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Rottama Italia, Altraeconomia: lo "Sblocca Italia affossa" l'archeologia preventiva e decreta l'impossibilità di pianificare il nostro territorio a partire dalla tutela del paesaggio, ovvero sia dalla Costituzione.

Lo Sblocca-Italia fu annunciato dal premier una prima volta a inizio giugno, durante il Festival dell’Economiaa Trento: un provvedimento anti-burocrazia, laddove per esemplificare quest’ultima il premier citò le Soprintendenze e la loro fastidiosa propensione a bloccare ogni opera utile allo sviluppo. Ad agosto, a Napoli, peril nuovo annuncio, Renzi si avvalse, a testimonianza della necessità del provvedimento di lì a poco approvatodal Consiglio dei ministri, e come esempio di ostacolo alle impellenti ragioni di rilancio economico, propriodell’archeologia preventiva: “Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici” (la Repubblica 15/08/2014)

Il 90% dell’archeologia di scavo è oggi archeologia d’emergenza o preventiva. Ormai da molti anni, lo scavoarcheologico non è più, se non in minima percentuale, lo strumento di un progetto di ricerca, deciso a priori nelluogo, nei tempi, nella metodologia, bensì un “effetto collaterale” di attività sul territorio che hanno altrefinalità rispetto alla ricerca storico scientifica.
In Paesi di straordinaria stratificazione storica come il nostro, si tratta di un “incidente di percorso” frequentissimo: secondo il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, cui compete in sede esclusivala gestione/coordinamento di tali operazioni, gli scavi diquesto tipo ammontano a circa 6-7.000 l’anno.

Parlare di archeologia preventiva (o d’emergenza) significa quindi parlare di archeologia, tout court, della situazione del precariato giovanile, del legame -inscindibile e tuttora largamente incompiuto- fra tutela del patrimonio e pianificazione territoriale.
Nata alla fine degli anni 70, l’archeologia preventiva ha di fatto provocato, almeno in gran parte degli altri Paesieuropei, un radicale ripensamento metodologico della disciplina, introducendo nuove pratiche e la nascita dinuove figure professionali che sono chiamate a gestire i cantieri archeologici, coordinate in Italia dal personale del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che, anche a causa delle note carenze di personale, non riesce a condurre direttamente gli scavi.

Nel 1992, in concomitanza con l’avvio dei grandi progetti continentali di infrastrutturazione -i corridoi transna-zionali tuttora in costruzione- il Consiglio d’Europa, con grande tempismo, emanò un innovativo documentomirato alla tutela del patrimonio archeologico, noto come Convenzione di Malta. La ratifica ed introduzione dellaConvenzione di Malta in quasi tutti i Paesi europei ha contribuito, almeno fino allo scoppio dell’attuale crisieconomica, all’evoluzione decisiva, in termini metodologici e di opportunità lavorative, di questo settoreprofessionale per migliaia di archeologi e ricercatori di discipline correlate.
A distanza di 22 anni l’Italia non ha ancora ratificato la Convenzione di Malta e purtroppo, neppure il nostro Codice dei Beni culturali ha saputo adeguare le normative di tutela all’evoluzione della disciplina: l’archeologia del Codice è ancora quasi esclusivamente una disciplina accademica di matrice ottocentesca. Ma, elementoancor più grave, le procedure di archeologia preventiva previste (articolo 28, comma 4), caso unico in Europa,sono circoscritte alle sole opere pubbliche, mentre la proprietà privata ne rimane a tutt’oggi esente. L’accenno fugace del Codice ha reso necessarie poi ulteriori precisazioni normative (legge 109/2005 e articoli 95 e96 del d.lgs 163/2006) che però hanno lasciato pesanti lacune interpretative tuttora non risolte.

Ambiguità e incertezze normative hanno favorito un rapporto squilibrato (per usare un eufemismo) fra università e cooperative di scavo o ditte specializzate, ma soprattutto un contesto che non assicura condizioni di lavoro sufficientemente dignitose (si parla ormai, per ricercatori plurispecializzati, di tariffe orarie di 5 euro)agli archeologi professionisti, e, sul piano della tutela del patrimonio archeologico lascia irrisolti i problemilegati alla valorizzazione del patrimonio emerso e alla gestione dei depositi del materiale scavato.

Su questa situazione non certo ottimale si sono abbattuti in rapida successione gli innumerevoli provvedimentilegislativi che, dall’inizio della crisi economica, con l’obiettivo (pretesto?) di far ripartire l’economia (masi legge edilizia), hanno di fatto eroso mano mano gli spazi d’azione degli organismi di tutela in particolareper quanto riguarda le attività sul territorio.
Quasi inevitabile che proprio l’archeologia preventiva, in grado di bloccare i lavori per tempi spesso anche lun-ghi e non sempre circoscrivibili, sia nel mirino di chi sta conducendo una campagna volta alla delegittimazione delle pratiche di tutela.

Lo Sblocca-Italia rischia di essere il colpo definitivo che annichilisce una disciplina in Italia mai compiutamente decollata: innanzi tutto perché, come ben spiegato da altri interventi qui raccolti, procede ad un sistematico ribaltamento delle gerarchie costituzionali. Le esigenze del patrimonio devono cedere il passo sempre e comunque alle opere infrastrutturali, di cui il patrimonio archeologico rappresenta uno degli ostacoli più insidiosi.D’altro canto, nella farraginosa congerie di opere più o meno “grandi” indicate nel decreto, la quasi totalità, dalle tratte ferroviarie a quelle autostradali, dagli impianti di reti, agli aeroporti e alle metropolitane (oltre a Roma, Napoli e Torino si parla di Palermo e Cagliari) sarebbe appunto interessata dalle procedure di archeologia preventiva che, proprio per questo, occorre delimitare accuratamente.
Oltre alla compressione del dissenso nelle conferenze di servizio (nella grande maggioranza dei casi espresso proprio dagli organismi di tutela, articolo 1 comma 4, articolo 4 comma 1), quindi, si generalizza il ricorso al silenzio-assenso e si attribuisce un carattere di “atto di alta amministrazione” alla deliberazione del consiglio dei ministri (articolo 25).

Stricto sensu, e al contrario di come è stata spesso interpretata in Italia dal ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, fare archeologia preventiva non significa scavare tutto ciò che di valore archeologico emerge nel corso di interventi sul territorio, ma, piuttosto, attraverso metodi e strumentazioni adeguate, riuscire a definire in anticipo il “rischio” (o meglio potenzialità) archeologico di un’area interessata da un progetto in modo da modificarlo, nel tracciato, nelle dimensioni, nelle modalità d’impatto e da tutelare così il patrimonio archeologico “radicalmente”, senza ricorrere a scavi estensivi che sono in ogni caso episodi distruttivi e che, come sottolineò per prima la raccomandazione UNESCO del 1956, abbiamo il dovere di ridurre al massimo, soprattutto nell’incertezza sulla loro gestione successiva. Ciò non sempre è possibile, ma è certamente un obiettivo che può essere perseguito, innanzitutto attraverso la pianificazione territoriale: è solo a questo livello, infatti, così come segnalava già la Convenzione di Malta nel 1992 (articolo 5) che possono essere definite strategie di tutela del patrimonio archeologico efficaci perché intraprese “a monte” e quindi realmente preventive.

Lo Sblocca-Italia, al contrario, rappresenta la negazione in radice delle pratiche di pianificazione, comunque intese, giungendo a sospendere la valenza di piani urbanistici e paesistici (articoli 7 e 33), e per conseguenza le loro garanzie di tutela. Oltre a ciò, l’intervento degli organismi di tutela è rigidamente e sistematicamente compresso sia in termini temporali, sia negli ambiti decisionali: trattati come ospiti indesiderati, i rappresentanti della tutela subentrano -quando è loro concesso- solo a “cose fatte”: negata loro qualsiasi possibilità di intervento a livello progettuale, anche in fase di verifica la loro azione è predefinita nelle finalità e al più può essere quindi di “mitigazione del danno”, mai di opposizione radicale (articolo 1 comma 4).
Invece che inserire, come vorrebbe la Convenzione di Malta, gli organismi di tutela fin nelle prime fasi progettuali, lo Sblocca-Italia li espelle dai tavoli decisionali, confinandoli ad un ruolo marginale e mai inappellabile e sancendo, a livello legislativo, la sudditanza delle ragioni del patrimonio rispetto ad esigenze “altre”.

Così, quando nel decreto troviamo l’ingiunzione secondo la quale entro dicembre prossimo, dovranno essere emanate quelle linee guida di regolamentazione delle procedure “di verifica preventiva dell’interesse archeologico” (articolo 25 comma 4), previste già dal d. lgs 163 del 2006 (dopo 8 anni di inutili tentativi si pretenderebbe quindi di emanarle in qualche settimana), i sospetti si fanno fortissimi: secondo voi nella discussione fra i due ministeri coinvolti -Infrastrutture e trasporti versus Beni culturali- quali ragioni prevarranno?

Convenzione di Malta
Articolo 5
Ogni Parte si impegna:
i. a cercare di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e della pianificazione, facendo in modo che degli archeologi partecipino:
a. alle politiche di pianificazione volte a definire delle strategie equilibrate di protezione, conservazione e valorizzazione dei siti di interesse archeologico;
b. allo svolgimento delle diverse fasi dei programmi di piani- ficazione;
ii. a garantire una consultazione sistematica tra archeologi, urbanisti e pianificatori del territorio, al fine di permettere:
a. la modifica dei progetti di pianificazione che rischiano di alterare il patrimonio archeologico [...]

l Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2014
Dal mare tropicale alle montagne innevate in soli due minuti. Fondi caraibici e la pista di slalom gigante. Una funivia avrebbe collegato la spiaggia ai monti, il caldo al freddo, il sole alla neve. Sembra di essere tornati all’inizio degli anni Settanta quando Calogero Mannino radunò in piazza i cittadini di Sciacca e annunciò: “Dite ai vostri figli di tornare in città. C’è lavoro per tutti, finalmente”. Sembra che Matteo Renzi abbia preso molto dalla filosofia del potente democristiano siciliano. Ha creato Italia sicura, che deve preservare il nostro Belpaese dai dissesti idrogeologici, deve curare le ferite di mezzo secolo di devastazione e però ha firmato il decreto Sblocca Italia che consegna lo stesso Paese devastato ai devastatori, traveste i costruttori in commissari delle grandi opere pubbliche, ed elimina nella sostanza ogni forma di controllo pubblico. “Padrone in casa tua”, disse Berlusconi in uno dei suoi formidabili slogan che perforarono il cuore di tanti cittadini in attesa. Padrone in casa tua, ripete oggi Renzi. Anzi lo scrive: nero su bianco.

Oggi che Genova offre questo ennesimo spettacolo di distruzione e di morte, frutto soprattutto di cattivi piani urbanistici figli di interessi immobiliari diffusi e deviati, oggi che costruzioni e ostruzioni di massa allagano la città e la rendono permanentemente pericolosa, il premier spiega qual è il problema: “Fare presto, sbloccare le opere che devono salvare la città”. È un proponimento all’apparenza giusto, perché circa 35 milioni di euro per la messa in sicurezza di alcuni corsi d’acqua sono fermi grazie alle postille burocratiche, ai ricorsi amministrativi, agli appelli e alle contese. Se per un attimo Renzi volesse approfondire il tema capirebbe che i cavilli, nove volte su dieci, sono armi speciali autorizzate e legalizzate in mano a quei costruttori che lui medesimo sta eleggendo a commissari. Per fare un esempio: la Metro C di Roma è costata grazie ai cavilli 600 milioni di euro (varianti, arbitrati, aggiornamenti prezzi) e dieci anni di ritardi. Il governo ha eliminato il problema eliminando i controlli. Scrive Salvatore Settis su Rottama Italia (scaricabile gratuitamente su altreconomia.it  ), un libro di vari autori che documentano le continue devianze dal diritto a cui sarà sottoposto il paesaggio italiano: “Col silenzio-assenso ogni richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione di un’area archeologica, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia”. O anche – come a Genova – alla foce di un torrente, potremmo aggiungere. Tutto è permesso, in ragione della costruzione. Nel decreto Sblocca Italia le lentezze sono opera della burocrazia inetta e non figlie di norme volute dal Parlamento, destinate esattamente al loro scopo. Ritardare, arzigogolare, rallentare, negoziare. In Italia si spende un milione di euro al giorno per far fronte solo alle varie emergenze. E questo governo interpreta sia la vittima che il carnefice: manda in scena oggi il ministro dell’Ambiente Galletti (“No ai condoni”), mentre il suo collega Lupi, quello delle Infrastrutture, rade al suolo la concessione edilizia e codifica una certificazione autonoma del privato cittadino. È il privato che sancisce se è violato o meno l’interesse pubblico e il privato che garantisce che il suo cemento non reca danno, non ostruisce, non danneggia. In Italia sono circa sei milioni di cittadini che vivono in luoghi altamente a rischio e circa settemila comuni dal territorio fragile.

Sapete qual è una delle prime dieci grandi opere altamente prioritarie? La nuova autostrada Orte-Mestre. Sapete chi ha avuto l’idea di costruire questa autostrada? La Mec, Management Engineering Consulting, società controllata da Vito Bonsignore, parlamentare di Ncd, il partito di Alfano (e di Lupi).

Rottama Italia. 16 testi d'autore, 13 vignette d'artista

Giusto venti anni fa, nell’estate del 1994, il nuovo sindaco di Napoli Antonio Bassolino ed io — che ero assessore all’urbanistica — presentammo un documento d’indirizzi che, tra l’altro, disegnava la strategia per il recupero delle aree di Bagnoli dove pochi mesi prima erano stati spenti gli altiforni e si era conclusa l’attività dell’Italsider. Il documento proponeva di utilizzare l’area dismessa per dotare la città, almeno in parte, degli spazi e delle funzioni che le erano stati negati dal criminale sviluppo edilizio del dopoguerra: in primo luogo una grande spiaggia liberata dai ogni manufatto e un gran parco pubblico, circa 120 ettari (che si propose di intestare ad Antonio Cederna). E poi attività ricettive, per il tempo libero e lo studio, e tre fermate di un nuovo tracciato della ferrovia Cumana che avrebbero reso Bagnoli accessibile da ogni angolo della città e dell’hinterland. Gli indirizzi urbanistici furono salutati molto favorevolmente dalla stampa nazionale e da molti giornali stranieri. Talvolta con entusiasmo. Contrari furono solo alcuni nostalgici della «vocazione industriale» di Bagnoli, anche se, allora come oggi, a Napoli e dintorni restano inutilizzati migliaia di ettari di vecchie e nuove aree destinate ad attività produttive.

Il progetto per il recupero di Bagnoli — luogo di antica e mitica bellezza, sotto le falesie di Posillipo, affacciato su Nisida e sulle isole del Golfo — fu in seguito perfezionato nel nuovo piano regolatore e nel piano attuativo che fecero seguito agli indirizzi del 1994. Ed è bene ricordare che, seppure fondate su previsioni a bassa densità e di minima nuova edificazione, fu anche autorevolmente verificata la redditività e la convenienza delle trasformazioni previste. Nel 1999 un vincolo di tutela del ministero dei Beni culturali, molto circostanziato (mirabilmente scritto da Antonio Iannello, uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano), confermò, consacrandole, se così posso dire, le previsioni urbanistiche comunali. Ma intanto si era messo mano a un’estenuante e sconclusionata operazione di bonifica comandata dal ministero dell’Ambiente. Cominciò così ad appannarsi e poi, a mano a mano, a dissolversi il sogno della nuova Bagnoli. Fra ritardi nei finanziamenti, inettitudini e peggio, la bonifica non è mai finita. Altrettanto deplorevole la storia della Bagnolifutura, la società ad hoc formata dal comune che però ha operato come un corpo separato, in parte sinecura, in parte serpe in seno, fino al maggio scorso quando il tribunale di Napoli ne ha dichiarato il fallimento.

Diciamoci la verità, il progetto Bagnoli degli anni Novanta non è mai piaciuto a chi conta davvero a Napoli e in Italia, e cioè al mondo della finanza e degli interessi immobiliari. Il parco di oltre cento ettari, in una città nota in letteratura per la quasi totale assenza di verde pubblico, è stato considerato uno spreco e una follia: architetti da passeggio, economisti e giornalisti con il cervello intriso di cemento e di asfalto, e con essi la destra di ogni sfumatura, hanno fatto a gara per diffamare la nuova Bagnoli. Se n’è avuta prova nel 2003, quando Napoli si candidò a ospitare nel mare di Bagnoli la 32esima edizione dell’America’s Cup, dichiarandosi disponibile a ogni modifica del progetto. Per fortuna vinse Valencia. Alla fine, a far piazza pulita di una politica pasticciata e inconcludente, ma anche del sogno napoletano di un grande spazio pubblico sul mare, ci hanno pensato Matteo Renzi, Maurizio Lupi e gli altri autori del decreto Sblocca Italia il cui art.33 riguarda proprio la bonifica ambientale e la rigenerazione urbana di Bagnoli e Coroglio. Gli interventi sono affidati a un Commissario straordinario del Governo e a un Soggetto Attuatore dotati di enormi poteri (che altri valuteranno dal punto di vista della legittimità). In particolare, all’incognito Soggetto Attuatore sono assegnate le aree della Bagnolifutura e le funzioni proprie del comune in materia di formazione dei progetti e di gestione degli interventi. Qui interessa mettere in chiaro che l’abbinamento di bonifica e rigenerazione urbana in capo al governo nazionale è subdolo, e tutt’altro che scontato. Perché il governo deve occuparsi di “opere di urbanizzazione primaria e secondaria” (comma 3 dell’art. 33), “di demolizione e ricostruzione e di nuova edificazione e mutamento di destinazione d’uso dei beni immobili comprensivi di eventuali premialità edificatorie”, nonché di “modelli privatistici consensuali” (comma 8)? Se l’obiettivo fosse stato, come sarebbe stato logico, di accelerare il completamento del progetto Bagnoli, il decreto doveva limitarsi a fissare precetti per mettere fine alla bonifica e agli interventi di trasformazione senza bisogno di un nuovo piano d’assetto, reso invece obbligatorio dal comma 3. Che il comune di Napoli disponga di un progetto urbanistico regolarmente approvato e vigente il decreto lo ignora, accredita anzi il convincimento che si sia all’anno zero e si debba cominciare daccapo. Determinando così le condizioni per una grande abbuffata, restituendo il comando agli energumeni del cemento armato – comunque vestiti – affossando per sempre le speranze dei napoletani.

La natura eversiva dell’operazione Bagnoli è confermata dalle procedure per l’approvazione dei programmi e dei progetti per la bonifica e la rigenerazione urbana (commi 9 e 10). Le decisioni sono accentrate nelle mani del presidente del Consiglio dei ministri e del presidente della regione Campania Stefano Caldoro – lampante ennesima dimostrazione della sant’alleanza Renzi Berlusconi – mentre è perfidamente escluso il sindaco di Napoli che, piaccia o non piaccia, è il garante dell’urbanistica cittadina. Anche qui, altri valuteranno la rispondenza delle norme alla Costituzione. Per quanto mi riguarda, non si tratta di difendere Luigi De Magistris, ora sospeso, o chiunque sia al suo posto, ma di chiedersi se e è democraticamente concepibile l’esclusione di un sindaco dalle decisioni riguardanti il futuro della città che lo ha eletto.

Con il nuovo decreto del Fare, in discussione in questi giorni al Senato, si potranno realizzare case mobili, anche in aree vincolate, senza permesso di costruire.
E' paradossale che, in un momento nel quale praticamente tutte le forze politiche dichiarano che una delle priorità di queste Paese è quella dievitare l'indiscriminato consumo di territorio, il Governo e l'attuale maggioranza facciano a gara per massacrare le nostre coste e le zone d'Italia più suggestive.
Il tutto è avvenuto, come di solito succede, in un comma (4) nascosto dentro l'art. 41 del decreto legge c.d. "del fare", dal rassicurante titolo"Disposizioni in materia ambientale", salvo poi rivelarsi una disposizione devastante per l'ambiente stesso.
Il tema è presto detto: le case mobili o "mobil house" si potranno realizzare senza più la necessità del permesso di costruire. Questa disposizione non viene neanche integrata con disposizioni limitative in ordine alle dimensioni e ai materiali, cosicchè potremmo trovarci palazzine viola costruite a pochi metri dalla costa. Già perché, ed è qui una ulteriore assurdità di questa disposizione, queste case-palazzine mobili potranno essere realizzate all'interno delle strutture ricettive all'aperto (i campeggi, per intenderci) e ben sappiamo che i campeggi hanno la caratteristica di essere posizionati proprio nei punti più suggestivi del nostro Paese, lì dove la speculazione edilizia, fino ad ora, aveva avuto più difficoltà ad entrare. Questo grimaldello permette di mettere le mani su queste zone e di decretare la fine dei campeggi come li abbiamo sempre immaginati. Infatti quale sarà il gestore di campeggi che deciderà, avendone ora la possibilità, di dedicare alle tende le aree per la sosta anziché a dei suggestivi chalet dove alloggiare i propri clienti? Quale gestore non correrà subito a ordinare le sue casette prefabbricate nella prospettiva di affittarle a decine di euro al giorno contro la possibilità di fare qualche misero euro per l'utilizzo delle piazzole per tende?
Ed ecco l'obiettivo raggiunto: i campeggiatori si trasformeranno in fittavoli, i gestori si trasformeranno in albergatori e le nostre coste ed i campeggi si trasformeranno in piccole lottizzazioni.Se qualcuno ha cercato di difendere il provvedimento invocando il fatto che si tratterebbe di case-palazzine ma pur sempre mobili è stato smentito clamorosamente dalla modifica apportata in sede di conversione alla Camera, dalla maggioranza e dal Governo. Infatti una "manina" nella seduta notturna di commissione (Affari costituzionali e Bilancio) ha tolto la parola "posizionati" riferita a queste case prefabbricate, con la parola "installati", tanto se a qualcuno fosse rimasto qualche dubbio sulla vera intenzione di questa disposizione.

A nulla sono valsi gli emendamenti soppressivi e gli ordini del giorno (n. 9/1248 AR/160 Basilio - M5S) tutti inesorabilmente respinti.Ora il provvedimento è al Senato fino alla fine di questa settimana e speriamo che sia corretto eliminando questa dannosa disposizione, è l'ultima occasione per evitare l'ennesimo sfregio al territorio del Paese e la fine di quella che viene definita "la filosofia del campeggio", almeno in Italia.

Finalmente una legge per lo sviluppo degli spazi verdi urbani. Si tratta della Legge 14 gennaio 2013, n. 10, “Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani” (GU n.27 del 1-2-2013), anche se manca ancora il decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare per definire la composizione e le modalità di funzionamento del "Comitato per lo sviluppo del verde pubblico". Sarà questo Comitato a monitorare l'attuazione della disattesa legge 29 gennaio 1992, n. 113 che impone l'obbligo ai comuni con più di 15mila abitanti di porre a dimora un albero per ogni neonato, a seguito della registrazione anagrafica. Se è vero che la messa a dimora può essere differita in caso di avversità stagionali o per gravi ragioni di ordine tecnico, di fatto nessuno sa dire dove sono stati piantati tutti questi alberi e se sì difficilmente è in grado di dire se sono ancora vivi e vegeti.

Con l'entrata in vigore del provvedimento il 16/02/2013 saranno i Sindaci a dover render noto il bilancio arboreo del proprio Comune, indicando il rapporto fra il numero degli alberi piantati in aree urbane di proprietà pubblica rispettivamente all'inizio e al termine del mandato stesso. A prescindere dalle ravvicinate scadenze di mandato, come nel caso di Roma, di fatto i Sindaci delle grandi città italiane difficilmente forniranno questi dati. I motivi principali? Rendita fondiaria, moneta urbanistica, consumo del territorio e soprattutto malgoverno, tanto che da anni sono saltate tutte le misure per la salvaguardia e la gestione delle dotazioni territoriali di standard previste nell'ambito degli strumenti urbanistici attuativi dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444. La dotazione di verde pubblico per ogni abitante, così come previsto per legge, infatti non c’è. Dunque, se non ci sono le aree verdi, dove si potranno piantare i nuovi alberi? Forse nelle rotatorie o nelle fasce intermedie o nelle superfici inaccessibili che indegnamente si fanno rientrare negli standard di verde pubblico? Il verde pubblico deve essere fruibile e non essere semplicemente un'area di colore verde non fruibile.

La nuova legge (che prende spunto dal riconoscimento del 21 novembre quale «Giornata nazionale degli alberi», con l’obiettivo di perseguire il rispetto del protocollo di Kyoto, la valorizzazione del patrimonio arboreo e boschivo, la riduzione delle emissioni, la prevenzione del dissesto idrogeologico, il miglioramento della qualità dell'aria e la valorizzazione delle tradizioni legate all'albero), interviene in realtà su un aspetto del tutto dimenticato da parte delle amministrazioni italiane: la vivibilità degli insediamenti urbani. Come possiamo vivere in agglomerati di cemento e ferro senza pubblici spazi verdi di 'natura'? Vediamo come l'articolo 4 di questa legge protegge il decreto del Ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968, n. 1444,

- rapporto annuale del Comitato sull'applicazione nei comuni italiani delle disposizioni del decreto ministeriale 1444

- obbligo per i comuni di approvare le necessarie varianti urbanistiche per il verde e i servizi entro il 31 dicembre di ogni anno

- destinazione delle maggiori entrate derivanti dai contributi per il rilascio dei permessi di costruire e dalle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, alla realizzazione di opere pubbliche di urbanizzazione, di recupero urbanistico e di manutenzione del patrimonio comunale in misura non inferiore al 50 per cento del totale annuo.

E' finita dunque l'era di amministrazioni che mistificano i parcheggi pubblici con le aree verdi per raggiungere gli standard? E' finita l'era in cui le varianti urbanistiche servono solo per consumare territorio? E' finita l'era in cui le amministrazioni battono moneta urbanistica per concedere cemento ai costruttori solo per pagare i consulenti del Sindaco, lasciando città senza opere di urbanizzazione? Sembrerebbe di sì, ma solo a patto che venga istituito il Comitato di vigilanza (e bisognerà vedere come sarà composto, perché nulla si dice a riguardo) libero da influenze politiche, altrimenti la Legge non trova di fatto applicabilità, venendo a mancare l’organo essenziale, quello di controllo, cosa che accade sovente nel nostro Paese.

Lo strumento di legge ora c’è e sicuramente può consentire comportamenti meno discrezionali da parte dei Sindaci. Addirittura con la nuova legge i Sindaci possono incentivare iniziative finalizzate a favorire l'assorbimento delle emissioni di anidride carbonica (Co2) dall'atmosfera tramite l'incremento e la valorizzazione del patrimonio arboreo delle aree urbane, senza contare le nuove disposizioni per la tutela e la salvaguardia degli alberi monumentali o la promozione di iniziative locali per lo sviluppo degli spazi verdi urbani per consentire l'assorbimento delle polveri sottili e per ridurre l'effetto «isola di calore estiva», favorendo al contempo una regolare raccolta delle acque piovane. Il prossimo 21 novembre è ancora lontano, ma non troppo. E’ necessario però fare pressione perché almeno per quella data il “Comitato per lo sviluppo del verde pubblico" sia già stato istituito e sia soprattutto libero da influenze politiche, altrimenti avremo in Italia l'ennesima bella legge non attuabile.

