NO SPRAWL. Perché é necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, a cura di Maria Cristina Gibelli e Edoardo Salzano, Alinea editore, Firenze 2006. Scritti di: Mauro Baioni, Paolo Berdini, Piero Bevilacqua, Fabrizio Bottini, Piero Cavalcoli, Antonio di Gennaro, Alfredo Dufruca, Georg Frisch, Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Massimo Zucconi. In appendice: la proposta di legge elaborata da un gruppo di amici di Eddyburg: “Principi fondamentali in materia di pianifi cazione del territorio” (maggio 2006)
I testi sono stati elaborati in occasione della prima edizione della scuola estiva di pianificazione di eddyburg che si è svolta nel settembre 2005, presso la sede del Parco archeominerario di San Silvestro, a Campiglia Marittima. La scuola estiva è stata ideata come il luogo dove gli amici di eddyburg con una maggiore esperienza alle spalle – come urbanisti, amministratori, docenti universitari, giornalisti – sono stati invitati ad illustrare di persona il proprio punto di vista e fornire ai partecipanti un ventaglio di informazioni, riflessioni critiche e proposte sul tema prescelto. Così concepita, la scuola estiva non ha avuto la pretesa di affiancarsi o inserirsi nel circuito ufficiale della formazione scolastica, già ricco di offerte qualificanti, ma una duplice, differente ambizione.
Innanzitutto, è stata un’occasione di incontro per tutti coloro che sono interessati alle questioni che compaiono quotidianamente sul sito eddyburg.it. Non è un caso che tra i partecipanti – quasi tutti frequentatori abituali del sito, come lettori o come collaboratori – si sia creata spontaneamente una buona osmosi, favorita dal comune sentire e arricchita dalla diversa età, provenienza e formazione dei partecipanti. In secondo luogo, la scuola ha offerto l’opportunità di compiere una valutazione critica, ad ampio raggio, sui fenomeni del consumo di suolo e della dispersione urbana, strettamente legati tra loro, ed entrambi rivelatori di carenze e crisi più generali.
Il libro No sprawl raccoglie le riflessioni compiute e documenta l’ampiezza delle ragioni che inducono ad opporsi con forza alla crescita scomposta degli insediamenti: scarsa efficienza complessiva, elevati costi collettivi (economici, ambientali, sociali), compromissione del paesaggio e dell’ambiente, anche in contesti particolarmente delicati. Il modo in cui sono cresciute e tuttora si espandono le città riflette un’idea anonima e volgare della modernità, assai poco attenta alle specificità locali, alla qualità, all’innovazione. Per questo, a tutti coloro che hanno contribuito a scrivere il libro, è apparsa evidente la necessità di porre un freno alla crescita sregolata – seguendo l’esempio di numerosi altri paesi d’Europa e persino d’oltreoceano, dove pure la densità degli insediamenti è di gran lunga inferiore.
Per rispondere ai problemi pregressi e alle esigenze di oggi, riorganizzando e riqualificando gli insediamenti esistenti, servono politiche complesse, molto più incisive di quelle attuali. Prima di ogni altra cosa, occorre ridurre il peso degli investimenti immobiliari e infrastrutturali (cioè dalle varie forme di rendita) nel determinare l’uso e la trasformazione del territorio, offrendo alle amministrazioni pubbliche opportuni strumenti di indirizzo e di regolazione. La proposta di legge nazionale promossa da eddyburg, pubblicata in calce al libro, costituisce il primo indispensabile passo in questa direzione, ma è fin troppo evidente che molte altre iniziative possono e debbono essere intraprese, puntando ad un recupero della costruzione pubblica del territorio. Ed è proprio attorno quest’ultimo tema che è in preparazione la seconda edizione della scuola, nel luogo e con le modalità dell’anno passato, nella convinzione che possa avere lo stesso esito positivo.
Titolo originale: Call me a Nimby, but it's madness to concrete vast tracts of countryside – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Il consenso trasversale fra i due schieramenti politici praticamente su tutto – l’Iraq, la giustizia penale, le pensioni del parlamentari – invariabilmente tradisce l’interesse collettivo. Dopo la dichiarazione di Gordon Brown sul suo sostegno al rimpiazzo del sistema missilistico Trident prima ancora di qualunque vaga giustificazione, prego di notte perché David Cameron salti fuori con un’altra delle sue sorprese dicendo che non impegnerà i suoi Tories a nulla finché non avrà sentito qualche argomentazione.
Allo stesso modo, il partito Conservatore dovrebbe reagire contro un’altra delle sciocchezze di Brown: il suo piano per tappezzare l’Inghilterra in generale, e il sud in particolare, con nuove case, nell’erronea convinzione che ciò riduca i prezzi a sufficienza da fargli guadagnare voti.
Il progetto di Brown si basa sul rapporto del 2004 redatto per il Tesoro dall’economista Kate Barker. La quale propone scenari con quantità di costruzioni residenziali talmente spropositate da provocare indigestioni anche all’insaziabile lobby del settore. E ha confortato tutti quanti credono che il principale ostacolo per dare una casa di campagna a tutti gli infelici abitanti cittadini siano i nostri orrendi urbanisti, noiosi, e quanto lontani dal XXI secolo! Si teme che un nuovo rapporto della Barker, atteso da un giorno all’altro, entri nei particolari della proposta di smantellare il tradizionale sistema di pianificazione, che il cancelliere considera un ostacolo per rendere la Gran Bretagna competitiva nell’economia globale.
Non sorprende, il fatto che il Tesoro promuova l’edificazione all’ingrosso della campagna, perché questo governo si distingue anche per l’indifferenza, o l’attiva ostilità a qualunque forma di vita non asfaltata. La parte deprimente, è che anche chi dovrebbe conoscere le cose abbia sottoscritto la medesima visione.
Il Guardian accumula sdegno per questi nimbies rurali, che presumo comprendano anche il sottoscritto, in quanto presidente della Campaign to Protect Rural England (CPRE). Il centro studi Tory, Policy Exchange, ha pubblicato una serie di opuscoli che sostengono la realizzazione di case su larga scala. Lo Adam Smith Institute vuole 95.000 nuove abitazioni l’anno nelle campagne, in gran parte sulle green belts: presumibilmente da aggiungere alle più o meno 50.000 che si costruiscono già ogni anno su terreni non urbanizzati.
“Non è compito legittimo del governo dirci quali vestiti dobbiamo mettere, cosa mangiare o che macchina guidare” dichiara un recente libretto del Policy Exchange; né, credono, il governo può negare a chicchessia una nuova casa in un nuovo sprawl suburbano, se la vuole.
David Cameron sembra stia muovendo i Tories nella stessa direzione. Sostiene la voglia Brown-Barker di cambiare le leggi urbanistiche, di rendere più facile costruire. Il leader Tory ha etichettato la pianificazione come “Banana”: Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anyone, una battuta degna di Nicholas Ridley in una giornata no. Cameron si è autoispirato alle memorie popolari dei trionfi di Harold Macmillan, ministro costruttore di case negli anni ‘50. Sono queste, crede, le cose che hanno tenuto al governo i Tories per tredici anni: e possono farlo ancora.
Dunque, c’è una ampia alleanza da destra a sinistra che vuol vedere costruire più case su spazi aperti, e insieme infrastrutture e comodità extraurbane che, si dice, renderanno la Gran Bretagna più competitiva nell’economia globalizzata.
Ma alcuni di noi continueranno a resistere. Il ragionamento Brown/Barker/Cameron/ Guardian/Policy Exchange/Adam Smith sembra compatto come una forma di gruyere, e molto meno verde. La CPRE ha appena pubblicato un opuscolo che respinge le argomentazioni del Policy Exchange, molte delle quali rispecchiano il punto di vista del governo. Afferma, il centro studi conservatore, che “La Gran Bretagna non è sovraedificata, se paragonata ad altri paesi”. Cita a sostegno della sua affermazione un rapporto del 1981. E pure recenti indagini dell’Unione Europea mostrano che soltanto Olanda e Belgio sono costruite più densamente dell’Inghilterra.
Policy Exchange deride lo stock residenziale britannico, che definisce “misero”. Eppure, quando si prevede il 72% di crescita per le famiglie di un solo componente, sembrerebbe ragionevole costruire solo una piccola quantità di case singole con quattro stanze da letto. PE afferma che “il tradizionale giardino inglese è diventato un lusso costoso per pochi”, ma l’82% dei proprietari in Inghilterra abita case unifamiliari, quasi tutte con un giardino.
I politici, di tutti i partiti, si sono fissati sull’idea che abitare in questo paese sia particolarmente costoso. In realtà, la spesa Britannica per la casa come incidenza su quella complessiva familiare si colloca attorno alla media europea, e ben al di sotto di quella della Svezia, della Germania e della Francia. L’inflazione sui prezzi delle case nel 2004-5 è stata significativamente inferiore a quella di molti altri paesi.
Dopo il rapporto Barker del 2004, la CPRE ha commissionato ampie ricerche indipendenti. Esse hanno posto in evidenza il grande mito su cui si basano la corsa del governo all’edificazione e il suo assalto alla pianificazione territoriale: che i prezzi delle case siano conseguenza della fame di terreni edificabili. I prezzi, in Australia e negli USA – paesi dotati di spazi infiniti –sono aumentati in linea coi nostri, e per lo stesso motivo: bassi interessi, redditi in crescita, entusiasmo in caduta per gli investimenti in titoli.
Nessuna persona sana di mente può mettere in discussione il fatto che ci sia bisogno di costruire nuove case, e che una parte di esse vada realizzata su spazi aperti. Ma sembra folle cementificare enormi distese di campagna solo per rispondere a stravaganti e del tutto teoriche previsioni di domanda. In un’epoca in cui il centralismo è percepito come miserabile fallimento nell’erogare istruzione, sanità, politiche sociali, appare anche più deplorabile castrare il potere delle amministrazioni locali di influenzare la pianificazione del territorio.
Ruth Kelly, in una notevolmente sciocca dichiarazione rilasciata quando ha assunto la responsabilità che era di John Prescott per la pianificazione, dopo essere stata espulsa dal Department for Education, ha affermato che le persone sono “spesso ... protettive riguardo al proprio spazio”. Ma finché il governo non lascerà perdere il suoi tentativi di avocare più poteri a Whitehall, finché non restituiremo alle comunità locali qualche potere sullo spazio in cui vivono, la democrazia in Gran Bretagna resterà una mistificazione, con l’opinione pubblica mai consultata salvo nei plebisciti nazionali ogni quattro anni.
Gordon Brown crede di sapere cosa è meglio, per tutti e su tutto. I Tories devono sfidare questo punto di vista, sostenere una devolution che non sia per il Galles o la Scozia, né per assemblee regionali indesiderate, ma per le uniche entità locali in cui tutti ci identifichiamo: le città, i centri minori, le contee.
David Cameron si farà molti nemici fra i potenziali elettori Tory nel sud dell’Inghilterra, se sostiene questa libertà di costruire per tutti. Ci sono molti più proprietari di case rurali e suburbane che saranno colpiti dalle conseguenze di una politica del genere, di quanti elettori urbani che passeranno a Cameron perché credono che offrirà a ciascuno di loro una prebenda.
“Non è esagerato affermare che la pianificazione sia ormai assoggettata al controllo della vociante CPRE” afferma il Policy Exchange. Fosse vero. La realtà è che gli urbanisti, dopo aver servito tanto bene gli interessi di questo paese per gran parte del secolo scorso, oggi sono una specie in pericolo. La CPRE non ha il potere di salvarli, a meno che una parte della politica si scordi il filisteismo e abbracci la loro causa.
Non so voi, ma a me non piacerebbe vivere in un paese dove la qualità estetica e ambientale è decisa dalla Federazione Costruttori di Case e da Ruth Kelly. Lo schieramento che oggi sembra sul punto di capitolare davanti a queste forze, appare pernicioso come tutte le forme di vasto consenso politico, e per la cosa sbagliata.
Nota: Il citato rapporto di Kate Barker scaricabile anche dalla versione originale di questo articolo sulle pagine di eddyburg_mall ; gli effetti della revisione Barker sono vistosi anche in altri aspetti della pianificazione, come i grandi insediamenti commerciali extraurbani, lo sottolinea questo articolo dall' Observer (f.b.)
L'ultimo raccolto?
La perdita di suolo agricolo è un problema non solo a Parma. Escludendo dal computo l’edilizia abusiva, ogni giorno in Italia vengono cementificati 161 ettari di terreno. A livello mondiale si calcola un tasso di incremento delle superfici urbanizzate del 2,7%: 128.000 kmq in un anno, tanto quanto la Grecia!
Il suolo coltivabile, che si forma grazie a processi naturali a velocità dell’ordine di un millimetro di spessore ogni secolo, viene progressivamente sostituito da aree residenziali, industrie, centri commerciali, strade ed altre infrastrutture. Dopo avere sostenuto lo sviluppo della società umana dall’inizio della Storia, anno dopo anno, il terreno agricolo viene trasformato definitivamente in quello che è stato definito l’”ultimo raccolto”: una superficie impermeabile e sterile.
In questo Pianeta così maltrattato c’è un posto chiamato “Food Valley” dai suoi abitanti. Una ragione c’è, perché la provincia di Parma si trova in uno dei luoghi più fertili al mondo, dove il comparto agroalimentare risulta essere il settore più rilevante sotto il profilo industriale, con 5.500 milioni di euro di fatturato, pari al 35% del totale e 15.500 occupati (dati anno 2000).
Ma l’esame degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale, che da anni ci vede impegnati come associazioni ambientaliste, prefigura un quadro ben diverso da quello che viene spacciato sui pieghevoli patinati, nei siti internet ufficiali e alle iniziative enogastronomiche, mirati a diffondere un’immagine artefatta di tutela del territorio e dei suoi prodotti. La Food Valley sta rapidamente consumando il bene più prezioso che ha: il suolo. Tra le varie occasioni di discussione sul futuro del territorio, quella del nuovo PSC di Parma ci è sembrata particolarmente utile, per richiamare l’attenzione su interessi collettivi di lungo periodo, anziché lasciar guidare le scelte urbanistiche e territoriali da interessi particolari e di corto respiro.
Fino a quando potremo sostenere lo sviluppo che oggi viene proposto? L’analisi presentata in questo opuscolo vuole richiamare l’attenzione sulla necessità di questa domanda e dimostrare che uno sviluppo diverso non solo è possibile, ma è anche necessario.
Il caso di Parma: un'analisi storica dell'espansione urbana
Ancora oggi, per promuovere quello che viene chiamato “sviluppo economico”, a Parma – città demograficamente stabile ormai da qualche decennio - si prevedono nuovi insediamenti industriali, nuovi centri commerciali, aree residenziali ed infrastrutture viarie. Il fabbisogno di cemento e asfalto sembra non diminuire, anzi… Ma quali benefici ha portato l’espansione urbana finora? E che futuro stiamo preparando, continuando a ragionare come quarant’anni fa? Per rispondere a queste domande, abbiamo studiato l’andamento dell’espansione urbana nel territorio comunale di Parma, utilizzando come riferimento i rilievi cartografici e fotografici che si sono succeduti dalla fine dell’ottocento al 2003.
Un comune in crescita o in crisi d’identità?
Un’idea più precisa dal punto di vista quantitativo, si può ottenere dal grafico seguente. L’ampliamento dell’area urbanizzata nel comune di Parma, molto lento fino al 1960, ha subito un’accelerazione che ha portato al suo raddoppio nei primi anni ’90 anni e ad aumentare di un ulteriore 28% dal 1994 al 2003, facendo così registrare in questi ultimi nove anni un tasso di espansione mai visto prima. Meno abitanti, più edifici Se in una prima fase l’aumento di insediamenti rispondeva ad un incremento demografico, è sorprendente notare come dal 1976 in poi questa relazione viene meno: l’espansione urbana prosegue a ritmi sostenuti, mentre la popolazione diminuisce del 3%! Inoltre, considerato l’attuale costo delle case, si può affermare che l’aumento dell’offerta non ha portato neppure ad un beneficio in termini di riduzione dei prezzi.
Chi ci ha guadagnato?
Facciamo un confronto tra il 1994 e il 2003. Dopo altri nove anni di espansione sostenuta, possiamo dire di avere una città migliore? L’ulteriore peggioramento della qualità dell’aria, la sempre maggiore vulnerabilità idrogeologica, la perdita di nuove ampie porzioni di campagna periurbana, che cosa ci hanno dato in cambio? Difficile dirlo. L’unico dato certo riguarda il settore dell’edilizia, comparto “Costruzioni”: nel triennio 2000-2002 in provincia di Parma si è avuto un ulteriore aumento netto di imprese, pari a 963 unità. Intanto, nello stesso periodo, il comparto “Agricoltura e Silvicoltura” in provincia è diminuito di 789 imprese. Fino a quando potremo chiamarla “Food Valley”?
Anno 2060: il limite di uno sviluppo senza limiti
Nei nove anni dal 1994 al 2003 l’espansione urbana nel comune di Parma è proseguita ad un tasso del 3% annuo. Pur senza tenere conto dei problemi di vivibilità, di regimazione delle acque, di inquinamento o altro ancora, esiste un limite definitivo ed invalicabile a questa espansione: i 26.100 ettari della superficie comunale. Ebbene, continuando a questi ritmi, arriveremmo a ricoprire l’intera superficie agricola del comune già nel 2060!
Un’elaborazione matematica basata sull’andamento dell’espansione urbana degli ultimi quarant’anni conferma questo dato, collocando la data di cementificazione totale del comune tra il 2040 ed il 2079.
A quel punto, dopo avere compromesso, abbruttito e degradato completamente il nostro territorio, dovremo necessariamente fermarci e abbandonare questo modello di sviluppo senza limiti. Ma allora, non è meglio fermarci ora e dedicarci piuttosto a interventi di qualificazione, mitigazione e recupero, per migliorare la qualità della vita a Parma?
PSC 2006: ancora cemento e asfalto
Purtroppo, a guardare le previsioni del Piano Strutturale Comunale (Documento preliminare), non sembra che si intenda frenare l’impermeabilizzazione del territorio. Non solo; mentre si ragiona nell’ambito del PSC sul futuro della città, questo viene in parte ipotecato, approvando diverse varianti che accelerano l’espansione urbana, prima dell’adozione di questo importante strumento urbanistico. Ecco alcuni esempi di cementificazione prossima ventura.
* Espansione industriale a nord della città. Prevista dal PSC, consente di ampliare ulteriormente l’attuale area industriale, determinando una saldatura con l’area di S. Polo, quando una parte consistente degli edifici industriali in zona sono vuoti o sottoutilizzati.
* Polo logistico. Pur avendo già un interporto di notevoli dimensioni in comune di Fontevivo, si ritiene indispensabile un’altra ampia area a pochi chilometri.
* Parco scientifico tecnologico. A sud della città, in quella che ncora oggi è in parte considerata “area rurale”, il PSC prevede un insediamento “dove concentrare le funzioni rare che presentano un esteso bacino di potenziali utenti.” (?). Ne sentivamo la mancanza?
* Multisala cinecampus. Quel poco di verde che resta attorno al Campus universitario di via Langhirano è destinato a lasciare il posto ad un super cinema da 11 sale e 2.300 posti a sedere. Fuori dall’anello delle tangenziali e quindi da raggiungere possibilmente in auto, come si desume dalla dotazione di un parcheggio da circa 600 posti.
* IKEA. Probabilmente sorgerà tra via Burla e via Ugozzolo un grande centro commerciale occupato principalmente dall’IKEA, che avrà una superficie di 23.663 mq e porterà a Parma un flusso notevole di traffico: nei fine settimana sono previste 70.000 presenze al giorno!
*Nuova Ipercoop. Sorgerà su via Traversetolo, non lontano dalla già esistente Esselunga: 18.500 metri che conterranno un supermercato alimentare da 4mila mq (il più grande del Parmense).
*Nuova Esselunga. L’unico aspetto positivo di questa ulteriore “centrocommercializzazione” della città, è che andrà ad occupare,almeno in parte, un’area già edificata: quella della Battistero.
*Via Emilia bis. Non prevista inizialmente nel PTCP, è stata richiesta ed ottenuta dal Comune di Parma, il quale ritiene di convincere le persone ad utilizzare meno l’auto in città, aumentando la superficie di suolo asfaltato.
*Via La Spezia Bis. Il carico di traffico sulla città è diventato insostenibile? La soluzione, per il PSC, è quella di costruire nuove strade, dimenticando che sono proprio le strade a incentivare il traffico e che una nuova Via La Spezia, come altre infrastrutture dedicate al trasporto su gomma, si contrappone al modello di trasporto ferroviario metropolitano
prospettato da Provincia e Comune.
*Parmacotto. A sud della città, in area agricola e al di fuori di qualsiasi previsione di piano, il Comune consentirebbe la costruzione del nuovo megastabilimento della Parmacotto, considerato di “pubblica utilità”.
La situazione in provincia Allargando lo sguardo dal comune di Parma al resto del territorio di pianura della provincia, la situazione non è migliore. Pur non avendo analizzato in modo sistematico e dettagliato questa vasta area, l’analisi del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale e alcune segnalazioni raccolte dal territorio forniscono un quadro poco confortante. Ad esempio nel comune di Fidenza tra il 1976 e il 2003 l’area urbanizzata è cresciuta da 854 a1161 ettari e il nuovo PSC prevede di raggiungere addirittura i 2264 ettari, con un ulteriore incremento del 95%!.
Ecco alcuni esempi di come stanno per essere cancellate per sempre porzioni significative di terreno agricolo della provincia.
1. Bretella autostradale Tirreno-Brennero. Collegherà l’Autocisa con il Brennero, facendo passare una quota considerevole di traffico pesante nei comuni di Fontevivo, Parma, Trecasali e Sissa. La Coldiretti di Parma ha definito questa inutile autostrada un’”opera fortemente impattante e devastante uno dei territori agricoli storicamente più importanti e forti d’Europa per le vocazioni a produzioni d’eccellenza e per la qualità del paesaggio e dell’ ambiente circostante, con gravi danni per numerose imprese agricole”.
2. Via Emilia Bis. Una nuova strada che attraverserà l’intero territorio provinciale, passando a nord dell’attuale via Emilia e creando così ulteriore consumo di suolo, frammentazione di fondi agricoli, nuova urbanizzazione ed inquinamento.
3. Cispadana. Secondo la Provincia di Parma (Valsat del PTCP) con questa infrastruttura
“la mobilità su gomma viene favorita aumentando tendenzialmente tutti i tipi di
pressione ambientale”. Inoltre, il fatto che consenta un raccordo rapido con l’Autobrennero all’altezza di Reggiolo, non risulta sufficiente ad evitare la costruzione della Tirreno-Brennero (vedi sopra).
4. Pedemontana. L’aumento della pressione sui sistemi ambientali incide su un’area vasta e su aree di interesse naturalistico, sia per l’occupazione del suolo, sia in termini di emissioni atmosferiche.
5. Polo del freddo. Si tratta di magazzini per lo stoccaggio di surgelati che occuperanno
una superficie complessiva di ben 29 ettari, garantendo un numero limitato di posti di lavoro, consumando enormi quantitativi di energia elettrica in una situazione già di forte sofferenza della rete e con un sicuro aumento del traffico pesante e dell’inquinamento sul territorio.
6. Ponte Collecchio-Medesano. Poteva essere l’occasione per riqualificare un’area a rischio di esondazione; invece la Provincia ha preferito il tracciato che taglia in due il parco in una zona di pregio naturalistico. Nessuna risposta è stata data ai numerosi dubbi sollevati dall’Istituto Nazionale della Fauna Selvatica.
7. Insediamento produttivo a Medesano-Noceto. Sorgerà nei pressi del nuovo ponte Collecchio-Medesano, con una superficie di ben 60 ettari.
8. Insediamento residenziale a S. Michele Tiorre. E’ solo uno dei vari esempi di progetto di cementificazione della pedemontana. Per realizzare 52 unità abitative si mettono in gioco 25 ettari di suolo agricolo, lontano dal nucleo abitato frazionale e in cambio il Comune riceve 1.200.000 Euro per realizzare una scuola altrove e, forse, incrementare le possibilità insediative fra qualche anno.
Città diffusa, città a perdere
“Sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o ancora fuori” (I. Calvino, Le città invisibili , Milano, 1993)
Che ne è della “città”, oggi? Sempre di più assistiamo ad un fenomeno che potremmo qualificare della “dissipazione” urbana, fenomeno della città che non finisce e di una campagna che non inizia. Le città “si perdono”, uscendo da sé, attraverso la proliferazione selvaggia delle periferie, che tendono non solo a fagocitare spazi, ma anche ad annichilire le condizioni antropologiche vitali della città intesa come luogo. Vengono meno i punti di riferimento e i contenuti della città, che si muta sempre di più, in quanto diffusa, in un “vuoto a perdere”: la dispersione è così anche il tramonto della città terrena, cioè umana. Scrive M. Augé: “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo” (M. Augé, Non Luoghi, Milano, 2002). La città è nonluogo perché ormai priva d’identità, e perché non più in grado di favorire, creare identità. Tale nonluogo non è compensato però da una nuova dimensione di pienezza, che venga a costituire altrove uno spazio rinnovato di relazioni e storia condivise. La città, infatti, vuole essere “globale”: un puro involucro, possibilmente planetario, specchio del nulla.
“Il fenomeno dell’esplosione urbana nasce proprio dal successo storico della città, nicchia ecologica costruita dall’uomo. Ogni epoca ha fornito un ambito funzionale diverso ed il processo di trasformazione ha a che fare con l’evoluzione economica e sociale.
Dal successo della città deriva la sua valorizzazione, esasperata da un settore agricolo che ha perso la sua valenza economica. Ma mentre nella città costosa il “povero” continua a vivere, occupandone gli interstizi, la classe media non ce la fa e, aspirando ad un modello abitativo soddisfacente, pensa che il sogno sia realizzabile in campagna.
Così nasce l’illusione da costo, rotta dalla successiva scoperta del grande prezzo dei servizi che non ci sono. Anche le imprese subiscono i costi delle città, perciò vendono e costruiscono fuori, disseminando la produzione nel territorio, alla ricerca di mercati a basso costo. Ma la crisi della grande fabbrica e del processo produttivo è stata determinata anche dall’avvento delle nuove tecnologie. Queste, e un’accresciuta mobilità (da 500.000 auto del ’51 a 25 milioni di oggi) hanno causato il passaggio all’agglomerazione all’articolazione. L’origine di questi fenomeni risiede dunque nell’eccessiva valorizzazione della città e nell’assenza di governo della stessa. La questione va innanzitutto capita per essere poi governata e arginata. Le città devono diventare convenienti, altrimenti la speculazione e i grandi interessi economici determinano una struttura sicuramente dissipativa del territorio, a forte consumo energetico, con problemi di organizzazione dei servizi ecc.” (F. Indovina, dialogo durante la conferenza “Città diffusa, Città a perdere”, Parma, novembre 2005)
“L’uomo della città diffusa è felice? La diffusione e gli stili di vita dettati dalle nuove tecnologie comportano un grande problema di identità e di estraniamento (es. se siamo al cellulare o collegati ad internet, non siamo consapevoli di quello che ci succede intorno). Una modernità liquida e globalizzante toglie qualcosa. Anche un contesto costruito come quello della città, forniva importanti riferimenti per creare quell’identità che assicura stabilità all’interno di un contesto. In una città diffusa, gruppi di persone a macchia di leopardo costruiscono le loro identità, che in breve tempo svaniscono. Anche la figura del pianificatore è cambiata. Oggi l’etica della responsabilità che dovrebbe far parte del suo ruolo, non trova più la comunità di riferimento; ne trova molte e non sa più come muoversi all’interno di questa nuova complessità”. (E. M. Satti, dialogo durante la conferenza “Città diffusa, Città a perdere”, Parma, novembre 2005)
La qualità dell’abitare
L’attività edilizia è uno dei settori industriali a più alto impatto ambientale anche per il consumo energetico, per le emissioni in atmosfera ad esso connesse e per il sempre più diffuso utilizzo di materiali di origine petrolchimica che, oltre a rendere l’aria nelle abitazioni molto più inquinata di quella già pessima che respiriamo fuori, determinano gravi problemi di inquinamento ambientale durante tutto il loro ciclo di vita. Consumano energia l’estrazione delle materie prime, la produzione e la lavorazione dei materiali e i relativi trasporti, l’esecuzione e la manutenzione delle opere, nonché la demolizione e lo smaltimento degli edifici.
In Europa il settore edilizio è responsabile:
- del 45% del consumo di energia;
- del 50% dell'inquinamento atmosferico;
- del 50% delle risorse sottratte alla
natura;
- del 50% dei rifiuti prodotti.
Il concetto di sostenibilità nel campo delle costruzioni edili mostra i suoi limiti: un’attività è infatti considerata sostenibile se attuabile senza limiti di tempo e di risorse per un territorio illimitato. Il punto è dunque capire entro quali limiti e riferimenti è possibile combinare la sostenibilità con l’attività edificatoria. Oggi però è possibile, mediante l’approccio della bioarchitettura, fare della casa un ambiente sano dove trovare il massimo benessere psicofisico, rispettando nel contempo l'ambiente. Ecco alcuni utili consigli per una migliore qualità dell’abitare.
* La costruzione della casa dovrebbe partire da considerazioni bioclimatiche, come peraltro si è sempre fatto nei tempi passati, sfruttando il clima, l'orientamento della casa rispetto al sole e tenendo presente i venti principali.
* La luce solare non solo scalda l'aria, ma la ionizza ed è battericida. Esistono sistemi solari passivi che raccolgono e trasportano il calore con mezzi non meccanici. La sensazione di benessere e comfort è maggiore in edifici riscaldati in modo passivo che è possibile realizzare con materiali facilmente reperibili.
* È necessario impiegare materiali naturali e non nocivi. Per esempio materiali naturali per la costruzione di edifici, per tinteggiare, per intonacare ed incollare, invece di quelli soliti di sintesi anche se meno costosi. Da non sottovalutare la possibile presenza di radon in materiali da costruzione di origine naturale o provenienti da lavorazioni industriali. È
bene quindi accertarsi circa i livelli di radioattività.
* Una muratura sana dovrebbe costituire un buon volano termico ed essere perciò realizzata con materiali e spessori tali da assicurare un lenta dispersione del calore, in modo da consentire un microclima interno relativamente costante.
* Inserire dove possibile del verde in grado di migliorare il microclima e assorbire una parte dell’inquinamento dell’aria. Rivolgendosi alla bioarchitettura, oltre ad avere un ambiente interno più sano e a rispettare l’ambiente si può migliorare l’efficienza energetica e il risparmio energetico degli edifici.
Gli edifici che normalmente vengono costruiti oggigiorno, consumano circa 200 kilowattora al metro quadrato per anno, mentre quelli a basso consumo arrivano a circa 50. Confrontando i consumi complessivi di un’abitazione tradizionale di 100 metri quadrati con quelli di una casa ecologica, è stato evidenziato un risparmio del 38%.
Di fronte a dati che indicano come l’abitare ecologico possa costituire un beneficio, sia per le tasche del cittadino che per l’intera collettività, qual è l’atteggiamento da parte di chi amministra il bene comune rispetto al “mattone verde”?
