurata proposta Lupi rimando a eddyburg. Qui vorrei solo raccontarvi sinteticamente chi è Maurizio Lupi, un avversario che deve essere meglio conosciuto e al quale bisogna riconoscere una devastante coerenza di pensiero espressa soprattutto nella negazione della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato. In altre parole, secondo Lupi, alla proprietà fondiaria vanno riconosciuti gli stessi diritti dei pubblici poteri. Ecco il suo curriculum:

a) giugno 2000 – Lupi assessore all’urbanistica del comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini) – propone un importante documento, Ricostruire la grande Milano, dovuto, tra gli altri, all’urbanista Gigi Mazza. Documento che ribalta la logica e il diritto prevedendo che i progetti pubblici e privati di trasformazione urbanistica non debbano uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, dev’essere il piano che si adegua ai progetti approvati. Insomma, il piano regolatore come un catasto sul quale si registrano i progetti edilizi una volta approvati. Sembra la Napoli di Achille Lauro, quando si diceva che il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. Da allora l’urbanistica milanese ha dettato legge nel resto d’Italia, a Roma soprattutto.

b) Lupi (intanto deputato di Forza Italia) conferma la propria avversione all’urbanistica pubblica nel 2005, quando la Camera dei deputati (con 32 voti favorevoli del centro-sinistra) approva un suo progetto di legge che estende a tutta l’Italia il modello milanese, tra l’altro abrogando gli standard urbanistici e la legge del 1942. Nel sostanziale silenzio della stampa e della cultura urbanistica ufficiale, con il consenso dell’INU. Soltanto eddyburg, allora come oggi, mobilitò il mondo ambientalista, pubblicando anche un pamphlet. All’inizio del 2006, quando la proposta stava per essere definitivamente approvata, grazie al senatore verde Sauro Turroni i senatori di Alleanza Nazionale si opposero alla proposta difendendo la legge urbanistica approvata negli anni del fascismo.

c) 2014: secondo disegno di legge urbanistica di Maurizio Lupi (stavolta autorevole esponente del Nuovo Centrodestra, ministro delle Infrastrutture del Governo Renzi).

Il programma delle due giornate di convegno

Lettera appello della presidente onoraria Fondo Ambiente Italia al presidente della Lombardia, contro il disegno di legge per “arginare il consumo di suolo” che ne aumenterà il consumo. Corriere della Sera Milano, 10 novembre 2014

Gentile Presidente Maroni, sono sicura che Lei e la Sua giunta non vorrete passare alla storia come coloro che non hanno mosso un dito per salvaguardare quanto resta dei paesaggi agricoli della pianura lombarda, tra le più fertili d’Europa, ambita perfino dall’Impero austro-ungarico. La legge che la Sua giunta sta per approvare, pur intitolata alla riduzione del consumo di suolo e alla riqualificazione di quello degradato, non contiene alcuna disposizione che vada in direzione della salvaguardia del territorio agricolo. Le buone intenzioni sono tutte rimandate al futuro cioè a tre anni. Ripeto: Vi apprestate a varare i vincoli all’edificazione dei terreni agricoli che scatteranno infatti solo tra tre anni. Nel frattempo sarà data via libera all’espansione prevista dai Piani di governo territoriale che minacciano seicento chilometri quadrati di aree agricole: più di tre volte la città di Milano!!

Ad approfittarne saranno solo i costruttori, in una corsa al consumo di suolo fatale per la Lombardia, già compromessa come nessun’altra regione d’Italia, anche se in Lombardia vi sono tuttora 170.000 vani sfitti (dato ufficiale 2013). Questa gigantesca perdita di suolo ci espone alle tragedie del dissesto idrogeologico, con la conseguente scomparsa dei fontanili, colate di cemento, sempre più asfalto e strade, discariche anche di sostanze tossiche, e ulteriori attentati alla biodiversità, oltre allo scempio di un paesaggio sempre più degradato e sempre più lontano dalla propria storia e dall’identità regionale, tema che sappiamo quanto le stia a cuore. Invece i paesaggi agricoli possono rappresentare risorse concrete per uno sviluppo sostenibile. I prodotti della filiera corta (locali e freschi) sono ormai i più ambiti sulle nostre tavole e possono rappresentare una risorsa concreta per favorire l’occupazione e l’economia dell’indotto, oltre che per proteggere la salute dei cittadini. Expo rilancerà da Milano nel mondo il tema «nutrire il pianeta», ma come si concilia questa iniziativa con il drastico consumo dei suoli agricoli che l’Italia rinuncia a salvaguardare proprio a partire dalla regione Lombardia? Perché non si incentiva la rigenerazione delle troppe aree postindustriali che circondano Milano?

Queste se trasformate possono diventare risorse per il rilancio dell’economia, per la ripresa dell’occupazione e per favorire un nuovo orientamento del settore immobiliare, oggi fortemente in crisi. Egregio Presidente, faccio appello alla Sua responsabilità, pubblica e personale, pregandola di non consentire l’approvazione di queste disposizioni. Altrimenti i cittadini dovranno accusare Lei e la Sua giunta di aver consentito la cementificazione della Lombardia. Con deferenti saluti carichi di fiduciosa speranza.

Dal presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Lombardia, ennesima e significativa netta stroncatura del disegno di legge regionale, cortina fumogena per il business as usual. La Repubblica Milano, 6 novembre 2014, postilla (f.b.)

La proposta di legge regionale per la riduzione del consumo di suolo che si avvia alla discussione in Consiglio dichiara nelle finalità di voler arginare l’ininterrotta perdita di suoli produttivi agricoli e la cementificazione che nel recente passato hanno visto purtroppo la Lombardia al primo posto nelle statistiche nazionali. Tuttavia il passaggio dalla prima stesura del progetto di legge a quella attuale, assai differenti, finisce per dare importanza preponderante alla tutela degli interessi immobiliari rispetto all’urgenza di limitare l’erosione di risorse non rinnovabili che, ricordiamo, vanno a scapito in primo luogo della produzione agricola lombarda, che rappresenta una quota significativa del prodotto nazionale del settore.