Qui il teso completo della Legge sulla Gazzetta Ufficiale

Il sindaco di Cagliari ha recentemente motivato il suo tentativo di raggiungere un accordo con i proprietari delle aree di Tuvixeddu-Tuvumannu con l’esigenza di non far sborsare ingenti somme al comune. I proprietari, come è noto, si ribellano all’applicazione delle norme del Piano paesaggistico regionale che sono più tutelatrici (dicono: “vincolistiche”) di quelle del piano urbanistico comunale, e il sindaco Zedda ha affermato che «per Tuvixeddu non ce la facciamo, da soli, a fronteggiare eventuali risarcimenti chiesti dai costruttori. Solo per l'annullamento di una piccola porzione del loro intervento, vogliono 12 milioni. E poi c'è l'Ici che hanno pagato». Così abbiamo letto sull’articolo di Francesco Erbani, su Repubblica del 10 febbraio. Abbiamo scoperto così che se l’edificabilità di un’area diminuisce, o scompare, per norma sopraggiunta al pagamento dell’ICI, il comune sarebbe tenuto a rimborsarla. Possibile? ci siamo detti. Non sarà che questo è un'altra voce fatta cirolare dagli interessati, e raccolta dai poco furbi (o troppo furbi)? Che poi diventa opinione corrente, come l’esistenza di “diritti edificatori”?

Abbiamo chiesto un parere a un nostro amico, di cui conosciamo la sapienza e il rigore, Alberto Roccella, che avevamo conosciuto proprio a Cagliari. Ecco la sua risposta, che ci tranquillizza. Ci rimane una curiosità: chi avrà spaventato il sindaco?.

Grazie, Alberto. (e.s.)

Inedificabilità sopravvenuta e preteso diritto al rimborso dell’ICI

di Alberto Roccella

1. Un caso di attualità ancora aperto, quello del progetto di edificazione in prossimità della necropoli di Tuvixeddu, propone un problema di carattere generale meritevole di un approfondimento.

Alcuni amministratori locali sono intenzionati a modificare i piani urbanistici comunali vigenti al fine di ridurre o cancellare previsioni di edificabilità che, se effettivamente realizzate, comprometterebbero valori primari meritevoli di tutela. Essi, tuttavia, sono intimiditi dai proprietari interessati, i quali prospettano, tra l’altro, anche azioni legali volte a ottenere il rimborso dell’ICI, l’imposta comunale sugli immobili, pagata negli anni precedenti. Gli amministratori si preoccupano quindi delle conseguenze delle nuove scelte urbanistiche per le finanze dei loro Comuni.

Ma veramente l’inedificabilità sopravvenuta comporta per i proprietari delle aree il diritto al rimborso da parte del Comune dell’ICI pagata negli anni precedenti?

Per il futuro bisognerà seguire l’evoluzione della legislazione. Infatti il cosiddetto decreto Salva Italia ha sostituito l’ICI, già a partire dal 2012, con l’IMU, la nuova imposta municipale propria sugli immobili, la cui disciplina per vari aspetti rinvia a quella dell’ICI (decreto-legge 201/2011, convertito in legge 214/2011, art. 13). L’IMU però è stata istituita in via sperimentale e la sua applicazione a regime è stata fissata al 2015 (comma 1), lasciando così intendere che la sua disciplina potrà essere ritoccata.

Non è invece prevedibile che venga modificata retroattivamente la normativa sull’ICI che si è applicata fino al 2011 e che si considera nel seguito di questo lavoro, poiché il nostro ordinamento reca una regola generale, se pur derogabile da leggi successive, di segno contrario. La regola è posta dalla legge dedicata allo statuto dei diritti del contribuente, la quale stabilisce che le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo; relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono (l. 212/2000, art. 3, comma 1).

2. Nella disciplina originaria dell’ICI una disposizione prevedeva il caso di aree divenute inedificabili e stabiliva il rimborso dell’imposta pagata per il periodo di tempo decorrente dall’ultimo acquisto tra vivi dell’area (con il limite massimo di dieci anni), a condizione che il vincolo fosse perdurato per almeno tre anni (decreto legislativo 504/1992, art. 13, comma 1, ultimo periodo). Ma questa disposizione è stata presto soppressa e l’obbligo di rimborso dell’imposta è stato trasformato in una semplice facoltà: i Comuni possono prevedere, con proprio regolamento, il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità e alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici (decreto legislativo 446/1997, art. 58, comma 1, lettera c), e art. 59, comma 1, lettera f).

Proprio con riferimento a questa normativa, tuttora vigente, la sezione tributaria della Corte di Cassazione ha recentemente deciso in modo netto la questione di principio in un caso facile da descrivere. Un Comune della Lombardia aveva rigettato un’istanza di rimborso dell’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997; l’istanza era stata avanzata dopo che l’area tassata era divenuta inedificabile per una variazione di pianificazione conseguente a una imposizione della Giunta regionale. La sentenza si è limitata a osservare che la domanda di rimborso dell’imposta, ancorché riferita agli anni 1993-1997, era stata presentata dopo il 1° gennaio 1998, quando era già entrata in vigore la nuova normativa che non prevedeva più l’obbligo del rimborso; d’altra parte non risultava che il Comune avesse approvato un proprio regolamento sul rimborso dell’imposta. Tanto è stato sufficiente per rigettare il ricorso dei privati proprietari avverso la sentenza della commissione tributaria regionale che, nel precedente grado del giudizio, aveva negato il diritto al rimborso (Corte di Cassazione, sezione tributaria, 24 marzo 1010, n. 7100).

Dunque non ci sono dubbi in giurisprudenza. La sopravvenuta inedificabilità dell’area, a seguito di nuove previsioni di pianificazione urbanistica, comporta per i privati proprietari il diritto al rimborso dell’ICI pagata solo nel caso in cui il Comune abbia previsto tale rimborso in un proprio regolamento e nei limiti stabiliti dal regolamento medesimo. Questo principio si applica anche all’ICI pagata per gli anni dal 1993 al 1997, nei quali vigeva invece l’obbligo del rimborso, se la domanda sia stata avanzata dopo il 1° gennaio 1998, quando l’obbligo di rimborso è stato trasformato in semplice facoltà

3. Le sentenze della Corte di Cassazione, per quanto autorevoli, decidono solo il caso specifico e non vincolano gli altri giudici né la stessa Corte per decisioni future sullo stesso problema. Ci si può dunque chiedere se la soluzione sopra esposta sia razionale, accettabile, coerente con il sistema, o se invece sia seriamente criticabile, al fine di valutare se siano prevedibili in futuro mutamenti di giurisprudenza.

A questo riguardo si devono valutare altre importanti decisioni della stessa Corte di Cassazione e della Corte costituzionale che non riguardano specificamente il rimborso dell’ICI, ma delineano i caratteri generali di questo tributo, nella parte relativa alla tassazione delle aree edificabili. La Corte di Cassazione ha pronunciato a sezioni unite una decisione particolarmente approfondita, la sentenza 30 novembre 2006, n. 25506, di cui la Corte costituzionale ha tenuto conto in modo positivo allorché ha dichiarato manifestamente inammissibili o manifestamente infondate varie questioni di legittimità costituzionale della normativa sull’ICI per i terreni edificabili. La Corte costituzionale ha respinto le censure di violazione dei princìpi di capacità contributiva, di ragionevolezza e di uguaglianza, di garanzia della proprietà privata e, in particolare, ha respinto le critiche alla disposizione secondo cui le aree sono da considerarsi edificabili ai fini dell’ICI anche se manchino i necessari piani attuativi dello strumento urbanistico generale (ordinanze n. 41, 266 e 394 del 2008). Vi è quindi pieno accordo tra la massima istanza dell’autorità giudiziaria ordinaria, le sezioni unite della Corte di Cassazione, e la Corte costituzionale (la quale non decide controversie specifiche ma giudica la legittimità delle leggi), pur nella distinzione dei rispettivi ruoli e dell’oggetto dei relativi giudizi.

E allora, invece di proporre affermazioni perentorie che potrebbero suonare gratuite o di sviluppare argomenti che potrebbero apparire soggettivi, conviene affidarsi ai massimi organi giurisdizionali, delle cui decisioni in materia si riportano di seguito testualmente i brani di motivazione più significativi.

3.1. «Bisogna partire da alcune premesse di sistema: l’imposta comunale sugli immobili è una imposta locale sul patrimonio immobiliare, a carattere proporzionale (ad aliquota unica), reale (in quanto prescinde dalle ulteriori condizioni economiche del contribuente) e periodica (riferita all’anno solare). Infatti, il presupposto impositivo è costituito, per quanto interessa in questa sede, dal "possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 1, comma 2). Dunque, l’ICI incide sia il possesso delle aree fabbricabili che quello dei terreni agricoli. La distinzione, però, è rilevante, ai fini fiscali, perché differenti sono i criteri utilizzati per determinare la base imponibile. Infatti, per le aree fabbricabili, la base imponibile è costituita dal "valore venale in comune commercio", calcolato al 1° gennaio dell’anno di imposizione, "avendo riguardo alla zona territoriale di ubicazione, all’indice di edificabilità, alla destinazione d’uso consentita, agli oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione, ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 5). Per i terreni agricoli, invece, "il valore è costituito da quello che risulta applicando all’ammontare del reddito dominicale risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell’anno di imposizione, un moltiplicatore pari a settantacinque" (d.lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 7, oltre gli eventuali coefficienti di rivalutazione, l. n. 662 del 1996, ex art. 3, comma 5). In definitiva, ai fini dell’ICI, la distinzione tra aree edificabili e terreni agricoli, non serve per distinguere un bene imponibile da uno non imponibile, serve soltanto per individuare il criterio in base al quale deve essere determinata la base imponibile ICI (criterio del valore venale, secondo i prezzi medi di mercato, ovvero valore catastale). Questa premessa serve anche a sdrammatizzare il problema, perché, se i criteri di calcolo vengono applicati correttamente, il contribuente subirà un prelievo che non sarà mai superiore a quello giustificato dal reale valore del bene posseduto. Con la possibilità, del tutto naturale, che si verifichino oscillazione di valore connesse all’andamento del mercato e/o allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi. È naturale che le imposte patrimoniali siano commisurate al valore del patrimonio cui si riferiscono. Possono verificarsi variazioni al rialzo, che comportano un maggior prelievo nel periodo di imposta, o variazioni al ribasso (ad esempio, a causa della mancata approvazione del PRG), che attenuano il prelievo, senza che questo comporti, ex se, il diritto al rimborso per gli anni pregressi (salvo che i comuni non ritengano, sul piano dell’equità, di riconoscere il diritto al rimborso (d.lgs. n. 446 del 1997, ex art. 59, comma 1, lett. f)), durante i quali, comunque, l’imposta è stata commisurata al valore venale di mercato. E non rileva, ai fini dell’ICI, che l’incremento di valore non sia stato monetizzato, attraverso un atto di trasferimento oneroso, che, eventualmente, ricorrendone i presupposti di legge, avrebbe potuto dare luogo ad una plusvalenza, soggetta ad imposta sul reddito. D’altra parte, anche un PRG approvato e vigente è soggetto a modifiche che possono portare a una diversa classificazione dei suoli con conseguenti sensibili oscillazioni di valore. Per ragioni di equità, come già accennato, il legislatore ha previsto espressamente che i comuni possano "prevedere il diritto al rimborso dell’imposta pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, stabilendone termini, limiti temporali e condizioni, avuto anche riguardo alle modalità ed alla frequenza delle varianti apportate agli strumenti urbanistici" (d.lgs. n. 446 del 1997, art. 59, comma 1, lett. f))». (Cass., sez. un., 25506/2006).

3.2. «È del tutto ragionevole che il legislatore: a) attribuisca alla nozione di “area edificabile” significati diversi a seconda del settore normativo in cui detta nozione deve operare e, pertanto, distingua tra normativa fiscale, per la quale rileva la corretta determinazione del valore imponibile del suolo, e normativa urbanistica, per la quale invece rileva l’effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio, indipendentemente dal valore venale del suolo; b) muova dal presupposto fattuale che un’area in relazione alla quale non è ancora ottenibile il permesso di costruire, ma che tuttavia è qualificata come “edificabile” da uno strumento urbanistico generale non approvato o attuato, ha un valore venale tendenzialmente diverso da quello di un terreno agricolo privo di tale qualificazione; c) conseguentemente distingua, ai fini della determinazione dell’imponibile dell’ICI, le aree qualificate edificabili in base a strumenti urbanistici non approvati o non attuati (e, quindi, in concreto non ancora edificabili), per le quali applica il criterio del valore venale, dalle aree agricole prive di detta qualificazione, per le quali applica il diverso criterio della valutazione basata sulle rendite catastali» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008).

3.3. «La potenzialità edificatoria dell’area, anche se prevista da strumenti urbanistici solo in itinere o ancora inattuati, costituisce notoriamente un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore del terreno e, pertanto, rappresenta un indice di capacità contributiva adeguato, ai sensi dell’art. 53 Cost., in quanto espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante; e ciò indipendentemente dalla eventualità che, nei contratti di compravendita, il compratore, in considerazione dei motivi dell’acquisto, si cauteli condizionando il negozio alla concreta edificabilità del suolo, trattandosi di una ipotetica circostanza di mero fatto, come tale irrilevante nel giudizio di legittimità costituzionale; (…) inoltre, il criterio del valore venale non comporta affatto (…) una valutazione fissa ed astratta del bene, ma consente di attribuire al terreno (già qualificato come edificabile dallo strumento urbanistico generale) il suo valore di mercato, adeguando la valutazione alle specifiche condizioni di fatto del bene e, quindi, anche alle più o meno rilevanti probabilità di rendere attuali le potenzialità edificatorie dell’area» (Corte cost., 41/2008, richiamata anche da Corte cost., 266/2008 e 394/2008).

3.4. «(..) Contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo, il pagamento dell’ICI, attenendo all’adempimento, mediante versamento diretto di una somma di denaro, di un obbligo tributario, non rientra nelle ipotesi di espropriazione di beni previste dall’evocato terzo comma dell’art. 42 Cost.; e ciò neppure nel caso in cui il contribuente non abbia a disposizione denaro liquido e, per adempiere detto obbligo, alieni a terzi uno o più beni di sua proprietà; (..) l’assunto del giudice a quo, per cui, in definitiva, le imposte patrimoniali sono costituzionalmente legittime solo se possono essere pagate con il reddito ritraibile dal cespite oggetto d’imposta, non trova fondamento nemmeno nel primo comma dell’art. 53 Cost., perché la capacità contributiva in ragione della quale il contribuente è chiamato a concorrere alle pubbliche spese esige solo l’oggettivo e ragionevole collegamento del tributo a un effettivo indice di ricchezza espresso, nella specie, dal valore del bene immobile “posseduto” dal soggetto passivo di imposta ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 504 del 1992 (…); (..) il presupposto fattuale della qualificazione di un’area come “edificabile” ad opera di uno strumento urbanistico generale non approvato o non attuato costituisce un indice di capacità contributiva che, giustificando la tassazione ai sensi dell’art. 53 Cost., esclude di per sé l’evocabilità dell’art. 42, terzo comma, Cost.» (Corte cost., 394/2008).

4. Le decisioni della Corte di cassazione e della Corte costituzionale guidano verso le conclusioni.

L’ICI riguardava tutte le aree, non solo quelle fabbricabili ma anche quelle agricole. La base imponibile era sempre il valore del bene (non il suo reddito), ma da determinare con due criteri diversi, il valore venale in comune commercio per le aree fabbricabili, un moltiplicatore legale del reddito catastale per le aree agricole.

La nozione di area fabbricabile ai fini dell’ICI non coincideva con la stessa nozione a fini urbanistici. Ai fini dell’ICI, infatti, le aree erano considerate fabbricabili se utilizzabili a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di strumenti urbanistici attuativi dello strumento generale. Ai fini dell’ICI, dunque, le aree potevano essere considerate fabbricabili ma in quattro circostanze diverse, in relazione allo stato di attuazione delle procedure che determinano il perfezionamento dello jus aedificandi (secondo l’espressione adoperata dalla Corte di Cassazione a sezioni unite). Le quattro circostanze sono così sintetizzabili: 1) piano regolatore generale adottato, ma non ancora perfezionato; 2) piano regolatore generale approvato e in vigore, ma con edificazione soggetta a pianificazione attuativa; 3) piano regolatore generale seguito da pianificazione attuativa in vigore (ovvero anche piano regolatore generale la cui attuazione non sia subordinata a pianificazione attuativa); 4) avvenuto rilascio del permesso di costruire. Il valore venale in comune commercio poteva dunque risultare diverso in relazione a ciascuna delle quattro circostanze (come suggerito non solo dalla Corte di Cassazione a sezioni unite ma anche dalla Corte costituzionale nel brano riportato al par. 3.3.) e resta ferma al riguardo la giusta considerazione che si legge nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite: i criteri di calcolo dovevano essere applicati correttamente (con la conseguenza, si può aggiungere, che il valore venale non era lo stesso nelle quattro circostanze).

La sopravvenuta inedificabilità non poteva mai giustificare una richiesta di rimborso integrale dell’ICI pagata, ma soltanto un rimborso parziale, con la rideterminazione dell’imposta dovuta per differenza tra l’importo calcolato secondo il criterio del valore venale e quello basato sulle risultanze catastali. Ma, come ha ben spiegato la Corte di cassazione a sezioni unite, l’ICI era un’imposta che colpiva il patrimonio, non il reddito, ed era quindi logico che essa fosse ragguagliata, anno per anno, al valore delle aree secondo le loro caratteristiche per il relativo periodo di imposta, sempre con riferimento al 1° gennaio dell’anno di imposizione. Solo considerazioni equitative, rimesse all’autonomia regolamentare del singolo Comune, potevano dar luogo, in caso di sopravvenuta inedificabilità, al rimborso dell’ICI pagata, peraltro un rimborso parziale, come più sopra chiarito.

La Corte di Cassazione a sezioni unite e la Corte costituzionale ci hanno dato una ricostruzione coerente, sistematica e razionale della disciplina dell’ICI, cosicché non è prevedibile un cambiamento di giurisprudenza.

Si può aggiungere che questa disciplina dell’ICI aveva anche una giustificazione razionale che non compare nelle sentenze esaminate, le quali non avevano motivo di considerarla in funzione dei problemi da risolvere, ma che si mostra chiaramente a chi si occupa per motivi di studio di diritto urbanistico e che potrebbe essere confermata da chi ha pratica di governo del territorio. Non è frequente che i proprietari chiedano, nelle procedure di pianificazione urbanistica, di mantenere la destinazione agricola delle loro aree. I proprietari invece spesso esercitano forti pressioni sugli amministratori pubblici per ottenere, nelle stesse procedure, la destinazione edificatoria delle loro aree, anche se essi non hanno veramente intenzione di costruire immediatamente. La destinazione edificatoria di piano regolatore generale produce subito un incremento di valore delle aree, spendibile non solo in trattative commerciali con potenziali acquirenti, ma anche nei rapporti con le banche come garanzia per l’accesso al credito. L’ICI sulle aree fabbricabili commisurata al valore in comune commercio e non alla rendita catastale (come invece per le aree agricole) rappresentava un fattore di equilibrio del sistema, perché bilanciava le pressioni per ottenere con la pianificazione urbanistica destinazioni non corrispondenti a reali e attuali esigenze edificatorie. La disciplina tributaria si collegava alla disciplina urbanistica attenuando, sia pure parzialmente, le pressioni per piani urbanistici sovradimensionati.

La disciplina dell’ICI, così come ricostruita, è contestabile solo da chi, per pregiudizio ideologico e politico, ritenga che i tributi debbano colpire sempre i redditi e i consumi e non possano invece colpire i patrimoni. Le decisioni considerate invece esplicitamente qualificano l’ICI come imposta patrimoniale e la considerano compatibile con la Costituzione. Il rimborso dell’ICI per inedificabilità sopravvenuta era previsto dalla legge solo a discrezione del Comune, come misura equitativa, in stretta correlazione col carattere del tributo di imposta patrimoniale.

Le cattive scelte di pianificazione urbanistica operate in passato sono sempre suscettibili di essere corrette, riducendo o cancellando previsioni di edificabilità eccessive o sconsiderate. Ovviamente occorre che le nuove scelte siano disposte nel rispetto delle regole di legge, sostanziali e procedurali, sulla pianificazione e siano quindi indenni da vizi di legittimità censurabili dal giudice amministrativo. Ma la disciplina dell’ICI non costituisce una remora per le variazioni di pianificazione le quali, come si è visto, possono comportare conseguenze finanziarie sui Comuni solo nei limiti in cui gli stessi Comuni, per ragioni equitative, abbiano previsto il rimborso (parziale) dell’imposta pagata negli anni precedenti.

Si avverte, infine, che l’IMU ha la stessa natura dell’ICI e che la vigente disciplina dell’IMU, da applicare in via sperimentale nel triennio 2012-2014, non contiene, per il rimborso dell’imposta, nessuna disposizione diversa da quelle relative all’ICI.

16 febbraio2012

Premessa (*)

La Lombardia, a quanto pare nel bene e nel male avanguardia per altre regioni italiane, ha sviluppato recentemente un processo di riforma – culturale, legislativa, di pratiche – legato a doppio filo alle aspettative dell’operatore privato, che in sostanza ha messo ai margini o comunque subordinato l’interesse collettivo. Tema naturalmente già affrontato da molti punti di vista, che le note seguenti vogliono però in qualche modo riassumere e sistematizzare brevemente.

I pilastri del modello sono:

- la possibilità per l’iniziativa privata di prefigurare anche strategicamente l’organizzazione del territorio;

- la delega della difesa degli interessi collettivi alla negoziazione fra pubblico e privato;

- sfiducia per la pianificazione in quanto tale e auspicio di un ritorno al puro mercato.

Le tappe della riforma

Mentre altre Regioni iniziano a lavorare sulle leggi urbanistiche di seconda generazione, la Lombardia procrastina la riforma, procedendo invece a deregolamentazioni parziali successive; parole d’ordine: semplificare, velocizzare, flessibilizzare. Drastica semplificazione concettuale, confusamente mescolata a vaghi obiettivi di sostenibilità, contenimento del consumo di suolo, solidarietà, sussidiarietà, partecipazione. Gli scopi reali sembrano però lontanissimi da quelli delle pratiche internazionali, che apparentemente evocano.

Tra queste tappe progressive di avvicinamento:

-L. R. n. 15/1996, Recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti, che compromette molti skyline urbani ed equilibri urbanistici senza alcuna vera contropartita collettiva;

- L. R. n. 23/1997, Nuove norme regionali per lo snellimento e la sburocratizzazione dei piani urbanistici e dei regolamenti edilizi, che introduce le varianti semplificate ad approvazione comunale;

- L.R. n. 9/1999, Disciplina dei Programmi Integrati di Intervento, che semplifica l’accoglimento dei progetti di trasformazione proposti dal privato. Introduce il Documento di Inquadramento dei piani che espropria di fatto il piano regolatore dei suoi compiti, ed è continuamente e radicalmente modificabile a seconda di quanto il “mercato” dovesse proporre;

-L.R. 1/2001 che agevola cambi di destinazioni d’uso, liberalizza gli interventi in aree agricole, scardina le norme dei centri storici e riduce gli standard.

Frutti maturi

Alla fine del percorso, il testo della legge generale accoglie tutte le deroghe precedenti, a partire da quella fondante dei Programmi Integrati. Al PRG subentra il Piano di Governo del Territorio articolato in tre atti, Documento di Piano, Piano dei Servizi, Piano delle Regole, a durata differenziata e comunque sempre modificabili. La loro elaborazione promette di ampliare il mercato delle consulenze, rendendo però assai gravoso il compito dei Comuni.

Parallelo e sostanzialmente sganciato il percorso degli strumenti attuativi, attraverso la programmazione negoziata e la valutazione caso per caso. Significativamente: ai Consigli l’approvazione degli strumenti generali, alle Giunte gli attuativi (ma con la LR 12/2006 questa competenza è stata opportunamente restituita ai Consigli, riconoscendone il ruolo di indirizzo).

La DIA è equiparata al permesso di costruire, eridimensionato il ruolo della Provincia e della pianificazione di coordinamento cui vengono conferite modestissime competenze prescrittive (nella regione dove si localizza l’area più metropolitana del paese).

Emblematici appunto di questo approccio a doppio binario i programmi integrati di iniziativa privata: sia nei casi più discussi, sia (e forsemolto di più) in quelli innumerevoli delle trasformazioni locali. Tra i primi spicca il progetto City Life per il dismesso recinto della Fiera di Milano, balzato anche alle cronache nazionali forse più per questioni di forma (i grattacieli a cavatappi) che per le sostanziali trasformazioni che questo genere di interventi fa calare nell’evoluzione metropolitana, delegata ufficialmente dal Documento di Inquadramento ai «progetti di investimento di cui si ha notizia».In definitiva, le pur aspre polemiche sugli aspetti urbani e architettonici dell’insediamento di grattacieli e alte densità oscurano la questione della regione urbana di fatto lasciata in balia degli operatori vincenti sul mercato.

Ancora più evidente la frattura rispetto al modello di pianificazione territoriale nei casi “minori”, la cui pura somma aritmetica manifesterà in futuro effetti molto più radicali dei vistosi grandi progetti metropolitani. Sono le trasformazioni, urbane e non, spalmate su tutto il territorio regionale, dove letteralmente il Documento di Inquadramento si compone di qualche estratto della legge a cui si affiancano gli obiettivi del “progetto di riferimento” che l’ha determinato. E dove appare onestamente quasi impossibile, nei casi “virtuosi” in cui almeno i procedimenti di VAS rendono facilmente disponibile la documentazione, distinguere fra gli obiettivi particolari del privato e quelli dell’amministrazione. È così che dalle fasce urbane sino al più estremo esurbio regionale e fin nelle zone rurali si “sviluppa il territorio”.

La riforma riformata

Il processo non si esaurisce ovviamente con la legge di governo del territorio, ma prosegue. Con la LR12/2006 si introduce un premio volumetrico a PRU e PII per ‘ edilizia residenziale pubblica’; la LR 1/2007, Strumenti di competitività per le imprese e il territorio della Lombardia che, all’art. 7 apre la strada al recupero delle superfici dismesse tramite Programma Integrato di Intervento, con qualsivoglia progetto, in genere lontanissimo dagli obiettivi di “posizionamento competitivo della Lombardia in Europa” della legge; c’è poi la vicenda del cosiddetto e famigerato “emendamento ammazzaparchi”.