Da una recente indagine condotta da Confocooperative-federabitazione, in collaborazione con Anci, Istituto Nazionale di Bioarchitettura e Legambiente si evince un impegno, seppur minimo, da parte dei Comuni italiani per la promozione della casa ecologica.
Finalmente si fa avanti l’idea che la trasformazione della città, attuata in prospettiva di sostenibilità, possa avere ricadute positive sulla maggiore disponibilità energetica nazionale, sulle emissioni di anidride carbonica, sull’effetto serra e sul benessere collettivo.
Meglio tardi che mai.
Alcune proposte per ridurre il consumo di suolo
Ed ecco qui di seguito, alcune chiare e concrete proposte di lavoro. Si tratta in fondo di semplici questioni di buon senso. Ma dietro questa apparente immediatezza ci sono in realtà due questioni non scontate. La prima questione di fondo è che come cittadini abbiamo smesso da molto tempo di chiederci che territorio vogliamo, a quale idea di Parma stiamo lavorando e contribuendo. Vogliamo una città ancora più grande o piuttosto migliore? Vogliamo una città che garantisca maggior opportunità e spazi a chi li ha già o che assicuri condizioni di vita minimamente decenti a chi fa più fatica? Vogliamo strade più grandi e trafficate o vogliamo più spazi per camminare, per lasciar liberi i bambini, per incontrare e intrattenersi con altre persone? Vogliamo consegnare al futuro solo ettari di superfici cementificate non più riutilizzabili o garantire a noi e a chi verrà dopo il patrimonio di un suolo fertile ed in buone condizioni?
La seconda questione è il rifiuto di ricascare nella retorica dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita. Se proponiamo di abbandonare questa retorica e questo immaginario, non è certo per promuovere un atteggiamento conservatore o reazionario. Conservatore e reazionario è semmai quell’atteggiamento che ci riduce tutti a ingranaggi di una macchina che continua a produrre, a investire, a bruciare risorse passando sopra le persone e l’ambiente, in nome solamente della pura conservazione del sistema. Lo sviluppo non è più quel passepartout utile per congelare ogni dubbio e valutazione critica, per screditare le proteste dei cittadini e per giustificare qualsiasi cosa e qualsiasi intervento, compresi i più devastanti.
Oramai la gente ha capito che ci sono cose che possono crescere e svilupparsi e cose che invece devono essere ridotte e limitate. Altre ancora che possono essere fatte ma solo a certe condizioni. L’intelligenza politica dovrebbe servirci a distinguere le une delle altre. Non proponiamo dunque di arrestarci e non fare più niente, ma di pensare in termini di significati sociali e quindi di un’economia al servizio della qualità della vita.
L’invito al dibattito che queste proposte contengono è quello di considerare le cose con un respiro più ampio, che tenga conto dell’ambiente in cui viviamo, delle condizioni di unicità del nostro territorio, della complessità delle interazioni tra attività umana e processi naturali e quindi della fragilità della nostra ricchezza. Occorre ricordarci infatti che i soldi, l’efficienza, l’intraprendenza, i cantieri sono nulla, anzi possono diventare addirittura pericolosi se non si esercita contemporaneamente la facoltà di scelta e di discrimine, che è poi semplicemente la facoltà dell’intelligenza. E l’esercizio dell’intelligenza critica è in fondo l’unica garanzia contro la cementificazione del pensiero.
* Prima di consentire nuove costruzioni, valutare attentamente la disponibilità dei numerosi edifici non occupati, delle aree dismesse ed eventualmente incluse in ambiti ormai urbanizzati, non edificate, ma ormai sottratte definitivamente all’agricoltura.
* Verificare l’economicità della realizzazione di nuovi insediamenti (solo se assolutamente necessari), tenendo conto di tutti i costi esterni: dalla perdita di terreno agricolo, alla regimazione delle acque, al degrado del paesaggio.
* Coordinare maggiormente la distribuzione di funzioni con i comuni attorno alla città, che in alcuni casi sono ormai saldati anche fisicamente con il capoluogo.
* In occasione dell’adozione di nuovi piani urbanistici, revocare le previsioni non attuate, quando se ne inseriscono di nuove.
* In futuro, compensare la trasformazione di suolo da rurale o naturale a urbanizzato con la contemporanea naturalizzazione di suolo urbanizzato.
* Attivare strumenti economici e fiscali, che favoriscano un uso efficiente degli insediamenti già realizzati, scoraggiando il fenomeno di realizzazioni edilizie necessarie al solo investimento immobiliare.
* Indirizzare i nuovi interventi verso aree che in seguito agli usi precedenti o per la loro stessa natura giocano un ruolo secondario nel bilancio naturale complessivo.
* Utilizzare tutti gli strumenti per mitigare l’impatto nella costruzione di nuovi edifici e nella trasformazioni di edifici esistenti.
* Introdurre nelle norme del PSC l'obbligo di mantenere una quota pari al 70% di area permeabile rispetto a tutte le aree classificate come edificabili, utilizzando anche metodologie adeguate a garantire la permeabilità.
* Utilizzare, compatibilmente con i criteri estetici del paesaggio, tipologie edilizie che privilegiano la verticalità.
Nel campo dell'urbanistica si gioca in questi giorni una partita importante per la sua credibilità. Già nel 2003, di fronte alle diffuse critiche verso il nuovo piano regolatore che stava per essere adottato, si pose la questione. Erano due le più severe critiche verso quel piano. Riguardavano le enormi espansioni edilizie con 65 nuovi milioni di metri cubi di cemento e poi lo strumento fondamentale con cui si affrontava il governo della città, la cosiddetta compensazione urbanistica. Per il lavoro fatto in questi anni riconosciamo al sindaco di Roma, Valter Veltroni una fattiva attenzione verso la società civile e un'encomiabile puntualità nel mantenere le promesse. In questa occasione fu Vezio De Lucia, tra i più importanti urbanisti italiani, a spiegargli quale logica aberrante si nascondesse dietro quel sostantivo: un enorme regalo alla rendita immobiliare perché l'uso della compensazione moltiplica oltre modo le previsioni urbanistiche. Il giorno successivo a quell'incontro i quotidiani riportarono il comunicato stampa del sindaco che giustificava la compensazione urbanistica con la contingenza: la necessità di chiudere una fase lunga e difficile, che cancellava per il futuro l'uso di quello strumento di deroga. Addio alla compensazione scrissero, infatti, i giornali.
Per comprendere i devastanti effetti di quest'invenzione tipicamente capitolina è utile ricordare cosa è accaduto nel comprensorio di Tormarancia. La battaglia ambientalista che fu combattuta per strappare quello splendido lembo di campagna romana alla speculazione edilizia riuscì anche per il grande impegno di Antonio Cederna. L'edificazione fu cancellata, ma il comune di Roma argomentò che i proprietari vantavano “diritti edificatori” che andavano dunque trasferiti in altri luoghi urbani.
Uno dei più autorevoli giuristi italiani, Vincenzo Cerulli Irelli, insieme a uno dei più stimati urbanisti, Edoardo Salzano, tentarono invano di dimostrare che i cosiddetti diritti edificatori non esistono e che è solo il piano urbanistico a decidere il destino dei terreni da edificare. Ma il comune decise, comunque, di trasferire le cubature originariamente previste a Tormarancia (un milione e ottocentomila metri cubi) in altri luoghi. La sperimentazione della compensazione urbanistica ha portato a questo risultato: la cubatura iniziale è aumentata di due volte e mezzo, per la precisione è di 5 milioni e duecentomila metri cubi. Il motivo di questo impressionante aumento è che il meccanismo si fonda sull'iniziativa privata: se dunque un proprietario mette a disposizione un terreno per "ospitare" un nuovo quartiere deve, in una logica speculativa, guadagnarci. E il guadagno viene quantificato in ulteriori cubature e questo spiega il vertiginoso aumento delle quantità da edificare. La compensazione è un moltiplicatore della rendita fondiaria. Rendita fondiaria, è appena il caso di ricordarlo, che gode in questa fase di straordinaria salute, caratterizzata da una fase di accumulazione di intensità mai registrata in passato. In un paese in cui sono evidenti i segni del declino produttivo e la ripresa economica appare sempre lontana, la speculazione edilizia trionfa. Dal 1998 a oggi i valori immobiliari, la fonte è Ance-Nomisma, sono aumentati mediamente del 69 per cento. Nello stesso periodo i salari sono aumentati del 26 per cento. In particolare, ne12003 l'aumento degli immobili è stato del 10 per cento e nel 2004 del 9 per cento.
Mentre migliaia di famiglie sono sottoposte a procedura di sfratto; mentre dalle grandi città è in atto una grande fuga dei ceti popolari verso le aree metropolitane in cui è possibile ancora l'acquisto di una casa; mentre il mercato dell'affitto completamente liberalizzato produce ulteriore espulsione dalle maggiori città; mentre, insomma, i ceti più deboli sono sottoposti a un drastico arretramento delle condizioni di vita, c'è chi si è arricchito oltre misura con la più classica speculazione immobiliare. Le cause di questo fenomeno risiedono in una serie di devastanti provvedimenti del governo Berlusconi. Non è questa la sede per elencare la numerosa serie di coerenti provvedimenti concretizzati dal governo della Casa delle libertà. Quello che occorre mettere in evidenza è che se la sinistra vuole innovare l'azione di governo deve darsi un profilo diverso. Il caso di Roma è in questo senso il paradigma di un più generale stato di smarrimento culturale della sinistra. I due censimenti del 1991 e 2001 hanno, infatti, certificato che la popolazione residente è diminuita di circa180mila abitanti, qualcosa come 60mila nuclei familiari. In gran parte si tratta delle famiglie più povere che hanno risolto la questione abitativa andando nei comuni dell'area metropolitana. I posti di lavoro sono però restati nel centro di Roma: questi stessi cittadini sono dunque costretti quotidianamente a impiegare ore della propria esistenza per effettuare gli spostamenti che li porteranno nel centro di Roma. La capitale in quello stesso arco di tempo stava disegnando il nuovo piano regolatore. Aveva dunque la possibilità di risolvere i problemi di assetto urbano. Invece la questione non viene affrontata e i numeri ufficiali del nuovo piano regolatore prevedono la realizzazione di nuovi 65 milioni di metri cubi. Trenta di questi sono produttivi; 35 sono abitativi. In buona sostanza si prevede di costruire nuove case per circa 350mi1a nuovi residenti. L'amministrazione progressista di Roma vorrebbe dunque realizzare una quantità smisurata di case private con le stesse caratteristiche di quelle abbandonate da 180mi1a romani. È una situazione paradossale e inspiegabile dal punto di vista politico e sociale. Ma è una logica che privilegia la proprietà fondiaria ed è culturalmente prigioniera delle stesse logiche perseguite dalla destra liberista. Del resto, il gruppo di immobiliaristi che ha movimentato le cronache estive (da Caltagirone al gruppo Coppola, Ricucci e Statuto), si afferma proprio a Roma in evidente sintonia con queste dissennate politiche urbane. Questa stessa subalternità si evidenzia nella proposta di legge speciale per i poteri urbanistici da delegare al comune di Roma presentata proprio in questi giorni dall'assessorato all'urbanistica della Regione Lazio. Questa proposta infatti si fonda proprio sull'equivoco della compensazione urbanistica. Addirittura, essa viene promossa di rango: da semplice strumento di lavoro la si fa diventare niente meno che un principio generale.
Ma i principi sono questioni di fondamentale importanza e devono conseguentemente avere rilevanza culturale, sociale e politica. Un principio progressista sarebbe quello di riaffermare il diritto di tutti i cittadini ad una città migliore e più vivibile. La Regione Lazio vorrebbe, invece, far diventare principio il trionfo della rendita speculativa. Ricucci, Statuto e Coppola sono i principi della nuova urbanistica regionale.
È dunque importante che ci sia a questo proposito un pronunciamento del Sindaco di Roma, teso a ristabilire un percorso virtuoso dell'urbanistica regionale e a mantenere le solenni promesse di due anni fa.
Richard Carson, La dittatura della Maggioranza Urbana, Planum, ottobre 2005; Titolo originale: Tyranny of the Urban Majority– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Sono stato di recente a un incontro pubblico dove un consigliere eletto poneva a un gruppo di urbanisti una domanda retorica: “Cos’è lo sprawl?”. La risposta di uno degli urbanisti è stata che lo sprawl si verifica quando una zona rurale viene suddivisa in lotti di grandi dimensioni per realizzare le cosiddette “ McMansions”. La replica del consigliere è stata: “Sareste più contenti se la gente invece mettesse lì case mobili per abitazioni a basso reddito?”.
Il dialogo mi ha turbato. Perché gli animatori delle tendenze urbanistiche più recenti – come la smart growth e il New Urbanism – per attirarsi sostegni finanziari e sostegno degli elettori, usano etichette denigratorie come sprawl, big-box, o McMansion. Per demonizzare lo sprawl c’è bisogno di un demonio. Coltivatori di campi e boschi non possono essere denigrati, perché si suppone che i pianificatori conservino queste risorse per il loro uso. E non è politically correct parlar male delle famiglie a basso reddito che vivono in case mobili. E così, chi si trova come capro espiatorio? I ricchi e McDonald’s sono obiettivi facili, e allora: Ricchi + McDonald’s = McMansion.
Questo doppio senso orwelliano è stato utilizzato dai suoi inventori per diffondere un programma politico che attacca un’istituzione tradizionale americana: lo schema insediativo di una cultura dominata dall’automobile e dalle lottizzazioni edilizie a basso costo del dopoguerra. La loro agenda sociale sfrutta paura e classismo per sostenere la causa: a spese delle convinzioni socioeconomiche e del benessere di altri.
Un pregiudizio schizofrenico
In America, termini come sprawl o McMansion risuonano tra noi almeno in parte a causa dei nostri schizofrenici pregiudizi personali: vogliamo essere ricchi ma non possiamo perché non riusciamo a smettere di comprare cose; beviamo, fumiamo, mangiamo porcherie, ma sappiamo che ci fa male. Ci sentiamo in colpa per il nostro spudorato, ossessivo consumismo. Ci sentiamo indifesi e usati dai volponi di Wall Street e Madison Avenue. E abbiamo la sensazione di aver venduto l’anima (e la libertà) al migliore offerente.
Peraltro, sospettiamo esistano persone che non hanno venduto l’anima, e anche questo ci scoccia. Fra questi, ci sono agricoltori indipendenti e forestali, che vivono della terra. Gli abitanti delle città nel loro subconscio sono irritati da questa apparente libertà.
E questa mancanza di empatia ha portato ad una nuova “dittatura della maggioranza” degli interessi non-rurali. I nostri meccanismi costituzionali di controllo ed equilibrio non sono riusciti a proteggere il proprietario di terreni rurali. Le iniziative connesse alla smart growth hanno tracciato margini di sviluppo urbano [ urban-growth boundaries] e poi ridotto le possibilità insediative delle proprietà rurali. Queste misure sono intese a contenere lo sprawl, ci hanno detto, ma esse aiutano anche a creare “riserve” urbane, che impediscono alla popolazione così addensata di distruggere l’ambiente naturale.
Avidità e risarcimenti
Quando gli urbani – no, gli urbanisti – si scontrano coi proprietari rurali, il risultato è sempre lo stesso: la gente di campagna perde. Tornati a casa, gli urbanisti vogliono i loro bar col caffè espresso, le boutiques, i drive-throughs, ma vogliono che le zone rurali restino un museo di terre pastorali, a conservarsi per le loro visite sui fuoristrada.
Il fatto è che gli urbanisti sono implicati nell’eliminazione di molte più specie della controparte rurale, a causa della loro avidità. Visto che l’80% dell’America abita nelle aree metropolitane, non sono colpevoli almeno all’80%? Non dovrebbero, gli urbanisti, rimediare a questa ingiustizia economica, e ripagare in dollari? Sì, perché altri – specificamente: proprietari rurali, costruttori, grandi operatori – devono pagare per i loro spropositati appetiti urbani.
Se volgiamo davvero migliorare la qualità della vita sia all’umanità che agli animali, cerchiamo di essere intellettualmente onesti sui costi sociali per tutti i cittadini: non di usare la propaganda partigiana degli urbanisti contro una minoranza di cittadini. È tempo che la maggioranza urbana paghi la sua parte. O almeno che discuta di come risarcire economicamente l’America rurale.
Nota: il testo originale al sito di Planum (f.b.)
Il tema della logistica non è solo un problema di traffico o di ambiente, ma di gestione di un sistema socio-economico complesso che va affrontato coinvolgendo le parti interessate: produttori, importatori, esporta tori e; operatori specializzati del settore.
Il trasporto, fattore base dell’economia, aggiunge ai prodotti un’utilità di tempo e di luogo oltre a rendere possibile la competizione. Nessuna città può, infatti, vivere senza un trasporto merci e la sua competitività è legata anche al costo di far arrivare le merci ai punti di consumo urbani e far uscire ciò che essa produce.
Il commercio e i trasporti rendono disponibili i beni nel luogo e nel mo mento in cui il cliente li richiede. Il prodotto viene fabbricato con la sua funzione d’uso e di forma solitamente in un luogo e tempo diversi da quello che vuole il consumatore finale. La logistica è il processo che conferisce al prodotto un ulteriore valore attraverso due operazioni: il magazzinaggio che lo rende fruibile in un tempo diverso da quello di produzione e il trasporto, che lo rende utilizzabile in un luogo diverso da quello della produzione.
Il valore complessivo della logistica si attesta oggi sui 180 miliardi di euro (circa 1’11-12% del Pil). Il processo comprende lo spostamento delle merci da miniere e fabbriche fino ad arrivare ai magazzini dove si accumulano i prodotti finiti, da dove ripartono per raggiungere i consumatori. In Italia per ogni giorno e per ogni cittadino vengono trasportati su terra circa 60 chilogrammi di merce, se consideriamo che un cittadino medio consuma dai 6 agli 8 chilogrammi al giorno (che vuole trovare in tanti punti diversi: negozi, edicole, supermarket distributori di benzina, presso la sua abitazione, ecc.) significa che la merce viene trasportata quasi 10 volte e questo è dovuto a fattori consolidati della nostra economia, come la specializzazione delle unità produttive, le economie di scala e la struttura della distribuzione fisica. Il processo comincia dalle risorse naturali, che in un primo stabilimento diventano materie prime e in altri diventano parti, gruppi e semilavorati che confluiscono poi nell’assemblaggio del prodotto finito. La fabbrica alimenta un magazzino centrale che può consegnare ai punti di resa sia direttamente che attraverso dei depositi locali. Dai punti di consumo (casa, ristorante, ecc.) escono solo “rifiuti”o prodotti a fine vita che però in futuro rappresenteranno una “miniera” per la produzione di nuovi prodotti o energia.
”Mentre il trasporto dei passeggeri cresce meno del Pil anche per i fattori che riducono la mobilità (come il telelavoro), per quanto riguarda il traffico merci” ci racconta Giovanni Leonida, ingegnere, presidente Centro Studi Confetra e vice presidente Assologistica “la dematerializzazione interessa pochi prodotti (come biglietteria, musica, video) e il trasporto dei beni fisici aumenta in misura maggiore del Pil (1-1/7% più del Pil) per vari motivi:
l. La specializzazione delle fabbriche: prima in un’azienda si passava dalle materie prime a] prodotto finito, ora si effettua il solo assemblaggio finale, facendo arrivare il componenti/gruppi da tante altre fabbriche anche lontane e distribuendo poi il prodotto in tutto il mondo.
2. La riduzione del costo dei prodotti che ha portato a un maggior consumo di beni fisici.
3. La delocalizzazione di alcuni segmenti della produzione (soprattutto verso paesi dell’Est) che ha portato a trasportare su strada ciò che prima si trasportava da un reparto all’altro di una fabbrica.
4. La trasformazione dei gusti dei consumatori più orientato al consumo di prodotti “esotici” o comunque “fuori stagione” (uva a Natale, che arriva dal Cile; pere in primavera, che arrivano dall’Argentina, ecc.).
5. La riduzione del costo del trasporto (marittimo e aereo) che è rimasto uguale a 30 anni fa.
6. La globalizzazione che ha portato sempre più a un unico mercato con l’abbattimento delle barriere doganali e quote d’importazione.
In quest’ottica il trasporto aumenta e dovrà aumentare ancora di più, nono stante gli ambientalisti siano nemici dei trasporti. Con le nuove direttive UE sui prodotti a fine vita molte cose che oggi buttiamo in discarica dovranno essere raccolte ordinatamente e trasportate anche lontano per smontarle e recuperare materiali/parti/gruppi coi quali costruire nuovi prodotti. Dunque per far bene all’ambiente bi sogna trasportare di più”.
Gli USA che parrebbero il paese più automobilista del mondo trasportano per ferrovia il 43% in peso delle merci (disponendo di treni lenti, lunghi e a due piani) su strada il 30%, per fiume/canale il 10%, per oleodotto il 17%.
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Quali rischi per la mancanza di una pianificazione logistica
In Italia la mancanza di una pianificazione logistica seria fa sì che i magazzini vengano ubicati senza seguire un vero criterio funzionale (generalmente le città non vogliono sacrificare il territorio a favore di una pianificazione logistica) con la conseguenza che le non scelte urbanistiche pesano sulla pianificazione dei flussi delle merci. Spesso i magazzini si costruiscono in zone lontane e poco abitate, dove il costo del terreno è basso, col risultato di intasare ancora di più le tangenziali e le strade di accesso, situazione già critica per effetto del trasporto di persone.
”Far arrivare in città le merci per il consumo e farne uscire i manufatti costituisce da sempre un problema” sostiene Giovanni Leonida “che però viene spesso posto in modo errato. In fatti non ci si dovrebbe domandare “ come possiamo limitare il traffico merci in città?” ma piuttosto “dato che la città per vivere ha bisogno di un certo flusso di beni fisici in ingresso e in uscita, qual è il modo migliore per realizzarlo sotto il profilo economico e ambientale?”.
Il traffico in città è invece destinato ad aumentare per effetto delle normative sull’ambiente di cui si è già detto: le città sono dei grandi produttori di “beni a fine vita”, dagli elettrodomestici della casa alle apparecchiature d’ufficio. Molti prodotti, che oggi so no catalogati genericamente come “rifiuti”, dovranno essere raccolti con molta cura e trasportati più lontano, in centri specializzati per lo smontaggio ed il recupero di gruppi e parti funzionali. Anche il riutilizzo degli imballi porta vantaggi ambientali enormi. Una città è un ecosistema che dipende dall’esterno per la sua sopravvivenza e ha bisogno di un flusso costante di merci in ingresso e in uscita, non può vivere di sole informazioni e non può gestire la sua logistica senza la collaborazione del suo hinterland. Qualunque intervento che penalizzi questo flusso ha ripercussioni sulla sua competitività e vivibilità. Trattare la distribuzione come un puro problema di traffico o un tema isolabile dal contesto socioeconomico è di fatto ignorare la realtà. “Il nostro gap infrastrutturale, soprattutto strade e autostrade, è enorme: negli ultimi 30 anni siamo rimasti fermi mentre la media UE è aumentata di oltre il 50%”. Ci informa l’ingegner Leonida. “L’operatore logistico ha poi bisogno di suoi nodi (magazzini) la cui collocazione ideale dipende dal tipo di lavoro, ma la soluzione ideale consiste nel dedicare alle merci una zona specifica, sacrificando una parte di territorio per realizzare un interporto o piattaforma logistica o meglio una zona logistica periurbana nella quale si possono localizzare tutti gli operatori”. Se la localizzazione è buona, gli operatori vi si insediano, con vantaggi economici ed ambientali. Si tratta della strada maestra, che minimizza sia il costo per gli operatori che l’impatto ambientale, ma perseguibile solo con una pianificazione del territorio che tenga conto davvero delle esigenze della logistica. La mancanza di una politica seria per la localizzazione delle attività logistiche fa sì che gli impianti nascano un po’ ovunque, senza nessuna razionalità apparente. Considerando che i grandi flussi di accesso alla città dei mezzi commerciali dipendono dalla localizzazione degli impianti, si perde l’occasione di indirizzarli sulle vie di penetrazione meno usate dal traffico passeggeri.
Quasi nessuno dei piani regionali affronta il tema delle merci in modo integrato e si limita a cercare di modificare gli effetti senza intervenire sulle cause. Non ci sono alternative, nella misura in cui si sacrifica in modo pianificato una parte del territorio per qualunque infrastruttura occorre sacrificarne una parte per gli impianti delle merci. In assenza di pianificazione si avrà maggior consumo di territorio ed un traffico più elevato e meno governabile. Una corretta politica per gli insediamenti logistici avrebbe effetti rapidi, vista la tendenza attuale degli operatori a spostarsi in strutture nuove e razionali. La produttività dei mezzi in distribuzione urbana è molto bassa, ma si tratta di una media che ha poco significato perché è prevalente il conto proprio, i professionisti hanno già una produttività molto elevata.
L’introduzione di una piattaforma urbana per la distribuzione congiunta fra più operatori salvo eccezioni non è una soluzione praticabile perché non cambia questa situazione e introduce costi e complessità inutili.
Titolo originale: Designer Air - Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
È quantomeno curioso che Los Angeles, una città di cui si maligna perché soffocata dal traffico, piena di strisce commerciali, che è messa alla gogna come città simbolo dello sprawl e dello smog, si stia affermando come uno dei principali laboratori del paese per una progettazione edilizia e urbanistica sostenibile. Sotto la pressione della crescita, del traffico, delle trasformazioni demografiche, la metropoli sta attraversando una metamorfosi, diventa più densa, si riorganizza attorno ai suoi molti centri e corridoi di mobilità.
È diventato chiaro che, se le nuove linee ferroviarie e una Prius [ auto a propulsione ibrida della Toyota, n.d.T.] in ogni garage sono parti importanti della soluzione al problema della qualità dell’aria in California meridionale, una strategia egualmente importante – e anche molto meno costosa – è un cambiamento nelle modalità di sviluppo della regione. La California meridionale ha bisogno di crescere come città, non secondo suburbi sempre più decentrati. La maggior parte dei nuovi insediamenti dovrà essere realizzata per zone ad alta densità, complessi multifamiliari e condomini — e non per casette unifamiliari — principalmente attorno alle stazioni ferroviarie e lungo i corridoi serviti dagli autobus.
Ogni tre anni le amministrazioni locali devono redigere un piano dei trasporti da presentare al governo federale, a dimostrare che la regione rispetta il Clean Air Act. Se ciò non accade, a livello federale vengono trattenuti miliardi di dollari per finanziamenti ai trasporti, e l’intera regione potrebbe avere seri buchi di bilancio (il governo federale sostiene più di metà dei finanziamenti). Non è una minaccia teorica. Negli anni ’90, dopo decenni di crescita spontanea e costruzione di strade ad Atlanta – che allora aveva attraversato la maggior espansione geografica mai riscontrata nella storia per un’area urbana – il governo federale tolse i finanziamenti, conquistando le prime pagine sulla stampa nazionale.
Era davvero una cattiva immagine per la città, e mandò il boom economico di Atlanta verso una spirale discendente, da cui non si è ancora ripresa.
Per evitare un destino simile, la Southern California Association of Governments (SCAG: l’ufficio responsabile per l’importantissimo piano dei trasporti) ha dovuto diventare sempre più creativa con l’urbanizzazione che continua a spingere verso Las Vegas e San Diego. La vasta e verdeggiante Riverside County, rapidamente ritagliata in ranchettes da due ettari, è l’area in crescita più rapida dello stato in crescita più rapida, e la gente continua a guidare le proprie auto modello Escalade o Navigator da qui (la maggior parte lavora a L.A. o nelle contee di Orange) a là (e nuove abitazioni crescono nelle contee di Riverside e San Bernardino).
Il motivo per cui l’aria è diventata più pulita negli ultimi vent’anni ha soprattutto a che fare con aggiustamenti tecnologici – catalizzatori, carburanti più puliti – ma per quanto riguarda la tecnologia la regione è già arrivata sino al punto in cui si aspetta che gli scienziati facciano il prossimo balzo verso ... Chi può dirlo? Propulsione a idrogeno? E allora gli ultimi piani dei trasporti hanno imboccato una nuova direzione: qui, nella California meridionale, praticamente il posto dove è stato inventato lo sprawl, gli 83 membri del consiglio regionale dello SCAG si sono accordati su quella che si chiama “ Strategia del 2 Per Cento” e che contiene tutta la nuova urbanizzazione e sviluppo demografico (sei milioni stimati entro il 2030) all’interno del solo 2% della superficie. È meno fantasioso di quanto sembra, se si considera che la regione delle sei contee SCAG occupa poco meno di 1.000 kmq (contee di Los Angeles, Orange, Ventura, San Bernardino, Riverside e Imperial).
Nel passato l’area è stata in grado di dimostrare conformità alle direttive federali investendo somme enormi in nuove strade e linee ferroviarie per attenuare la congestione. E a dire il vero anche il nuovo piano stanzia 210 miliardi di dollari per strade e ferrovie sino al 2030. Ma qui arriva il colpo: se il 50% delle riduzioni in emissioni inquinanti di cui c’è bisogno per essere conformi alle direttive del Clean Air Act (e ricevere i dollari federali) vengono da quell’investimento di 210 miliardi, l’altro 50% di riduzione deriva dal sostegno allo sviluppo nei centri esistenti, attorno alle stazioni ferroviarie, entro i corridoi di trasporto. “Mentre i miglioramenti nei trasporti costano miliardi di dollari” sottolinea il direttore esecutivo dello SCAG Mark Pisano, “i vantaggi per le emissioni derivanti da modi diversi di uso del suolo non costano nulla”.
Ma ci sono anche molti altri benefici, aggiunge Pisano: costruire abitazioni ad alta densità vicino ai trasporti collettivi nei centri esistenti probabilmente stimolerà l’utenza dei mezzi sino al 30% in più e ridurrà i costi di residenza del 25-30 per cento (dato che l’abitazione ad alta densità è meno costosa della casa unifamiliare suburbana). “Dato il bisogno drammatico di incrementare sia l’uso dei trasporti pubblici che l’offerta di case a prezzi accessibili, era difficile opporsi a questo piano” racconta Pisano. E il voto del consiglio regionale è stato unanime.
Non è una fantasticheria
Le trasformazioni demografiche nella regione (e in tutti gli USA) insieme al traffico stanno ridefinendo l’ American dream della casa nei sobborghi col garage a due auto. Il traffico obbliga le persone a vivere entro geografie sempre più minuscole: abitare, lavorare e passare il tempo libero vicino a casa! Perché, a meno che non si prenda l’autobus rapido sulla Wilshire, un viaggio da est a ovest o viceversa non diverte più nessuno.
Il mutamento demografico è un terremoto. Le coppie sposate con figli – gruppo che ha costituito la maggioranza dei nuclei familiari sino a non molto tempo fa – ora conta solo per il 25% della popolazione, una percentuale che cadrà sino al 20% tra pochi anni. Gli adulti soli – baby boomers invecchiati e echo boomers più giovani – costituiranno presto la nuova maggioranza; e quanti adulti soli vogliono vivere in una casa unifamiliare nei suburbi? Sono i lofts, gli spazi abitazione-lavoro, i condomini, le case aggregate dentro a quartieri urbani che funzionano a tempo pieno tutta la settimana, con bar, manifestazioni artistiche, cinema e teatri, il tipo di residenza che preferiscono.
