Carlo Petrini teme, giustamente, che la mancanza di una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sia un pesante contrbuto dell'Italia al degrado dell'ambiente. E necessario approvare la legge sul consumo di suolo in discussione al Parlamento? Abbiamo intervistato in proposito Vezio De Lucia.
Oggi si apre a Parigi la Conferenza mondiale sui cambiamenti di clima. Si parlerà molto di energie alternative, di risparmio energetico, di riduzione dei fattori inquinanti, di green economy e così via. I rappresentanti degli Stati si barcameneranno tra l’esigenza di dover contribuire alla riduzione di un rischio di catastrofe e quella di non ridurre il Pil, che sembra essere il totem della religione dominante. C’è grande attesa per i risultati, e una forte pressione che nasce dalle manifestazioni popolari in corso nelle strade e nelle piazze di tutti i continenti.
C’è invece chi denuncia già i limiti della conferenza, della sua stessa impostazione. Carlo Petrini, sul manifesto di oggi, rivendica il ruolo dell’agricoltura riprendendo una problematica sviluppata qualche giorno fa da Piero Bevilacqua. Petrini pone la questione del consumo di suolo. Egli scrive: “In Italia ancora manca una legge nazionale a difesa dei terreni agricoli sempre più invasi dalla cementificazione. Se continuiamo così oltre al dissesto idrogeologico avremo un deserto di cemento”.
Che giudizio dai sull’iniziativa che assunse nel 2012 il ministro dell’Agricoltura Catania?
Hai dato un giudizio molto critico della legge attualmente in discussione in Parlamento. Quali sono le ragioni essenziali?
«In primo luogo, l’effettiva entrata in vigore delle norme di contenimento del consumo del suolo è subordinata a un malinteso rispetto del pluralismo istituzionale perseguito attraverso complicati meccanismi procedurali a cascata: Stato, Regioni, Comuni. Meccanismi che non hanno mai funzionato in altri campi, figuriamoci quando sotto tiro sono gli interessi di potentissimi settori dell’economia finanziaria e immobiliare. Non è difficile prevedere che, ove approvata, la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessaria e urgente (dal Lazio in giù), oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione.
Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni. Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039
Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.
Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):
Un percorso in tre atti (impuri)
3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).
Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.
Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.
Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).
Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).
Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.
Rigenerazione della speculazione
I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.
Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:
· siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;
· i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.
Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.
Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.
Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.
Una lucida analisi delle molteplici cause alla radice del dissesto territoriale del Bel Paese (m.p.g.)
Mai celia popolare è stata più attuale e veridica: il territorio frana, si allaga, degrada e le politiche pubbliche latitano - o se intervengono generano ancor più guasti quando, con perfida sistematicità, sconfinano nell’illegale. Un panorama dolente quello italiano, bersagliato da eventi calamitosi portatori di danni e lutti, di frequenza e portata eccezionale, etichettati come “naturali” e perciò fatalisticamente ascritti all’infausto destino di una geomorfologia fragile e di un regime climatico in mutamento. Catastrofi che una più saggia attenzione agli equilibri ecosistemici e alla prevenzione potrebbe nella maggior parte dei casi evitare o comunque mitigare. Ma una subdola assuefazione all’estetica del dramma, cifra semiotica del nostro tempo, allontana la riflessione sulle cause, in quest’epoca barocca che sopperisce alla mancanza di etica con la ridondanza delle narrazioni.
Non è mia intenzione affrontare il versante giudiziario del caos in cui versa il nostro territorio, benché ricchissimo di casi e di documenti processuali, anche se sarebbe interessante prima o poi tracciare una geografia dei riflessi spaziali del potere corruttivo, una perversa pianificazione a rovescio, implicita, i cui esiti appesantiscono le disfunzionalità e i disagi dei nostri sistemi urbani e infrastrutturali, che dovrebbero invece costituire la nervatura a supporto dell’efficienza, dello sviluppo e della qualità del vivere.Mi fermerò alle cause esplicite, ossia alle logiche che, negli ultimi trent’anni, hanno deciso la dilatazione insediativa e l’organizzazione del territorio. Anche così dovremo comunque constatare come si sia trattato di ragioni inquinate da scarsa lungimiranza, subalterne a un’idea di crescita sbilanciata verso il settore delle costruzioni e il consumo di suolo che ne è derivato, in cui la rendita immobiliare, per sua natura improduttiva, ha fatto da padrona.
Quando la bolla è esplosa, nel 2007 negli Stati Uniti e l’anno dopo in Europa, i migliori analisti (penso a Nomisma e Cresme) già avvertivano dell’esaurimento di un ciclo, della saturazione della domanda e dei pericoli insiti in un percorso speculativo che in Italia aveva visto aumentare i valori delle costruzioni di più del 60% soltanto nell’ultimo decennio. Ma l’euforia dell’investimento immobiliare aveva contagiato a tal punto la società italiana, per mentalità già orientata al “mattone”, che solo la stasi del mercato, ma siamo agli anni più recenti, ha fermato la corsa alle edificazioni – ora dirottata sulle Grandi Opere, nuovo vessillo della crescita, ennesimo capitolo dello sfruttamento del territorio. Opere intese unicamente come sbocco per capitali finanziari in cerca di remunerazione e non come momento di attrezzaggio ed efficientamento, le cui localizzazioni il più delle volte sono frutto di pressioni, corruzioni, cordate sotterranee incalzanti. In barba a qualsivoglia pianificazione.
Non a caso lo Sblocca Italia (decreto legge 12 settembre 2014, n. 133) si regge sul principio della deroga, che a sua volta, per escamotare la normativa vigente, poggia su un’interpretazione lasca e contorta del concetto di “interesse pubblico”, talmente dilatata da coprire ogni possibile opzione purché costruttivista. Dispositivi la cui ambiguità sembra fatta apposta per incentivare pratiche scorrette.Un contesto in cui lo spazio della nostra sussistenza è diventato terra di conquista, materia grezza da mettere in valore, un’appropriazione su cui gli abitanti non hanno voce – non c’è luogo che non abbia un comitato di cittadini che protesta per decisioni calate dall’alto che ledono gli ecosistemi o denuncia gli effetti negativi di opere inutili, sbagliate oppure iniziate e mai completate.
Un arrembaggio che calpesta la territorialità, quell’insieme composito e stratificato in cui culture locali, consuetudini di vita e modelli di sviluppo hanno sedimentato le combinazioni geografiche ed economiche su cui si fonda il nostro vivere. Frutto delle generazioni e delle loro dialettiche e dunque bene comune per eccellenza.Un processo di predazione dei patrimoni territoriali avviato con il boom industriale, ma che nell’ultimo trentennio, da quando la rendita immobiliare e finanziaria hanno predominato sugli investimenti produttivi, ha conosciuto ritmi e intensità straordinari. La cui responsabilità non sta in capo solo ai grandi speculatori avidi e corrotti, promotori delle operazioni immobiliari franate in crack colossali già prima dell’esplosione della bolla (i famosi “furbetti del quartierino”), ma vede coinvolta, per ragioni diverse, l’intera società.
Nell’immaginario collettivo italiano la casa di proprietà rappresenta un obiettivo, anche come espressione di status, perseguito a costo di sacrifici e indebitamenti. In Italia la maggior parte dei residenti ha la casa in proprietà, a cui si aggiungono seconde, terze, ennesime case acquistate come forma di investimento di fronte a rivalutazioni e rendimenti che, prima della crisi e dei recenti aggravi tributari, erano molto elevati.Una propensione favorita in quella fase dal facile accesso al credito, in cui le banche hanno svolto ruolo decisivo, sia a supporto e copertura delle grandi imprese, sia nei confronti dei piccoli investitori, a cui sono stati elargiti mutui anche quando le garanzie offerte non erano consone; al punto che nei bilanci degli istituti ora figura un patrimonio immobiliare svalutato e ingombrante esito di pignoramenti. Che si aggiunge al tanto nuovo invenduto inutilizzato.
Una mentalità rafforzata dalle politiche nazionali attraverso condoni, incentivi, premialità o anche indirettamente, com’è stato ad esempio con le misure fiscali di detassazione degli utili reinvestiti che hanno fatto spuntare come funghi i capannoni Tremonti, da subito inutilizzati. Tutto ciò in base all’assioma che l’edilizia sia la miglior leva della crescita, un pregiudizio che tuttora perdura benché smentito da una congiuntura che ne ha punito gli eccessi e mostrato i risvolti controproducenti.Una fiducia condivisa e con vigore applicata dagli enti locali che, stretti nelle morse dei tagli di bilancio, sono (stati?) paladini dell’urbanizzazione, i cui oneri rappresentavano un’entrata per le loro casse esangui, e tuttora faticano ad abbandonare la speranza che l’edilizia possa riprende ai vecchi ritmi e rimandano la revisione di previsioni fortemente sovrastimate oggi irrealistiche.
Un calderone di consensi che comprende anche i proprietari dei terreni, disposti a far carte false – e non è un’iperbole come ben sappiamo - pur di inserire i propri lotti nei piani di espansione e che ora, nella stasi del mercato, chiedono la cancellazione dell’edificabilità per evitare le imposte immobiliari. Un tira e molla poco dignitoso, mi pare, per l’ente pubblico ridotto a ruolo notarile di decisioni pilotate dai privati.Un insieme intrecciato di comportamenti che hanno proliferato nella generale atmosfera di rifiuto del congestionamento, dell’anomia e dei costi del vivere urbano che si diffonde nella società a partire dagli anni ’70 e propone come contraltare l’idealtipo di una campagna bucolica, paradiso ecologico e illusione di socialità. Un progetto destinato ad attualizzarsi nelle villette a schiera e nei palazzoni della periferia infinita, che hanno moltiplicato la mobilità, l’inquinamento e i costi - sociali ed economici, individuali e pubblici. Sicché il sogno agreste e le sue innocenti aspirazioni ecologiste, cavalcati dalle complicità speculative, figurano come paradossali correi dello sprawl e dello scempio perpetrato ai danni del mondo rurale.
Ora sotto il cielo frantumato dell’orgia edilizia regna grande confusione e benché da tutte le parti (finalmente) si gridi che bisogna fermare il consumo di suolo, non si va oltre gli slogan, le direzioni in cui muoversi non sono chiare mentre i cocci del disastro diventano più aguzzi ogni volta che piove. Il territorio, martoriato dal cemento e dall’asfalto, è entrato in squilibrio, non è più in grado di reggere le dinamiche naturali.
Una versione ampliata del testo è pubblicata sulla rivista il Mulino, 4/15, pp. 678-685.
postilla
Ahimè, la direzione di marcia sembra segnata. Sembra unanime l'accordo delle associazioni, delle corporazioni e dei partiti su un testo che non servirebbe affatto a ridurre il consumo di suolo. Anzi, fornirebbe un alibi a chi vuole continuare a praticarlo. Si tratta di quel disegno di legge intitolato "Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo", derivante dalla proposta dell'allora ministro per l'agricoltura Catania. Sarebbe una legge priva assolutamente di efficacia, che nella ipotesi migliore condurrebbe alla scomparsa del consumo inutile di suolo al 2050 come ha limpidamente argomentato su queste pagine Ilaria Agostini nel suo articolo del maggio 2015, scritto per La città invisibile e ripreso da eddyburg.