Preceduto dal caso, particolare ma indicativo di una cultura diffusa, della variante introdotta per il Parco Agricolo Sud Milano allo scopo di trovar posto ai 600.000 metri quadrati del Centro Ricerche Biomediche Avanzate, fortemente voluto dall’oncologo Umberto Veronesi esattamente sui terreni, di proprietà di Salvatore Ligresti nella fascia meridionale del comune di Milano. Alla faccia della greenbelt e di qualunque strategia metropolitana, vince la combinazione di interessi particolari: “quel” progetto in “quel” posto. Intenzione della Regione è appunto di trasformare l’eccezione in norma, consentendo correntemente varianti rapide per le indifferibili esigenze di “sviluppo del territorio” in zone a parco. Solo una diffusa e trasversale opposizione sociale riuscirà ad evitare (ma per quanto?) questo ennesimo obbrobrio nel nome di una concezione arcaica di modernità. Nel respingere il tentativo di ridimensionare il ruolo dei parchi nell’organizzazione del territorio, si recuperano anche, e in forme onestamente bi-partisan, le medesime sensibilità che sono alla base dell’urbanistica novecentesca.

Accantonata per il momento anche la cosiddetta “ Legge Obiettivo” regionale che intendeva tra l’altro legare esplicitamente la realizzazione delle infrastrutture all’urbanizzazione diffusa che direttamente alimentano. Ovvero riprodurre con un paio di generazioni di ritardo le esperienze internazionali di colonizzazione automobilistica dei territori e di proliferazione dello sprawl di villette, capannoni, centri commerciali e simulazioni urbane sparse, e di farlo per zone franche anche rispetto ai piani comunali. Facile immaginare certe forme di questa ubiqua strip, già oggi piuttostoinvadenti estendersi all’intera rete della grande comunicazione regionale: dall’asse autostradale centropadano Stroppiana-Broni-Casteldario, alla Bre.Be.Mi, alla gigantesca e inquietante T.O.M., Traiettoria Orbitale Metropolitana.

Conclusioni: la città è finita (anche la campagna non scherza)

Qualche anno fa si è subdolamente imposta con gran successo di pubblico e di (a)critica la cosiddetta città infinita, dopo una serie di iniziative che vedevano in primo piano operatori della comunicazione, ma non delle discipline del territorio. Nuovo paradigma, buono per tutte le occasioni e perfetto plafond ad una legislazione deregolativa per “lo sviluppo” inteso come quasi unico obiettivo del governo del territorio. Questo modello, ormai consolidato con poche eccezioni in Lombardia, rischia di “far morire” sia la città che la campagna? Ci sono parecchi indizi in questo senso:

● negoziazione senza rete, senza regole, poco trasparente;

● potere discrezionale dei comuni altissimo, con prospettive locali quindi anche per temi squisitamente sopracomunali;

● potere discrezionale dei privati elevatissimo, con attribuzione impropria di funzioni, mezzi e valori;

● il mercato (immobiliare) detta le priorità, gli ambiti di intervento e le regole, e la “frenesia autodistruttiva” segnala un drammatico vuoto culturale;

● trascurati promozione e sostegno all’associazionismo volontario intercomunale, proprio quando in tutta Europa è qui il punto di equilibrio fra sviluppo, sostenibilità, qualità della vita e identità locale.

La qualità della vita, nella prospettiva di sviluppo proposta da queste note, appare al massimo orientata ad una sola espansione dei consumi, o al massimo alla sommatoria aritmetica di interessi puntuali. Città sempre più congestionate e invivibili, speculare consumo di risorse territoriali imposto dalla ricerca di ambienti di vita un po' migliori. Ciò che avviene nella più classica tendenza alla suburbanizzazione, sino alle fasce più esterne dell’ esurbio, con tempi di pendolarismo quasi sempre automobilistico che si avvicinano e a volte superano le due ore. Oppure con la proliferazione di altri locally unwanted land use (LULU) come inceneritori, impianti variamente ingombranti ecc. nelle zone a più bassa conflittualità, che spesso si identificano anche con le più pregiate dal punto di vista ambientale, agricolo, paesistico.

Nella debolezza dell’iniziativa politica attuale nella formulazione di proposte alternative, sono forse le comunità locali a rappresentare almeno in potenza un contraltare importante al decisionismo ufficiale e al potere dei grandi operatori economici. Ci si può attendere qualche cambiamento dalla crescita, culturale e di consapevolezza diffusa, derivante dalla VAS che mette a disposizione diretta dei cittadini la documentazione dei piani e progetti di trasformazione. Forse non è molto, ma può iniziare a controbilanciare propositivamente le scelte in gran parte miopi e discrezionali dell’attuale classe dirigente. E a preparare un’alternativa credibile.

(*)Questo articolo è desunto dalle tesi e conclusioni di un saggio molto più corposo e documentato, in corso di pubblicazione su Contesti, rivista del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del Territorio dell’Università di Firenze, in un numero dedicato alla comparazione di alcune esperienze italiane

Carlo Donolo, nel suo libro Disordine. L’economia criminale e le strategie della sfiducia (Donzelli, 2001), definisce la deregolazione come “la correzione deliberata di un regime ritenuto iperregolato, quindi inefficiente e costoso”; poi aggiunge che “attori auto interessati sono inclini a sopravvalutare il peso delle regolazioni e a usarle come capro espiatorio di proprie incapacità o inefficienze. La deregolazione risulta vantaggiosa a breve per i singoli attori, ma tende a medio termine a danneggiare beni pubblici essenziali, a meno che non intervengano correzioni tempestive”.

Alla luce delle parole di Donolo è più semplice inquadrare alcune delle “innovazioni” contenute nel Decreto per lo Sviluppo, poi convertito in legge lo scorso luglio, (Legge12 luglio 2011, n. 106 - Prime disposizioni urgenti per l'economia), che sanciscono in pochi commi, peraltro scritti malamente, di fretta e variamente interpretabili, (la classe degli avvocati così ben rappresentata tra i banchi di questa maggioranza deve pur campare!), la condanna a morte dell’urbanistica intesa come pianificazione organica e complessiva di un territorio. Pur riconoscendo che la pianificazione territoriale in Italia non ha mai goduto di ottima salute, ora il rischio è che venga definitivamente archiviata in quanto pratica obsoleta e inadeguata per le esigenze di un mondo che cambia sempre più in fretta. Forse, più semplicemente, non appare idonea a soddisfare gli interessi delle lobbies che, con il supporto di una classe politica spesso connivente, l’hanno progressivamente trasformata in una catena di operazioni immobiliari fini a sé stesse, prive di qualunque politica di supporto territoriale o sociale in grado di valorizzare la dimensione pubblica della città.

Non si può prescindere innanzitutto da una critica agli stessi principi ispiratori, di una norma che insiste ad interpretare il tema dello sviluppo con le dinamiche della crescita edilizia, come se non fossimo mai usciti dalla fase del boom post-bellico e si dovesse ancora provvedere a garantire una casa a milioni di italiani. In questo modo la nostra classe politica, in particolare quella di governo, si rifiuta di ammettere che questi continui incentivi al mercato immobiliare consentono il proliferare di operazioni finanziarie che non porteranno nessuna qualità allo spazio urbano e al territorio, prolungheranno l’agonia di un sistema bancario fortemente esposto con il “mercato del mattone” e, in qualche caso non troppo sporadico, agevoleranno la crescita dell’economia illegale che fa capo alla criminalità organizzata, sempre più a suo agio tra cantieri e richieste di varianti ai piani regolatori.

Esaminando i contenuti formali della legge, si nota che un intero articolo è dedicato a nuovi istituti amministrativi e dispositivi. O meglio, all’eliminazione di quelli attuali, al fine di liberalizzare il settore dell’edilizia privata. Dato che la norma statale, in tema di urbanistica, deve limitarsi a indicare gli indirizzi, spetterà poi alle Regioni emanare le leggi di dettaglio, che comunque dovranno affrontare questioni come l’introduzione del “silenzio-assenso” per i Permessi di Costruire, lo sdoganamento della SCIA che sostituisce la DIA, l’introduzione del Permesso di Costruire in deroga, la riedizione del Piano Casa e la formalizzazione della forma contrattuale per la cessione di cubatura.

Proprio quest’ultimo strumento pare un ottimo grimaldello per scardinare l’impostazione della legge fondamentale del 1942 e sue successive modifiche, in particolare quanto sancito negli articoli 1 (“L’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica sono disciplinati dalla presente legge”) e 3 (“La disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali”). L’introduzione del dispositivo contrattuale segna una svolta importante ed epocale: il contratto, nel nostro ordinamento giuridico, è l’accordo tra due o più soggetti per la negoziazione di un bene a cui si attribuisce un certo valore economico, quindi la capacità edificatoria, il volume realizzabile e non più solo il terreno, diventa merce di scambio e bene di libera commercializzazione. Tutte le negoziazioni di diritti edificatori dovranno essere registrate presso la Conservatoria (che avrà la funzione di comprovare la titolarità) e presso il Registro Comunale dei diritti edificatori, che documenterà l’attuazione di quanto previsto, sostituendo, di fatto il piano urbanistico comunale. Infatti i diritti edificatori possono essere generati dai Permessi di Costruire in deroga oltre che dai Piani Urbanistici comunali e potranno spostarsi in ambiti anche non omogenei, secondo l’istituto della perequazione.

In questo modo, non solo il settore edilizio, ma tutto il processo di pianificazione, diventerà di esclusiva competenza degli operatori privati, al pubblico restando poche armi per l’autotutela, e praticamente nessuna per garantire uno sviluppo organico ed equilibrato del proprio territorio. Ancora Donolo scrive che la “deregolamentazione deliberata viene ottenuta per lo più tramite la politica degli interessi e la pressione lobbistica. Deregolando si tiene perciò poco conto sia di interessi generali che di interessi diffusi”.

Avrà ancora senso parlare di Piani Regolatori Comunali? Che funzione avranno gli strumenti di pianificazione se grazie al ricorso del Permesso di Costruire in deroga si potranno realizzare modifiche alle destinazioni d’uso e spostare volumetrie edificatorie in altri ambiti della città? Amministrazioni comunali private di qualsiasi funzione di guida potranno ancora parlare di politiche per la città del futuro?

“Il condono? Roba da Repubblica delle Banane. Non possiamo certo pensare al condono per determinare le politiche di sviluppo”. Il liberismo immobiliare è meglio, ministro Calderoli?

Il piano annunciato da Berlusconi, che permette al popolo – sempre più in libertà - di ampliare del 20 o del 30% le proprie ville (sic) o di trasferire altrove quello che non può essere fatto nel posto, con annessi e connessi riguardanti le attività produttive e il terziario, lascia esterrefatti e indignati gli italiani che amano ancora questo paese.

É difficile immaginare qualcosa di più perverso rispetto al consumo del territorio, di più distruttivo del paesaggio, di più velenoso dal punto di vista politico, di più immorale sotto l’aspetto etico.

Il primo punto: autorizzare incrementi di superficie o di volume di un quarto (mediamente) rispetto all’esistente significa un analogo incremento del consumo di suolo; ma anche se, in modo ottimistico, dicessimo della metà, del 10%, si tratterebbe di concentrare in soli due anni ciò che in linea di tendenza (già assai negativa) avviene in un decennio: Tra il 1990 e il 2005, l’Italia si è giocata il 17% del territorio ancora libero, con punte superiori nelle regioni del nord e addirittura catastrofiche in Liguria (il 45% del territorio bruciato in quindici anni). Tutto ciò significa solamente che il provvedimento fa strame della tanto sbandierata sostenibilità del territorio: in parole semplici, per soddisfare gli appetiti attuali daremo a figli e nipoti un paese ridotto a brandelli e saccheggiato.

Naturalmente il grande assente dalle considerazioni del presidente del consiglio e dei suoi seguaci è il paesaggio. Nel corso dei decenni del secolo scorso vi è stato un grande sforzo per classificare e tutelare il patrimonio edilizio rurale, permettendo solo trasformazioni compatibili con il suo valore storico. Di colpo questo lavoro faticoso, in molti casi importante anche dal punto di vista della conoscenza, viene spazzato. Vi immaginate una casa colonica ‘leopoldina’ in Toscana o una casa a corte padana, deformate da escrescenze aggiunte per sfruttare le chances generosamente offerte dal governo? Solo gli immobili tutelati come beni culturali ne risulterebbero esclusi (forse), un’infima minoranza; tutto il resto ridotto a carne di porco. E questo è il secondo punto.

Ma, si dice, saranno le Regioni e soprattutto i Comuni a decidere se e come applicare il provvedimento Qui, come in ogni impresa berlusconiana, sta il veleno politico. Quale potrebbe essere la sorte di un sindaco virtuoso (magari di sinistra) che impedisse ciò che il suo vicino (magari di destra) permette liberamente? Potrebbe resistere all’assalto delle truppe edilizie scatenate contro quelli che ‘non vogliono lo sviluppo e i posti lavoro’? Ne segue un ruolo fondamentale delle Regioni nell’intercettare a monte gli effetti perversi del provvedimento. Guai se queste assumessero l’atteggiamento pilatesco di rimandare la palla ai Comuni; guai se Comuni, che sono in prima linea, fossero lasciati soli a decidere,

L’immoralità. La forza del provvedimento è la sua illegalità. La decisione su quanto e dove costruire spetta agli enti locali, che da questo punto di vista sono già abbastanza generosi e già propensi a promuovere anche una domanda che non esiste. Per creare una domanda aggiuntiva, si deve quindi rendere legale l’illegale per un certo periodo di tempo, per due anni - ci si immagina prorogabili É come dire che per due anni il furto è legalizzato: affrettatevi aspiranti ladri, perché l’occasione potrebbe non ripetersi! Un’oscenità etica che è perfettamente in linea con la sensibilità morale di chi ci governa.

Due considerazioni conclusive. Il Veneto ha addirittura anticipato il provvedimento, la Lombardia e la Sardegna lo sta accogliendo con entusiasmo, la Toscana, per ora, appare nettamente contraria, dando prova di coerenza con i propri obiettivi politici. Riuscirà a resistere al presumibile assalto di cooperative e costruttori e al ricatto dei licenziamenti (un bluff, ma sempre efficace)? Se sì, saremo lieti di darne atto.

Infine: è possibile che fra senatori e parlamentari delle forze politiche al governo non vi sia nessuno, assolutamente nessuno, che si accorga della mostruosità del provvedimento? Del fatto che è inefficace come misura congiunturale a sostegno dell’economia e distruttivo del nostro patrimonio e della nostra identità? Del fatto che pregiudicherà in futuro quelle attività economiche, il turismo in primis, che offrono come beni primari territorio e paesaggio? Che manderà a ramengo la ricchezza e l’avvenire dei loro stessi figli? Forse sono domande ingenue rispetto al cinismo di chi ci governa. Ma tuttavia vogliamo continuare ad illuderci che ancora qualcuno fra senatori e deputati delle forze politiche al governo ami il suo, il nostro, paese.

È molto molto peggio di quanto si prevedeva. È il delirio di uno speculatore trasformato in legge.

In primo luogo, ha assolutamente ragione Dario Franceschini a contestarne la legittimità costituzionale. Basta saper leggere, non c’è bisogno di luminari del diritto. L’art. 117 della Costituzione, al terzo comma, elenca il governo del territorio (che comprende in sé l’urbanistica e l’edilizia) fra le materie di legislazione concorrente, e letteralmente prescrive: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”. Invece, lo schema di decreto legge in discussione, con il paravento che si tratta di norme per “agevolare la ripresa delle attività imprenditoriali”, detta norme destinate a entrare immediatamente in vigore su tutto il territorio nazionale, “sino all’emanazione di leggi regionali in materia di governo del territorio”. È così ribaltata la logica costituzionale, nel senso che le Regioni potranno con legge contraddire il decreto governativo (quando molti disastri saranno già commessi), non avendo, evidentemente, tale decreto la portata dei citati “principi fondamentali” dell’art. 117. D’altra parte, come si farebbe a spacciare per rispondente a principi fondamentali un testo che ammassa disordinatamente e approssimativamente prescrizioni minutamente volte a favorire purchessia l’attività edilizia?

Se non fosse tragica, la situazione sarebbe ridicola ove si rifletta che in questi giorni, come sanno i lettori di eddyburg, sono in discussione alla Camera proprio le proposte relative alle leggi di principio in materia di governo del territorio (fra le quali la famigerata proposta Lupi). Principi evidentemente spazzati via dall’iniziativa del governo. Insomma, lo stato di diritto va a farsi benedire e la democrazia italiana procede speditamente verso l’ignoto.

Nel merito, il decreto conferma e peggiora le misure anticipate nei giorni scorsi: 20 per cento di incremento del volume o della superficie delle unità immobiliari (fino a un massimo di 300 metri cubi per unità immobiliare: vi immaginate che succederà nei centri storici?) e sono tragicamente liberalizzati i mutamenti di destinazione d’uso; incremento del 35 per cento nel caso di demolizione e ricostruzione (stavolta senza limiti massimi). Non ci sono divieti, se non in casi del tutto eccezionali e sono praticamente azzerate le possibilità di opporsi.

Mi pare particolarmente efferata la volontà di cancellare la disciplina urbanistica. Si citano infatti una pluralità di norme da rispettare (quelle relative alla stabilità, al codice civile, quelle igienico sanitarie, quelle tecnico-estetiche, anche il regolamento edilizio per quanto riguardai documenti da presentare), mentre la disciplina urbanistica è nominata solo per consentirne la deroga e per prevedere che, entro il 31 dicembre 2011, i comuni devono “apportare le variazioni allo strumento urbanistico generale, al fine di assicurare l’adeguamento degli standard urbanistici, a seguito della realizzazione degli interventi di cui al presente decreto”. Si conferma il rito ambrosiano: non è l’urbanistica a comandare l’edilizia, ma il contrario, gli strumenti urbanistici devono adeguarsi alla “realizzazione degli interventi”. L’urbanistica diventa un a posteriori.

Le prime vittime (prime in ordine cronologico, la vittima ultima è il futuro dell’Italia) di questo scellerato decreto saranno le strutture dell’amministrazione dei Beni culturali: umiliate, avvilite, prese in giro, ed eddyburg tratterà con particolare attenzione questo aspetto. Qui mi limito a riportare una delle norme più funeste, il comma 5 dell’art. 5: “Per gli immobili siti nei centri storici non soggetti a vincoli[1], la denuncia di inizio di attività è presentata altresì alla competente Soprintendenza, che può imporre, entro trenta giorni, ulteriori modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto del contesto storico architettonico ambientale”. Se non ho capito male, le Soprintendenze non possono dire no, possono solo intervenire sui materiali e la cosmesi. Si ritorna alla più arbitraria e famigerata discrezionalità estetica, con tanti saluti al piano paesaggistico (piano? Vade retro satana), al codice dei beni culturali e del paesaggio, a quarant’anni di proficuo dibattito sulla tutela dei centri storici.

Chi ci può salvare? Molti centri storici e paesaggi italiani sono tutelati dall’Unesco. Credo che sia urgente e indispensabile una presa di posizione internazionale in difesa del nostro paese.

[1] Com’è noto, quasi tutti i nostri centri storici sono sprovvisti di vincolo.

Pubblichiamo due analisi dell’ultima (per ora) stesura della proposta del governo Berlusconi in materia di casa e dintorni. La prima è una nota di Antonello Sotgia, preparata in occasione di un incontro del tavolo per il diritto alla città convocato a Roma per il 20 settembre, e concerne in particolare gli aspetti edilizi e urbanistici. La seconda è una lettera inviata da Vittorio Emiliani a Vasco Errani, rappresentante delle regioni nel confronto con il governo, e si riferisce soprattutto allo svuotamento di alcune norme della tutela del paesaggio. In calce potete scaricare il testo dell’ultima stesura del decreto, diramato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Resta comunque in piedi la bozza di legge che il Parlamento dovrebbe approvare per delegare il Governo a cancellare l'interesse pubblico dalla legislazione urbanistica, per gli aspetti che non possono essere “risolti” con un decreto.

Antonello Sotgia

Queste le maggiori novità

  1. La Materia edilizia

All’articolo 1

Non è più richiesto “titolo abilitativo alcuno” anche (cfr punto b) per gli interventi di manutenzione straordinaria ( per esempio spostamento di tramezzi che non riguardano parti strutturali dell’edificio) e (cfr punto g) sono ammessi, senza alcun titolo abilitativo, i cambiamenti di destinazione d’uso senza aumento di carico urbanistico. Non sarà più un tecnico a presentare la documentazione ma testuale (cfr comma 2) “ prima dell’inizio degli interventi, compresi i cambi di destinazione d’uso , al proprietario sarà sufficiente inviare una e-mail all’amministrazione comunale.

All’articolo 2

Vengono indicate le misure in materia antisismica. Viene detto che ogni premiabilità di cubatura ( il famoso + 20 % e + 30% ) sarà assentita solo quando il progettista abbia documentato il rispetto della normativa antisismica (cfr comma 1). Finalmente, ma solo dopo la tragedia dell’Abruzzo, l’entrata in vigore della nuova normativa- sospesa e rimandata con l’ultima finanziaria- viene ora riportata al 30 giugno p.v.

Eccoci dunque arrivati finalmente alla liberalizzazione. Ognuno sarà autorizzato a sentirsi “ padrone a casa propria” . “ Saltando ” la presentazione del progetto verrà meno quella specifica forma di relazione con la collettività che l’elaborato progettuale rappresenta sia quale testimonianza delle intenzioni del “ singolo” , sia quale rapporto con l’amministrazione che, attraverso l’approvazione del progetto, diviene ( dovrebbe divenire) garante della liceità della trasformazione richiesta nei riguardi del governo del territorio e dell’ interesse pubblico.

Infatti:

Senza “ titolo abilitativo alcuno”sembra scomparire la necessità di dimostrare ( come ora) che l’impresa esecutrice è in regola con i contributi (DURC), che la stessa dunque non impiega personale al nero e rispetta le condizioni di sicurezza del lavoro .

Non presentando nessuna documentazione tranne l’informativa telematica come sapremo che, per esempio, il nostro vicino, pur non toccando travi e pilastri, non ha inciso in modo distruttivo sugli elementi strutturali dell'edificio per esempio sovraccaricando i solai?

Con il “ fai da te, senza alcuna figura tecnica responsabile, chi verificherà che le opere vengano eseguite nel rispetto delle norme di sicurezza del lavoro? Solo posando male le palanche su cavalletti, cadendo da soli 2mt, la caduta può risultare mortale .

Non richiedendo traccia di ogni mutamento ( non potrà esistere un archivio di progetti fatti a parole) le amministrazioni come potranno avere conoscenza diretta dello stato reale di ogni edificio così da poter, conoscendolo perfettamente, studiare le misure più idonee per poterlo mettere in sicurezza anche dal punto di vista sismico?

Come conoscere, controllare e accompagnare, soprattutto nelle aree urbane, gli effetti che la sommatoria di trasformazioni delle destinazioni d’uso potrebbero determinare nella dotazione dei servizi di una singola zona in termini sociali?

Perché lasciare al caso la realizzazione di opere minori (cfr punto i] art. 2) come se i vuoti tra l’edificato fossero terra di nessuno e non quell’elemento di raccordo straordinario che ha costituito, da sempre, il legarsi dell’edificato al suolo?

  1. La Materia urbanistica (attuazione del piano urbanistico)

All’articolo 3

Il piano urbanistico potrà essere attuato anche ( grazie n.d.r!) con strumenti perequativi,compensativi e incentivanti secondo criteri che possono essere definiti con legge regionale.

Al punto 3 si definisce inoltre come compensazione “. ..l’attribuzione di diritti edificatori alle proprietà immobiliari sulle quali, o a seguito di accordi tra il comune e l’avente diritto, sono realizzati interventi pubblici o comunque ad iniziativa del comune.”

Ecco pronta la nuova riforma urbanistica! Un unico articolo capace di riassumere e attualizzare l’intera proposta di legge Lupi!

Per quello che riguarda gli incentivi ci dovranno pensare le Regioni (il Veneto sta marciando verso un +40%) Per il resto: avanti con le compensazioni che, attenzione, vengono qui introdotte per la prima volta come legge nazionale E’ questa un ‘indicazione precisa per la redazione degli strumenti urbanistici che, oltre i consueti studi preliminari di conoscenza della struttura ambientale e fisica dei luoghi, dovranno necessariamente ora avere una specifica carta dei luoghi dove poter spuntare favorevoli accordi per realizzare, oltre interventi a forte caratterizzazione ambientale ( un parco per esempio), un qualsiasi intervento di iniziativa comunale a qualsiasi scala e per qualsiasi funzione .

Si potrà ancora parlare di interesse pubblico alla guida delle trasformazioni?

  1. Semplificazioni in termini di conferenza di servizi

All’articolo 4

La legge 241 del 1990 all’articolo 14 comma 2 così recita :

“ La conferenza di servizi è sempre indetta quando l'amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nulla osta o assensi comunque denominati di altre amministrazioni pubbliche e non li ottenga, entro trenta giorni dalla ricezione, da parte dell'amministrazione competente, della relativa richiesta. La conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate.

Ora, con l’articolo 4, le parole "è sempre indetta" vengono sostituite da “ può essere sempre indetta” e si inserisce un nuovo comma in cui si dice che, in caso della necessità di ottenere l’ autorizzazione paesaggistica il soprintendente si esprime in via definitiva in sede di conferenza ove convocata;

Si aggiunge, poi, un comunque al comma 14.ter dove il comunque si riferisce ad un’approvazione che così potrà avvenire cancellando la possibilità di richiedere da parte della soprintendenza un supplemento d’inchiesta di 30 giorni.

Non a caso questi articoli richiamano, nel loro sottotitolo, la parola semplificazione. Forse eccessiva trattandosi in questo caso di opere sottoposte a VIA. Un combinato disposto tra, possibilità ora di convocare una conferenza fin’oggi obbligatoria e la negazione di poter procedere con un supplemento d’istruttoria.

Insomma l’amministrazione procedente ( quella che promuove l’intervento) se vuole potrà indire la conferenza, alla soprintendenza, sempre che la conferenza venga convocata,non resterà il doversi esprimere subito o ….tacere per sempre

  1. Semplificazioni relative al codice dei beni culturali e del paesaggio

All’articolo 5

Riguardano l’armonizzazione di quanto fin qui semplificato con gli articoli precedenti, (ovvero l’edilizia libera) con la pianificazione paesaggistica. Abbattimento delle sanzioni comprese.

  1. Semplificazioni in materia ambientale

All’articolo 6

Nel 2006 il decreto legislativo 152 aveva introdotto, quale recepimento comunitario, per i piani urbanistici la valutazione ambientale strategica (VAS). Ora, con quest’articolo, quando il singolo strumento attuativo non preveda conflittualità con lo strumento generale sovraordinato, non è più richiesta questa verifica né quella di assoggettabilità. In caso di varianti con lo strumento sovraordinato, la VAS e la verifica di assoggettabilità dovranno essere svolte limitatamente agli aspetti di quanto non oggetto di valutazione sui piani sovraordinati.