In sintesi, i punti più critici della proposta di legge sono i seguenti: si considerano da tutelare le sole aree perimetrate come agricole dai Pgt e non quelle agricole di fatto (né quelle naturali); manca una politica concreta di sostegno ai processi di rigenerazione urbana, vera alternativa allo spreco di suolo agricolo; non vi è nessuna proposta di applicazione della fiscalità locale come leva per disincentivare l’urbanizzazione dei suoli agricoli (essendo irrisoria la sola prescrizione di una maggiorazione del 5% del contributo di costruzione); si ratificano e confermano tutte le previsioni dei Pgt approvati fissando un limite di tre anni per presentare piani attuativi delle aree di espansione (che complessivamente nella regione assommano a quasi 600 chilometri quadrati); le grandi infrastrutture e opere pubbliche sono escluse da ogni bilancio, come se esse non erodessero suolo libero.

Ne risulta un insieme preoccupante che non solo rinvia il rinnovamento delle procedure a un nuovo ciclo di strumenti urbanistici, ma soprattutto favorisce nei fatti un’accelerazione dei progetti nel triennio di moratoria, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato, ovvero una più veloce progressione del consumo di suolo.

Una compromissione che nella realtà si fermerà in molti casi sulla carta perché le previsioni insediative non sono sorrette da una domanda reale, ma sottrarrà comunque terre ai programmi agricoli e avrà effetti perversi per gli stessi operatori immobiliari. È indispensabile quindi riprendere le fila di un provvedimento utile e necessario, per «rimetterlo in carreggiata» e rendere concreto l’impegno della Regione Lombardia a contrastare il consumo di suolo.

La via, in parte già tracciata nella prima stesura del testo di legge, corrisponde alle tendenze che si affermano nel quadro europeo e che possono aiutare anche il settore immobiliare a un riorientamento necessario per la sua stessa ripresa: si tratta di agire con misure fiscali consistenti che rendano svantaggioso costruire su aree libere, di stabilire meccanismi compensativi per sostenere la concentrazione dell’edificazione sulle aree interne da rigenerare, di porre limiti stringenti al consumo di suolo e tutelare le aree produttive agricole (nell’anno di Expo).

postilla
Forse non c'è nulla di meglio, di questa stroncatura neutra e necessariamente blanda, non politicamente schierata, per chiarire sino a che punto il disegno di legge “contro il consumo di suolo” abbia finito per scontrarsi con la natura stessa dell'attuale ceto politico padano e degli interessi che rappresenta: se non si urbanizza che le abbiamo fatte a fare tutte le nostre autostrade e compagnia bella? Dove va a finire il primato economico vero o presunto della regione, il luminoso futuro dello sviluppo infinito dei metri quadri di inutile terreno convertiti in solido valore finanziario? Perché questo è il punto: nella mente della classe dirigente non esiste, una situazione in cui tutto non giri attorno al medesimo nucleo centrale, rappresentato appunto dalla mobile frontiera dell'urbanizzazione, dallo svuotare di qui per riempire di là eccetera eccetera. E la domanda è: moralizzazioni a parte, razionalizzazioni a parte, si è in grado di esprimere qualsivoglia modello alternativo, oppure no? (f.b.)

Come contrastare il consumo di suolo? Lasciando invariato quanto previsto dai piani, rinviando ogni valutazione di tre anni. Una proposta di legge della Giunta lombarda, guidata dalla Lega Nord. Ciascuno ama la sua terra a modo suo. (m.b.)

E' ripresa in questi giorni la discussione nella Commissione Territorio della Regione Lombardia sulla proposta di legge dal ridondante titolo "Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato". La proposta presentata dalla maggioranza lombarda di centrodestra getta più ombre che luci su di un tema, quello della lotta al consumo di suolo, che rischia di diventare solo uno slogan, privo di contenuti concreti, da sbandierare per una Giunta verde sempre più in difficoltà.
Le percentuali di consumo di suolo in Lombardia sono allarmanti da tempo, come più volte denunciato dalle associazioni ambientaliste e dalle numerose ricerche accademiche realizzate negli anni. Gli ultimi dati, elaborati direttamente dalla Direzione urbanistica e territorio di Regione Lombardia, ottenuti dall'analisi dei Piani di Governo del Territorio approvati dai Comuni lombardi al 31/12/2013, ci dicono che le previsioni di espansione superano i 400 milioni di mq: ci sarebbero cioè, sulla carta, due città di Milano da costruire. Sarebbe stato lecito aspettarsi che un'iniziativa legislativa regionale per arginare il consumo di suolo partisse dalla gestione di questi surreali residui di piano. E invece no.
L'attuale maggioranza lombarda, che si regge su un asse Lega-PDL-NCD-Fratelli d'Italia sempre più debole, è da oltre un anno che annuncia l'intenzione di riformare in modo strutturale l'attuale legge urbanistica, la 12/2005, che dalla sua emanazione è stata oggetto di innumerevoli modifiche e integrazioni. Una legge urbanistica, quella lombarda, nata già vecchia e tutta improntata alla via liberista del 'ci pensa il privato', già sperimentata da un Maurizio Lupi assessore all'urbanistica di Milano nell'era Albertini, che non solo si è rivelata drammaticamente inadeguata a guidare i processi di trasformazione in atto ma non è stata neppure in grado di contenere le ultime fasi immobiliari espansive, di carattere strettamente speculativo, che hanno compromesso molti territori che ancora potevano vantare un valore paesaggistico.

Purtroppo la debolezza politica della Giunta di Maroni non ha consentito un approfondito dibattito intorno ad una seria riforma urbanistica e l'unica proposta concreta offerta alla discussione del Consiglio sarà un atto debole, pieno di rimandi a provvedimenti successivi, con un approccio settario, parziale e unicamente quantitativo che, se tutto va bene, entrerà in vigore non prima di tre anni.
Un atto, peraltro, annunciato dall'assessore al territorio, Viviana Beccalossi, solo a seguito delle preoccupanti esondazioni che hanno interessato il Nord Milano all'inizio di questo autunno (riguardanti in particolare il Seveso), che hanno fatto parlare, straordinariamente in prima serata, in un talk show televisivo di un'emittente nazionale, delle "terribili conseguenze del consumo di suolo" e della "cementificazione incontrollata" in Lombardia.
Per far fronte ai reali problemi relativi al governo del territorio, anche in Lombardia serve un cambio di rotta drastico e deciso che questo provvedimento non sembra in grado di dare. Le principali criticità si possono rilevare già dall'impianto generale della norma: per contrastare il fenomeno del consumo di suolo serve un approccio integrato di policies urbane e territoriali, di natura spaziale ma anche fiscale (si veda l'esperienza tedesca dei 30 ettari/giorno, illustrata su eddyburg da Georg Frisch); inoltre un approccio di natura esclusivamente quantitativa rischia di generare trattative infinite tra livelli istituzionali e tra Comuni, incentivando dinamiche concorrenziali poco proficue. Infine, anche alla luce delle previsioni urbanistiche prodotte dai PGT comunali, dovrebbe essere chiaro che il consumo di suolo può essere efficacemente affrontato solo a scala territoriale: in un contesto amministrativo estremamente frammentato come quello lombardo (composto da 1546 Comuni) in cui le maggiori competenze urbanistiche sono in capo ai singoli PGT, ognuno elabora le proprie previsioni in modo indipendente e spesso dissociato rispetto ai confinanti (figuriamoci se dovessero subentrare logiche concorrenziali!); in questo modo la frammentazione diventa anche territoriale. Da qui risulta evidente come il tema del limite al consumo di suolo debba essere affrontato ad una scala sovralocale per poter davvero interagire con gli assetti infrastrutturali, insediativi e ambientali e poter razionalizzare scelte localizzative di rilevanza territoriale.