«Agricoltura. Per il G7 le associazioni per la difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai governi del mondo di dotarsi di una piattaforma sociale che metta al centro le organizzazioni contadine in lotta contro il land-grabbing». Il manifesto, 10 giugno 2015
Tre anni fa il Summit G8 del 2012 proclamava la nascita della «Nuova Alleanza per la sicurezza alimentare e la nutrizione». L’accordo faceva leva sulla retorica strumentale e ipocrita dell’aumento della produzione di cibo per salvare dalla povertà e dalla fame 50 milioni di persone. Il solito slogan usato cinicamente per incentivare forme di speculazione, anche finanziaria, che sembrano aver trovato un nuovo Eldorado nell’accaparramento di terra agricola in Africa, Sud America e Asia. In quell’occasione, una sorta di antipasto del Ttip, si trovarono allo stesso tavolo dieci paesi africani, non certo tra i più poveri, tra i quali Ghana, Nigeria, Mozambico, Tanzania, e centinaia di multinazionali dell’agro-industria tra cui le più grandi nella produzione di pesticidi, sementi ibride e Ogm (Yara, Cargill, Monsanto).
Più mercato, più privatizzazioni
Dietro le proclamazioni ufficiali si nascondeva in realtà, senza un velo di imbarazzo, il tentativo di aprire nuovi mercati in Africa alle imprese europee e americane che, in cambio di un impegno vago ad investire denaro contante nei dieci paesi africani interessati, ricevettero impegni precisi da parte di quegli stessi governi africani per l’avvio di processi di privatizzazione della terra. In particolare fu prevista la concessione a imprese multinazionali delle «terre comuni» utilizzate da sempre dai villaggi per il sostentamento collettivo delle comunità (land-grabbing), incluse politiche volte alla legalizzazione degli Ogm e di sementi brevettate con contestuale criminalizzazione di pratiche di scambio di sementi operate dai contadini. Prevista anche la trasformazione della produzione agricola di tipo familiare su piccola scala, che in Africa riguarda ancora il 60% dei contadini e l’80% della produzione totale di cibo, verso sistemi di produzione industriale ispirati ad un modello che nel mondo ha già mostrato i suoi limiti: inquinamento, cambiamenti climatici, problemi di obesità e malnutrizione.
I contratti imposti alle popolazioni locali prevedono, tra le altre cose, il pieno ed esclusivo utilizzo di tutte le risorse sottostanti e sovrastanti la terra acquistata. Questo significa che senza un limite contrattuale, qualsiasi sia la coltura che quell’azienda decide di coltivare, oltre al terreno può disporre di tutta l’acqua che ritiene necessaria senza versare alcun canone aggiuntivo. Le popolazioni locali dovranno lasciare quel luogo ormai non più loro, dopo di ché tutto quello che insiste su quel suolo diventa di proprietà delle aziende locatarie o dei fondi pensione occidentali che hanno avviato enormi operazioni di investimento e speculazione su quelle terre. Si consideri che negli ultimi anni sono stati accaparrati terreni per 87 milioni di ettari. Significa cinque volte la superficie arabile d’Italia, che nel suo complesso è di circa 30 milioni di ettari: si tratta del 2% delle terre coltivabili nel mondo. È lo stesso meccanismo finanziario adottato in Inghilterra dal governo della signora Margaret Thatcher circa trent’anni fa con il fallimentare slogan «meno Stato, più mercato».
Per il report dell’associazione Terra Nuova e del Transnational Institute, i benefici promessi dal settore privato e dai donatori evaporano quando le organizzazioni contadine più critiche e i loro sostenitori cercano di determinarne gli impatti. Ciò che rimane è un sistema organizzato con lo scopo di penalizzare i piccoli produttori a beneficio delle multinazionali attraverso la privatizzazione dei beni pubblici e collettivi dai quali dipendono le condizioni di vita delle popolazioni rurali. Privatizzazione infatti in primo luogo significa privare tutti di beni comuni quali il suolo agricolo e l’acqua. Privati delle terre e dei mezzi di sostentamento, le comunità rurali non hanno altra scelta che integrarsi a condizioni svantaggiose in sistemi di produzione di cui perdono completamente il controllo. L’alternativa per la sopravvivenza è migrare verso le città o altri paesi.
Giù le mani dalle sementi
È per questi motivi che in occasione del G7 le associazioni impegnate nella difesa della sovranità alimentare hanno chiesto ai Governi dei paesi che hanno sottoscritto la Nuova Alleanza alcuni impegni precisi, a partire dalla predisposizione in ogni nazione di una piattaforma sociale che comprenda i diversi attori interessati da queste politiche. Tra questi ci dovranno essere le organizzazioni contadine e gli altri gruppi emarginati, insieme a quelle che si occupano della difesa del diritto al consenso libero, preventivo e informato di tutte le comunità vittime della speculazione economica sulla terra, oltre a quelle che garantiscono la loro piena partecipazione al governo del territorio e delle risorse naturali. L’impegno continua con la richiesta di rispettare i diritti dei contadini a produrre, proteggere, utilizzare, scambiare, promuovere e vendere le proprie sementi e aumentare il sostegno al sistema delle banche contadine dei semi. Fondamentale è la richiesta dello stop con contestuale revisione di tutti i processi sulla legislazione sulle sementi basati sulla convenzione Upov del 1991. La richiesta riguarda tutti i brevetti e le leggi che minacciano i diritti dei piccoli agricoltori. Sono previste infine politiche pubbliche di sostegno per questa categoria di produttori, incluse le organizzazioni della società civile e dei consumatori a livello regionale e nazionale per sviluppare un dibattito sulla sovranità alimentare, sul diritto al cibo e sull’agro ecologia.
Le organizzazioni che hanno sottoscritto la dichiarazione a livello mondiale sono numerose e tra queste si contano oltre a Terra Nuova anche ActionAid International, Africa Europe Faith and Justice Network, Grain, Greenpeace Africa, La Via Campesina Southern and Eastern Africa, Oxfam, Transnational Institute, Unión Solidaria de Comunidades — Pueblo Diaguita Cacano, Réseau Maerp Burkina Faso, Coalition of Women’s Farmers, Cnop Mali, Global Justice Now e molte altre. Un’iniziativa che vuole unire le associazioni di tutto il mondo per combattere contro la fame, la miseria e soprattutto i grandi affari delle multinazionali, dell’agro-finanza e dei loro governi amici.
MILANO - La provincia più cementificata d’Italia. E’ un triste primato quello della provincia di Monza e Brianza. Dagli anni 50 a oggi, il Monzese ha consumato il 34,7% del suo territorio. Oltre 14 mila ettari di terreno impermeabilizzato artificialmente e quindi non più recuperabile. Un problema che sta diventando emergenza, e non solo in Lombardia, quello del consumo di suolo. Basti pensare che, in Italia, per colpa della cementificazione, si è perso il 20% delle coste: oltre 500 chilometri quadrati, l’equivalente dell’intera costa sarda.
A lanciare un nuovo allarme è l’Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale (Ispra) che, nel convegno scientifico «Recuperiamo terreno», organizzato con il Forum Salviamo il Paesaggio e con Slow Food, ha diffuso il «Rapporto sul consumo di suolo 2015»: una cartografia a altissima risoluzione, disponibile sul sito www.consumosuolo.isprambiente.it
Maglia nera, quindi, alla provincia di Monza, dove si trovano anche i due comuni più cementificati della regione: Lissone con il 64 % di suolo consumato e Sesto San Giovanni, con il 56 % . Milano si ferma, invece, al 47,8%, mentre l’area della nuova Città metropolitana ha già consumato il 26% del suo territorio. Terza, poi, si piazza Varese con il 18 % del suolo usato.
La Lombardia si conferma così la regione più «consumata» d’Italia, con il 10,4% di suolo impermeabilizzato. Una percentuale bassa, ma in grado di alterare direttamente o indirettamente il 58% del suolo lombardo: un’infrastruttura che spezza la continuità di un’area agricola, ad esempio, la modifica nel suo complesso e non solo per la parte cementificata.
Questoconsumo disordinato espone i centri abitati al rischio di alluvioni, frane,esondazioni e poi provoca degrado ambientale, perdita di terreni agricoli eaumento dell’inquinamento atmosferico. E’ urgente, quindi, una legge a tuteladel territorio, che non è un bene inesauribile e, una volta modificato, non puòtornare come prima. Un disegno di legge sul consumo di suolo è all’esame degliemendamenti nelle Commissioni Ambiente e Agricoltura, ha spiegato al convegnoChiara Braga, deputato e responsabile Ambiente del Partito democratico:«Occorre la strumentazione giuridica che possa davvero salvaguardare il suolonel suo valore agricolo e ambientale, perché non si continui solo a pensarlocome bene economico da sfruttare». Ma contro la nuova legge sono già statipresentati 400 emendamenti.
«I dati dell’Ispra smentiscono, per l’ennesima volta, la presenza di un nesso causale tra edilizia e necessità di abitazioni: in una spirale perversa le città perdono abitanti, ma guadagnano case, vuote e sfitte». La Repubblica, 4 maggio 2015
NEMMENO la grande crisi ha fermato l’unica impresa comune nella quale gli italiani delle ultime generazioni sembrano essersi coalizzati: il consumo irreversibile del sacro suolo della patria. Cioè il più evidente dei nostri vari suicidi collettivi.
«Da Istat e ministero delle Finanze identikit delle abitazioni: 116 metri quadri, quattro stanze, 80% di proprietà. Spazi più ampi e confortevoli rispetto a dieci anni, famiglie meno numerose. Per chi non può permettersi proprietà né affitto privato, un’altra storia». La Repubblica, 22 febbraio 2015
La casa degli italiani - la casa privata, di proprietà - è sempre più grande e confortevole. E ha sempre meno cucina: deve lasciare spazio al soggiorno, nuovo centro del vivere interno. Per i fornelli è sufficiente un angolo cottura, in cucina non serve più abitarci. Soprattutto, le abitazioni (private) degli italiani sono in continua crescita. I “730” del 2013, ultimi analizzati dal ministero delle Finanze, dicono che a catasto sono inserite più unità immobiliari di quanta popolazione sia iscritta all’anagrafe: 60 milioni e 217mila pezzi quando i residenti, in Italia, nel 2012, erano 59 milioni e 394 mila. Di questi accatastamenti (cinque milioni in più in cinque anni), 33 milioni e 481mila sono abitazioni a uso residenziale, uno stock impressionante. Il resto, sono box e pertinenze. Il rapporto numerico dice che c’è un appartamento intero a disposizione di ogni italiano virgola 56. In un anno - 2011 su 2012, piena crisi economica - sono state costruite o sono emerse un milione e 100mila abitazioni in più. Gru e impastatrici non si fermano, e così l’anelito degli italiani: la casa.