Con questa disposizione decade la possibilità di relazione e aggiornamento reciproco tra parti dl territorio e tra interventi tra loro dimensionalmente e funzionalmente diversi. Con questo si perde la possibilità di verificare il rapporto reciproco traglielementi che,seppur definiti alla grande scala, concorrono alla ridefinizione dei luoghi innestando nuove forme di narrazione e di possibilità dell’abitare dei territori. Un’analisi essenziale condannata, così, a risultare inattiva e bloccata da valutazioni preesistenti e immutabili. Sarà impossibile verificare significati e pesi di ogni trasformazione. Correggere errori, valutare il da farsi.

All’articolo 7

Viene istituito un fondo per l’accesso al credito per l’acquisto della prima casa per giovani coppie o nuclei familiari monogenitoriale con figli minori, e disciplinati i criteri di accesso (cfr decreto legge n.112 del 25 giugno 2008).

Come vedete non è esagerato parlare di golpe. E’ stato fatto scientificamente. Prima si è assicurata la rendita a chi potrà ampliare (uni/bifamiliari) e/o ricostruire. Poi, per esempio nel Lazio, si è assicurata quella dei proprietari ( singoli e costruttori) delle terrazze ”laziali” e romane in particolare. Ora tutti, proprio tutti tra i proprietari di case nel nostro paese (circa l’80%) finalmente padroni a casa propria potranno fare quello che vogliono senza chiedere nulla a nessuno ( speriamo che stiano un po’ attenti). E le amministrazioni ( che è bene ricordarlo perderanno anche gli introiti derivanti dalla presentazione delle DIA che comunque sono un’attività edilizia) dovranno ”mettere in vendita “ il loro territorio offrendo compensazioni e sperare così di spuntare accordi favorevoli per realizzare anche il servizio più elementare.

Non è una legge per l’abitare. E’ una legge per rafforzare la rendita delle case ( e dei proprietari) di chi la casa (le case) le ha. Agli altri rimangono solo i corpi. Per giunta condannati a vagare in un panorama assai simile a quelli dei romanzi di Ballard.

Vittorio Emiliani

Lettera a Vasco Errani

Caro Errani, ti scrivo come presidente della delegazione regionale nella Conferenza Stato-Regioni in relazione al decreto sul Piano Casa. Come Regioni avete sin qui giustamente difeso le vostre prerogative rispetto all'invasione di campo berlusconiana e centralista in competenze ormai da tempo regionali. Valuto lo stesso molto pericolosa la "filosofia" di fondo del presidente del Consiglio il quale era e rimane un immobiliarista il quale ha due stelle fisse: la casa in proprietà e Milano2 quale modello di "New town" (in realtà, come sappiamo, è soltanto uno dei tanti quartieri satellite). Mentre Paesi avanzati e civili quali Germania e Francia hanno ancora nell'affitto diffuso uno dei loro punti di forza sul piano sociale e comunitario. Da noi, a forza di costruire, gli alloggi vuoti o invenduti sono tanti: 30.000 nella sola Milano.

Ma nel decreto che verrà discusso con la vostra delegazione fra qualche giorno ci sono alcuni punti gravi o gravissimi. Uno in particolare. Quello che riguarda il ruolo delle Soprintendenze statali in relazione al paesaggio e alle stesse aree vincolate a vari fini (paesaggistico, archeologico, architettonico, ecc.). I rapporti fra Regioni e Soprintendenze non sono probabilmente dei migliori, anche perché talune Regioni (la Toscana in primo luogo) ambiscono da anni ad una delega regionale completa per la tutela. Tuttavia difendere l'ultima versione del Codice per il Paesaggio (quella Rutelli/Settis, per intenderci) dovrebbe essere per le Regioni, almeno per quelle di centrosinistra, un caposaldo. Significherebbe difendere il proprio diritto/dovere a co-pianificare insieme, Stato e Regioni, paesaggio e territorio. Senza ulteriori rinvii.

In questo quadro si inserisce anche il carattere vincolante o meno del parere "a monte" delle Soprintendenze sui progetti e lottizzazioni edilizie. Nel Codice Rutelli è vincolante. Berlusconi invece lo trasforma in consultivo e prevede, come sai, che, qualora esso sia negativo, le varie Amministrazioni possono ugualmente procedere motivando per iscritto il loro comportamento. V'è di più: la richiesta alle Soprintendenze di fornire il loro parere a tempi brevi equivale - per la complessità oggettiva di tali pareri e per le note carenze di personale degli organismi di tutela - ad una forma di silenzio/assenso, disastrosa in un Paese che già è così vocato alla illegalità edilizia, al travolgimento delle migliori norme in materia.

A nome di altre associazioni e dei tecnici del settore mi permetto di chiedere a te e agli altri presidenti una riflessione su questi punti-chiave. L'articolo 9 della Costituzione dice che "la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", la Repubblica, cioè, in armonia, Stato-Regioni-Enti locali. Ma poiché lo Stato, cioè il Ministero dei Beni Culturali, è praticamente in ginocchio, senza alcuna capacità, né volontà, di difesa tecnico-scientificarispetto alle pretese del presidente del Consiglio e alla sua "filosofia" immobiliaristica, chiedo a te, a voi di reclamare un incontro tecnico-scientifico direttamente con i tecnici del Ministero, coi Soprintendenti, con la stessa Assotecnici dei Beni Culturali, al fine di acquisire, al più alto livello, pareri e dati di esperienza diretta che possano orientare giustamente il vostro delicato lavoro.

Poi potete anche rivendicare tutta la tutela, sposare la tesi toscana, regionalizzare la salvaguardia, ma se non difendete, qui e subito, le prerogative degli organismi di tutela, vi troverete a subire, ancora una volta, il centralismo più duro e impositivo, avallando la fine, la morte dei paesaggi italiani, di quanto rimane della nostra bellezza, cioè del capitale più grande che i nostri avi ci hanno trasmesso e che noi stiamo dissipando.

Col testo del decreto che conosciamo si potrà, di fatto, costruire ovunque, anche nelle zone vincolate, anche ai margini o dentro le aree archeologiche e naturalistiche. Un autentico disastro. Nazionale e regionale.

Al punto in cui siamo l'articolo 9 della Costituzione - il cui valore è stato così ben sottolineato dal presidente Napolitano - rischia di venire svuotato dal centro col vostro assenso. Mentre quel termine "la Repubblica" (voluto alla Costituente da Emilio Lussu, sardista e socialista) vi offre di avere oggi, a fonte di uno Stato latitante, un ruolo storico. Vi chiediamo il coraggio di pretenderlo e di esercitarlo, prima che sia troppo tardi.

È iniziato in Commissione Ambiente della Camera l’esame di due proposte di legge concernenti il governo del territorio. Si tratta del ddl Lupi “Princìpi fondamentali per il governo del territorio” e del ddl Mariani “Princìpi fondamentali per il governo del territorio. Delega al Governo in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare”.

Entrambe le proposte di legge – ha spiegato il relatore Franco Stradella – sono dirette ad introdurre nell'ordinamento, da un lato, norme di principio e, dall’altro, procedure e modalità di intervento che devono essere condivise e concordate fra lo Stato, le regioni e gli enti locali.

Escludendo qualsiasi intenzione di invadere le competenze regionali, il relatore sottolinea che le proposte di legge riguardano principalmente la materia “governo del territorio”, assegnata, dal terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione, alla competenza concorrente dello Stato e delle regioni. Sono inoltre disciplinati aspetti relativi alla materia urbanistica ed edilizia, rientranti nell’ambito del governo del territorio e, quindi, di competenza concorrente fra Stato e regioni. In tale ambito, le proposte fissano norme di principio e non disposizioni di dettaglio.

Secondo l’opposizione, è necessario che il Paese si doti di una nuova legge sul governo del territorio, non solo perché la legge 1150/1942 è ormai superata, ma soprattutto perché si avverte l’urgenza e la necessità di ricondurre ad un quadro di principi unitari la ormai ricca legislazione regionale in materia.

Quanto al contenuto delle proposte di legge in esame, Roberto Morassut rileva una serie di punti qualificanti: il primo punto, nell’ambito di una più generale riflessione sui corretti rapporti fra i diversi “livelli di pianificazione” (distinzione tra piano strutturale, piano operativo e regolamentazione urbanistica ed edilizia), riguarda la necessità di procedere finalmente - superando la vecchia impostazione della legge 1150/1942 - ad una equiparazione della portata e della durata dei diritti edificatori fra aree private e aree destinate a servizi pubblici.

Il secondo punto attiene invece alla definizione e fissazione sul piano normativo di standardurbanistici minimi (in termini di dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici). È fondamentale – secondo Morassut – che il dettato normativo non perda di vista la necessità di strumenti attuativi efficaci, capaci di garantire anche sul piano quantitativo l'indicazione e il rispetto di livelli minimi di dotazioni territoriali. Ritiene inoltre opportuno un richiamo esplicito alla raccolta differenziata dei rifiuti e all’uso (anche nella costruzione degli edifici) di tecnologie atte a favorirne la diffusione.

Il terzo punto riguarda l’edilizia sociale e la necessità, da un lato, di fissare standard nazionali per la dotazione di alloggi di edilizia pubblica residenziale, e dall’altro, di mettere le Regioni in condizione di definire l’effettivo fabbisogno di edilizia sociale e farsi carico della domanda sottostante, anche con interventi operativi in contesti urbani integrati.

Sottolinea, infine, la necessità di indicare chiaramente sul piano normativo il metodo perequativo e compensativo come strumento essenziale degli interventi di programmazione territoriale, predisponendo una cornice di principi, ma anche i necessari provvedimenti applicativi.

Come preannunciato da Guido Dussin, la Lega ha predisposto una proposta di legge in materia di governo del territorio che non incida sulle competenze regionali e che si limiti all’indicazione di principi generali, possibilmente evitando di dettare norme stringenti di natura urbanistica. Il relatore Franco Stradella precisa che la tutela dell'autonomia non può sfociare nell'anarchia e sostiene la necessità di fissare un quadro di principi certi, senza imporre vincoli o rigide regole alle regioni e agli enti locali.

L’esame dei disegni di legge continuerà nelle prossime settimane, con la nomina di un Comitato ristretto che procederà ad eventuali audizioni informali.

Qui la cartella di eddyburg dedicata alla Legge Lupi

L’immagine è tratta dal sito lannaronca

Caro Eddyburg,

La seconda delle tre questioni emergenti e urgenti, di cui ho scritto nella mia precedente nota, riguarda la legge urbanistica in discussione al Parlamento. Penso che, per parlarne a ragion veduta, sia utile fare prima un po’ di storia della vecchia legge.

Questa nasce per opera degli urbanisti italiani raccolti nell’INU dopo oltre un decennio di pensamenti e discussioni. E’ caratterizzata da una forte connotazione pubblicistica, per la quale si può dimostrare che il Regime ha pesato poco. E’ distribuita su tre titoli fondamentali (a parte il quarto transitorio), dei quali il primo riguarda l’ordinamento dei servizi urbanistici dello Stato, il secondo la disciplina urbanistica, ossia gli strumenti e procedure di pianificazione, distinti e articolati su vari gradi e livelli, il terzo l’indennità di espropriazione, ossia il rapporto pubblico-privato conseguente all’applicazione della legge. Avrebbe dovuto essere seguita da un Regolamento, che avrebbe potuto integrarla e migliorarla. I migliori spiriti liberali del tempo pensavano che quella legge avrebbe dovuto essere “tradotta” in termini più democratici, e oggi, si può aggiungere, di partecipazione e cittadinanza attiva.

Il Dicastero di Porta Pia, cui fu attribuita la gestione della legge, preferì la strada delle circolari esplicative, che hanno solo impoverito e complicato la materia, esasperando il ruolo del P.R.G., il quale, generalizzato a comuni di qualche decina di ettari e poche centinaia di abitanti, fa il paio con l’altro orrore costituzionale che affida l’urbanistica alle Regioni. La successiva legge ponte, anche se opportuna, non ha sostanzialmente raddrizzato il percorso, sul quale la corte Costituzionale ha calato la sua scure, né hanno potuto più che tanto le ultime leggi, venute alla luce nell’età della deregulation insorgente. Per non parlare dell’opera dei governi di centro sinistra, decisionisti o trasformisti che fossero, e lasciando stare ovviamente quelli di centro destra.

Credo che oggi ci sia bisogno di un intelligente e paziente opera di recupero giuridico, istituzionale, politico; e ha ragione Gigi Scano di proporre una “legge manifesto”, ossia, se capisco bene, di un momento di nuovo pensamento e discussione, come si è fatto la prima volta. Come allora bisognerà capire che l’urbanistica è per sua natura affare eminentemente pubblico, e che affidarne le sorti al mercato, quando non è malafede, è pia illusione. In tale prospettiva penso e ripeto, a costo di apparire monotono, che due sono le questioni essenziali su cui centrare l’attenzione. Quella della cosiddetta rendita immobiliare, la quale è prodotta in massima parte dalla collettività, e deve tornare (ed eventualmente essere perequata) a vantaggio di questa, non a suo danno, come è stato negli ultimi due secoli di crescita urbana. Non so se una legge urbanistica da sola può avere questo effetto, e lascio il quesito al giurista; so che non può non farsene carico, per quanto le spetta.

E’ certamente materia di legge urbanistica l’altre questione cosiddetta del piano, ossia del metodo, mezzi e procedure per provvedere con la pianificazione al miglior assetto insediativo possibile. Penso che la vecchia legge offra una traccia in questo senso, e che, se la breve disamina che ne ho fatto sopra è corretta, questa traccia sia stata sostanzialmente trasgredita. Di ciò qualche responsabilità dobbiamo pur averla anche noi urbanisti; ai quali compete oggi di riprendere il cammino interrotto. Metodo, mezzi e procedure della pianificazione territoriale urbanistica sono, a mio giudizio ed esperienza, un campo ampio e fertile ancora da coltivare, se ci saranno quel nuovo pensamento e discussione che sembra suggerire l’amico di Venezia, e per i quali questa mia nota vuole essere un esplicito invito.

Scano proponeva, nella sua relazione, una serie di punti sui quali le numerose forze politiche presenti a quel convegno (Roma, 3 febbraio 2004) si erano dette d'accordo. Erano punti sintetici, di merito: perciò appunto un "manifesto". Io partirei da quei punti, invece che dalla legge 1150/1942: hanno il vantaggio da essere, appunto, proposte di merito e non technicalities. Sarebbe bene che se ne tenesse conto nelle discussioni che si apriranno per un programma della maggioranza alternativa.

I deputati milanesi Maurizio Lupi (allora FI, oggi PdL) e Pierluigi Mantini (allora Margherita, oggi PD), nel dicembre del 2005, presentarono all’Urban Center del Comune di Milano il loro libro “I nuovi principi dell’urbanistica” (Edizioni Il Sole/24 ore), in cui provavano a teorizzare l’orizzonte tecnico-giuridico e politico-culturale – quello della “consensualità” degli atti amministrativi tra amministrazione pubblica e proprietà fondiario-immobiliare – che connotava loro inusitata iniziativa di un disegno di legge bipartisan di maggioranza e opposizione sul governo del territorio, ispirato dall’esperienza lombarda delle leggi regionali Vega e Adamoli e dall’estensione nazionale fattane con l’emendamento Botta-Ferrarini (deputati DC e PSI) all’art. 16 della L. 179/92, istitutivo dei Programmi Integrati di Intervento (PII).

Com’è noto il Ddl Lupi/Mantini fu poi approvato da uno dei due rami del Parlamento, ma non riuscì a giungere ad approvazione nell’altro prima della fine della legislatura, nel 2006; mentre nello scorcio di legislatura succedutasi, i due si dovettero acconciare a presentare disegni di legge distinti, ancorché ispirati da forti affinità elettive nei contenuti.

In occasione della presentazione di quel libro, essi raccolsero con favore l’indicazione di alcuni interventi che coglievano il nucleo fondante dei nuovi principi annunciati dal titolo nell’abbandono della concezione di un progetto pubblico dell’uso di città e territorio, tipico della – a loro avviso obsoleta – visione dell’ urbanistica e nell’avvento di una nuova visione dettata dall’economistica.

Non deve quindi sorprendere che, in questa legislatura, a promuovere l’evoluzione dell’urbanistica in economistica - pur nello spirito dell’invincibile attrazione fatale tra i due, nuovamente eletti in Parlamento in schieramenti dai programmi politici virtualmente alternativi su tutto eccetto le regole istituzionali - sia, ancor più che un nuovo ddl sul governo del territorio, il Documento Economico Programmatico Finanziario di Tremonti, approvato dal Governo per decreto-legge nel giugno scorso.

Tremonti, del resto, aveva già dato prova del suo modo subalterno di considerare l’uso della risorsa territorio rispetto alle contingenti esigenze del bilancio economico quando, nel 2005, in risposta ad un quesito dell’Associazione Nazionale delle Tesorerie al Ministero delle Finanze sulla mancata riproposizione nel Testo Unico sull’edilizia (DPR n. 380/2001, a seguito della Riforma Bassanini delle procedure amministrative) dell’obbligo imposto dalla L. n. 10/77 (Bucalossi) di allocare gli oneri di urbanizzazione in un apposito capitolo di bilancio vincolato alla esecuzione di tali opere, fece rispondere che se nel testo quel disposto non c’era (ancorché illegittimamente !), l’obbligo doveva considerarsi decaduto. Si aprì per i Comuni la manna della possibilità di far fronte alle ristrettezze contingenti dei bilanci, consentendo nuove previsioni edificatorie a sostegno delle spese correnti; a onor del vero, occorre aggiungere che nemmeno il Governo Prodi ha posto rimedio a questa illegittima stortura, anzi, nella sua ultima Finanziaria, ne ha esplicitamente previsto la prosecuzione per il prossimo triennio.

Nel DPEF di giugno si stabilisce, quindi, che, nell’attuale congiuntura economica di riduzione del potere d’acquisto di salari e stipendi e di ristagno della produttività delle imprese, gli Enti pubblici facciano fronte alla sempre più pressante domanda di servizi sociali in campo socio-abitativo in una condizione di crescenti ristrettezze economiche dei propri bilanci, per un verso massimizzando la redditività delle loro alienazioni patrimoniali anche in deroga alle destinazioni urbanistiche vigenti e, per altro verso, consentendo ai privati di edificare edilizia sociale, a prezzo convenzionato per un decennio, sulle aree vincolate a uso pubblico ma ancora di loro proprietà; infine, per incentivare la produttività delle imprese, si vorrebbe consentire loro di autocertificare la conformità dei propri immobili alle norme urbanistiche, in modo da accelerarne costruzione e trasformazione. Su quest’ultimo aspetto, il rischio, in parte già sperimentato con istituti quali quello dello “sportello unico” per le imprese, è che, di fronte ad autocertificazioni sbarazzine e comuni distratti o conniventi, le associazioni e i cittadini non possano nemmeno più ricorrere alla tutela del giudizio del tribunali amministrativi (TAR), perché le autocertificazioni non rientrerebbero nelle loro competenze giurisdizionali. Tuttavia, anche sugli aspetti più consueti delle procedure urbanistiche i TAR e il Consiglio di Stato (in istanza d’appello, cui costantemente ricorrono le proprietà se soccombenti, mentre è assai difficile e oneroso farlo per i singoli cittadini) tendono sempre più a limitare la possibilità di associazioni e cittadini di intromettersi nelle trattative dirette tra amministrazioni comunali e proprietà fondiarie, ponendo sempre maggiori requisiti di legittimazione a ricorrere.

Insomma, come già anticipato dai principi della recente legislazione regionale lombarda (dalla LR 12/05 con i PGT quinquennali senza più piano di struttura, e le successive ripetute integrazioni - sino alla L. n. 4/08, che in un empito di proto-federalismo urbanistico stabilisce di disapplicare l’odiato decreto ministeriale nazionale sugli standards pubblici; alla legge regionale per l’edilizia sociale sulle aree private a vincolo pubblico decaduto), si propone di affidare alle contingenze del mercato l’esito della costruzione dell’assetto urbano urbano e territoriale, aggirando o disarticolando in modo incoerente il patrimonio giuridico-lesgislativo e di strumenti e disperdendo un demanio di aree ed opere pubbliche che dalla Legge urbanistica n. 1150/42 alla Legge n. 10/77 sul regime dei suoli e col Piano decennale per la Casa della L. 865/71, sia pur lentamente e non senza irrisolte contraddizioni (durata e indennizzo dei vincoli espropriativi, separazione tra proprietà e diritti edificatori, diritto di superficie, ecc.), si era andato definendo e consolidando.

Come sarà possibile, in questa prospettiva, dare un senso reale alle procedure di Valutazione Ambientale Strategica imposte agli strumenti pianificatori dalle direttive UE e, a parole, recepiti nei percorsi procedurali prescritti: che “sostenibilità strategica” potrà mai esserci in un orizzonte quinquennale, di volta in volta mutevole e, oltre tutto, derogabile in itinere e ad libitum da strumenti derogativi più o meno recenti (Programmi Integrati di Intervento (PII), Accordi di Programma, ecc.) e dai nuovi incentivi di valorizzazione economica del patrimonio fondiario-immobiliare ?

A questo riguardo, occorre segnalare che il panorama dei PII approvati in deroga alle prescrizioni di PRG va costellandosi in Piemonte, Lombardia e Veneto di indagini delle Procure penali di competenza in relazione ad ipotesi corruttive, concussive e collusive su come siano stati determinati ed approvati dai Comuni i relativi contenuti, in particolare quando inferiori a quelli dei PRG vigenti in termini di aree pubbliche realizzate, e sui criteri di quantificazione del valore delle aree non cedute e monetizzate o convertite in maggiori opere. Il caso più noto per dimensione e clamore è quello del PII Citylife sull’area dell’ex Fiera di Milano, dove la Procura di Milano indaga sia in relazione ad illecito smaltimento dei detriti delle demolizioni in corso negli scavi dei cantieri per la TAV, ma anche in relazione ad irregolarità dei contenuti urbanistici approvati che potrebbero aver procurato un illecito arricchimento di Fondazione Fiera, a fronte di un peggioramento della qualità urbana ed ambientale del contesto urbano. Molti altri, tuttavia sono i casi più minuti, più diffusi e meno noti su cui vi sono indagini in corso; e c’è da chiedersi cosa accada in Regioni più condizionate dal peso della criminalità organizzata.

Non si tratta, tuttavia, solo di singoli episodi degenerativi: i Comuni, quasi senza più differenza tra amministrazioni di destra o di sinistra e sempre più diffusamente di fronte alle ristrettezze di bilancio, sembrano ritenere di poter ricorrere “ad libitum” alla modifica dei PRG tramite lo strumento dei PII, a patto di dimostrare che una quota stabilita discrezionalmente del vantaggio economico che ne deriva al privato venga devoluta loro e che dell’utilizzo di tale quota possano poi disporre a piacimento. Il territorio è visto un supporto “corvéable à merci” rispetto alle esigenze di valorizzazione economica richieste dal mercato, visto che le ricadute negative si vengono a manifestare molto più in là nel tempo rispetto a quelli della congiuntura economica e delle scadenze politico-amministrative.

Ad esempio, i Comuni di Milano e di Sesto S.G., pur con maggioranze amministrative alternative, competono allegramente tra loro nel proporre previsioni edificatorie di 1 mq/mq di indice territoriale, con il quale è impossibile non solo attuare i 26,5 mq/abitante di spazi pubblici della gloriosa Legge Regionale del 1975 (la prima ad essere approvata dopo l’avvento delle Regioni nel 1970; tutte le altre, poi, si sono attestate su standards pubblici tra i 24 e i 28 mq/ab.), ma quasi neppure i 18 mq/abitante del DM del 1968; e, comunque, i 17,5 mq/abitante di servizi pubblici generali dei PRG si attuerebbero così a carico dei cittadini, tramite l’aumento del carico edificatorio, anziché dei promotori fondiario-immobiliari, come voleva la Legge Ponte del 1967.

A mio avviso occorre contrastare il diffondersi di questo nuovo “senso comune”, in quanto i contenuti del PRG, attraverso il complesso ed articolato meccanismo di formazione che ha come orizzonte il progetto urbano complessivo, rivestono un carattere di interesse pubblicistico generale rispetto al quale i contenuti dei PII debbono dimostrare di conseguire, almeno localmente, dotazioni quantitativamente valutabili e comparativamente maggiori, sia in termini di aree pubbliche che di valore delle opere pubbliche proposte, rispetto a quelle previste dal PRG.

E’ questo il senso pregnante del disposto dell’art. 16 della L.179/92 (Programmi integrati di intervento) che “al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientaleconsente ai comuni di promuovere “la formazione di programmi integrati relativi a zone in tutto o in parte edificate o da e destinare anche a nuova edificazione al fine della loro riqualificazione urbana e ambientale.

Altrimenti, può accadere che gruppi di pressione convergenti in veri e propri “comitati di affari”, con maggioranze spesso anche trasversali ai programmi politico-elettorali, possano tentare di indirizzare contingentemente le scelte dei Comuni, contraddicendo l’interesse pubblicistico generale garantito dal progetto urbano generale del PRG senza perseguire nemmeno localmente quell’ incremento delle dotazioni di spazi ed attrezzature pubbliche, in grado di garantire il “fine della riqualificazione urbana e ambientale” che solo giustifica il ricorso al PII in alternativa ai contenuti del PRG o sue eventuali varianti.

Sono proprio le logiche del PRG e quelle dei PII ad essere contrastanti: per il PRG i conti devono “tornare” per l’intero territorio comunale; per il PII basta che i conti ”tornino” all’interno della propria area di intervento. Se il PRG ha una quantità di standards abbastanza sovrabbondante, con alcuni PII si possono un po’ limare i margini di “grasso” eccedente, ma se l’uso dei PII si diffonde o se si è vicini ai minimi di legge, bisogna cercare di non far vedere che ciò che si fa coi PII collide col PRG; che ciò che si consente ad alcuni non è ciò che può valere per tutti, e che il bilancio finale, strutturale, la sostenibilità strategica o ambientale di quelle “attuazioni” senza progetto complessivo è in perdita.

Insomma, quella “città occasionale” di cui Francesco Indovina indicava i guasti in un suo libro di qualche anno fa, non sarebbe più legata alla necessità di dover periodicamente escogitare eventi eccezionali in grado di giustificare deregolamentazioni episodiche, ma diventerebbe la regola di un assetto urbano e territoriale eterodiretto dalla prevalenza del mercato, senza più progetto pubblico complessivo.

In fondo, è una situazione non molto diversa da quella già vissuta negli Anni Cinquanta/Sessanta con le “convenzioni” senza Piano regolatore e che si concluse con il clamoroso episodio della frana di Agrigento nel 1966, simbolo dell’esito generalizzato un uso subalterno delle risorse territoriali rispetto allo sviluppo economico durante il “boom” del dopoguerra: occorrerà un evento ancor più catastrofico (magari, questa volta, non di carattere edilizio, ma ecologico-ambientale) per rendersi conto della strada su cui ci si è tornati a mettere ?