Invece la proposta di legge attribuisce ancora una volta un'ampia discrezionalità all'ente comunale. Sono i singoli Comuni che dovrebbero definire la propria superficie agricola, la superficie urbanizzata e urbanizzabile, la soglia di consumo di suolo. Sono i singoli Comuni che dovrebbero determinare criteri di incentivazione per il recupero del patrimonio edilizio esistente, in quanto la proposta chiarisce che le misure di incentivazione dovranno essere "senza ulteriori oneri a carico del bilancio regionale". Ma in tempi di profonda crisi dei bilanci comunali, sui quali la norma statale ha concesso ancora una volta (per l'anno 2014) la possibilità di utilizzare una quota degli oneri di urbanizzazione per finanziare le spese correnti, quali risorse possono realisticamente mettere in campo le singole municipalità? E ancora, secondo questa proposta, tutti i piani attuativi conformi o in variante al PGT (quindi teoricamente tutti i 400 milioni di mq previsti, ma anche altri!) potrebbero essere presentati entro 36 mesi dall'entrata in vigore della legge, con tanto di agevolazioni fiscali sulle relative cessioni gratuite e monetizzazioni a favore degli operatori. I piani presentati oltre tale termine sarebbero invece oggetto di valutazione da parte dell'amministrazione comunale, che potrà richiedere modifiche e integrazioni al proponente. Ancora una volta prevale la più assoluta discrezionalità, senza regole o criteri guida.
Infine una riflessione sui tempi di entrata in vigore di questa norma: la Regione si concederà un anno per adeguare il Piano Territoriale Regionale; Province e città metropolitana di Milano avranno, successivamente, un anno per uniformare gli strumenti urbanistici di competenza; i Comuni dovranno rendere coerenti i contenuti dei propri Piani in occasione della prima scadenza del documento di piano. Per tutti quei Comuni in cui la scadenza del documento di piano è prevista prima dell'adeguamento della pianificazione provinciale/metropolitana, lo stesso è prorogato di 12 mesi a far tempo dalle modifiche sovraordinate. Se tutto va bene a dicembre 2017 dovrebbe entrare in vigore questa norma. Non sarà troppo tardi?
La proposta di legge lombarda ha molti limiti e, se approvata così, non inciderà sui processi in atto e non sarà di alcun aiuto a quegli amministratori locali che vorrebbero avere strumenti più efficaci per governare il proprio territorio. IL testo è una lista di rimandi, priva di contenuti che non offre alcuno strumento innovativo per promuovere una nuova stagione di sviluppo urbanistico e territoriale
Ricorda, un po' malinconicamente, il Tancredi gattopardesco, "Cambiare tutto per non cambiare nulla": una legge nuova, con un titolo ambizioso, che non modifica nulla, tutto ciò che è già previsto si potrà realizzare, tra tre anni si vedrà....
Chissà che nel frattempo non sia cambiatO anche il colore della Giunta regionale lombarda e che si possa finalmente affrontare questo tema in modo coraggioso e innovativo.
Sullo stesso argomento, in eddyburg, vedi anche gli articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra su la Repubblica del 10 luglio e del 24 ottobre.

«Belpaese?. Il rapporto Svimez sullo spopolamento del Mezzogiorno e i dati Istat sull'abnorme quantità di case inutilizzate raccontano di un inarrestabile declino e di un modello sbagliato. Lo Sblocca Italia in realtà sblocca solo le speculazioni finanziarie e la cementificazione selvaggia». Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)

La let­tura com­pa­rata del rap­porto della Svi­mez sulle con­di­zioni del Mez­zo­giorno d’Italia e l’analisi dei primi dati di det­ta­glio Istat sulle abi­ta­zioni degli ita­liani svolta da Alberto Ziparo defi­ni­sce un qua­dro scon­vol­gente. Viene fuori un paese che versa in una crisi sem­pre più pre­oc­cu­pante che dovrebbe riem­pire l’agenda di qual­siasi governo degno di que­sto nome. Dice la Svi­mez che nel 2013 sono emi­grati ancora 116 mila lavo­ra­tori; che le fami­glie povere sono aumen­tate del 40%; che –ancora una volta– il numero dei decessi supera quello dei nati: un evi­dente segnale di un inar­re­sta­bile declino. Nella Cam­pa­nia del quarto con­dono edi­li­zio ci sono 65 mila appar­ta­menti vuoti. In Cala­bria ce ne sono 90 mila e dice sem­pre Ziparo in alcuni paesi dell’Appennino interno ci sono più case vuote che abi­tanti. Il deserto.

Il qua­dro si com­pleta in modo ancora più dram­ma­tico se si leg­gono le dina­mi­che dei valori immobiliari. A parte alcune città mag­giori e i pochi luo­ghi di turi­smo di qua­lità, dall’inizio della crisi del 2008 i valori delle case delle fami­glie sono dimi­nuiti nella misura com­presa tra il 30 e il 50%. Ci sono fami­glie che si sono inde­bi­tate per com­prare un allog­gio che oggi vale meno di quanto è stato pagato. Una popo­la­zione che diventa sem­pre più povera, senza lavoro e sem­pre più priva della rete del wel­fare, vede sva­nire anche il rispar­mio rap­pre­sen­tato dalla pro­pria abitazione.