«L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza». La Repubblica Milano, 16 febbraio 2015
In un contesto fra i più densamente popolati d’Europa, qual è l’area milanese, l’ultima cosa di cui si sentiva il bisogno è la messa in campo di nuovo, massiccio consumo di suolo, oltretutto promosso direttamente dal soggetto pubblico. Tanto più in presenza di tante aree dismesse, che da anni attendono di essere recuperate, alcune delle quali già dotate di elevata accessibilità trasportistica e perfettamente integrabili con la città compatta. Ma questa è la scelta operata per Expo 2015 da un ceto politico che ama creare valori immobiliari anziché città. Ora c’è da fare i conti con un’isola metropolitana, estesa per 1,1 milioni di metri quadri e separata dal resto del territorio da autostrade e ferrovie.
Già, l’università. È questo il coniglio dal cappello che, a detta del presidente della Regione Roberto Maroni e di molti commentatori, può fare uscire dai guai Arexpo spa, la società proprietaria dell’area in cui figurano il Comune di Milano e la Regione Lombardia (34,67% entrambe), Fondazione Fiera (27,66 % di pura rendita), l’ex Provincia di Milano (2%) e il Comune di Rho (1%). Una società indebitata per 160 milioni di euro con le banche e che ha messo all’asta l’area a partire da una base di 315,4 milioni, registrando lo scorso novembre una prima risposta negativa del mercato.
L’università Statale nel dopo Expo è un’idea del rettore dell'Università Statale Gianluca Vago. Una mossa da gioco d’azzardo: Arexpo è sull’orlo del crack, l’università alla canna del gas (vent’anni di politiche governative scellerate l’hanno messa in ginocchio)? Bene, l’unione di due crisi può fare la forza: i soldi dovranno saltare fuori (ci penserà Renzi, o chi per lui). Quanti? I 315,4 per l’area più i 400 milioni di euro per realizzare il nuovo campus, che ospiterebbe tutte le facoltà scientifiche della Università Statale ora a Città Studi (Fisica, Veterinaria, Agraria, Chimica, Scienze e Informatica).
Quanto a un campus universitario nell’area Expo, sarebbe la somma di due debolezze: quella di Milano città che perde una risorsa preziosa e quella di un’università che sul terreno delle relazioni territoriali si assimila a uno shopping center.
Vuoi per la fretta di approvare una legge sostanzialmente improvvisata, vuoi per le pressioni delle lobbies, in Lombardia si è quantomeno combinato un pasticcio. La Repubblica Milano, 14 febbraio 2015
La nuova legge regionale sul consumo del suolo impedisce ai sindaci che lo desiderano di approvare delle varianti al Pgt che riducano l’impatto sul territorio. Ci hanno già provato Bergamo, Brescia e Cremona. È l’effetto paradossale delle nuove norme che prevedono che per tre anni i progetti in essere potranno essere confermati o meno da sindaci e operatori. Il Pd lombardo denuncia: «È un’assurdità. Lo avevamo detto che questa legge era un pasticcio. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». L’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio getta acqua sul fuoco: «Non è vero. La circolare interpretativa che arriverà nelle prossime settimane chiarirà tutto».
La legge contro il consumo del suolo, fortemente voluta dal governatore Roberto Maroni, impedisce di fatto ai comuni che lo desiderano di approvare varianti ai loro Pgt che prevedano una riduzione dell’impatto sul territorio. A fare l’amara scoperta finora sono state le amministrazioni di Crema, Brescia e Bergamo, tutte guidate dal centrosinistra, che hanno chiesto ai tecnici della Regione un’interpretazione della legge: vogliono sapere se era possibile approvare una variante al Pgt per ridurre i cosiddetti residui, ovvero le aree non ancora lottizzate. Un dettaglio tutt’altro che irrilevante, visto che l’ultimo rapporto sul consumo del suolo redatto dalla società di ricerca regionale Eupolis rivela che le previsioni di trasformazione del Pgt lombardi già approvati comporteranno un ulteriore consumo di suolo attualmente libero pari a 53mila ettari, più altri 22mila relativi ai residui.
La denuncia è del consigliere regionale del Pd Jacopo Scandella che attacca: «Lo avevamo detto che la legge era un pasticcio e adesso i fatti ci danno ragione. Se un comune non può approvare una variante al proprio Pgt per ridurre il consumo di suolo da subito perché la Regione permette di farlo solo tra quale anno significa che il provvedimento è sbagliato e inadeguato. È un’assurdità. Presenteremo una mozione urgente martedì in aula». Il dubbio nasce dall’interpretazione del quarto comma dell’articolo 3 della nuova legge regionale, che stabilisce che «i comuni possono approvare unicamente varianti al Pgt e ai piani attuativi al Pgt, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione delle previsioni di trasformazioni già vigenti». In altre parole, a pari previsioni. Un effetto paradossale, dato che le nuove norme dovevano avere lo scopo di combattere il consumo del suolo, non di impedirne la riduzione. La nuova legge prevede infatti che i documenti di piano dei Pgt, compresi quelli già scaduti prima dell’entrata in vigore della legge, devono considerarsi “cristallizzati”. Almeno per i prossimi 30 mesi, il periodo transitorio entro il quale comuni e operatori del settore dovranno confermare o meno i progetti in essere.
Alcuni comuni capoluogo hanno chiesto nei giorni scorsi un’interpretazione agli uffici dell’assessorato. Anche diversi comuni del bergamasco avrebbero chiesto spiegazioni al dirigente dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica durante la tappa del tour a Bergamo per illustrare i contenuti delle nuove norme. L’assessore regionale Viviana Beccalossi nega tutto: «Nelle prossime settimane emaneremo una circolare applicativa che chiarirà tutto. Si tratta di una legge molto complessa. Fino ad ora non è stata presa alcuna decisione». Il direttore generale dell’assessorato regionale al Territorio e all’Urbanistica Paolo Boccolo ammette che il passaggio della legge è «controverso» e che la circolare applicativa servirà per «chiarire in modo inoppugnabile » se i comuni potranno o non potranno approvare varianti per ridurre i residui. Per chiarirlo, sarà decisivo stabilire nella circolare se tra le previsioni di trasformazioni già vigenti potranno essere aggiunte anche quelle che prevedano una riduzione dell’entità e non il rispetto del vincolo delle pari previsioni. Fino a quel momento, però, il dubbio e l’effetto paradossale rimarranno.
Le recenti "opinioni" di Vezio De Lucia e di Maria Cristina Gibelli, che abbiamo pubblicato pochi giorni fa, e il punto cui è giunta la discussione sulle norme volte a limitare il consumo di suolo, ci inducono a riesporre il nostro punto di vista. con molti link nel testo
Nel settembre 2005, nell’ambito di una sessione della Scuola di eddyburg dedicata al consumo di suolo ci si rese conto che in Italia nessuno, sia sul versante della cultura urbanistica ufficiale, sia su quello della politica e dell’amministrazione, si era reso conto della drammaticità del fenomeno, lo aveva denunciato e aveva proposto soluzioni al riguardo. Nei mesi successivi un gruppo di amici di eddyburg elaborò una proposta di legge che voleva costituire un’alternativa alla malfamata proposta Lupi di quegli anni. Essa concerneva i “Principi fondamentali in materia di pianificazione del territorio” (quindi lo stesso tema della legge Lupi) ma aveva il suo focus sul contenimento del consumo di suolo.
La “legge di eddyburg” fu pubblicizzata con un libro, numerosi articoli sulla stampa nazionale, e con una serie di incontri, tra i quali una presentazione ai parlamentari nella Sala delle colonne della Camera dei deputati. Tra il novembre e il dicembre 2007 gruppi di parlamentari delle varie articolazioni parlamentari della sinistra presentarono la proposta di eddyburg come un loro progetto di legge, cosa di cui ovviamente fummo felici.
La XV legislatura si concluse nell’aprile 2009, senza che fosse giunto a compimento l’iter della proposta Lupi né che fosse avviata la discussione delle altre proposte legislative.
Ma il tema era diventato di generale interesse. Ha contribuito notevolmente, nel novembre 2008, la costituzione del forum “Stop al consumo di suolo”, (promosso e organizzato dal sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra) di cui eddyburg fu tra i fondatori.
Gli anni passarono. Nel 2012 il ministro per l’agricoltura Mario Catania definì e fece approvare dal Consiglio dei ministri un ddl «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo», di cui furono ampiamente apprezzate le buone intenzioni ma criticato, spesso severamente, il dispositivo. (vedi qui numerosi scritti in proposito). Ulteriori proposte legislative seguirono. Nessuna giunse all’approvazione, mentre si susseguirono provvedimenti nazionali e regionali che accrescevano, “facilitavano” e “snellivano” l’ulteriore consumo di suolo.
Il blocco immediato dell’irragionevole consumo di suolo (di cui ormai si cominciavano a valutare la quantità e le conseguenze) apparve sempre più urgente. Ma nessuna delle proposte presentate in sede di legislazione nazionale apparve idonea a quella che si rivelava un’emergenza sempre più drammatica, Alcuni degli stessi amici di eddyburg che avevano formulato la proposta del 2006 si convinsero che era illusorio basarsi su procedure che assegnassero un ruolo determinante alle regioni e ai loro poteri.
Nella sintetica relazione allo snello articolato si afferma che la nuova normativa proposta non attiene, come la precedente e quasi tutte quelle sul tappeto, «alla materia “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione», (una disposizione che affida la potestà legislativa alla Regioni, riservando allo Stato la sola determinazione dei principi fondamentali): un percorso - si afferma - inadatto a raggiungere risultati soddisfacenti in tempi ragionevoli. Altrettanto incerti – si prosegue - sarebbero stati i risultati facendo riferimento, per salvaguardare il territorio non urbanizzato, a una apposita categoria da aggiungere a quelle ex lege Galasso, il che avrebbe comportato l’assoggettamento ai tempi e alle determinazioni della pianificazione paesaggistica, che lo Stato e quasi tutte le Regioni hanno di fatto accantonato»
Nella nuova proposta di legge di eddyburg si suggerisce invece di affermare all’art. 1 della proposta «che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Pertanto la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione". Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.
Il testo della proposta e la relazione sono pubblicati in eddyburg del giugno 2013 nel testo dell’articolo di Vezio De Lucia “Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato”.
Ricerche USA sull'influenza delle tipologia insediative sui comportamenti sociali rivelano interessanti corrispondenze. Sarebbe bello se anche nello Stivale ci fossero analoghe ricerche. Millennio urbano, 29 dicembre 2014 Sono le caratteristiche insediative ad orientare le persone verso gli schieramenti politici o viceversa? Negli Stati Uniti è noto da tempo come gli abitanti delle aree urbane dense votino in prevalenza per i democratici, mentre quelli della dispersione suburbana per i repubblicani, ed una recente ricerca ha messo in luce il fatto che l’orientamento politico e la scelta del posto in cui vivere tendano a coincidere. Invece nel nostro paese analoghe rilevazioni sono ancora di là da venire, anche se si potrebbero trovare analogie con le dinamiche statunitensi ad esempio in quelle regioni, come la Lombardia e il Veneto, fortemente caratterizzate dalla dispersione insediativa e da quasi un quarto di secolo inclini a far prevalere lo schieramento politico di centro destra.