Certo, le norme scaturite dalla Legge Ponte del 1967 e il conseguente decreto ministeriale del 1968 su quantità minime di spazi pubblici, densità edificatorie, altezze e distanze tra gli edifici sono ancora tutte all’interno di una concezione pre-ambientalista che, entro quei limiti imposti, consentirebbe tuttavia di coprire l’intero territorio nazionale, e vanno, quindi, aggiornate e sussunte entro una valutazione di sostenibilità ambientale del fenomeno urbano.

Ma convergere con il neoliberismo economico, oggi prevalente, nel ritenere un lusso insostenibile le regole di un progetto pubblico di territorio e città, socialmente individuato e condiviso (come con scarsa pervicacia mi sembrano fare quelle sensibilità ambientaliste - dai “pentiti” alla Chicco Testa ai “collaborazionisti” di Legambiente, a istituzioni tradizionalmente di sinistra come la Regione Toscana che prevede sconti sugli oneri urbanizzativi sino al 50% per edifici ad alto risparmio energetico; che direste se proponessi che a fronte di contenuti urbanistici più gravosi, si potesse inquinare di più ?) - che ne accettano la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra libertinaggio pubblico e virtù privata – credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” (tanto il territorio ha “spalle grosse”, non c’è più sensibilità diffusa a volerlo proteggere, non è reato abusarne) cui è colpevole rassegnarsi.

Proprio in questi giorni l’Associazione nazionale dei produttori di pasta e pane lancia l’allarme sul fatto che le risorse autoctone di cereali coprono solo sette mesi di autonomia, che il mercato globale di cereali è sotto tensione di fronte a nuova domanda di consumo e crescita dei prezzi del petrolio, ed è, quindi, necessario accrescere le aree interne coltivate a cereali.

Ma c’è ancora qualcuno che voglia davvero dar seguito coerente alle parole d’ordine di “città e territorio come beni comuni”, risorsa strategica da sottrarre, quindi, alla dominanza univoca del mercato ?

Chiunque può riprodurre l’articolo, alla condizione di citare l’autore e indicare la fonte come segue: “tratto dal sito http://eddyburg.it”

Il decreto legge sulla finanziaria (n° 112 del 25 giu. 2008, “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), quello approvato in nove minuti e mezzo dal Consiglio dei ministri, ha suscitato molte critiche, specialmente a ragione dei pesanti tagli alla spesa. Con riguardo al settore dei beni culturali Salvatore Settis ha argomentato, in un intervento che ha avuto larga eco, che tali decurtazioni pregiudicherebbero lo stesso regolare funzionamento del Ministero e delle soprintendenze, sì da prefigurare, di fatto, una loro estinzione.

La gravità di queste previsioni ha però messo in secondo piano altre misure contenute nel decreto, forse meno appariscenti ma altrettanto dannose, e che interessano l’insieme del’organizzazione del territorio e del suo governo. Ne segnalo rapidamente alcune.

“Impresa in un giorno”

Così s’intitola l’art. 38 del decreto, il quale con un solenne richiamo al “diritto di iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 della Costituzione” si propone di tutelare l’attività imprenditoriale a partire dalla presentazione della dichiarazione d’inizio attività o dalla richiesta del titolo autorizzatorio (comma 1). Si tratta in sostanza di una rielaborazione della normativa sullo sportello unico, dove fra le novità di rilievo va segnalata (comma 3, lettera c) la possibilità di affidare a soggetti privati (“agenzie per le imprese”) l’attività istruttoria sulla sussistenza dei requisiti per l’esercizio dell’attività, per cui la loro semplice dichiarazione di conformità verrebbe a costituire titolo autorizzatorio.

Ma interessano di più le disposizioni di cui alle lettere f, g ed h dello stesso comma 3:

“f) lo sportello unico, al momento della presentazione della dichiarazione attestante la sussistenza dei requisiti previsti per la realizzazione dell’intervento, rilascia una ricevuta che, in caso di d.i.a., costituisce titolo autorizzatorio. In caso di diniego, il privato può richiedere il ricorso alla conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n° 241;

“g) per i progetti di impianto produttivo eventualmente contrastanti con le previsioni degli strumenti urbanistici, è previsto un termine di trenta giorni per il rigetto o la formulazione di osservazioni ostative, ovvero per l’attivazione della conferenza di servizi per la conclusione certa del procedimento;

“h) in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, scaduto il termine previsto per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, l’amministrazione procedente conclude in ogni caso il procedimento prescindendo dal loro avviso; in tal caso, salvo il caso di omessa richiesta dell’avviso, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli eventuali danni derivanti dalla mancata emissione degli avvisi medesimi”.

Non si tratta d’altro, come i lettori di eddyburg avranno compreso, che di una riproposizione, peggiorata come vedremo, del cosiddetto ddl Capezzone, presentato nella scorsa legislatura e soprannominato a sua volta – un po’ meno ambiziosamente di questo – “un’impresa in sette giorni”. Allora se ne denunciò da più parti la pericolosità (raccogliendo l’appello di eddyburg) e si riuscì ad impedirne l’approvazione. Nel segno della continuità bipartisan (Capezzone è passato dal centro-sinistra alla destra), eccolo rispuntare adesso in un articolo del DL 112/2008.

Abbiamo quindi il silenzio-assenso, con termini estramemente brevi e per interventi suscettibili di sconvolgere l’assetto del territorio e dell’ambiente. Non solo, ma abbiamo un silenzio-assenso, per così dire, blindato e allargato. Se infatti, a parte quella procedente, anche le “altre amministrazioni” (ad esempio quella dei Beni culturali) saranno silenti, il provvedimento andrà avanti ugualmente e il funzionario comunale responsabile del procedimento non ne risponderà. Detto altrimenti, l’atto autorizzativo, benché privo dei pareri previsti per legge, sarà comunque efficace. Pensiamo, per riferirci a casi concreti, a richieste di costruire una fabbrica o un grande albergo in zona vincolata. Se poi teniamo a mente il “combinato disposto” di tale micidiale norma con gli annunciati tagli ai fondi ed al personale delle amministrazioni pubbliche (dai comuni alle soprintendenze), lo scenario che ci si apre davanti è a dir poco terrificante.

Il criticatissimo ddl Capezzone, almeno sotto questo profilo, si sforzava di porre qualche modesto argine: per esempio si indicava come prerequisito per il rilascio delle autorizzazioni la conformità “alla vigente disciplina ambientale, sanitaria, di tutela dei beni culturali e paesaggistici, di sicurezza sul lavoro e di tutela della pubblica incolumità” e si escludeva la possibilità di avviare immediatamente gli interventi quando la verifica di conformità comportasse valutazioni discrezionali da parte della pubblica amministrazione per i profili sopra ricordati (fra cui quelli attinenti alla tutela dell’ambiente e del “patrimonio archeologico, storico, artistico, culturale e paesaggistico”).

Siamo ormai abituati al peggio, ma si resta ugualmente senza parole e la speranza, a fronte di uno stravolgimento così brutale dei cardini stessi della corretta utilizzazione del territorio e della tutela, è che la palese incostituzionalità di queste disposizioni porti ad un loro rapido affossamento. Con buona pace dei teorici del “diritto di iniziativa privata” senza limiti, l’art. 41 della Costituzione, da costoro goffamente richiamato, ha anche un secondo comma, importante quanto il primo, ed è pacifica, finché almeno la nostra carta dei diritti non sarà modificata, la prevalenza su tutti gli altri dei valori costituzionali primari, a partire da quelli garantiti dall’art. 9.

L’altra speranza è che i comuni, cui in definitiva è affidata l’attuazione della legge, sappiano difendere il loro territorio sulla base di piani urbanistici correttamente formati.

La privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico

L’obiettivo è “valorizzare” il patrimonio immobiliare pubblico: dove “valorizzare” significa mettere sul mercato, in definitiva privatizzare: trasferire dal pubblico al privato un altro pezzo del patrimonio comune, fra quelli socialmente più rilevanti. Questo obiettivo è perseguito soprattutto in dua articoli: l’articolo 13 (“Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico”) e l’articolo 58 (“Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali”).

Il primo dei due articoli stabilisce che “al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata, di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n° 281, la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprietà dei predetti Istituti”. Il prezzo dovrà essere determinato non in relazione al valore di mercato, ma “in proporzione al canone di locazione”. Diritto di prelazione avrebbero gli attuali assegnatari.

Il “soddisfacimento dei fabbisogni abitativi”, che sembra costituire l’obiettivo della norma, sarebbe da conseguire fra l’altro, come specifica l’art. 11 (“Piano casa”) del d.l., proprio attraverso “le risorse derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica” (sul significato e sulle conseguenze del “piano casa” si veda l’articolo di Gianfranco Cerea e la postilla di eddyburg).

Veniamo all’altro articolo, il 58 (“Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali”):. Questo è già stato criticato da eddyburg (Continua il grande furto). Meritano particolare attenzione i commi 1 e 2 dell’art. 58:

“1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.

“2. L’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni”.

Detto altrimenti, il semplice inserimento negli elenchi, approvato in blocco con una semplice delibera di consiglio, andrà a costituire ex se variante al piano urbanistico comunale, senza godere di nessuna delle garanzie previste dalla legislazione urbanistica (pubblicazione, osservazioni, controdeduzioni, vaglio degli uffici regionali, conformità con i provvedimenti e i piani di tutela, ecc.). Per fare di nuovo un esempio concreto, i cambi di destinazione di immobili di proprietà dei comuni potranno provocare una fioritura di alberghi in zone anche delicate, senza che nessuno – stando al testo della legge – possa obiettare nulla.

E ancora una volta, per valutare appieno gli effetti esiziali di un simile provvedimento bisogna inquadrarlo in un contesto in cui i comuni, afflitti dalla crisi finanziaria che conosciamo a ragione non avranno altra scelta che vendere o svendere il loro patrimonio immobiliare, e tutti sappiamo bene a chi.

Per concludere

È difficilmente comprensibile il silenzio che circonda le operazioni che abbiamo rapidamente esaminato. Silenzio della stampa e delle emittenti radio-televisive, silenzio delle opposizioni in Parlamento, silenzio dei partiti politici. Il territorio e il bene pubblico che esso costituisce – nel suo insieme e nelle sue porzioni che appartenngono anche patrimonialmente alla collettività – possono essere svenduti al miglior offerente. Le regole che dovrebbero consentire la razionalità della sua utilizzazione sono calpestate senza neppure che chi governa (dalla maggioranza o dall’opposizione) se ne renda conto. Gli stessi “esperti”, nella loro maggioranza, sembrano ignorare ciò che sta accadendo. Gli spazi che si aprono alla speranza sembrano davvero pochi.

Potrebbe finalmente essere questa la legislatura buona per la legge di riforma urbanistica che prenderebbe il posto di quella varata in piena seconda guerra mondiale (1942) per poi essere parzialmente modificata nel 1967. Nelle prossime settimane infatti il governo comincerà la discussione della proposta di disegno di legge presentata da Rifondazione ed elaborata da un gruppo di architetti e urbanisti che gravita intorno all’associazione Eddyburg. Il “caso” infatti ha voluto che la discussione partisse proprio da questa proposta e non dalle altre (attualmente in attesa ce ne sono almeno altre 3: quella sponsorizzata da Ds e in parte dalla Margherita, quella della Margherita stessa e infine quella del deputato di Forza Italia Lupi riciclata e riproposta dal partito di Berlusconi e che nella scorsa legislatura solo in extremis è stata bloccata).

Vezio De Lucia, urbanista di fama internazionale e tra i protagonisti che hanno elaborato la proposta Eddyburg, è la persona forse più adatta per spiegare qual è la situazione oggi in Italia, partendo proprio dallo “scampato pericolo”, cioè l’affossamento del disegno di legge riproposto oggi da Forza Italia.

«Era un disegno di legge terrificante, basato sostanzialmente sulla privatizzazione dell’urbanistica, perché prevedeva che ogni atto di trasformazione urbanistica avrebbe dovuto essere approvato sempre d’intesa con la proprietà fondiaria. Le parole testuali, mi par di ricordare erano “sostituire atti autoritativi con atti negoziali”, quindi sarebbe stata una vera e propria cancellazione del governo pubblico del territorio e della preminenza dell’interesse pubblico su quello privato. Altre due perle erano la cancellazione degli standard urbanistici e l’incentivazione a consumare nuovo territorio, togliendo ulteriori spazi alla natura».

Perché la proposta non passò?

«Guardi, un po’ tutti davano l’approvazione per scontata, anche nel centrosinistra che allora era all’opposizione. Anche perché l’Inu con il suo presidente Federico Oliva era sostanzialmente d’accordo. Noi di Eddyburg ci battemmo per impedirne l’approvazione della Lupi, pubblicammo anche il libro “La controriforma urbanistica” che fu presentato in molte città italiane e soprattutto alla commissione che stava discutendo la proposta. Ebbene, siamo riusciti ad evitare l’approvazione consapevolizzando alcuni deputi di Alleanza Nazionale sul disastro che si rischiava di compiere».

Sarà anche un disastro evitato, però intanto siamo ancora senza legge e con una pletora di proposte tutte da discutere…

«Il risultato importante è avere affossato definitivamente quella proposta che annullava il ruolo del pubblico: meglio nessuna risposta che una controriforma del genere. Anche perché da lì nasce il testo che Rifondazione ha poi portato in Senato: quando la Lupi fu bloccata dall’Inu ci “invitarono” a farla noi e così abbiamo fatto».

Il presidente dell’Inu però, quando ha saputo che la discussione sarebbe partita dalla proposta di Rifondazione e non da quella dei Ds, è andato su tutte le furie, sostenendo che questo governo non approverà mai la riforma “vista al composizione della compagine governativa, con troppe teste che la pensano in maniera diversa”.

«Non sono d’accordo con il pessimismo di Oliva perché il nostro testo e quello presentato dai Ds sono molto vicini fra loro: Lupi è stato finalmente rinnegato mentre credo che sarà piuttosto semplice integrare le due proposte che arrivano da Rifondazione e Ds perché le basi di partenza sono le stesse, ovvero la riproposizione dell’assoluta prevalenza dell’interesse pubblico, la conferma degli standard urbanistici e la loro estensione come il diritto all’abitare. C’è il recepimento piano della valutazione ambientale strategica nell’ambito della direttiva europea e c’è

il principio del contenimento del consumo del suolo, cioè di ridurre al minimo l’ulteriore sottrazione di spazi al territorio. Su quest’ultimo punto, anche se nella proposta dei Ds non è perentorio come nel nostro testo, ci giochiamo il futuro del Paese e non a caso anche nel programma di Prodi c’era l’impegno a una soluzione legislativa per contenere al costruzione di nuove abitazioni».

Se i testi sono così vicini, perché non avete lavorato insieme fin da subito? Con una proposta unica e condivisa da larghi settori della maggioranza la discussione procederebbe più speditamente.

«Forse a freddo non avremmo cominciato a elaborare un testo del genere, ma dopo l’affossamento della Lupi siamo stati quasi sfidati e quando poi, contemporaneamente all’elaborazione, abbiamo cominciato a ricevere apprezzamenti e contributi e nuovi stimoli da parte degli ambienti specialistici, non potevamo più tirarci indietro. Ma le ripeto e glielo assicuro: Oliva si sbaglia, con una commissione ristretta sarà facilissimo arrivare a un testo condiviso».

La riforma urbanistica è necessaria per uniformare e coordinare la materia finora disciplinata in modo diverso dalle singole regioni. Eppure proprio da queste leggi regionali si è tratto molto.

«Esattamente, anche perché la questione delle competenze regionali è forse la più delicata, ma comunque, a mio parere, non è la più importante. Mi spiego: è vero che una legge di principio serve, ma non c’è più quell’urgenza che ci poteva essere prima, perché molte regioni hanno già adottato contenuti importanti che infatti oggi sono ripresi nelle varie proposte. La legge toscana per esempio, che è una delle più avanzate, influenza fortemente la proposta dei Ds ed è quindi molto vicina anche alla nostra».

Intanto però la Toscana è finita sulla graticola per il caso Monticchiello e per i molti casi di cementificazione delle coste o delle colline, magari attraverso la realizzazione di seconde case mascherate per qualche anno da Rta

«Giustamente in Toscana si sollevano le cose che non vanno e non sono certo io a tirarmi indietro nel criticare certe operazioni urbanistiche tutt’altro che sostenibili. Però i singoli casi toscani non sono confrontabili con quello che accade oggi dal Lazio in giù, nella quasi totale insensibilità della stampa. Lo sfascio della Campania non è solo i rifiuti, ma anche il governo del territorio non esiste più e ci sono comuni in cui le richieste di condono sono più dei cittadini».

Sul disegno di legge urbanistica eddyburg

Ho letto il commento di eddyburg sulla proposta di legge Mariani di riforma del governo del territorio ( eddytoriale n. 102) e lo condivido quasi completamente. Penso che siano stati introdotti sostanziali correttivi alla precedente proposta. Trovo giusti anche i rilievi avanzati, sia di tipo linguistico (ma poi non tanto), sia quelli relativi alla delega alle regioni di argomenti che dovrebbero essere invece stabiliti a livello nazionale (come la salvaguardia e il rispetto degli standards).

C’è però un punto che mi sembra sottovalutato. Si tratta del tema del ruolo del privato nell’attuazione della pianificazione operativa aperto dall’art. 20 denominato “concorrenzialità”. L’articolo, pur ribadendo la “titolarità pubblica della pianificazione del territorio”, consente alle regioni di istituire “forme di confronto concorrenziale” “obbligatorie” per “promuovere e selezionare capacità e risorse imprenditoriali e progettuali private e pubbliche, garantendo pubblicità e trasparenza del processo, nonché un equo trattamento della proprietà e assicurando la coerenza con il piano strutturale”.

Mi sembra un argomento della massima importanza e delicatezza che non viene regolato con la precisione necessaria. Anche nelle relazioni di accompagnamento della proposta di legge questo punto è inspiegabilmente taciuto.

E’ ovvio che una nuova forma di coinvolgimento dei privati nell’attuazione dei piani, rispetto a quella tradizionale, può essere molto utile, ma credo che si debba definire un equilibrio intelligente senza rinunciare al coordinamento pubblico delle iniziative, pena l’unità della manovra di pianificazione alla scala urbana complessiva.

Peraltro le due regioni “rosse” (Emilia Romagna e Toscana) hanno già inserito questo dispositivo nelle loro leggi di governo del territorio. Le prime sporadiche applicazioni tuttavia, a quanto mi risulta, sono discutibili. In Toscana ci sono Regolamenti urbanistici che hanno aperto una complicata fase di trattative e altri che hanno introdotto norme ambigue come le “aree a previsione urbanistica differita”, per le quali l’approfondimento delle indicazioni del Piano strategico (localizzazione delle edificazioni, degli spazi pubblici e delle infrastrutture, ripartizione delle funzioni, modalità di realizzazione) è rinviata al bando di avviso pubblico.

Segnalo due punti che mi sembrano importanti per i dubbi che sollevano.

Il primo riguarda il “progetto di città”, che la legge ribadisce essere di titolarità pubblica, ma che al contempo affida ai privati nella parte operativa, conculcando l’idea che al pubblico competa solo la definizione, sempre più vaga, “strutturale“ e “strategica” del piano.

Questa linea, che mi sembra generalizzata nell’area milanese, è stata difesa nelle regioni “rosse” con lo slogan “piano pubblico e progetti privati”: è una linea che contrasta con la tradizione della pianificazione urbanistica e con i risultati del dibattito culturale e della prassi del buongoverno delle città europee degli ultimi trent’anni, come dimostrano le più acclamate esperienze (da Barcellona a Parigi e alle altre città francesi e spagnole), nelle quali le grandi operazioni di trasformazione urbanistica hanno avuto sempre oltre ad una forte regia pubblica anche un “disegno” pubblico delle localizzazioni e delle modalità di trasformazione. Abbandonare il controllo delle localizzazioni e delle modalità di trasformazione ai privati perché non si riesce ad operare con gli strumenti intermedi tradizionali di attuazione mi sembra un’approssimazione molto riduttiva, con due rischi: da un lato quello di non considerare gli effetti sociali ed ambientali complessivi delle trasformazioni (che solo un punto di vista generale può prendere in considerazione); dall’altro quello di sminuire il valore innovativo della perequazione trasformandola da strumento che dovrebbe garantire un organico disegno urbanistico con la distribuzione equilibrata di vantaggi e oneri in semplice patto economico fra operatori.

Il secondo punto riguarda i principi di “concorrenzialità” e “trasparenza”.

Siamo sicuri che la trasposizione di un dispositivo tipo appalto dei lavori pubblici alla sistemazione delle città (cioè ad azioni di grande complessità con riflessi sulla struttura sociale ed economica) possa funzionare meglio di quanto gli appalti funzionino oggi e in condizioni di maggior “trasparenza”? E’ giusto non definire i criteri di selezione delle diverse proposte e lasciare che ogni regione decida magari delegando ai comuni per quel malinteso principio di “federalismo” oggi tanto in voga? E’ giusto non introdurre, parlando di “trasparenza”, degli obblighi di reale partecipazione non tanto dei proprietari e degli imprenditori interessati alle operazioni, ma degli abitanti coinvolti? Ed è giusto generalizzare l’attuazione dei piani in quel modo o non è meglio limitarla a casi precisi e pensare a munire i comuni di strumenti e mezzi più idonei alla trattativa definendo forme di rafforzamento delle strutture tecniche (ad esempio, nel caso di comuni piccoli, forme di associazionismo obbligatorio ed economicamente assistito, compartecipazione delle altre istituzioni per il principio di sussidarietà, ecc.)?

Infine, non credo ci sia bisogno di insistere sul fatto che sguinzagliare lo strumento dell’avviso pubblico fra privati per l’attuazione delle previsioni (come una specie di “asta dei diritti edificatorii” come è stata definita) senza disciplinarlo adeguatamente rischia di ingenerare uno stato di confusione e di incertezze (criteri di giudizio e di selezione fra le proposte, varianti ai piani, trattativa continua) che possono aprire la porta a pressioni indebite.

Penso comunque che su questi argomenti sia necessario e urgente raccogliere altri elementi di valutazione. Ti segnalo al riguardo che al dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio dell’università di Firenze intendiamo promuovere un seminario sul tema del rapporto pubblico/privato verso la fine di maggio del quale a parte ti invio il programma in bozza.

Postilla

Le preoccupazioni di Marco Massa sono del tutto condivisibili. Si dimentica spesso in Italia che la proprietà immobiliare non è l'impresa, e che è sbagliato voler introdurre regole proprie del mercato concorrenziale in un ambiente economico che del mercato concorrenziale ha poco o nulla. Comunque, la p.d.l. firmata dall'on. Mariani e da moltissimi altri deputati dei DS e di DL è stata - da nostre informazioni - ulteriormente modificata. Speriamo di poterla mettere a disposizione dei nostri lettori nei prossimi giorni. Allora la valutazione potrà essere più completa.

Da: Università di Roma, Lezioni di legislazione urbanistica, a.a.1933-34, manoscritto

[…] il progetto presentato dal Pisanelli nell’aprile del 1864, esaminato prima dagli uffici della Camera e successivamente da una Giunta speciale composta di tecnici e di giuristi, diede origine alla legge promulgata con R.D. 25 giugno 1865, n. 2359.

L’esempio di quanto era già stato disposto in Francia e opportune considerazioni sulle condizioni veramente infelici degli aggregati edilizi di molti Comuni, soprattutto dal punto di vista igienico, indussero il Ministro Pisanelli ad inserire nel disegno di legge un complesso di norme intese a disciplinare la materia della trasformazione e dell’ampliamento degli abitati. Tali norme erano sostanzialmente ispirate alla legge francese del 1807 e alla legge belga del 1844, secondo le quali i proprietari di aree erano obbligati a osservare nelle costruzioni gli allineamenti disposti dall’Amministrazione comunale in apposito piano e i proprietari di fabbricati erano obbligati a seguire gli allineamenti stessi in caso di ricostruzione degli edifici, astenendosi nel frattempo da qualunque lavoro atto a prolungarne la durata. Secondo il progetto Pisanelli, peraltro, era data facoltà alle Amministrazioni municipali interessate di anticipare le sistemazioni stradali in conformità degli allineamenti dati dal piano regolatore, applicando, per quanto riguardava i beni occorrenti per le sistemazioni stesse, le norme stabilite in materia di espropriazione.

Parve alla Commissione della Camera, incaricata di studiare il progetto, che le disposizioni suaccennate ferissero troppo profondamente la proprietà e che fosse il caso di sopprimerle, salvo farne oggetto di altro disegno di legge da esaminare con maggiore calma. Ma, essendo stata fatta presente da più parti la necessità di norme sugli allineamenti, il Governo credette opportuno valersi della facoltà, che, per la suddetta unificazione legislativa, gli era stata accordata con legge 2 aprile 1865 di “ modificare i codici e le leggi da pubblicarsi sì nella sostanza che nella forma”, e nel testo definitivo della legge mantenne le norme sui piani regolatori, introducendovi però alcune modificazioni di notevole importanza, fra le quali:

1) l’abolizione della obbligatorietà del piano;

2) la fissazione di un termine massimo per la sua attuazione (25 anni)

3) la distinzione fra i piani regolatori e i piani di ampliamento.

Data la grande importanza delle disposizioni contenute nel progetto Pisanelli a proposito dei piani regolatori crediamo opportuno riportarle per intero:

Art. 72 – Ogni Comune che abbia titolo di città, o il cui abitato, unito in un solo perimetro, contenga una popolazione non inferiore ai 2.000 abitanti, è obbligato a far compilare una pianta regolare dell’abitato stesso, in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella ricostruzione degli antichi edifici e nell’edificazione dei nuovi, a fine di provvedere alla salubrità del Comune e ala più sicura, comoda e decorosa sua disposizione.

Ai Comuni, i quali, sebbene non abbiano una popolazione non inferiore ai 2.000 abitanti, trovansi divisi in cantoni o villaggi, o in case sparse, non è applicabile il disposto di questo articolo, se non per ciascuna di quelle loro parti che conti da sé una popolazione riunita non inferiore ai 2.000 abitanti.

Art. 73 – I progetti dei piani di risanamento, di allineamento e di ampliazione dei Comuni avanti indicati debbono esser fatti pubblici a cura del sindaco, a norma degli art. 16 e 17, essere adottati dai Consigli Comunali e approvati, quelli delle città, con reale decreto, quelli degli altri Comuni, con decreto del prefetto.

Contro il decreto di approvazione del prefetto è ammesso il ricorso in via amministrativa, a termine dello art. 18 della presente legge.

Art. 74 – Per ottenere l’approvazione dei piani di risanamento debbono i Consigli Comunali far constare di cause permanenti d’insalubrità e della necessità di modificare la disposizione del luogo per farle cessare.

Inoltre deve il prefetto, prima di emanare il suo decreto, udire l’avviso del Consiglio Provinciale di Sanità.

Art. 75 – Il decreto di approvazione dei piani indicati nell’art. 73 sottopone i terreni e gli edifici in essi compresi alla servitù legale di allineamento, di ampliazione e di risanamento, in forza della quale i loro proprietari, quando accingonsi a costruire nuovi edifici, a riedificare glia antichi e a modificare altrimenti la forma delle loro proprietà, o lo facciano volontariamente od obbligati dall’urgenza di impedirne la rovina o da altra simile cagione, non possono ciò eseguire, salvo osservate le norme tracciate nei suddetti piani.