Per com­ple­tare il qua­dro del declino del paese aggiun­giamo le due prin­ci­pali linee di azione con cui il governo Renzi intende dare ripo­sta a que­sta scon­vol­gente realtà. Al primo posto tro­viamo le poli­ti­che di pre­ca­riz­za­zione del lavoro dipen­dente del Jobs act. Dice la Svi­mez che gli inve­sti­menti pro­dut­tivi nel sud sono crol­lati del 53% e il dato va letto insieme alla deser­ti­fi­ca­zione umana. Chi mai inve­sti­rebbe nel sud se la mano­do­pera gio­vane emigra? Non c’entrano dun­que nulla i diritti dei lavo­ra­tori: occor­re­rebbe defi­nire poli­ti­che indu­striali soste­nute da risorse pub­bli­che per rea­liz­zare infra­strut­ture imma­te­riali e ser­vizi alle imprese. Ma di que­sto il governo non parla. È fermo all’articolo 18.

Del resto uno dei più ascol­tati con­si­glieri di Renzi è il pia­gnu­co­loso espo­nente della finanza crea­tiva che si lamen­tava di aver per­duto sei ore per arri­vare da Lon­dra alla Leo­polda. Cono­sco pen­do­lari che ogni giorno per­dono 4 ore della pro­pria vita negli spo­sta­menti per recarsi al lavoro, ma la cul­tura libe­ri­sta ignora que­sti dati con­creti dipin­gendo un mondo che non esi­ste. Peral­tro, la finanza d’assalto non crea posti di lavoro ma solo immense for­tune da rein­ve­stire nella rou­lette finan­zia­ria. Con le poli­ti­che del governo non si cree­ranno posti di lavoro e con­ti­nuerà il declino del sud.

Al secondo posto delle prio­rità del governo Renzi è, come noto, lo Sblocca Ita­lia, che con­tiene gra­zie alla stre­nua azione del mini­stro Lupi e dei poteri che lo sosten­gono, una ulte­riore faci­li­ta­zione alla costru­zione di nuove case. Dai dati Istat viene invece fuori anche un altro numero scon­vol­gente: nel nostro paese ci sono 31 milioni di alloggi di cui 7 milioni vuoti. Ci sono 24 milioni di fami­glie e se anche si con­si­dera la quota delle seconde case (pari circa a 4 milioni) esi­ste una quota inven­duta loca­liz­zata in tutte le aree urbane ita­liane pari ad almeno 3 milioni di alloggi.

Anche nel caso dello Sblocca Ita­lia è stata la finanza spe­cu­la­tiva a pre­ten­dere l’approvazione di alcuni arti­coli. Quello per esem­pio che con­sente di age­vo­lare l’azione delle Società di inve­sti­mento immo­bi­liare quo­tate (Siiq, art 26) e quella che for­ni­sce ampie pos­si­bi­lità di inter­vento alla Cassa depo­siti e pre­stiti di Franco Bas­sa­nini nel poter met­tere le mani nel pre­zioso patri­mo­nio immo­bi­liare pub­blico (art. 10). Siamo pieni di alloggi vuoti? Costruia­mone altri. I valori immo­bi­liari sono ai valori minimi? Sven­diamo alla finanza spe­cu­la­tiva inter­na­zio­nale il patri­mo­nio pubblico.

Il primo mini­stro Renzi diverte spesso il volgo con bat­tute ful­mi­nanti, come quella sui get­toni tele­fo­nici che non pos­sono essere uti­liz­zati per far fun­zio­nare le attuali tec­no­lo­gie. Diver­tente. Provi allora a met­tere in fila i dati Svi­mez e Istat con le poli­ti­che che sta por­tando avanti con tanta determinazione. Se si impe­gna capirà che sta asse­stando l’ultimo deci­sivo colpo all’intero paese men­tre la festa della spe­cu­la­zione finan­zia­ria con­ti­nua senza fine.

Ritiri allora Jobs act e Sblocca Ita­lia e si con­cen­tri nelle azioni ragio­ne­voli pro­po­sta dalla Svi­mez per il sud e, soprat­tutto avvii la messa in sicu­rezza del paese con soldi veri. Non con numeri propagandistici senza coper­ture reali.

«Gran parte del nostro suolo è edificato, il doppio di venti anni fa. Da tempo non si costruisce per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito». La Repubblica, 27 ottobre 2014

Nel nostro ormai ex Belpaese, il combinato tra la crescita di energia nell'atmosfera causata dai cambiamenti climatici e i dissesti del territorio da ipercementificazione generalizzata rivela effetti sempre più drammatici. Diverse ricerche ne indagano i motivi, anche per quanto riguarda gli aspetti quantitativi.

Il primo dato che emerge è la recente forte crescita di suolo consumato: meno di venti anni fa, l'ingombro era pari alla metà. Il contraltare di questo incredibile consumo di suolo - che significa distruzione di sistemi idrogeologici e di conseguenza dissesti, oltre che perdita di paesaggio - è costituito dall'abnorme quota di volumi, spesso vuoti che sono stati edificati nella "città diffusa" italiana.

I dati del censimento 2011 mostrano che gli appartamenti inutilizzati sono più di sette milioni: in attesa del dato esatto relativo ai vani, infatti, ipotizzando un'ampiezza media di 2,8 stanze per appartamento, si può stimare una quota di circa 20 milioni di stanze vuote. L'aumento di vuoto nel decennio è stato pari al 350%. I dati conclusivi forniti oggi dall' Istat , sono impressionanti: oggi il numero degli edifici presenti sul territorio nazionale è pari a circa 14,5 milioni per poco più di 31 milioni di appartamenti residenziali. In attesa di avere il dato netto anche su volumetrie e stanze, appare accettabile la stima di OLT (Osservatorio sui Laboratori Territoriali) di almeno di 18 miliardi di metri cubi edificati, di cui 15,5 miliardi (84,3%) residenziali; laddove il fabbisogno nazionale aggregato è di 6,2 miliardi di metri cubi (siamo 62 milioni di persone, includendo una stima molto largheggiante anche degli immigrati non censiti).

Le Regioni meridionali esasperano il quadro nazionale: la Campania presenta circa 1 milione di edifici, di cui 65.000 vuoti e inutilizzati per una popolazione di 5.760.000 abitanti; la Puglia ha 1.100.000 edifici di cui 54.200 vuoti per quattro milioni circa di abitanti; la Basilicata 117.000 edifici di cui 11.700 vuoti per 580.000 abitanti; la Sicilia 1.722.000 edifici di cui 132.000 vuoti per circa 5 milioni di abitanti; la Calabria 1.250.000 alloggi, di cui 420.000 vuoti per poco meno di 2 milioni di abitanti; la Sardegna presenta "solo" 570.000 edifici, di cui 70.000 vuoti o inutilizzati, per 1.640.000 abitanti.