Anche il settore immobiliare si sta trasformando radicalmente.
La PricewaterhouseCoopers, che studia su base annua 500 operatori, investitori e costruttori di punta per il suo autorevole rapporto Emerging Trends in Real Estate, quest’anno ha classificato al primo posto nelle graduatorie di scelta le localizzazioni vicino ai trasporti collettivi, per tutti i tipi di insediamento: residenziale, commerciale, terziario.
Ecco perché la Strategia del 2 Per Cento della SCAG non è sostenuta solo dai funzionari pubblici, ma anche dal settore immobiliare, e addirittura dall’enormemente influente (e generosa nei contributi ai politici) Building Industry Association of Southern California, che comprende tutti i grandi costruttori residenziali suburbani, come Kaufman e Broad.
“Abbiamo sempre desiderato costruire in ambienti urbani, ma era troppo difficile” confida Kirk Roloff della Archstone-Smith, grosso costruttore nazionale che ha appena acquisito la Del Mar Station – ancora in costruzione – sulla Gold Line in centro a Pasadena. “Ora il mercato lo rende redditizio” aggiunge Tony Salazar, di un’altro operatore nazionale, McCormack Baron Salazar, “Tra l’altro, in un posto come L.A. non c’è davvero rimasto altro per costruire”.
L’urbanista John Fregonese di Portland, il consulente che ha collaborato con la SCAG nel passaggio alla Strategia del 2 Per Cento, aggiunge: “A Denver o Dallas si può ancora scegliere dove costruire, ma la California meridionale è la metropoli più densamente urbanizzata degli USA. I pianificatori qui possono anche baloccarsi con l’idea di densità sul modello di Portland, ma il modello dovrebbero essere Manhattan, o Chicago. Si prevedono altri sei milioni di abitanti entro il 2030: l’incremento maggiore dagli anni ‘50. La pressione della crescita qui continuerà, inesorabile e immutabile”.
Ma non c’è da preoccuparsi. La sola contea di Los Angeles County possiede 800 km di binari urbani ed extraurbani per pendolari, con più di 100 stazioni, e altri 25 km e 15 stazioni urbane in arrivo. La rete su ferro è affiancata da 2.300 autobus con 18.500 fermate, il numero dei corridoi del sistema Metro Rapid è in corso di espansione, da 11 a 28 in tre anni, e a Los Angeles il primo con dodici stazioni aprirà quest’autunno. La rete del trasporto pubblico – al contrario della rete stradale che produce sprawl ed emissioni nocive – può diventare l’armatura di un sistema di crescita più compatto, che renda possibile spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi collettivi, anziché prendere sempre l’auto: e respirare aria più pulita.
Nota: il testo originale al sito LA Weekly ; per chi fosse interessato ad approfondire, qui la pagina delle pubblicazioni dello SCAG(f.b.)
Titolo originane: Land Gluttony – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
[Questo articolo è estratto dal libro Sprawl Kills: How Blandburbs Steal Your Time, Health and Money, Sterling & Ross, 2005]
Con tanta attenzione rivolta all’invasione degli immigrati clandestini o ai prezzi della benzina che schizzano alle stelle, è difficile interessare la gente rispetto a un altro problema sfuggito al controllo. Stiamo finendo la terra.
Nelle discussioni sullo sprawl suburbano, badate alle menzogne riguardo ai terreni. L’argomento dell’abbondanza di terre è il più fuorviante, folle e pericoloso tra quelli utilizzati dai sostenitori dello sprawl. La diffusione urbana, sostengono, può continuare a risucchiarsi terre come se non ci fosse un futuro. Non fatevi prendere il giro quando questi agenti segreti dello sprawl affermano che solo una piccola quota, circa il 5% della superficie nazionale, è edificata, a far intendere che abbiamo ancora taaanta terra su cui spaparanzarci. Si tratta di una cifra generale per l’intero paese. Quello che conta in una prospettiva di mercato è il terreno su cui l’edificazione è tecnicamente possibile, e dove le persone vogliono abitare, non un dato statistico semplificato e fuorviante.
Per cominciare, pensate ai deserti, canyons, crinali montani, pendii ripidi, pianure gelate del settentrione, zone umide, regioni spoglie e desolate, pianure alluvionali, per esempio. Ci sono anche le terre federali, tribali, o le aree contaminate. Le terre di proprietà federale sono l’83% del Nevada, il 65% dell’Utah, il 63% dell’Idaho, ad esempio, e in generale contano per il 25 per cento di tutti i terreni. Esistono superfici significative destinate a parchi, boschi, zone umide, vedute paesaggistiche, habitat naturali. Alcune zone di interesse storico sono preziose a causa di cimiteri o vecchi edifici. Si è già perso il 20% dei campi di battaglia della guerra civile a causa dell’edificazione. Anche considerevoli superfici vicino a tracciati ferroviari, linee elettriche, torri di ripetitori per telefonia cellulare, condotti sotterranei, sono inedificabili.
Altre terre sono agricole, e la maggior parte degli americani intendono mantenerle tali. Un’indagine sui residenti di Seattle, stato di Washington, e Portland, stato del Maine, ha rilevato che il 91% riteneva importante conservare le terre agricole produttive. Ma se ne perdono 400.000 ettari l’anno a causa dello sprawl. Gli americani vogliono davvero, dipendere ancor di più dal cibo di importazione, anziché subire piccoli condizionamenti pubblici?
Tolte le terre dove l’edificazione è impossibile o improbabile, considerate che circa il 53% della popolazione degli Stati Uniti vive sul 17% del paese, escluse Alaska e Hawaii. I terreni più ambiti sono quelli lungo le coste. Agli americani piace abitare vicino all’Oceano, al Golfo del Messico, o ai Grandi Laghi, anche dove esistono rischi naturali. Se c’è un luogo dove esiste urgente bisogno di insediamenti più sostenibili, è proprio l’area delle, che contrariamente a quanto pensano i conservatori è limitata. Chi vuole vivere nelle aree costiere probabilmente non considererà egualmente attraenti le zone del Missouri o South Dakota.
La California è lo stato più popoloso, e il terzo per dimensioni dopo Alaska e Texas. Il commentatore di destra Randal O’Toole guarda il mondo attraverso lenti verniciate di sprawl, e diffonde il messaggio propagandistico secondo cui la California “è ben lontana dall’essere a corto di superfici” dato che solo l’8,6% di tutta l’area è edificata per insediamenti urbani e rurali. La Association of Environmental Professionals afferma: “La crescita in California si è sempre verificata verso i terreni aperti. Il paradigma sta cambiando man mano comprendiamo che sinora abbiamo utilizzato quasi tutto il territorio edificabile. L’edizione del 2002 del rapporto Invest for California dice che le contee in grande crescita di Los Angeles, Orange e Santa Clara se continuano i ritmi attuali inizieranno già nel 2010 a non avere superfici sufficienti a contenere le abitazioni previste. Nella città in rapida crescita di San Diego, è edificato l’88% dei terreni. Il Los Angeles Times ha pubblicato nel 2003 un articolo sul fatto che la Orange County ha raggiunto lo stadio finale delle possibilità di edificazione, e citando un analista immobiliare: “Abbiamo finito i terreni. Non ci è rimasto più niente”.
Riflettete su questi altri esempi di vorace consumo di suolo e, in altre zone, di scarsità di superfici:
Col 32% dei terreni edificati, il New Jersey è lo stato più costruito. Il rapporto Measuring Urban Growth in New Jersey ha calcolato che tutte le superfici disponibili rimanenti dello stato saranno edificate entro circa 40 anni, anche conservando 400.000 ettari. Il periodo potrebbe accorciarsi a 20 anni se il tipo di diffusione insediativa è soprattutto quello a lotti residenziali da 2 ettari o più, come ora è d’uso, o previsto dalle norme locali.
A Long Island, New York, alla fine del 2003 l’80% della Nassau County e il 64% della Suffolk County erano già edificati.
Ragionando sul boom edilizio del 2003 un economista della National Association of Home Builders ha dichiarato: “L’unica lamentela che ho ascoltato l’anno scorso dai costruttori, è che non riuscivano a trovare terreni a sufficienza”.
Pensate allo sprawl come alla tempesta perfetta. Proprio quando la popolazione cresce a grandi passi e si assottiglia la superficie per l’edificazione, l’insediamento diffuso si fa sempre meno denso. Si usa più superficie per ogni singola casa, e dato che le lottizzazioni sono più disperse, si usano più terreni per strade, reti idriche e altre infrastrutture. La crescita di popolazione non diminuisce: una persona in più ogni 11 secondi. Ogni 11 secondi! Pensate a circa 50 milioni o più, di persone che avranno bisogno di una casa nei prossimi vent’anni, e a 100 milioni o più entro il 2050. Il paese si avvia ad una popolazione di 400 milioni di abitanti, e il consumo di suolo determinato dallo spraw è insostenibile. Entro il 2050 il totale nazionale dei terreni edificati sarà più che raddoppiato, se continuano gli attuali modi di crescita insediativa. La costante influenza dell’industria dello sprawl ci farà diventare gli Stati Affollati d’America.
In tutto il paese si vende un ettaro di terreno a cifre da 500.000 a 2 milioni di dollari, se si trova in aree a scarsità di suoli e con una forte domanda di case. I conservatori favorevoli allo sprawl vogliono forse negare agli americani il diritto di vivere nelle zone geografiche che preferiscono? L’edificazione non governata porterà esattamente a questo, in particolare per chi non è ricco. Nel lungo termine, lo sprawl a bassa densità riduce l’accessibilità economica delle abitazioni.
La cupidigia porta alla golosità di terre. Edificando e consumando quantità eccessive di superfici, l’attuale ricerca di felicità da parte di pochi impedisce la felicità futura di molti. I bambini dovrebbero studiarlo a scuola: i terreni edificati sono terreni persi. Chi non si preoccupa di questo rapido consumo di suolo negli USA dopo aver conosciuto la verità sullo sprawl, ricorda quel tipo che cade dal sessantesimo piano, e mentre sfreccia a livello del ventesimo sta ancora pensando: “ È tutto OK”. Non subite le bugie sui terreni degli agenti dello sprawl. C’è un’America ancora più brutta e affollata che ci corre incontro.
Nota: la versione originale di questo estratto è disponibile sul sito Freezerbox dal 23 agosto 2005; per chi volesse saperne di più, un'intervista dell'Autore al periodico progressista del Wisconsin, The Capital Times (f.b.)
Titolo originale: Living Large, by Design, in the Middle of Nowhere – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
WESLEY CHAPEL, Florida - New River Township è, per il momento, ai confini dell’oltre.
I suoi due chilometri quadrati di case strette l’una all’altra stanno sulla fascia più esterna dell’espansione residenziale di Tampa, sette chilometri dal più vicino negozio di alimentari e mezz’ora dal più vicino centro commerciale. Appena altre la strada, oltre i ciuffi di aranci, il bestiame pascola languido tra il ronzio degli insetti di una spianata cotta dal sole, c’è solo qualche piazzola per case mobili e un chiosco che vende ombrelloni di paglia, a interrompere il grande mare di pini e palmizi.
Ma è una vita isolata che durerà poco. Ci sono più di una trentina di centri del genere, alcuni più grossi di New River, in corso di realizzazione nella Pasco County, che promettono 100.000 nuove abitazioni per i prossimi cinque anni. Sta arrivando anche un mega-mall, e il primo big-box, con Home Depot e Sam’s Club, ha tenuto non molto tempo fa la festa inaugurale.
”Prima c’eravamo solo noi e i pensionati”, dice Ruth Parker, occupatissima a sistemare un nuovo asilo sui margini di New River, annesso a Wesley Chapel, dove vive da nove anni. “Tra cinque anni qui ci sarà una città”.
L’America sta crescendo. E cresce più in fretta qui, su strade di campagna ai margini delle aree metropolitane, con centri che spuntano dappertutto e diventano fulcro, quasi feticcio, nelle strategie elettorali di entrambi i partiti.
Posti del genere non nascono per caso. Sospinti da forze economiche inarrestabili, plasmati da complessi mutamenti sociali, sono progettati sin nel più minuto dettaglio da una manciata di grossi costruttori, secondo un gigantesco piano generale per la nuova America. Nel caso di New River, il costruttore è KB Home, uno dei più importanti e attivi del paese, con vendite per 7 miliardi di dollari lo scorso anno, che l’hanno collocato al sesto posto nella classifica Standard & Poor delle 500 imprese con i ricavi più elevati.
La KB Home ha 483 centri in costruzione in 13 stati, e prevede di completare più di 40.000 nuove case entro l’anno. Ma è solo una della ventina di grosse imprese in feroce concorrenza per terreni e clienti, ai confini estremi dell’espansione suburbana d’America.
Osservando elaborate ricerche di mercato, queste corporations estrapolano i bisogni delle famiglie, affrontando questioni come la consistenza della moquette, la posizione della cucina, stabilendo quanti lampioni stradali e strade a fondo cieco possano evocare un gradevole senso di sicurezza.
Sanno quasi al centesimo quanto i consumatori siano disposti a pagare, in termini di ore di pendolarismo, per avere più spazio, un’idea di condizione sociale superiore, un senso di sicurezza.
”Le persone vengono qui, e dicono ehi, guarda quanto spazio aperto!” racconta Marshall Gray, presidente della filiale di Tampa della KB. “Ma vi assicuro che ne vale la pena, in tutti i terreni che potete vedere qui attorno”.
Entro i prossimi dieci anni, New River crescerà di 750 ettari, e 15.000 persone in 4.800 case unifamiliari, condomini, town houses e alloggi in affitto. Ci sarà un centro servizi di cento ettari, con 15.000 metri quadrati di uffici, 50.000 di negozi, e poi scuole, uffici pubblici, e 100 ettari di verde.
Ma al momento è solo un’isola, di 400 case suburbane in mezzo al nulla, un esurbio in fasce.
Il termine “esurbio” fu coniato negli anni ’50 con The Exurbanites di A. C. Spectorsky, storico sociale, a descrivere le zone semirurali molto lontane dalle città, dove i ricchi avevano tenute di campagna. Ma l’esurbio del XXI secolo è un animale del tutto diverso. E non sta nelle medesime fasce del suburbio tradizionale.
Rispetto al suburbio, poi, le case dell’esurbio in genere sono più grandi, e gli spazi tra l’una e l’altra più ristretti. Si tende a girare le spalle alla strada, con le stanze più grandi e usate poste sul retro. Anche la gente che ci vive è diversa. Invece delle énclaves bianche degli anni ’60-70, i nuovi esurbi sono un mélange di colori e culture.
Un esodo di tipo diverso
”In un certo senso, questi esurbi sono semplicemente suburbi dove si impiega più tempo ad arrivare”, dice John Husing, consulente politico-economico della California. “Qui la fuga dei bianchi dalle città non ha niente a che vedere. È solo una questione di prezzi delle case. La composizione di queste comunità rispecchia esattamente il tipo di emigrazione, e si tratta di persone con reddito sufficiente a considerarsi middle class”.
Basta guardare alle vicende di questi nuovi suburbi, per trovare figure imprenditoriali come Beat (si pronuncia BAY-at) Kahli, costruttore di Orlando.
Figlio di un panettiere di un sobborgo di Zurigo, Mr. Kahli ha abbandonato il sogno di correre al Tour de France quando ha scoperto che non sarebbe mai stato abbastanza veloce. Così è andato alla business school di Zurigo ed è diventato banchiere di investimento.
Nel 1989, Flag Development, un consorzio di Fort Myers, Florida, acquitò il terreno destinato a diventare New River da una famiglia di agricoltori, e un appezzamento anche più vasto nell’estrema fascia orientale di Orlando. Chiesero a Mr. Kahli di investire in immobili in Florida, e lui e altri europei entrarono nell’affare.
Ma nel 1993, coi suoi azionisti a chiedere risultati, il quarantunenne Kahli venne in Florida centrale e rimase esterrefatto.
”Ho pensato, oh signore, cos’abbiamo fatto?” dice. “Sulla carta questi posti sembravano non troppo lontani da Disney World o dal Kennedy Space Center, ma mi accorsi che erano molto, molto fuori mano, in mezzo al nulla”.
Nel mezzo della recessione dei primi anni ‘90 era poco realistico pensare di costruire in questi luoghi remoti, ricorda Kahli. Ma alla prima ripresa dell’economia, decise che si potevano trasformare la proprietà fuori da Tampa e l’enorme terreno a est di Orlando in grossi insediamenti.
”La maggior parte delle persone in Florida vengono da altri posti” racconta Mr. Kahli, ometto rotondo e vivace, con un entusiasmo contagioso per quello che ha costruito. “Io semplicemente venivo da un posto un po’ più lontano. Tutti mi accettavano. Non è assolutamente possibile che un americano possa andare dalle mie parti in Svizzera, ed essere accettato in questo modo”.
Mr. Kahli acquistò le quote dei suoi investitori europei, trovò nuovi soci americani, e si trovò con l’82% dell’affare. Nel 1996, si trasferì in Florida, prima a Fort Lauderdale, dove ha conosciuto sua moglie, e poi a Avalon Park, il suo intervento a est di Orlando. Ora vive nella vicina Winter Park in una casa con piscina e garage per cinque auto, milionario e pilastro della comunità, membro dell’ufficio direttivo della Orlando Regional Chamber of Commerce.
“Sono case normali per gente normale” dice Kahli mentre guida la sua brillante BMW nera lungo le strade serpeggianti di Avalon Park come un ammiraglio sulla sua nave.
Indica le scuole e lo stadio, che ha aiutato a realizzare, e il centro civico dove possiede due ristoranti e il settimanale locale, East Orlando Sun, su cui tiene una rubrica. Appena fuori dall’edificato c’è un cementificio, il primo di sette realizzati in tutto lo stato, che fa di lui il co-proprietario del principale fornitore di materiale della Florida.
Qualche volta, insediamenti come Avalon Park nascono in zone non appartenenti ad alcuna municipalità, in contee rurali remote. Qualche volta stanno dentro ai confini di vecchie cittadine, a cui offrono un gettito fiscale obbligandole però a realizzare i servizi. Spesso, quando sono cresciuti abbastanza, diventano essi stessi città.
Avalon Park comprende 14 “villaggi” coordinati attorno al centro civico. Gli abitanti, dice Mr. Kahli, sono soprattutto famiglie giovani, con una media di quasi tre figli a famiglia.
Quando il progetto sarà realizzato completamente, fra cinque anni, ci vivranno 15.000 persone. In centro ci sono già caffè, saloni di bellezza, un distributore di benzina e un enorme supermarket. In periferia spuntano nuove file di condomini.
”Questo è quello che sarà New River tra cinque anni” dice Mr. Kahli.
Ma ora non ne ha per niente l’aspetto. Basta guidare sulla Interstate 275 dalle torri luccicanti del centro di Tampa, oltre i vecchi suburbi con case in legno e il cinodromo, sin quando la striscia commerciale sui lati della strada si assottiglia, e inizia l’infinito canyon di pini e palmizi. Ci sono solo i cartelloni a rompere la monotonia, e almeno la metà pubblicizzano le nuove case: “ Un nuovo standard di lusso”, “ Comprate a partire da 220 dollari”. Giusto prima di entrare nel territorio della contea di Pasco, che sta come un cappello sull’area metropolitana di Tampa Bay, la I-275 incrocia la I-75. La seconda rampa di uscita verso nord immette nella Route 54.
”Una volta si diceva vado a Tampa a trovare i genitori, e vado a Pasco a trovare i nonni” racconta Mr. Gray, della KB Home. “Pasco era il regno dei quasi morti e dei neo sposati”.
Una spessa fascia di paccottiglia commerciale si ammucchia sullo svincolo della Route 54 e gli incroci circostanti, ma andando verso est il ciglio stradale diventa un intrico di cespugli e ghiaia. Si passa davanti a otto chiese, tutte Protestanti.
A circa sei chilometri dall’uscita della Interstate, l’ingresso a New River appare da dietro un gruppo di alberi, un viale con aiuole fiorite fiancheggiato da pareti intonacate e da una fila di case che offrono il retro al clamore della strada.
Mr. Gray, conoscitore di terreni, indica l’erba e i giovani alberi del viale d’ingresso. “Guardi l’erba di quel prato” dice. “Vede com’è sana e folta. Si chiama floratam. Adesso guardi quest’altro. Si chiama Bahia. Costa meno, ha un aspetto un po’ selvatico”.
Quando Kahli iniziò a costruire nel 1999, prima a Avalon Park e poi a New River, firmò un accordo con American Heritage, impresa acquisita dalla KB Home nel 2002. Ora, KB coordina le costruzioni residenziali, che comprendono una miscela di tipo della KB e della Windward, altro costruttore nazionale. Mr. Kahli mantiene il controllo sul centro civico e altri spazi commerciali.
Al centro la ricerca di mercato
Un ambito di cui la KB Home va fiera è quello delle ricerche di mercato. Ci si domandano cose come la posizione desiderata per la cucina, o quanti spostamenti pendolari il residente è disposto a digerire. E si svolgono verifiche sugli acquirenti per avere un’idea generale di chi sono e perché hanno comprato.
I dati della KB raccontano parecchio su New River. Nella prima fase della costruzione, più del 60% dei compratori aveva un reddito familiare di 40.000-80.000 dollari: per Tampa, questo significa solida middle class. Circa la metà era fra i 30 e i 40 anni. Il 38% era ispanico, il 24% bianco, e il 16% nero. Tre quarti dei compratori avevano bambini. Più dell’80% si spostava per lavoro, la gran maggioranza verso Tampa, con tempi in macchina da 20 minuti a un’ora.
Quattro anni fa, le prime case di New River si vendevano a 150.000 dollari. Oggi i modelli più piccoli ne costano 212.000, e l’abitazione media di circa 250 mq tre stanze e un garage per due macchine costa almeno 250.000 dollari.
Nelle ricerche più recenti sugli acquirenti di case a Tampa, la KB ha chiesto alle persone cosa ritenevano più importante nella casa e nel quartiere. Volevano più spazio e un maggior senso di sicurezza. La sicurezza sta sempre al secondo posto, anche in posti dove di fatto non c’è criminalità.
Alla domanda cosa volete in una casa, l’88% ha risposto un sistema di sicurezza, il 93% preferisce quartieri con “più illuminazione stradale” e il 96% insiste su serrature speciali e porte blindate.
E così la KB Home offre tutto quanto. “Sta a noi capire cosa vuole davvero la gente, e tradurlo in architetture” dice Erik Kough, vicepresidente alla KB responsabile per l’architettura. E la compagnia progetta i suoi quartieri con strade curve, marciapiedi, cul-de-sacs per mantenere il traffico lento, dare un senso di contenimento allo spazio, un aspetto diverso dal sistema stradale urbano che le giovani famiglie middle-class istintivamente collegano alla criminalità. “Mi sento decisamente al sicuro, qui. Mi sento protetta” dice Lisa Crawford, che si è trasferita a New River circa un anno fa col marito, Steve, e i loro due bambini.
”E posso dirvi che la gente di Tampa è parecchio diversa dalla gente di qui” aggiunge la signora Crawford. “A Tampa, c’è un ritmo più veloce. Mi piace, qui, c’è più comunità, un ambiente da piccolo centro”.
Gray dice che alla sede di Tampa della KB si parla di “ zona Mendoza” quando si tratta di decidere quali caratteristiche inserire in una casa. È un modo di dire derivato dal baseball e si usa per descrivere qualcuno con una media di battute oltre 0,200. Gray dice che non sa come sia migrato nel linguaggio immobiliare, ma lo usa per descrivere elementi fortemente desiderati da oltre il 70% dei compratori.
Un grande spazio per gli sgabuzzini, una dispensa dove si possa entrare, un patio coperto, sono tutti in zona Mendoza, e così vengono inseriti in tutte le abitazioni di New River. Chi spende più di 220.000 dollari per la propria casa ha lo spazio per uno studio, perché questo sta in zona Mendoza. Oltre i 260.000, ci sono i lavandini doppi nel bagno principale.
Arrivati al cuore della questione, la KB chiede ai compratori di dare un valore in dollari al proprio tempo. Accetterebbero un tempo di spostamento per lavoro più lungo di 15 minuti, in cambio di una casa del 10% più economica? E del 15%? E se lo spostamento fosse di 30 minuti in più?
La risposta, ha deciso la compagnia, è che una casa a New River deve essere di 12.000 dollari più economica di una casa identica nei sobborghi settentrionali di Tampa, 15 minuti più vicini al centro. E a Silverado, quartiere che la KB spera di realizzare 15 minuti più a nord nella Pasco County, la casa deve costare 12.000 dollari in meno che a New River.
Quasi tutte le contee con popolazione in crescita degli Stati Uniti sono aree di esurbio. E questi centri tanto lontani si sono dimostrati, nelle ultime elezioni, fra i più decisi sostenitori del Presidente Bush. I suoi consiglieri principali danno almeno in parte il merito della vittoria nel 2004 a una strategia concentrata su quella che il direttore della campagna, Ken Mehlman, chiamava la “fortezza” repubblicana, lontana dalle città.
Anche se ci sono opinioni diverse sul perché i repubblicani si sono comportati tanto bene in queste zone l’anno scorso, sembra che la ragione sia riconducibile a un fatto demografico. La massa delle persone che sceglie di vivere in comunità esurbane, famiglie proprietarie con bambini piccoli e un desiderio di sicurezza e più spazi per sé, statisticamente votano più probabilmente per i Repubblicani, come i residenti rurali che abitavano qui prima dell’arrivo dell’esurbio.
Nel 2004, i due distretti più vicini a New River – gli elettori alla vicina scuola media e alla Chiesa Battista a qualche chilometro di distanza – hanno dato 1.265 voti, o il 61 per cento, a Mr. Bush, e 782 voti, o il 38 per cento, a John Kerry.
Una comunità di Repubblicani
”La maggior parte delle persone che conosco qui sono repubblicani” dice Yolanda Breuer, 34 anni, che lavora per una compagnia di software a Tampa. “Al lavoro, in città, è più 50-50. Certo ci sono anche alcuni sostenitori di Kerry qui. Ma la maggior parte sono Repubblicani”.
La signora Breuer racconta che lei e suo marito Andrew, 29 anni, che ha cambiato lavoro diventando vigile del fuoco per la Pasco County, non si sono trasferiti nell’esurbio per stare insieme ad altri che condividevano i loro valori. Semplicemente, è successo così.
”Quello che volevamo era una casa più grande, con una camera da letto più grande” dice. E l’hanno trovata, trasferendosi da circa 200 metri quadrati a circa 400, compreso un patio con una schermatura alta due piani. Sanno di aver pagato un prezzo per vivere qui. In un giorno normale, il tempo di pendolarismo della signora Breuer è di 35 minuti, che si possono gonfiare fino a un’ora e più nelle brutte giornate. Le strade di campagna sono intasate all’ora di punta, o quando familiari e furgoncini compiono il quotidiano pellegrinaggio verso scuole o campi di pallone. “Oh, è tremendo” dice la signora Breuer. In una casa modello KB non molto lontana, Piper Bein e suo marito Mike, installatore elettrico, casualmente stanno visitando l’edificio di 300 metri quadrati. Alla domanda cosa vogliono dalla nuova casa i Bein, entrambi 28 anni, rispondono all’unisono “spazio”.
I loro due bambini, Landen, 6 anni, e Cade, 3, scorazzano per le stanze giocando a nascondino nel labirinto di anticamere, dispense, sgabuzzini e bagni.
Il venditore, Ole Pietersen, coglie al volo l’occasione per indicare uno sgabuzzino: “C’è un sacco di posto per nascondersi, eh, ragazzi?” dice, sorridendo ai genitori.
Nota: il testo originale al sito del New York Times ; sulle tendenze demografiche e insediative dell'esurbio, anche un articolo qui su Eddyburg Megalopoli : la KB Homes più volte citata nell'articolo, è il potenziale sponsor della fiction televisiva Casalinghe Disperate (f.b.)
Titolo originale: Is your council wasting the countryside?– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’Inghilterra ha bisogno di centinaia di migliaia di nuove abitazioni nel prossimo decennio, per venire incontro alla crescita della popolazione e alla caduta di dimensione delle famiglie. Ma queste nuove abitazioni consumano più terreno di qualunque altro tipo di insediamento, diffondendosi su tutta la campagna, e portando con sé nuove strade e traffico aggiunto. Contemporaneamente, esistono enormi aree di terreni abbandonati e edifici degradati nelle nostre città e cittadine, che danneggiano i quartieri vicini.
La soluzione: riusare gli spazi e abbandonare l’uso delle basse densità.
La Campaign to Protect Rural England da tempo sostiene che dovremmo usare questi spazi un tempo urbanizzati, ma ora sottoutilizzati o abbandonati, detti brownfield land, prima di costruire sull’aperta campagna, o greenfield land. I costruttori potrebbero anche riportare alla vita alcuni edifici abbandonati o sottoutilizzati, convertendoli ad abitazioni.
Allo stesso tempo, dovremmo smettere di costruire nuove case a densità dispendiosamente basse, inferiori alle 30 abitazioni ettaro [il “ twelve per acre” manualistico di Raymond Unwin, fissato nel 1902 con la città giardino, n.d.T.] che sono diventate la norma. Costruendo a densità più alte – non alte in senso assoluto – si utilizza il terreno in modo più efficiente e si salva la campagna. Ed esistono altri benefici ambientali, rinunciando alle basse densità. Si creano comunità più compatte, dove abitazioni, luoghi di lavoro, negozi e servizi sono più vicini gli uni agli altri, i trasporti pubblici sono più economicamente efficienti e le persone trovano più comodo camminare o andare in bicicletta, piuttosto che basarsi sull’uso dell’automobile.
Riuso dei terreni e conversioni
Nel 1998 il governo ha iniziato una politica per le abitazioni che aveva l’obiettivo di far realizzare il 60% di tutte le nuove case su terreni già edificati entro il 2008. Si tratta di un obiettivo raggiunto concretamente nel 1999, e questo suggerisce che si potrebbe fissare un obiettivo superiore.
Costruire a densità più elevate
La politica per le abitazioni del governo indica un’oscillazione da 30 a 50 abitazioni ettaro per le nuove costruzioni, e densità più alte per le aree vicine ai centri città, o con buoni collegamenti di trasporto. Le ultime statistiche indicano che le densità ora si stanno avvicinando al centro di questi estremi, con una media densità di 39 abitazioni ettaro nel 2004.
Abbondanza di spazio
Nella sua azione contro le basse densità, la CPRE non sostiene che dovremmo costruire solo case multifamiliari, o che i nuovi insediamenti debbano essere sviluppati in altezza. Niente di tutto questo. Si possono realizzare case unifamiliari spaziose, con un proprio giardino e parcheggi per le auto, con densità di 50 abitazioni per ettaro. Vogliamo nuove case di qualità, articolate per vari tipi: abitazioni di dimensioni generose con giardino per famiglie con bambini, e insieme case più piccole per le famiglie più piccole.
Il vostro comune distrugge la campagna?
Il vostro comune dà i permessi per le nuove costruzioni. La CPRE vuole esercitare pressioni sui costruttori perché facciano il massimo uso dei terreni brownfield, e perché non vengano autorizzate nuovi insediamenti a distruttive basse densità.
Nota: qui il testo originale, insieme alle altre iniziative al sito della Campaign to Protect Rural England (f.b.)