Tornando dall’altra parte dell’Atlantico, un nuovo rapporto del Pew Research Center sulla crescente polarizzazione politica mostra quanto grande sia il divario tra liberal, che coincidono con i democratici, e conservatori, identificabili invece con i repubblicani, riguardo a comportamenti e stili di vita. Il fatto che gli appartenenti ai due gruppi tendono a socializzare e ad informarsi solo al loro interno – anche se i conservatori lo fanno in modo più radicale – era già noto da tempo e tuttavia l’ aspetto che spicca di più, perché raramente misurato, sono le divisioni ideologiche tra chi preferisce vivere in luoghi caratterizzati dalla percorribilità pedonale e chi invece si affida alla dipendenza dall’auto tipica dello sprawl suburbano.
La correlazione tra modelli insediativi e voto
L’istituto che ha svolto la ricerca ha chiesto agli intervistati de preferiscono vivere in una zona dove “le case sono più grandi e più distanziate, le ma scuole, i negozi ed i ristoranti si trovano a diversi chilometri di distanza,” oppure dove “le case sono più piccole e più vicine tra di loro, e le scuole, i negozi e ristoranti sono raggiungibili a piedi”. Gli intervistati si sono equamente divisi tra il 49 per cento che sceglie la prima ubicazione e il 48 per cento che preferisce la seconda. Il fatto che il divario circa la preferenza del luogo in cui vivere corrisponda all’orientamento politico all’interno dei due gruppi è la novità messa in luce dalla ricerca. Mentre i tre quarti degli intervistati “costantemente conservatori” preferiscono una ubicazione suburbana come luogo in cui vivere, e solo poco più di un quinto sceglie un ambito urbano caratterizzato dalla pedonalità, tra gli americani “coerentemente liberali” le percentuali sono invertite.
Se da una parte la distribuzione del voto hanno da tempo mostrato una correlazione tra l’orientamento liberal e la densità tipica dei centri urbani – che potrebbe spiegarsi con il fatto che gli abitanti delle città americane sono più spesso poveri ed appartenenti a minoranze – la relazione tra le preferenze di un certo modello insediativo e l’ideologia politica non erano necessariamente così evidenti. Si tendeva a considerare probabile che chi vive in città semplicemente non possa permettersi di vivere nei sobborghi. Al di là delle condizioni economiche non era stata presa in considerazione la possibilità che ci fosse una precisa scelta che ha a che fare con le caratteristiche insediative. Specularmente gli elettori delle circoscrizioni non urbane potevano semplicemente essere conservatori in quanto più prossimi al mondo rurale, espressione di un modello sociale che attribuisce un grande valore alla disponibilità di spazio e di risorse, anche se non particolarmente incline ad usare l’auto per ogni necessità.
Al di là delle condizioni economiche
Al contrario i conservatori non conferiscono alcun valore alla condivisione ed alla diversità e preferiscono investire i loro soldi nei giardini privati piuttosto che in un parco pubblico. Nell’indagine del Pew Research Center emerge che essi hanno più probabilità dei liberal di affermare che è importante per loro di vivere vicino solo a ai loro simili e, rispetto ai democratici, i repubblicani tendono ad essere meno giovani, istruiti e cosmopoliti.
Insomma la questione sulla quale invita a riflettere il rapporto sembra un po’ essere quella ben nota dell’uovo e della gallina: sono le scelte urbanistiche ad esse in grado di modificare gli orientamenti individuali in relazione alla desiderabilità di un certo modello sociale o è la politica che veicola la propria idea di società anche attraverso gli strumenti dell’urbanistica?
Riferimenti
Pew Research Center for People & the Press, Political Polarization in the American Public.
Ben Adler, Why liberals like walkability more than conservatives, Grist, 13 giugno 2014.
Sullo stesso argomento si veda anche, M. Barzi, La città è di sinistra e la campagna è di destra?, Millennio Urbano, 8 marzo 2013.
«La svolta decisiva risale alla primavera 2001. Il governo Amato elimina dal Testo Unico per l’edilizia un articolo-cardine della legge n.10/1977 (Bucalossi). Da quel momento i Comuni sono autorizzati ad utilizzare gli oneri di urbanizzazione “per fare cassa”, per la spesa corrente. Una follia». Left, 20 dicembre 2014
Il governo Renzi annuncia lo stop al consumo di suolo, ma con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità va in direzione opposta. I Comuni continueranno a usare gli oneri di urbanizzazione per “fare cassa”. A danno dell’ambiente, del paesaggio e dei servizi. Impermeabilizzato il 7,3 % di suolo italiano. Napoli il Comune con più cemento e asfalto. Poi Milano. Lombardia e Veneto le regioni più impermeabilizzate. Restano per questo in superficie in tutta Italia 270 milioni di tonnellate di acqua piovana all’anno.
Le buone intenzioni ci sarebbero. In commissione, dopo i recenti disastri alluvionali, il ministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, si è pronunciato per un immediato stop al consumo di suolo. Misura sollecitata da anni da urbanisti (Salzano, De Lucia, Meneghetti, Berdini e altri) e ambientalisti. Finalmente ci siamo? A parole. Nei fatti si va in direzione opposta con lo Sblocca Italia e con la legge di stabilità. Lo ha denunciato l’ex ministro alle Politiche agricole, Mario Catania, firmatario di un disegno di legge contro il consumo di suolo: la legge di stabilità consentirà ai Comuni di impiegare ancora i proventi degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente. L’edilizia dunque potrà essere di nuovo da essi accelerata. In parte è soltanto un’empia illusione perché ci sono centinaia di migliaia di alloggi e di uffici vuoti e invenduti. Ma sarà la recessione a rallentare il consumo di suolo e non la volontà del governo Renzi espressa con la legge di stabilità.
Approvata la legge lombarda che favorisce il consumo di suolo, ben riassunta dalla dichiarazione del rappresentante di Forza Italia che abbiamo usato tra virgolette come titolo. Articoli da la Repubblica e Corriere della Sera Milano, 21 novembre 2014
la Repubblica Milano
di Andrea Montanari
Una colata di cemento grande tre volte la superficie di Milano. Pari a ben oltre mezzo miliardo di metri quadrati di territorio lombardi attualmente non edificati dove nei prossimi due anni e mezzo si potrà costruire. Questo l’effetto più immediato della nuova legge sul consumo del suolo approvata l’altra notte in Consiglio regionale con i soli voti della maggioranza di centrodestra che governa la Regione. Per rendersene conto, basta incrociare i dati dell’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale con quelli sul potenziale consumo di suolo per i prossimi anni, in base ai Pgt, ovvero i piani del governo del territorio già approvati dai comuni lombardi. Di cui 1126 su 1544 sono già stati ufficialmente comunicati. Il totale delle aree di potenziale trasformazione previsto è già approvato ammonta a 414.193.400 metri quadrati. Un dato che sale a circa 550.000.000 metri quadrati con la proiezione sul totale dei comuni lombardi. E visto che la superficie totale di Milano è di 182.000.000 mq i conti sono presto fatti. Nonostante la Lombardia sia già una delle regioni più urbanizzate e cementificate d’Europa, dove negli ultimi anni il suolo è stato consumato al ritmo di 140mila metri quadrati al giorno. L’equivalente di venti campi di calcio.
La nuova legge prevede che per trenta mesi, inizialmente dovevano essere 36, tutto resterà come prima. Nel senso che i progetti in essere che rientrano nei Pgt approvati potranno essere confermati da sindaci e costruttori entro due anni e mezzo.
Il testo uscito dall’aula del Pirellone è stato effettivamente parzialmente modificato, ma non è detto che l’effetto finale sarà quello di evitare nuovo consumo del suolo. Non è affatto vero che da oggi non si potrà più costruire su aree agricole. Molti terreni coltivati infatti secondo gli attuali Pgt sono aree trasformabili. Il che significa che entro 30 mesi una quota di queste aree potrebbe andare persa. È vero che la nuova legge prevede sa subito uno stop alle varianti, ma c’è una scappatoia. Basterà che i comuni utilizzino lo strumento del Piano integrato di Intervento, cioè dimostrino un interesse pubblico, per esempio una strada o una pista ciclabile.
L’aumento fino al 30 per cento degli oneri di urbanizzazione per le edificazione su suoli liberi, ad esempio — sostiene Legambiente — rischia di essere un blando disincentivo per i privati, troppo modesto per essere efficace. Considerata la scarsa incidenza di questo contributo sul costo finale dell’edificio. Per paradosso, invece, potrebbe addirittura diventare «uno stimolatore di appetiti per le finanze esigue di molti comuni, che confidano di tornare a far cassa sulla svendita del territorio». Il periodo transitorio ridotto a trenta mesi non sembra dare ulteriori garanzie. Sia perché la legge non esclude la possibilità di proroghe, ma soprattutto perché le nuove norme non impediscono ai comuni di confermare le precedenti previsioni di ampliamento contenute nei Pgt, anche oltre la decorrenza del termine. Per non parlare del fatto che la nuova legge non prevede controlli o sanzioni.
I dati sul consumo del suolo in Lombardia elaborati da Legambiente e dal Centro di Ricerca sui consumi di suolo mostrano una situazione allarmante. Dal 1999 al 2007 sono stati urbanizzati 34.163 ettari e si sono persi in maniera definitiva 43.275 ettari su superfici agricole. Mentre in meno di dieci anni le aree antropizzate sono passate dal 12,6 per cento al 14.
Ambientalisti divisi, opposizione compatta: “Favoriti i costruttori”
Per Roberto Maroni e per l’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi «è una svolta epocale», ma per il coordinatore del centrosinistra in Regione Umberto Ambrosoli resta «una legge pessima. Abbiamo votato contro perché in Lombardia per l’ambiente si e si deve fare di più».
Anche dopo il via libera del Consiglio regionale la nuova legge sul consumo del suolo continua a dividere. Non solo il mondo politico, visto che le nuove norme sono state approvate con i soli voti della maggioranza di centrodestra, ma anche quello ambientalista che definisce «ammazzasuolo » le nuove norme. «In Lombardia si continuerà a spalmare cemento sui suoli agricoli» attacca il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine. Si spacca anche il Wwf. La delegata Paola Brambilla esprime «grande apprezzamento » e parla di «risultato importante che dovrebbe ora sti- il governo». Di tutt’altro avviso il capogruppo del Pd Enrico Brambilla che osserva: «La maggioranza si è approvata la sua legge. Nessuno si do- vrà stupire se nei prossimi anni il consumo del suolo aumenterà ». L’assessore Beccalossi fa notare «che i miglioramenti apportati al testo sono utili, anmolare che grazie all’accoglimento di emendamenti importanti dell’opposizione », Il Movimento Cinque Stelle denuncia insulti e aggressioni in aula. Pare che dai banchi del centrodestra sia volata addirittura una bestemmia. I grillini chiamano in causa il presidente del Consiglio regionale ciellino Raffaele Cattaneo per non essere intervenuto.