LE CASE NON OCCUPATE IN ITALIA

Il dato relativo agli appartamenti vuoti è strabiliante: quasi un alloggio su quattro è vuoto, con una "punta" presentata ancora dalla Calabria con una quota pari al 40%; seguono Sicilia e Sardegna con circa il 30% del patrimonio abitativo inutilizzato. In Piemonte 1 alloggio su 4 è vuoto, laddove in Veneto e Toscana il rapporto è di uno su cinque circa poco meno del Lazio (22%) e poco più della Lombardia (16%).

Per quanto riguarda le città, in attesa del dato finale, si possono considerare consistenti le proiezioni parziali, che presentano quote di vani vuoti superiori a 100.000 a Torino, Milano e Roma, poco meno a Napoli, decine di migliaia nelle città di Venezia, Padova, Bologna, Firenze e Genova. In diverse città del sud il numero dei vani costruiti supera quello degli abitanti (ancora in Calabria, a Reggio, "il top" con 40.000 stanze in più dei residenti!). In molte aree interne, non solo meridionali, gli edifici sono più degli abitanti. Emerge una considerazione: solo fino a venti anni fa il dato forse più significativo era il rapporto abitanti/stanze. Con il censimento 2001, per l'emergere della "cascata di case", oltre alla rilevanza di aspetti più sociologici, quale la tendenziale forte crescita delle famiglie mononucleari, è apparso consistente parlare in termini di abitante/appartamento. Oggi diventa significativo e iconico il rapporto abitante/edificio! In Piemonte abbiamo poco più di 3 abitanti per edificio, in Lombardia poco meno di 5, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5. Nelle regioni meridionali abbiamo addirittura meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia, 2,5 in Calabria (!), 5 in Campania, 3,2 in Basilicata, poco meno di 4 in Puglia, che è in linea con il dato medio nazionale.

Ci siamo chiesti a lungo perché nel nostro paese si continuasse a costruire, a dispetto del declino demografico (la quota di immigrazione appare tuttora relativa) e socioeconomico. La spiegazione è stata fornita dagli studiosi di marketing immobiliare: da tempo non si costruisce più per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata sempre più in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito. A parte la quota di riciclaggio di capitale illegale, facilmente intrecciata a essa. La schizofrenia delle politiche urbanistiche delle ultime fasi ha largamente favorito tutto ciò, con accelerazioni da parte del presente governo, per cui tutela e attenzione all'ambiente e al paesaggio sono solo declaratio: in realtà si tenta di continuare ad aggirarle per realizzare nuove "Grandi opere inutili" e cementificazioni; come dimostrano lo "Sblocca Italia" e il ddl Lupi, da cancellare subito.

Alberto Ziparo è professore associato in Pianificazione Urbanistica presso l'Università degli Studi di Firenze

Una legge per il contenimento del consumo di suolo, che (roba da matti) invece di stabilire cosa lo è e cosa no, prevede «criteri che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo». Articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra. La Repubblica, ed. Milano, 24 ottobre 2014 (f.b.)

Nuove costruzioni nessun vincolo per almeno tre anni
di Andrea Montanari

Accordo fatto nella maggioranza di centrodestra che governa la Regione Lombardia sulla nuova legge sul consumo del suolo. Ridimensionato il progetto dell’assessorato regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi (FdI) che prevedeva restrizioni anche retroattive. Il vincolo scatterà solo tra tre anni. I progetti già previsti nei piani di governo del territorio dei Comuni potranno andare avanti. Vincolati solo i terreni agricoli, ma solo se non sono già destinati ad edificazioni. Il via libera del Consiglio regionale è previsto a metà novembre.

Restrizioni non più retroattive, tre anni di tempo per Comuni e costruttori per adottare le nuove regole e approvare i progetti attuativi e vincoli solo sui terreni agricoli sui quali non siano ancora previste destinazioni edificatorie. L’accordo raggiunto a fatica nella maggioranza di centrodestra sulla nuova legge sul consumo del suolo che sarà illustrato oggi al Pirellone, a prima vista, appare una netta vittoria della lobby dei costruttori, che avevano alzato le barricate contro l’iniziale testo molto restrittivo portato in giunta dall’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi, di Fratelli d’Italia, nell’ormai lontano febbraio di quest’anno. Un compromesso raggiunto dopo mesi di liti, veti incrociati, che per l’immediato dovrebbe impedire esclusivamente nuove varianti per cambiare la destinazione d’uso dei terreni attualmente agricoli. Ma solo per il futuro.

I fautori del nuovo testo spiegano che si è voluta evitare una pioggia di ricorsi e contenziosi con le imprese di costruzione, se fosse stato approvato il vecchio progetto di legge, che di fatto stabiliva il blocco totale al consumo di nuovo suolo sul territorio lombardo. Un divieto che a questo punto dovrebbe scattare tra tre anni. Nel frattempo, da un lato i Comuni dovranno adeguarsi alle nuove regole senza dover riapprovare i loro Pgt. Mentre le imprese di costruzione potranno verificare se i loro progetti già previsti saranno ancora in linea con la domanda di abitazioni e nuovi edifici. Inoltre, entro un anno la Regione approverà il nuovo Piano territoriale regionale che conterrà le nuove regole nel dettaglio.

La nuova legge sul consumo del suolo, infatti, non dovrebbe più contenere i limiti volumetrici che erano previsti nel primo testo approvato dalla giunta, per sostituirli con «criteri» che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo. Determinante per raggiungere il nuovo accordo la mediazione di Forza Italia e Nuovo centrodestra, visto che finora erano stati presentati ben quattro progetti di legge differenti. Non è difficile immaginare, però, la delusione delle associazioni ambientaliste. Ora il nuovo testo dovrà iniziare l’iter per l’approvazione in commissione Territorio prima di approdare in Consiglio regionale a metà novembre.