City of Philadelphia, Planning Commission, [Report by: Ernest Leonardo, Director, Strategic Planning and Policy, Elizabeth Kozart, Chief, Economic Development Unit] Comparison of City and Suburban Living Costs, 2001; Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
[...] Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio è uno studio sistematico sui costi reali sostenuti dalle famiglie in situazioni paragonabili, nell’area urbana e in quella suburbana. Questa scelta di città/suburbio è importante, dato che i dati più recenti sugli spostamenti della popolazione indicano che più della metà delle famiglie che si spostano al di fuori del territorio della City of Philadelphia trovano casa in una delle otto contee circostanti della Pennsylvania e del New Jersey.
Studi condotti in precedenza indicano che uno dei principali vantaggi offerti dalle comunità suburbane, o almeno uno dei vantaggi percepiti, sono tasse inferiori, premi assicurativi per l’auto, costi inferiori per l’istruzione. Ma altri dati indicano che la principale ragione che spinge gli acquirenti a comprare una casa in città è il “prezzo accessibile”.
La ricerca Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio è stata pensata per documentare i vantaggi economici di città e suburbio, e successivamente determinare se in generale una scelta sia più vantaggiosa dell’altra dal punto di vista dei costi. Lo studio ha posto, e tentato di dare una risposta, alle seguenti precise questioni:
• Se una famiglia si sposta da un’abitazione in città ad una comparabile in un centro suburbano, come cambia il suo bilancio annuale?
• Si tratta di un cambiamento sufficientemente significativo da influenzare le decisioni delle famiglie di Filadelfia sul restare o meno a risiedere in città?
IL METODO DELLA RICERCA
Generalmente, gli studi che paragonano i costi della vita fra centro urbano e zona suburbana circostante comparano i prezzi medi delle abitazioni, o i costi della vita in abitazioni di prezzo simile, senza badare se le due abitazioni siano in sé equivalenti.
Visto che le famiglie abitualmente pagano di più, per case simili, nei sobborghi che non a Filadelfia, questa indagine della Planning Commission ha paragonato alcune specifiche abitazioni di città con due abitazioni suburbane ciascuna. La prima era una casa venduta nella medesima fascia di prezzi di quella urbana, mentre la seconda era un’abitazione più costosa, equivalente per dimensioni e caratteristiche generali a quella di città. Si noti che, per decidere la “equivalenza” fra le case, la Planning Commission ha guardato prima le dimensioni, e poi stile e aspetto esteriore.
Sono stati scelti dieci quartieri di Filadelfia, paragonandoli a dieci quartieri suburbani in Pennsylvania e New Jersey. Le corrispondenze città/suburbio sono state determinate sulla base dei movimenti di famiglie individuati nel corso di interviste a operatori immobiliari e urbanisti locali. [...]
È stato prescelto un caso di vendita recente in ciascun quartiere di Filadelfia, in modo tale da avere a disposizione sia i prezzi, sia le informazioni fiscali. Queste case sono poi state comparate con due ciascuna, in localizzazione corrispondente suburbana, di cui una in genere equivalente per costo, e l’altra equivalente per dimensioni, tipo e qualità. Queste abitazioni suburbane sono state scelte anche perché avevano cambiato proprietà di recente, e offrivano così dati facilmente accessibili su prezzi e tasse.
È stata poi assegnata a ciascuna abitazione di città una immaginaria famiglia, in base al prezzo di acquisto della casa. Ciascuna famiglia si caratterizzava per reddito annuale, numero di componenti occupati, numero di figli a carico, numero di automobili, localizzazione del posto di lavoro, tipo di scuole parrocchiali/private frequentabili dai bambini. È stato poi calcolato un budget annuale per abitazione, tasse, trasporti, spese scolastiche per ciascuna famiglia di città. Abbiamo poi verificato l’impatto su questo budget dello spostamento della famiglia verso ciascuna delle nuove abitazioni suburbane, in varie condizioni:
• se i genitori lavorano in città o nei suburbi
• se i figli restano nello stesso tipo di scuola (pubblica o privata/parrocchiale) o cambiano da privata/parrocchiale a Filadelfia, a pubblica nel suburbio.
RISULTATI
In generale, lo studio Comparazione dei costi della vita fra città e suburbio rivela che, se un’abitazione equivalente è davvero più costosa nelle comunità suburbane, la differenza di costi è abbastanza ristretta da essere coperta con economie possibili su alte spese, come la retta di una scuola privata o parrocchiale o le tasse locali sul reddito. In particolare, se i genitori lavorano nel suburbio o se i bambini si trasferiscono da un tipo di scuola privata/parrocchiale in città verso quella pubblica nel suburbio, è meno dispendioso abitare nella casa equivalente del suburbio.
Ma, se almeno uno dei genitori lavora in città, e i bambini continuano a frequentare lo stesso genere di scuola, sia pubblica o privata, nel nuovo ambiente suburbano, è meno dispendioso abitare in città, rispetto ad una casa equivalente nel suburbio. Queste affermazioni sono riferite in dettaglio nei paragrafi seguenti. [...]
Costi dell’abitazione
• Una famiglia che si sposta dalla città verso una comunità suburbana deve pagare di più per un’abitazione equivalente, in tutti i casi, eccetto se si muove da Eastwick verso Springfield, nella Delaware County.
• Fra le comunità suburbane prese in considerazione, la quota della tassa immobiliare (la tassa come percentuale del prezzo d’acquisto della casa) era maggiore che in città in sei casi, e uguale o inferiore in quattro (tutti nella Montgomery County). A partire da 1998 questa quota è aumentata in tutti i casi eccetto uno, nelle comunità suburbane, mentre è rimasta stabile a Filadelfia.
• Eccetto per un caso, le quote annuali di assicurazione della casa erano più basse nelle comunità suburbane, anche quando la casa acquistata era più dispendiosa.
• In tutti i casi i costi complessivi annuali (mutuo, interessi, tasse, assicurazione) erano più alti nel suburbio che in città per case equivalenti di dimensione comparabile.
Costi dell’istruzione
• I risparmi realizzati spostando i figli da scuole private o parrocchiali in città verso scuole pubbliche nei suburbi, sono il dato più certo emerso dallo studio: in tutti i casi, con uno o tre figli, se iscritti a scuole parrocchiali o altro tipo di private, la famiglia risparmia sul bilancio annuale anche se acquista una casa di dimensioni comparabili ma più costosa.
• Si è verificato un solo caso, di spostamento dal quartiere Whitman a Turnersville, New Jersey, dove i risparmi per l’istruzione non hanno coperto del tutto le differenze negli altri costi.
• La Planning Commission ha anche esaminato il budget familiare in assenza di qualunque cambiamento nelle spese per l’istruzione (i bambini vanno da una scuola pubblica all’altra, o restano in una scuola privata/parrocchiale). In questi casi, la famiglia non risparmia mai nello spostamento verso un’abitazione equivalente nel suburbio, tranne quando si verifica una significativa oscillazione nei risparmi sulla tassa al reddito, come descritto di seguito.
Tasse locali sul reddito
• In sei dei dieci casi in cui entrambi i genitori lavorano nel suburbio e i figli restano nello stesso tipo di scuola, le famiglie risparmiano se si trasferiscono in un’abitazione equivalente del suburbio con costi generali più alti.
• Il risparmio sulla tassa locale al reddito, per chi si sposta fuori dalla città ma continua a lavorarci, è troppo piccolo per fare una differenza significativa sul bilancio familiare.
• Nel caso in cui un genitore lavora in città e l’altro nel suburbio, il risparmi realizzati non sono sufficienti a tradursi in effetti positivi sul bilancio generale. Ciò si deve al fatto che una famiglia in cui un solo componente lavora fuori città probabilmente aveva una sola auto abitando in centro (nei quartieri più esterni come Somerton o Chestnut Hill si è ritenuto che anche una famiglia di Filadelfia possedesse già due auto) e ne comprerà una aggiuntiva trasferendosi nel suburbio. Nei casi in cui entrambi i genitori lavorano fuori città, si è presunto che la famiglia possedesse già due auto, e che quindi non dovesse sostenere la spesa aggiuntiva dell’acquisto di una nuova.
Costi di trasporto
• I costi dell’assicurazione sull’auto sono in tutti i casi più bassi nelle comunità suburbane, anche se la famiglia possiede un’auto assicurata in città e due con la polizza nel suburbio. Comunque, nella maggior parte dei casi la famiglia dovrà comprare un’auto aggiuntiva quando si trasferisce nel suburbio. I risparmi realizzati con i costi inferiori dell’assicurazione sono più che superati dal costo aggiuntivo di un’altra auto.
• I costi degli spostamenti da e per il lavoro variano molto a seconda delle distanze e della disponibilità di trasporti pubblici. È difficile fare qualunque generalizzazione che abbia senso.
Non ci sono grandi vantaggi economici
• Come chiarito sopra, se una famiglia si trasferisce in un’abitazione di dimensioni equivalenti, più costosa, nel suburbio, ma entrambi i genitori continuano a lavorare in città e i figli a frequentare una scuola pubblica, il costo della vita familiare annuale aumenta. Questo aumento oscilla dall’11% per i trasferimenti da Somerton a Bensalem, al 26% per quelli da University City a Narberth, e al 45% per chi si trasferisce da Whitman a Turnersville.
• Se la famiglia sceglie di acquistare una casa più piccola ma di prezzo comparabile nel suburbio, in assenza di altri fattori di risparmio le spese aumentano ancora, se si deve comprare un’auto aggiuntiva.
CONCLUSIONI
Per molte famiglie middle class che vivono attualmente a Filadelfia, trasferirsi in una comunità suburbana può essere non sono economicamente fattibile, ma anche finanziariamente vantaggioso. Molte famiglie di ceto medio mandano già i figli a scuole private o parrocchiali. Il 24% dei bambini in età scolare di Filadelfia nell’anno scolastico 1999-2000 ha frequentato scuole non-pubbliche. Questa proporzione probabilmente sale fra i bambini in età scolare delle famiglie di ceto medio-superiore.
In più molti residenti, specie nei quartieri più esterni ai margini della città, lavorano già nel suburbio. Secondo i dati del censimento 1990, il 36% degli abitanti di Somerton lavora fuori dai confini comunali. A West Oak Lane-Cedarbrook, la percentuale è del 28% e a Chestnut Hill - West Mt. Airy del 26%. Questi dati indicano che Filadelfia ha un’ampia base di residenti che potrebbe avvantaggiarsi dei risparmi sulla scuola, la tassa locale sul reddito, i costi inferiori dell’assicurazione su casa e auto.
Ad ogni modo, il fatto che trasferirsi nel suburbio sia finanziariamente vantaggioso o comunque fattibile per un significativo segmento della popolazione di Filadelfia, non significa che tutti gli abitanti possano permettersi questo spostamento. Trasferirsi dalla città al suburbio è conveniente nei casi in cui le spese aggiuntive per l’abitazione sono abbastanza ridotte da essere compensate da altri fattori di risparmio, come quello sulle scuole private/parrocchiali o la tassa sul reddito. Nei casi in cui i costi aggiuntivi per la casa suburbana non sono compensati dai risparmi sulla scuola o sul fisco, i quartieri interni di Filadelfia rappresentano la scelta più conveniente.
Nota: il Rapporto insieme agli altri studi della Collana e pubblicazioni, al sito della Philadelphia Planning Commission; allegate di seguito le tabelle statistiche comparative (f.b.)
Molti anni fa, la signora Julia Cowans - nata a Harlan, Kentucky; moglie di un minatore nero, predicatore battista e sindacalista, militante dei diritti civili - cantò uno spiritual che, come tanti, era anche una canzone di lotta: «How I Got Over» - come ce l'ho fatta, come ho superato le prove e gli ostacoli di una vita fatta di montagne da scalare, per arrivare fino a qui. Se mai scriverò un libro su Harlan, questo sarà il titolo: per questa gente di montagna, anche solo sopravvivere è stato un atto eroico di resistenza e di lotta. Nel frattempo, il capitale ha inventato un altro modo di passare le montagne: semplicemente, spianarle. Jim e Dana hanno 14 anni (Che musica vi piace? «Christian rock»). Due anni fa, con tutta la classe e un'insegnante coraggiosa, si sono accampati in cima alla Black Mountain, al confine con la Virginia. La Arch Minerals, che aveva chiuso l'ultima miniera di profondità dopo una resistenza accanita dei minatori, progettava di spianare la vetta per estrarre il carbone a cielo aperto. A parte il danno ambientale, era uno sfregio simbolico: Black Mountain è la montagna più alta dello stato, e un ambiente protetto. I ragazzini di Harlan County si sono piazzati lì, hanno fatto una catena umana, hanno mobilitato la contea, e la montagna è salva. Certo, lo stato ha compensato la Arch Minerals con una cifra equivalente ai mancati profitti; ma la mobilitazione dei ragazzini di Harlan ha dimostrato che - nonostante la povertà, la disoccupazione, la droga, lo scoraggiamento - a Harlan qualcuno resiste.
Cime decapitate
Decapitare le montagne - «mountaintop removal» - è l'ultima trovata delle aziende minerarie e delle camere di commercio. Dicono che così non solo si arriva al carbone più facilmente, ma tra cime spianate e valli riempite coi detriti si creano in questo territorio di colli scoscesi e strette vallate i terreni pianeggianti su cui potrebbero installarsi le industrie di cui c'è bisogno per promuovere occupazione e sviluppo. Ora, a parte che le contee più povere d'America stanno in Arkansas, che è piatto come una tavola, il danno immediato e sicuro è più grave dei vagheggiati proventi industriali: dalle montagne disboscate e valli riempite di terriccio friabile il ferro e lo zolfo si infiltrano nelle falde da cui devono bere gli abitanti (la prima volta che cercai di lavare i piatti, dopo mezz'ora che sfregavo mi dissero: lascia perdere, quella patina gialla è lo zolfo che sta nell'acqua con cui li stai lavando), e i torrenti scendono senza ostacoli a spazzare le valli.
Per fortuna, la resistenza non è limitata ai ragazzini di Harlan. Il Kentucky possiede una letteratura regionale vivacissima, e - su iniziativa di Wendell Berry, un maestro del pensiero ambientalista e ruralista - si sono mobilitati gli scrittori. Gurney Norman, Bobbie Ann Mason, Ed MacClanahan, Wendell Berry e altri hanno fatto un giro per tutti i luoghi dove stanno decapitando le montagne per mobilitare l'opposizione e denunciare il disastro. Un movimento chiamato Mountain Justice ha contestato l'assemblea padronale e messo piedi gruppi di base in tutte le montagne.
Insomma, c'è ancora un Kentucky che resiste, e usa la cultura come arma di lotta. Da Harlan, passando per un paesaggio di bellezza indimenticabile, scavalco Pine Mountain (ancora non decapitata, ma ferita da un'inutile superstrada: le strade erano l'altro mito sviluppista; adesso l'Appalachia è mezza asfaltata e le macchine l'attraversano senza fermarsi) e scendo a Whitesburg, Letcher County, abitanti duemila.
Qui, negli anni `60, coi soldi della Guerra alla Povertà, è nata una cooperativa di ragazzi locali che da allora fanno un lavoro sui media per far conoscere la loro terra e la loro cultura, creare occupazione, e fermare la fuga delle menti migliori della loro regione. Appalshop (www.appalshop.com) è un modello di lavoro culturale di base, attivista e professionale. I loro film sulla storia, le lotte, i problemi, la musica e i saperi di un'Appalachia culturalmente inesauribile vengono mostrati e premiati in tutta l'America e fuori (al festival di Amsterdam, all'università di Roma); il Roadside Theater scambia esperienze, racconti e musiche con gli indiani di Zuni di Arizona; l'etichetta June Appal sforna a getto continuo musica irresistibile. Dalla loro radio si diffonde il meglio di tutte le musiche possibili: arrivo che trasmettono bluegrass, poi la consolle passa a una teenager con tanto di piercing che mette lo heavy metal più feroce e trasgressivo che esiste (il giorno dopo, in collegamento telefonico da New York, commento con Dee Davis mezz'ora di programma coi CD del Circolo Gianni Bosio e del manifesto...). Mimi Pickering, documentarista, mi mostra l'archivio e mi riempie di video da portare a casa. Su un magnetofono c'è la scritta che campeggiava sulla chitarra di Woody Guthrie: «this machine kills fascists», questa macchina ammazza i fascisti. Gianni Bosio sarebbe stato contento.
Dal locale al globale
Esperienze «locali» come Appalshop sono insediate in paesetti rurali di montagna, ma parlano con tutto il mondo (c'è un documentario di Appalshop sulla tragedia di Bhopal in India: la multinazionale responsabile ha la sede e un'altra fabbrica qui vicino). Il giornale locale, The Mountain Eagle, l' «aquila delle montagne» non ha paura di dire la verità al potere, e vede più mondo della maggior parte della stampa americana: non a caso, ha vinto il premio nazionale della stampa che l'anno prima era andato al New York Times. La copia che conservo ha una prima pagina sulla situazione politica in Cina, e la seconda sulle vacanze della famiglia Jones in Florida.
Dee Davis è uno dei fondatori di Appalshop (e colui che, molto tempo fa, mi insegnò in un caffè di Hazard a giocare a Packman). Ha fondato a Whitesburg un Center for Rural Strategies (CRS), per creare una rete di autodifesa e di crescita condivisa dell'America rurale (che, ricorda, ha 52 milioni di abitanti). Ma che possono fare due o tre persone in un centro di strategie rurali nella remota, lillipuziana Whitesburg?
Be', possono prendere di petto una potente rete televisiva come la CBS e bloccare un progetto offensivo per tutta l'America rurale. L'idea di The Real Beverly Hillbillies (basato su un fortunato serial su una famiglia di montanari appalachiani arricchiti e cafoni) era di prendere una famiglia - il più rustica e montanara possibile - e portarla a vivere in una villa a Beverly Hills facendoci un «reality show» («Vi immaginate le risate quando devono scegliersi un maggiordomo?», diceva il presidente della CBS). I montanari bianchi poveri sono gli unici su cui sia lecito diffondere stereotipi insultanti; venire messi alla berlina in quel modo era un insulto che avrebbe rinforzato il senso di inferiorità, la bassa stima di sé, che sono un terreno di coltura della depressione e della droga.
Dalla minuscola Whitesburg è partita una campagna che ha coinvolto giornali, comunità, attivisti in tutta l'America, culminando in una manifestazione di minatori davanti alla sede della CBS a New York, e ha vinto (la CBS ci ha riprovato con gli Amish della Pennsylvania - ricordate Mission? - e anche stavolta il CRS di Whitesburg gli si è messo di mezzo). Nel frattempo, da Whitesburg si è diramata una struttura internazionale, lo IRSSA (International Rural Strategies Association) che tocca India, Australia, Kenya, Messico... e Italia (il Circolo Gianni Bosio e l'IRSSA stanno producendo un CD di musiche di lotta dalle campagne del mondo).
Ricostruzione culturale
Tornando a Harlan, intervisto i membri del PACT, un progetto del «community college» locale che usa il lavoro culturale per ricostituire un tessuto sociale lacerato. Hanno messo macchine fotografiche in mano a un centinaio di ragazzi, gli hanno detto, fotografate il meglio e il peggio di quello che avete intorno, e hanno fatto una mostra; hanno mandato gente di tutte le generazioni e tutti i mestieri (il «community college» fa educazione permanente) a raccogliere storie in giro per questo paese di grandi narratori, hanno messo tutto in mano alla poeta Jo Carson, e ne nascerà uno spettacolo teatrale con un centinaio di attori; stanno facendo manualmente, una per una, le tessere di un grande mosaico che riproduce una fotografia del paesaggio attraversata da frasi prese dai racconti... Più ancora dei risultati, conta il lavoro in sé: alternativa al «qui non c'è niente» a cui tutti attribuiscono l'attrazione della droga; riscoperta del valore della propria storia e cultura e delle proprie capacità di vedere, ascoltare, raccontare. Il cuore della mostra è l'accostamento fra due foto: un tavolo coperto di pillole e una croce. Le due alternative, Gesù o la droga, dice Darleen. Io penso all'oppio dei popoli, ma in realtà ha più ragione lei.
La prima volta che venni qui, mi mandarono a un posto chiamato Survival Center. Credevo che fosse una metafora e invece la sopravvivenza era proprio letterale. Dopo l'ultima inondazione si erano organizzati per costringere le compagnie minerarie a risarcire i danni (era la prima volta che qualcuno rivendicava diritti nei confronti dei padroni delle miniere); raccolgono vestiti, cibo, aiuti per le persone più disperate. La lotta fra minatori e padroni è forse finita con una sconfitta epocale; ma la lotta di classe adesso si chiama sopravvivenza, e continua nonostante tutto. E' anche per questo che continuo a venire a Harlan, anno dopo anno, in questa mia America coraggiosa e profonda.
Post scriptum. Sono i giorni del referendum. Un lettore scrive allo Herald Leader di Lexington, Kentucky: dicono che l'embrione è un essere umano di pieno diritto; metti che va a fuoco una clinica e devi scegliere se salvare un vassoio con trecento embrioni o un bambino, che fai? Bush ha vietato di finanziare la ricerca sugli embrioni (sul New York Times, Mario Cuomo scrive: qui non è in questione solo l'aborto, ma perfino la contraccezione), e un editoriale sullo Herald Leader commenta: brutto segno, di questo passo andremo a finire come l'Italia. Il Kentucky sarà rustico e fondamentalista; ma noi italiani riusciamo a farci ridere dietro anche da loro.
[Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini]
Le politiche di “Smart-growth” diffuse negli anni ‘90, sono sistemi di regole pensati per ridurre lo sprawl suburbano e governare la crescita. Tendono a incoraggiare le persone ad abitare più vicine, a distanze percorribili a piedi da negozi e uffici. Uno degli scopi è quello di ridurre l’uso dell’automobile. Un altro di creare quartieri ricchi di interessanti “paesaggi stradali”. Un terzo di raggruppare gli abitanti entro densità maggiori per mantenere ampie zone di spazi aperti. Oggi, queste politiche di smart-growth appaiono in regresso. Si sono verificati arretramenti in Maryland, Virginia, Oregon, e nuovi dati statistici fanno pensare che il pubblico non abbia realmente adottato uno stile di vita smart growth.
Maryland: nessuna discontinuità nell’uso dello spazio
Uno dei segni di debolezza della smart growth viene dal Maryland, dove l’ex governatore Paris N. Glendening nel 1997 aveva annunciato un’azione a livello statale per governare la crescita. L’idea era di limitare l’uso di risorse pubbliche per l’urbanizzazione alle aree già dotate di infrastrutture. Le contee dovevano presentare allo stato piani indicanti gli ambiti entro cui sarebbe avvenuta la crescita. Queste “zone di finanziamento prioritario” erano passibili di sostegno finanziario statale per le infrastrutture, mentre i progetti esterni a queste aree non lo erano. Queste norme hanno segnato una pietra miliare. Ma come ha raccontato Peter Whoriskey in una serie di articoli dello scorso autunno sul Washington Post, l’iniziativa di Glendening deve ancora iniziare, a produrre qualche significativa discontinuità nei modi di urbanizzazione diffusa del Maryland.
”Un esame dei dati fondamentali urbanistici a livello statale e locale non mostra significativi spostamenti nelle modalità di urbanizzazione dopo l’approvazione del pacchetto smart growth di Glendening”, ha critto Whoriskey. “La crescita avviene ancora dove non c’è nulla, come è sempre accaduto”.
Nonostante non avesse a disposizione dati recenti, Whoriskey ha notato che nel 2001 il 75% del suolo consumato dalla costruzione di case in Maryland è stato sottratto a boschi, pascoli e altre zone esterne alle smart-growth areas: quasi la stessa percentuale di prima del lancio del programma, secondo i dati del Maryland Department of Planning. Uno dei possibili motivi del fallimento della politica smart-growth di Glendening è che forse mancava di strumenti attuativi efficaci. Lo stato poteva rifiutare il finanziamento delle necessarie infrastrutture, ma non poteva mettere un veto sui progetti. I grossi costruttori e i giganti del commercio come Wal-Mart hanno comunque edificato, finanziandosi da soli le strade e fogne necessarie. Le amministrazioni locali si sono rifiutate di intervenire.
In più, alcuni amministratori vedevano nell’azione di Glendening un’eccessiva interferenza statale, e così hanno aggirato la legge. In alcuni casi sono state classificate come zone di crescita aree di gran lunga superiori all’effettivo fabbisogno per i prossimi vent’anni.
Per esempio, la Howard County, che si aspettava una rapida urbanizzazione, ha preso tutta l’area già destinata all’edificazione, dichiarandola propria zona smart-growth. Cosa forse più importante, i programmi di aumento delle densità all’interno di queste zone hanno incontrato una decisa opposizione di base. I tentativi per realizzare tipologie residenziali urbane attorno alle stazioni Metrorail nella fascia suburbana della Montgomery County – considerate i luoghi più logici per l’alta densità, vicine al trasporto collettivo – sono stati spesso respinti, o ridimensionati a causa dell’opposizione dei residenti.
Loudoun County: uno zoning di esclusione?
Un altro arretramento è quello in cui la Corte Suprema della Virginia Supreme ha respinto le norme di zoning della Loudoun County, che avevano bloccato la costruzione di case nella parte occidentale dell’area a crescita più rapida del paese.
Loudoun County, alla periferia dell’area metropolitana di Washington, D.C., è da anni un campo di battaglia tra le forze dell’urbanizzazione e i sostenitori della smart growth. La popolazione è quasi triplicata in 15 anni, dagli 86.000 abitanti del 1990 ai 248.000 nel 2005. Questa crescita ha stimolato l’elezione di un gruppo di amministratori “ smart growth” nel 1999. Tradizionalmente, le norme di zoning della Loudoun richiedevano circa 1,2 ettari per ogni nuova abitazione nella fascia semirurale occidentale della contea. Il consiglio ha votato nuove norme nel gennaio 2003, che richiedevano 4, 8 e in alcuni casi anche 20 ettari per ciascuna abitazione, a seconda dell’area.
L’idea era che la crescita avrebbe dovuto avvenire nei centri esistenti, nella porzione orientale della contea. Ma i critici hanno accusato queste scelte come semplicemente esclusive, solo mascherate da tutela degli spazi aperti: a proteggere i proprietari facoltosi e le loro tenute arcadiche dalla suburbanizzazione invadente. Altre critiche hanno sottolineato come le nuove norme di zoning non impedissero lo sprawl, semplicemente spalmandolo su un’area più vasta.
Il nuovo consiglio eletto nel 2003 tolse molti dei limiti alla crescita, lasciando però le norme restrittive di zoning, che sono state soggette a numerosi ricorsi legali da parte di proprietari colpiti. Il 3 marzo del 2005, la corte suprema statale della Virginia ha dichiarato non valide le norme di zoning. Lo ha fatto non in base a questioni di diritto proprietario, ma su base procedurale. Gli amministratori della Loudoun, ha detto la corte, non avevano pubblicizzato adeguatamente le udienze di zoning e non avevano specificato in modo chiaro i confini delle aree da riclassificare.
Potenzialmente, il verdetto apre la strada a più di 50.000 nuove abitazioni, sui quasi 800 chilometri quadrati della fascia occidentale della Loudoun County prima esclusi dall’insediamento denso.
Nuovo corso in Oregon
Una delle trasformazioni più sorprendenti è quella del novembre 2004. Con una maggioranza del 61%, gli elettori dell’Oregon hanno approvato con referendum la Measure 37. Stabilisce che il governo statale deve risarcire i proprietari nel caso in cui imponga restrizioni tali da ridurre il valore della proprietà. Se lo stato non può o non vuole pagare, i proprietari possono costruire come credono sui propri terreni. Per usare le parole della scheda, “Il governo deve compensare i proprietari, o rinunciare all’imposizione della norma, quando i vincoli nell’uso del suolo riducano il valore della proprietà”.
Dato che lo stato di fatto non ha denaro per indennizzare i proprietari, si teme che la Measure 37 porterà in Oregon a una corsa a lottizzazioni suburbane fuori dai confini urbani.
Molti funzionari urbanisti delle amministrazioni locali vedono nella nuova measure la distruzione del sistema di pianificazione nello stato, che sinora ha diretto l’urbanizzazione entro zone di crescita chiaramente definite, e protetto gli spazi aperti dalla suburbanizzazione rampante. È un fatto che probabilmente avrà riflessi oltre i confini dell’Oregon. I sostenitori della smart-growth temono che la nuova legge rafforzi il movimento per i diritti dei proprietari in tutto il paese.
E di certo la legislazione anti- sprawl ha già perso parte del suo slancio politico. Nei primi anni ’90 alcuni stati – Florida, Texas, Louisiana e Mississippi – avevano approvato leggi sulla proprietà per proteggere dalle perdite monetarie causate da norme restrittive di zoning. Ma nessuna di queste iniziative ha avuto l’impatto politico e psicologico di quella dell’Oregon. Il Seattle Times pensa che la Measure 37 “possa aver ferito mortalmente il solido sistema di pianificazione del territorio dell’Oregon”. Altri la considerano una rinuncia dell’ente pubblico al principio di governo della crescita, una politica di cui l’Oregon si è fatto pioniere da trent’anni a questa parte.
”Se può accadere in uno stato progressista come l’Oregon, può accadere ovunque”, ha sottolineato un funzionario urbanista.
E è certo, ci sono segni che la rivolta dei diritti proprietari sta montando. Gruppi di cittadini nel vicino stato di Washington sono al lavoro per organizzare un referendum simile a quello dell’Oregon. In Montana, è stata introdotta una norma quasi identica da parlamento statale. Secondo il Seattle Times, Dave Hunnicut degli Oregonians in Action – i sostenitori della Measure 37 – collabora con gli attivisti di Florida, Wisconsin e South Carolina.
Aree micropolitane crescono
Un altro segno dei tempi duri che attendono le politiche di smart-growth viene dalla nuova categoria censuaria introdotta nel 2003 dallo U.S. Office of Management and Budget. Sono le “ Aree Micropolitane”, fra quelle metropolitane e rurali. Queste Micros non hanno la città centrale di oltre 50.000 abitanti che rappresenta il criterio della standard metropolitan area, ma sono “troppo urbane per essere rurali” come le ha definite un demografo. Sono una nuova forma di insediamento semi-urbano: comunità definite a bassa densità, da 10.000 a 50.000 abitanti, al di fuori dell’influenza geografica delle aree metropolitane. Ci sono quasi 30 milioni di americani, uno su dieci, che vivono nelle aree micropolitane.
Secondo gli ultimi dati demografici (Lang, Dhavale, Haworth, 2004), queste aree, insieme a quelle delle contee esurbane (suburbane esterne), sono tra le zone in crescita più rapida del paese. Gran parte di questa crescita si deve alla continua migrazione verso l’esterno delle giovani famiglie in cerca di case a prezzi accessibili e di un ambiente dove poter crescere i figli.
Alcuni dei livelli più elevati di crescita possono essere attribuiti anche ai tassi elevati di fertilità fra gli abitanti delle zone micropolitane. Come sottolinea il commentatore Steve Sailer, le basse densità sembrano non solo attirare famiglie con figli, ma anche incoraggiare ad averne di più.