Corriere della Sera Milano
NUOVA LEGGE:
DIVISI SUL NO AL CEMENTO
di Laura Guardini, Paolo Marelli
MILANO - Come a Cassinetta di Lugagnano — «apripista» nel 2007 — Solza, Ronco Briantino, Ardesio, Ozzero, Pregnana Milanese e altri ancora tra i 1.531 comuni lombardi che hanno già scelto il «consumo di suolo zero»: questa è la prospettiva che il territorio regionale può vedersi aperta, fra 30 mesi, dalla nuova legge approvata l’altra notte dal consiglio regionale, con 41 voti della maggioranza e 27 «no» di Pd, M5S e Patto Civico.
Sei sono i punti cardine della nuova normativa: da subito sono impossibili varianti su suoli con destinazione agricola; sono previsti incentivi per il recupero di aree ed edifici dismessi; scende da 3 anni a due e mezzo il tempo utile per realizzare i progetti di nuove costruzioni su aree ex agricole divenute edificabili: in Lombardia si tratta di 600 milioni di metri quadrati. E ancora: le infrastrutture sovracomunali (autostrade e ferrovie) rientrano nel computo del suolo «mangiato»; la soglia del consumo dovrà basarsi sulle indicazioni Istat relative all’aumento della popolazione. Infine, la legge prevede disincentivi, con un balzello del 5% a carico dei costruttori che intendono edificare «dentro il tessuto urbano» e un aumento degli oneri di urbanizzazione da un minimo del 20 a un massimo del 30% al di fuori dei centri abitati.
Dopo nove mesi di veti incrociati, litigi e modifiche in corso d’opera, è così finalmente arrivata al traguardo la nuova normativa che manda in pensione quella del 2005. Una vittoria del cemento secondo alcuni, del verde secondo altri: nello stesso mondo ambientalista le due maggiori organizzazioni, Wwf e Legambiente, esprimono parere opposti.
Paola Brambilla, presidente regionale del Wwf, esulta e parla di «un risultato importante che ora dovrebbe stimolare il governo all’emanazione di una legge che riconosca il valore ecologico del suolo»: si tratta di considerare la terra come bene comune, come «casa di tutti gli habitat naturali». È invece una bocciatura quella espressa da Damiano Di Simine, numero uno di Legambiente Lombardia: «Il futuro non sono le lottizzazioni, ma le ristrutturazi0ni dei vecchi edifici. Dopotutto il mercato immobiliare è da tempo senza domanda: c’è chi costruisce, ma non c’è chi compra. Tanto che nella nostra regione ci sono 1,4 milioni di vani vuoti, a cui si sommano centinaia di capannoni e uffici non utilizzati».
Su questo stesso tema, che cavalca da anni, torna anche Coldiretti, ricordando che sono ben più di 4 mila i chilometri quadrati (una superficie equivalente alle province di Cremona e Mantova) sottratti dal cemento all’agricoltura tra il 1990 ed oggi: «Finalmente l’argomento è stato affrontato — dice il presidente regionale Ettore Prandini —. Meglio sarebbe se lo stop alle costruzioni fosse immediato. Ma durante la finestra dei 30 mesi di edificazione possibile, probabilmente sarà ancora la crisi a fare da calmiere e a frenare il cemento. Per questo noi auspichiamo che almeno una parte di quei 600 milioni di metri quadrati tornino all’originaria destinazione agricola».
«Questa è una brutta legge, il suolo lombardo aveva bisogno di ben altro. Abbiamo cercato di ridurre il danno e in parte ci siamo riusciti», dicono invece i capigruppo di Pd e Patto Civico, Enrico Brambilla e Lucia Castellano. Negativo anche il giudizio dei Cinque stelle: «È una legge sbagliata — sottolinea Gianmarco Corbetta — che favorirà comunque il consumo di suolo». Via libera invece all’unanimità del consiglio regionale all’istituzione della «Banca della terra lombarda», che punta a «mantenere e incrementare la produttività agricola e a favorire il ricambio generazionale, affidando ai giovani e alle donne le terre demaniali abbandonate».
L'esempio della legge urbanistica della Toscana: la prima legge urbanistica regionale che azzera il consumo di suola. Intervento al convegno Stop al consumo del territorio, Cassinetta di lugagnano, 15 novembre 2014, in calce il link alla locandina
Finalmente una bella notizia: la Regione Toscana ha approvato una straordinaria legge di riforma urbanistica, efficace e immediatamente operativa, che mette in mora Governo e Parlamento, e conquista di prepotenza il centro del dibattito. Ci dà forza, e mette a nudo l’ipocrisia di quanti continuano a dichiarare di condividere l’obiettivo di contenerere il consumo del suolo con la stesso atteggiamento che nell’ultimo quarto di secolo è stato assunto a proposito della sostenibilità ambientale. Proclamandone universalmente e solennemente l’importanza, ma in pratica quasi sempre relegandola a una stanca, inconcludente retorica.
Mi riferisco al fatto che si continua a parlare di contenere il consumo del suolo, un obiettivo così vago e generico che va bene a tutti (anche a Lupi). Occore invece non contenere, ma bloccare, subito, il consumo del suolo. I dati sono ormai abbastanza noti, ricordo solo che in circa 60 anni, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre la popolazione italiana è cresciuta, più o meno, del 20%, il consumo del suolo è cresciuto piu o meno del 1.000%. Non dobbiamo perdere altro tempo, dobbiamo pretendere risultati immediati ed efficaci.
2. Stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero
Lo stop al consumo del suolo è un cambiamento di carattere epocale. È vero che la rendita continuerà ad esistere anche dentro al perimetro urbanizzato, ma la sua dimensione – in senso spaziale e finanziario – sarà comunque ridotta, disarticolata, frammentata, formata da una pluralità di soggetti, non più concentrata in monopoli-oligopoli potentissimi che controllano la stampa, la televisione, l’amministrazione e la politica.
Tutto ciò significa anche un cambiamento del modo di fare urbanistica, un mestiere in larga misura da reinventare, anche da un punto di vista tecnico e professionale: una serie di parametri (per esempio altezza e densità) che abbiamo tradizionalmente utilizzato come limiti massimi, dobbiamo imparare a usarli anche come minimi.
4. È finita un'era
Stime ragionevoli prevedono 15-20 anni prima che un siffatto percorso legislativo produca risultati effettivi. Per non dire della Campania o del Lazio, Regioni fra quelle che peggio governano il proprio territorio, i cui tempi saranno ancora più lunghi, e provvedimenti di tutela si avranno quando tutto lo spazio disponibile sarà ricoperto di una repellente crosta di cemento e di asfalto (Antonio Cederna).
5. L'alternativa vincente
6. La riforma urbanistica della Toscana
E impone che le cose da fare per soddisfare i bisogni pregressi, vanno tutte costruite dentro il perimetro urbanizzato. Fuori del perimetro urbanizzato la legge dichiara esplicitamente che non si può realizzare edilizia residenziale. Insomma, in Toscana mai più si potranno fare case in campagna. È proibito per legge. Altri manufatti, diversi dalle residenze, possono essere realizzati nel rispetto di rigorose procedure, che tra l’altro prevedono, per ogni intervento, il potere di veto della Regione.
8. Chi è Maurizio Lupi
a) giugno 2000 – Lupi assessore all’urbanistica del comune di Milano (sindaco Gabriele Albertini) – propone un importante documento, Ricostruire la grande Milano, dovuto, tra gli altri, all’urbanista Gigi Mazza. Documento che ribalta la logica e il diritto prevedendo che i progetti pubblici e privati di trasformazione urbanistica non debbano uniformarsi alle prescrizioni del piano regolatore ma, al contrario, dev’essere il piano che si adegua ai progetti approvati. Insomma, il piano regolatore come un catasto sul quale si registrano i progetti edilizi una volta approvati. Sembra la Napoli di Achille Lauro, quando si diceva che il piano regolatore serve a chi non si sa regolare. Da allora l’urbanistica milanese ha dettato legge nel resto d’Italia, a Roma soprattutto.
b) Lupi (intanto deputato di Forza Italia) conferma la propria avversione all’urbanistica pubblica nel 2005, quando la Camera dei deputati (con 32 voti favorevoli del centro-sinistra) approva un suo progetto di legge che estende a tutta l’Italia il modello milanese, tra l’altro abrogando gli standard urbanistici e la legge del 1942. Nel sostanziale silenzio della stampa e della cultura urbanistica ufficiale, con il consenso dell’INU. Soltanto eddyburg, allora come oggi, mobilitò il mondo ambientalista, pubblicando anche un pamphlet. All’inizio del 2006, quando la proposta stava per essere definitivamente approvata, grazie al senatore verde Sauro Turroni i senatori di Alleanza Nazionale si opposero alla proposta difendendo la legge urbanistica approvata negli anni del fascismo.
c) 2014: secondo disegno di legge urbanistica di Maurizio Lupi (stavolta autorevole esponente del Nuovo Centrodestra, ministro delle Infrastrutture del Governo Renzi).
Lettera appello della presidente onoraria Fondo Ambiente Italia al presidente della Lombardia, contro il disegno di legge per “arginare il consumo di suolo” che ne aumenterà il consumo. Corriere della Sera Milano, 10 novembre 2014
Gentile Presidente Maroni, sono sicura che Lei e la Sua giunta non vorrete passare alla storia come coloro che non hanno mosso un dito per salvaguardare quanto resta dei paesaggi agricoli della pianura lombarda, tra le più fertili d’Europa, ambita perfino dall’Impero austro-ungarico. La legge che la Sua giunta sta per approvare, pur intitolata alla riduzione del consumo di suolo e alla riqualificazione di quello degradato, non contiene alcuna disposizione che vada in direzione della salvaguardia del territorio agricolo. Le buone intenzioni sono tutte rimandate al futuro cioè a tre anni. Ripeto: Vi apprestate a varare i vincoli all’edificazione dei terreni agricoli che scatteranno infatti solo tra tre anni. Nel frattempo sarà data via libera all’espansione prevista dai Piani di governo territoriale che minacciano seicento chilometri quadrati di aree agricole: più di tre volte la città di Milano!!
Ad approfittarne saranno solo i costruttori, in una corsa al consumo di suolo fatale per la Lombardia, già compromessa come nessun’altra regione d’Italia, anche se in Lombardia vi sono tuttora 170.000 vani sfitti (dato ufficiale 2013). Questa gigantesca perdita di suolo ci espone alle tragedie del dissesto idrogeologico, con la conseguente scomparsa dei fontanili, colate di cemento, sempre più asfalto e strade, discariche anche di sostanze tossiche, e ulteriori attentati alla biodiversità, oltre allo scempio di un paesaggio sempre più degradato e sempre più lontano dalla propria storia e dall’identità regionale, tema che sappiamo quanto le stia a cuore. Invece i paesaggi agricoli possono rappresentare risorse concrete per uno sviluppo sostenibile. I prodotti della filiera corta (locali e freschi) sono ormai i più ambiti sulle nostre tavole e possono rappresentare una risorsa concreta per favorire l’occupazione e l’economia dell’indotto, oltre che per proteggere la salute dei cittadini. Expo rilancerà da Milano nel mondo il tema «nutrire il pianeta», ma come si concilia questa iniziativa con il drastico consumo dei suoli agricoli che l’Italia rinuncia a salvaguardare proprio a partire dalla regione Lombardia? Perché non si incentiva la rigenerazione delle troppe aree postindustriali che circondano Milano?