La colata di cemento sul bacino del Seveso
di Ilaria Carra

Il comune di Varedo è uno dei casi più emblematici. Negli ultimi dieci anni la superficie urbanizzata, in questa cittadina della bassa Brianza, è cresciuta del 10 per cento, salendo così al 67. Capannoni, edifici pubblici, abitazioni private, parcheggi: in una parola, cemento. Ma nello stesso periodo, i nuovi abitanti sono aumentati “solo” del 2,5 per cento. OGNI nuovo cittadino, cioè, ha occupato idealmente mille metri quadri di terreno, spesso per farci una villetta con giardino, che prima era libero. Una sproporzione netta, per gli esperti, tra il consumo di suolo e le esigenze demografiche. Non è un caso isolato, questo, tra i vari comuni lungo il bacino del Seveso, il fiume maledetto che in 140 anni ha causato 350 allagamenti, l’ultimo l’8 luglio portando in dono oltre venti milioni di danni anche a Milano città. E quanto si è costruito in questi comuni è tutt’altro che secondario in questa partita.

Il ragionamento è questo: un terreno vuoto fa da spugna. Un dato per capire: un ettaro di prato è in grado di assorbire 3,8 milioni di litri di acqua, una quantità pari a una pioggia di 400 millimetri. Lo stesso ettaro, se urbanizzato, non solo non trattiene nulla ma produce anche un costo sociale di 6.500 euro ogni anno. Perché se l’acqua, quando piove, non s’infiltra nel terreno perché incontra ostacoli di qualsiasi natura — da un capannone a un edificio fino a un parcheggio asfaltato — il flusso scorrerà e riempirà più velocemente il fiume, nella fattispecie il Seveso, che strariperà prima. Tocca dunque alle amministrazioni governarne il flusso, ovvero farsi carico del drenaggio che non avviene in modo naturale causa cemento.

La fotografia dei livelli di urbanizzazione la scatta il Politecnico, che da anni assieme a Legambiente ha una squadra di esperti incaricata proprio di studiare gli effetti sull’ambiente del consumo di suolo. E lungo l’asse del Seveso sono visibili a ogni esondazione. È qui che si arriva a picchi di 80 per cento di territori costruiti, specialmente a valle, nei comuni verso Milano. Bresso su tutti, ma anche Bovisio Masciago, Cinisello Balsamo. Ma ci sono anche comuni del Comasco di pochi abitanti, come Montano Lucino, dove si continua a costruire ben oltre la necessità demografica.

«Se i terreni attorno al bacino del Seveso vengono progressivamente impermeabi-lizzati, una quantità maggiore di acqua arriva nel fiume in un tempo inferiore — spie- ga Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale ambientale al Politecnico —. L’acqua va dove vuole e contribuisce alla formazione delle piene: il fiume è come un registratore, ci sono stati comportamenti urbanistici fuori controllo sia a monte sia a valle dell’asse del Seveso». Tradotto, si è costruito troppo. Lo pensa anche il ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti, che tre giorni fa, dopo la presentazione del maxi progetto per contenere il Seveso per il quale il governo promette di sborsare 140 milioni, diceva che «le cause dell’attuale condizione di dissesto idrogeologico, e si pensi, per stare sull’attualità, ai fiumi Seveso, a Milano, e Bisagno, a Genova, vanno ricercate anche nell’eccessivo consumo di suolo dovuto alla speculazione edilizia e all’urbanizzazione senza regole che hanno trasformato radicalmente la morfologia dei suoli».

... e intanto nella padania che nutre il pianeta ...

Consumo di suolo in pratica: al giorno d'oggi per fortuna esiste Google Earth, che consente al volo di paragonare a colpo d'occhio la vecchia sede con quella nuova, e suggerire un paio di osservazioni. La Repubblica Milano, 13 ottobre 2014, postilla (f.b.)

La firma di un archistar per il nuovo dipartimento di Veterinaria della Statale. Si tratta dell’architetto giapponese Kengo Kuma, autore del progetto che verrà presentato nei prossimi giorni dai vertici di via Festa del Perdono. È la ciliegina sulla torta di un lungo — e tormentato — processo di trasferimento del dipartimento dall’attuale sede di via Celoria al nuovo polo di Lodi, molto più grande e accogliente degli spazi di Città Studi.

Il progetto di trasferimento risale al 1998, quando l’ateneo guidato dall’allora rettore Enrico Decleva aveva deciso di trasferire a Lodi la facoltà (insieme con quella di agraria): da allora sono stati spesi 40 milioni che hanno portato alla costruzione della clinica veterinaria per grandi animali, del centro zootecnico aziendale e di altre strutture universitarie come la foresteria, gli stabulari e le residenze. A maggio il rettore Luca Vago aveva annunciato un forte abbattimento dei costi per la fine dei lavori, passati da 77 a 57 milioni di euro, anche considerato la prevista riduzione del numero di iscritti («era doveroso correggere i numeri di un piano divenuto sovradimensionato rispetto alle esigenze effettive», aveva spiegato in quell’occasione il rettore).

Il quartiere della sede attuale

Adesso tocca al completamento del campus, ovvero le aree didattiche dove sorgeranno le aule per i corsi di studio, la sede dei dipartimenti, i laboratori di ricerca e il centro zootecnico. Spazi dedicati alla trasformazione degli alimenti, alle cucine, al laboratorio di etologia e al mangimificio. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto per l’affidamento dell’incarico è stato un pool guidato dal prestigioso studio internazionale Kuma and associates Europe. «Sarà un progetto molto bello — spiega Mauro Di Giancamillo, professore del dipartimento di scienze veterinarie e sanità pubblica — e diventerà un centro di eccellenza completo in tutto. Ci sarà anche una parte di campus, con un’idea di facoltà che favorisce l’integrazione degli studenti. Non mancheranno anche locali bar, sale studio, centri d’accoglienza ». L’architetto vanta nel suo curriculum lavori molto prestigiosi costruiti principalmente in Asia (dalla casa bamboo di Pechino al quartier generale di Lvmh di Osaka), mentre in Italia il suo primo progetto è stata la “Casalgrande Ceramic Cloud”, sede di un’azienda di piastrelle in ceramica in provincia di Reggio Emilia.