E in effetti Portland, Oregon – la città simbolo degli smart-growthers – si fa notare per la sua carenza di bambini, come ha scritto lo scorso marzo il New York Times. “Gli amministratori sostengono che le cose che attirano gente che rivitalizza le città – abitazioni dense sviluppate in altezza, ristoranti e negozi alla moda, trasporti pubblici che rendono inutile l’auto – respingono i bambini, perché rendono i quartieri troppo costosi per le giovani famiglie”.
Altre mecche della smart-growth – San Francisco, Boston, Seattle – hanno lo stesso problema: troppo pochi bambini “per far funzionare le scuole e rendere i parchi vivi di giovani voci”, scriveva l’articolo del Times.
Nessuno sa per certo come sarà il panorama urbano/suburbano dei prossimi decenni. Ma gli ultimi segnali, compresi i dati dello U.S. Census Bureau che documentano le tendenze demografiche dopo il censimento del 2000, fanno pensare che il movimento per la smart-growth abbia poca influenza nella definizione del panorama urbano d’America. Le forze economiche e demografiche che guidano l’espansione metropolitana sembrano troppo potenti per essere imbrigliate dalle sollecitazioni della smart-growth.
Nota: il testo originale al sito del Rocky Mountain News (f.b.)l
Titolo originale: Hot spots of US population growth – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
BENTONVILLE, ARKANSAS – Quando Shannon Monteith ha avuto la promozione l’anno scorso, ha impacchettato le sue cose, detto addio a San Francisco, e si è avviata verso l’avventura: Benton County, Arkansas.
La signorina Monteith non avrebbe saputo trovare l’Arkansas nord-occidentale su una mappa, prima di trasferirsi qui. Ma come venditrice per la fabbrica di dolciumi Hershey Foods Corp., aveva una certa familiarità col suo nuovo cliente di Bentonville: la Wal-Mart Stores Inc.
”È la più grossa compagnia del mondo: se sei nelle vendite, vuoi sempre avere per te il cliente più grosso” dice.
Benton County non era la retrovia che Monteith aveva temuto potesse essere. Alla fine ha comprato casa a Shadow Valley, un quartiere recintato [ gated community] brulicante di attività: dal tennis alle automobiline sui campi da golf, ai ragazzini che giocano nei prati appena piantati.
Solo pochi anni fa, Shadow Valley era solo prati e boschi vicino a Ozark. Ma dopo che migliaia di persone si sono spostate verso la Benton County, attirate dal boom economico alimentato da Wal-Mart, la regione è stata rapidamente ridisegnata, con un flusso in ingresso che la mette fra le 70 contee in crescita più rapida del paese, secondo i più recenti rapporti del Census Bureau. Circa 7.500 si sono spostate nella regione fra il luglio del 2003 e il luglio 2004, spingendo la popolazione a circa 180.000 unità.
La maggior parte della crescita notata dal Census si è determinata in contee circostanti alle grandi città, con più dell’80 per cento delle zone in rapido sviluppo negli stati del Sud e dell’Ovest. Le ragioni di questa crescita sono varie quanto vari sono i luoghi in cui è avvenuta. Alcuni sono luoghi di ritiro, altri sede di compagnie in espansione. Ma tutti sono in via di trasformazione a causa dei nuovi residenti, che sembrano arrivare ogni giorno.
Il trionfo dell’Esurbio
Naturalmente, la crescita di popolazione non è limitata alle boomtowns suburbane o alle città della Sunbelt o delle Montagne Rocciose. Riguarda anche luoghi più remoti, culminando in quello che il demografo Robert Lang chiama il “trionfo dell’esurbio”: nuove comunità così lontane dai centri urbani da essere quasi autonome.
I suburbi costruiti negli anni ’70 ora funzionano da “ancore”, dice, proiettando crescita demografica ancora più lontano dei nuclei urbani centrali. Ora la gente si sposta sempre più in là per realizzare il Sogno Americano: o almeno comprarsi il proprio pezzo di un nuovo esurbio americano.
”Il classico residente suburbano vuole ancora vivere sul terreno più ampio possibile, per la somma minore possibile” dice William Frey, demografo impegnato nel Metropolitan Policy Program della Brookings Institution. “Il fattore comune fra tutte queste contee è che i terreni più a buon mercato sono tutti nelle periferie”.
Entrare a patti con la crescita
Altro elemento comune, dice Frey, è la corsa costante di queste contee a costruire nuove strade, impianti di depurazione dell’acqua, scuole, a servire una popolazione in crescita. “La crescita è un’arma a doppio” dice. “Alcune di queste contee vogliono limitarla”.
Gli abitanti di Rockville, Utah, sono di questa opinione, e hanno optato per non costruire un impianto di potabilizzazione per paura di attirare nuova gente a trasferirsi qui, dice il sindaco Dan McGuire.
”I residenti qui hanno votato per restare in pochi, e possono godere della crescita di altre comunità” aggiunge. “Ci basta andarci per trarne vantaggio”. Hanno soprannominato la loro cittadina “L’ultimo tesoro dell’Utah”, esattamente perché hanno evitato il tipo di sviluppo che sta trasformando gran parte della contea.
Circa 5.000 persone si sono spostate qui fra il 2003 e il 2004, facendo impennare la popolazione sino a 110.000 unità. La gran parte di questo aumento si è verificato a St. George, capoluogo di contea, dove pensionati e altri sono attratti da ruscelli, montagne e campi da golf.
”È tutta questione di sole e bel tempo” dice il consigliere anziano Rob Orton. E lascia il consiglio municipale con la preoccupazione di come dare a questa popolazione sempre in crescita nuove strade e acqua pulita.
Per la Lincoln County, South Dakota, lo sviluppo ha significato non solo strade e acqua, ma lottizzazioni di lusso che spuntavano su quello che era stato pascolo. Circa 2.200 persone si sono trasferite nella Lincoln County fra il 2003 e il 2004, portando la popolazione a 31.400 abitanti, a contribuendo a farne la nona fra le contee in crescita più rapida del paese, secondo Frey della Brookings Institution. La marea di nuovi arrivati consiste in gran parte di pendolari che lavorano a Sioux Falls, una città che attira le imprese, in parte perché nel South Dakota non c’è tassa sul reddito.
Sono attratti dalla bellezza del paesaggio e dai ritmi lenti di vita, dice John Schutte, presidente della Canton Economic Development Corporation nella zona meridionale della contea. Ma tutto si ottiene a prezzi notevoli: le nuove case costano fra i 250.000 dollari e il milione, dice.
Il prezzi dei terreni nella Lincoln County sono quadruplicati in soli dieci anni, secondo Mr. Schutte, rendendo la vita più dura agli agricoltori, che erano un tempo la spina dorsale dell’economia locale.
Ombre sulle Shadow Valleys
Anche qui nella Benton County, il nuovo sviluppo sta sostituendo la tradizionale vita rurale.
Tina Bates vive appena fuori dal terrapieno che separa Shadow Valley dalle case di campagna che la circondano. Un tempo, conosceva i pezzi di terra attorno alla sua casa coi nomi delle famiglie che ci vivevano.
Ora i terreni sono lottizzati per cose che si chiamano Hearth Stone o Emerald Heights. Come molti dei suoi vicini, anche la signora Bates dice che venderà la casa e si sposterà lontano dal traffico e dal rumore.
”La maggior parte della gente che viveva qui non ci vive più. Immagino che non gli piaccia, stare in mezzo a una città”.
Nota: il testo originale al sito del Christian Science Monitor (f.b.)
Susanne Kratochwil [Institute of Sociology for Spatial Planning & Architecture (ISRA) Università di Vienna], relazione presentata alla Conferenza internazionale City Futures, Chicago luglio 2004; Titolo originale: European Images around Sprawl(ing)– Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
[...] Introduzione
Lo Sprawl Urbano può essere definito come insediamento a densità molto bassa esterno ai centri urbani, di solito su terreni di nuova urbanizzazione, che fa diminuire sempre più la qualità ambientale dell’abitato.
Lo Sprawl Urbano è una manifestazione particolare dello spazio costruito, Nella maggioranza dei casi il significato di spazio sembra privo di ambiguità. Lo spazio in quanto area ben definita con determinate relazioni e dimensioni, è un’idea comunemente condivisa. Lo spazio ha dei contenuti e caratteristiche, descritti dalle statistiche, dai valori correnti, dalle funzioni ad esso assegnate dai piani, dalla popolazione, descrivibile attraverso criteri demografici. Per questo motivo gli spazi sono individuati a seconda della localizzazione, delle caratteristiche e degli usi. Se questi tipi di definizione sono corretti, perché spazi che sono strutturati o organizzati più o meno nello stesso modo hanno processi di combinazione differenti?
Le risposte, nel contesto europeo, devono tener conto delle diversità storiche, delle diverse razionalità e filosofie nella progettazione urbana. Questa diversità offre straordinari contrasti, ad esempio, fra città degli stati ex socialisti e quelle dell’Europa occidentale ad economia di mercato. I processi economici mostrano vistose differenze attraverso il continente e producono forze che sembrano essere di tenore più modesto e semplici, in Europa, che in altri continenti.
Siete bloccati nel traffico. Dove, non importa: succede dappertutto. Se guardate fuori dal finestrino vedete case, centri commerciali, ma era completamente diverso qualche anno fa. Se si tratta di una strada negli USA si può ricordare che quei cinquanta ettari erano campagna, quando eravamo bambini. Adesso le ruspe annunciano: presto nuove case. Se si tratta di una strada in Europa ci si ricorda che ci sono state sempre delle case – c’era un villaggio, o nel caso peggiore vicino a una città – ma ora non ci sono più confini fra campagna, suburbio, città. L’unica cosa diversa: sì, ci sono più centri commerciali, ecco tutto. Ecco tutto?
Lo sprawl urbano sembra essere parte del modo di vita americano. Ora la riflessione sull’ American Dream si trasforma nel ripensare lo European Dream? L’organizzazione fisica della città USA pone problemi che la città europea sta solo cominciando a sperimentare. Gli effetti dello sprawl sono profondamente radicati nelle società locali americane, ma fanno parte delle culture europee? C’è bisogno di un cambiamento, nei modi di pensare di Americani ed Europei?
La realtà suburbana trova le proprie origini nell’antico sogno della dimora autosufficiente, del “ la mia casa è il mio castello”, dove si è padroni. Il sogno di “ passeggiare attorno alla propria casa” non cambia per secoli, ed emigra: i primi coloni dall’Europa portano negli USA il concetto della proprietà individuale del terreno. Questo sogno-obiettivo assume grande importanza nel Nuovo Mondo, ed è probabilmente uno dei punti chiave dell’ ethos americano: libertà e proprietà (della terra). [..]
Ripensare il Sogno Europeo?
Negli USA e in Europa, i cittadini condividono il medesimo tipo di sogno, ma lo esprimono in modi diversi. Sarebbe troppo semplicistico, spiegare gli sviluppi spaziali europei adottando i criteri nordamericani sullo sprawl. Nel mondo coesistono parecchie tradizioni urbane, ma ciascuna con un proprio particolare modo di reagire ai piani. Il modello di urbanizzazione europeo quindi non costituisce un’alternativa a quello americano, semplicemente perché un modello europeo non esiste. Per esempio, si troverebbero continuamente differenze nei valori di parametri chiave: la dimensione delle unità amministrative, i tassi di pendolarismo, quelli di mobilità residenziale o le norme di pianificazione urbanistica o i livelli culturali. Da questo punto di vista qualunque esposizione delle dimensioni europee dello sprawl richiede cautela perché, ad esempio, mancano concetti sufficientemente comparabili e definizioni statistiche delle agglomerazioni europee. In Europa non esiste consenso generale sulla questione dello sprawl urbano perché il fenomeno è stato valutato in modi molto differenti, da un esperto o dall’altro. Ci sono strategie che hanno funzionato in alcune città, ma non in altre. Le politiche europee non sono una panacea per gli USA.
L’Europa è descritta come popolata in modo più denso e compatto risptto agli USA, ma stanno aumentando i processi di suburbanizzazione. I sistemi pubblici estesi di trasporto anche dove esistono – ad esempio a Parigi – non impediscono perdite di popolazione dalla città centrale, e che esploda la suburbanizzazione. La comparativamente grande quota di mercato europeo del trasporto pubblico da’ l’impressione che qui si stia guadagnando terreno a spese dell’automobile. Ma, nonostante sia molto più costoso guidare un’auto, le tendenze europee per quanto riguarda la dipendenza da automobile seguono quelle USA.
Sono in condizioni migliori, le città europee? Naturalmente no, ma la maggior parte sono più antiche, e alcune nuove perché ricostruite da zero dopo la Seconda guerra mondiale. Allo stesso tempo, le aree urbane degli USA hanno il proprio profilo definito dall’espansione economica e demografica.
Sono organizzate meglio, le città europee? No, ma sono collocate entro paesi più piccoli. Il principale contrasto fra Europa e USA sta nei milioni di chilometri quadrati di territorio. Negli USA c’è molto più spazio, e le tecnologie decentralizzatrici si sono diffuse molto prima che nel resto del mondo. A scala nazionale problemi come ad esempio i tassi di criminalità hanno altre dimensioni. Benzina ed energia elettrica sono disponibili a prezzi più bassi negli USA, se paragonati ai costosi spostamenti pendolari in Europa. Ancora a differenza degli USA, esistono enormi differenze nelle tassazioni. La tassa d’acquisto di un’auto nuova può essere di pochi spiccioli per un americano, se paragonata per esempio alla Danimarca: la differenza può essere di trenta volte tanto. E non va dimenticato che il prezzo medio della benzina in Europa è almeno il doppio che negli USA.
Ambiguità Latente
L’immagine – la città densa a funzioni miste con un sistema di trasporti pubblici di alta qualità è uno spazio di qualità superiore rispetto alla vita nel suburbio a bassa densità e monofunzionale – trova vasti consensi nella comunità degli urbanisti europei.
Lo European Urban Audit offre un’immagine molto più complessa. Circa la metà delle città analizzate sono aumentate di popolazione, e metà ne hanno persa. La maggioranza ha sperimentato il declino negli anni ’80; il resto negli anni ’90, e 14 città hanno subito un’inversione nelle tendenze demografiche, da un declino negli anni ’80 a un incremento nei ‘90.
Uno dei metodi migliori per limitare l’auto privata è quello di migliorare i trasporti pubblici, ma le indagini mostrano che l’uso dell’automobile è un problema di dipendenza. Rispetto agli americani, con 12.336 km/persona/anno, gli europei sono quarti, con 5.025 km/persona/anno.[...]
Le forme dell’insediamento dipendono più di tutto dai sistemi di trasporto, ed è l’argomento più difficile da discutere. L’immagine della maggior parte delle città europee sorprende: città che hanno mantenuto le proprie qualità di spazi pedonali, e dalla maggior parte delle strade si vedono panorami di campagna ininterrotta? Lo spostamento pedonale nell’ambiente della città europea non è una fantasia. Ma è una favola che l’ambiente cosiddetto pedestrian-friendly sia popolato da “pedoni amichevoli”. Le nostre strade non sono sicure, o comode, e lo spazio circostante spesso è privo di interesse. Il parcheggio sul ciglio stradale non crea una barriera d’acciaio efficace fra il marciapiede e la strada. Esiste anche qui la fascia commerciale: è un parassita della grande arteria fra le città, che ostacola il traffico di attraversamento e degrada la campagna. Gruppi sociali diversi, cercano diversi tipi di ambiente. Che si tratti di una società rurale, in un ambiente di campagna, o di una vita in carriera, nella società dell’informazione, si tratta di una scelta individuale.
“Notiamo che una élite a orientamento culturale cerca abitazione nelle zone urbane centrali e più antiche, mentre l’élite ad orientamento economico preferisce la campagna. È in entrambi i casi un collocarsi in quello che è percepito come un ambiente piacevole, e un modo per mostrare status sociale, per i rispettivi orientamenti”.
Le famiglie sosterranno che il suburbio offre sulla città soprattutto i vantaggi dello spazio aperto. Un lascito della metà del Ventesimo secolo, con l’immagine della città ideale integrata nell’ambiente naturale, con fasce verdi, parchi, sentieri nella natura. Questo atteggiamento elitario sta alla base della suburbanizzazione a Vienna. L’effetto quartiere è un proseguimento logico di questo tipo di sviluppo. Anziché “i ricchi” si sposta il migliore ceto medio organizzato. Non si trovano case a prezzi accessibili nei “vecchi quartieri”, e così se ne creano dei “nuovi”, privi di storia sociale. E si osserva un’altra tendenza: gli abitanti sembrano ritirarsi dalla vita pubblica, nel rifugio dell’abitazione privata.
Limiti (prefissati)
Le aree urbane sono lo sprawl del passato? Si può dare per scontato che ogni città sia entro un processo continuo di trasformazione interna. Il mutamento coinvolge almeno la forma urbana e le funzioni, i gruppi immigrati, la segregazione, le culture di quartiere, gli insediamenti suburbani. La suburbanizzazione è infinita, e le sue cause ed effetti non sono stabili, nelle dimensioni e degli aspetti. Anche quando avvengono trasformazioni, esse non necessariamente comportano mutamenti spaziali. Esistono diverse definizioni e spiegazioni dello sprawl, che traggono origine dalla complessità insita in tutte le questioni urbane. I motivi delle contraddizioni fra i vari punti di vista sullo urban sprawl possono essere facilmente trovati nella mancanza di un base dati internazionale comparativa, per monitorare le trasformazioni urbane, nell’incompatibilità dei concetti e definizioni di sistema urbano, nell’assenza di strutture istituzionali adeguate di ricerca comparativa e politica urbana a livello europeo.
Il tema dello sprawl urbano comprende la sfida a distinguere tra cause ed effetti, ma le organizzazioni spaziali sono sia prodotto che motivo del modo di sviluppo.
Altro elemento base sfavorevole, è il fatto che i processi urbani non si riflettono chiaramente nelle forme spaziali, e che queste cambiano più lentamente delle relazioni sociali. Da sempre le forme urbane storiche incomplete sono parti di immagini. Le immagini producono vincitori e vinti. La crisi di un gruppo di attori può essere la prosperità di altri. In particolare, lo sprawl urbano può significare profitto per alcuni, esclusione per altri.
Uno dei motivi per una percezione selettiva del fenomeno, è la mancanza di chiare linee di sviluppo nell’insediamento urbano e regionale. Anche la realtà empirica mostra un ampio spettro di tendenze in parte contraddittorie. Le descrizioni non sono legate ad una sola scala spaziale, e si spostano fra i livelli internazionali, regionali e locali.
Un altro aspetto è quello che riguarda tipi e scelta dei gruppi di dati. I confini amministrativi/legali di una città possono non coincidere con le unità economiche, regionali o funzionali. La raccolta dei dati spesso non copre la città e le interazioni periferiche. A confondere ancora di più, la mancanza di informazioni attendibili a sostenere le ragioni pro o contro lo sprawl.
La questione europea innanzitutto è l’articolazione fra diversi paesi si una quantità molto ristretta di spazio, e la rinascita del dibattito regionale.
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Nota: al sito della conferenza City Futures, il testo originale, integrale (con la proposta di un metodo scientifico di lettura del fenomeno) e completo di note bibliografiche (f.b.)
INTERNATIONAL CENTRE FOR REGIONAL REGENERATION AND DEVELOPMENT STUDIES (ICRRDS) - University of Durham, England: PRIVATIZZAZIONE DELLA CITTÀ? LA SPINTA VERSO UNO SVILUPPO URBANO ESTERNO E LE COMUNITÀ RECINTATE IN GRAN BRETAGNA– Rapporto finale per la Vicepresidenza del Consiglio, Gordon McLeod, ottobre 2004: Titolo originale: PRIVATIZING THE CITY? THE TENTATIVE PUSH TOWARDS EDGE URBAN DEVELOPMENTS AND GATED COMMUNITIES IN THE UNITED KINGDOM – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
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La crescita delle Edge Cities
Chiunque capitasse nella “ downtown” di una grande città in Europa o negli USA potrebbe facilmente essere incline ad escludere in modo netto qualunque ipotesi che l’economia delle città possa essere in qualche modo in “crisi” o in “difficoltà”. Perché quando si entra in un classico centro città ci si ritrova invariabilmente abbagliati da un impressionante schieramento di torri luccicanti che sovrastano un caleidoscopio paesaggio di glamour imprenditoriale, cospicui consumi, cultura dell’incontro nei caffè e vita di strada elegante, in tutto in stretta prossimità con qualche edificio residenziale antico elegantemente restaurato. In effetti, e come aveva supposto anni fa il geografo Neil Smith, “gli spazi della inner city improvvisamente riprendono valore, diventano perversamente profittevoli”. In tutto il mondo, sembra che le opportunità di edificazione stiano aumentando vertiginosamente nelle aree centrali, con costruttori e grandi imprenditori, spesso sostenuti da sostanziosi pacchetti di sussidi statali e investimenti pubblici in loco, che agiscono a massimizzare i guadagni. Per un’ampia varietà di motivi, i centri città offrono parecchio “tiro” in termini di attrazione di attività, investimenti, tempo libero, elementi residenziali e culturali.
Anche riconoscendo tutto ciò, le antiche opinioni riguardo al centro città come “il” motore propulsivo dell’economia metropolitana e regionale potrebbero dover essere riviste. Perché negli ultimi vent’anni circa, le difficoltà protratte nel tempo connesse agli alti affitti e alla bonifica delle aree nei centri hanno in qualche modo incoraggiato la formazione di una serie di spazi economici basati sulla strada e ad alta tecnologia, autoproclamatisi autosufficienti, o Edge Cities. Tali spazi appaiono sempre più caratterizzati da una composizione diffusa di insediamento a servizi e industria leggera, spesso collocato nei nodi delle principali autostrade o grandi arterie, o in adiacenza ad aeroporti internazionali. Il primo e principale analista di questo fenomeno è Joel Garreau. Nelle sue osservazioni introduttive a Edge City: Life on the New Frontier (1991), Garreau si spinge sino a sostenere che:
Noi americani stiamo attraversando la più radicale trasformazione da un secolo a questa parte nel modo di costruire il nostro mondo, e molti di noi non lo sanno neppure. Da una costa all’altra, ogni metropoli in crescita lo sta facendo, e sbocciano nuovi tipi di spazi: Edge Cities. […] La maggioranza delle persone passa l’intera esistenza dentro o attorno a queste Edge Cities, eppure a malapena le riconosciamo per quello che sono. Accade perché non sembrano per niente le vecchie downtowns; non corrispondono a nessuno dei nostri preconcetti su cosa costituisce una città. Le nuove Edge Cities non sono tenute insieme da locomotive o metropolitane, ma dalle freeways, dalle linee aeree, e dai percorsi dello jogging. Il loro monumento caratteristico non è un eroe in una statua equestre in piazza, ma un atrio che racchiude alberi perennemente verdi nel cuore degli uffici centrali di un’impresa, i centri per la forma fisica, le piazze coperte per lo shopping. I nostri nuovi centri urbani non sono contrassegnati dalle mansarde dei vecchi ricchi urbani, o dai quartieri popolari dei vecchi poveri urbani, ma dalla celebrata casa unifamiliare con il prato tutt’attorno. Perché l’ascesa di Edge City riflette lo spostarsi delle nostre attività – dei nostri strumenti di creazione della ricchezza, vera essenza della nostra urbanistica – verso l’esterno, dove abbiamo abitato e fatto shopping per due generazioni.La sorpresa è che questi luoghi, questi nuovi curiosi centri urbani, erano villaggi, o campi di granturco, solo trent’anni fa.
Garreau fissa criteri piuttosto definiti per individuare una edge city. Ovvero: 1) almeno 500.000 metri quadrati di spazio disponibile per uffici – il cosiddetto “posto di lavoro della Information Age”; 2) 60.000 mq o più di spazio commerciale; 3) più posti di lavoro che stanze da letto; 4) la caratteristica di luogo identificabile; 5) il non essere stato niente di simile a una città prima di trent’anni fa. Probabilmente l’assioma chiave è che la edge city rappresenta un nodo di lavoro, commercio e tempo libero relativamente autosufficiente il quale, almeno in potenza, permette a milioni di americani di vivere, produrre e consumare nello stesso spazio: concetto che inequivocabilmente si differenzia dal suburbio tradizionalmente residenziale, e quindi lo rende almeno funzionalmente una città.
Gli Stati Uniti al momento vantano ben oltre 200 edge cities – più di quattro volte la quantità delle vecchie downtowns di dimensioni comparabili – ed esse contengono due terzi degli spazi ad ufficio a livello nazionale; una quota che supera il 70% in città come Atlanta, Dallas o Detroit. Uno degli esempi classici di agglomerazione edge city è la Orange County, a sud di Los Angeles. Nei tardi anni ’80 la regione si era imposta come trentesima economia a livello mondiale, con la gran maggioranza degli abitanti impiegata localmente, anziché pendolare verso la regione di Los Angeles come si era verificato in precedenza. Comunque, le edge cities non sono riserva esclusiva della cosiddetta “ sunbelt” USA che si estende dalla Florida alla California meridionale. Perché se ne trovano sempre più nelle aree metropolitane della cosiddetta “ rustbelt” americana dalla costa orientale, come Filadelfia, al Midwest, come Pittsburgh in Pennsylvania o Cleveland, Ohio. In più, nelle mega-città del sud-est Asia come Giacarta, Manila o Singapore, il movimento dai centri urbani verso le fasce più esterne ha di fatto rovesciato la città. Ovunque sembra che “ [le] nuove periferie siano diventate gli spazi di proiezione [...] dell’investimento e dell’accumulazione”.
Come possiamo spiegarci questa significativa ascesa delle edge cities?
Dal punto di vista degli affari, almeno, sembra che imprese ambiziose e progetti imprenditoriali abbiano scelto di collocarsi in questi spazi perché sono attratte da un “ambiente favorevole all’attività economica” e dall’offerta di una forza lavoro ben formata, che può spostarsi in modi efficaci dal suburbio adiacente. Lo stesso Joel Garreau aggiunge che queste zone economiche sono libere dalla “fuliggine” e dalla percepibili inerzia politica e sociale spesso associate a fasi precedenti di investimento industriale. In altre parole, le edge cities presentano una superficie sgombra, che consente a investitori e famiglie di esplorare nuovi modi di creazione della ricchezza, di vivere e lavorare. In più, e in contrasto con l’affollato e disordinato paesaggio, con l’atmosfera difficile e ansiosa che spesso si ritiene permei la inner city, ad esempio non si trovano vagabondi “che dormono fuori dai centri commerciali”, e i poveri, i disoccupati, le sezioni a redditi inferiori delle minoranze razziali, sono opportunamente occultate alla vista. In un’epoca in cui il governo urbano sembra impegnato in una competizione senza fine ad attirare investimenti di impresa, questi ambienti incontaminati possono essere visti come un’opzione attraente.
Ma, anche dal punto di vista dell0’iniziativa imprenditoriale, le edge cities non sono del tutto prive di complicazioni. La loro rapida crescita ha significato che la congestione da traffico rallenti la mobilità, con tempi di pendolarismo e livelli di inquinamento atmosferico che ora rivaleggiano con quelli dei centri città tradizionali. Ad esempio, nella regione di Atlanta, la costruzione di strade è stata bloccata dalla Agenzia di Protezione dell’Ambiente a causa del deterioramento nella qualità dell’aria, mentre la media degli spostamenti pendolari è ora di oltre 70 chilometri, 25 in più che a Los Angeles. Inoltre, le abitazioni stanno diventando estremamente costose mentre sono sempre più difficili da reperire lavoratori a basso reddito: e non sorprende, visto che le edge cities sono spesso malamente servite dal trasporto pubblico, e che le amministrazioni sono in ritardo nell’offerta di infrastrutture e servizi base. E un articolo sulla rivista Wired (1999) sostiene che per le imprese “ trovare uffici in quello che sarebbe altrimenti un centro commerciale vuoto lungo la strada, a chilometri di distanza dal centro urbano, non funziona più”.
I critici sottolineano anche il ruolo delle edge cities nell’accentuare l’iniquità sociale. I pochi afro-americani o latino-americani che abitano nei quartieri di edge city sono segregati per razza e reddito, e questi emergenti luoghi post-urbani sono costellati da comunità recintate ad alta sicurezza, governi ombra, limitazioni progettate per innalzare i valori immobiliari. Anche Garreau è obbligato a riconoscere che le edge cities spesso mancano di anima, di senso comunitario e storia: la loro vivibilità è messa in forse dalla penuria di “cultura alta”, vita di strada, diversità sociale che di solito si associano alla vita urbana civile. In effetti “la cosa più vicina a uno spazio pubblico che si può trovare – un posto dove chiunque può andare – è il piazzale del parcheggio”.
Negli anni più recenti, il fenomeno della edge city ha ricevuto attenzione pubblica da parte del mondo politico europeo, non ultima la Commissione Europea, come documentato dallo studio su quanto è stato definito European Edge Cities Network. È una rete originariamente proposta dal Croydon Borough Council già nel 1995 a seguito di una riunione a livello europeo di amministratori locali. Il network conta dieci municipalità partecipanti nell’Unione Europea. Significativo come lo studio citato sottolinei i caratteri diversi che può assumere il fenomeno della edge city nei differenti contesti politici nazionali e sovranazionali. Per esempio, l’emergere di Croydon come distretto finanziario a sud di Londra, ha meno a che fare con i liberi spostamenti dell’imprenditorialità indipendente, che con la cornice di pianificazione a Londra del periodo post-1960, in particolare nel decentramento delle attività economiche verso questa particolare località. Forse ancora più rivelatore, il fatto che l’amministrazione di Croydon usi l’etichetta di “ edge city” a sostenere la convinzione locale sul diritto della circoscrizione a diventare città: ma presumibilmente si tratterebbe del senso tradizionale della parola.
In più, a differenza delle classiche edge cities che costellano la regione sunbelt degli USA, caratterizzate da un ambiente politicamente immaturo, le entità simili nella rete della Unione Europea sembrano possedere culture politiche dinamiche, proprie storie e pratiche di decisione amministrativa. Il tutto porta gli studiosi a concludere che le edge cities di stile USA non hanno un esatto corrispondente in Europa. Si adotta invece il termine “ edge urban municipalities”, a cogliere l’esperienza europea. Questo lavoro offre quindi alcuni spunti di cautela, su quanto l’urbanizzazione edge “di frontiera” rappresenti un fenomeno globalmente contagioso dello sviluppo capitalistico nei primi anni del Ventunesimo Secolo.[...]
Nota: vista la relativa difficoltà di reperire i materiali sul ricchissimo e articolato sito della Vicepresidenza del Consiglio britannica, il PDF originale integrale di questo studio (con la bibliografia, e la parte parallela sulle gated communities) è scaricabile direttamente da Eddyburg con link qui sotto (f.b.)
Titolo originale: Taking a Lesson in Math to Limit Urban Sprawl – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
L’ordine in cui si svolgono le operazioni, conta. In matematica, sappiamo che la soluzione giusta a una serie di espressioni numeriche dipende, ad esempio, dall’eseguire la moltiplicazione prima della sottrazione. Ribaltate quest’ordine, e avrete una risposta sbagliata e un sacco di tempo sprecato. Nelle faccende dello sviluppo urbano, la situazione è analoga. Ma nel mondo reale non è possibile semplicemente cancellare la risposta se si è sbagliato l’ordine delle operazioni.