Queste se trasformate possono diventare risorse per il rilancio dell’economia, per la ripresa dell’occupazione e per favorire un nuovo orientamento del settore immobiliare, oggi fortemente in crisi. Egregio Presidente, faccio appello alla Sua responsabilità, pubblica e personale, pregandola di non consentire l’approvazione di queste disposizioni. Altrimenti i cittadini dovranno accusare Lei e la Sua giunta di aver consentito la cementificazione della Lombardia. Con deferenti saluti carichi di fiduciosa speranza.
Dal presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica sezione Lombardia, ennesima e significativa netta stroncatura del disegno di legge regionale, cortina fumogena per il business as usual. La Repubblica Milano, 6 novembre 2014, postilla (f.b.)
La proposta di legge regionale per la riduzione del consumo di suolo che si avvia alla discussione in Consiglio dichiara nelle finalità di voler arginare l’ininterrotta perdita di suoli produttivi agricoli e la cementificazione che nel recente passato hanno visto purtroppo la Lombardia al primo posto nelle statistiche nazionali. Tuttavia il passaggio dalla prima stesura del progetto di legge a quella attuale, assai differenti, finisce per dare importanza preponderante alla tutela degli interessi immobiliari rispetto all’urgenza di limitare l’erosione di risorse non rinnovabili che, ricordiamo, vanno a scapito in primo luogo della produzione agricola lombarda, che rappresenta una quota significativa del prodotto nazionale del settore.
In sintesi, i punti più critici della proposta di legge sono i seguenti: si considerano da tutelare le sole aree perimetrate come agricole dai Pgt e non quelle agricole di fatto (né quelle naturali); manca una politica concreta di sostegno ai processi di rigenerazione urbana, vera alternativa allo spreco di suolo agricolo; non vi è nessuna proposta di applicazione della fiscalità locale come leva per disincentivare l’urbanizzazione dei suoli agricoli (essendo irrisoria la sola prescrizione di una maggiorazione del 5% del contributo di costruzione); si ratificano e confermano tutte le previsioni dei Pgt approvati fissando un limite di tre anni per presentare piani attuativi delle aree di espansione (che complessivamente nella regione assommano a quasi 600 chilometri quadrati); le grandi infrastrutture e opere pubbliche sono escluse da ogni bilancio, come se esse non erodessero suolo libero.
Ne risulta un insieme preoccupante che non solo rinvia il rinnovamento delle procedure a un nuovo ciclo di strumenti urbanistici, ma soprattutto favorisce nei fatti un’accelerazione dei progetti nel triennio di moratoria, ottenendo l’effetto opposto a quello desiderato, ovvero una più veloce progressione del consumo di suolo.
Una compromissione che nella realtà si fermerà in molti casi sulla carta perché le previsioni insediative non sono sorrette da una domanda reale, ma sottrarrà comunque terre ai programmi agricoli e avrà effetti perversi per gli stessi operatori immobiliari. È indispensabile quindi riprendere le fila di un provvedimento utile e necessario, per «rimetterlo in carreggiata» e rendere concreto l’impegno della Regione Lombardia a contrastare il consumo di suolo.
La via, in parte già tracciata nella prima stesura del testo di legge, corrisponde alle tendenze che si affermano nel quadro europeo e che possono aiutare anche il settore immobiliare a un riorientamento necessario per la sua stessa ripresa: si tratta di agire con misure fiscali consistenti che rendano svantaggioso costruire su aree libere, di stabilire meccanismi compensativi per sostenere la concentrazione dell’edificazione sulle aree interne da rigenerare, di porre limiti stringenti al consumo di suolo e tutelare le aree produttive agricole (nell’anno di Expo).
postilla
Forse non c'è nulla di meglio, di questa stroncatura neutra e necessariamente blanda, non politicamente schierata, per chiarire sino a che punto il disegno di legge “contro il consumo di suolo” abbia finito per scontrarsi con la natura stessa dell'attuale ceto politico padano e degli interessi che rappresenta: se non si urbanizza che le abbiamo fatte a fare tutte le nostre autostrade e compagnia bella? Dove va a finire il primato economico vero o presunto della regione, il luminoso futuro dello sviluppo infinito dei metri quadri di inutile terreno convertiti in solido valore finanziario? Perché questo è il punto: nella mente della classe dirigente non esiste, una situazione in cui tutto non giri attorno al medesimo nucleo centrale, rappresentato appunto dalla mobile frontiera dell'urbanizzazione, dallo svuotare di qui per riempire di là eccetera eccetera. E la domanda è: moralizzazioni a parte, razionalizzazioni a parte, si è in grado di esprimere qualsivoglia modello alternativo, oppure no? (f.b.)
Come contrastare il consumo di suolo? Lasciando invariato quanto previsto dai piani, rinviando ogni valutazione di tre anni. Una proposta di legge della Giunta lombarda, guidata dalla Lega Nord. Ciascuno ama la sua terra a modo suo. (m.b.)
«Belpaese?. Il rapporto Svimez sullo spopolamento del Mezzogiorno e i dati Istat sull'abnorme quantità di case inutilizzate raccontano di un inarrestabile declino e di un modello sbagliato. Lo Sblocca Italia in realtà sblocca solo le speculazioni finanziarie e la cementificazione selvaggia». Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)
La lettura comparata del rapporto della Svimez sulle condizioni del Mezzogiorno d’Italia e l’analisi dei primi dati di dettaglio Istat sulle abitazioni degli italiani svolta da Alberto Ziparo definisce un quadro sconvolgente. Viene fuori un paese che versa in una crisi sempre più preoccupante che dovrebbe riempire l’agenda di qualsiasi governo degno di questo nome. Dice la Svimez che nel 2013 sono emigrati ancora 116 mila lavoratori; che le famiglie povere sono aumentate del 40%; che –ancora una volta– il numero dei decessi supera quello dei nati: un evidente segnale di un inarrestabile declino. Nella Campania del quarto condono edilizio ci sono 65 mila appartamenti vuoti. In Calabria ce ne sono 90 mila e dice sempre Ziparo in alcuni paesi dell’Appennino interno ci sono più case vuote che abitanti. Il deserto.
Il quadro si completa in modo ancora più drammatico se si leggono le dinamiche dei valori immobiliari. A parte alcune città maggiori e i pochi luoghi di turismo di qualità, dall’inizio della crisi del 2008 i valori delle case delle famiglie sono diminuiti nella misura compresa tra il 30 e il 50%. Ci sono famiglie che si sono indebitate per comprare un alloggio che oggi vale meno di quanto è stato pagato. Una popolazione che diventa sempre più povera, senza lavoro e sempre più priva della rete del welfare, vede svanire anche il risparmio rappresentato dalla propria abitazione.
Per completare il quadro del declino del paese aggiungiamo le due principali linee di azione con cui il governo Renzi intende dare riposta a questa sconvolgente realtà. Al primo posto troviamo le politiche di precarizzazione del lavoro dipendente del Jobs act. Dice la Svimez che gli investimenti produttivi nel sud sono crollati del 53% e il dato va letto insieme alla desertificazione umana. Chi mai investirebbe nel sud se la manodopera giovane emigra? Non c’entrano dunque nulla i diritti dei lavoratori: occorrerebbe definire politiche industriali sostenute da risorse pubbliche per realizzare infrastrutture immateriali e servizi alle imprese. Ma di questo il governo non parla. È fermo all’articolo 18.
Del resto uno dei più ascoltati consiglieri di Renzi è il piagnucoloso esponente della finanza creativa che si lamentava di aver perduto sei ore per arrivare da Londra alla Leopolda. Conosco pendolari che ogni giorno perdono 4 ore della propria vita negli spostamenti per recarsi al lavoro, ma la cultura liberista ignora questi dati concreti dipingendo un mondo che non esiste. Peraltro, la finanza d’assalto non crea posti di lavoro ma solo immense fortune da reinvestire nella roulette finanziaria. Con le politiche del governo non si creeranno posti di lavoro e continuerà il declino del sud.
Al secondo posto delle priorità del governo Renzi è, come noto, lo Sblocca Italia, che contiene grazie alla strenua azione del ministro Lupi e dei poteri che lo sostengono, una ulteriore facilitazione alla costruzione di nuove case. Dai dati Istat viene invece fuori anche un altro numero sconvolgente: nel nostro paese ci sono 31 milioni di alloggi di cui 7 milioni vuoti. Ci sono 24 milioni di famiglie e se anche si considera la quota delle seconde case (pari circa a 4 milioni) esiste una quota invenduta localizzata in tutte le aree urbane italiane pari ad almeno 3 milioni di alloggi.
Anche nel caso dello Sblocca Italia è stata la finanza speculativa a pretendere l’approvazione di alcuni articoli. Quello per esempio che consente di agevolare l’azione delle Società di investimento immobiliare quotate (Siiq, art 26) e quella che fornisce ampie possibilità di intervento alla Cassa depositi e prestiti di Franco Bassanini nel poter mettere le mani nel prezioso patrimonio immobiliare pubblico (art. 10). Siamo pieni di alloggi vuoti? Costruiamone altri. I valori immobiliari sono ai valori minimi? Svendiamo alla finanza speculativa internazionale il patrimonio pubblico.
Il primo ministro Renzi diverte spesso il volgo con battute fulminanti, come quella sui gettoni telefonici che non possono essere utilizzati per far funzionare le attuali tecnologie. Divertente. Provi allora a mettere in fila i dati Svimez e Istat con le politiche che sta portando avanti con tanta determinazione. Se si impegna capirà che sta assestando l’ultimo decisivo colpo all’intero paese mentre la festa della speculazione finanziaria continua senza fine.
Ritiri allora Jobs act e Sblocca Italia e si concentri nelle azioni ragionevoli proposta dalla Svimez per il sud e, soprattutto avvii la messa in sicurezza del paese con soldi veri. Non con numeri propagandistici senza coperture reali.
«Gran parte del nostro suolo è edificato, il doppio di venti anni fa. Da tempo non si costruisce per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito». La Repubblica, 27 ottobre 2014
Nel nostro ormai ex Belpaese, il combinato tra la crescita di energia nell'atmosfera causata dai cambiamenti climatici e i dissesti del territorio da ipercementificazione generalizzata rivela effetti sempre più drammatici. Diverse ricerche ne indagano i motivi, anche per quanto riguarda gli aspetti quantitativi.
Il primo dato che emerge è la recente forte crescita di suolo consumato: meno di venti anni fa, l'ingombro era pari alla metà. Il contraltare di questo incredibile consumo di suolo - che significa distruzione di sistemi idrogeologici e di conseguenza dissesti, oltre che perdita di paesaggio - è costituito dall'abnorme quota di volumi, spesso vuoti che sono stati edificati nella "città diffusa" italiana.