Il campo di atterraggio dell'archistar

Il trasloco della facoltà, a questo punto, sembra aver imboccato un percorso ben definito per i prossimi tre anni. All’ateneo spetterà coprire il 60 per cento dei rimanenti 57 milioni, l’altro 40 per cento se lo divideranno Comune e provincia di Lodi e Regione Lombardia. Il trasferimento totale delle attività è previsto per il secondo semestre dell’anno accademico 2016/2017, ma potrebbe slittare al 2017/18 qualora i lavori non fossero ancora completati. Resterà poi da capire cosa sarà degli spazi di Città Studi, attuale sede della facoltà: 15 aule pensate per la didattica dotate di videoproiettore, computer e videoregistratori che si trovano in via Celoria 10.

postilla
Nella certezza che chiunque, in un batter d'occhio, possa liquidare questa questione con montagne di studi e rapporti, aggiungendoci un sorriso di compatimento: ha senso parlare e straparlare di contenimento del consumo di suolo agricolo, se poi sono proprio le facoltà universitarie legate all'agricoltura a praticare la nobile arte dello sprawl? Al netto di tutte le osservazioni organizzative, accademiche, didattiche, di ricerca e di contesto, sta di fatto che si passa da una sede (che viene lasciata al momento vuota, ergo non pare ci fossero pressioni mostruose per uscirne) in un ambiente urbano denso e servito dalle reti dei mezzi pubblici, a un campus semirurale raggiungibile grazie alla “comoda navetta” dalla stazione ferroviaria di Lodi, ma ubicato oltre la circonvallazione della via Emilia, vale a dire in campagna. Se poi, mettere su una superficie di terreno dei contenitori edilizi di cervelli dediti all'agricoltura, sia particolarmente sostenibile, possiamo discuterne, al netto delle chiacchiere sull'archistar giapponese. L'importante è capire cosa faccia davvero bene alle campagne (f.b.)

Ciò che colpisce di più, in questa lettura desolatamente obsoleta di alcuni processi sociali in corso, è la sostanziale assenza delle discipline territoriali, o almeno di un punto di vista vagamente interdisciplinare, come il tema meriterebbe. La Repubblica, 7 ottobre 2014, postilla (f.b.)

L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.

Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.

Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.

postilla
In questo articolo firmato da uno dei più noti e ascoltati studiosi di discipline sociali nel nostro paese, colpisce soprattutto la prospettiva scelta per leggere il fenomeno, che pare in pratica piallata su certe santificazioni del Censis a proposito di distretti paesi e dintorni, del tutto ignare (e scarsamente interessate) ad aspetti che invece parrebbero ovvi, dopo mezzo secolo di critica internazionale alla suburbanizzazione, ai suoi rovesci della medaglia ambientali, sociali, economici. Certo, siamo ancora nel paese in cui basta intravedere qualche rudere di campanile piantato in mezzo allo sprawl per evocare lisergiche nostalgie, e cancellare miracolosamente tutto il resto, almeno finché spunterà la prossima emergenza (il terremoto, la crisi economica, il consumo di suolo, i servizi sociali …). Però da uno studioso di rango ci si aspetterebbe almeno un briciolo di consapevolezza, del fatto che quanto noi chiamiamo “borghi” altrove si chiama più o meno nello stesso modo, ovvero “suburbs”, e non evoca affatto di per sé qualcosa di buono, anche quando c'è qualche fienile qui e là a commuovere l'osservatore. L'occhio critico dovrebbe saper cogliere anche il resto, per esempio le tendenze del tutto opposte di contro-suburbanizzazione (f.b.)

Un titolo un po' schematico per un articolo che racconta abbastanza eloquentemente tutte le miserie della nostra politica quando si tratta di consumo di suolo e ambiente in generale, magari per tirarla lunga e aspettare la bipartisan Legge Lupi. Corriere della Sera, 6 ottobre 2014

Fra i purtroppo numerosi disegni di legge impantanati da mesi e mesi in Parlamento ce n’è uno che aveva fatto storcere il naso a parecchi, fuori e dentro il Palazzo. Certi costruttori lo guardavano come fosse stato il loro epitaffio e certe Regioni si erano inalberate lamentando presunte lesioni alla propria autonomia. L’idea di quel provvedimento era restituire dignità a un territorio meraviglioso come il nostro ma che a partire dal dopoguerra è stato letteralmente stuprato dalla cementificazione selvaggia e dalla speculazione con la fattiva collaborazione della politica. Ancora oggi che le città italiane, dice Legambiente, traboccano di case vuote (250 mila soltanto a Roma) si continua a divorare suolo a ritmo incessante.

Siamo arrivati al punto che in Italia il consumo del suolo, ormai superiore all’8 per cento di una superficie montuosa per oltre un terzo, è praticamente doppio rispetto alla media dei 28 Stati dell’Unione Europea, attestato intorno al 4,3 per cento. La Germania, con una densità di popolazione superiore del 15 per cento alla nostra, un territorio pianeggiante nonché un apparato industriale non inferiore a quello italiano, è al 6,8 per cento.

Per non parlare delle conseguenze per l’agricoltura, che in quarant’anni ha sacrificato al cemento 5 milioni di ettari, una superficie pari a Lombardia, Emilia Romagna e Liguria messe insieme. Con il risultato che la produzione interna non arriva a coprire che il 75 per cento del fabbisogno. E siamo a quel disegno di legge. Il primo che aveva proposto una norma per limitare il consumo del suolo era stato Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura del governo di Mario Monti. Ma il tempo era poco e la melina parlamentare si mise subito in moto: la legislatura finì senza che si potesse fare qualche passo avanti significativo. Catania allora tornò alla carica a maggio del 2013, riproponendo la stessa proposta di legge in qualità di deputato di Scelta civica. Anche qui, però, senza grossi risultati. Per sette mesi il suo testo, insieme a quelli di altre proposte dello stesso tenore, è rimasto chiuso in qualche cassetto.

Finché a febbraio di quest’anno, pochi giorni prima della fine del governo di Enrico Letta, la responsabile dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo presenta a sua volta un disegno di legge che ricalca nella sostanza quello di Catania. E nonostante il brusco cambio a Palazzo Chigi, il treno sembra partire speditamente. Il 6 marzo viene costituito a tambur battente un comitato ristretto in commissione alla Camera, con la missione di partorire in fretta un testo condiviso da portare in aula. Quattro riunioni, di cui l’ultima il 28 maggio. Poi più nulla.