Art. 76 - Il decreto di approvazione dei piani di allineamento, di ampliazione e di risanamento dev’essere notificato a modo delle citazioni a ciascun proprietario dei beni in essi compresi.

Ogni proprietario, che da giorno della suddetta notificazione non si uniformi alle norme tracciate in tali piani, oltre alla distruzione dei lavori fatti in contravvenzione ai medesimi, potrà essere condannato dall’autorità giudiziaria competente ad una multa estensibile a lire 1.000.

Art. 77 – I proprietari degli edifici compresi nei piani avanti indicati, la cui area sia destinata a divenire, in tutto o in parte, suolo pubblico, non possono fare alcun lavoro che li renda più durevoli e ne ritardi la demolizione, sotto le pene sancite nell’art. precedente.

Art. 78 – L’area degli edifici e i terreni sui quali è proibito di edificare non cessano di far parte del patrimonio di chi ne è proprietario, e no diventano suolo pubblico, fuorché addivenendosi all’esecuzione dei lavori di allineamento, di ampliazione o di risanamento, e dopo fatto il deposito dell’indennità a termini degli art. 28 e 46.

Art. 79 – Il terreno che, giusta i piani sovra menzionati, deve cessare di fare parte del suolo pubblico, non diventa proprietà di colui che ha edifici e terreni confinanti col medesimo, fuorché eseguendo le stesse costruzioni negli stessi piani indicati e dopo fatto il pagamento o il deposito del relativo prezzo.

Art. 80 – Quando il proprietario demolisce il suo edificio volontariamente,o costrettovi dal pericolo di rovina o da altra simile ragione, e ricostruendolo deve farlo rientrare o avanzare di uno spazio non eccedente un metro, per fissare l’indennità si ha riguardo soltanto al valore venale dell’area che egli perde o acquista.

Negli altri casi si terrà pur conto del danno o del vantaggio relativo, e l’indennità verrà determinata a norma degli art. 38 e 39.

Art. 81 – Qualora i lavori di allineamento, di ampliamento e di risanamento si vogliano eseguire senza attendere che i proprietari, o volontariamente od obbligati dalla vetustà o da altre simili cagioni, pongano mano alla costruzione e riedificazione dei loro edifici o si accingano a mutare altrimenti la forma delle loro proprietà, per l’espropriazione di esse si debbono osservare le disposizioni stabilite dal titolo I della presente legge circa le espropriazioni.

Art. 82 – Nel caso che un proprietario, il quale ha obbligo, giusta i piani di allineamento, di avanzare il suo edificio sul suolo pubblico, non lo voglia acquistare, egli può essere espropriato dell’intero suo stabile mediante congrua indennità.

Con atto da intimarsi a forma delle citazioni, potrà il proprietario suddetto esser posto in mora a dichiarare, nel termine non minore di giorni venti, se intende acquistare la parte confinante del suolo su cui potrebbe avanzarsi.

In caso di rifiuto o di silenzio, si procederà alla espropriazione nelle forme legali.

Art. 83 – La espropriazione per l’allargamento, l’allineamento o l’apertura di vie nei Comuni indicati nell’art. 72, può estendersi alla totalità degli immobili che debbono essere in parte occupati dal suolo pubblico, ove le parti residue siano di una estensione o di una forma tale da non poter sopportare costruzioni solide e salubri.

Queste parti residue sono riunite ai terreni o edifici contigui, o a trattativa privata, o per espropriazione di questi stessi terreni o edifici, in conformità dell’articolo precedente.

Art. 84 – L’espropriazione può anche estendersi a immobili posti fuori dall’allineamento, quando il loro acquisto sia necessario per sopprimere strade o vicoli inutili.

Art. 85 – Nei Comuni indicati nell’Art. 72 i costruttori di case debbono, prima di por mano ai lavori di costruzione, chiedere all’Amministrazione Comunale, coll’abbattimento, il livello della via fronteggiante, uniformarvisi sotto le pene sancite dall’Art. 76.

Le disposizioni della legge del 1865, per quanto riguarda la compilazione ed attuazione di piani regolatori, non ebbero però applicazione molto estesa. Le Amministrazioni municipali si trovarono impreparate a formulare progetti tecnicamente perfetti in materia di sistemazione e ampliamento dell’aggregato edilizio, tanto più che in molti casi provvedimenti radicali si sarebbero dovuti attuare per rimediare alla viziosa disposizione degli abitati. D’altra parte si dovette constatare che, mentre quasi ovunque le condizioni in cui si svolgeva il traffico non erano tali da destare serie preoccupazioni, essendosi ancora molto lontani dallo sviluppo oggi raggiunto dai mezzi di trasporto a trazione meccanica, grave sarebbe stato l’onere finanziario, che i Comuni avrebbero dovuto accollarsi per le espropriazioni di edifici da demolire. Infine ad una scarsa applicazione della legge suddetta nel campo dei piani regolatori contribuì il fatto che le casse municipali dovevano esporsi ad un’alea non indifferente con norme di espropriazione che concedevano ai periti la più larga discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo da corrispondere ai proprietari.

Poche amministrazioni, quindi, si apprestarono a studiare progetti per la sistemazione edilizia dell’abitato, preferendosi in generale lasciar sussistere gli inconvenienti, ch’essi presentavano nella loro attuale conformazione, o provvedendosi ad opportuni miglioramenti attraverso l’esecuzione di opere singole e cercando di disciplinare l’ampliamento mediante l’applicazione delle norme dettate dai regolamenti edilizi, approvati in forza della facoltà concessa dalla Legge Comunale e Provinciale.

Solo in casi di riconosciuta ed impellente necessità di una sistemazione generale di quartieri più o meno vasti per eliminare cause gravi e permanenti di morbilità si giunse alla decisione di formulare piani regolatori, che, per lo scopo speciale cui tendevano, presero il nome di piani di risanamento e la cui attuazione venne agevolata con l’emanazione di norme speciali. Primo e più importante fra tutti fu quello compilato per Napoli e seguito della legge 15 gennaio 1885, le cui disposizioni vennero estese a vari altri Comuni. [...]

Nota: gli articoli 72-85 del progetto Pisanelli riportati, nel manoscritto sono inseriti in forma di lunga nota; qui sono stati ri-collocati nel testo - a mio parere - per una maggiore leggibilità; per un confronto, si vedano in questo sito sia l’articolato della Legge 25 giugno 1865, n. 2359 sull’espropriazione per pubblica utilità, sia in forma più libera ed estesa le “Pagina di Storia” sulla citata Legge di Napoli e gli avvenimenti paralleli(f.b.)

PREMESSA

La cosiddetta “legge Lupi” è il nuovo disegno di legge nazionale intitolato “Principi in materia di governo del territorio”, approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005 e ora iscritto al Senato con il n. 3519. Il testo votato è destinato a sostituire buona parte delle leggi urbanistiche vigenti, dalla legge 1150 del 1942 a quelle che negli anni ’60 trattano dell’interesse pubblico nelle azioni urbanistiche, prevedendone l’abrogazione diretta[1] o la decadenza ove le Regioni emanino normative sui medesimi oggetti[2].

Il disegno di legge risulta dall’unificazione di otto disegni di legge diversi, presentati da gruppi di deputati che vanno da AN e Forza Italia a Margherita, DS, Verdi e Rifondazione, e da numerosi emendamenti approvati alla Camera prima del voto sul provvedimento complessivo. Oggetto di un voto segreto parzialmente bipartisan[3] difficilmente comprensibile, spiegabile forse soltanto con la scarsa cultura urbanistica e dei beni comuni che caratterizza gran parte degli attuali deputati[4], è caduto nell’assordante silenzio[5] della stampa, occupata a fornirci quotidianamente notizie il più possibile inessenziali.

Lo scandalo non sta tanto nei voti della sinistra a una legge di destra, al di là del fatto che questi termini abbiano ancora un significato in molte scelte relative al rapporto tra pubblico e privato, ma nell’ampia approvazione data a uno strumento il cui impianto e i cui contenuti, malgrado dichiarazioni sfacciate che l’hanno definito “una delle riforme più importanti per la modernizzazione del nostro paese”[6], sono assai arretrati e confusi rispetto alle discipline in essere nei principali paesi occidentali avanzati, senza neppure costituire una legge quadro che riorganizzi l’intera materia in modo sistematico. La legge in effetti si limita a disciplinare la sola materia urbanistica[7], non affrontando né la definizione di governo del territorio né gli altri temi che la sostanziano: paesaggio, ambiente, assetto idrogeologico, ecc.[8].

Le valutazioni politiche più sobrie evidenziano la confusione di ruoli tra soggetti pubblici e privati[9]; il riferimento ad alcuni contenuti di leggi regionali già vigenti anziché l’elaborazione di principi adeguati a una legge nazionale, quali la partecipazione democratica dei cittadini alla formazione degli atti di governo e la sostenibilità ambientale[10]; l’intrusione del governo nazionale in materie delegate alle Regioni, la scarsa innovazione e l’eccessiva flessibilità, l’assenza di contenuti relativi alle funzioni settoriali proprie dello Stato e alla loro necessaria integrazione nelle azioni di programmazione e pianificazione, la mancata soluzione della dipendenza finanziaria dei Comuni dall’ICI e quindi la loro condanna a perseguire immotivate politiche di espansione dell’urbanizzato per far quadrare il bilancio[11] in una perversa alleanza con le forze immobiliariste.

Dei diversi contenuti del disegno di legge tentiamo un commento il più possibile ragionato, con l’augurio di vederlo pubblicato e letto prima del voto in Senato.

Per poter dare una valutazione non tattica del testo normativo è tuttavia necessario delineare per sommi capi il contesto in cui esso interviene, caratterizzato da profondi cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni: a quali problematiche relative alle trasformazioni territoriali occorre far oggi riferimento? Quali nuovi ruoli può giocare il territorio nelle scelte di sviluppo locale? Come cambiano le funzioni di governo del territorio e degli enti pubblici territoriali?

1. QUALE È IL TERRITORIO IN QUESTIONE?

Il contesto fisico in cui la legge si trova oggi a operare è profondamente cambiato rispetto al 1942: sembra un’osservazione ovvia, eppure la legge Lupi non ne sembra cosciente.

Le aree urbanizzate erano all’epoca in Italia ben delimitate e definite dall’armatura urbana di lunga durata con i suoi equilibri ambientali e territoriali, e rappresentavano soltanto una minima parte del territorio complessivo. Gran parte del territorio non urbano, compreso quello collinare e montano, era presidiato da agricoltori che ne garantivano sia la manutenzione quotidiana che il mantenimento della destinazione d’uso rurale. L’urbanistica si occupava essenzialmente della città, dei centri urbani, in quanto la riproduzione della campagna era comunque garantita dai suoi abitanti/produttori.

Se osserviamo la cartografia redatta dall’IGM[12] nella metà degli anni ’50, le relazioni di lunga durata fra sistemi urbani e spazi aperti risultano ancora leggibili, benché l’esodo della popolazione rurale verso le fabbriche della pianura padana fosse ormai avviato e aprisse la strada all’abbandono del territorio montano e collinare, ormai considerato inessenziale per lo sviluppo del paese, e al consumo di territorio agricolo di pianura e di fondo valle per nuove urbanizzazioni per l’industria agro-alimentare.

Questo processo, che si compie nei decenni successivi, cambia profondamente l’organizzazione del territorio: l’industrializzazione accelerata basata sul modello fordista della grande impresa svuota le valli alpine e appenniniche di abitanti e risorse, e fa crescere le medie e grandi città industriali del centro-nord, che si espandono nella prima e nelle successive “cinture” saldandosi di fatto con i comuni contermini fino alla costruzione di conurbazioni metropolitane. Al sud e lungo le coste, a fianco delle “cattedrali nel deserto” rappresentate dai poli dell’industria chimica e siderurgica, e allo spopolamento di interi paesi per i massicci movimenti migratori, lo sfruttamento della rendita fondiaria ai fini di un modello turistico di massa acquista un ruolo economico primario. I processi di decentramento industriale, conseguenti alla crisi del modello fordista, in atto dalla metà degli anni ’70 nei tessuti regionali di città piccole e medie della terza Italia “periferica” si fondano su relazioni più attive e sinergiche fra sistema produttivo e contesti locali come nel caso dei distretti; gli esiti sono tuttavia un’ulteriore erosione degli equilibri di lunga durata tra armatura urbana e spazi rurali, un territorio che alla fine del XX secolo non è più in molte zone del paese né città né campagna, bensì una successione disordinata, priva di ogni logica funzionale (per tacere dell’estetica) di lottizzazioni residenziali, case isolate, capannoni, discariche, svincoli stradali, servizi pubblici e centri commerciali raggiungibili solo in auto, terreni abbandonati in attesa di diventare urbanizzabili, ricordi di città e fazzoletti di campagna residua[13]. L’urbanizzazione è dilagata, grazie a politiche sia centrali che locali poco previdenti e ai numerosi condoni, negli ambiti di pertinenza di fiumi e torrenti, nelle aree geologicamente instabili, sulle pendici dei vulcani attivi, su dune litoranee e spiagge in erosione. I territori male urbanizzati sono territori a rischio, come emerge sempre più spesso in seguito agli eventi meteorici intensi[14] e ai crescenti dissesti idrogeologici, e non a caso altri governi nazionali europei hanno dedicato leggi e altre azioni recenti per impedirne l’ulteriore occupazione e promuoverne la de-urbanizzazione[15].

Rispetto al territorio nazionale complessivo, pur mancando dati statistici attendibili che ne garantiscano una copertura soddisfacente[16], le aree urbanizzate sono cresciute in misura abnorme, raggiungendo in alcune aree incrementi superiori al 270% dagli anni ’50 agli anni ‘90[17]. La crescita dei suoli urbanizzati si concentra principalmente nei territori di pianura e fondovalle, non soltanto in prossimità dei grandi centri, arrivando in alcune aree a coprire oltre la metà del territorio complessivo[18]. Il paradosso sta nel fatto che questa crescita abnorme dei suoli urbanizzati continua e aumenta in anni recenti, quando il saldo demografico naturale e i grandi trasferimenti di popolazione, dal Sud al Nord e dalle zone rurali alle grandi città, si sono prima ridotti e poi quasi annullati, sia in Italia che nel resto d’Europa[19]. Un così elevato consumo di suolo, a fronte di una popolazione quasi ovunque stabile, quando non in diminuzione[20], riflette solo in minima parte un miglioramento della condizione abitativa, comportando invece seri problemi collettivi, che altri paesi avanzati hanno tematizzato e cercano di trattare attraverso politiche di governo del territorio appropriate[21].

In tutte le trasformazioni fin qui descritte il territorio è stato principalmente utilizzato come mero supporto fisico per la localizzazione delle attività economiche e come oggetto privilegiato per la produzione di rendita. Il suo governo attraverso l’urbanistica, nei casi migliori ha rappresentato un tentativo di contenere l’urbanizzazione selvaggia e di riequilibrare il rapporto tra rendite individuali, profitti d’impresa e benefici collettivi attraverso politiche pubbliche per la casa e la produzione di servizi alla persona (salario indiretto), anche grazie all’applicazione degli standard urbanistici[22]. L’urbanistica non si misurava quindi in quella fase con la definizione delle linee di sviluppo economico (se non nei casi in cui alimentava, con decisioni di piano, i meccanismi della rendita fondiaria, gonfiando il mercato immobiliare e il settore edilizio come settore economico), ma con la mitigazione dei suoi effetti, in termini di riduzione degli squilibri tra crescita degli insediamenti e servizi. Non sempre questa mitigazione ha avuto successo, ma la nuova legge abbandona anche tale obiettivo minimo per promuovere la rendita immobiliare a interesse collettivo.

2. NUOVO RUOLO DEL TERRITORIO NELLA PRODUZIONE DI RICCHEZZA DUREVOLE

Nel contesto post-industriale attuale, l’ormai conclamata crisi del modello di sviluppo della crescita economica illimitata ha messo in luce effetti disastrosi sul piano sociale (crescente polarizzazione e segregazione, aumento della povertà), ambientale (esaurimento delle risorse vitali, crisi degli ecosistemi, inquinamento, effetti dei cambiamenti climatici), economico (crisi di produttività da dumping ambientale e salariale) e urbanistico (degrado territoriale, abbassamento della qualità della vita).

La consapevolezza di questi effetti ha prodotto negli ultimi anni, da una parte a scala planetaria i noti processi di “neoliberismo armato” di tipo imperiale per governare autoritariamente fattori di crisi ormai ingovernabili, nel contesto di una crescente privatizzazione dei beni comuni, in primo luogo del territorio; dall’altra, a livello locale, una profonda e crescente riconsiderazione da parte di molte regioni, municipi e, in parte dell’Unione Europea, del “territorio” (inteso come insieme di fattori ambientali, sociali, culturali locali, di pratiche, saperi, economie ecc. che definiscono l’identità di un luogo) e dei suoi giacimenti patrimoniali quale potenziale fattore di sviluppo sostenibile, di coesione economica e sociale, e di produzione di relazioni globali solidali e non gerarchiche. In sostanza, in questa seconda linea di tendenza, il territorio assurge a fattore primario di resistenza agli effetti distruttivi e omologanti della competizione globale e di innovazione dei modelli di sviluppo, di fronte alla crisi strategica del modello precedente.

Il percorso politico-culturale che interpreta questa seconda linea di tendenza non considera più il territorio come oggetto di consumo e come mero supporto delle attività economiche, bensì come soggetto complesso che costituisce la base primaria della produzione di ricchezza durevole, grazie alle peculiarità identitarie e alle risorse patrimoniali che caratterizzano ogni luogo.

Rispetto a questa prospettiva il “consumo” di territorio attraverso nuove urbanizzazioni non soltanto non aiuta in generale le attività economiche, ma si rivela addirittura controproducente per le stesse, come osserva il Presidente della Regione Sardegna a proposito delle attività turistiche nella sua isola: “Il turismo […] non è attività edilizia, è uso attento del territorio per l’offerta di servizi […] che vuol dire la costa, la spiaggia, il terreno circostante, ma vuol dire anche il paesaggio, la storia, la cultura, i suoi abitanti, tutto quello che c’è attorno, i mestieri che si sanno fare e altre attività economiche”[23]

Mettere in valore saperi locali - peculiarità produttive, artistiche, artigiane, capitale sociale locale – nella costruzione di paesaggi e prodotti autentici che scaturiscono dalla storia irripetibile di ogni luogo significa affrontare un processo di ri-territorializzazione, di differenziazione degli “stili di sviluppo”, di produzione di relazioni di scambio fra luoghi tendenzialmente non gerarchiche e cooperative.

Un simile processo di ridefinizione delle forme di sviluppo in termini di crescita di sistemi socioeconomici fondati sulla valorizzazione dei giacimenti patrimoniali di ogni luogo non si da senza il coinvolgimento pieno delle energie sociali ed economiche locali. Affinché queste energie assumano la guida di questo percorso è essenziale che esse siano valorizzate attraverso processi partecipativi che mobilitino la società locale in tutte le sue componenti, verso l’autogoverno.

I cambiamenti nell’organizzazione del territorio, il nuovo ruolo potenziale del territorio stesso e l’esigenza di trasformare in senso partecipativo gli istituti decisionali richiedono di riconsiderare in modo radicale il ruolo e la definizione stessa di ciò che è azione effettiva di “governo” del territorio.

3. IL GOVERNO DEL TERRITORIO NEL CONTESTO ATTUALE

Se assumiamo il territorio come potenziale produttore di ricchezza durevole il suo governo dovrà promuovere politiche per valorizzarne le peculiarità, trasformare i giacimenti in risorse, garantendone la riproducibilità, attivando in questo percorso la società locale[24]. In questo contesto gli enti locali in quanto enti di governo del territorio acquistano nuovi ruoli nel governo dell’economia, nell’ipotesi in cui essa si fondi sul governo dei fattori produttivi e riproduttivi costituiti dai giacimenti patrimoniali locali, ivi comprese le attività economiche a valenza etica sempre più diffuse e diversificate rispetto a ciascun contesto locale. L’urbanistica, come strumento che disciplina l’uso dei suoli e delle risorse territoriali, diviene parte integrante di questi nuovi compiti: da regolatore dei fattori riproduttivi e della rendita, a strumento che governa l’uso delle risorse endogene per la loro valorizzazione in sistemi economici a base locale.

Questi nuovi ruoli del governo del territorio e dell’urbanistica nella valorizzazione dellerisorse territoriali e ambientali finalizzata ad attivare modelli di sviluppo locale “autosostenibile”[25], si intrecciano con i cambiamenti istituzionali intervenuti tra e nei diversi livelli degli istituti di governo[26].

Se ciò che si intende designare con il termine di “governo” è stato oggetto, negli ultimi anni, di notevoli cambiamenti, la stessa parola è stata da alcuni considerata superata, contrapponendole una “governance” che avrebbe dovuto rispecchiare in maniera più esplicita la complessità degli attori che concorrono a garantire questa attività, oggi sempre più multilivello[27]. Il “governo” come attività di un attore pubblico sovraordinato a tutti gli altri non è oggi più concepibile: l’accezione minima di “governance” è quella di mettere insieme, nel decidere, perlomeno i diversi enti pubblici competenti su un medesimo territorio, e tra questi è compresa ovviamente[28] anche l’Unione Europea.

La “cornice” di qualunque azione di governo è oggi disegnata dall’Unione Europea attraverso le proprie direttive, piani d’azione, documenti preparatori e interlocutori; entro questa cornice operano, con ruoli diversi e complementari, Comuni, Regioni e Stati. Curiosamente, l’attore UE non è mai richiamato esplicitamente dalla legge[29], e neppure lo sono indirizzi fondamentali da esso promossi: il territorio quale bene/risorsa trasversale (non gestita da un’unica DG, al contrario, ad esempio, dell’ambiente[30]) presente nel progetto di Convenzione europea, la coesione territoriale[31], l’attenzione a contenere gli sprechi della risorsa suolo.

Non solo: la scarsa attenzione prestata nei contenuti sostanziali della legge “Lupi” agli effetti che le trasformazioni territoriali esercitano sull’ambiente e sul patrimonio culturale è decisamente in controtendenza rispetto alle politiche recenti dell’Unione Europea.

Lo sviluppo sostenibile come obiettivo da garantire nelle azioni di trasformazione territoriale e urbana, presente nel documento COM(1998) 605 “Sustainable Urban Development in the European Union: A Framework for Action”, ha prodotto l’inclusione di considerazioni ambientali nelle linee guida della Commissione per i programmi di sviluppo regionale 2000-2006, ha contribuito al rinnovo del programma URBAN e supportato una serie di programmi di ricerca, fra cui “City of Tomorrow and Cultural Heritage”. La Strategia Tematica in preparazione per il 2006 dovrebbe dare nuovo vigore all’integrazione degli aspetti della sostenibilità in diverse politiche specifiche, con particolare attenzione a quelle relative alla pianificazione degli usi del suolo[32], integrazione già portata avanti con la disciplina della VAS, con le varie certificazioni EMAS, con la direttiva 2000/60 sull’acqua, con il Codice europeo del paesaggio. La recente Comunicazione “Towards a thematic strategy on the urban environment” COM(2004)60 offre infine una visione d’insieme dell’approccio che guiderà l’azione europea in questo campo nei prossimi anni: assicurare lo sviluppo sostenibile delle regioni in cui le aree urbane sono inserite, “minimizzare gli impatti negativi delle aree urbane sui cicli ecologici a tutti i livelli, applicando il principio di precauzione, e migliorare le condizioni ecologiche.”, anche attraverso azioni di “riqualificazione (retrofitting) delle aree urbane per aumentarne la sostenibilità”. Nello stesso documento vengono sottolineati i temi della Progettazione urbana sostenibile[33], dell’Integrazione tra politiche comunitarie[34] e dell’Integrazione tra livelli diversi dell’amministrazione pubblica. L’adozione di questi indirizzi come guida per progettare la trasformazione delle città e ancor più delle regioni urbane[35] è ormai diffusa a livello europeo, producendo una serie di scenari innovativi[36].

Si va tuttavia diffondendo ormai da tempo anche un’altra interpretazione, più estesa, del termine “governance”, che a fronte di competenze pubbliche sempre più frammentate e concorrenti, e di attori economici sempre più capaci di muoversi opportunisticamente da un territorio all’altro negoziando separatamente con i diversi enti pubblici competenti condizioni più favorevoli ai loro affari, riconosce ai cittadini che abitano un determinato territorio il diritto a partecipare alla costruzione delle diverse scelte, superando così il deficit di democrazia effettiva in cui si trovano di fatto in gran parte delle occasioni. La partecipazione dei cittadini, di fatto, garantisce anche l’effettiva concorrenza fra tutti gli eventuali attori economici interessati a fronte di possibili pratiche lobbistiche fra alcuni attori. A maggior ragione, questa partecipazione è essenziale per garantire agli enti pubblici territoriali nuovi ruoli nel governo dell’economia, nell’ipotesi sopra tratteggiata in cui essa si fondi sul governo dei fattori produttivi e riproduttivi costituiti dai giacimenti patrimoniali locali

Le accezioni più mature di governo del territorio o di governance riconoscono quindi l’importanza di far partecipare alle decisioni sia la molteplicità degli enti pubblici competenti che i cittadini, estendendo i tavoli negoziali a comprendere rappresentanze degli interessi deboli e attivando nuovi istituti di partecipazione deliberativa da parte dei cittadini[37].

La legge 1150/42 era stata scritta con attenzione alle più avanzate esperienze europee dell’epoca, pur essendo poi stata oggetto di interpretazioni spesso riduttive nella sua applicazione. La nuova legge Lupi sembra prescindere totalmente anche dalla raccomandabile pratica di guardare riflessivamente alle altre esperienze, riconoscendo i diversi problemi fin qui richiamati e offrendo risposte pertinenti agli stessi.

In conclusione nel disegno di legge Lupi nonostante il pomposo titolo “Principi in materia di governo del territorio” e i richiami puramente allusivi qui e là utilizzati, oltre a non contenere traccia di “principi” di governo rispetto ai problemi che abbiamo evidenziato, non prevede né tradizionali azioni di governo, in quanto vengono abrogati i tradizionali strumenti di regolazione urbanistica (atti autoritativi, standard minimi ecc.) e neppure innovazioni che spostino l’azione di governo verso effettive pratiche di governance, che da un lato integrino la disciplina dell’urbanistica con le azioni relative al paesaggio, all’ambiente, all’assetto idrogeologico ecc., e che dall’altra amplino le tipologie degli attori aprendo alla rappresentanza degli interessi diffusi.

Quali sono le questioni che una legge nazionale per il governo del territorio dovrebbe proporsi di affrontare e indirizzare?