I dati del censimento 2011 mostrano che gli appartamenti inutilizzati sono più di sette milioni: in attesa del dato esatto relativo ai vani, infatti, ipotizzando un'ampiezza media di 2,8 stanze per appartamento, si può stimare una quota di circa 20 milioni di stanze vuote. L'aumento di vuoto nel decennio è stato pari al 350%. I dati conclusivi forniti oggi dall' Istat , sono impressionanti: oggi il numero degli edifici presenti sul territorio nazionale è pari a circa 14,5 milioni per poco più di 31 milioni di appartamenti residenziali. In attesa di avere il dato netto anche su volumetrie e stanze, appare accettabile la stima di OLT (Osservatorio sui Laboratori Territoriali) di almeno di 18 miliardi di metri cubi edificati, di cui 15,5 miliardi (84,3%) residenziali; laddove il fabbisogno nazionale aggregato è di 6,2 miliardi di metri cubi (siamo 62 milioni di persone, includendo una stima molto largheggiante anche degli immigrati non censiti).
Le Regioni meridionali esasperano il quadro nazionale: la Campania presenta circa 1 milione di edifici, di cui 65.000 vuoti e inutilizzati per una popolazione di 5.760.000 abitanti; la Puglia ha 1.100.000 edifici di cui 54.200 vuoti per quattro milioni circa di abitanti; la Basilicata 117.000 edifici di cui 11.700 vuoti per 580.000 abitanti; la Sicilia 1.722.000 edifici di cui 132.000 vuoti per circa 5 milioni di abitanti; la Calabria 1.250.000 alloggi, di cui 420.000 vuoti per poco meno di 2 milioni di abitanti; la Sardegna presenta "solo" 570.000 edifici, di cui 70.000 vuoti o inutilizzati, per 1.640.000 abitanti.
Il dato relativo agli appartamenti vuoti è strabiliante: quasi un alloggio su quattro è vuoto, con una "punta" presentata ancora dalla Calabria con una quota pari al 40%; seguono Sicilia e Sardegna con circa il 30% del patrimonio abitativo inutilizzato. In Piemonte 1 alloggio su 4 è vuoto, laddove in Veneto e Toscana il rapporto è di uno su cinque circa poco meno del Lazio (22%) e poco più della Lombardia (16%).
Per quanto riguarda le città, in attesa del dato finale, si possono considerare consistenti le proiezioni parziali, che presentano quote di vani vuoti superiori a 100.000 a Torino, Milano e Roma, poco meno a Napoli, decine di migliaia nelle città di Venezia, Padova, Bologna, Firenze e Genova. In diverse città del sud il numero dei vani costruiti supera quello degli abitanti (ancora in Calabria, a Reggio, "il top" con 40.000 stanze in più dei residenti!). In molte aree interne, non solo meridionali, gli edifici sono più degli abitanti. Emerge una considerazione: solo fino a venti anni fa il dato forse più significativo era il rapporto abitanti/stanze. Con il censimento 2001, per l'emergere della "cascata di case", oltre alla rilevanza di aspetti più sociologici, quale la tendenziale forte crescita delle famiglie mononucleari, è apparso consistente parlare in termini di abitante/appartamento. Oggi diventa significativo e iconico il rapporto abitante/edificio! In Piemonte abbiamo poco più di 3 abitanti per edificio, in Lombardia poco meno di 5, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5. Nelle regioni meridionali abbiamo addirittura meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia, 2,5 in Calabria (!), 5 in Campania, 3,2 in Basilicata, poco meno di 4 in Puglia, che è in linea con il dato medio nazionale.
Ci siamo chiesti a lungo perché nel nostro paese si continuasse a costruire, a dispetto del declino demografico (la quota di immigrazione appare tuttora relativa) e socioeconomico. La spiegazione è stata fornita dagli studiosi di marketing immobiliare: da tempo non si costruisce più per la domanda sociale: la rendita fondiaria, poi immobiliare, si è trasformata sempre più in finanziaria. I "nuovi vani" dovevano costituire le "basi concrete" per "costruzioni virtuali" di fondi d'investimento o risparmio gestito. A parte la quota di riciclaggio di capitale illegale, facilmente intrecciata a essa. La schizofrenia delle politiche urbanistiche delle ultime fasi ha largamente favorito tutto ciò, con accelerazioni da parte del presente governo, per cui tutela e attenzione all'ambiente e al paesaggio sono solo declaratio: in realtà si tenta di continuare ad aggirarle per realizzare nuove "Grandi opere inutili" e cementificazioni; come dimostrano lo "Sblocca Italia" e il ddl Lupi, da cancellare subito.
Alberto Ziparo è professore associato in Pianificazione Urbanistica presso l'Università degli Studi di Firenze
Una legge per il contenimento del consumo di suolo, che (roba da matti) invece di stabilire cosa lo è e cosa no, prevede «criteri che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo». Articoli di Andrea Montanari e Ilaria Carra. La Repubblica, ed. Milano, 24 ottobre 2014 (f.b.)
Nuove costruzioni nessun vincolo per almeno tre anni
di Andrea Montanari
Accordo fatto nella maggioranza di centrodestra che governa la Regione Lombardia sulla nuova legge sul consumo del suolo. Ridimensionato il progetto dell’assessorato regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi (FdI) che prevedeva restrizioni anche retroattive. Il vincolo scatterà solo tra tre anni. I progetti già previsti nei piani di governo del territorio dei Comuni potranno andare avanti. Vincolati solo i terreni agricoli, ma solo se non sono già destinati ad edificazioni. Il via libera del Consiglio regionale è previsto a metà novembre.
Restrizioni non più retroattive, tre anni di tempo per Comuni e costruttori per adottare le nuove regole e approvare i progetti attuativi e vincoli solo sui terreni agricoli sui quali non siano ancora previste destinazioni edificatorie. L’accordo raggiunto a fatica nella maggioranza di centrodestra sulla nuova legge sul consumo del suolo che sarà illustrato oggi al Pirellone, a prima vista, appare una netta vittoria della lobby dei costruttori, che avevano alzato le barricate contro l’iniziale testo molto restrittivo portato in giunta dall’assessore regionale all’Urbanistica e Territorio Viviana Beccalossi, di Fratelli d’Italia, nell’ormai lontano febbraio di quest’anno. Un compromesso raggiunto dopo mesi di liti, veti incrociati, che per l’immediato dovrebbe impedire esclusivamente nuove varianti per cambiare la destinazione d’uso dei terreni attualmente agricoli. Ma solo per il futuro.
I fautori del nuovo testo spiegano che si è voluta evitare una pioggia di ricorsi e contenziosi con le imprese di costruzione, se fosse stato approvato il vecchio progetto di legge, che di fatto stabiliva il blocco totale al consumo di nuovo suolo sul territorio lombardo. Un divieto che a questo punto dovrebbe scattare tra tre anni. Nel frattempo, da un lato i Comuni dovranno adeguarsi alle nuove regole senza dover riapprovare i loro Pgt. Mentre le imprese di costruzione potranno verificare se i loro progetti già previsti saranno ancora in linea con la domanda di abitazioni e nuovi edifici. Inoltre, entro un anno la Regione approverà il nuovo Piano territoriale regionale che conterrà le nuove regole nel dettaglio.
La nuova legge sul consumo del suolo, infatti, non dovrebbe più contenere i limiti volumetrici che erano previsti nel primo testo approvato dalla giunta, per sostituirli con «criteri» che definiranno di volta in volta il concetto di consumo di suolo. Determinante per raggiungere il nuovo accordo la mediazione di Forza Italia e Nuovo centrodestra, visto che finora erano stati presentati ben quattro progetti di legge differenti. Non è difficile immaginare, però, la delusione delle associazioni ambientaliste. Ora il nuovo testo dovrà iniziare l’iter per l’approvazione in commissione Territorio prima di approdare in Consiglio regionale a metà novembre.
La colata di cemento sul bacino del Seveso
di Ilaria Carra
Il comune di Varedo è uno dei casi più emblematici. Negli ultimi dieci anni la superficie urbanizzata, in questa cittadina della bassa Brianza, è cresciuta del 10 per cento, salendo così al 67. Capannoni, edifici pubblici, abitazioni private, parcheggi: in una parola, cemento. Ma nello stesso periodo, i nuovi abitanti sono aumentati “solo” del 2,5 per cento. OGNI nuovo cittadino, cioè, ha occupato idealmente mille metri quadri di terreno, spesso per farci una villetta con giardino, che prima era libero. Una sproporzione netta, per gli esperti, tra il consumo di suolo e le esigenze demografiche. Non è un caso isolato, questo, tra i vari comuni lungo il bacino del Seveso, il fiume maledetto che in 140 anni ha causato 350 allagamenti, l’ultimo l’8 luglio portando in dono oltre venti milioni di danni anche a Milano città. E quanto si è costruito in questi comuni è tutt’altro che secondario in questa partita.
Il ragionamento è questo: un terreno vuoto fa da spugna. Un dato per capire: un ettaro di prato è in grado di assorbire 3,8 milioni di litri di acqua, una quantità pari a una pioggia di 400 millimetri. Lo stesso ettaro, se urbanizzato, non solo non trattiene nulla ma produce anche un costo sociale di 6.500 euro ogni anno. Perché se l’acqua, quando piove, non s’infiltra nel terreno perché incontra ostacoli di qualsiasi natura — da un capannone a un edificio fino a un parcheggio asfaltato — il flusso scorrerà e riempirà più velocemente il fiume, nella fattispecie il Seveso, che strariperà prima. Tocca dunque alle amministrazioni governarne il flusso, ovvero farsi carico del drenaggio che non avviene in modo naturale causa cemento.
La fotografia dei livelli di urbanizzazione la scatta il Politecnico, che da anni assieme a Legambiente ha una squadra di esperti incaricata proprio di studiare gli effetti sull’ambiente del consumo di suolo. E lungo l’asse del Seveso sono visibili a ogni esondazione. È qui che si arriva a picchi di 80 per cento di territori costruiti, specialmente a valle, nei comuni verso Milano. Bresso su tutti, ma anche Bovisio Masciago, Cinisello Balsamo. Ma ci sono anche comuni del Comasco di pochi abitanti, come Montano Lucino, dove si continua a costruire ben oltre la necessità demografica.
«Se i terreni attorno al bacino del Seveso vengono progressivamente impermeabi-lizzati, una quantità maggiore di acqua arriva nel fiume in un tempo inferiore — spie- ga Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale ambientale al Politecnico —. L’acqua va dove vuole e contribuisce alla formazione delle piene: il fiume è come un registratore, ci sono stati comportamenti urbanistici fuori controllo sia a monte sia a valle dell’asse del Seveso». Tradotto, si è costruito troppo. Lo pensa anche il ministro all’Ambiente, Gian Luca Galletti, che tre giorni fa, dopo la presentazione del maxi progetto per contenere il Seveso per il quale il governo promette di sborsare 140 milioni, diceva che «le cause dell’attuale condizione di dissesto idrogeologico, e si pensi, per stare sull’attualità, ai fiumi Seveso, a Milano, e Bisagno, a Genova, vanno ricercate anche nell’eccessivo consumo di suolo dovuto alla speculazione edilizia e all’urbanizzazione senza regole che hanno trasformato radicalmente la morfologia dei suoli».