Il motivo? C’è chi tira in ballo l’esigenza di aspettare una legge urbanistica. Chi diversamente ricorda le avversioni di una parte del mondo delle costruzioni, lasciando intendere che al blocco non sarebbe estranea l’azione delle lobby. E chi invece parla di incomprensioni fra il ministero dell’Ambiente retto dall’esponente udc di stretta osservanza casiniana Gian Luca Galletti, e quello dell’Agricoltura affidato al lombardo Maurizio Martina, democratico: contrasti sulle competenze che ciascuno dei due rivendica. Qualunque sia la ragione, se questioni di lobby o di potere, oppure soltanto le solite stucchevoli faccende burocratiche, il fatto è che da più di quattro mesi una legge ritenuta urgente è su un binario morto. Dal quale non si sa quando e se potrà muoversi. Intanto, ogni giorno che passa, altri cento ettari di territorio vengono sbranati: alla faccia delle migliaia di appartamenti invenduti, delle periferie urbane che cadono a pezzi, del nostro paesaggio che va in malora.

«In settimana il decreto. Risorse aggiuntive per 4,5 miliardi.Tra i lavori considerati prioritari l’alta velocità Napoli-Bari». La Repubblica, 28 luglio 2014

Roma. Conto alla rovescia per il decreto sbocca-Italia che dovrebbe vedere la luce, secondo le indicazioni giunte ripetutamente dal governo, questa settimana, probabilmente venerdì. In prima linea l’abbattimento delle barriere burocratiche alla realizzazione delle grandi opere, spesso incagliate, per ricorsi al Tar, ritardi nel via libera relativi all’impatto ambientale o inadempienze dei concessionari. In tutto, come annunciato dal premier Matteo Renzi, 43 miliardi «già conteggiati» ai quali si potrebbero aggiungere risorse fresche ogni anno per circa 4,5 miliardi per le grandi opere e altri 3,7 (ma in 6 anni) per la miriade di piccoli cantieri.

Deregulation per le licenze private
La sorpresa dell’ultima ora riguarda tuttavia l’edilizia privata dove si annuncerebbe una deregulation che ha già fatto storcere il naso alle associazioni ambientaliste. Secondo una bozza del testo, anticipata ieri dall’Adnkronos, si andrebbe incontro a una piccola rivoluzione sul rilascio delle concessioni edilizie: fino ad oggi si deve infatti presentare al Comune una regolare domanda di licenza per dar corso ai lavori di edificazione. Con la riforma ci si potrà rivolgere direttamente allo sportello unico, muniti di una autocertificazione con le caratteristiche essenziali del progetto, realizzata da uno studio professionale, che testimonia il rispetto del piano regolatore e delle altre norme urbanistiche. A quel punto lo sportello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispondere, nel caso contrario si potrebbe procedere ai lavori. La norma sulla deregulation delle licenze di costruzione sarebbe stata inserita a sorpresa - il governo parla di bozze ancora in discussione - in base ad uno stralcio dell’articolo 20 della riforma urbanistica presentata nei giorni scorsi dal ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi.
Le grandi opere
Tornando al pacchetto che riguarda invece i lavori pubblici, la lista delle grandi opere sulla quali il governo è chiamato a scegliere i progetti da sbloccare, comprende circa 300 cantieri. In prima linea c’è l’alta velocità Napoli-Bari (che dovrebbe munirsi di un commissario ad hoc) e la tratta ferroviaria Brescia-Padova. Sul tavolo ci sono anche le infrastrutture indicate nel 2013 nel decreto «del fare» del governo Letta: il potenziamento della ferrovia Novara-Malpensa, la rimozione dei passaggi a livello sull’Adriatica nel tratto Foggia-Lecce e la terza corsia autostradale in Friuli.
La riforma dei porti
Nell’ambito del provvedimento è previsto anche un intervento di razionalizzazione delle autorità portuali: attualmente sono 23 e scenderebbero a quota 15. Inoltre le autorità che includono due o più scali saranno tenute aavere una unica sede nel porto più importante mentre negli scali minori rimarrà solo un direttore generale che gestirà le risorse finanziarie, coordinerà le risorse umane e curerà l'attuazione delle direttive del presidente.
Il nodo del Brennero
Secondo, la bozza diffusa ieri, nella lunga lista ci sarebbero anche i valichi ferroviari del Frejus, del Sempione e del Brennero. Una possibilità per alleviare i costi, sponsorizzata soprattutto dal ministro per le Infrastrutture Lupi, riguarderebbe il finanziamento di opere come il traforo ferroviario del Brennero sulle quali c’è una pressione europea: per questi grandi lavori si starebbe valutando di chiedere a Bruxelles - anche i margini in questa direzione sono assai limitati - una flessibilità del rapporto deficit-Pil scomputando la spesa per investimenti. Un capitolo a parte è quello dei termovalorizzatori, cui Renzi nei giorni scorsi ha fatto esplicito riferimento: un terreno minato per i vari movimenti «anti» presenti sul territorio: il Forum Nimby ha calcolato nei giorni scorsi che ben 22 di queste opere sono soggette all’azione di contestazione di comitati civici di varia natura.
I lavori segnalati dai sindaci
Nel pacchetto potrebbero figurare anche alcune opere segnalate dalle amministrazioni locali, che sono state sollecitate da Renzi nel giugno scorso ad indicare via mail i cantieri bloccati sul proprio territorio. Molte le richieste che si sono affastellate sui tavoli e nei tablet di Palazzo Chigi. Tra queste starebbero prendendo quota la Metro C a Roma, il Teatro Margherita a Bari e la metanizzazione di alcuni quartieri di Catania. A questa lista degli enti locali si aggiungerebbe il monitoraggio dello stato dell’arte delle opere pubbliche effettuato dalle Regioni (all’appello manca solo la Calabria): si tratta di un altro elenco di oltre 600 cantieri, la maggior parte già avviati e che attendono la spinta decisiva.
I ritardatari perdono la concessione
Come agire sulla burocrazia? Per ora si parla di un intervento sui ricorsi al Tar e di velocizzazione della valutazione di impatto ambientale, ma le misure sono da definire. Quello che sembra certo è che si interverrà con una norma che costringerà strutturalmente a velocizzare i lavori per i quali si è ottenuta una concessione: infatti nel caso in cui chi ha ottenuto una concessione per un’opera pubblica, nel giro di tre anni non sia riuscito a realizzare un progetto talmente avanzato da ottenere i relativi finanziamenti bancari, si provvederà alla revoca della concessione. Che sarà oggetto a questo punto di una nuova gara e assegnata ad un’altra azienda. Nel pacchetto anche semplificazioni, incentivi e sgravi fiscali per rilanciare gli investimenti privati. Allo studio ci sono strumenti finanziari innovativi volti a produrre un effetto leva su capitali privati attraverso le risorse pubbliche, come i project bond e il parternariato pubblico-privato.
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