Le grandi questioni che una legge nazionale dovrebbe proporsi di affrontare sono, come già richiamato:

- il riconoscimento dei patrimoni e delle risorse territoriali [38] che costituiscono bene comune non negoziabile;

- le modalità di messa in valore dei giacimenti patrimoniali locali che ne garantiscano la riproduzione nel tempo(durevolezza e sostenibilità);

- la necessità di un’equa distribuzione sociale e intergenerazionale dei costi e dei benefici delle trasformazioni territoriali operate;

- le modalità per garantire il diritto di partecipazione delle popolazioni interessate alle decisioni relative al territorio in cui vivono.

A tal fine, una legge nazionale di governo del territorio dovrebbe organizzare le seguenti materie:

- interpretare e integrare per l’azione degli enti pubblici territoriali il corpus delle Direttive, indirizzi e riflessioni più avanzate prodotte dall’UE e dalle diverse Carte internazionali in materia di territorio [39], inteso nelle sue molteplici dimensioni urbane, ambientali, culturali e paesistiche ecc.; la legge non cita una sola volte un atto comunitario ufficiale, per non parlare della Carte ecc.

- definire principi generali che l’esercizio delle competenze regionali, provinciali e comunali deve contribuire a sviluppare e arricchire tenendo conto dei contesti specifici.

Nel definire i principi generali il Parlamento italiano aveva a disposizione un’ormai ampia casistica di leggi regionali recenti. Se, come osservato, “Occorre prendere atto che lo Stato sta di fatto rincorrendo le regioni”[40], questa rincorsa era auspicabile assumesse perlomeno i riferimenti più innovativi.

Questo disegno di legge, che richiama i “principi” soltanto nel titolo, applica di fatto il principio di assumere le procedure più destrutturanti il governo pubblico del territorio già introdotte in alcune leggi regionali fra cui quella calabrese e soprattutto quella lombarda[41], o previste dal controverso PdL della Regione Sicilia[42], con la volontà di imporle in futuro anche alle altre regioni. Al contrario, alcune leggi regionali recenti[43], oltre a unificare materie settoriali (infrastrutture, ambiente, edilizia, attività produttive, commercio ecc.) all’interno di procedure integrate di governo del territorio, hanno rafforzato il significato del governo pubblico del territorio dando centralità alla valorizzazione dei giacimenti patrimoniali e identitari come beni comuni, hanno introdotto criteri di valutazione preventiva della sostenibilità delle trasformazioni proposte e interpretato la sussidiarietà come chiara ripartizione delle competenze fra.enti territoriali che concorrono a esercitare la funzione di governo del territorio.

5. I CONTENUTI PIÙ NEFASTI DEL DISEGNO DI LEGGE

A partire dalle prime critiche fin qui esposte, che riguardano l’impostazione generale della legge rispetto alle principali poste in gioco nel governo del territorio, verifichiamo ora più puntualmente i contenuti specifici che maggiormente contribuiranno a legittimare azioni lesive del territorio italiano, inteso come patrimonio collettivo.

a. Un disegno di de-regolazione generalizzata

Vediamo più nel dettaglio come la legge introduca indebitamente[44] molte procedure puntuali di de-regolazione rispetto alle norme attualmente vigenti, che esprimono implicitamente un progetto di destrutturazione del governo pubblico del territorio. Essa prevede ad esempio:

- la possibilità che un “intervento diretto” proposto da privati possa diventare prima piano urbanistico e poi variante al Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale[45] (art.8, comma 6e art.9, comma 1), configurando il processo di pianificazione pubblica come sommatoria dei progetti incrementalmente proposti da operatori immobiliari;

- il riconoscimento di diritti edificatori alle proprietà immobiliari ricompresse in determinati ambiti “indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”, diritti “trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” art.9, comma 3), delegittimando qualunque controllo funzionale, paesistico e ambientale nei diversi ambiti[46];

- la sostituzione degli standard urbanistici minimi nazionali[47], con livelli minimi di dotazioni non meglio precisati e definibili caso per caso con il concorso dei privati (art.7, comma 1);

- la generalizzazione della procedura del silenzio-assenso per le concessioni edilizie[48] (art.13, comma.4).

b. Incongruenze tra enunciati e contenuti

Un’incongruenza diffusa è rilevabile nell’insieme del testo tra enunciati di carattere generale e disposizioni specifiche. Ad esempio, la priorità enunciata relativamente al recupero dei territori urbanizzati (art.6, comma 2), è smentita da disposizioni specifiche che invece mettono sullo stesso piano recupero e urbanizzazioni ex novo (art.6, commi 5 e 6).

Il testo sembra riflettere nel suo insieme una profonda indifferenza per il significato del linguaggio tecnico utilizzato, come si può evincere da una serie di incongruenze anche lessicali fra le definizioni di cui all’art.2 e i termini usati all’6: all’art. 2 la “pianificazione territoriale” e la “pianificazione urbanistica” sono attribuite ad enti diversi, senza chiarirne le differenze di contenuti, mentre all’art.6 la “pianificazione urbanistica” diventa “pianificazione del territorio”[49] e compare una “pianificazione delle aree metropolitane” non meglio attribuita. All’art. 5 “sussidiarietà, cooperazione e partecipazione” diventano alla riga successiva “sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”.

E ancora, all’art.6, comma 2 viene sottolineata l’importanza della “difesa dei caratteri tradizionali” (?) quando poi all’art.5, comma 7 si prescrive un quadro conoscitivo unitario e criteri omogenei per le cartografie: se è evidente la necessità di rendere i quadri conoscitivi comparabili fra loro, l’”omogeneità” nega di fatto la possibilità di rappresentare adeguatamente le peculiarità di ciascun luogo e dei suoi specifici giacimenti patrimoniali che costituiscono appunto i cosiddetti “caratteri tradizionali”.

c. La sussidiarietà tradita

La legge interpreta in modo curioso il principio di sussidiarietà. Oltre alla richiamata ingerenza nei confronti della competenza legislativa regionale in materia, la sbandierata autonomia attribuita ai Comuni, nel contesto degli attuali rapporti tra Stato centrale ed enti pubblici territoriali in materia di risorse finanziarie, si risolve (grazie allo strumento della negoziazione con gli attori economici), nell’incitare i Comuni alla svendita del patrimonio territoriale per recuperare un po’ di risorse finanziarie attraverso l’ICI e gli oneri di urbanizzazione. Il ruolo potenzialmente rilevante assegnato dal disegno di legge ai Comuni avrebbe un senso diverso se i Comuni avessero una autonomia finanziaria e decisionale rilevante, mentre in questi anni sono stati svuotati di entrambe (taglio dei trasferimenti statali, obbligo di trasformare le municipalizzate in grandi aziende di diritto privato non più gestibili come servizi pubblici[50]). L’autonomia dei Comuni nel governo del proprio territorio, largamente auspicabile in un’ottica di reale applicazione del principio di sussidiarietà e del federalismo municipale, richiederebbe peraltro dei principi guida, definiti a livello sovracomunale e condivisi dai diversi livelli istituzionali, e dei criteri di valutazione delle azioni locali da applicare nei rapporti interistituzionali[51]. Infine, una reale autonomia richiede, a sua garanzia, l’attivazione di un forte processo partecipativo in grado di mobilitare la pluralità e la complessità degli interessi sociali contro i pochi poteri forti di cui il Comune solitamente è ostaggio o complice.

Un’altra evidenza del modo distorto di interpretare la sussidiarietà è all’art.6, comma 2 dove si prescrive che i piani di ambito (aree di pianificazione sovracomunale definite dalle Regioni) “non possono avere […] un livello di dettaglio maggiore di quello dei piani urbanistici comunali”: ciò significa che possono averlo eguale, il che vanifica ogni distinzione di competenze fra i diversi livelli di pianificazione, e aggiunge elementi di farsa alla succitata autonomia dei Comuni. Una pianificazione d’ambito (sovracomunale) efficace richiederebbe peraltro una compensazione generalizzata tra Comuni dell’ICI[52], mentre il testo di legge la prevede (art.12, comma 2 b) soltanto per la localizzazione di specifiche “attrezzature”[53].

d. La partecipazione negata

La legge prevede che le funzioni amministrative siano esercitate prioritariamente mediante “l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi” (art.5, comma.4). Ad una prima lettura superficiale, la valutazione non può che essere positiva: il riconoscimento dei limiti degli strumenti autoritativi nell’implementazione delle scelte è quasi unanime, così come l’esigenza di attivare strumenti di condivisione multiattoriale nei processi di piano. A un esame più approfondito viene tuttavia da chiedersi: atti negoziati fra quali attori? I requisiti necessari affinché questo passaggio comporti effetti positivi per la collettività riguardano sia l’allargamento dei tavoli negoziali a rappresentanze di interessi in grado di far interagire gi attori deboli, sia la promozione di istituti di partecipazione dei cittadini con effettivo ruolo decisionale.

Qui, come si suole dire, casca l’asino: nel disegno di legge la partecipazione dei cittadini viene solo enunciata (art.8 comma 2) e non sostanziata da alcun procedimento effettivo che la garantisca maggiormente di quanto già previsto dalla legge 1150/42 con riferimento al procedimento di approvazione dei piani (osservazioni); mentre per quanto riguarda i tavoli negoziali si fa unicamente riferimento agli operatori economici (finanziari) privati la cui partecipazione è la sola a essere pienamente garantita[54], in particolare nei richiamati “interventi diretti” che assumono valore di piano urbanistico[55].

Dagli atti autoritativi del passato, i cui difetti sono noti, si passa dunque ad atti negoziali in cui l’interesse collettivo è ancora meno garantito, sia per alcune caratteristiche proprie del settore immobiliare (asimmetria informativa tra pubblico e privato sui margini di guadagno, concorrenza fra Comuni a fronte di un oligopolio territorialmente ampio dei grandi operatori) che per le condizioni specifiche del nostro contesto nazionale (scarsa trasparenza, scarsa presenza nel settore pubblico di professionalità adeguate alla gestione dei processi)[56].

La partecipazione, enunciata e non sostanziata, serve dunque da alibi per demolire gli strumenti esistenti senza sostituirli con modalità più efficaci nell’attribuire ai cittadini il diritto di tutela dei loro interessi non particolari, ma comuni a chi abita e si prende cura di un determinato territorio.

e. gli standard urbanistici aboliti

Anche in questo caso, i limiti degli standard tradizionali, puramente quantitativi (mq/abitante di servizio), sono noti, non avendo questa dotazione impedito la produzione di insediamenti privi di qualità e densi di squilibri ambientali e territoriali, anzi avendola in alcuni casi addirittura promossa[57]

La nuova legge prevede l’eliminazione degli standard urbanistici minimi finora vigenti, affidando la garanzia della “dotazione necessaria di attrezzature e servizi pubblici” (art. 7, comma 1) a “criteri prestazionali” non ulteriormente specificati, in relazione a un “livello minimo dell’offerta di servizi” non meglio definito (né il livello, né i servizi[58]). L’unico punto specificato è la possibilità che i servizi pubblici vengano garantiti anche con il concorso dei soggetti privati[59], mentre la definizione dei criteri di dimensionamento è affidata alle singole Regioni.

Anche qui, chi non riconosce il valore del considerare la dimensione prestazionale dei servizi? Il problema è che la valutazione prestazionale da sola, peraltro non definita e quindi aperta a tutte le interpretazioni del caso, non è una garanzia sufficiente. Gli effetti anche negativi dei “vecchi” standard e loro parziale inadeguatezza attuale, non giustificano la loro soppressione tout court, ma ne richiederebbero una rinnovata definizione.

A livello nazionale non c’è più invece neppure un criterio unitario, né quantitativo né prestazionale, riferito agli standard urbanistici o alle “dotazioni territoriali”. L’unico elemento che accomunerà obbligatoriamente, in virtù di una legge nazionale, Piemonte e Puglia, Veneto e Campania è l’apertura ai privati nella fornitura delle dotazioni necessarie di attrezzature e servizi pubblici.

f. la promozione di ulteriore consumo di suolo

Come già richiamato, in molti paesi europei il “consumo di suolo” viene attentamente monitorato e la sua riduzione costituisce un chiaro obiettivo dell’azione di governo. Non si tratta tanto di bloccare le attività immobiliari, quanto di dirigerle verso il riuso e la riqualificazione delle aree già urbanizzate e oggi dismesse o sottoutilizzate, creando un sistema che incentivi questo tipo di interventi e disincentivi invece l’urbanizzazione di suoli agricoli e naturali.

In questa legge la priorità del recupero e della riqualificazione dei territori già urbanizzati è prima enunciata (art.6, comma 2), e poi di fatto negata (art.6, comma 5), prevedendo una suddivisione del territorio non urbanizzato in tre categorie, una delle quali è quella delle “aree urbanizzabili”! La versione del testo licenziato dalla Commissione prevedeva perlomeno una procedura di verifica dell’assenza di alternative attraverso “la riorganizzazione funzionale dell’edificazione esistente”, e la valutazione di compatibilità ambientale per la nuova edificazione di aree non urbanizzate. Il testo votato alla Camera non si preoccupa nemmeno di salvare le apparenze formali, aprendo di fatto la strada a qualsivoglia espansione. Non solo: se leggiamo questa norma insieme alla successiva “Le regioni possono assicurare agli enti di pianificazione le adeguate risorse economico-finanziarie per ovviare ad eventuali previsioni limitative delle potenzialità di sviluppo del territorio derivanti da atti di pianificazione sovracomunale” (art.9, comma 6), appare chiaro il vero principio che informa implicitamente questa legge, insieme al ruolo affidato ai privati, è quello dell’edificabilità di tutti i suoli. Rispetto a questo principio teorico, spetta al pianificatore l’onere di dimostrare il contrario, capovolgendo così anni di dibattito sull’utilità collettiva di distinguere tra proprietà dei terreni e diritto a edificarli, e azzerando la conquista del passaggio dalla “licenza” alla “concessione” a costruire (per la quale, in effetti, questa legge introduce il silenzio-assenzo, riconducendola ad atto dovuto). I costi collettivi derivanti dalla promozione del consumo di una risorsa come il suolo, notoriamente non rinnovabile, non interessano evidentemente a nessuno di coloro che ha votato la legge.

g. il governo del territorio come politica settoriale

Infine, sono assenti (anzi negati) principi e indicazioni più puntuali relativi alla necessaria integrazione fra una serie di azioni settoriali che concorrono in modo essenziale a garantire il governo del territorio. Se il territorio è un oggetto complesso, il cui governo efficace richiederebbe l’integrazione di molte materie gestite dallo Stato in modo settoriale (lavori pubblici, difesa idrogeologica, agricoltura, economia ecc.), stride il fatto che neppure l’ambiente, piuttosto che i beni culturali e il paesaggio, siano considerate materie da far interagire.

Senza entrare nel merito delle ragioni per cui lo Stato si è riservato la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, nonché dei beni culturali e del paesaggio, come materie di propria esclusiva competenza, considerando invece il governo del territorio[60] materia concorrente di Stato e Regioni, colpisce la mancanza di indirizzi, o anche solo di richiami, all’indispensabile integrazione di queste materie nell’azione di governo locale (ferme restando le rispettive competenze legislative in capo rispettivamente a Stato e Regioni).

Il ribadire (art.1, comma 3) soltanto la competenza statale in materia di beni culturali, paesaggio e ambiente, in assenza di qualsiasi principio di integrazione, legittima l’inerzia o la devastazione da parte degli enti locali; non vengono assolutamente richiamate le indispensabili (e ormai relativamente diffuse) dimensioni ambientali e paesistiche dei piani urbanistici e territoriali, che quindi retrocedono allo status di opzione non necessaria. Il rapporto tra piano urbanistico e norme paesistiche e ambientali sovraordinate diventa di semplice recepimento, impedendo quindi qualunque arricchimento e specificazione della materia dal basso e dallo specifico del territorio in questione. La stessa “valorizzazione dei beni culturali di appartenenza statale” (art.3, comma 4) è riservata allo Stato: il che, come dimostrato di recente, rischia di tradursi in vendita (o concessione a lunga scadenza) dei beni demaniali per ragioni di cassa, senza prevedere alcun riconoscimento del diritto delle comunità locali a vederne riconosciuta la proprietà comune e di conseguenza la non alienabilità.

Così ridotto a politica settoriale, il cosiddetto governo del territorio diventa attività di promozione pubblica, a favore dei proprietari dei terreni e delle imprese immobiliari, e a danno della collettività (i cui interessi non sono più tutelati da nessuno), di nuove urbanizzazioni.

6. INDICAZIONI PER UNA PROPOSTA DIVERSA

Come abbiamo più volte affermato nel testo che precede, una legge nazionale sul governo del territorio dovrebbe, in coerenza con il Titolo V della Costituzione, esplicitare una serie di principi capaci di interpretare il ruolo del territorio come garante del benessere collettivo. Le diverse competenze istituzionali e i diversi contesti territoriali avrebbero il compito, nel quadro di una base comune di diritti, regole e garanzie, di declinare questi principi arricchendone e specificandone i contenuti rispetto alle diverse accezioni di benessere collettivo coerenti con ciascun modello di sviluppo locale.

Proviamo a enunciare, coerentemente con le questioni fin qui richiamate (lo stato del territorio italiano e i suoi problemi; il nuovo ruolo del territorio nella produzione di ricchezza durevole; i conseguenti cambiamenti nel governo del territorio), alcuni dei principi che dovrebbero informare una legge nazionale e le conseguenze che l’adozione di questi principi comporta per una nuova definizione degli standard urbanistici.

6.1 I principi

Territorio come bene comune

Il principio basilare dovrebbe affermare la centralità del territorio come bene pubblico e collettivo, o meglio come “bene comune”[61] essenziale al benessere delle comunità su di esso insediate[62].

Questo principio si fonda sul presupposto che il territorio costituisca l’ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana, e al realizzarsi delle relazioni sociali e della vita pubblica. Territorio non è quindi soltanto il suolo o la società ivi insediata, ma il patrimonio (fisico, sociale e culturale) costruito nel lungo periodo, valore aggiunto collettivo che troppo spesso viene distrutto, anche da amministrazioni di centro-sinistra, in nome di un astratto e troppo spesso illusorio sviluppo economico di breve periodo.

Mettere al centro il bene comune “territorio” ci consente di considerare la dimensione qualitativa, non soltanto quantitativa, dei singoli beni che lo sostanziano: acqua, suolo, città, infrastrutture, paesaggi, campagna, foreste, spazi pubblici e così via[63]. L’insieme di questi beni comuni, con la loro specifica identità, dovrebbe costituire il nucleo fondativo, collettivamente riconosciuto, dello “statuto” di ciascun luogo e dei diritti dei cittadini rispetto ai beni che lo costituiscono .

I piani che regolano le trasformazioni del territorio, a tutte le scale, dovrebbero pertanto essere preceduti e coerenti con un corpus statutario[64] che definisce, con riferimento a un orizzonte temporale di medio-lungo termine, i caratteri identitari dei luoghi, i loro valori patrimoniali, i beni comuni non negoziabili, le regole di trasformazione che consentano la riproduzione e la valorizzazione durevole dei patrimoni ambientali, territoriali e paesistici.

Diritto di partecipazione dei cittadini

Immediata conseguenza del definire il territorio come bene comune è il riconoscimento del diritto di partecipazione dei cittadini alla definizione degli elementi statutari di questi beni e al loro governo.

Il principio esplicita il diritto alla partecipazione in tutte le fasi del processo di costruzione di una decisione di governo del territorio (quadro conoscitivo, statuto dei luoghi, progetti di trasformazione, gestione delle trasformazioni) e a tutti i livelli della competenza istituzionale relativa al governo stesso. Gli istituti di partecipazione devono garantire sia la produzione “sociale” del territorio che l’esercizio del controllo su azioni (locali e sovralocali) lesive dei diritti collettivi.

Il presupposto di una reale democrazia partecipativa è costituito dalla presenza di chiare regole procedurali e sostanziali, condivise dai diversi livelli istituzionali, definite in anticipo. A questo fine i principi devono in particolare garantire agli enti pubblici territoriali[65] e all’insieme dei cittadini ruoli privilegiati rispetto agli attori privati portatori di interessi economico-finanziari.

Integrazione fra politiche settoriali (verso il governo unitario del territorio)

La progettazione e la gestione delle trasformazioni del territorio come bene comune e i nuovi ruoli degli enti locali nel governo dell’economia richiedono il superamento di una pianificazione che, ai vari livelli, risulta troppo spesso come un collage di interessi e progetti settoriali. Occorre affermare il principio della integrazione fra politiche settoriali, chiamate a contribuire a progetti unitari costruiti e gestiti collettivamente con riferimento a strategie di medio-lungo periodo riferite anche alle future generazioni[66].

Una legge nazionale dovrebbe, oltre a enunciare questo principio per gli altri livelli istituzionali di governo, impegnare direttamente e concretamente lo Stato a mettere in atto forme adeguate di integrazione fra le proprie politiche settoriali[67]. Essa dovrebbe inoltre impegnare lo Stato nella promozione di integrazioni fra i contenuti più avanzati delle diverse politiche europee (in materia di territorio, ambiente, coesione sociale, agricoltura ecc.) e delle Carte internazionali promosse da enti territoriali in materia di sostenibilità urbana e territoriale, partecipazione, clima, trasparenza dell’azione pubblica, valorizzazione dei patrimoni, paesaggio e altri temi centrali nel governo del territorio.

Consumo zero di suolo

Il principio del blocco dell’ulteriore consumo di suolo è indispensabile per consentire la riqualificazione del tessuto urbanizzato esistente, ricomponendone la frammentazione, dotandolo di servizi e infrastrutture adeguate, ricostruendone un rapporto con gli spazi aperti e rurali che aumenti sia la qualità urbana che quella rurale. Se il territorio in cui realizzare e mantenere infrastrutture e servizi si estende sempre più, a parità di abitanti e quindi di contribuenti e utenti, queste dotazioni collettive non potranno che ridursi, perdere qualità e costare più care. La dipendenza dall’auto individuale e l’invecchiamento progressivo della popolazione italiana prefigurano, in caso di ulteriore dispersione delle aree urbanizzate, un quadro di isolamento sociale e difficoltà crescente a garantire servizi indispensabili.

L’erosione continua e l’interclusione degli spazi agricoli e forestali minaccia la riproduzione collettiva (negli ultimi 50 anni i territori agricoli e forestali sono scesi da 28 a 19,6 mio ettari), riducendo la capacità di rigenerazione del sistema ambientale (acqua e aria comprese), la mitigazione degli eventi meteorici intensi, la almeno parziale autosufficienza (e quindi sicurezza) alimentare.

L’obiettivo del consumo zero di suolo si può sostanziare in due forme complementari: dichiarando tutte le aree non urbanizzate aree di riserva agricola e ambientale (salvo necessità collettive che non è possibile soddisfare altrimenti, da dimostrare e sostenere pubblicamente), e prevedendo un sistema di incentivi procedurali e sostanziali che rendano decisamente più conveniente intervenire nelle aree già urbanizzate. Tra gli incentivi possibili per interventi in aree già urbanizzate, a titolo di esempio: tempi di istruttoria garantiti e brevi (vs tempi aleatori e procedure di approvazione oggi più complesse che per gli interventi ex novo: il rapporto andrebbe chiaramente invertito), oneri di urbanizzazione fortemente ridotti rispetto agli interventi in area agricola e differenziati in relazione alle effettive necessità di re-infrastrutturazione, ICI differenziata, e così via.

Coesione sociale e territoriale

Una legge nazionale deve porsi il problema di promuovere la coesione sociale e territoriale.

Ciò significa in primo luogo garantire condizioni soddisfacenti, di tutela del territorio come bene e risorsa collettiva, sull’intero territorio nazionale, anche prevedendo forme di compensazione fiscale interregionale e intercomunale tra territori oggetto di intensa trasformazione edilizia e territori che si impegnano a conservare gli spazi agricoli e naturali con funzione compensativa.

Si tratta altresì di affrontare le dimensioni fisiche e territoriali della crescente polarizzazione sociale: quartieri blindati, territori pattumiera, periferie fonte di disagio sociale e fisico. La produzione di questi luoghi va penalizzata, contrapponendole una concezione di città come luogo d’interazione e integrazione sociale, dotata di adeguati spazi pubblici e aperta alle diverse culture, percorribile in modo privilegiato a piedi o con il trasporto pubblico collettivo. Il principio della coesione territoriale richiede altresì che ogni sistema locale sia capace di gestire i propri diversi cicli ambientali senza danneggiare territori esterni[68], ovvero di ridurre la propria impronta ecologica sviluppando la multifunzionalità del proprio territorio aperto di pertinenza, e di promuovere equilibri ambientali complessivi ricostruendo la continuità ecologica degli spazi aperti. Per promuovere l’attuazione di questi principi, la legge dovrebbe relazionare esplicitamente i trasferimenti finanziari ai Comuni almeno in parte al raggiungimento di questi obiettivi.

6.2 Una nuova definizione degli standard urbanistici

Rispetto alle problematiche territoriali e ambientali che abbiamo descritto, i tradizionali standard urbanistici, nati per garantire quantità minime di servizi rispetto a una fase di tumultuosa urbanizzazione da tempo conclusa in tutta Europa, lungi dall’essere eliminabili, vanno al contrario arricchiti in molteplici direzioni che esplorino il passaggio dalla quantità alla qualità, all’equità, alla bellezza, all’inclusione.

La prima riguarda una maggiore capacità di specificazione rispetto ai diversi contesti morfologici e sociali[69] e alle differenti componenti degli abitanti di riferimento (bambini, anziani, single, immigrati di diverse etnie e culture ecc.), per ognuno dei quali il rapporto tra spazi pubblici e privati, e la connotazione qualitativa dei servizi si presenta in forme differenziate[70].

In secondo luogo gli standard quantitativi, applicati per zone omogenee del territorio comunale, non tengono conto della necessità attuale di integrazione delle funzioni in una città sempre più policentrica, che richiede il superamento di una rigida separazione tra funzioni di fatto prodotta dall’applicazione degli standard, anche quando la zonizzazione è stata abbandonata come principio nella città post-industriale. A tal fine, l’insieme degli standard andrebbe articolato in standard generali di riferimento che accolgano anche requisiti minimi a livello europeo in campo ambientale e territoriale, e standard quali-quantitativi specifici relativi alla peculiarità di ciascun contesto territoriale per interpretarne e elevarne la qualità funzionale, estetica e relazionale[71].

In terzo luogo, l’integrazione degli standard urbanistici con obiettivi ambientali e sociali può avvenire accogliendo e articolando territorialmente una serie di indicatori previsti dalle politiche europee più recenti: qualità dell’acqua, dell’aria, dei suoli; indicatori che misurano la sostenibilità ambientale delle trasformazioni urbane e territoriali proposte: consumo di suolo, accessibilità al e dotazioni di trasporto collettivo, accesso pedonale privilegiato ai servizi collettivi di interesse primario quali scuole, municipi e piazze, commercio, trasporto pubblico[72]; indicatori di benessere che integrano fattori materiali e relazionali, quali qualità e sicurezza degli spazi pubblici e dei luoghi dedicati alle relazioni civiche, riconoscibilità identitaria dei luoghi e qualità dei paesaggi urbani e rurali, dotazione di spazi agricoli di pertinenza dell’insediamento urbano, diritto di accesso e di percorribilità degli spazi rurali[73], delle riviere fluviali e dei litorali;

Una ulteriore direzione consiste nel fornire indicazioni in relazioni all’ecosistema urbano e territoriale, ovvero nel sottoporre a standard quali-quantitativi la riproduzione dei cicli ecologici: ciclo delle acque a livello di bacino o sottobacino idrografico, ciclo dei rifiuti, dell’alimentazione, produzione locale di energie rinnovabili ecc., tendendo alla relativa chiusura locale dei cicli per la riduzione dell’impronta ecologica.