L’attuale senso comune urbanistico ritiene che sostenere misure come le metropolitane leggere o la rivitalizzazione del centro stimolerà un insediamento più denso nei pressi delle stazioni, e aumenti di densità locale altrove, riducendo quindi lo sprawl, l’uso dell’auto, e l’inquinamento e congestione relativi. Un altro tipo di intervento visto con favore, in particolare nell’Ovest, sono i margini allo sviluppo urbano [UGB/Urban Growth Boundary] a cui talvolta ci si riferisce eufemisticamente chiamandoli greenbelt. Nello stesso tempo, si attuano dozzine di altri interventi che di fatto aumentano lo sprawl. Ma aggredire una componente dell’insediamento urbano senza considerarne le cause può portare a scarsi risultati, e a conseguenze indesiderate.
Pensiamo che i margini allo sviluppo urbano non conservano davvero gli spazi aperti, ma spostano l’insediamento verso altre aree, e restringendo le zone edificabili in area urbana, si genera un’artificiale inflazione dei prezzi delle case. Ancora peggio, l’urbanizzazione spesso si sposta a salti (leapfrog: un termine amato dagli urbanisti) ancora più verso l’esterno, verso spazi aperti remoti. Le metropolitane leggere entrano in competizione, in molti casi, con i percorsi degli autobus, e in molte città del paese hanno fatto poco per risolvere la congestione da traffico. Nonostante le migliori intenzioni, ci sono chiare ragioni per cui questa duplice strategia non funziona.
Esistono una serie di azioni che contribuiscono allo sprawl delle regioni urbane, come le politiche di zoning, le decisioni economiche di uso dello spazio da parte delle municipalità, il basso e inadeguato valore economico conferito alle infrastrutture e risorse naturali, un tipo di sviluppo economico sul modello di impresa da parte di alcune amministrazioni suburbane, la scarsa scelta in fatto di scuole. Senza affrontare prima queste fondamentali carenze di programmazione nelle regioni urbane, costruire grandi e luccicanti nuove infrastrutture, o tracciare linee arbitrarie attorno alle città, probabilmente avrà pochi effetti positivi.
Un ordine migliore delle operazioni, è quello che segue. Primo, conservare gli spazi aperti nelle aree più remote e incontaminate, dove al momento c’è poc
a pressione insediativa. I terreni sono a buon mercato e ci sarà meno conflittualità politica. Secondo, iniziare a dare un prezzo a infrastrutture come strade, reti idriche/fogne e altri “servizi pubblici” a seconda dell’uso. Terzo, smetterla di utilizzare le scelte di uso dello spazio per gonfiare le casse pubbliche, e smettere di compiacere gli attivisti NIMBY che vogliono limitare gli insediamenti innovativi ad alta densità. Quarto, eliminare gli ostacoli alla vita urbana e nei centri, riducendo la criminalità, offrendo possibilità di scelta delle scuole, bonificando le zone industriali contaminate note come brownfields. Consentire al mercato di rispondere a queste nuove scelte e condizioni, probabilmente creerà regioni urbane più compatte, come auspicato da pianificatori e ambientalisti. Infine, consentire alle compagnie private di trasporto collettivo di offrire servizi adeguati alle forme emergenti dello spazio urbano.
Il senso comune attuale ritiene che l’ordine in cui si svolgono le operazioni non conta, e che tracciando i limiti di sviluppo urbano, costruendo sistemi di trasporto pubblico in sede fissa, promuovendo l’urbanizzazione ad alta densità vicino alle stazioni, si rifarà la forma delle regioni metropolitane d’America, con grandi benefici ambientali. Si dice, che la riforma dello zoning potrà essere fatta poi, che applicare un prezzo alle infrastrutture non è un prerequisito per il mutamento della forma urbana. Si dice, che lo sviluppo economico locale è di fatto sempre desiderabile. Sfortunatamente, questo senso comune ignora le forze economiche che sottostanno al processo di urbanizzazione, e semplicemente mette da parte gli effetti dannosi indesiderati di queste strategie sull’ambiente, sui proprietari di case, i pendolari, i contribuenti. Agendo senza un ordine preciso, rischiamo di spendere molte risorse pubbliche con scarsi risultati, e conseguenze impreviste. Se strade, macchine, insediamenti a bassa densità non pagano i costi connessi al proprio uso dello spazio, trasporti pubblici e alte densità avranno difficoltà a competere, e qualunque sovvenzione sarà invano. Se non si cambiano lo zoning euclideo e le sue norme creatrici di sprawl, che possibilità ci sono di competere, su larga scala, per gli insediamenti compatti o di tipo new urbanist? Saranno al massimo l’eccezione in un mare di insediamento tradizionale, e con molti dei progetti realizzati a richiedere investimenti pubblici per essere ultimati.
Senza un cambio di rotta fondamentale da parte dei governi e delle amministrazioni locali, per affrontare le politiche che aggravano lo sprawl, il solo costruire metropolitane leggere e sovvenzionare alcuni progetti non avrà grandi effetti sui modi della crescita urbana o sulla tutela ambientale. Impariamo dalla matematica: si usa l’ordine giusto, e nel modo giusto si alleviano gli effetti negativi dello sprawl.
Nota: il testo originale naturalmente al sito Planetizen (f.b.)
Relazione presentata al convegno internazionale Les trois sources de la ville-campagne , Cerisy-la-Salle, 20-27 settembre 2004, in corso di pubblicazione in Ghorra-Gobin C., Berque A.. (a cura di), Les trois sources de la ville-campagne , Paris, Belin
Considérations préliminaires
Récemment, nous avons approfondi dans nos recherches le thème de l’étalement urbain, en soulignant les coûts collectifs de différents modèles possibles de l’extension urbaine dans les agglomérations métropolitaines. Nous y avons proposé certains indicateurs permettant de mesurer ces coûts et visant à confirmer, par une analyse quantitative des dynamiques récentes d’extension urbaine dans l’agglomération métropolitaine milanaise, certaines relations causales que la littérature sur ce thème se borne à supposer. Nous avons cherché aussi à transporter le débat, souvent idéologique (ville compacte vs. ville étalée) sur le terrain des faits concrètement vérifiables (Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002a et 2002b).
Dans les réflexions qui suivent nous souhaitons avancer quelques considérations sur les racines culturelles profondes du modèle de l’étalement urbain tel qu’on l’observe en Italie, et sur ses tendances plus récentes.
En particulier, nous chercherons à montrer que:
- le phénomène de l’étalement urbain, tout récent qu’il apparaît, est par certains aspects profondément enraciné dans les processus d’urbanisation et de modernisation du « Bel Paese »;
- en effet, dans la longue période qui s’est écoulée entre l’Unification italienne et la chute du fascisme, les tendances à la concentration spatiale et les tendances anti-urbaines ont vécu côté à côté dans un projet contradictoire d’ingéniérie sociale visant, à la fois, la modernisation économique et l’embourgeoisement de la ville;
- à partir du second après guerre, aménagement et urbanisme ont privilégié – avec une certaine continuité, – une approche centrée sur la ville verticale et compacte dont on peut rapporter l’origine culturelle au Mouvement Moderne et au Rationalisme. Si ce projet ne s’est pas concrétisé de façon cohérente et qualitativement satisfaisante, c’est surtout à cause du contexte politique/administratif, qui a continué a attribuer un rôle marginal à l’aménagement du territoire, tandis que les intérêts de la rente foncière conditionnaient de façon déterminante les dynamiques de transformation spatiale;
- on assiste actuellement à une dé-légitimation radicale des outils traditionnels de la planification, produisant d’une part une intensification, voire une congestion considérable, d’initiatives spéculatives dans le secteur du bâtiment dans les villes centre et, de l’autre, une explosion symétrique de « villettopoli [1]» .
L’« Italie maltraitée » : étalement urbain et consommation des sols.
Comme il est arrivé dans d’autres pays européens, l’étalement urbain s’est affirmé en Italie dans les dernières décennies, en remettant en cause la différence entre ville et campagne. En particulier, il s’est imposé aussi dans des contextes non-métropolitains, avec des processus très évidents de rururbanisation qui accompagnent la consolidation des systèmes productifs de petite entreprise au niveau des districts industriels.
En 2001, l’Italie compte 7.500.000 maisons individuelles sur un total de 25 millions d’habitations, et le 58% des maisons bâties chaque année est constitué par des maisons individuelles. Dans les dix dernières années, 700.000 italiens ont quitté les métropoles, exaspérés par le trafic intense, la détérioration de la qualitè de la vie et la hausse des prix des maisons, tandis que 3 millions d’hectares de terrain agricole ont été urbanisés. La ressource-sol a subi par conséquent des dynamiques très marquées de consommation/gaspillage.
Dans un livre récent, au titre bien significatif – L’Italie maltraitée –, Francesco Erbani, qui se définit lui-même « journaliste social », décrit un certain nombre de mauvaises pratiques territoriales, touchant l’urbanisme et le bâtiment, qui ont eu lieu en Italie dans les dernières années. Ces monographies, synthétiques mais inquiétantes, sont précédées par des considérations générales sur la consommation des sols, la dérèglementation de l’urbanisme et l’ abusivismo (la construction sauvage et illégale), trois éléments qui caractérisent le panorama des transformations urbaines et territoriales (Erbani, 2003).
Si le Midi figure au premier rang dans les pratiques de construction illégale, destinées à être tôt ou tard entérinées par la procédure du condono edilizio[2], ce grand gaspillage de ressources territoriales affecte aussi des régions et des aires métropolitaines qui présentent un niveau de développement très avancé.
C’est le cas des structures urbaines polycentriques en organisation réticulaire de plusieures régions de l’Italie du Nord et du Centre qui semblent également destinées, à se développer souvent dans des directions analogues : les centres de taille moyenne et moyenne-petite subissent eux aussi ces phénomènes de suburbanisation et de périurbanisation, puisque le développement par le bas des activités économiques engendre des processus d’urbanisation du territoire rural et des continuités accidentelles du bâti, pendant que la mobilité urbaine augmente à rythme soutenu à cause de la complexité croissante des relations territoriales.
Le cas le plus significatif d’urbanisation de la campagne est représenté en effet par les riches régions du Nord-Est, où il est possible aujourd’hui d’apprécier les effets exercés sur le territoire par le modèle de développement de la Troisième Italie : un bon exemple en est offert par la plaine de la Région Vénétie, en particulier par la partie qui s’étend entre les provinces de Venise, Padoue et Trévise, et qui, grâce à un développement compétitif de la petite entreprise à caractère familial et des économies de district, est passée dans quelques décennies de territoire surtout agricole qu’elle était, avec son paysage harmonieux, à une série ininterrompue et désordonnée de maison individuelles, de hangars industriels et d’échangeurs routiers, saturés et encombrés par le trafic motorisé, à cause, entre autre, de l’opposition obstinée de la société locale à toute intervention infrastructurelle visant la modernisation (Indovina et al., 1990). La campagne s’est donc transformée en une Villettopoli, habitée par un peuple de « Tavernicoli »[3], dont les choix résidentiels s’avèrent dictés par la simple préférence accordée à la maison individuelle.
Mais les tendances à l’étalement se manifestent aussi dans les régions et dans les aires métropolitaines les plus avancées.
Le 57% du patrimoine en logements de la région Lombardie a été réalisé dans les trente dernières années et, si l’on eccepte la province de Milan, le 45% des habitations lombardes est constitué par des maisons individuelles. Entre 1980 et 1989, dans la Province de Milan (chef-lieu exclu) 71 millions de mètres carrés de sol agricole ont été urbanisés (Consonni, Tonon, 2001). On observe une tendance analogue dans la région, par ailleurs bien administré et aménagé, de l’Emilie Romagne où, entre 1976 et 1998, la population demeurant stable, l’urbanisation a redoublé. En particulier, la consommation de sol a redoublé dans l’aire métropolitaine de Bologne : l’étalement urbain a privilégié les territoires précieux de l’agricolture intensive de la plaine et les premières collines où, en outre, la consommation de sol est augmentée de façon exponentielle par rapport à la diminution de la taille des communes (+ 147% dans les communes avec moins de 5.000 habitants) (Regione Emilia Romagna, 2004).
Partout, dans les grandes villes de l’Italie du Nord et du Centre, les processus actuels de substitution sociale s’orientent dans la même direction, tout en présentant une intensité variable et des spécifités locales : les classes moyennes s’en vont, découragées par le prix des logements et par la médiocrité de la qualité urbaine ; ceux qui demeurent sont les groupes le plus aisés, et les anciens et nouveaux pauvres (les immigrés extracommunautaires).
2. La fortune récente de la ville étalée plonge ses racines dans une longue tradition.
Si beaucoup d’éléments, qui expliquent la fortune actuelle de la maison individuelle ou de l’étalement à basse densité dilué dans une campagne urbanisée, ressortissent en première instance aux mécanismes que l’on peut observer dans le cadre plus large du contexte européen, le cas italien présente certains caractères spécifiques qui se sont accumulés et sédimentés dans une période bien plus longue. Je les indiquerai de façon synthétique et par points, le sujet étant trop complexe pour qu’on puisse le discuter dans le détail.
2.1. Dans l’Italie du Nord, l’accumulation primitive industrielle/capitaliste a été réalisée en symbiose étroite avec la campagne.
Dans beaucoup de pays européens – cela est bien connu - le développement capitaliste-industriel a eu son essor dans les campagnes, dans le territoire rural (Landes, 1974). Dans l’Italie du Nord, en particulier dans le piedmont aride de la macro-région padane, ce modèle a obtenu un succès économique formidable, en exploitant de façon optimale cette « union intime » des villes avec leur territoire que Carlo Cattaneo déjà, au milieu du XIX siècle, mettait en évidence pour expliquer l’avantage compétitif au niveau international dont jouissait l’économie de la Lombardie, région largement laborieuse et civilisée (Cattaneo, 1975).
Avec le développement du chemin de fer et la disponibilité de nouvelles sources d’énergie, le processus de concentration urbaine de l’industrie et la croissance parallèle des dimensions des entreprises ont remplacé l’industrialisation rurale partout en Europe ; dans les grandes villes de l’Italie du Nord, pourtant, ce phénomène, qui a commencé à se manifester dans les dix premières années de 1900, n’a pas montré la même force centripète à l’oeuvre dans les grandes villes industrielles européennes. Certaines zones rurales fortement spécialisées dans la production industrielle ont continué à prospérer, dans un rapport étroit avec les grands centres urbains qui constituaient leur pôle d’encadrement directionnel et commercial[4]. Les classes dirigeantes des grandes villes industrielles de l’Italie du Nord, et de Milan en particulier, ont hésité pendant longtemps entre des options « pro-urbaines », favorables à la ville centre, qu’on considérait propices à l’essor de la grande industrie, et des nostalgies ruralistes dues aux préoccupations suscitées par la grande concentration de masses ouvrières dans les villes.
La réponse stratégique à ce dilemme des grandes villes industrielles a consisté, dès l’époque du gouvernement Giolitti (1903-1909) - lorsque le machinisme industriel et les grandes entreprises transformèrent le paysage de la première couronne des métropoles - dans l’amélioration progressive du réseau des transport (routes, chemin de fer), de façon à consentir la migration alternante efficace (d’abord hebdomadaire, puis quotidienne) d’un prolétariat logé dans des conditions de précarité extrème dans l’hinterland rural.
A la même époque on commença à transformer les centres des villes. Justifiés par des motivations de « magnificence civile » et par la nécessité de réaliser des grands équipements publiques et hygiéniques, les travaux de démolition et de renouveau se proposaient, en voie prioritaire, un but d’ingénierie sociale, visant à éloigner et à disperser sur le territoire le prolétariat et les industries, ou les activités fastidieuses et malsaines ; à permettre une substitution fonctionnelle rapide des aires les plus centrales, destinées au secteur tertiaire et au logement des groupes les plus aisés, en favorisant ainsi un embourgeoisement général des habitants du centre ville. En particulier, Milan, la « ville la plus ville » d’Italie, se distingua par son application rigoureuse de cette stratégie : d’une part, en améliorant sans cesse les possibilités d’accès, grâce à la réalisation d’un réseau serré et radial de chemins de fer et de tramways qui en feront rapidement une « città viaggiante (ville en voyage) » comptant déjà, dans la période 1924-1927, selon les chiffres officielles, 70.000 migrations alternantes (Consonni, Tonon, 2001 : 138) ; d’autre part, en opérant une série de démolitions très consistantes dans les secteurs les plus centraux de la ville, avec le résultat d’en appauvrir encore son tissu mixte et hétérogène du point de vue social et de compromettre ainsi l’intégrité des routes et des cours que Stendhal considérait parmi les plus beaux de l’Europe (Tintori, 1984).
Dans cette phase initiale de suburbanisation, la culture des classes dirigeantes des grandes villes industrielles italiennes a imposé un modèle de rapport ville/campagne qui, loin d’être inspiré par la nostalgie d’un mythe arcadien et bucolique, par la pensée des utopistes ou par un projet de ville-jardin, relevait surtout des stratégies concernant le marché du travail et le contrôle social. Les formes de l’expansion urbaine privilégièrent un modèle de stratification sociale très articulé qui suivait la rente différentielle des sols : depuis les secteurs centraux, occupés par la grande bourgeoisie, jusqu’aux banlieues urbaines habitées par les cols blancs et les petits employés.
La culture des urbanistes de l’époque participa pleinement à ce dessin : elle fut pro-urbaine en ce qui concerne les fonctions et les classes dirigeantes (ces dernières n’ayant d’ailleurs aucune envie de s’établir dans la couronne périurbaine), anti-urbaine par rapport aux couches sociales plus faibles et turbulentes.
2.2. Le fascisme prêche le ruralisme
Pendant la dictature fasciste, on assiste à une méfiance croissante envers la ville, qui va se traduire, à partir du moment où l’idéologie anti-urbaine devient l’idéologie officielle du régime, dans un penchant ruraliste marqué.
Le noyau du fascisme fut d’abord essentiellement urbain, et d’ailleurs milanais, comme le montre le ralliement au régime du Futurisme, animé par Marinetti, Balla et Boccioni qui souhaitaient, pour l’Italie, un avenir urbain et industriel. Dans leur perspective, Milan, la ville préféré par le Futuristes, aurait dû devenir un grand centre européen, la « ville qui monte » par opposition aux nombreuses « villes du silence » de la province paresseuse ; les « fumées sublimes » des cheminées d’usine enchantaient les Futuristes qui voyaient dans l’essor de l’industrie, le culte de la vitesse et des machines, la marque véritable de la modernité (Rosa, 2001).
Vers le milieu des années 1920, pourtant, les stratégies du régime empruntent un tournant significatif avec la « Ruralisation » , par laquelle on souhaitait faire front à la crise économique et au chômage croissant des centres urbains, en favorisant le retour à la terre, aux taux de natalité très élevés des campagnes et à une sorte de nouvelle accumulation primitive agricole. Autarchie et ruralisme apparaissaient comme les réponses les plus adéquates pour mettre un frein à la concentration urbaine dont on redoutait les moeurs décadentes, d’une part, et qu’on considérait, de l’autre, une source possible de conflits sociaux.
Les lois émanées par le gouvernement fasciste en 1928 et 1931 furent en réalité très ambiguës : elles octroyaient aux Préfets la faculté de limiter, par ordonnance, la croissance excessive de la population urbaine, sans indiquer toutefois des mesures d’application précises, ce qui explique pourquoi ces lois provoquèrent de graves phénomènes de migration illégale. En effet, pendant le fascisme, l’expansion urbaine subit une accélération considérable, dépassée seulement par le boom économique successif à la reconstruction de l’après-guerre. Cette situation contradictoire permet d’apprécier toute l’ambiguïté d’un régime à la fois réactionnaire et moderniste, qui seulement en 1939 introduira une loi contraignante contre la migration en ville. Cette loi, approuvée juste avant l’entrée en guerre de l’Italie, n’aura, à court terme, que des effets limités, mais elle restera en vigueur pendant plus de quinze ans et, en taxant d’illégalité les grandes migrations de la campagne à la ville qui se succéderont en Italie dans l’après-guerre, en aggraveront les coûts sociaux et les souffrances humaines (Treves, 1986).
Mais l’aspect le plus intéressant du conflit, tout intérieur au régime et sans cesse relancé, entre « traditionalistes » et « novateurs » , va s’accentuer dans les dernières années du fascisme, pour donner lieu non seulement à la loi de Disurbanamento de 1939, mais aussi à une initiative importante de signe contraire: l’élaboration et l’approbation en 1942 d’une Loi d’Urbanisme (Loi 1150/1942) très novatrice, due à l’aile technocratique et moderniste du régime, qui peut être reconduite au ministre des Corporations Giuseppe Bottai (Sica, 1978 ; Romano, 1980).
3. Miracle économique et aménagement de l’espace : l’impact sur la qualité des villes
Une fois achevée la Reconstruction de l’après-guerre, les villes industrielles de l’Italie républicaine ont traversé une période de croissance intense, tout à fait comparable, dans ses composantes essentielles, urbaines et territoriales, à celle d’autres pays avancés de l’Europe.
Il s’agit d’un développement dans des secteurs à haut valeur ajouté, fondé sur des entreprises de taille moyenne ou grande et sur le taylorisme, nourri par les migrations de main-d’oeuvre du Midi et qui se concentre surtout dans les agglomérations métropolitaines du Nord. Ce sont les années du « miracle économique », locution qui, par rapport à certaines formules de caractérisation épocale – telle, en France, les « trente glorieuses » - souligne l’aspect providentiel du phénomène, et dit bien, par là, l’absence d’une forte volonté publique.
Les outils d’urbanisme nécessaires pour promouvoir un développement harmonieux et réglé des villes avaient été préparés de façon tempestive par l’approbation de la Legge Urbanistica qu’on vient de citer et qui, à l’époque où elle fut élaborée et adoptée, représentait l’un des Codes les plus avancés en Europe dans ce domaine : l’outil le plus important était représenté par le Piano Regolatore Generale, ressortissant aux Communes et manifestement inspiré par le paradigme fonctionnaliste (spécialisation monofonctionnelle du zonage et haute densité en étaient les deux critères dominants) qui formulait les règles pour le zonage des sols et pour l’équipement en services de proximité.
Une analyse des raisons qui ont déterminé le peu d’efficacité de cette loi nous amènerait trop loin de notre sujet. Sans considérer le villes du Midi, où les processus de croissance ont mis en lumières des phénomènes importants d’hyperurbanisation et d’illégalité, il suffira de souligner ici le fait que, dans maintes villes de l’Italie du Nord et du centre, les règles de l’urbanisme ont été souvent circonvenues à cause de la pression formidable exercée par le binôme rente foncière/spéculation immobilière, que la loi de 1942 (voulue par le « bloc industriel », c’est-à-dire par le milieu des grandes entreprises) voulait endiguer.
Milan a représenté à ce propos un cas exemplaire : dans l’après-guerre immédiat, pendant l’administration du Comité National de Libération, la ville se dote d’un plan d’urbanisme typiquement rationaliste qui prévoyait, grâce au zonage des sols de tout le territoire municipal, la localisation en banlieue des entreprises industrielles, l’aménagement de l’habitat en quartiers auto-contenus à proximité des installation productives, le renforcement des liaisons internes et la réalisation d’une rocade périphérique. Avec les élections de 1949, le passage du pouvoir à la Démocratie Chrétienne marque le retour immédiat aux stratégies conditionnées par le bloc de la rente foncière. En particulier, ce qui s’affirme est une violation systématique des prescriptions du zonage : avec le consentement tacite et tolérant de l’administration communale, on ressortit à ce qu’on a défini le « Rite Ambrosien », une procedure qui permettait de construire dans les zones destinées par le Piano Regolatore à l’agriculture, dérogation justifiée par la priorité accordée au développement économique.
Une autre occasion manquée a été celle de l’aménagement des banlieues urbaines : les grandes interventions de type HLM ont ouvert un fossé difficile à combler entre les attentes de la population et les réponses fournies par l’initiative publique et par les architectes.
L’écart entre les modèles d’urbanisme proposés par le projet du Mouvement Moderne et les attentes de la population, ainsi que l’incapacité de maintes administrations locales de garantir l’équipement en services de proximité, ont été parmi les facteurs les plus importants qui ont favorisé et perpétué la construction sauvage et illégale (sourtout dans les grandes villes du Midi et dans les alentours de la Capitale), auxquels il faut ajouter un étalement périurbain auto-construit d’une qualité tout à fait médiocre (sauf dans les régions bien administrées telles que, par exemple, l’Emilie Romagne, la Toscane et la Ligurie).
4. Vive la ville/A bas la ville: tout le monde est libre et « chacun est maître chez-soi »
Les couronnes des grandes villes européennes ont enregistré, à partir du milieu des années 1970-début des années 1980, des phénomènes évidents d’étalement, de mitage urbain. Il s’agissait moins d’une contre-urbanisation que d’une forte dédensification métropolitaine relevant de deux causes principales : la réduction de initiatives de l’Etat dans le secteur des logements et l’évolution des styles de vie des familles (SCATTER, 2001).
L’étalement accéléré a été donc déterminé par des facteurs aussi bien push que pull. Ce binôme est opérant aussi dans le contexte italien : si l’expulsion des villes centres représente encore le facteur le plus important de la périurbanisation, l’attraction vers la nature, vers la campagne urbanisée, est de plus en plus marquée, aussi bien dans les territoires périurbains des region métropolitaines que dans les territoires de l’industrialisation non métropolitaine (districts, etc.)
Les principaux éléments push sont constitués par l’augmentation incessante, dans les métropoles post-fordistes, des valeurs foncières et immobilières qui a accéléré et intensifié le processus de ségrégation sociale, ainsi que par la médiocre qualité de la vie en ville-centre, due à l’encombrement, à la pollution, à la dégradation de l’environnement, à la criminalité et au manque de sécurité.
Mais ce sont surtout les éléments pull qui caractérisent d’un point de vue qualitatif le succès de la ville émergente contemporaine. Parmi ces éléments, les principaux peuvent être ramenés à l’individualisme croissant qui caractérise les nouveaux styles de vie de la population, aux opportunités accrues de mobilité privée, au retour à la nature.
Le desserrement résidentiel offre en Italie plusieurs modèles, qui vont de la maison « néo-bourgeoise » placée à l’écart, au retour dans des centres de petites dimensions, au pavillonnaire de médiocre qualité (Gallingani, 1995). Son corollaire est le succès remporté par les nouveaux modèles de consommation post-moderne[5], où l’accessibilité remplace la proximité, où chaque lieu s’ouvre à des espaces à géométrie variable dans un réseau de rapports de plus en plus complexes (Sernini, 1988).
Dans le modèle italien de la Villettopoli telle qu’il s’est récemment affirmé, on peut pourtant repérer un certain nombre de caractères contradictoires et de retombées négatives que nous allons souligner de façon synthétique et quelque peu accusée à conclusion de notre discours.
Villettopoli :
- est un territoire qui s’organise intégralement selon des logiques de marché : c’est l’effet combiné de l’inertie de la culture d’aménagement et d’urbanisme et des réponses manquées des gouvernements locaux aux défis posés par la transition de la métropole fordiste à la métropole post-industrielle. La possibilité de réutiliser les grandes friches industrielles localisées dans les villes centre ou en première couronne pour améliorer la qualité de la vie des agglomérations métropolitaines a été le plus souvent gâchée par des grands projets de localisation d’activités surtout tertiaires qui ont encore appauvri, banalisé et congestionné le tissu des villes, et par conséquent ont rendu plus attrayantes les couronnes les plus éloignées. En outre, l’attention prêtée aux espaces publiques a été presque nulle ;
- est un projet qui consomme et compromet de façon irréversible des territoires de haute qualité environnementale et à haut potentiel de développement (aussi bien dans les franges périurbaines des grande villes que dans les réseaux urbains polycentriques de la Terza Italia) selon un modèle de « planification privée »[6] ;
- n’invente pas des nouvelles morphologies urbaines car elle se développe grâce à l’addition spontanée et accidentelle d’interventions hétérogènes réalisées par un marché immobilier arriéré : petits lotissements/petites entreprises de construction et souvent auto-construction de la part de propriétaires individuels. En ce sens villettopoli consomme le paysage plus qu’elle ne crée un paysage nouveau ;
- ne produit pas une nouvelle urbanité, fluide et ouverte à l’interaction et à l’intégration ; elle produit au contraire individualisme, ségrégation, intolérance, soupçon. Villettopoli personnalise l’espace intérieur et extérieur de la maison dans une recherche identitaire poussée à l’extrême ; souvent, cette ségrégation est délibérément recherchée pour des raison de sécurité: plutôt que de gated communities, on devrait donc parler de gated houses ;
- est habitée par des citoyens qui, soit culture, soit tradition nationale, n’aiment pas beaucoup la nature, et qui utilisent de façon intensive leur lots en les saturant souvent avec toutes les additions artificielles possibles hors COS. Villettopoli occupe donc de façon intensive les territoires à basse densité, dont elle menace les valeurs paysagères résiduelles ;
- semble avoir un avenir promettant grâce à la tendance générale à la délégitimation de l’urbanisme qui s’est affirmée dans les dernières années. Un slogan qui a fait fortune, formulé par le Président du Conseil actuel Silvio Berlusconi pendant sa campagne électorale, affirmait: « chacun est maître chez soi ». Après le succès remporté aux élections, cette formule s’est traduite dans une poussée formidable de libérisme et de déréglementation. La Région Lombardie représente à ce propos un cas exemplaire, puisqu’elle a approuvé une série de lois partielles d’urbanisme et d’édilité qui ont radicalement libéralisé et flexibilisé les procédures d’urbanisation des sols et de réutilisation du patrimoine bâti et des friches en ville-centre.
En conclusion, la ville étalée semble destinée à tirer parti de la déréglementation à l’oeuvre en Italie, où l’échelle exclusivement municipale de la planification est en train de s’affirmer ainsi qu’un processus de transformation de la ville réalisé par projets partiels et dérogatoires, issus de l’initiative privée (Progettazione Complessa, Programmi Integrati).
La dédensification de la ville pourrait offrir, par contre, une occasion précieuse pour formuler de façon novatrice des stratégies d’aménagement à l’échelle intercommunale capables de tirer parti des nouvelles morphologies réticulaires et polycentriques (Anderlini, 2003 ; Gibelli, 2003). Il existe, évidemment, de bonnes lois régionales d’urbanisme qu’on a récemment approuvés, des plans stratégiques clairvoyants sur grande échelle, des projets urbains cohérents, mais ils n’arrivent pas à trouver une légitimation satisfaisante dans le contexte actuel.
Est-il envisageable de remettre en question Villettopoli? On peut en douter, si l’on considère la fascination que ce modèle a exercée dans le temps et la fortune que rencontrent les tendances « pathologiques » actuelles. Carlo Emilio Gadda, sans doute l’écrivain milanais le plus important après Alessandro Manzoni, dans son roman de 1938, La connaissance de la douleur, a consacré des pages très drôles à une région sud-américaine imaginaire - le Serruchón – où il est aisé de reconnaître les caractéristiques de la Brianza milanaise (c’est-à-dire le territoire hautement industrialisé au Nord de Milan) à une époque qui coïncide avec les débuts du fascisme et avec la prolifération de styles et d’artifices architectoniques qu’affectionnait la riche bourgeoisie « brianzola » de l’époque[7]. Nous ne pouvons qu’imaginer sa réaction face à l’initiative du maire d’une petite commune située à 20 km de Milan, qui, en 2004, a proposé au conseil municipal une délibération visant à interdire la construction de maisons individuelles en « style néo-arabe »: voilà la réponse de Villettopoli aux défis et aux tragédies de la globalisation économique.