... e intanto nella padania che nutre il pianeta ...
Consumo di suolo in pratica: al giorno d'oggi per fortuna esiste Google Earth, che consente al volo di paragonare a colpo d'occhio la vecchia sede con quella nuova, e suggerire un paio di osservazioni. La Repubblica Milano, 13 ottobre 2014, postilla (f.b.)
La firma di un archistar per il nuovo dipartimento di Veterinaria della Statale. Si tratta dell’architetto giapponese Kengo Kuma, autore del progetto che verrà presentato nei prossimi giorni dai vertici di via Festa del Perdono. È la ciliegina sulla torta di un lungo — e tormentato — processo di trasferimento del dipartimento dall’attuale sede di via Celoria al nuovo polo di Lodi, molto più grande e accogliente degli spazi di Città Studi.
Il progetto di trasferimento risale al 1998, quando l’ateneo guidato dall’allora rettore Enrico Decleva aveva deciso di trasferire a Lodi la facoltà (insieme con quella di agraria): da allora sono stati spesi 40 milioni che hanno portato alla costruzione della clinica veterinaria per grandi animali, del centro zootecnico aziendale e di altre strutture universitarie come la foresteria, gli stabulari e le residenze. A maggio il rettore Luca Vago aveva annunciato un forte abbattimento dei costi per la fine dei lavori, passati da 77 a 57 milioni di euro, anche considerato la prevista riduzione del numero di iscritti («era doveroso correggere i numeri di un piano divenuto sovradimensionato rispetto alle esigenze effettive», aveva spiegato in quell’occasione il rettore).
Il quartiere della sede attuale |
Adesso tocca al completamento del campus, ovvero le aree didattiche dove sorgeranno le aule per i corsi di studio, la sede dei dipartimenti, i laboratori di ricerca e il centro zootecnico. Spazi dedicati alla trasformazione degli alimenti, alle cucine, al laboratorio di etologia e al mangimificio. Ad aggiudicarsi la gara d’appalto per l’affidamento dell’incarico è stato un pool guidato dal prestigioso studio internazionale Kuma and associates Europe. «Sarà un progetto molto bello — spiega Mauro Di Giancamillo, professore del dipartimento di scienze veterinarie e sanità pubblica — e diventerà un centro di eccellenza completo in tutto. Ci sarà anche una parte di campus, con un’idea di facoltà che favorisce l’integrazione degli studenti. Non mancheranno anche locali bar, sale studio, centri d’accoglienza ». L’architetto vanta nel suo curriculum lavori molto prestigiosi costruiti principalmente in Asia (dalla casa bamboo di Pechino al quartier generale di Lvmh di Osaka), mentre in Italia il suo primo progetto è stata la “Casalgrande Ceramic Cloud”, sede di un’azienda di piastrelle in ceramica in provincia di Reggio Emilia.
Il campo di atterraggio dell'archistar |
Il trasloco della facoltà, a questo punto, sembra aver imboccato un percorso ben definito per i prossimi tre anni. All’ateneo spetterà coprire il 60 per cento dei rimanenti 57 milioni, l’altro 40 per cento se lo divideranno Comune e provincia di Lodi e Regione Lombardia. Il trasferimento totale delle attività è previsto per il secondo semestre dell’anno accademico 2016/2017, ma potrebbe slittare al 2017/18 qualora i lavori non fossero ancora completati. Resterà poi da capire cosa sarà degli spazi di Città Studi, attuale sede della facoltà: 15 aule pensate per la didattica dotate di videoproiettore, computer e videoregistratori che si trovano in via Celoria 10.
postilla
Nella certezza che chiunque, in un batter d'occhio, possa liquidare questa questione con montagne di studi e rapporti, aggiungendoci un sorriso di compatimento: ha senso parlare e straparlare di contenimento del consumo di suolo agricolo, se poi sono proprio le facoltà universitarie legate all'agricoltura a praticare la nobile arte dello sprawl? Al netto di tutte le osservazioni organizzative, accademiche, didattiche, di ricerca e di contesto, sta di fatto che si passa da una sede (che viene lasciata al momento vuota, ergo non pare ci fossero pressioni mostruose per uscirne) in un ambiente urbano denso e servito dalle reti dei mezzi pubblici, a un campus semirurale raggiungibile grazie alla “comoda navetta” dalla stazione ferroviaria di Lodi, ma ubicato oltre la circonvallazione della via Emilia, vale a dire in campagna. Se poi, mettere su una superficie di terreno dei contenitori edilizi di cervelli dediti all'agricoltura, sia particolarmente sostenibile, possiamo discuterne, al netto delle chiacchiere sull'archistar giapponese. L'importante è capire cosa faccia davvero bene alle campagne (f.b.)
Ciò che colpisce di più, in questa lettura desolatamente obsoleta di alcuni processi sociali in corso, è la sostanziale assenza delle discipline territoriali, o almeno di un punto di vista vagamente interdisciplinare, come il tema meriterebbe. La Repubblica, 7 ottobre 2014, postilla (f.b.)
L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.
Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.
Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.
postilla
In questo articolo firmato da uno dei più noti e ascoltati studiosi di discipline sociali nel nostro paese, colpisce soprattutto la prospettiva scelta per leggere il fenomeno, che pare in pratica piallata su certe santificazioni del Censis a proposito di distretti paesi e dintorni, del tutto ignare (e scarsamente interessate) ad aspetti che invece parrebbero ovvi, dopo mezzo secolo di critica internazionale alla suburbanizzazione, ai suoi rovesci della medaglia ambientali, sociali, economici. Certo, siamo ancora nel paese in cui basta intravedere qualche rudere di campanile piantato in mezzo allo sprawl per evocare lisergiche nostalgie, e cancellare miracolosamente tutto il resto, almeno finché spunterà la prossima emergenza (il terremoto, la crisi economica, il consumo di suolo, i servizi sociali …). Però da uno studioso di rango ci si aspetterebbe almeno un briciolo di consapevolezza, del fatto che quanto noi chiamiamo “borghi” altrove si chiama più o meno nello stesso modo, ovvero “suburbs”, e non evoca affatto di per sé qualcosa di buono, anche quando c'è qualche fienile qui e là a commuovere l'osservatore. L'occhio critico dovrebbe saper cogliere anche il resto, per esempio le tendenze del tutto opposte di contro-suburbanizzazione (f.b.)
Un titolo un po' schematico per un articolo che racconta abbastanza eloquentemente tutte le miserie della nostra politica quando si tratta di consumo di suolo e ambiente in generale, magari per tirarla lunga e aspettare la bipartisan Legge Lupi. Corriere della Sera, 6 ottobre 2014
Fra i purtroppo numerosi disegni di legge impantanati da mesi e mesi in Parlamento ce n’è uno che aveva fatto storcere il naso a parecchi, fuori e dentro il Palazzo. Certi costruttori lo guardavano come fosse stato il loro epitaffio e certe Regioni si erano inalberate lamentando presunte lesioni alla propria autonomia. L’idea di quel provvedimento era restituire dignità a un territorio meraviglioso come il nostro ma che a partire dal dopoguerra è stato letteralmente stuprato dalla cementificazione selvaggia e dalla speculazione con la fattiva collaborazione della politica. Ancora oggi che le città italiane, dice Legambiente, traboccano di case vuote (250 mila soltanto a Roma) si continua a divorare suolo a ritmo incessante.
Siamo arrivati al punto che in Italia il consumo del suolo, ormai superiore all’8 per cento di una superficie montuosa per oltre un terzo, è praticamente doppio rispetto alla media dei 28 Stati dell’Unione Europea, attestato intorno al 4,3 per cento. La Germania, con una densità di popolazione superiore del 15 per cento alla nostra, un territorio pianeggiante nonché un apparato industriale non inferiore a quello italiano, è al 6,8 per cento.
Per non parlare delle conseguenze per l’agricoltura, che in quarant’anni ha sacrificato al cemento 5 milioni di ettari, una superficie pari a Lombardia, Emilia Romagna e Liguria messe insieme. Con il risultato che la produzione interna non arriva a coprire che il 75 per cento del fabbisogno. E siamo a quel disegno di legge. Il primo che aveva proposto una norma per limitare il consumo del suolo era stato Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura del governo di Mario Monti. Ma il tempo era poco e la melina parlamentare si mise subito in moto: la legislatura finì senza che si potesse fare qualche passo avanti significativo. Catania allora tornò alla carica a maggio del 2013, riproponendo la stessa proposta di legge in qualità di deputato di Scelta civica. Anche qui, però, senza grossi risultati. Per sette mesi il suo testo, insieme a quelli di altre proposte dello stesso tenore, è rimasto chiuso in qualche cassetto.
Finché a febbraio di quest’anno, pochi giorni prima della fine del governo di Enrico Letta, la responsabile dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo presenta a sua volta un disegno di legge che ricalca nella sostanza quello di Catania. E nonostante il brusco cambio a Palazzo Chigi, il treno sembra partire speditamente. Il 6 marzo viene costituito a tambur battente un comitato ristretto in commissione alla Camera, con la missione di partorire in fretta un testo condiviso da portare in aula. Quattro riunioni, di cui l’ultima il 28 maggio. Poi più nulla.
Il motivo? C’è chi tira in ballo l’esigenza di aspettare una legge urbanistica. Chi diversamente ricorda le avversioni di una parte del mondo delle costruzioni, lasciando intendere che al blocco non sarebbe estranea l’azione delle lobby. E chi invece parla di incomprensioni fra il ministero dell’Ambiente retto dall’esponente udc di stretta osservanza casiniana Gian Luca Galletti, e quello dell’Agricoltura affidato al lombardo Maurizio Martina, democratico: contrasti sulle competenze che ciascuno dei due rivendica. Qualunque sia la ragione, se questioni di lobby o di potere, oppure soltanto le solite stucchevoli faccende burocratiche, il fatto è che da più di quattro mesi una legge ritenuta urgente è su un binario morto. Dal quale non si sa quando e se potrà muoversi. Intanto, ogni giorno che passa, altri cento ettari di territorio vengono sbranati: alla faccia delle migliaia di appartamenti invenduti, delle periferie urbane che cadono a pezzi, del nostro paesaggio che va in malora.
«In settimana il decreto. Risorse aggiuntive per 4,5 miliardi.Tra i lavori considerati prioritari l’alta velocità Napoli-Bari». La Repubblica, 28 luglio 2014
Roma. Conto alla rovescia per il decreto sbocca-Italia che dovrebbe vedere la luce, secondo le indicazioni giunte ripetutamente dal governo, questa settimana, probabilmente venerdì. In prima linea l’abbattimento delle barriere burocratiche alla realizzazione delle grandi opere, spesso incagliate, per ricorsi al Tar, ritardi nel via libera relativi all’impatto ambientale o inadempienze dei concessionari. In tutto, come annunciato dal premier Matteo Renzi, 43 miliardi «già conteggiati» ai quali si potrebbero aggiungere risorse fresche ogni anno per circa 4,5 miliardi per le grandi opere e altri 3,7 (ma in 6 anni) per la miriade di piccoli cantieri.