Una nuova concezione degli standard dovrebbe trattare l’intero territorio, urbano e rurale, dal punto di vista delle reti ecologiche, con l’obiettivo di ricostituire il funzionamento e la continuità delle stesse (gravemente danneggiate e degradate dalla proliferazione recente dell’urbanizzazione) come grande armatura che supporta, oltre alla riproduzione e circolazione delle specie animali e vegetali, la qualità ambientale degli insediamenti urbani che vi sono inseriti. A tal fine, ogni tipo di trasformazione urbana dovrebbe concorrere, attraverso una nuova concezione degli “oneri di urbanizzazione”[74], all’aumento dell’equilibrio ambientale complessivo.

Infine, il trattare il territorio come insieme di beni comuni dovrebbe consentire di includere nella materia delle dotazioni livelli minimi riguardanti la gratuità di accesso sia ai beni materiali di riproduzione della vita (es. 50 litri di acqua a persona per usi domestici) sia i beni relazionali (es. mezzi pubblici per l’accesso ai servizi primari).

Queste trasformazioni nel concetto di standard urbanistico, dal momento che non riguardano soltanto le dotazioni degli spazi urbanizzati, ma soprattutto le relazioni fra questi e gli spazi aperti, richiedono di ridefinire radicalmente il carattere multifunzionale degli spazi rurali in quanto produttori di beni e servizi pubblici, definendo requisiti prestazionali, oneri e remunerazioni che riconoscano la nuova centralità del mondo rurale nella costruzione di benessere, ricchezza durevole e capacità di autogoverno dei sistemi territoriali locali.

[1]. Il nuovo testo abroga parzialmente o totalmente leggi relative ad atti autoritativi in materia di requisiti procedurali, oneri di urbanizzazione, standard urbanistici, interventi di edilizia economica e popolare: la legge 765/67, in toto la 1187/68. Prevede inoltre la perdita di efficacia di numerosi altri provvedimenti (l’intero decreto 1444/68, buona parte della legge 167/62 e numerosi articoli di altre leggi, , in presenza di legislazioni regionali che ne trattino i relativi temi.

[2]. Senza ahinoi, come vedremo in modo specifico nel testo che segue, definire i principi di riferimento per l’azione regionale.

[3]. Nonostante le dichiarazioni di voto contrario a nome di tutti i gruppi della minoranza, il voto finale ha registrato 205 sì, 32 più dei 173 deputati di maggioranza presenti e votanti.

[4]. A differenza di quanto accadeva in passato (cfr. ad esempio Camera dei deputati, Ricerca sull’urbanistica. Servizio Studi Legislazione e Inchieste parlamentari, Roma 1965) sembra totalmente mancare oggi l’interesse a promuoverne l’approfondimento.

[5]. Tra le poche significative eccezioni a questo silenzio, forse non privo di relazioni con la partecipazione di molti cosiddetti “immobiliaristi” alla proprietà dei mezzi di informazione, è utile richiamare un meditato articolo di Roberto Camagni su Edilizia e Territorio (rivista del gruppo Il Sole 24 ore) n.30 del 1 agosto 2005, oltre agli articoli in merito raccolti sul sito www.Eddyburg..it insieme all’appello “Fermiamo la legge Lupi” , promosso in occasione del convegno di Italia Nostra del 28.1.2005 a Roma, di cui sono primi firmatari (di 399 complessivi) D. Pasolini dell’Onda, E. Salzano, V. De Lucia, P. Bevilacqua, V .Emiliani, G .Pallottino, G. Barbera, G. Gisotti, A. Magnaghi.

[6]. Dichiarazione di voto dell’on.A. Mereu, a nome del gruppo Unione democratici cristiani.

[7]. Peraltro in una concezione largamente superata dell’urbanistica stessa, come mera disciplina dell’uso dei suoli.

[8]. “Compito del Parlamento, in attuazione del Titolo V, sarebbe quello di procedere alla riunificazione degli oggetti e non come si sta facendo ad una pedissequa ripetizione di discipline separate: il Codice del paesaggio, i decreti delegati in materia di Vas, di difesa del suolo, di rifiuti, di VIA: in breve occorrerebbe un codice di governo del territorio”. Relazione di Paolo Urbani al convegno INU “Un nuovo passo per la riforma urbanistica”, Roma 16.9.2005.

[9]. Dichiarazione di voto dell’ On.G.Nuvoli a nome del gruppo Popolari-Udeur.

[10]. Dichiarazione di voto dell’ On.D.Pappaterra a nome del gruppo Misto-SDI-Unità Socialista.

[11]. Dichiarazione di voto dell’ On.A.Sandri, DS-Ulivo e Margherita-DL-Ulivo.

[12]. Istituto Geografico Militare: fino a tutti gli anni ’70, e. alla comparsa delle cartografie tecniche elaborate dalle singole Regioni, il riferimento imprescindibile per le basi cartografiche utilizzate nella redazione di strumenti di pianificazione.

[13]. Per una descrizione dei risultati attuali di questo processo nell’area metropolitana milanese, vedasi A.Bonomi e A.Abruzzese, La città infinita, Milano, Bruno Mondadori 2005.

[14]. E’ significativo il fatto che nel recente caso dell’inondazione di New Orleans l’unica zona non sommersa dalle acque sia il “Vieux Carré”, l’area dell’insediamento storico precedente alle grandi espansioni recenti in aree ad alto rischio idraulico.

[15]. In Italia, come previsto dalla legge 183 del 1989, ciò avrebbe dovuto essere garantito dai Piani di bacino riferiti all l’equilibrio idrogeologico dell’intero bacino come precondizione della pianificazione territoriale; come noto, a oggi nessuna Autorità di Bacino si è dotata di questo strumento, ma soltanto di PAI (piani di assetto idraulico) che prevedono, attraverso la realizzazione di casse artificiali di espansione fluviale, azioni limitate alle aree di stretta pertinenza dei fiumi anziché estese all’intero bacino. Una volta realizzate queste opere, costose e all’elevato impatto ambientale e paesistico, i rimanenti territori di pertinenza fluviale saranno considerati pienamente urbanizzabili. Quest’approccio, tra l’altro estremamente costoso per l’insieme dei contribuenti, va in direzione opposta a una legge recente dello Stato federale tedesco (Hochwasserschutzgesetz del 3.5.2005: BGBI, parte 1, nr.26, pp.1224 e segg.) che prevede invece il divieto di edificare in aree che possono servire come aree naturali di esondazione, o nelle aree interessate al deflusso delle acque, e il ripristino delle aree di libera esondazione, o all’azione Making Space for water: a new strategy for flood and coastal erosion risk management lanciata in Gran Bretagna dal Defra (Department of Environment, Food and Rural Affaire).

[16]. E’ significativo notare come gli stessi annuari ambientali nazionali italiani, a differenza di quanto avviene in molti altri paesi europei, non riportino alcun dato relativo al cosiddetto “consumo di suolo”, ovvero ai suoli resi artificiali, dalle diverse forme di urbanizzazione, mentre alcuni annuari regionali riconoscono perlomeno la scarsa attenzione finora prestata a questo fenomeno .

[17]. Vedasi il database prodotto dal progetto Moland del Joint Research Centre di Ispra, nel quale i dati riferiti ad alcune città o regioni urbane italiane vengono comparati ad analoghe situazioni europee. L’incremento riportato nel testo è riferito alla regione urbana compresa tra Padova e Mestre, nella quale le aree urbanizzate sono cresciute dal 13,5 al 36,6 della superficie complessiva; nell’area milanese le stesse aree sono passate dal 35,2 al 71,8. In entrambi i casi le percentuali di incremento delle aree artificiali dovute alla dispersione dell’urbanizzato sono molto elevate rispetto alla media europea, collocandosi tra il 100 e il 171 %.

[18]. Nella parte pianeggiante del Comune di Prato le aree urbanizzate rappresentano ad esempio oltre il 60% della superficie territoriale totale: vedasi A.Magnaghi, Esercizi di pianificazione identitaria, statutaria e partecipata: Il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Prato, in Urbanistica n.125, Roma 2004.

[19]. Con rare eccezioni, fra le quali l’esodo anche recente da molte città dell’Europa centro-orientale verso occidente.

[20]. L’entità degli attuali processi migratori extracomunitari verso l’Italia e l’Europa presenta dimensioni quantitativamente modeste rispetto alle migrazioni avvenute nella seconda metà del secolo scorso, tali da compensare al più il saldo demografico naturale negativo.

[21]. Tre esempi fra i molti possibili: in Germania, sono state attuate azioni federali (e successivamente di singoli Laender) per diminuire il consumo di suolo dai 120.ettari al giorno rilevati tra il 1997 e 2000 a30 ettari, con l’obiettivo di un consumo pari a 0 nel medio-lungo periodo; in Francia il Plan Local d’Urbanisme previsto dalla Legge Solidarité e Renouvellement Urbain del 2000, oltre a dover integrare le dimensioni ambientali e paesaggistiche, è richiesto esplicitamente di contenere il consumo di suolo; negli Stati Uniti, il governo federale blocca i finanziamenti per le nuove infrastrutture alle regioni in cui, per la dispersione degli insediamenti, il traffico è tale da inquinare l’aria oltre le soglie definite dal Clean Air Act.

[22]. Quantità minime obbligatorie a livello nazionale, espresse in mq/ab, di servizi collettivi.

1. Posizione e rilevanza gerarchica dei principi generali (schede n. 1 e 3)

I Principi generali (attualmente trattati dalla scheda n. 3)dovrebbero trovare collocazione - a un tempo logica e topografica - in apertura del testo di legge

Per quanto riguarda i contenuti specifici, si assiste all’equiparazione ed omologazione di principi fra loro indubbiamente difformi per la portata giuridica (principi di riferimento per norme a carattere generale e principi di riferimento per legislazioni settoriali e specifiche) e dunque per il livello gerarchico.

Secondo quanto proposto alla Scheda 3 sono infatti allo stesso titolo “principi generali” della legge i seguenti:

- sussidiarietà

- sviluppo sostenibile

- concertazione (co-pianificazione)

- unicità della pianificazione

- sportello unico

- autonomia e responsabilità

- partecipazione

- legalità urbanistica

- perequazione immobiliare

- testi unici

Occorre di conseguenza procedere ad una disamina di quanto elencato ed argomentato, che porti a distinguere i principi fondamentali cui si ispira la legge, in armonia con altre fonti normative a carattere generale, sia sul piano internazionale(recepimento di trattati internazionali (trattato sull’Unione europea), adesione ad organismi internazionali (Nazioni Unite), sia su quello nazionale ( nuovo ordinamento delle autonomie locali, riforma della pubblica amministrazione e semplificazione amministrativa).

Tali principi generali sono:

- sviluppo sostenibile (sulla base delle definizioni maturate in sede di Nazioni Unite)

- sussidiarietà (sulla base della definizione del trattato per l’Unione Europea, secondo la lettura datane dal comma 3 lettera a) dell’art. 3 legge 59/97); per quanto riguarda l’assunzione di tale principio e del precedente, qui si può fare riferimento alla “coerenza” esplicitata al punto 1.2. delle schede relativo a Direttive europee ed oaccordi internazionali;

- adeguatezza (che specifica il precedente, in relazione all’idoneità dell’amministrazione ricevente a garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni; nel caso delle tematiche legate alla pianificazione del territorio, è ovvio che tale idoneità riferita dalla legge 59/97 a fattori meramente organizzativi, debba estendersi anche ai contenuti degli atti di pianificazione ed alle relative scale adeguate per predisporre interventi efficaci);

- differenziazione (che specifica i due precedenti, prevedendo un’allocazione delle funzioni che tenga conto delle diverse caratteristiche degli enti riceventi);

- concertazione (co-pianificazione), da rubricare nella categoria della cooperazione istituzionale, anch’essa presupposta dalla legge 59/97.

- autonomia e responsabilità, ciò che riassume anche il principio dell’unicità della pianificazione, quale specifica modalità dell’attribuzione ad un unico soggetto delle funzioni;

- partecipazione.

Detti principi a carattere generale dovrebbero trovare sede nella prima parte della legge (una sorta di scheda 0, da inserire), ancor prima che ne sia data specifica traduzione normativa (ad es., per ciò che riguarda la sussidiarietà: ai Comuni compete..., ecc.)

Per quanto riguarda i principi specifici, e dunque quelli di:

- legalità urbanistica

- perequazione immobiliare

- testi unici

essi potranno opportunamente trovare luogo tra gli enunciati relativi al carattere della legge nazionale. In questo senso si propone di inserire una parte dedicata agli obiettivi della legge, che potrebbe riprendere quanto detto al punto 1.1, corredandolo altresì dei temi seguenti:

- promozione della semplificazione normativa anche attraverso la redazione di testi unici (da affermare come programma generale di riordino normativo del complesso della materia)

- garanzia della legalità urbanistica e predisposizione di adeguate sanzioni (da affermare come principio generale della materia);

- promozione della perequazione immobiliare (come sopra).

Per ciò che riguarda la voce sportello unico, non si ritiene affatto che questa corrisponda a un principio, trattandosi piuttosto di uno strumento destinato a dare attuazione al principio di responsabilità ed unicità delle attività di amministrazione e per questa via di pianificazione. Pertanto si propone la sua contestualizzazione in questo senso.

Sempre nella parte relativa a caratteri ed obiettivi della legge, manterrei senz’altro le norme riferite ad inadempienza e legislazione concorrente, ivi compreso quanto previsto in materia di norme di salvaguardia, per dare l’opportuno giusto rilievo alla cogenza dei disposti di una legge quadro che fa propria una serie di principi.

2. Scheda n. 2 riferita ai compiti rispettivi di Stato, Regioni e Province autonome, Province, Comuni, Città metropolitane

2. a Carta unica del territorio

Per quanto riguarda i compiti di cui alla scheda 2, si sottolineano le funzioni individuate per ciascun livello di governo in materia di pianificazione, ed in particolare:

- Stato: redazione di un Quadro Nazionale di Riferimento (altrimenti denominato “Linee fondamentali”) dell’assetto del territorio, con riferimento ai valori naturali e ambientali, alla difesa del suolo e alla articolazione territoriale delle reti infrastrutturali; a questo si aggiungono “interventi” (che possono anche assumere forma normativa, e disciplinare autonomamente strumenti di pianificazione sottordinati, come nel caso della legge 267/98, in materia di prevenzione del rischio idrogeologico) per la “prevenzione da grandi rischi”;

- Regioni e Province autonome: redazione di un Quadro Regionale di Riferimento o Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale per la tutela del territorio, dell’ambiente, dei beni culturali, e per la realizzazione delle infrastrutture di interesse provinciale;

- Province e Città Metropolitane: redazione del piano territoriale provinciale o metropolitano

- Comuni: redazione dei piani urbanistici comunali.

Alla luce dei contenuti minimi indicati dalle schede, si propone che l’insieme di tali contenuti trovi relazione con quanto proposto dalla Scheda 3 punto 4 comma 2 in materia di carta unica del territorio.

In particolare, è necessario un chiarimento su alcuni punti:

per ciò che riguarda la pianificazione provinciale o metropolitana: deve essere esplicitato che, qualora adeguato ai disposti di legge ed al complesso di previsioni dei piani e/o quadri di riferimento sovraordinati, anche sulla base di specifici accordi del tipo di quelli previsto all’art. 57 del dlg 112/98 (per esempio con le Autorità di Bacino competenti), il PTCP rappresenta la carta unica del territorio ai fini della, e come riferimento per la, pianificazione sottordinata (piani regolatori dei Comuni, ma anche strumenti a valenza urbanistica disposti da altri enti, come i piani di sviluppo delle Comunità montane, cfr. art. 29 comma 4 legge 142/90 modificata dalla legge 265/99).

per ciò che riguarda la pianificazione comunale, e in conseguenza di quanto detto, deve essere chiarito (poichè ora è un po’troppo implicto, e potrebbe suggerire una sussidiarietà un po’ ‘distorta’) che solo i piani urbanistici comunali adeguati, non solo ai disposti di legge, ma al complesso delle previsioni degli strumenti sovraordinati (ivi compresi quelli disposti da amministrazioni della Regione o dello Stato), costituiscono e possono costituire la carta unica del territorio nei confronti del cittadino.

in assenza di tali adeguamenti, debitamente certificati in forma di verifica di conformità nelle opportune sedi (Accordi bilaterali fra soggetti dotati di diverse competenze agenti sul territorio, Conferenze Territoriali di pianificazione), nessuno strumento è abilitato ad assumere nei confronti del cittadino il valore di carta unica del territorio.

Si suggerisce, a titolo di esempio, e con le sottolineature indicate a proposito della Provincia e dell’operatività dell’art. 57 dlg 112/98, il testo proposto nell’ambito della discussione, in corso da parte del Consiglio Regionale dell’Emilia-Romagna, della nuova legge urbanistica regionale:

Carta unica del territorio

1. La pianificazione territoriale ed urbanistica recepisce e coordina le prescrizioni relative alla regolazione dell’uso del suolo e delle sue risorse ed i vincoli territoriali, paesaggistici ed ambientali che derivano dai piani sovraordinati, da singoli provvedimenti amministrativi ovvero da previsioni legislative.

2. Quando la pianificazione urbanistica comunale abbia recepito e coordinato integralmente le prescrizioni ed i vincoli di cui al comma 1, essa costituisce la carta unica del territorio ed è l’unico riferimento per la pianificazione attuativa e per la verifica di conformità urbanistica ed edilizia, fatti salvi le prescrizioni ed i vincoli sopravvenuti, anche ai fini dell’autorizzazione per la realizzazione, ampliamento, ristrutturazione o riconversione degli impianti produttivi, ai sensi del DPR 20 ottobre 1998, n.447.

3. La deliberazione di approvazione del piano comunale dà atto del completo recepimento di cui al comma 2 ovvero del recepimento parziale, indicandone le motivazioni. Dell’approvazione della carta unica del territorio è data informazione ai cittadini anche attraverso lo sportello unico per le attività produttive di cui al DPR n. 447 del 1998.

2.b. Cogenza e prescrittività del solo piano comunale (scheda n. 3 punto 4 comma 1)

L’enunciazione, anche a seguito di quanto sottolineato in materia di carta unica, è contestabile immediatamente, in quanto ha come conseguenza l’impossibilità, da parte di ogni e qualsiasi strumento di pianificazione sovraordinato al livello comunale, di esprimersi in determinati casi con previsioni e prescrizioni immediatamente prevalenti sul piano comunale.

Al contrario si ritiene che ogni livello di pianificazione, per quanto attiene gli oggetti ed i contenuti a questo assegnati dalla legge (o che la legge nazionale o regionale potrebbe opportunamente specificare), proprio in virtù degli assunti principi di sussidiarietà ed adeguatezza, possa intervenire con prescrizioni da recepirsi obbligatoriamente da parte della pianificazione sottordinata, sulla quale prevalgono immediatamente, direttamente cogenti nei confronti del sistema di diritti dei cittadini.

In questo senso si tratta di riconoscere tale facoltà agli strumenti sovracomunali - fermo restando l’obbligo, da parte dei Comuni, di recepire tali prescrizioni all’interno dei propri piani, anche ai fini della semplificazione e di una più corretta informazione della cittadinanza.

3. Piano territoriale provinciale (scheda 4.3)

Non appaiono recepiti neppure i contenuti minimi di cui alla lettera della legge 142/90, la quale all’art. 15 prevede dettagliatamente una serie di aspetti del Piano di coordinamento provinciale cui non può supplire il richiamo all’art. 57 del dlg 112/98.

Si ricorda infatti che i contenuti di cui alla 142, quali fra l’altro:

- le diverse destinazioni del territorio in relazione alla prevalente vocazione delle sue parti;

- la localizzazione di massima d’infrastrutture e linee di comunicazione

- le linee d’intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica ed idraulico-forestale ed in genere per il consolidamento del suolo e la regimazione delle acque;

- le aree in cui istituire parchi naturali;

sono da riferirsi alla titolarità piena della Provincia quale soggetto di pianificazione, mentre i contenuti di cui all’art. 57 del dlg 112/98 pertengono la titolarità di amministrazioni diverse, con le quali è appunto obbligo della Provincia giungere a definire accordi.

Mentre si ritiene limitativa la pur sintetica indicazione data dei contenuti del PTCP, non si condivide il fatto che esso debba fornire, secondo previsione di legge, i “criteri per il dimensionamento delle previsioni urbanistiche”.

E’ IMPORTANTE prevedere che il Piano Territoriale Provinciale possa, su richiesta e in ogni caso d’intesa con i Comuni interessati, assumere il valore e gli effetti di Piano Strutturale Comunale.

Si tratta del medesimo concetto espresso dalla scheda 4.4. lettera a), punto 1, là dove afferma che “il piano urbanistico strutturale ha il medesimo valore e gli effetti del Piano Territoriale Provinciale, di cui recepisce le disposizioni, ecc”, declinato però secondo un principio di sussidiarietà “ascendente”, che potrebbe e forse dovrebbe trovare applicazione in situazioni della realtà italiana tuttora caratterizzate da estrema frammentazione della maglia comunale, tali da rendere non proponibile una pianificazione strutturale di livello comunale.

In questo senso appaiono improprie attribuzioni, tuttora presenti nelle legislazioni regionali, (quella della Regione Piemonte, per esempio) che individuano nella Comunità montana il soggetto deputato alla pianificazione intercomunale per l’ambito territoriale di competenza; la semplificazione e il riordino delle norme urbanistiche dovrebbe avere ragione anche di tali improprietà in ordine a ruoli istituzionali e corrispondente attribuzione di funzioni.

4. Piano territoriale metropolitano (scheda 4.5)

In relazione alle differenze esistenti tra le diverse realtà italiane disciplinate dalla legge 142/90, ed alla persistente incertezza circa gli esiti territoriali della loro perimetrazione, mentre si condivide il fatto che il Piano territoriale metropolitano sostituisca per i Comuni facenti parte dell’area il Piano strutturale comunale, non sembra opportuno prevedere in forma coattiva e generalizzata che ciò avvenga anche in relazione al piano operativo comunale.

Si propone pertanto di demandare la facoltà di prevedere tale sostituzione alla diretta assunzione di accordi specifici, anche territorialmente diversificati ed articolati, fra Città metropolitana e Comuni metropolitani interessati.

1 Premessa

Condivido l’impostazione generale della legge, così come emerge dalla lettura delle “Schede” che ne anticipano l’articolato, così come gran parte del contenuto. Mi limito ad esprimere osservazioni su quattro punti, sui quali spero che l’elaborazione successiva potrà correggere alcuni difetti che mi appaiono pericolosi, per le ragioni che esporrò.

2 Pianificazione di livello regionale e provinciale

Secondo le “Schede” la pianificazione di livello regionale e provinciale dovrebbe avere, rispetto al metodo impiegato per la pianificazione comunale, alcuni notevoli differenze, che la renderebbero molto meno incisiva di quanto oggi già sia in alcune legislazioni regionali (Piemonte, Veneto, Marche, Emilia Romagna, Toscana, Liguria, Lazio). Secondo le “Schede” la pianificazione sovracomunale non potrebbe produrre “effetti diretti sull’uso e sulla trasformazione del territorio” (punto 3.4), non potrebbe essere articolata in “componente strutturale” e “componente operativa”, non potrebbe attuare direttamente le previsioni operative per gli “oggetti” che rientrino nella sua competenza.

Mi sembra che questo sia in contraddizione con il principio (non esplicitamente formulato nelle “Schede”, ma che ne sostanzia l’ispirazione) secondo il quale ogni ente territoriale a rappresentanza generale che abbia competenza su determinati oggetti e aspetti esprime le proprie scelte relative a questi mediante un atto di pianificazione, di cui sia possibile valutare, in modo trasparente, la coerenza e gli effetti.

Ciò che occorre è definire con chiarezza quali siano, sulla base del principio di sussidiarietà rettamente inteso, gli “oggetti” di competenza di ciascun ente territoriale. Il relazione a questi oggetti l’ente competente deve localizzare le proprie scelte in un atto che abbia la necessaria efficacia e operatività.

Se non si adotta questo criterio, se cioè non si applica una unicità di metodo e di efficacia alla pianificazione ai diversi livelli (tra i quali le uniche distinzioni devono essere quelle che derivano dal principio di sussidiarietà) si toglie ogni efficacia e operatività alle regioni e alle province, e si torna all’arcaico sistema della “pianificazione a cascata” che sembrava del tutto superato. E si corre oltretutto il rischio (o più precisamente, si sconta la certezza) che le scelte concrete delle regioni, delle province (e dello stato) in materia di opere di rilevanza sovracomunale continueranno di fatto a essere collocate sul territorio in modo del tutto arbitrario, discrezionale e sfuggendo a qualsiasi razionalità e trasparenza.

Se questa osservazioni non fosse ritenute convincenti, bisognerebbe almeno garantire la facoltà delle regioni che abbiano già legiferato in termini più moderni di mantenere la loro legislazione.

3. Piano territoriale metropolitano

Le “Schede” prevedono che sia il “piano territoriale metropolitano” sia il “piano urbanistico operativo metropolitano” sostituiscano, a tutti gli effetti, gli omologhi piani comunali.

A me sembra che debba rimanere immutata la logica dell’articolazione dei livelli di governo introdotta dalla 142/1990, dopo alcuni decenni di maturazione e dibattito. Entro questa logica, la Città metropolitana sostituisce, in determinate aree, la Provincia (la quale, infatti, in quelle aree non c’è più), ma non sostituisce i comuni, i quali anzi permangono articolando il comune capoluogo in più unità municipali. La Città metropolitana (i la sua pianificazione) dovrebbero quindi assumere tutte le competenze della Provincia, ma solo quelle del comune che (valga il principio di sussidiarietà) non possono essere governate in modo efficace nell’ambito dei singoli comuni.

4. Concertazione e co-pianificazione

Secondo me è necessario precisare con molta attenzione il ruolo dei diversi soggetti La scheda sembra mettere sullo stesso piano i soggetti istituzionali e gli altri “soggetti interessati operanti nel territorio di competenza”. La distinzione tra soggetti che rappresentano interessi pubblici e soggetti che rappresentano altri interessi (legittimi, e di cui è giusto tener conto: ma in diverso modo e diversa sede) è una distinzione decisiva, se non si vuole correre il rischio di legittimare quelle forme di “urbanistica contratta” che sono state strettamente legate a Tangentopoli.

Vedi anche 7 punti per la legge urbanistica.

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