Villettopoli semble donc destinée à proliférer, faute d’un changement résolu dans les politiques urbaines capable d’intégrer échelle locale et échelle plus vaste, et faute d’un projet de ville capable de réaliser un modèle de « compacité judicieuse », centré sur la durabilité du développement urbain et, d’abord, sur la construction d’un nouveau rapport entre urbs (la ville physique) et civitas (la société civile).
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[1]J’utilise le terme forgé par l’urbaniste Pierluigi Cervellati, auteur de la requalification du centre historique de Bologne ; le terme signifie que la ville (polis) est désormais structurée à partir du principe de la petite villa (villetta) ou encore du pavillonnaire pour tous.
[2]Le condono edilizio est une disposition exceptionelle qui permet de légaliser les constructions hors plan en moyennant une sanction pécuniaire. En 1985, année de la première loi sur le condono, on a bâti 225.000 logement illégaux ; en 1994, année du deuxième condono (premier gouvernement Berlusconi),on en a compté 142.000 ; avec le condono actuel, on estime que les interventions illégales atteindront les 40.000 unités pour le seul 2003 et un chiffre analogue pour l’année en cours. Les tendances les plus récentes montrent que les interventions illégales ne se concentrent plus uniquement dans des zones très denses, mais aussi dans les franges périurbaines et dans la campagne urbanisée:ce qui comportera des coûts publiques croissants de la part des collectivités locales pour réaliser les services essentiels à l’habitat (voirie, assainissements, illumination, etc.) (Legambiente, 2004).
[3]J’utilise le terme bien évocateur inventé par Marco Paolini dans ses pièces théâtrales, où il met en évidence avec ironie la métamorphose du territoire ainsi que des styles de vie et de consommation de la population de la Vénétie, sa terre natale. Les Tavernicoli sont les nouveaux cavernicoles, c’est-à-dire les habitants des maisons individuelles auto-construites, dont la typologie prévoit au sou-sol la « tavernetta », lieu des rites du familisme triomphant, où on consomme les repas et on regarde la télé. Ces rites remplacent les rapports sociaux traditionnels du monde paysan dont les lieux naturels consacrés au loisir étaient le bar et le bistrot.
[4] Le modèle de forte intégration urbaine/rurale pratiqué dans les principales régions urbaines/industrielles du pays, sera relancé avec succès aux années 1970 lorsque, tandis que le modèle métropolitain/fordiste subissait partout un déclin irréversible, l’industrialisation diffuse de la Troisième Italie allait s’imposer à l’attention internationale pour ses réussites.
[5] En Italie, où l’offre commercial a eu du mal pendant des décennies à s’uniformiser à la rationalisation à l’oeuvre dans les autres pays européens, en préférant jusqu’à une époque récente le petit commerce de proximité à la grande distribution dépersonnalisée, on a assisté au brusque essor de la culture des non-lieux suburbains : tant en couronne qu’en ouverte campagne, le territoire est désormais colonisé par les hypercentres commerciaux localisésà proximité des grandes infrastructures routières, ainsi que par les factory outlets éparpillés dans la campagne.
[6]J’utilise l’oxymore planification privée au sens qu’Indovina lui attribue: à propos de l’étalement urbain récent, il souligne qu’il a été favorisée par certaines mesures législatives de flexibilisation en matière de construction en zones rurales et de localisation des grands équipements commerciaux ; mais aussi par les stratégies de réalisation des réseaux de transports lorsque, tout en étant d’origine publique, elles suivent une logique de rationalisation ex post et non d’encadrement ex ante. (Indovina, 2004).
[7]« Des villas, des villas : de petites villas huit pièces deux salles de bains, des villas princières quarante salons vaste terrasse sur les lacs vue panoramique du Serruchón (potager, verger, garage, conciergerie, tennis, eau potable, fosse d’aisances de sept cents hectolitres et plus) : exposées au midi, au levant, au couchant, au sud-est, au sud-ouest, abritées par des ormes ou à l’ombre antique des hêtres devers la tramontane et le pampero, mais non point contre la mousson des hypothèques qui soufflaient à tout emporter jusque sur l’amphithéâtre morainique du Serruchón et les peupleraies du Prado : des villas, des fermettes, d’énormes pavillons montés, de menus cottages solitaires, des folies jumelles, des bungalows genre villa et des villas genre rustique et des dépendances rustiques des villas : les architectes pastrufaziens en avaient, peu à peu, chacun son tour, constellé les paisibles et mols coteaux des pentes préandines qui, comme il va sens dire, « déclinent en douceur » : vers la sérénité en cuvette des lacs. (...) Ces villas, ou nombre d’entre elles, plus que jamais « coquettes » quand elles surgissaient au-dessus des robiniers ou des frondaisons redondantes du banzavóis, comme pointant d’une bananeraie des Canaries, on eût pu légitimement affirmer d’elles, l’occasion faisant le larron, et pour peu qu’on soit homme de lettres, qu’elles « coulaient oeillades emmile verdoyer des couteaux ». (...)D’autres villas mignonnes, à l’endroit de leur plus saillant arêtillon faîtier, se rehaussaient, fiéraudes, d’une tourelle pseudo-siennoise ou pastrufazio-normande, portant longue et noire tige à son sommet, pour drapeau ou paratonnerre. D’autres encore s’ornaient de menues coupoles et pinacles divers, du type russe ou quasi, un peu comme des raves ou des oignons à la renverse, avec couverture imbriquée et souvent polychrome, écailles – autant dire – d’un reptile de carnaval, moitié jaunes, moitié célestes. A telle insigne qu’elles tenaient de la pagode et de la filature, faisaient un compromis entre le Kremlin et l’Alhambra.
Car enfin tout était passé, tout, par la tête des architectes pastrufaziens : hormis peut-être les traits qui connotent le Bon Goût. Tout : le style Umberto et celui de Guillaume, le néo-classique et le néo-néo, le premier empire et le second ; le liberty, le jugendstil, le corinthe, le pompéien, l’angevin, l’égypto-Sommaruga et le Coppedè-galeazzien : les casinos de plâtre caramélisé de Biarritz et d’Ostende, le PLM et Fagnano Olona, Monte-Carlo, Indianapolis, le Moyen Age, en l’occurrence un Filippo Maria pour la bonne bouche tenant bras dessus bras dessous un pour calife : et jusqu’à la reine Victoria (d’Angleterre), maisvautrée sur une ottomane de Turquie » (Gadda, 1974 : 26-28).
Titolo originale: Higher Development Density: Myth and Fact – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
Nota di premessa: gli estratti che seguono coprono l’introduzione, e due degli otto capitoli (il n. 1 e n. 7) dello studio. Ho scelto in base a considerazioni personali che credo e spero condivise, di maggior generalizzabilità degli argomenti trattati: l’economia dei servizi, e il rapporto fra pianificazione e mercato/libera scelta. Per gli abituali motivi di spazio e leggibilità, ho tralasciato altri temi, come traffico, valore immobiliare, o sicurezza, che comunque gli interessati possono trovare sul rapporto integrale originale disponibile anche online (f.b.)
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Le trasformazioni demografiche in America stanno creando una domanda per nuovi tipi di abitazioni, uffici, spazi commerciali. C’è bisogno di nuove soluzioni per le sfide determinate dal mutamento della popolazione, dalla diminuzione degli spazi naturali, dallo smog e dai problemi di salute pubblica, dai bilanci comunali sempre più ristretti, dalla congestione da traffico. Le comunità che sapranno reagire a queste sfide diventeranno ottimi luoghi in cui vivere.
America vedrà 43 milioni di nuovi residenti (vale a dire 2,7 milioni di nuovi abitanti l’anno) da qui al 2020. La nazione non solo sta crescendo, ma anche attraversando eccezionali trasformazioni demografiche. La famiglia tradizionale con due genitori e figli ora rappresenta meno di un quarto della popolazione, e diventa relativamente sempre meno. Famiglie di un solo genitore, persone che vivono sole, coppie senza figli e empty nesters, ora rappresentano la nuova maggioranza, e hanno bisogni immobiliari piuttosto diversi. Questi gruppi probabilmente si orienteranno maggiormente verso residenze a densità maggiore e miscela di funzioni, in grado di offrire quartieri vivaci, più che case unifamiliari lontane dai centri comunitari.
Il fatto è che continuare il tipo di sviluppo diffuso, casuale e a bassa densità degli ultimi 40 anni è insostenibile, finanziariamente e in altri sensi. Porterà all’esasperazione molti dei problemi che lo sprawl ha già creato (la drastica diminuzione di aree naturali e territorio agricolo, tempi di pendolarismo sempre più dilatati, congestione da traffico paralizzante, pericoloso inquinamento dell’aria e delle acque). I funzionari dele amministrazioni ora capiscono come sostenere le spese delle infrastrutture di base (scuole, strade, biblioteche, caserme di polizia e dei pompieri, reti fognarie) diffuse su grandi territori sia inefficiente e costoso.
La maggior parte dei leaders pubblici desidera creare comunità vive e solide dove i cittadini possano godere di un’alta qualità di vita secondo modalità ambientalmente e fiscalmente responsabili, ma molti non sanno esattamente come raggiungere questo obiettivo. La pianificazione della crescita è un processo complicato e complesso che richiede a chi lo governa di adoperare vari strumenti per equilibrare i vari interessi della comunità. Sicuramente, nessuna azione è più importante dell’aumento di densità nei vecchi e nuovi insediamenti, ovvero il sostegno allo infill development, il ripristino e riuso delle strutture esistenti, e nuove urbanizzazioni a densità più elevata. E uno sviluppo ben progettato e integrato rende possibile il successo della crescita pianificata.
La densità non significa solo edifici sviluppati in altezza. La definizione dipende dal contesto dove essa è utilizzata. In questo studio, densità più elevata significa semplicemente nuove urbanizzazioni residenziali e commerciali con una densità più alta di quelle che si trova caratteristicamente nelle città esistenti. In questo senso, in un’area di sprawl con abitazioni singole unifamiliari su lotti di circa mezzo ettaro, altre case unifamiliari su lotti di 500 metri quadrati sono considerate alta densità. In zone più fittamente popolate con case unifamiliari su piccoli lotti, sono le townhouses e gli edifici ad appartamenti a rappresentare la maggiore densità. Nel caso di molti insediamenti suburbani, il fatto di distribuire centri a funzioni varie per la campagna è considerato indice di maggior densità.
La maggior parte degli urbanisti e degli amministratori ora concordano sul fatto che creare insediamenti con densità variabili, molti tipi residenziali e funzioni miste possa essere l’antidoto allo sprawl, se applicato a scala regionale. E in tutto il paese il pubblico sta diventando più informato e impegnato nel compiere scelte di uso dello spazio necessarie se si comprendono le conseguenze di una crescita come quella degli anni passati. Molti hanno anche iniziato ad apprezzare i benefici del “ place-making” connesso all’uso delle densità più elevate e del risparmio di terre libere. Anche la copertura mediatica sui temi della crescita e dell’urbanizzazione si è evoluta. Nel passato i media si limitavano ai conflitti fra costruttori e comunità di residenti. Ora spesso si presentano notizie più meditate e approfondite, e molte redazioni sostengono l’insediamento ad alta densità nei propri territori di riferimento, come antidoto allo sprawl regionale.
Eppure nonostante la crescente consapevolezza della complessità del problema, e il sempre più forte sostegno ad uno sviluppo urbano a densità maggiori, come risposta allo sprawl, molti sollevano ancora questioni e paure rispetto all’urbanizzazione densa. Come cambierà il quartiere? Peggiorerà il traffico? Cosa succederà ai valori immobiliari? E al livello di criminalità? L’evidenza (documentata in questo studio) suggerisce che un’urbanizzazione ben progettata a densità superiori, correttamente integrata entro una comunità esistente, può diventare un elementi urbano significativo che aggiunge qualità alla vita e valore agli immobili per quanto riguarda i residenti, e si rivolge ai bisogni di una nuova e diversa popolazione.
La percezione che molti hanno dell’insediamento a densità superiore non corrisponde alla realtà. Gli studi condotti dimostrano che chi viene intervistato rispetto al tema della maggiore densità urbana espone un punto di vista negativo. Ma quando vengono mostrate immagini parallele di spazi a bassa e maggiore densità, la gente spesso cambia idea, e preferisce quest’ultima. In una recente ricerca della National Association of Realtors® e di Smart Growth America, sei su dieci potenziali acquirenti di case, a cui è stato proposto di scegliere fra due diversi quartieri, hanno scelto quello che offriva meno spostamenti pendolari, marciapiedi, e servizi come negozi, ristoranti, biblioteche, scuole e trasporti pubblici raggiungibili a piedi. Hanno preferito questa opzione rispetto a quella con spostamenti pendolari maggiori e lotti più grandi, ma poche possibilità di muoversi a piedi. L’American Housing Survey del 2001 rivela inoltre che gli intervistati citano la vicinanza al posto di lavoro più spesso del tipo di abitazione come fattore principale nella scelta della casa. Queste contraddizioni indicano un diffuso equivoco riguardo alla natura dell’insediamento a densità più elevate, e dello sprawl. Parecchie di queste percezioni distorte sono tanto diffuse da essere considerate miti.
In parte questi miti sono il risultato delle memorie di alcune persone sui quartieri popolari a densità molto alte degli anni ’60 e ’70, che sono stati giudicati un fallimento. In qualche modo, l’idea dell’alta densità viene associata alle immagini negative e ai problemi sociali delle aree urbane depresse. In realtà sono stati numerosi fattori interrelati in modo complesso, come l’alta concentrazione di povertà, o le scarse opportunità di lavoro e istruzione, a condannare i progetti di edilizia pubblica. Anche densità urbane molto alte possono essere pratiche, sicure, desiderabili. Ad esempio, i complessi condominali ad appartamenti per redditi misti o gli edifici lussuosi sviluppati in altezza di New York e Chicago (tra le abitazioni più sicure e costose del paese)dimostrano che densità non significa ambiente poco sicuro.
Scopo di questo studio è di dissipare i tanti miti che circondano l’insediamento ad alta densità, e favorire una nuova comprensione del tema, che vada oltre la connotazione negativa semplicistica che ne sopravvaluta gli impatti e sottovaluta le qualità. I rappresentanti eletti, i cittadini interessati, i leaders delle comunità, possono utilizzare questa pubblicazione per sostenere un tipo di densità che realizzi ottimi spazi e ottimi quartieri, che la gente possa amare. Con le previsioni di crescita demografica e cambiamento degli stili di vita, un consenso verso città con densità miste, vari tipi edilizi, molte funzioni, diventerà necessario e auspicabile.
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MITO: L’insediamento a densità più elevate sovraccarica le scuole e gli altri servizi pubblici, e richiede il sostegno di più infrastrutture.
REALTÀ: Il tipo di residenti negli insediamenti residenziali a maggiore densità (meno famiglie con bambini) genera una minore domanda di scuole e altri servizi pubblici, rispetto alla residenza a bassa densità. In più, la natura compatta dell’alta densità richiede infrastrutture meno estese a proprio sostegno.
I funzionari pubblici di tutto il paese combattono per realizzare le infrastrutture necessarie a sostenere l’insediamento diffuso. Uno studio recente di analisi dei costi dello sprawl ha stimato che si potrebbero risparmiare più di 100 miliardi di dollari in infrastrutture in 25 anni, prevedendo forme di urbanizzazione più governate e compatte. Il problema trascende gli schieramenti politici e le ideologie, ed è diventato una questione di semplice responsabilità. Il governatore repubblicano della California Arnold Schwarzenegger ha criticato lo “ sprawl fiscalmente insostenibile”, e quello democratico del Michigan, Jennifer Granholm, ha sottolineato come lo sprawl “sta minando la capacità dello stato e dei suoi governi locali, di finanziare strutture e servizi pubblici migliori”.
Gruppi progressisti e conservatori hanno individuato nello sprawl il problema reale. La Carta del New Urbanism afferma che “lo sprawl senza luoghi” è una “sfida alla costruzione di rapporti comunitari”. Gruppi conservatori hanno concluso che “lo sprawl è una problema per i conservatori” con “soluzioni conservatrici” e che “lo sprawl fu cerato in gran parte attraverso l’intervento pubblico nell’economia”.
In effetti, molte politiche governative dellos corso mezzo secolo hanno condotto ad uno sprawl sovvenzionato. Storicamente, la spesa federale per i trasporti ha sostenuto le grandi autostrade contro tutti gli altri mezzi di spostamento. Le politiche finanziarie della Federal Housing Administration hanno promosso lottizzazioni suburbane in tutto il paese. Lo zoning monouso a larghi lotti ha forzato una separazione funzionale di usi dello spazio, portando a grandi distanze fra posti di lavoro, case, commercio. Ma molti enti governativi ora comprendono che non si può continuare a realizzare tutte le infrastrutture e servizi che richiede lo sprawl.
I governi locali non solo sostengono molta parte dei costi di sempre più strade, reti idriche ed elettriche sempre più estese, condotti fognari di dimensioni e lunghezza maggiore, a sostegno dello sviluppo diffuso; essi devono anche finanziare i servizi pubblici per nuovi residenti che abitano sempre più lontano dal centro della comunità. Questi nuovi abitanti devono essere serviti di polizia e pompieri, scuole, biblioteche, rimozione dei rifiuti, e altro. Prolungare tutti questi servizi di base per aree geografiche sempre più estese pone un grosso carico sulle amministrazioni locali. Per esempio, l’amministrazione regionale di Minneapolis/St. Paul ha realizzato 78 nuove scuole nei sobborghi fra il 1970 e il 1990, chiudendone contemporaneamente 162 in buone condizioni entro i confini urbani. Albuquerque, New Mexico, ha subito una crisi finanziaria nei bilanci scolastici a causa della necessità di realizzare nuove e costose scuole nelle aree esterne mentre le iscrizioni in quelle più vicine declinavano.
Sfortunatamente per le amministrazioni locali, una quantità crescente di dati mostra che l’insediamento diffuso spesso non paga tasse locali sufficienti a coprire i servizi che richiede. Una ricerca condotta su una comunità suburbano fuori Milwaukee ha rilevato che i servizi pubblici per una casa unifamiliare di prezzo medio, qui, costano più del doppio della tassa locale pagata dal proprietario.
Uno dei motivi per la disparità fra gettito della property tax e costo dei servizi pubblici è la spesa per le scuole. I suburbi a bassa densità e le aree “esurbane” in genere attirano famiglie con più bambini in età scolare. Gli insediamenti di case unifamiliari hanno in media 64 bambini su cento unità, contro i soli 21 di una tipologia garden apartments o i 19 bambini delle case sviluppate su medie e grandi altezze. Il motivo è che l’abitazione multifamiliare attrae in modo predominante coppie senza figli, singles, e empty nesters.
E nonostante gli inquilini in affitto degli appartamenti non paghino direttamente la property tax, lo fanno i proprietari. Gli edifici ad appartamenti di solito sono anche tassati a cifre più alte dal punto di vista commerciale, e così un tipico insediamento a funzioni miste con commercio, uffici e appartamenti, può sovvenzionare le scuole e altri servizi necessari ai residenti a bassa densità dello stesso comune. Questo fenomeno è ulteriormente accentuato dal fatto che molti insediamenti plurifamiliari con commercio e uffici pagano di tasca propria la rimozione dei rifiuti, i bus navetta, o la sicurezza.
Ridurre la distanza fra case, negozi, uffici, riduce anche i costi delle infrastrutture pubbliche. Secondo uno dei molti studi disponibili sul tema “I costi pubblici di investimento e operativi per insediamenti compatti sono molto più bassi di quanto non siano per insediamenti in aree esterne, diffusi, lineari o satellite.”. E molti di questi studi non tengono conto dei vantaggi creati dalla maggiore facilità di realizzare trasporti pubblici o rendere servizi più efficienti e facili da erogare, come la consegna della posta, la rimozione dei rifiuti, i servizi di polizia e pompieri.
Un altro gruppo emergente di studi indica che l’insediamento a maggiore densità è un’importante componente dello sviluppo economico e aiuta ad attirare nuove imprese. “L’economia dell’informazione” è un termine che si utilizza per definire le sempre più numerose attività basate sull’economia di internet, sulla risorsa informazione, sulla proprietà intellettuale. Gli occupati in questi campi sono noti come “lavoratori della conoscenza” e molti ritengono che rappresentino il futuro dell’economia americana. Questi lavoratori hanno familiarità con le nuove tecnologie e, dato che le proprie capacità sono trasferibili, scelgono i propri posti di lavoro in base alla città o cittadina dove sono collocati. Apprezzano i centri urbani vivaci, diversificati, che offrono accesso alle tecnologie, ad altri lavoratori e stili di vita simili.
Il giro dello sviluppo economico è cambiato. Le imprese ora seguono i lavoratori, e non più il contrario. Quindi le città che si concentrano sull’offerta di un’alta qualità di vita tramite l’energia e la vitalità dei centri urbani saranno maggiormente in grado di attirare questi lavoratori ben pagati, capaci e produttivi, di quanto non siano le comunità dello sprawl senza volto. Le imprese che capiscono l’ appeal di questi centri stanno decidendo rilocalizzazioni, pensando a questo tipo di lavoratori. Le ricerche hanno mostrato che a densità di lavoro crescente cresce anche la produttività del lavoro, in genere attraverso la riduzione dei tempi di pendolarismo.
Quindi, introdurre densità più alte in una comunità aumenta concretamente il gettito fiscale senza aumentare in modo significativo il carico di infrastrutture e servizi. Introdurre tipologie ad appartamenti negli insediamenti a bassa densità può aiutare a sostenere le scuole senza drastici aumenti in termini di studenti. Divresificare l’offerta di tipi residenziali e aggiungere elementi come negozi e uffici vicini alle case, migliorerà la qualità della vita e attirerà persone e imprese a rafforzare la stabilità economica locale. Una maggior densità offre una concreta spinta economica alla città, e aiuta a pagare le infrastrutture e i servizi pubblici di cui tutti abbiamo bisogno.[...]
MITO: Nelle aree suburbane nessuno vuole insediamenti a densità superiore.
REALTÀ: La nostra popolazione sta cambiando, e diventa sempre più diversificata. Molte delle nuove famiglie preferiscono complessi residenziali a maggiore densità, anche nelle zone suburbane.
Molti di noi pensando all’ American dream si immaginano coppie sposate con bambini che abitano in una casa unifamiliare isolata nei sobborghi. L’idea generale è che le uniche persone disposte a vivere nelle aree ad alta densità siano coloro che non possono permettersi una casa tradizionale con un giardino, o vogliono vivere nel bel mezzo della città. Entrambe queste immagini sono incomplete.
La popolazione del paese sta cambiando, e con lei le preferenze immobiliari. Questi mutamenti negli stili di vita hanno significative implicazioni per quanto riguarda l’insediamento suburbano. Per la prima volta, ci sono più nuclei familiari di una sola persona (26,4%) che coppie sposate con figli (23,3%). I gruppi che crescono più in fretta sono gli individui fra i 20-30 anni e gli empty nesters di 50 e oltre, e sono quelli che più probabilmente cercheranno un’alternativa all’abitazione unifamiliare in zone a bassa densità.
Un numero crescente di americani sta ridefinendo il proprio American dream. Cercano stili di vita più vivaci e confortevoli. E mentre alcuni li cercano in città, molti altri si aspettano cose simili nei suburbi. Secondo uno studio del 2002 della National Association of Home Builders, più di metà degli inquilini intervistati rispondono di voler vivere nei suburbi. In più, un sondaggio nazionale sulle preferenze degli acquirenti di case ha rilevato che quasi tre quarti di essi preferiscono vivere in una città dove ci si può spostare a piedi o in bicicletta fino alla propria destinazione. L’American Housing Survey del 2001 riferisce che gli intervistati citano la vicinanza al posto di lavoro più spesso del tipo di abitazione come fattore principale per la scelta della casa. Queste indagini confermano che molte persone preferiscono il suburbio, ma desiderano caratteristiche tradizionalmente associate alla città, compreso l’abitare vicino al lavoro.
Con il continuo decentramento delle città e l’ascesa di comunità suburbane con servizi di tipo urbano, molte persone scoprono che è possibile vivere e lavorare nei sobborghi con tutte le caratteristiche di suburbia che vogliono, senza rinunciare a spostarsi a piedi e ai negozi. Uno studio recente conferma che in molte regioni ci sono più spazi per uffici localizzati nei sobborghi di quanti non ce ne siano nei centri città, offrendo così un’opportunità ai dipendenti di abitare vicino al posto di lavoro. Le città e i costruttori che hanno riconosciuto e risposto a alla duplice tendenza del decentramento degli uffici e del crescente desiderio per uno stile di vita più confortevole, sono stati ricompensati. I quartieri ben collocali, a densità maggiori e funzioni miste, sono sempre più popolari nei sobborghi, e creano un nuovo sense of place.
Le parti di città vengono realizzate utilizzando i migliori concetti degli insediamenti tradizionali:lotti più piccoli, vari tipi edilizi residenziali, portici sul fronte, marciapiedi, negozi e uffici raggiungibili a piedi, trasporti pubblici vicini. Cittadine come Celebration in Florida o King Farm in Maryland sono diventate così popolari fra il pubblico dei potenziali acquirenti di casa che tutte le preoccupazioni sull’esistenza o meno di una domanda del genere sono state sostituite dalle preoccupazioni per il rapido aumento dei prezzi, che le collocava fuori dalla portata di chi non ha un reddito molto alto.
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Nota: naturalmente quest'ultimo riferimento alle gated communities (si vedano i testi a proposito in questa stessa sezione di Eddyburg)come esempio a contenuti positivi lascia piuttosto perplessi, ma tant'è. Per il documento integrale e originale, si veda il sito dello Urban Land Institute, sezione "reports" (f.b.)
Titolo originale: If We Don’t Like Sprawl, Why Do We Go on Sprawling? – traduzione di Fabrizio Bottini
Abbiamo gli uffici urbanistici. Abbiamo le regole di zoning. Abbiamo istituito gli Urban Growth Boundaries [margini di sviluppo urbano imposti dal piano regolatore n.d.T.], e organizziamo conferenze sulla smart growth e sul problema dello sprawl. Ma ce l’abbiamo ancora, lo sprawl. Fra il 1970 e il 1990 la popolazione di Chicago è cresciuta del 4 per cento, mentre la sua area urbanizzata cresceva del 46 per cento. Nello stesso periodo Los Angeles si è gonfiata del 45 per cento in popolazione, e del 300 per cento in area occupata.
Lo sprawl ci costa più delle terre agricole cancellate, o del pendolarismo dentro a paesaggi di impressionante bruttezza. Ci costa dollari, che escono dalle nostre tasche sotto forma di tasse locali più elevate. Questo succede perché il nostro metodo di crescita urbana, in particolare quello delle zone esterne ad uso estensivo di suolo, costa molto più in servizi di quanto non restituisca in tasse.
Nel suo nuovo libro Better Not Bigger, Eben Fodor cita studi dopo studi che dimostrano come questa crescita aumenti le tasse. Nella Loudon County, Virginia, ogni nuova casa su un lotto da mille metri quadrati aggiunge ogni anno 705 dollari in carico al bilancio municipale (per la raccolta della spazzatura, manutenzione stradale, ecc., al netto della tassa locale sugli immobili). Una nuova residenza su un lotto da due ettari costa alla collettività 2.232 dollari l’anno. A Redmond, stato di Washington, le case unifamiliari pagano il 21% di tassa sulla proprietà, ma costano il 29% al bilancio cittadino. Uno studio sulla Central Valley in California ha colcolato che un’edificazione più compatta potrebbe far risparmiare alle municipalità 200.000 ettari di terreno agricolo e 1,2 miliardi in tasse.
Ci sono dozzine di studi del genere. Arrivano tutti alla medesima conclusione. I nuovi residenti di fatto prendono dalle tasche dei vecchi residenti le risorse per mantenere scuole e altri servizi aggiunti. Gli insediamenti commerciali e produttivi fanno anche di peggio. Possono anche pagare di più in termini di tasse di quanto non chiedano in servizi, ma il traffico e l’inquinamento che generano riduce il valore delle proprietà immobiliari circostanti. Le nuove attività spesso portano dipendenti che non vogliono vivere nei pressi della lottizzazione industriale o commerciale, e così costruiscono casa e pagano tasse nella municipalità VICINA. Le imprese più grandi e meglio organizzate, come le squadre sportive o Wal-Mart, convincono le amministrazioni a costruire stadi, ampliare strade, fornire gratuitamente reti idriche e fognarie, o promesse di riduzioni fiscali, garantendosi così che ciascun contribuente della città sborsi denaro per aumentare i loro profitti.
Visto che ci basta vivere in una città in sviluppo, o guardare alle città più grosse, per notare come le tasse non diminuiscano con la crescita, è stupefacente che molti di noi credano ancora ai sostenitori di questo sviluppo, ascoltati e potenti virtualmente ovunque.
Una delle ragioni per cui gli crediamo ancora, è che il mito della crescita, come ogni mito, nasce da un nucleo di verità. La crescita urbana va a beneficio di qualcuno. Le agenzie immobiliari vendono, le imprese di costruzione offrono impiego, le banche hanno più depositi e crediti, i giornali aumentano le tirature, i negozi fanno più affari (anche se hanno una maggiore concorrenza). I proprietari dei terreni che vendono ai costruttori possono guadagnare parecchio, e i costruttori ancora di più.
Tutta questa gente promuove la crescita. Eben Fodor li chiama la urban growth machine e prende come esempio il modo in cui si alimenta un motore. Immaginate un progetto di urbanizzazione che costerà alla comunità 100.000 dollari e porterà benefici per 50.000. Questi 50.000 vanno a dieci persone, 5.000 a testa. I 100.000 si scaricano su 10.000 persone, come incremento fiscale di 10 dollari. Chi presterà davvero piena attenzione a questo progetto, parteciperà alle riunioni pubbliche, coinvolgerà avvocati, e funzionari pubblici? Chi, sinceramente, può credere e affermare ad alta voce che questa crescita è una buona cosa?
Fodor cita l’ambientalista dell’Oregon Andy Kerr, che definisce la crescita urbana “uno schema a piramide in cui relativamente pochi prosperano, alcuni altri trovano da vivere, ma per cui la maggior parte [di noi] paga”. Finché ci sarà da prosperare, nessuna tiepida misura di tipo smart growth intaccherà l’espansione urbana e lo sprawl.
La più identificabile causa dello sprawl è quindi questa growth machine, m anon sarebbe giusto dare tutta la colpa a quelli che ci guadagnano. Essi stanno semplicemente giocando secondo le regole. Regole stabilite principalmente dal mercato, che ricompensa chiunque è abbastanza intelligente per scaricare i costi dell’attività su qualcun altro. Io mi prendo i proventi delle attività, e tu costruisci le strade. Io pago i miei dipendenti (il meno che posso), tu stai in mezzo agli ingorghi stradali e respiri gli scarichi di quando loro vengono al lavoro. Io faccio la lottizzazione, tu perdi spazio aperto, acqua pulita, animali selvatici. Siamo noi, collettivamente, a stabilire le regole, compresa la mangiatoia di sussidi dalla quale prendono in abbondanza. Non possiamo dargli la colpa, se prendono.
E abbiamo bisogno dei servizi che offrono alla comunità (con altri amici dilettanti come me, sto tentando di creare un eco-quartiere di 22 unità, e imparando ad apprezzare le capacità e i rischi di un costruttore). Non è compito loro controllare lo sprawl; è loro compito seguire regole concrete, chiare, solide, che chiedono di competere sulla base dei prezzi più convenienti, ovvero scaricare i propri costi su altri nella massima misura legalmente possibile.
Questo ricompensa abbondantemente alcune persone, e di solito le persone che cercano un posto nei governi locali.
Non perché siano cattive persone, ma perché abbiamo costruito un sistema che li mette in imbarazzo.
Prenditi i profitti, scarica il costo su altri, non fermarti ma vai avanti e fallo ancora.
Urleranno e strepiteranno se gli togliamo questo, ma dobbiamo rispondere urlando e strepitando più forte, perché non possiamo essere obbligati a pagare il loro guadagno netto. La questione deve essere basata non tanto sulla libertà di impresa o di fare profitti, ma sull’imposizione fiscale senza rappresentanza [la taxation without representation fondativa dell’indipendenza americana nel XVIII secolo, n.d.T.], sulla sottrazione ad altri, sulla capacità limitata della natura e della comunità di sostenere queste consuetudini.
Nota: il sito del Sustainability Institute del Vermont, con altri articoli della direttrice Donella Meadows e altri materiali. Il tema di questo articolo, a ben vedere, è lo stesso di quello recente riportato da Eddyburg, di Gian Antonio Stella sulla città diffusa veneta e la tranquillità con cui la si guarda da parte di alcuni (fb)
Se il diciannovesimo secolo può essere chiamato l’Era delle Grandi Città, l’America del dopo 1945 sembra essere l’Era dei Grandi Suburbi. Mentre le città centrali stagnavano o declinavano sia in termini di popolazione che di imprese, la crescita era orientata quasi esclusivamente verso le periferie. Fra il 1950 e il 1970 le città centrali americane sono cresciute di 10 milioni di persone, i loro sobborghi di 85 milioni. In più, i sobborghi potevano contare su almeno tre quarti di tutti i nuovi posti di lavoro nell’industria e commercio nello stesso periodo. Al 1970 la percentuale di Americani che vivevano nei sobborghi era quasi esattamente il doppio di quella del 1940, e nelle zone suburbane vivevano più Americani (37,6%) che nelle città centrali (31,4%) o nelle aree rurali (31%). Negli anni Settanta le città centrali sperimentano un saldo netto di emigrazione di 13 milioni di individui, combinato ad una deindustrializzazione senza precedenti, crescenti livelli di povertà, e degrado delle condizioni abitative.
Mentre le città centrali declinavano, il suburbio emergeva come centro dell’interesse nazionale. Per la prima volta in qualunque società, la casa singola unifamiliare era messa alla portata economica della maggior parte dei nuclei familiari. Per molti, questa evoluzione fu motivo di entusiasmo. Nel classico film populista di Frank Capra del 1946, It’s a Wonderful Life, l’eroe George Bailey (interpretato da James Stewart) è il direttore di una società di costruzioni e prestiti. Egli rinuncia al suo sogno di diventare architetto o ingegnere, e creare vaste nuove città, per rimanere nella cittadina natale e aiutare i vicini ad acquistare la propria casa. Il risultato che lo inorgoglisce di più è una lottizzazione suburbana di villette, che battezza Bailey Park. Il cattivo (interpretato da Lionel Barrymore) è un miserabile banchiere la cui egoistica pratica professionale costringe le famiglie a pagare gli affitti per le case che lui possiede. Il film contribuisce di molto a spiegare la politica americana sulle abitazioni dei decenni successivi.
Altri erano meno ottimisti di Capra, per quanto riguardava i suburbi. Nel mezzo di un boom edilizio senza precedenti negli anni Cinquanta, un dibattito fra studiosi sui suburbi incolpava il nuovo stile di vita del crescente conformismo nella American way of Life. Negli anni Sessanta e Settanta quella condanna fu seguita da analisi che ritenevano la “fuga dei bianchi” responsabile per la segregazione e povertà delle zone centrali. Ma sia i critici che quelli a favore erano d’accordo sul fatto che la cosa più importante negli sviluppi del dopoguerra era, per dirla con una frase di Kenneth Jackson, “la suburbanizzazione degli Stati Uniti”. E davvero il fenomeno era così imponente che fu come una marea, che superava tutte quelle precedenti. Come se la suburbanizzazione fosse iniziata, nel 1945.
Qui, voglio proporre una interpretazione molto diversa dell’America di dopo la guerra. Secondo me la massiccia ricostruzione che cominciò nel 1945 non rappresenta il culmine di duecento anni di storia dei suburbi. Questo grande cambiamento, non è per niente suburbanizzazione, ma creazione di un nuovo tipo di città, con principi esattamente opposti al vero suburbio.
Dalle sue origini nella Londra del diciottesimo secolo, il suburbio ha svolto funzione di porzione specializzata della metropoli che si espandeva. Estero o interno ai confini amministrativi della città centrale, era sempre funzionalmente dipendente dal nucleo urbano. Correlativamente, la crescita dei suburbi significava sempre un rafforzamento dei servizi specializzati al centro.
Secondo me, il carattere più importante dello sviluppo americano del dopoguerra è stato il quasi simultaneo decentramento di abitazioni, industrie, servizi specializzati e occupazione terziaria; il conseguente distacco della periferia urbana da una città centrale di cui non aveva più bisogno; la creazione di un ambiente decentrato che nondimeno possiede tutto il dinamismo economico e tecnologico che noi associamo alla città. Questo fenomeno, notevole tanto quanto unico, non è suburbanizzazione, ma una nuova città.
Sfortunatamente, ci manca un nome per questa nuova città, che ha preso forma sui margini di tutti i nostri principali centri urbani. Alcuni hanno usato il termine “Esurbio” o “Città Esterna”. Io suggerisco (e me ne scuso) due neologismi: il “Tecnoburbio” e la “Tecno-città”. Per Tecnoburbio intendo una zona periferica, di dimensioni circa provinciali,
che si è affermata come solida entità socioeconomica. Diffusi lungo i suoi corridoi stradali di crescita stanno centri commerciali, lottizzazioni industriali, complessi di uffici integrati come in un campus, ospedali, scuole, e una gamma completa di tipi di abitazioni. I suoi residenti si riferiscono al proprio ambiente immediato anziché alla città, sia per il lavoro che per altri bisogni; e le industrie vi trovano non solo i dipendenti di cui hanno bisogno, ma anche i servizi specializzati.
La nuova città è un tecnoburbio non solo perché le industrie ad alta tecnologia hanno trovato le loro sedi più congeniali in tecnoburbi archetipici come la Silicon Valley in nord California o la Route 128 in Massachusetts. Nella maggior parte dei tecnoburbi queste industrie costituiscono solo una piccola minoranza dei posti di lavoro, ma è la stessa esistenza della città decentrata ad essere resa possibile solo attraverso le tecnologie avanzate delle comunicazioni, che hanno così totalmente superato i rapporti faccia a faccia della città tradizionale. Il tecnoburbio ha generato la differenziazione urbana senza la tradizionale concentrazione urbana.
Con “Tecno-città” intendo l’intera regione metropolitana che è stata trasformata dall’avvento del tecnoburbio. La tecno-città di solito porta ancora il nome del suo centro principale, per esempio “l’area metropolitana di New York”; le sue squadre sportive portano quel nome di città (anche se non giocano più entro i confini della città centrale); le sue stazioni televisive sembrano trasmettere ancora dalla città centrale. Ma la vita economica e sociale della regione sempre più scavalca il suo supposto centro. La tecno-città è davvero multicentrica, secondo lo schema creato per la prima volta a Los Angeles. I tecnoburbi, che possono estendersi per oltre 150 chilometri dal centro in tutte le direzioni, sono spesso in più diretta comunicazione l’uno con l’altro – o con altre tecno-città del paese – di quanto non lo siano col centro. La vera struttura della tecno-città è ben rappresentata dalle autostrade ad anello o strade di cintura, che servono a definire i perimetri della nuova città. I percorsi di cintura mettono ogni parte della periferia urbana in contatto con ciascuna altra parte senza passare in alcun modo attraverso il centro.
Per la maggior parte degli Americani, il vero centro della propria vita non è né urbano né rurale, così come queste entità sono state tradizionalmente concepite, ma piuttosto il tecnoburbio, i cui confini sono definiti dalle località che essi posso raggiungere convenientemente con le proprie automobili. Il vero centro di questa nuova città non è in qualche distretto d’affari centrale, ma in ciascuna unità residenziale. Da questo punto di partenza centrale, i membri della famiglia creano la propria città a partire dalla moltitudine di destinazioni che si trovano ad una adeguata distanza di automobile. Un coniuge può lavorare in un’area industriale distante due uscite dell’autostrada; l’altro in un complesso di uffici cinque uscite nell’altra direzione; i figli viaggiano su autobus verso centri scolastici integrati nello stesso distretto, o guidano da soli la propria auto verso la sezione locale dell’Università di stato; la famiglia fa spese in parecchi diversi centri commerciali posti lungo varie diverse strade; ogni fine settimana compie un viaggio in macchina di cento chilometri, fino a un’area di campagna (ma in rapido sviluppo) dove possiede una seconda casa; tutto quello di cui hanno bisogno e che consumano, dai più sofisticati servizi medici a frutta e verdura di stagione, si trova lungo le strade. Una volta all’anno, magari a Natale, si va “in centro”, ma non ci si sta mai a lungo.
Le vecchie città centrali sono diventate sempre più marginali, mentre il tecnoburbio si è affermato come il punto focale della vita americana. Il tradizionale abitante dei suburbi – che fa il pendolare a costi crescenti verso un centro dove i servizi disponibili sono solo un doppione di quelli che ha già vicino a casa – diventa sempre più raro. In questa ecologia urbana trasformata, la storia dei sobborghi è arrivata alla sua fine.
da: Antonio di Gennaro e Francesco P. Innamorato. La grande trasformazione. Il territorio rurale della Campania 1960/2000. Clean Edizioni, Napoli, luglio 2005 (pp. 82-87)
Premessa
L’espressione “anarchia urbanistica” è stata utilizzata recentemente da un urbanista un po’ particolare: il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi. [1] Essa fotografa, meglio di tante altre, il modo prevalente in cui sono cresciuti negli ultimi quaranta anni gli insediamenti urbani lungo l’intera penisola, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia.
La dispersione e la diffusione urbana che descriveremo sono infatti l’esito della sommatoria di una miriade di interventi sostanzialmente spontanei, piccoli e grandi, talvolta autorizzati da piani regolatori permissivi, talaltra realizzati in spregio alla legalità, in assenza di un incisivo governo delle trasformazioni. Sono anche la prova più lampante della sconfitta dell’urbanistica in Italia. Sconfitta, ma non fallimento, perché – laddove praticata con rigore e con continuità – l’urbanistica ha dato qualche frutto, certamente imperfetto, ma sufficiente ad evitare lo sfruttamento dissennato del territorio che, ancora nel 2005, prosegue in molte parti del territorio nella sostanziale accondiscendenza generale.
I termini diffusione e dispersione insediativa consentono di distinguere due fenomeni spesso legati tra loro [2]. Con il termine diffusione insediativa si descrive la crescita progressiva di centri urbani di piccole e medie dimensioni posti nelle corone più esterne delle aree metropolitane [3], oppure in aree lontane dai centri principali, nei fondovalle, nelle pianure interne, lungo la costa. Anche in Italia, come in molti altri paesi, ad un modello urbano denso e centripeto – sviluppatosi a partire dal primo grande sviluppo industriale - si è sovrapposto un secondo modello privo di gerarchie riconoscibili [4]. Favorita dalla presenza di nuove forme di organizzazione e specializzazione produttiva, dall’incremento della dotazione di infrastrutture, dalla crescita del reddito e della domanda di beni e servizi, la diffusione insediativa costituisce “una tendenza di lungo periodo di sistemi economico-territoriali di successo” [5].
A volte la densità della popolazione e delle attività produttive nelle aree più lontane dal centro è talmente bassa che diventa complicato stabilire un confine tra urbano ed extraurbano. Questo fenomeno si verifica sia ai margini delle aree urbane, sia lontano da queste ultime, attraverso il progressivo “coagulo” di costruzioni. Riprendendo nuovamente gli autori ora citati, possiamo quindi definire la dispersione insediativa come un fenomeno di frammentazione esasperata, che “attiene alla casualità delle nuove localizzazioni, alla frammentazione della forma urbana, al bricolage della pianificazione urbanistica e territoriale avulso da ogni principio di economia delle risorse territoriali, alla tarmatura del territorio” [6].
Diffusione e dispersione degli insediamenti [7] sono stati oggetto di alcuni importanti studi negli anni passati, sebbene esistano poche rilevazioni sistematiche a scala territoriale.
Punto di riferimento obbligato è la ricerca It.urb 80, coordinata da Giovanni Astengo attorno alla metà degli anni ottanta. Attraverso il coinvolgimento di ben 12 sedi universitarie, viene indagata l’evoluzione dell’urbanizzazione nel periodo 1951-1981 su un campione di 25 aree scelte in tutte le regioni d’Italia. [8] La ricerca testimonia la grande trasformazione del territorio italiano: nelle aree urbane osservate, estese per più di 200.000 ettari, risiedono oltre 13 milioni di abitanti. Gli insediamenti si accrescono con ritmi nettamente superiori a quelli della crescita della popolazione: aree produttive, infrastrutture, attrezzature speciali generano una domanda di aree sempre più pressante. L’esito territoriale di questa crescita è ben rappresentato nelle tavole allegate al rapporto: la dilatazione degli insediamenti attorno ai nuclei originari porta alla formazione di vere e proprie costellazioni di centri ormai privi di soluzioni di continuità. [9]
Una conferma di quanto la diffusione degli insediamenti costituisca il tratto distintivo dello sviluppo urbano dal 1970 in poi, viene da una ricerca molto più piccola, ma assai significativa, condotta nel 1995 da due ricercatori dell’Università IUAV di Venezia [10]. L’osservazione della distribuzione della popolazione testimonia il compimento di una "radicale trasformazione del sistema insediativo": nel 1991 il 58% della popolazione italiana risiede in vere e proprie conurbazioni, cioè in aree urbane formate da centri abitati contigui l’uno all’altro. La diffusione caratterizza regioni assai differenti fra loro (dalla Toscana alla Campania), interessa le principali aree metropolitane [11] e regioni prive di un polo centrale (Veneto, Emilia), aree di sviluppo economico più antico e altre dal recente sviluppo. Una nuova geografia dell’Italia vede affiancarsi alle grandi città come Napoli, Roma e Milano, altre prive di un’identità e di un confine preciso, ma altrettanto popolate, come la Romagna, la Versilia, la piana dell’Arno, il Veneto centrale.
Nuove costellazioni di città
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In anni più recenti, merita di essere menzionata la ricerca Itaten, Le forme del territorio italiano, promossa dal Ministero dei Lavori pubblici [12]. Questa nuova ricerca avvicina lo sguardo e indaga la trasformazione degli insediamenti ad una scala micro-urbanistica, descrivendo il rapporto fra edifici, lotti e infrastrutture e fra questi e le diverse forme del paesaggio. Vengono individuati alcuni “tipi insediativi” ricorrenti nell’intera penisola e privi di identità e qualità. I ricercatori ricorrono ad alcuni termini particolarmente evocativi: non-luoghi, fuori-scala, spazi ibridi, nuove centralità a-topiche. “Un paesaggio nato come esito di piccole cause, come se a nessuno fosse venuto in mente nulla di originale e si fosse copiato gli uni dagli altri, fino a dar luogo a territori fatti di oggetti ovunque uguali”. [13] Una vera e propria “idiosincrasia per intenzioni programmatiche e pianificatorie” [14] sostiene questa crescita per continue aggiunte, lascia spazio ovunque possibile ad interventi edilizi di piccola scala e riduce al minimo possibile gli investimenti parziali e spesso marginali riguardanti le infrastrutture. [15]
Con poche eccezioni, gli urbanisti hanno smesso di misurare il consumo di suolo, quasi che su questo tema abbia perso di attualità. Non è così, come testimoniano i dati seguenti relativi al Veneto.
“Nell’arco di due decenni (1961-1981) hanno cambiato destinazione d’uso più aree agricole di quanto non fosse accaduto nella storia dei due millenni precedenti. Nell’arco di una generazione (poi il fenomeno prosegue seppure con un relativo rallentamento) in tre provincie venete sono stati sottratti al paesaggio agrario più di 2300 Kmq (una intera provincia)”. [16] Il fenomeno non si è certo arrestato, anzi. Secondo gli studi della fondazione Benetton, le aree industriali del Veneto sarebbero oltre duemila [17] e la superficie coperta dei capannoni industriali ammonterebbe a 175 milioni di metri quadri di superficie coperta. “Nella sola provincia di Treviso, secondo l’assessore al Territorio Antonio Padoin, le zone industriali sono 556 e occupano complessivamente 56 milioni e 430 mila metri quadrati” [18].
Il quadro sulla dispersione non sarebbe completo se non si facesse un rapido cenno ad ulteriori trasformazioni del territorio che non riguardano direttamente i luoghi dove la popolazione risiede e lavora. Per esempio, anche il consumo del tempo libero è radicalmente cambiato nel tempo: i circuiti di fruizione turistica si sono allargati a dismisura [19], nuovi centri della ricreazione e del commercio sorgono in aree sempre più periferiche, oltre i labili confini della città, diffusa o dispersa che sia. Luoghi che non sono descrivibili pienamente né attraverso le categorie socio-economiche che si richiamano al decentramento dello sviluppo, né attraverso le più tradizionali analisi sulle relazioni fra residenza e spazi per la produzione. In alcuni casi si tratta del consolidamento di fenomeni di vera e propria degenerazione in atto da molto tempo. E’ il caso degli agglomerati di tipo turistico e ricreativo – edificati ma non urbani, dilatati nelle dimensioni e carenti di qualità formale e funzionale – cresciuti a dismisura lungo le coste e nelle aree montane. Luoghi che hanno relazioni labili con i centri stabilmente abitati, essendo a disposizione di una più vasta platea di utenti che ne usufruiscono, per poche ore al giorno o per pochi giorni l’anno, provenendo dai territori circostanti o da molto più lontano. [20]
Al meridione d’Italia spetta una triste specializzazione in tal senso. In una ricerca condotta per il PTC della provincia di Foggia, sono state rilevati, con l’ausilio delle foto aeree, gli insediamenti costieri. Lungo la costa del Gargano, da Lesina a Vieste, le aree costruite interessano all’incirca 25 km di fronte mare su 44 (quasi il 60% del totale, ovverosia la pressoché interezza della costa bassa). Alcuni di questi insediamenti mostrano uno sviluppo lineare parossistico: Rodi-S.Barbara (3,2 km), S.Menaio (2,5), Vieste (6,8).
Un’indagine analoga riguardante San Felice al Circeo (dove le abitazioni non occupate sono oltre 5.000), ha portato a rilevare un insediamento costiero che si sviluppa, senza sostanziali interruzioni, da San Felice a Terracina occupando una superficie di circa 450 ettari. Il fronte mare è occupato da abitazioni e strutture turistiche per quasi 9 km, cosicché restano privi di urbanizzazione solamente 600 metri di costa nell’intero arco costiero considerato. Un’urbanizzazione dissennata e totalmente inadeguata a sostenere un’economia turistica matura, mancando delle più elementari attrezzature, tanto da risultare ingiustificabile anche utilizzando il solo metro economico.
Altre trasformazioni, di tutt’altra natura, si stanno imponendo con prepotenza negli ultimi anni. Franciacorta, Serravalle Scrivia, Castel San Romano, centri piccoli e piccolissimi sono assurti a capitali del commercio in seguito alla costruzione di grandi centri commerciali. Per comprendere la portata di questo fenomeno si consideri che nel centro commerciale dei Gigli, uno dei tanti localizzati nella sterminata piana industriale tra Firenze e Prato, si registrano oltre 6 milioni di visitatori, pari a circa 20.000 persone al giorno, equivalenti alla popolazione di una cittadina o di un quartiere urbano [21]. E come non accennare alla disposizione di aeroporti, interporti, centri logistici? L’aeroporto della Malpensa è decentrato rispetto al capoluogo lombardo cui fa riferimento, ma è prossimo alla conurbazione che dal lago Maggiore si estende fino a Bergamo e posto sostanzialmente alla medesima distanza da Milano e da Torino. Molte attività chiamate centrali, perché fino a qualche decennio fa erano poste nel cuore delle città (commerci specializzati, uffici, grandi alberghi, centri fieristici e simili) si ridistribuiscono sul territorio. La città – diffusa o dispersa che sia - sembra estendersi all’infinito, ed
esplodere in uno spazio senza centro né periferia, in cui
le zone residenziali, commerciali, terziarie, del tempo libero si succedono senza ordine apparente, interrotte da spazi interstiziali e residuali dallo statuto spesso indefinibile, dove di tanto in tanto emergono grandi strutture funzionali [22].
L’immagine della città che ci deriva dal passato si è irrimediabilmente dissolta. La città come ammasso compatto di edifici chiuso da una cerchia di mura, non esiste più. Anche la rappresentazione familiare delle carte geografiche, dove le città sono simboleggiate da cerchi proporzionali all’importanza o alla popolazione residente, non è più corrispondente alla realtà.
Lo spazio fisico della città è quello della conurbazione; lo spazio funzionale è quello dell’area metropolitana, della regione urbana, dei sistemi urbani [23]. Confini e gerarchie sono stati superati da tempo, in modo irreversibile. Anche le istituzioni, incapaci di un riassetto complessivo, hanno dovuto necessariamente sviluppare nuove forme di relazione contrattuale o cooperativa, quand’anche instabili e poco incisive, [24] e si è assistito alla riorganizzazione in chiave territoriale della gestione delle reti tecnologiche e dei servizi.
Si tratta di un processo profondo e pervasivo, e non vi sono segnali che facciano ipotizzare, nel medio periodo, un’inversione di rotta. La diffusione urbana è quindi una caratteristica con la quale avremo a che fare ancora per diverso tempo.
Ciò non implica affatto che le dimensioni fisiche delle aree urbane debbano crescere ulteriormente e, soprattutto, che lo debbano fare nel modo sregolato che abbiamo descritto. Un elevato consumo di suolo e un’esasperata dispersione insediativa significano infatti:
- sottrazione di terreni produttivi e naturali;
- erosione e perdita di qualità del paesaggio;
- disposizione indifferente ai diversi caratteri di vulnerabilità e pericolosità del territorio, e conseguente incremento dei danni subiti e provocati;
- maggiori oneri nella distribuzione dei servizi;
- incremento della mobilità basato esclusivamente sul trasporto su gomma delle merci e delle persone e impossibilità di fornire un adeguato servizio di trasporto collettivo.
Se il governo del territorio appare sempre più come un’operazione complessa e composita, affidata cioè ad un numero crescente di soggetti e di strumenti, uno dei compiti principali dei piani urbanistici – e in particolare della loro componente strutturale – sembra essere proprio il contenimento dell’espansione urbana. La progressiva estensione dell’influenza della città sull’intero territorio nazionale rende infatti necessario rilanciare il tema del conflitto tra domanda di spazi per insediamenti e mantenimento dei caratteri rurali e naturali residui, tanto più preziosi in quanto sempre più rari [25].
Contenere l’espansione significa prevedere una riorganizzazione dell’assetto delle città che fornisca risposte adeguate alle esigenze di cittadini e imprese, rimanendo per quanto possibile entro i limiti attuali delle aree urbane [26]. Compito tutt’altro che facile, poiché presuppone una concezione forte del governo del territorio volta a correggere con il proprio intervento i limiti e le distorsioni prodotte dalle scelte individuali. Viceversa, anche una buona parte del mondo degli urbanisti [27] sembra condividere o essersi rassegnata all’anarchia urbanistica denunciata dal Presidente della Repubblica. Per fortuna, non tutti.
[1]C. A. Ciampi, Messaggio del Presidente della Repubblica, in Italia Nostra, n. 406, 2004.
[2] Per descrivere questi fenomeni, geografi e urbanisti utilizzano termini quali urban sprawl (étalement urbain), urban spill (desserement, déversement urbain), exurbanization. Vedi ad es. N. May, P.Veltz, J. Landrieu eTh. Spector, La ville eclatéee, Paris: Editions de l’Aube, 1998, G. Bauer e Roux, La Rurbanization ou la ville , , Paris: Seuil, 1976, Dorier-Apprill E. (dir.), Vocabulaire de la ville, Paris: Edition du temps, 2001.
[3] Si definisce disurbanizzazione o contro-urbanizzazione la crescita di centri di piccole e medie dimensioni, accompagnata al declino delle aree centrali.
[4] Sulla progressiva costituzione di relazioni di rete in sostituzione di rapporti gerarchici fra le città, si vedano in particolare gli scritti di G. Dematteis. Sugli esiti territoriali di tali trasformazioni si veda in particolare F. Indovina, 1990, La città diffusa, Venezia: Daest.
[5] R. Camagni, M.C. Gibelli, P. Rigamonti, 2002, I costi collettivi della città dispersa, Firenze: Alinea.
[6] Camagni, Gibelli, Rigamonti, ibidem.
[7] Una rassegna particolarmente attenta alla varietà degli approcci al tema della dispersione insediativa è stata prodotta da C. Bianchetti in “Dispersione e città contemporanea. Percorsi, linguaggi, interpretazioni”, Dst, 14/2000. Sullo stesso tema, si veda anche C. Bianchetti “Analisi della dispersione e biografie” in Cru 3/1995, p. 42 e segg.
[8] “Rapporto sullo stato dell’urbanizzazione in Italia”, pubblicato in Quaderni di Urbanistica Informazioni n.8, 1990.
[9] Il tema del consumo di suolo è stato poi ripreso dalla ricerca Cnr-Ipra, Interazione e competizione dei sistemi urbani con l’agricoltura per l’uso della risorsa suolo i cui esiti sono pubblicati Borachia, V. - Boscacci, F. - Paolillo P.L., a cura di, (1990), Analisi per il governo del territorio extraurbano, Milano: F.Angeli.
[10] La ricerca condotta da F. Torres e F. Morellato si basa sull’analisi dei dati statistici sulla popolazione residente in centri e nuclei urbani nel 1971, 1981 e 1991.
[11] La conurbazione milanese comprende 166 comuni, quella napoletana 111.
[12] Gli esiti della ricerca sono pubblicati in Clementi, A. - Dematteis, G. - Palermo P. C. (1996), Le forme del territorio italiano, Bari: Laterza.
[13] C. Bianchetti, 2000.
[14] Camagni, Gibelli, Rigamonti, 2002.
[15] Su questo tema si è ben espresso Bernardo Secchi, nel saggio “Descrizione/interpretazioni”, contenuto in Clementi, Dematteis, Palermo, 1996.
[16] Domenico Luciani, Insediamenti e mobilità nel Nord-est: appunti su una nebulosa senza centro, Fondazione Benetton studi e ricerche ( http://www.fbsr.it/ita/)
[17] Corrispondenti, in media, a più di 4 aree industriali per ciascun comune.
[18] Gianantonio Stella, “Troppe industrie in Veneto. Non avremo esagerato?”, Corriere Della Sera, 12 febbraio 2003.
[19] Qualche dato (fonte: Censis): in Italia sono presenti oltre 6.200 stabilimenti balneari, 2.500 impianti di risalita e 3.500 piste da sci, oltre 2.300 campeggi e villaggi turistici.
[20] Secondo i dati del censimento 2001 appena pubblicati, il più alto tasso di abitazioni non occupate si registra nelle aree alpine occidentali, abbandonate dai residenti e invase dai turisti, e lungo le coste del nord (Lignano, Comacchio), del centro (Anzio, Ardea) e del sud (Castel Volturno, Scalea). In totale, le abitazioni non occupate censite dall’Istat sul territorio nazionale sono più di 5.000.000, il 20% del patrimonio abitativo complessivo.
[21] Sugli outlet, e in generale sulle trasformazioni indotte dalle nuove politiche commerciali delle aziende private, si veda l’ampio dossier curato da Fabrizio Bottini per il sito eddyburg.it
[22] Questa è la descrfizione della ville eclatéee ( città esplosa) proposta da N. May, P. Veltz, J. Landrieu e Th. Spector La ville eclatéee, Paris: Editions de l’Aube, 1998, p. 7 – disponibile sul sito www.acadie-reflex.org/FicheIDF.html, e ripreso in Camagni e altri, 2002, p.16.
[23] Osserva Dematteis che il concetto di prossimità stessa è fortemente messo in discussione dallo sviluppo delle comunicazioni. La città-globale “è anche una rete iperconnessa, in cui ogni nodo è virtualmente prossimo ad ogni altro, in uno spazio non più euclideo, dove ad esempio le piazze finanziarie di Wall Street e della City di Londra pur essendo separate dall'oceano, sono di fatto contigue, mentre restano lontanissime da altri luoghi fisicamente vicini, come i ghetti neri di Manhattan o i quartieri poveri di Lewisham a Londra”. (G. Dematteis, prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 1996/97, Politecnico di Torino).
[24] Il tentativo di istituzionalizzare le aree metropolitane, previsto dalla legge 142/1990 è clamorosamente fallito. Si sono invece moltiplicati strumenti quali patti territoriali, accordi e conferenze d’area, piani strategici. E ancor più hanno fatto i conti con la diffusione degli insediamenti i soggetti, pubblici o para-pubblici, gestori delle reti e dei servizi (trasporti, reti di telecomunicazione, reti tecnologiche, smaltimento dei rifiuti, e simili).
[25] E’ appena il caso di ricordare l’equivoco generato dal Ptc di Napoli, che ha esteso la “riqualificazione insediativa” ad ampie porzioni del territorio rurale, come ha rilevato con grande efficacia Antonio di Gennaro (A. di Gennaro, a cura di, Piani imperfetti, Napoli. Clean edizioni, 2005).
[26] Nonostante si registri un consenso unanime sul carattere prioritario della riqualificazione rispetto alla crescita urbana, nei fatti le cose stanno diversamente. Una recente ricerca della regione Toscana, per esempio, segnala che il 62% dell’offerta residenziale dei piani strutturali approvati dopo il 1995 è collocata in “aree di espansione”.
[27] Scrive Cristina Bianchetti: “per Secchi [uno dei massimi urbanisti italiani, ndr] non solo è vano, ma è male comprimere gli esiti territoriali di questo prepotente e rinascente individualismo” e, più oltre, riprendendo alcune affermazioni di architetti e urbanisti: “non vi possono essere leggi, giudizi di valore, pregiudizi o entità astratte che a priori possano guidare la descrizione del territorio ... lo stile di indagine enfatizza il sopralluogo, il viaggio collettivo” ... l’analisi del territorio come registro del prodursi di differenze”. (C. Bianchetti, 2000).
L'immagine è tratta dal sito stoplegacyhighways